Un dialogo (immaginario) fra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale di Davide Galliani ** questionegiustizia.it, 21 ottobre 2020 In questo dialogo (immaginario) tra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale, l’Autore discute i più importanti passaggi argomentativi della n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, soffermandosi anche sul primo seguito presso la magistratura di sorveglianza. Il tutto nella consapevolezza che la prossima questione di costituzionalità, pendente alla Consulta, riguardante non il permesso premio ma la liberazione condizionale, potrà segnare uno snodo fondamentale nella giurisprudenza costituzionale in materia di automatismi legislativi: sentenze in forma di legge, che travalicano il perimetro costituzionale riservato al mestiere di giudice, che necessita in ogni caso di svolgersi in osservanza del principio di tassatività. - Buongiorno giudice. - Buongiorno a lei. - Complimenti per la n. 253 del 2019. - Perché? - Per i suoi argomenti, tanto incisivi. - Davvero?  - Sul diritto al silenzio Viola n. 2 v. Italia era stata in silenzio. Voi no. Lasciamo alla cognizione il silenzio come diritto, avete scritto. Ma nessuno può negare che ogni detenuto, ergastolano ostativo compreso, abbia la libertà di non collaborare. - Ci crediamo. L’ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcuno la libertà di non collaborare.- Sembra di ascoltare Cesare Beccaria. Non lo amo moltissimo, per ciò che pensava della pena perpetua. Ma ne capiva di tortura e dignità umana. - Discendiamo tutti dagli illuministi. - Non vi siete risparmiati nemmeno sul regime ostativo. Riscrivereste ogni cosa? - Ho già capito dove vuole arrivare.  - Della liberazione condizionale, se vuole, ne parliamo dopo. Però sul regime ostativo siete stati incisivi come un punteruolo: prefigura una sorta di scambio, tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario. - Sembrano tutto sommato ovvietà. - Meglio tardi che mai.  - Le decisioni in questi ambiti non sono facili. - Sono tutto orecchie. - La Corte ha diversi interlocutori: legislatori, giudici, avvocati, pubblici ministeri, professori universitari, anche il Capo dello Stato quando promulga o emana con rilievi. E poi l’opinione pubblica. Quando trattiamo questioni riguardanti la mafia ogni cosa è più complicata. E se qualcuno ci descrive come un inutile carrozzone, da chiudere al più presto? Lo sa che a Strasburgo gli Stati iniziano a non pagare più il contributo, che significa meno giuristi in quella Corte?- Sta dicendo che a Palazzo della Consulta il clima sui giornali gioca un qualche ruolo, e che state a sentire le sparate di qualche politico? - Non sto dicendo questo. Noi abbiamo i nostri precedenti: siamo nani sulle spalle di giganti. Partiamo da una ordinanza di remissione, che, tranne rare eccezioni, costituisce il perimetro entro il quale possiamo muoverci. Ad esempio, usiamo la illegittimità consequenziale solo se il sistema perderebbe di coerenza o se il vulnus di tutela risulterebbe insopportabile.  - Il peculato ostativo insegna. E poi? - Ascoltiamo le parti, oggi anche i nuovi terzi intervenienti, importanti come una buona scarpa per un maratoneta.  - Immagino, anche se non posso correre. - Amiamo la collegialità, una straordinaria risorsa. Ci ritiriamo in camera di consiglio e dentro non entra niente. A volte litighiamo, a volte va liscio. Ma, mettiamola così: non siamo marziani, la Consulta non sta su Marte. Per quanto sia massimo il tentativo dell’indipendenza, non siamo robot, ma uomini e donne in carne e ossa. - Lo scriveva Carlo Esposito rispetto al Capo dello Stato, l’altra garanzia costituzionale rimasta. - Non vorrei passare per uno psicologo, ma il nostro cervello ragiona sempre influenzato da qualcosa. Serve governare l’influenza, nasconderla o negarla non serve a nulla. Uno psicologo israeliano ha vinto il Nobel per l’economia sostenendo che la scelta razionale cede il passo al nostro essere troppo umani. - Sta dicendo che l’indipendenza del giudice è prima di tutto un valore morale?- Lo abbiamo anche scritto in una sentenza del 1989 sulla responsabilità civile del giudice. - Mi ha rassicurato. Iniziavo a pensare che il § 9 del Considerato in diritto della n. 253 fosse una sorta di rassicurazione rivolta al contesto. Una specie di istinto di sopravvivenza della Corte, onde evitare di essere paragonata ad un inutile carrozzone, che nulla capisce di mafia. Vi avrei compreso: un quotidiano, dopo Viola n. 2, ha scritto in prima pagina «hanno riammazzato Falcone e Borsellino», con tanto di foto che ritraeva l’aula di udienza pubblica a Strasburgo, seduti cinque giudici, al cui fianco primeggiavano due gigantografie, una di Falcone e l’altra di Borsellino.- Le ripeto. Siamo esseri umani, non robot, ma non esageri, altrimenti dialoghi con un giornalista. - Provo a riformulare. Esistono due anime nella n. 253. Una di queste sembra spaventata, preoccupata. Magari sbaglio riferendomi al contesto, forse è l’influsso di Leonardo Sciascia, del quale ho letto tutto. Ma allora è una sorta di compromesso raggiunto in camera di consiglio?- Insinua che il § 9 è stato inserito perché altrimenti la sentenza sarebbe stata di rigetto magari con monito o di incostituzionalità differita? - Più o meno. Esiste un modo per eliminare dalla faccia della terra le insinuazioni: introducete le opinioni separate. - Pensa che siamo insensibili al tema? - No, ma prima lo fate prima potrete evitare le insinuazioni.  - Un giudice costituzionale, quando era in carica, nel 1964, curò un libro intero sulle opinioni dissenzienti. Membro della Costituente, era uno dei più importanti costituzionalisti del secondo dopoguerra. Delle opinioni dissenzienti ne parliamo da tempo, ma le opinioni sono differenti. - Capisco bene che la collegialità sia una risorsa straordinaria, e che alcuni di voi penseranno che, introducendo le opinioni separate, possa danneggiarsi. Tuttavia, non è vero che, potendo scrivere in dissenso, un giudice non miri alla collegialità. Dove esistono le opinioni dissenzienti continuano ad esistere le decisioni unanimi. - Dice che un giudice prima ascolta i colleghi e dopo cerca di convincerli e, solo alla fine, se rimane della sua idea, vota contro e stende la sua opinione separata? In questo modo, la ricerca della collegialità sarebbe garantita.  - E la conseguenza sarebbe anche quella di evitare la presenza in sentenza di due anime contrastanti.  - Se ne intende di giustizia costituzionale. - Tutto avrei pensato, tranne che di occuparmi di giustizia costituzionale.  - Non faccia del sentimentalismo. - Per il diritto posso smettere di essere un delinquente, ma per la gente è difficile comprendere che anche un detenuto può masticare la giustizia costituzionale. Però, pure voi, quanto a sentimentalismo, non scherzate, andando nelle scuole e nelle carceri. - Lasciamo stare. Pensi che inizio a leggere commenti che quasi ci rinfacciano questi viaggi.  - Non dia retta. Ci sarà sempre chi dirà che la Corte va preservata, tutelata, che non si deve aprire. Lasciate stare gli amici curiae, i viaggi nelle carceri e nelle scuole, le opinion dissenzienti: chiudetevi a Palazzo, fate il vostro lavoro, e basta. - A me interessa che le aperture siano meditate. In ogni caso, chi vivrà vedrà.  - Si vede che non ha mai parlato con un ergastolano ostativo. Per me, e per molti come me, chi vivrà vedrà è un augurio di sventura. Ogni giorno che resto in vita è un giorno in più di galera, non uno in meno. Non la farò finita, anche se il pensiero mi è balenato nella mente tante volte.  - Non ho parole. - Ho visto di tutto. Praticamente tutte le carceri italiane, basta fossero lontane da casa. Direttori coraggiosi e altri semplici burocrati. Lo stesso gli educatori: alcuni bravi, altri meno. E la polizia penitenziaria: non posso dire di aver trovato una seconda famiglia, ma a volte mi sembra che anche loro sono detenuti. Ho visto tanto, a parte i magistrati di sorveglianza.  - Volevo dire che per ogni modifica serve tempo, che usiamo per valutare pregi e difetti.  - Non si preoccupi. In ogni caso, mi ha convinto. Ci manca solo che anche la Consulta finisca nel tritacarne mediatico, che ci si metta a fare le pulci nella vita personale di un giudice costituzionale, partendo da un suo dissenso.  - Immagini poi le nomine di origine parlamentare. - Però, una cosa voglio dirla. Voi usate il ragionamento, la persuasione. Argomentate, non stramazzate. Potete sbagliare (mi vergogno a dirlo), ma insomma usate gli strumenti del diritto, che non implicano sete di vendetta. Non dovete arrancare nessuna folla, se non quella della ragione. Leggere una vostra sentenza è interessante. - Secondo lei tutti leggono le nostre sentenze? - A leggere quello che certi giornalisti scrivono, direi di no. Io le posso dire solo una cosa: in carcere le vostre sentenze sono lette. Ogni singola parola, frase, pagina. Se entrano, ovvio. A volte mi capita di trovare più piacere nel leggere una vostra sentenza che un romanzo di Charles Dickens, il mio autore preferito. Con Grandi speranze e La piccola Dorrit sono evaso. - Mi fa piacere, per le nostre sentenze intendo. - Non esageriamo. Non sempre è un piacere.  - Ci saranno cose migliori da fare nella vita. - Lei ha una immagine strana del carcere. Non la biasimo. La verità è che solo un detenuto ha reale contezza di cosa sia la privazione della libertà personale, altro che lockdown.  - Già. - E la Costituzione è così penetrante sul tema perché scritta da persone che in carcere ci sono state. Tanti nostri costituenti hanno poi lasciato memorie, diari, autobiografie. Scrivono che, nonostante tutto, hanno appreso molto dal carcere, ad esempio l’importanza della forma. - Tutti kelseniani i nostri costituenti. - Anche quando hai un solo millimetro di libertà residuale, a quel millimetro ti aggrappi e lo fai valere, proprio perché scritto nero su bianco. L’autorità di un regolamento, scriveva Giancarlo Paietta. - Si chiama legalità.  - L’ho conosciuta stando in carcere. Ho imparato pure ad usare il diritto per scrivermi i ricorsi, fino a quando la cassazione per la legittimità non mi ha obbligato ad avere un avvocato. Tocca ammettere che la galera mi ha salvato la vita. - Strano a dirsi, ma ho compreso. - Piuttosto. Posso abusare della sua pazienza e chiederle chiarimenti sul § 9 del Considerato in diritto?  - Non è chiaro? - Perché lo avete scritto? Il Professor Glauco Giostra ha notato una cosa. Sostenete che è la stessa Costituzione il fondamento dal quale siete partiti per introdurre, accanto alla già esistente attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, anche il nuovissimo pericolo di ripristino. Ma, dice il Professor Giostra, non è un caso che la Corte non indichi da quale articolo della Costituzione prende le mosse. - Capisco. Prevenire la commissione di nuovi reati, quindi difendere la società, non ha esplicita base costituzionale. Alcuni discutono iniziando dall’art. 2, altri dalla carcerazione preventiva. Di certo, la Costituzione è reo-centrica, quindi concetti come difesa della società possono essere estrapolati solo in chiave di interpretazione sistematica. In ogni caso, mi sento di dirle che, nel momento in cui la sorveglianza svolge il bilanciamento, uno dei due piatti della bilancia misura la pericolosità sociale. - Siamo alle prese con una immanenza, categorica. Mi viene in mente Kant: la mia libertà finisce dove inizia la tua. Se la persona è socialmente pericolosa, il magistrato negherà il beneficio o la misura. Mi spingo avanti, se posso. - Prego.  - Intanto, le chiederei subito questo. Per lei è giusto considerare inammissibile una istanza nella quale il detenuto non allega granché sul pericolo di ripristino? Che il detenuto abbia un onere di allegazione è giusto. Se chiedo una cosa, devo anche allegare del materiale per permettere di decidere. Tuttavia, la sorveglianza può procedere d’ufficio, nel momento in cui le allegazioni sono insufficienti. Ma una cosa è procedere d’ufficio, integrare la documentazione e rigettare l’istanza. Altra cosa dichiararla inammissibile. Del resto, non a caso le cause di inammissibilità sono tassative. - Mi sembra abbia ragione, anche se lo dico da giurista, non da giudice costituzionale.  - Bella distinzione.  - Ogni cosa che dico deve essere calibrata. - Come quella di ogni giurista. - D’altro canto, il convincimento del giudice è frutto di un laborioso mettere insieme materiale di diversa provenienza: le allegazioni di chi domanda, le note e le informative delle autorità coinvolte e, appunto, gli approfondimenti operati dallo stesso giudice. E poi, lei è un detenuto: non per questo ha sempre ragione, assolutamente no, ma, proprio perché detenuto, un lavoro importante di completamento rispetto a quello che allega spetterà ad altri, la parte pubblica e specie il giudice. - Come la ascolto volentieri. Sa cosa mi è capitato una volta? Ho fatto reclamo ex art. 35 ter ord. pen.: per due anni e mezzo ero stato detenuto nel carcere X in cella di 10 metri quadrati con quattro detenuti. Vuole sapere cosa mi ha risposto il giudice? - Che il trattamento era inumano e degradante. - Mi ha detto che il carcere gli aveva risposto che non teneva gli archivi dei detenuti passati di lì.  - Non ci credo. - Potrei raccontarle per ore storie simili, nelle quali chiedono a me di provare una cosa senza che io possa farlo. - Mi piacerebbe leggere queste sentenze. - Siamo al medioevo informatico, in sorveglianza. - Ho capito. Ma a me sembra evidente. Una cosa è una istanza del tutto priva di allegazioni. Qui sarei per la inammissibilità. Ma in tutti gli altri casi, nel momento in cui le allegazioni sono scarne, ma esistenti, il giudice deve decidere nel merito. - Perfetto. Ne approfitto. Non serve essere un rinomato giurista per rendersi conto che provare l’inesistenza di qualcosa, ossia l’inesistenza dell’attualità dei collegamenti, non è la cosa più facile del mondo. Alcuni la chiamano diabolica.- Può avere anche ragione, ma sul punto nulla abbiamo detto nella n. 253. Rivolga le sue rimostranze al legislatore, a quello del 1991, un legislatore costituzionalmente orientato. Il primo decreto legge, appunto quello del 1991, che ha introdotto il 4 bis, è stato proposto dal Ministro di Grazia e Giustizia, il cui direttore degli affari penali era Giovanni Falcone.  - Su questo, niente da dire. Giovanni Falcone aveva una intelligenza non comune, in terza media tradusse Pinocchio in latino. Strano, non lo ricorda mai nessuno, ma Falcone, agli inizi, svolse anche funzioni di magistrato di sorveglianza. Di sicuro, aveva il senso del limite, il senso costituzionale. Però, non posso rivolgermi al legislatore rispetto al pericolo di ripristino. Se fosse previsto in una legge, ci sarebbero dubbi di costituzionalità, il primo dei quali per violazione della legalità intesa come tassatività. Avendolo inserito voi della Corte, ho solo una possibilità: convincervi che qualcosa non torna.  - Mi vengono in mente le infinte vie del Signore. - Siete la cuspide. Dopo di voi non esiste più nulla. Altro non posso fare che esprimerle alcune perplessità. Non vorrei tirare in ballo la Corte di Strasburgo, anche perché, quando ci condanna, nove volte su dieci ce la siamo cercata.  - Mi dica, il nostro è un dialogo vero, quello cui pensava Guido Calogero. - Cosa è il principio di tassatività? Anzi, vorrei prenderla larga. Le piace ragionare per principi? - Bella domanda. La interpretazione della legge e quella della Costituzione hanno tratti comuni. Non di meno, lo abbiamo scritto in alcune sentenze, se si interpreta la Costituzione, la lettera è la partenza.  - Lo start di una corsa ad ostacoli. - Questo anche perché, a differenza della legge, la Costituzione, per definizione, è un testo pieno di quelli che lei chiama principi. Anche sostenendo, correttamente, che la Costituzione si deve interpretare in modo sistematico, il punto non cambia. Pertanto, la mia risposta è questa: non interessa se piaccia o meno, con i principi si deve fare i conti, quando si interpreta la Costituzione.  - Ci sono principi o anche regole, in Costituzione? - Ha una laurea in legge, in scienze politiche? - Alcuni detenuti che conosco, anche ergastolani ostativi, sì. Entrambe. Io no. Ma, come le ho detto, in carcere si leggono le sentenze della Corte. Impariamo in cella il diritto costituzionale penale. - Torniamo a noi.  - Le chiedevo dei principi e delle regole. - Per alcuni, la regola è qualcosa di immediatamente operativo, specie in termini di sanzione. Un principio chiede specificazione. Ad esempio: quando la Costituzione afferma che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà, sembra di essere al cospetto di una regola, non di un principio, che ritroviamo altrove.  - E che regola, l’unico istinto punitivo dei nostri costituenti del quale è rimasta traccia nel testo.- Sempre alle regole mi viene da pensare quando si legge che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Come vede, non serve alcuna specificazione.  - Basta essere un detenuto o anche una persona libera, ma con buon senso. - Lasciamo stare i sensi. - Prendiamo il metro? - Proviamo a forgiare una massima di questo tipo. - Non stimo i forgiatori, figurarsi di massime. - Se li faccia andare bene, ogni tanto. Quando la Costituzione nega che si possa fare qualcosa, il campo è delle regole. Altrimenti, dei principi. Prenda l’art. 25: ogni suo comma inizia con nessuno può essere. Siamo vicini alle regole, è qualcosa più dei principi. - Ma la tassatività è una regola o un principio? - Sarei per dire un principio, nonostante tutto. Non perché non esiste esplicitamente in Costituzione, quanto perché necessita di una qualche precisazione, come i principi. Forse ha un suo nocciolo duro, la prevedibilità. Direi che la tassatività è un principio composto da componenti più e meno forti. - Come i semafori: esiste il rosso, il giallo, il verde. Al rosso ti fermi, al giallo ti dovresti fermare, al verde non ti fermi. A cosa serve il giallo, la tassatività? - La prima funzione è permettere ad una persona di orientare liberamente il proprio comportamento, al fine di non incorrere in una sanzione, in qualsiasi sventura non prevedibile. La tassatività sta al libero arbitrio come il salvagente ad una persona che non sa nuotare.  - Il libero arbitrio. Esiste? - Per quanto la realtà stia lì a dimostrarci che nascere nel posto X non è eguale che nascere nel posto Y, noi dobbiamo credere al libero arbitrio. Altrimenti salta tutto il sistema. Ma proprio perché dobbiamo credere di essere tutti e sempre in grado di scegliere, dobbiamo essere tassativi nel prevedere ciò che non si può fare, quindi la sanzione in caso di violazione.  - Una sanzione penale o una sanzione in generale? - La Costituzione, quando afferma che nessuno può essere punito, se non in forza di una legge, entrata in vigore prima del fatto commesso, si riferisce al campo penale. - E quello penitenziario? Queste somme distinzioni mi inquietano. Sembrano fatte apposta per dividere la seria A dalla serie B. Il penale sostanziale dal processuale, la cognizione dall’esecuzione, la legittimità dal merito, i vincoli comunitari dagli obblighi internazionali. La più grande castroneria è la distinzione tra fatto e diritto, entrambi, senza persone, gusci vuoti. Non so dove ci condurrà questo estenuante bisogno di classificare. - Vede un futuro nero? - Per fortuna, Alessandro Pizzorusso ha scritto che il diritto costituzionale è una disciplina di frontiera. L’esigenza di specializzazione ha scavato una fossa mortale al sapere. Conosciamo tutti di più, ma sappiamo tutti di meno. - Le piace Ferdinando Camon. Comunque. Mi sta domandando se la tassatività, figlia della madre legalità, riguarda anche la fase esecutiva, il trattamento penitenziario?  - Mi interessa saperlo. - Fino a poco tempo fa, rispetto alla irretroattività, la risposta era negativa. Di recente, presumo lo sappia, abbiamo rimeditato la tematica, a fronte di un diffuso disagio nella giurisprudenza. Nella n. 32 del 2020, risolvendo una dozzina di ordinanze, e usando Strasburgo, casi statunitensi, riferimenti alla Francia, diciamo questo: quando una legge non prevede alcuna disposizione sul regime temporale, e quando gli effetti di questa legge incidono su natura, qualità e quantità della pena in concreto applicabile al momento del reato, deve valere la irretroattività. - Deve valere significa che è una regola? - Lei è curioso, e testardo. - Sono stato un delinquente, e tra i delinquenti ci sono persone curiose, e testarde. E altre meno. - Va bene, la perdono. - Che verbo significativo. - Mi lascia finire? - Certo. Non si arrabbi però. Tra i delinquenti o gli ex delinquenti esistono anche quelli che ogni tanto scherzano. Come tra i magistrati. Mica sono tutti seriosi, esistono anche gli spiritosi seriali.  - Dicevamo. Di recente, la Corte ha esteso il divieto di retroattività anche al campo dell’esecuzione penale. Ci siamo subito ritornati. La soluzione è stata la stessa, anzi la n. 193 del 2020, sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è ancora più netta. Esiste una sola interpretazione possibile, una sola compatibile con la legalità-irretroattività: la questione di costituzionalità non è fondata, deve valere il divieto di retroattività. Non tornate più alla Corte, interpretate il silenzio del legislatore escludendo la retroattività.- Che coraggio. - Un principio di civiltà, di uno stato di diritto. - Allora siamo d’accordo. La tassatività, essendo un principio di civiltà al pari della madre legalità, deve valere anche in fase di esecuzione della pena. Non aggiungo altro sul divieto di retroattività. Basti pensare al concorso esterno. Agli ostativi che diventano tali per volere della sorveglianza, non perché scritto in condanna. Per non dire dell’aggravante dell’art. 7, valida retroattivamente, con ciò che ne consegue sul regime penitenziario. D’altro canto, commetto un reato nel 1980, nel 1991 nasce l’ostatività, bizzarro (incostituzionale) applicarla anche a me: non è che si riducono le ore al passeggio, cambia e di molto la natura della pena. Qui mi fermo, se no dovrei parlare pure dei reati non associativi, ma di gruppo, come ha fatto la cassazione.- Meglio fermarsi. - Sulla tassatività qualcosa ancora. Se significa possibilità di prevedere la conseguenza dei propri comportamenti, non le sembra che il pericolo di ripristino del quale parlavamo sia un poco carente?  - Mi chiarisca la sua idea.  - Il discorso sull’attualità dei collegamenti è semplice, si fa per dire. So che la sorveglianza, se intrattengo oggi dei collegamenti, mi negherà il permesso. Posso ora concederti un permesso, anche se non hai collaborato e potevi farlo, ma non ho acquisito elementi tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Partiamo pure dal presupposto, solo presupposto, che le autorità coinvolte forniscano informazioni dettagliate, individualizzate, riguardanti la mia persona. Io cercherò di dimostrare le mie ragioni, ma alla fine funziona sempre così: a volte convinci il giudice, altre volte no. Farò ricorso al tribunale e poi in cassazione. Normale amministrazione, che riguarda i miei problemi di oggi, i fatti attuali. - Quindi? - Se ora si chiede di provare anche l’esclusione del pericolo di ripristino dei collegamenti, non riesco a capire. Mi sembra evidente il problema tassatività. Che non è solo mio, ma anche del giudice. - Continui. - Io posso allegare, con difficoltà, per escludere l’attualità dei collegamenti. Ma non ho chiaro cosa significhi escludere il pericolo di ripristino. Cosa devo fare, cosa mi si chiede di fare?- Vada avanti, la ascolto.  - Sono in crisi. Il pericolo di qualcosa che potrebbe capitare non comprendo bene cosa sia. Ma questo sono io. E il giudice che dovrà valutare? Dove è il perimetro, il limite della sua discrezionalità? Torniamo al punto: e la tassatività? In tanti dicono che i giudici si allargano troppo, di fronte alla legge cercano giustizia. Io non generalizzerei. Ma ammettiamo la preoccupazione: è il caso di aprire ai giudici una prateria?  - Proviamo a fare chiarezza. - Serve. - Partiamo da un assunto. Anche se la Corte non è il legislatore, pure su di noi incombe l’onere della tassatività. Non solo quando scriviamo una motivazione, ma anche e soprattutto quando redigiamo il dispositivo, che spesso è un pezzettino aggiunto ad una disposizione. Incastoniamo in una disposizione un altro pezzettino di disposizione, quindi onori (siamo legislatori positivi) ed oneri (dobbiamo essere tassativi).- Non sapevo della vostra somiglianza così stretta con il legislatore, ma voglio capire il suo discorso. - Anche in carcere si deve sapere come comportarsi. Però non sarei allarmato, come sembra lei. In fondo, quando abbiamo scritto il pericolo di ripristino intendevamo introdurre una sorta di pericolosità specifica. Qualcosa in più della pericolosità già presente nell’attualità. - Siamo al terzo binario della pericolosità. Quello normale, vagliato dal giudice per ogni beneficio o misura. Quello specifico, sull’attualità. E poi questo nuovo, sul pericolo di ripristino. Un binario tira l’altro, il doppio diventa triplo. In ogni caso, il pericolo di ripristino non si riesce a provare perché è una valutazione, non un fatto, e le prove o allegazioni che siano concernono fatti.- Mi lasci finire. Per noi il pericolo di ripristino significa chiedere alla sorveglianza una prognosi particolarmente rigorosa.  - Questo l’ho capito. - Quindi di cosa si lamenta?  - La discrezionalità del giudice è come il buco di una ciambella. Grande o piccolo, lo decidono i pasticcieri (legislatore, Consulta), ma senza il contorno la ciambella sparisce, diviene altro, un bombolone. A me sembra che il requisito del pericolo di ripristino sfumi talmente tanto il perimetro da trasformare la ciambella in un bombolone. E quindi la discrezionalità del giudice in qualcosa di diverso. Non mi faccia dire in arbitrio, ma la discrezionalità senza tassatività consegna un potere enorme al giudice. - Legge Ronald Dworkin.  - Quando sente dire che in carcere il tempo non manca è vero. Se sei ergastolano ostativo ti auguri che la durata della vita media torni a essere quella degli anni cinquanta del Novecento. Mi facessero lavorare. Invece leggo, dalla mattina alla sera, roba tosta: Alberto Moravia, Ignazio Silone, Blaise Pascal, Norbert Elias, Herman Hesse, Emmanuel Mounier, Pierre Bourdieu, Marilynne Robinson, ovviamente Charles Péguy. - Allora non faccia troppo la vittima.  - Vero, io sono il reo. O ero reo?  - Gioca con le parole.  - Non è vietato. - Direi che è un suo diritto. - Finché non lo dicono le sezioni unite, sto cauto. - Torniamo ai nostri discorsi. Sono sicuro, a questo punto, che abbia letto come è andata a finire la storia del vivere onestamente e rispettare le leggi. - Dopo Raymond Carver, non ho letto niente che mi abbia più impressionato, per l’accumulo di dettagli particolari e specifici. - Ammetto. La I sezione della cassazione si era data da fare per tassativizzare quella prescrizione che nulla prescriveva. Sia lodata la I sezione.  - Sempre sia lodata. - Ad un certo punto, per motivi incomprensibili agli umani, si tirano in ballo le sezioni unite, che sganciano la bomba. Ordinano ai giudici di disapplicare la legge, nella parte in cui prescrive di vivere tutti buoni e acquattati, rispettando le ottime leggi. A questo punto, sempre per motivi che non tutti gli umani possono comprendere, un’altra sezione, di quella stessa corte, solleva questione di costituzionalità, e arriviamo noi della Consulta che mettiamo la parola fine: incostituzionale.- Un romanzo, tra il gotico e il romantico. Non vorrei però aspettare anni di giurisprudenza di legittimità tassativizzante, anche perché non ho idea se tutto possa essere tassativizzato, iniziando dal pericolo di ripristino. Spero mi comprenda: sono entrato ventenne, ne ho quaranta, non è che possa attendere i sessanta. Altrimenti meglio fare come in America Latina, abolire l’ergastolo e introdurre una pena determinata di quaranta anni. - Ne parli al legislatore.  - Buonanotte. - Non disperi. E non abbia fretta, che diamine. Deve avere fiducia nella magistratura.  - Facile a dirsi, ma ci provo. Ma il problema del pericolo di ripristino non riguarda solo il detenuto, spaesato. Non riguarda nemmeno solo il giudice, che potrebbe sentirsi, in alternativa, il giudice Ercole (che tutto può) o il giudice Aergia (la dea greca della pigrizia). Ho timore che, se non si ripensa il pericolo di ripristino, la conseguenza sarà che il comitato ordine pubblico, le procure, le direzioni antimafia e la procura nazionale, che potrebbero intervenire in materia, senza mai potere di veto, riprodurranno note e informative generiche, standardizzate, stereotipate.  - Abbiamo scritto anche questo: le informazioni devono essere dettagliate, stringenti. - Entra da un orecchio ed esce dall’altro, se entra. D’altro canto, siete entrati a gamba tesa negli ambiti della sorveglianza, quasi trattandola come una magistratura minorenne. Non dico inaffidabile, ma sembra che qualcosa vi abbia autorizzato a trattarla come magistratura sotto osservazione.  - Dice?  - Come no. A volte comunque penso sia la stessa sorveglianza a cercarselo.  - Che strano mondo, iniziando dal nome, che tutti rinnegano, ma poi nessuno cambia.  - Sia quel che sia, dato che in sorveglianza non tutti sono Sandro Margara, che rispediva al mittente le informative che non informavano, il giudice avrà di fronte questo scenario. Io che allego chissà cosa per dire che non esiste pericolo di ripristino dei collegamenti e le autorità che diranno che il clan non è distrutto, anzi è ancora attivo. Nulla su di me, nulla di individuale, ma appunto: se il tema è il pericolo di ripristino, basterà dire che il clan non è smantellato.  - Non era così anche per l’attualità?- Si e no. Intanto, non abbiamo molta giurisprudenza a proposito. E questo perché le collaborazioni impossibili, irrilevanti, inesigibili, riconosciute ad ergastolani ostativi, sono poche. Così come pochi sono coloro che hanno utilmente collaborato con la giustizia, grosso modo lo stesso numero degli ergastolani ostativi. In ogni caso, ci sono delle cose che quelle sono e quelle rimarranno. Ad esempio, l’indagine patrimoniale, il sostentamento della famiglia. Continuerà a non mancare il nostro albero genealogico: se ho avuto un colloquio con un mio parente, risultato imputato per un reato della galassia di quelli mafiosi (non le dico condannato, basta l’imputazione), ecco che arriva l’attualità dei collegamenti. La vedo perplesso.- Sta pensando al divorzio o a cambiare cognome? - La mia è una corsa ad ostacoli, ma non demordo, cerco di allegare. Quello che mi si chiede è dimostrare, o meglio, convincere il giudice che oggi, lo sottolineo, oggi, i collegamenti (che sono fatti) non esistono più. - Mi sta dicendo che se questo è complicato con l’attualità, diviene particolarmente difficile nel momento in cui lei deve allegare per dimostrare che è escluso il pericolo di ripristino dei collegamenti. - Intendo dire che non vedo come si possa tassativizzare. Non mi riferisco tanto al ripristino, ma proprio al pericolo di ripristino. Sa cosa penso? - Cosa? - La sorveglianza sta diventando sempre più giudice della pericolosità e sempre meno della rieducazione. Lo ha scritto il Professor Francesco Palazzo, una grande persona, un grande giurista, un grande penal-costituzionalista.  - D’accordissimo. A parte la brutta parola.- Il penale moderno nasce costituzionale. Oggi non vi è penalista serio che non possa dirsi anche costituzionalista serio. La parola è brutta, ma il senso è che ha vinto Franco Bricola.  - Anche Ettore Gallo, partigiano, presidente della Consulta. - Che stima. - E i costituzionalisti, come li vede?  - Se si interessano di penale come i penalisti di costituzionale, siamo a posto.  - Riprendiamo.  - Almeno, nella collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile, la sentenza di condanna era il limite della discrezionalità della sorveglianza. Ora il limite dove sta? Il pericolo di ripristino non ha limiti. Ha presente la medicina difensiva, il medico che, per paura di sbagliare, prescrive ogni medicina, così se ne lava le mani? Noi in carcere la conosciamo. Temo che sarà così anche in sorveglianza: per non saper né leggere né scrivere, il pericolo di ripristino sarà la medicina difensiva dei giudici. - Si stava meglio quando si stava peggio?  - Spero si sia capito che non avete cancellato la impossibile, inesigibile, irrilevante. Ma converrà: dire che è più semplice la collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante della non collaborazione suona come una beffa. Come a dire: la n. 253 non serve a niente, visto che nel primo caso basta l’attualità, mentre nel secondo serve anche il pericolo di ripristino. Tutto questo mi rende perplesso, anche perché non ho mai stimato la collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante, da voi introdotta.- Che criticone. - Una clamorosa violazione dell’eguaglianza. Se il reato per il quale puoi collaborare è prescritto, entri nel girone del purgatorio, in vista del paradiso. Se non è prescritto, resti in quello dell’inferno. Da cosa dipende? Dal caso, dalla fortuna.- Il problema prescrizione non esiste più. - Vedremo. Poi guardi, ma è meglio lasciare stare.  - Dica. - Esisteranno sempre due cose. La prima sono i giudici della cognizione precisi e profondi, e quelli confusi e superficiali. Capisce cosa significa in termini di collaborazione impossibile?  - La seconda? - Esisteranno delle zone d’ombra fino a quando esisterà lo Stato. - Non la seguo.  - Capita che non si dia la collaborazione impossibile perché restano da chiarire delle cose, che spesso hanno a che fare con gli intrecci tra mafia e Stato.  - Continuo a non seguirla, anche se ho sempre ammirato moltissimo Pippo Fava. - Pensi ai mandanti di un omicidio di mafia, alla capacità delle mafie di riunirsi a grappolo e disarticolarsi in ogni via di ogni paese. Ha presente cosa significa ragionare in termini di zone d’ombra? - Mi sta dicendo che, se vuole, il giudice, in un modo o nell’altro, troverà il modo per negargli la collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante?- Perfetto. E mi rassicura la giurisprudenza di legittimità più recente, secondo la quale, in caso di zone d’ombra, non bisogna riconoscere l’impossibilità della collaborazione, ma serve una motivazione rinforzata per negarla, in ossequio al favor rei e all’oltre ogni ragionevole dubbio. - Come ci stiamo allargando. - Per quanto mi possa rassicurare la cassazione, resta il fatto che le organizzazioni criminali di stampo mafioso sono un intreccio di reticoli inestricabili, che toccano i piani alti del potere. Si figuri, quindi: io posso anche essere una persona ricreduta, ma siccome, per quanto piccolo o grande, ero dentro questo infernale ingranaggio, qualcosa da dire alla giustizia ci sarà sempre. Si stava meglio quando si stava peggio? Se prima esistevano confini sfumati, con il pericolo di ripristino vedo una prateria, non vedo alcun confine, non vedo il fine e quindi la fine della mia pena. - Ma se in condanna vi è scritto che non è chiaro se sul luogo del delitto è andato da solo a piedi o accompagnato in auto, mi sta dicendo che questa zona d’ombra porta a negare la collaborazione impossibile? - Le dico che non dovrebbe essere così, ma vada lei a spiegare in sorveglianza e in alcune sezioni della cassazione che il favor rei e l’oltre ogni ragionevole dubbio riguardano anche la serie B, la fase esecutiva, non solo la seria A, la cognizione.- Non ama le distinzioni, le classificazioni. Sembra studiare all’università. Comunque, una cosa mi sembra chiara: lei vuole uscire di galera. Converrà con me che, se frapponiamo al suo ritorno in società qualche cautela, non stiamo attentando alla Costituzione.- Sarà, ma il secondo capoverso del § 9 del Considerato in diritto della n. 253 mi turba.  - Non esageri. - Come superare la presunzione non più assoluta? Scrivete: non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. Mi sembra di leggere una intervista ad uno dei soliti pubblici ministeri o ex pubblici ministeri, quelli che sanno solo loro di mafia.  - Offende. - Se si offende vuol dire che il problema esiste. Intanto, va bene, la regolare condotta non basta, ma se in carcere combino un danno dopo l’altro, forse è meglio la regolare condotta. - Alcuni dicono: i mafiosi sono tutti buoni ed educati in carcere. - Una fesseria. Si pensa siano tutti uguali, invece non sono tutti uguali. Fossero tutti uguali, avremmo sconfitto la mafia da tempo.  - Andiamo avanti.  - La mera partecipazione al percorso rieducativo? Che significa mera? Di quale percorso parlate? Ho sbagliato, questo lo dice la condanna e lo dico anche io. Ma sul percorso rieducativo non esageriamo. Se mi avessero dato più trattamento avrei fatto di più. Non scrivete più la mera partecipazione alla rieducazione. Una briciola di pane in carcere vale al pari di un diamante, a chi piacciono. - Non volevamo sminuire niente.  - Dovevate scrivere diversamente.  - E poi? - Discutete di una soltanto dichiarata dissociazione. A voi sembra facile fare quella che chiamate una soltanto dichiarata dissociazione? Le mura delle carceri parlano. Se intendete che non basta un pezzo di carta con scritto mi dissocio, non era necessario dirlo. In sorveglianza non sono fessi.  - Ci mancherebbe. - Decidono sul 41 bis, sulla collaborazione impossibile, sul 35 bis ord. pen., insomma, si occupano dalla mattina alla sera di mafia.  - Non facile il mestiere di giudice in sorveglianza.  - Quanto parlano i fenomeni dell’antimafia. Pensi che Giovanni Falcone, quando era già al Ministero, prima di accettare una collaborazione con un quotidiano, andò a casa di Norberto Bobbio a chiedere consigli. - Non dilatiamoci.  - Ha ragione. Però quel capoverso appena citato è strano. L’ho ricordato perché stavamo parlando di pericolo di ripristino. Vedrà che arriveranno le decisioni della sorveglianza che diranno: l’attualità non esiste, esiste il pericolo di ripristino. In fondo, stai in carcere da venti anni, a centinaia di chilometri da dove abitavi, anche per questo il comitato ordine pubblico mi ha detto che non sa chi sei. Attualità zero. Però dalle informative (non sempre univoche) si può desumere che esistono dei movimenti per ricostituire il clan al quale appartenevi o che è ancora esistente. Meglio non rischiare, del resto non è che mi posso basare sulla sola regolare condotta e sulla mera partecipazione alla rieducazione. Poi non hai mai collaborato, il permesso si nega: pericolo di ripristino.- Ho capito il ragionamento. Non di meno, non capisco cosa c’entri il fatto che non abbia collaborato, dato che è una sua libertà farlo.- Nemmeno io. Come pure non capisco perché si voglia desumere qualcosa dalla professione di innocenza. - In quanto tale è un fatto, coperto dalla libertà di non collaborare. - Non dico che la professione di innocenza debba essere sempre intesa come distacco dal clan, ma intenderla come non ancora matura rieducazione mi pare assai sbagliato.  - Siamo verso la fine, devo tornare in Corte.  - Anche io devo tornare, in cella. Volevo chiederle qualcosa sul prossimo caso, riguardante la liberazione condizionale, non il permesso premio.  - Non si pone limiti, ma probabile che, se fossi al suo posto, farei ancora più domande. Essere giurista è essere curiosi, inquisitori, indiscreti. - Quando mi ricapita di dialogare con un giudice costituzionale. Lo sa che dei 1.271 ergastolani ostativi credo che il 90% abbia chiesto almeno una volta la collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante? E lo sa che, facendo due calcoli, sempre di questi 1.271, la maggioranza è in carcere da più di due decenni?  - Traduca. - Non sto dicendo che oggi tutti gli ergastolani ostativi hanno soddisfatto il requisito temporale per domandare la liberazione condizionale. Tutti no, ma quasi tutti probabile. Di certo quello del permesso, quasi certo quello della semilibertà, verosimile quello della liberazione condizionale. Ne conosco alcuni che hanno anche sei anni di liberazione anticipata, che non ti danno in automatico, ma se hai dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione.- Che parole nell’ordinamento penitenziario. Opera di rieducazione, ad esempio.- L’altro giorno ho letto Arthur Schopenhauer, secondo il quale la prima regola, e forse l’unica, del bello stile è che si abbia qualcosa da dire.- I dati che citava li conosco, il problema è strutturale. La Corte di Strasburgo non ha usato la pilota solo perché erano depositati pochi ricorsi.  - Sarà d’accordo che basta la nostra Costituzione.- Rispettarla significa rispettare la Convenzione. - Avrei moltissime altre cose. - Ci sto prendendo gusto. A volte curiosare è curare. Magari ancora due o tre cose. - Ho capito che il permesso è un beneficio, mentre la liberazione condizionale una misura alternativa, che, se va bene, estingue la pena. La liberazione condizionale modifica la natura della pena, a differenza del permesso.  - Casi uguali trattamenti uguali, casi differenti trattamenti differenti. Permesso e liberazione condizionale sono differenti, quindi trattamenti differenti. Però esiste l’ambito riservato al legislatore.- Vero, ma esisteva anche rispetto ai permessi. - Prendo nota. - A proposito. Conosce il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia?  - Non è un tema del quale si discute molto. - Mi basta dirle una cosa. In commissione antimafia è andato il procuratore nazionale antimafia, dicendo che il sistema protezione va riformato. Servono personale, esperienza, professionalità. Uno dei problemi maggiori è l’automatismo.- Anche lì? - Proprio così. Ti fanno indossare un camice non ritagliato su chi sei, ma uguale per tutti i 1.200 collaboratori e i 4.800 famigliari. Poi vi è dell’altro, la burocrazia, la sensazione di essere abbandonato. - Che peccato. - Non lo dica a me. In molti decidono di non collaborare anche perché lo Stato italiano non è in grado di essere più forte della mafia. La mafia è intelligente, lo Stato a fasi alterne. La mafia non dimentica, lo Stato ti spreme e una volta spremuto si dimentica di te. Caro giudice, la mafia è una montagna di merda, come diceva Peppino Impastato. Ma a volte mi viene da pensare che la vita di un collaboratore di giustizia sia un inferno tanto quella di un ergastolano ostativo, quindi faccia lei.  - Io non faccio niente, prendo appunti.  - E allora le dico ancora che sulla liberazione condizionale la competenza è sempre collegiale, del tribunale. Magari questo potrebbe indurvi a non estendere il pericolo di ripristino dal permesso alla liberazione condizionale.  - Non le dico che la strada sia segnata. Le dico che alla Corte saremo cauti. - Ho detto del tribunale, invece del magistrato, perché in apertura ha detto che la collegialità è una risorsa straordinaria. In sorveglianza è pure multidisciplinare. - Mi segno tutto. - Inoltre, esiste la libertà vigilata, automatica e fissa per ogni ergastolano. Sempre e comunque, dura cinque anni. Non è la stessa cosa di avere delle prescrizioni da rispettare, come nel permesso. La libertà vigilata è esattamente quello che sembra: una libertà a metà. Non un secondo carcere, ma se fai un minuscolo errore, arrivederci, quasi addio.  - Mi vuole dire che la diversa natura, i diversi requisiti sostanziali, la collegialità e la libertà vigilata automatica di cinque anni dovrebbero indurci a ripensare il pericolo di ripristino, nel momento in cui la questione sarà la liberazione condizionale, non il permesso? - Sempre non vogliate sollevare questione di costituzionalità dell’automatismo e della fissità della libertà vigilata per gli ergastolani. Potrebbe essere coerenza con la vostra giurisprudenza in tema di automatismi e fissità, che stanno alla individualizzazione come Victor Hugo alla superficialità. - Lasciamo stare la fantascienza. - Vero, anche perché, dovesse lasciarsi campo libero alla sorveglianza, ci ritroveremo con liberi vigilati a vita, e così l’americanizzazione della penisola sarebbe completa.- L’idea mi solletica. Non gli americani, non la loro cultura penalistica. Ma qualcosa di sensato in quello che dice esiste. Esisteranno ergastolani da vigilare per tre anni, altri per cinque, altri per sette. Che bella cosa l’individualizzazione. Teniamoci l’automatismo, eliminiamo la fissità. - Accetto. Per me è una sfida. Convincerò il giudice che bastano tre anni invece di cinque, sapendo che potrebbe vigilarmi per sette. Ma altri automatismi proprio non li sopporto. In quanto ergastolano, mi hanno privato della potestà genitoriale. Quasi a dirmi che tanto sarò un cattivo padre e tanto dal carcere non uscirò mai.  - Chi era questo legislatore? - Quello fascista. - Esiste ancora quella previsione? - Sì, anche se a nessuno interessa, eppure la cognizione dovrebbe essere la serie A. - Stiamo al tema, però. - Dimenticavo, il nostro tema è l’ergastolo ostativo, non quello ordinario, sul quale stranamente si fa fatica anche solo a domandare una opinione.- In che senso? - Si può chiedere ad un magistrato cosa ne pensa della pena di morte, ma le cose cambiano rispetto alla pena perpetua. Per non imbarazzare nessuno abbiamo finito di porci le domande. Pazzesco. Una volta un pubblico ministero mi ha detto che chiedeva l’ergastolo per evitare una guerra civile.- Il silenzio forse dipende anche dal fatto che la pena capitale non è ammessa dalla Costituzione, mentre della pena perpetua non se ne parla. - Come avviene con la tortura.  - Comunque, stiamo andando in lungo e in largo.  - Tornando a noi. Non fate rientrare dalla finestra quello che avete fatto uscire dalla porta, il tipo di autore non può tornare a vivere sotto forma di pericolo di ripristino. Il pericolo è il ripristino della presunzione assoluta, il partecipe sempre partecipe. - Possiamo fermarci. Il dialogo è stato interessante. - La ringrazio. Mi sono sentito importante.  - Non si dimentichi le vittime. - Ha ragione. La Costituzione è uno scudo per i detenuti, ma anche per le vittime.  - La Costituzione è di tutti.  - Ho tradito la Costituzione. Non ho mostrato alcuna solidarietà, nei confronti di nessuno. Ho messo davanti a tutti solo me stesso. Ho trattato le persone come oggetti, finendo in questo modo per ledere la loro e la mia dignità.  - Proprio così. - Vorrei dimostrare che la persona del reato è lontana, cambiata. Non è facile, ho distrutto vite. Mi chiedo però a cosa serva tenermi rinchiuso qui dentro fino alla fine dei miei giorni. L’ergastolo ostativo non ha niente di retributivo. Posto che, per me, la scelta di collaborare non sempre dipende dalla sua utilità, se avessi collaborato sarei fuori da decenni. Non posso fare altro che chiedere scusa, spiegando perché ho capito di aver sbagliato. - Esatto. - Che sia scritto o meno in una legge, è la cosa giusta da fare. Tocca il nostro essere persone. Ho un sacco di dubbi a proposito. Ho paura di far soffrire ancora i famigliari delle vittime. - Lo comprendo, è umano.  - Il timore è la premessa della concentrazione. Ce la metterò tutta. Ho capito che la comunità è costituita in larga misura da un amore immaginativo per persone che non conosciamo o conosciamo appena. Che la comunità non sopravvive se ragioniamo in termini di noi e loro.  - Ineccepibile. - Non voglio fare del sentimentalismo, che va evitato. Non voglio però rinnegare i sentimenti, che sono inevitabili. I miei sono questi, una profonda irrequietezza per come potranno i famigliari delle vittime comprendere ciò che ho da dire.  - Lina Merlin diceva che la vita è un continuo trascendersi, porsi dei limiti e superarli. Continui a leggere i nostri costituenti e della buona letteratura. - Ora sto leggendo un diario di un direttore di carcere. Non vedo l’ora di leggere libri scritti da giudici sulla loro esperienza alla Corte.- Quali sono i suoi orizzonti? - Qualunque siano, sono ristretti. - Ma lei ha fede? - Ho speranza. - Prosegua il ravvedimento. - Sicuro. Davide Galliani è professore associato di Istituzioni di diritto pubblico, Università degli studi di Milano [**] Ringrazio per la critica lettura Elvio Fassone, prima di tutto un caro amico. Lo scritto è aggiornato al 15 ottobre 2020. L’attrazione fatale per la forca di Sergio D’Elia* Il Riformista, 21 ottobre 2020 Il 37 per cento di italiani favorevoli alla pena di morte è anche poca cosa, considerato il regime giudiziario e penitenziario, politico e mediatico che negli ultimi trent’anni si è mangiato lo Stato di diritto, lo Stato democratico e lo stato di coscienza e umanità. Urlano vendetta appena viene commesso un delitto, occupano la scena giudiziaria e mediatica. Avvelenano i pozzi a cui si abbevera la pubblica opinione. “In galera!”, rispondono se un boss malato viene scarcerato. Per loro chi è stato mafioso lo è per sempre. E quasi nessuno osa contraddirle. Che senso ha oggi un sondaggio sulla pena di morte? Sondaggi e referendum non dovrebbero mai essere fatti su questioni che richiamano principi e valori universalmente acquisiti, a partire dalla sacra triade dei diritti umani fondamentali: il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona. Meno che mai vanno proposti in condizioni di assoluta negazione di dibattito pubblico, di un confronto serio e approfondito sulle possibili alternative al sistema delle pene. Un popolo privato del diritto umano alla conoscenza, non ha nessun potere cognitivo e di indirizzo, e di cambiare la natura di un potere letteralmente reazionario e il disordine che si è costituito contro la legge e il diritto. Cosa poteva emergere da un sondaggio sulla pena di morte nel nostro Paese? Il 37 per cento di favorevoli è anche poca cosa, considerato lo stato delle cose che ha preso forma nella durata di un regime giudiziario e penitenziario, politico e mediatico che negli ultimi trent’anni si è mangiato lo Stato di diritto, lo Stato democratico e lo stato di coscienza e umanità del nostro Paese e del popolo italiano. Un sondaggio sulla tortura non avrebbe avuto esiti molto diversi. Viviamo in un Paese dove esistono ancora edifici costruiti per la pena mentale e corporale, votati all’odio, alla violenza e alla sofferenza. E in questi “istituti di pena”, proprio così continuiamo a chiamarli, ci sono “sezioni riservate” alla pratica della tortura - per carità, “democratica” - del 41bis, un regime strutturalmente portato a infliggere dolore al fine di estorcere confessioni o collaborazioni o allo scopo puro e semplice di punire. Fuori dai tribunali e nelle piazze antistanti questi luoghi di pena, le Erinni si affollano e urlano frasi terribili: “chi sbaglia paga”, “chi ha ucciso dev’essere ucciso”, “certezza della pena”. Ovviamente della pena di morte, della morte per pena, della pena fino alla morte. A volte il mito racconta storie fuori dal tempo che però vivono e insegnano ancora molto in ogni luogo e oltre ogni tempo. Le tragedie, i testi classici - ha acutamente notato Marta Cartabia in una straordinaria lectio magistralis - “ci conducono in un mondo senza tempo che parla a ogni tempo”. Così, accade che le Erinni della tragedia greca continuino a popolare il nostro tempo e la nostra vita. Nella farsa italiana, queste mostruose figure obnubilate dal buio della notte e della mente urlano vendetta non appena viene commesso un delitto, occupano subito il centro della scena politica e giudiziaria, avvelenano l’acqua dei pozzi dove si abbevera la pubblica opinione. Nei tribunali, nelle piazze e nelle arene mediatiche, le Erinni del nostro tempo, prive di argomenti e sorde all’ascolto, mormorano accuse, sibilano condanne, maledicono persone, invocano e imprecano finché giustizia non è stata fatta. Quando un magistrato di sorveglianza decide, in scienza e coscienza, di scarcerare un boss per gravi motivi di salute, si sente solo il loro cupo e maledicente mormorio: “in galera, in galera”. Pochi si levano a difendere la legge fondamentale che considera sacro il diritto alla salute di ogni individuo. Quando le Erinni della Certezza della Pena e del Fine Pena Mai maledicono le sentenze delle alte corti d’Italia e d’Europa, pochi alzano la voce a difesa dell’articolo 27 della Costituzione, supremo presidio della flessibilità della pena come forma e sostanza di sua civiltà, dolcezza e umanità. Quando due boss della mafia, vecchi e malati, incapaci di qualsiasi intendimento e volontà, sono sul punto di morire in una cella del 41 bis, la furia delle Erinni ammonisce che “uno, se è stato mafioso, lo è per sempre” e diffida il potere da un pur minimo gesto di umana pietà. Pochi osano obiettare che in tal modo la giustizia, privata della misericordia, non guadagna, ma perde tutta la sua forza. Non mi meraviglia, quindi, che l’analfabetismo costituzionale della “certezza della pena” trovi eco nel favore popolare a una pena, l’unica certa, quella di morte e quella fino alla morte. Voglio credere a un finale lieto di questa storia. Che, come nella tragedia greca, illuminate dall’argomentare di Atena, dea della sapienza, da dee afasiche della maledizione le Erinni mutino in Eumenidi, beate costruttrici di pace in una città più ordinata e armonica. Il nostro Nessuno tocchi Caino vale anche per le Erinni del nostro tempo e della nostra società, quando nel modo di pensare ad Abele diventino esse stesse Caino. Allora, che nessuno le colpisca se le dovesse incontrare. Nessuno tocchi Travaglio, Nessuno tocchi Gratteri, Nessuno tocchi Davigo. Anche per loro, come per Caino, è possibile che accada, grazie all’errare, di divenire costruttori di città, portatori di nuovo ordine e vera armonia. Di passare - come insegna Marta Cartabia - dalla maledizione al logos: da testimoni e vittime di una aberrante logica della vendetta nella quale, come in un assurdo gioco di specchi, l’odio contempla l’odio, la violenza la violenza e il dolore il dolore, a testimoni e attori di una idea e ragione di giustizia che non punisce ma ripara, non discarica ma recupera, non odia ma perdona. *Associazione “Nessuno Tocchi Caino” I sommersi e i non salvati di Lorenza Pleuteri* dirittiglobali.it, 21 ottobre 2020 Salvatore “Sasà” Piscitelli poteva e doveva essere salvato? Quale medico ha dato il nulla osta al trasferimento dal carcere di Modena al carcere di Ascoli? Ha controllato in che condizioni era o ha firmato l’ok al viaggio senza dargli nemmeno un’occhiata? E chi è il dottore lo ha visitato all’arrivo nell’istituto marchigiano, sempre che sia stato visitato, spedendolo dritto in cella e non in ospedale? Possibile che nessuno si sia accorto che, come è emerso, da ore stava malissimo e non si reggeva in piedi? È vero che è stato picchiato, lui come altri? Le lettere denuncia spedite da due detenuti testimoni (pubblicate dall’agenzia AGI e dal blog giustiziami.it) hanno spinto la procura di Modena ad aprire una inchiesta bis sulla fine tragica (ed evitabile?) del quarantenne saronnese, uno dei 13 reclusi morti durante e dopo le rivolte di inizio marzo. La pm Lucia De Santis ha affidato le indagini supplementari alla Squadra Mobile della cittadina emiliana, a oltre sette mesi dai fatti. La conclusione è che Salvatore Piscitelli sia morto per overdose di metadone e di psicofarmaci, razziati nell’infermeria della casa di reclusione messa a ferro e fuoco durante a sommossa. Ma i risultati dell’autopsia non rispondono a tutti i quesiti aperti dall’inizio e agli interrogativi via via formulati. Gli investigatori hanno cominciato ad approfondire i contenuti delle due missive, concordi sui punti cardine, convocando e sentendo le due giornaliste che hanno raccolto e divulgato i drammatici racconti di chi ha incrociato Sasà nelle ultime ore di vita. Poi cercheranno riscontri (o smentite). “Lui stava malissimo - scrive un detenuto, con errori di grammatica e ortografia tolti dalla trascrizione - ed è stato anche picchiato sull’ autobus. Quando siamo arrivati ad Ascoli, non riusciva a camminare”. “Quando ci hanno scaricato - incalza l’altro, che teme ritorsioni, per aver parlato - lo hanno trascinato fino alla cella. Lo hanno buttato dentro come un sacco di patate… Hanno picchiato di brutto. A Modena era troppo debole. Non è riuscito a resistere a quelle botte. Forse ha preso qualcosa. Solo Dio lo sa. Medicinali. Lui è morto ad Ascoli Piceno”. Assieme a loro due e a Sasà c’erano altri 38 detenuti (stando all’agenzia ANSA), potenziali testimoni. Alla Mobile in questi giorni decideranno se provare a rintracciarli e interrogarli tutti (qualcuno, nel frattempo, è tornato in libertà) o se cercare solamente i due che si sono esposti con le lettere. Si dovrà recuperare il tempo perso, riempiendo i troppi vuoti, garantendo quello che fino a oggi pare non sia stato fatto da magistratura, forze di polizia, autorità carcerarie: sentire a verbale le persone che sono state a contatto con Sasà e gli altri 12 detenuti deceduti, cioè decine di compagni di galera e di viaggio. Intanto, gli investigatori stanno raccogliendo la documentazione necessaria per inquadrare l’accaduto anche alla luce di leggi e regolamenti e per accertare se ci siano state omissioni e sottovalutazioni, se non abusi e violenze. Che cosa prevedono le norme che disciplinano visite mediche e trasferimenti? Quali doveri hanno i medici penitenziari, le direzioni degli istituti, il personale delle scorte? Si sono attenuti agli obblighi, a Modena e Ascoli, o la criticità della situazione ha fatto saltare ogni regola? E come mai non si è capito che Sasà aveva assunto metadone e chissà che altro, sostanze rubate da altri detenuti durante la rivolta? Le botte, sempre che ci siano state, hanno aggravato le condizioni fisiche dell’uomo? Perché non è stato soccorso prima? A chi toccava farlo? Nelle prossime settimane si capirà se e quanto procura e polizia vogliano andare in profondità, richiamando in causa anche chi è rimasto nelle retrovie sperando che la parola “overdose” bastasse a chiudere il caso (medici di case di reclusione e 118, operatori responsabili della custodia di metadone e psicofarmaci, personale della Polizia penitenziaria impiegato nelle scorte, funzionari regionali cui fanno capo la sanità penitenziaria e il trattamento delle tossicodipendenze, provveditorati…). Il fascicolo bis sulla morte di Salvatore Piscitelli - per omicidio colposo, pare di capire - è destinato a confluire in quello che venne aperto ad Ascoli per poter effettuare l’autopsia e poi fu trasmesso a Modena per competenza territoriale. Entrambi al momento sono contro ignoti. A Modena si indaga pure sul decesso di altri tre detenuti trasferiti dopo saccheggi e devastazioni (a Verona, Alessandria, Parma) e di cinque spirati nel carcere cittadino, per tre si procede a Rieti, per uno a Bologna. La procura del capoluogo emiliano ha chiuso le indagini con una richiesta di archiviazione, generica, priva di dettagli. Non è dato sapere se il garante nazionale dei detenuti, dichiaratosi persona offesa, abbia fatto o meno opposizione. Lui e gli altri referenti istituzionali coinvolti a vario titolo continuano a trincerarsi dietro il segreto istruttorio o il silenzio assoluto, anche sui profili amministrativi, gestionali, politici. Il ministero di Giustizia, dall’inizio avaro di notizie e di trasparenza, non ha ancora risposto a una interrogazione urgente presentata il 9 settembre 2020 da Franco Mirabelli e altri tre senatori del Partito Democratico. *Giornalista Le indagini sulle morti in carcere: quando lo Stato indaga su se stesso, secondo la Cedu di Emanuele Ficara * dirittiglobali.it, 21 ottobre 2020 Gli avvocati Chiara Luciani e Nicolò Bussolati dello Studio Lexchanche di Torino si sono rivolti all’Associazione StraLi (for strategic litigation) sottoponendo un caso che riguarda la morte per un presumibile arresto cardiaco di un detenuto in carcere già ritenuto - in almeno due occasioni - incompatibile con il regime carcerario. In ordine ai fatti di causa, la Procura della Repubblica effettuava unicamente una consulenza tecnica autoptica. Non venivano svolti accertamenti, audizioni testimoniali o acquisizione documentale particolare, e non veniva iscritto alcun indagato nel registro delle notizie di reato. Ciononostante, veniva formulata richiesta di archiviazione del procedimento, in quanto le cause della morte del detenuto venivano ritenute “poco prevedibili” e comunque “non prevenibili”. La decisione di richiedere l’archiviazione del procedimento veniva notificata alla famiglia della vittima solo dopo circa tre anni dalla morte del detenuto. Tali circostanze, debitamente denunciate dagli avvocati Luciani e Bussolati in sede giudiziaria, hanno permesso al team penale di StraLi, incaricato dagli avvocati, di individuare un particolare profilo di interesse “strategico” nella vicenda. L’importanza e la strategicità del caso identificata dall’associazione (nei termini di potenziale impatto che una pronuncia delle Corti Superiori e sovranazionali sul caso potrebbe avere per elevare gli standard di tutela interni) riguarda principalmente il difetto di indagini accurate sull’accertamento delle responsabilità eventualmente individuabili nel caso. Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo si sostiene infatti che, considerato il suo carattere fondamentale, l’articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (diritto alla vita) va interpretato nel senso che lo Stato deve garantire in primis (ex ante) la tutela della vita delle persone detenute, ed ex post (quando lo Stato “indaga su se stesso”) garantire che l’accertamento delle responsabilità sia efficace, tempestivo ed approfondito. In particolare, la Corte ha negli anni avuto modo di enucleare precisi standard da rispettare nel corso delle indagini per l’accertamento delle cause della morte in ambito carcerario, partendo dall’assunto di una sussistenza di un rischio di “superficialità” degli accertamenti quando a essere indagati sono gli apparati statali stessi. Sono, difatti, numerose le sentenze che riconoscono la responsabilità dello Stato per non aver compiuto indagini approfondite sulle responsabilità per le morti in carcere. Più nello specifico, secondo la Corte EDU l’indagine sulle cause di una morte, per garantire un sufficiente standard di tutela dei summenzionati diritti, devono essere: a) avviate ex officio; b) tempestive e che si concludano prima dell’intervento della prescrizione; c) approfondite ed effettive; d) improntate a diligenza; e) idonee a identificare e punire i colpevoli; f) improntate a trasparenza; g) tali da consentire la partecipazione della vittima del reato o dei suoi familiari nelle indagini; h) tali da concludersi in un tempo ragionevole; i) svolte da un’autorità indipendente e imparziale rispetto a quella cui afferiscono i soggetti coinvolti e sottoposta a controllo pubblico. Il livello di dettaglio con il quale la Corte analizza le indagini interne degli stati firmatari e identifica i criteri minimi da rispettare è assolutamente indicativo della delicatezza del tema posto. Addirittura, la Corte identifica le prove minime da acquisire (testimonianze anche indirette, perizie medico-legali comprensive di un’autopsia che fornisca un resoconto completo e preciso delle lesioni e di un’analisi obiettiva dei risultati clinici), la durata massima che dovrebbero avere le indagini per essere considerate effettive, il grado di trasparenza delle indagini e informazione alle parti private. Insomma, a livello sovranazionale si può riscontrare un vero e proprio “vademecum” per le Procure della Repubblica da rispettare nello svolgimento delle indagini. Uno dei pochi casi, sicuramente l’unico pubblicato, in cui la Corte EDU si è pronunciata sul tema con riferimento ad un ricorso contro lo Stato italiano è il caso della morte di Carlo Giuliani nel corso delle manifestazioni del G8 di Genova, trattato nel 2011 dalla Corte. In quel caso i Giudici avevano deciso (con 10 voti favorevoli e 7 contrari) che non vi era stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione, fornendo tuttavia importanti precisazioni sul necessario rispetto del principio di effettività delle indagini sulle cause della morte. Nella copiosità di sentenza in tema, ma con specifico riferimento al caso in esame, due particolari pronunce appaiono di maggior interesse, proprio perché si concentrano su casi assolutamente assimilabili. Nella Sentenza 7 febbraio 2019, Patsaki e altri c. Grecia, la Corte ha affrontato il caso di un soggetto detenuto morto in carcere per un ipotetico difetto di cure adeguate. La Corte ha qui rilevato la violazione dell’art. 2 Cedu per l’eccessiva durata delle indagini condotte dalle autorità greche sulla morte della vittima - addirittura 4 anni e 8 mesi - nonché per il fatto che, ancora più nello specifico, nel corso delle indagini non venivano raccolte informazioni dai compagni di cella della vittima e l’indagine condotta nei confronti della direttrice del carcere era stata chiusa senza particolari accertamenti e senza alcuna motivazione. Anche il caso di cui alla sentenza del 21 febbraio 2019, Mammadov e altri c. Azerbaigian, risulta particolarmente interessante. La Corte ha qui riconosciuto la medesima violazione dell’articolo 2, in quanto le autorità statali non avevano condotto un’indagine sufficientemente approfondita sulle cause della morte di un detenuto, e, in particolare, avevano omesso di considerare l’influenza che il ritardato trasferimento in ospedale ha avuto sul decesso, e di informare correttamente la moglie e il figlio della vittima dello sviluppo delle indagini e informate del loro esito. Si nota dunque in tali pronunce l’estrema attenzione della Corte sovranazionale sul tema, tale quasi da assumere di fatto, in alcuni casi, un ruolo assimilabile a un Giudice per le indagini preliminari. Nel caso sottoposto all’attenzione dell’Associazione, la prosecuzione delle indagini nel senso specificamente indicato nell’atto di opposizione formulato dagli Avvocati Luciani e Bussolati appare dunque l’unica strada percorribile al fine di rispettare sotto il profilo procedurale il disposto di cui all’art. 2 Cedu. In un caso delicato come quello in esame, e in ogni altro caso di morte in carcere in circostanze non evidenti, l’operatore del diritto (in particolare gli organi inquirenti) dovrebbe dunque ampliare il proprio angolo visuale verso il diritto sovranazionale ove, come visto, sono contenuti in maniera alquanto approfondita i “canoni dell’indagine giusta”. Tali canoni - da ritenersi ovviamente totalmente condivisibili - rischiano però di rimanere una litania inascoltata senza un effettivo ricorso alle Corti Sovranazionali da parte di tutti gli operatori del diritto (come visto, per quanto riguarda l’Italia si riscontra una sola pronuncia sul punto). Nel caso di specie, un eventuale ricorso alla Corte Edu supportato da StraLi mirerebbe infatti a implementare il livello di tutela interno italiano in rapporto agli standard sovranazionali, uno degli obiettivi propri della strategic litigation in un sistema come quello europeo. *Avvocato, responsabile del dipartimento di diritto penale di StraLi Il diritto all’istruzione in carcere di Massimo Congiu dirittiglobali.it, 21 ottobre 2020 Non sottolineeremo mai abbastanza il valore dell’istruzione come veicolo di crescita ed emancipazione culturale e sociale. Questo è vero in generale e assume un significato particolare negli ambienti svantaggiati, nei contesti di emarginazione e negli istituti di pena. La tematica è molto ampia e complessa, e questo articolo intende concentrarsi sull’ultimo dei punti menzionati. Una raccomandazione del Consiglio d’Europa, risalente al 2006, pone l’accento sull’importanza dell’istruzione in carcere come mezzo di riabilitazione ai fini del reinserimento sociale dei detenuti. In particolare, da allora, figure e istituzioni attente alla realtà carceraria hanno più volte posto la questione delle possibilità di studio per i ristretti, per una società migliore. La situazione in Europa, sotto questo profilo, mostra delle differenze rilevanti tra caso e caso; ma c’è da dire che l’orientamento generale è favorevole a garantire il diritto allo studio nei penitenziari attraverso l’insegnamento a distanza. La strada è senz’altro quella tracciata dal Consiglio d’Europa, sul piano concettuale, sta di fatto che non di rado manca una certa attenzione a questo aspetto con la conseguenza che i fondi a disposizione di tale ambito non sono sempre sufficienti, anzi. Da ciò si capisce che il necessario impegno per dare maggiore uniformità europea a questo percorso di civiltà deve essere incrementato. Nel Vecchio Continente la Spagna sembra rappresentare un modello virtuoso da questo punto di vista. E l’Italia? Allo stato attuale delle cose, nel nostro paese il diritto allo studio è garantito in 75 istituti di pena su 190. Da dati aggiornati al 31 dicembre del 2019 risulta che 27 università sono attive in questo senso e consentono di studiare a 841 detenuti, 476 dei quali presso i poli. L’università che conta il maggior numero di iscritti è Bologna con 74 studenti, dieci dei quali di sesso femminile; segue la Federico II di Napoli, che poco più di due anni fa ha istituito, presso il Centro Penitenziario “Pasquale Mandato” del capoluogo partenopeo, un polo universitario regionale con risultati incoraggianti. In Campania, su una popolazione detenuta di 6.428 persone, si contano 514 diplomati, 69 laureati, 40 persone prive di titolo di studio e 282 analfabeti. Come accennato in precedenza, l’iniziativa del polo universitario regionale per i detenuti della Campania sta dando buoni risultati: il primo anno accademico ha accolto le domande di iscrizione di circa 50 detenuti, nell’anno accademico 2019-2020 ci sono state 57 iscrizioni mentre per il prossimo le istanze di immatricolazione sono 54. Insomma, l’interesse c’è. Questo è apparso evidente dalle testimonianze di alcuni detenuti studenti intervenuti brevemente al seminario svoltosi lo scorso 2 ottobre su questo argomento al centro penitenziario in cui è stato istituito il polo. Si è trattato di un incontro voluto dal Garante regionale dei detenuti campani, Samuele Ciambriello, che nel suo intervento ha fornito le cifre riprese in questo articolo e segnalato le criticità esistenti nell’ambito in questione. Tra di esse, la già citata insufficienza dei mezzi economici, la pesantezza della burocrazia e di meccanismi che rendono tutt’altro che agevole l’inserimento delle detenute in questo percorso. Ma forse il nodo cruciale è che la didattica in carcere viene ancora vissuta come un “di più”, un qualcosa di esterno alla realtà della detenzione. Il sottosegretario di Stato alla Giustizia Andrea Giorgis e il ministro dell’Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi hanno, nelle conclusioni a loro affidate, garantito un impegno concreto per il miglioramento della situazione. Cosa necessaria perché queste iniziative virtuose possano estendersi e fornire stimoli anche altrove. In Italia, come nel resto d’Europa, la situazione è caratterizzata da differenze territoriali che nel nostro caso vedono un’assenza di iscritti in Molise, Puglia, Basilicata, Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta. Sono senz’altro necessari investimenti in strutture e personale, ma forse occorre partire da un investimento in termini culturali che sensibilizzi alla tematica e porti un giorno a fare dell’istruzione in carcere una prassi normale, un diritto foriero di crescita non solo per i detenuti, ma per tutta la società. È una sfida da raccogliere. Il Covid e il diritto dei detenuti di usufruire di cure mediche appropriate di Mauro Marin* quotidianosanita.it, 21 ottobre 2020 L’emergenza Covid-19 e l’alto rischio dovuto alla coesistenza di patologie croniche gravi hanno reso attuali le problematiche riguardanti i criteri di redazione del certificato medico di compatibilità o meno del regime carcerario per i reclusi con gravi patologie nell’organizzazione penitenziaria (www.antoniocasella.eu/salute/Marin_ott18.pdf). Il certificato medico di compatibilità o meno tra detenzione in carcere e condizioni di salute del recluso con patologie gravi, consente al giudice di disporre il rinvio della pena ex-art.47 CP o la concessione di misure alternative alla detenzione, come gli arresti domiciliari ex-art.47-ter CP o il trasferimento in altro istituto idoneo a garantire le cure necessarie oppure di confermare il mantenimento dello stato di detenzione dove sono garantite le cure necessarie. L’art. 11 della legge 354/1975 dispone: “Ove siano necessari cura o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti, i condannati e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del magistrato di sorveglianza, in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura”. La valutazione medica deve essere condotta attraverso un esame comparativo della gravità delle condizioni cliniche e delle modalità di esecuzione della pena detentiva ed implica un fondato giudizio clinico, motivato e documentato, di idoneità delle cure necessarie e accessibili nel caso concreto nell’istituto penitenziario di detenzione, dell’effettiva somministrazione delle cure praticabili e della loro adeguatezza alle condizioni cliniche del recluso (Cassazione sez. I° Penale, n. 19594/2020). Il medico penitenziario non è il medico curante di libera scelta del detenuto e già per questo deve costruire e mantenere con l’assistito recluso un più difficile rapporto fiduciario funzionale all’adesione alle cure che invece potrebbe venir compromesso da una sua certificazione affermante la compatibilità tra detenzione e stato di salute, in disaccordo con l’aspettativa di scarcerazione del recluso. Il Codice di deontologia medica all’art. 13 afferma che il medico curante non acconsente a richieste dell’assistito allo scopo di compiacerlo, agli artt. 3 e 4 che ne tutela la salute senza condizionamenti, con autonomia e responsabilità e all’art. 62 che non può svolgere attività medico legali quale consulente d’ufficio o di controparte nei casi in cui sia intervenuto personalmente per ragioni di assistenza e cura. Il Comitato Nazione di Bioetica raccomanda ai medici curanti dei detenuti di non esprimere giudizi di incompatibilità o meno col regime di detenzione per evitare di ledere il rapporto fiduciario, come pure la direttiva europea di settore, art. 73, punto H. Pertanto a seguito di domanda di verifica della compatibilità o meno del regime carcerario con lo stato di salute, il medico curante può redigere una relazione attestante la gravità delle patologie del recluso, il grado di stabilità clinica, le cure in atto e l’idoneità della struttura a garantire la loro somministrazione, lasciando la certificazione di compatibilità dello stato di salute col regime di detenzione ad altro medico estraneo alla funzione di curante quale il medico legale o il direttore di sanità penitenziaria dell’azienda sanitaria a cui il Dpcm 1 aprile 2008 ha affidato la gestione del servizio.Il medico deve tutelare la salute dei detenuti da rischi prevedibili ed evitabili e allo stesso tempo vigilare su eventuali simulazioni di patologie o di aggravamenti finalizzati ad ottenere benefici non dovuti (Circolare D.A.P. n.3258/5708 del 28 dicembre 1988). Il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (DAP) con parere del 5 dicembre 2013 (Palmisano R) ha affermato la distinzione tra certificato medico di valutazione della compatibilità delle condizioni di salute del detenuto col regime carcerario (art. 299 comma 4-ter CPP), secondo la procedura che richiede la nomina di un perito ex-art.220 CPP e il certificato medico per il differimento della pena (art. 684 CC) secondo la procedura di cui agli artt. 146 e 147 del codice penale. La Cassazione sezione 1° Penale con sentenza n. 54448/2016 ha affermato l’obbligo per il magistrato di sorveglianza, a fronte di documentazione clinica con divergenti conclusioni sulla compatibilità tra condizioni patologiche e il regime restrittivo di un detenuto, di ricorrere all’ausilio della perizia di cui all’art.220 CPP. La possibilità per il detenuto di fruire di cure mediche appropriate in condizione di recluso costituisce il presupposto fondante la linea di demarcazione tra la compatibilità e l’incompatibilità delle condizioni psico-fisiche della persona con il regime carcerario (Cass. Pen. Sez.IV n.53150/2017 e Sez. 1, n.3262/2015 e n. 16681/2011). A ciò si aggiunge poi la verifica della pericolosità del recluso da parte del giudice che effettua un bilanciamento tra le istanze sociali di tutela della collettività e le condizioni di salute certificate con i rischi del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico (Cass, sez. 1, n. 37062/2018 e n. 53166/2018).Comunque, nei casi di assoluta urgenza il trasferimento del detenuto può avvenire direttamente su provvedimento del direttore del carcere, secondo l’art.17 del DPR n. 230/2000. *Direttore Distretto e Responsabile Sanità Penitenziaria Asfo - Pordenone Elezioni Anm, vince la sinistra ma calano i votanti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2020 Successo per Area, ma alle urne 2.500 magistrati in meo rispetto al 2016. Alla fine l’effetto Palamara c’è stato. E ha colpito soprattutto l’affluenza alle urne. Le elezioni, per la prima volta in via esclusivamente telematica, per il rinnovo del 2parlamentino2 dell’Anm hanno fatto registrare un calo dei votanti, 6.101 su 7.100 che si erano registrati per la consultazione online, ma nel 2016 a votare furono 8.613 toghe. Ad affermarsi è il raggruppamento di sinistra: Area raggiunge infatti il primo posto con 1.785 voti (ma nel 2016 erano stati un po’ di più, 1.836). Il peso delle correnti - A ruota con 1.648 consensi la corrente più conservatrice di Magistratura Indipendente, mentre la centrista Unicost, alla quale apparteneva Luca Palamara che da pochi giorni il Csm ha espulso dalla magistratura, porta a casa 1.212 voti. Netto calo di Autonomia e Indipendenza, il cui leader Piercamillo Davigo è stato fatto decadere lunedì da consigliere con una sofferta decisione da parte del plenum del Consiglio, passa infatti dai 1.271 voti del 2016 ai 749 attuali. La tallona la corrente, al debutto assoluto, di Articolo 101 con 651 consensi. Quanto ai singoli, a risultare il più votato è stato il presidente uscente dell’Anm, Luca Poniz, di Area, con 739 voti. Le reazioni - Soddisfatto il segretario di Area, Eugenio Albamonte, che sottolinea la leadership ottenuta per la prima volta come “un riconoscimento del lavoro svolto in questi 4 anni e in particolare per la linea mantenuta in un momento assai difficile per tutta la magistratura dal presidente Poniz. Nello stesso tempo dobbiamo dimostrarci all’altezza del consenso che abbiamo ricevuto e provare a restituire fiducia a colleghe e colleghi che vivono un momento di disorientamento”. E per il presidente di Unicost, Mariano Sciacca, “i risultati scongiurano il rischio di una bipolarizzazione della magistratura italiana, grazie alla conferma della presenza di una cultura associativa costituzionalmente orientata e e fattore di equilibrio e pluralismo culturale”. Giunta unitaria - Albamonte preannuncia che Area punterà di volere puntare a una giunta unitaria, con il nuovo comitato direttivo centrale convocato per il prossimo 7 novembre e chiamato a eleggere il nuovo presidente. Secondo le prime stime sulla ripartizione dei seggi ad Area ne toccheranno 11, 10 a MI, 7 per Unicost e 4 ciascuno per AeI e Articolo 101. Davighiani in tilt senza Davigo, è tracollo nelle urne dell’anm di Paolo Comi Il Riformista, 21 ottobre 2020 Alle elezioni per il parlamentino togato male anche Unicost, successo per Articolo 101. Di Matteo sotto accusa per l’uscita di scena del dottor Sottile. All’indomani della decadenza di Piercamillo Davigo da consigliere del Csm, è partita fra i davighiani di stretta osservanza la caccia al traditore. Il primo a finire sul banco degli imputati è stato Nino Di Matteo, il pm del processo Trattativa Stato mafia che con il suo voto è stato determinante per spedire a Milano, con biglietto di sola andata, l’ex pm di Mani pulite. Di Matteo era stato candidato al Csm nelle liste davighiane alle elezioni suppletive per la categoria dei pubblici ministeri che si erano tenute esattamente un anno fa. La sua candidatura avvenne a furor di popolo, con una presentazione in grande stile: direttamente dal palco della festa del Fatto Quotidiano alla Versiliana. Il magistrato siciliano, intervistato da un euforico Marco Travaglio, affermò di “non essere iscritto alle correnti e di non essere intenzionato a farlo”, e di voler rappresentare una candidatura “autonoma e indipendente” dopo lo scandalo che aveva coinvolto la magistratura con il Palamaragate. Ed “autonomo” ed “indipendente” Di Matteo lo è stato per davvero, votando lunedì scorso “con grande difficoltà umana, ma in piena coscienza”, a favore della decadenza di Davigo dal Csm per sopraggiunti limiti di età. Una presa di distanza forte dagli altri davighiani della prima ora, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe e Sebastiano Ardita che, invece, si erano battuti con il coltello fra i denti per perorare la causa di Davigo, avventurandosi nell’improbabile tesi che si potesse rimanere al Csm anche da pensionati. Tesi stroncata sia dai vertici della Corte di Cassazione che dal vice presidente David Ermini e, quindi, dal Quirinale. La convivenza fra Di Matteo e Davigo al Csm non era mai stata particolarmente idilliaca. Difficile la coabitazione sotto lo stesso tetto di due magistrati “iper mediatici”. Di Matteo, comunque, aveva anche rotto con la pattuglia dei laici in quota M5s al Csm, Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti, quando la scorsa primavera sferrò nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede un attacco pancia a terra. Durante la trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti su La7, in collegamento telefonico, a proposito delle scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, Di Matteo, senza peli sulla lingua, aveva rinfacciato a Bonafede di aver dato retta ai boss non nominandolo al vertice del Dap nell’estate del 2018. Parole pesantissime che avevano lasciato “esterrefatto” il Guardasigilli grillino, scatenando immediatamente una violenta polemica politica. “I consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell’esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Consiglio”, dissero i laici pentastellati. Adesso, dunque, sulle chat delle toghe di Autonomia & Indipendenza, tutti a chiedersi il perché di questa candidatura. All’inizio della carriera Di Matteo aveva strizzato l’occhio ai colleghi di sinistra dei Movimenti per la giustizia, il gruppo di Armando Spataro, ora confluiti insieme a Magistratura democratica nel cartello progressista Area. Crescendo abbracciò i centristi di Unicost, la corrente dell’ex zar delle nomine al Csm Luca Palamara. Nelle liste di Unicost venne eletto alla Giunta dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo, divenendone il presidente per un intero mandato. Senza Davigo al Csm il gruppo davighiano è destinato a sciogliersi come neve al sole. La parabola di Autonomia e Indipendenza è impietosa: nel 2016 dopo qualche mese dalla costituzione, il botto alle prime elezioni, quelle dell’Anm, con quasi 1300 voti. Poi nel 2018 il plebiscito di Davigo con oltre 2500 voti. Ieri, il tracollo: 750 i voti per il rinnovo del parlamentino togato. Voti che non sarebbero sufficienti per eleggere nemmeno un consigliere al Csm. La compagine attuale a Palazzo dei Marescialli è di quattro, compreso appunto Di Matteo. Le elezioni per l’Anm, ieri lo scrutinio, segnano una buona affermazione per la destra giudiziaria di Magistratura indipendente, dimezzamento dei voti per Unicost post Palamara, stabile il cartello progressista, successo per gli “anti-corrente” di Articolo 101. Si chiude dunque un’epoca per i davighiani. Non è stata premiata, dopo il Palamaragate, l’alleanza innaturale con la sinistra giudiziaria. Il futuro è quanto mai incerto. L’assenza di Davigo già si fa sentire. Il pensionamento di Davigo illumina nuove patologie della magistratura Di Luciano Capone Il Foglio, 21 ottobre 2020 I supporter più sfegatati hanno annunciato la notizia con profondo dolore, come se fosse passato a miglior vita (e in effetti andare in pensione, in un certo lo senso lo è). Ma la “cacciata” di Piercamillo Davigo dal Csm in realtà è molto semplice: ha compiuto 70 anni, secondo la legge deve andare in pensione e quindi, non essendo più magistrato, la sua presenza sarebbe incompatibile con il ruolo di membro togato del Consiglio superiore della magistratura. Rispetto a questo quadro molto chiaro, i commentatori di questioni giudiziarie che rappresentano le istanze giustizialiste e vedono nell’ex pm di Mani pulite il loro paladino hanno espresso sia prima e sia dopo la decisione finale del Csm, una serie di ragionamenti capziosi, di appigli e sofismi giuridici, cavilli e piercavilli, che davvero si fa fatica a comprendere. Il più surreale è stato quello di Liana Milella, giornalista di Repubblica, che ha tentato di motivare la permanenza di Davigo nella magistratura e quindi nel Csm dopo la pensione con questo argomento: non è vero che un pensionato non è più magistrato, perché sul sito dell’Anm è prevista la possibilità di iscriversi nella “sezione autonoma dei magistrati a riposo”. E dunque, questo è il sofisticato ragionamento, “perché Davigo può restare nell’Anm pagando la sua quota, ma non può restare al Csm per rappresentare i suoi colleghi? Se è sempre magistrato per l’Anm, dev’esserlo anche per il Csm”. C’è di sicuro un’enorme confusione tra un organo associativo, una specie di sindacato come l’Anm, e un organo costituzionale quale il Csm (e questa sovrapposizione di fatto è una patologia del sistema, responsabilità proprio della magistratura). Se prima del giudizio si sono toccate punte di surrealismo, dopo si è scesi in un abisso lugubre. Marco Travaglio, ad esempio si è presentato proprio a lutto. E la scomparsa, metaforica s’intende, non sarebbe quella del singolo giudice ma proprio la morte della Giustizia: con Davigo se ne va dal Csm “il simbolo vivente dei valori costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura”, il magistrato che “non tira indietro la gamba dinanzi alle pressioni e alle minacce del Potere di ogni tipo e colore”. Il pensionamento non sarebbe l’applicazione della legge, ma un “pretesto” usato dai “voltagabbana”, quelli che hanno “inciuciato” con Palamara: alla fine, insomma, è stato “vomitato fuori dalla casta politico-togata che infesta il finto autogoverno”. Questa descrizione da cesaricidio stride un pochino con la realtà. Perché sulla decadenza di Davigo a livello istituzionale c’è stata un’ampia concordanza di vedute. L’Avvocatura dello stato, che dovrebbe difendere il Csm nel caso di contenzioso amministrativo (quindi anche per eventuali impugnazioni dovute alla permanenza di Davigo), in un parere ha affermato che è scontato che un magistrato che va in pensione non possa restare al Csm. Dello stesso parere è stata la Commissione verifica titoli di Palazzo dei Marescialli. Infine, allo stesso modo, si è espresso il plenum del Csm con una larga maggioranza (13 voti a favore della decadenza - tra cui, ad esempio Nino Di Matteo, eletto da indipendente proprio nella corrente capeggiata da Davigo - 6 contrari e 5 astenuti). Stride, soprattutto, rispetto al giudizio solenne del plenum dell’organo di autogoverno della magistratura l’intenzione di Davigo, riportata dai giornali, di presentare un ricorso al Tar. Più che una specie di shakespeariano Giulio Cesare tradito, in questo caso la figura di Davigo ricorda il Totò del film “Il comandante”, sicuramente noto a Travaglio, quello in cui il militare Antonio Cavalli dopo una vita nell’esercito culminata con la promozione a generale non riesce ad adattarsi alla vita da pensionato. Errori giudiziari. “L’indennizzo non basta, i magistrati chiedano scusa” di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 21 ottobre 2020 “Nessun indennizzo è sufficiente per ripagare le pene che una vittima di malagiustizia è costretta a sopportare. E la cosa più grave è che nessun giudice chiede mai scusa per gli errori commessi ai danni di una persona prosciolta o assolta. Servirebbero più buonsenso e rispetto”: ne è convinto Mario Caizzone, presidente dell’Associazione Italiana Vittime di Malagiustizia (Aivm). A fondarla, con l’obiettivo di dare voce a quanti subiscono vessazioni nel nome di una legge che non è uguale per tutti, è stato lo stesso commercialista, suo malgrado protagonista di un caso di malagiustizia. Accusato di ricoprire la carica di sindaco in due società finite nel mirino della Guardia di finanza nei primi anni Novanta, Caizzone ha trascorso quattro mesi agli arresti domiciliari e quasi un ventennio sotto la scure della magistratura italiana prima che la sua innocenza venisse definitivamente riconosciuta. Ecco perché si mostra particolarmente sensibile alla vicenda dell’imprenditore campano al quale la Corte d’appello di Napoli ha riconosciuto quasi 190mila euro a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione. Basta un indennizzo per “ricostruire” una vita demolita dalla malagiustizia? “Certo che no. Ha idea di cosa voglia dire, per una persona che sia vittima di malagiustizia, finire su tutti i notiziari del mattino al momento del proprio arresto? Dopo la diffusione di quella notizia le chiudono i conti correnti, i fornitori e i clienti fuggono e, in alcuni casi, viene persino abbandonata dal coniuge. È facile immaginare la disperazione che ne deriva”. Com’è possibile che i giudici commettano errori grossolani come quello che aveva inizialmente portato alla condanna dell’imprenditore napoletano? “Da quando mi occupo dell’associazione non ho mai visto un amministratore di giustizia chiedere scusa alla vittima, cioè a una persona prosciolta o assolta dalla magistratura. Lei, da giornalista, ha mai visto un amministratore di giustizia scusarsi con una vittima?” No, anzi. Il caso di Enzo Tortora ci dimostra che, in taluni casi, i magistrati macchiatisi di certi errori vengono addirittura promossi. Ma quale immagine dei giudici emerge in certi casi? “Quella attuale. E cioè quella di un’istituzione nella quale c’è il rischio che i cittadini perdano progressivamente fiducia. Anni fa l’Aivm ha diffuso un questionario tra parlamentari italiani ed europei, presidenti di Regione e Provincia e sindaci, chiedendo loro a chi dovesse rivolgersi una vittima di malagiustizia. La maggior parte degli intervistati ha risposto “al Padreterno”; gli altri “al papa”, “al presidente della Repubblica” e, infine, “al Consiglio superiore della magistratura”. Se gli uomini delle istituzioni non hanno fiducia nei giudici, dunque, come potrebbero mai averne i cittadini comuni?” Non trova che la perdita di credibilità della magistratura sia ancora più preoccupante in un territorio come quello campano, spesso preda della criminalità organizzata? “No, perché la perdita di credibilità della magistratura è grave in qualsiasi contesto”. Come si possono arginare il boom di errori giudiziari e, di conseguenza, la progressiva perdita di fiducia nei giudici? “Servono semplicemente buonsenso e rispetto per i più deboli. Dal 27 gennaio 2012 a oggi, circa 9mila persone si sono rivolte alla nostra associazione per chiedere aiuto perché convinte di essere vittime di una cattiva amministrazione della giustizia: un numero altissimo che impone un’inversione di rotta”. “L’Europa dei diritti si fonda soltanto sul giusto processo” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 ottobre 2020 Estradizione e mandato di arresto europeo, uno studio sulla giurisprudenza della Corte d’Appello di Bologna. Presentati lunedì i risultati dell’indagine statistica effettuata dall’Osservatorio Europa della Camera Penale di Bologna “Franco Bricola”, Fondazione Forense Bolognese ed Eurispes sulla giurisprudenza della Corte d’Appello di Bologna negli anni 2006- 2019, relativa al mandato di arresto europeo (Mae) ed estradizione. L’incontro online è stato patrocinato dall’Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi). Secondo l’avvocato Elisabetta d’Errico, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna, e l’avvocato Roberto d’Errico, Presidente della Camera Penale di Bologna, la forza di questo studio consiste “nell’attualità della tematica” e “nella concretezza di un lavoro basato su dati scientifici nella scia di una collaborazione storica tra l’Eurispes e l’Ucpi”. L’obiettivo della indagine - come ha spiegato l’avvocato Donatella Ianelli, Responsabile Osservatorio Europa Camera Penale di Bologna - è quello non solo di poter confrontarsi con una materia “che va ad incidere nella fase esecutiva ed attuativa della pena in ambito europeo ed internazionale, ma anche quello di aprire un confronto con la magistratura e con l’accademia, affinché l’Europa dei diritti si costituisca come tale nel rispetto pieno degli stessi attraverso la prassi del processo giusto, del rispetto dell’individuo, in consonanza con i diritti fondamentali Cedu”. Il contesto entro cui ci si muove è quello di un attento esame della autorità Giudiziaria che avalla o meno la richiesta proveniente da uno Stato Europeo (Mae) o da altro Paese estero (Estradizione). Il Mae - si legge nella sintesi del rapporto illustrato dalla dottoressa Raffaella Saso, Vice Direttore Eurispes, e pubblicata sul sito della Camera penale bolognese - “costituisce la prima concreta applicazione nell’ambito penale del cosiddetto principio del riconoscimento reciproco, fondamento della cooperazione giudiziaria”. Pertanto tra i criteri che lo rendono legittimo c’è quello che deve garantire “l’assenza di rischio per il soggetto estradato di essere sottoposto a pena di morte, tortura o altre pene o trattamenti inumani o degradanti”. In questi casi, per fornire le prove, la strada migliore è “presentare le relazioni della autorità governative, della Cedu, o del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura”, ha spiegato l’avvocato dell’Osservatorio Simone Trombetti. Entrando nel vivo nei numeri per quanto concerne il Mae, “da un numero iniziale del 2006 di poco più di una decina si è passati a un numero sempre più elevato che si avvicina ai 50 Mae nell’anno 2019, con un accoglimento complessivo pari al 64 per cento”; riguardo le estradizioni “da un numero iniziale nel 2006 di quattro richieste si è arrivati ad un numero che supera le 20 richieste nell’anno 2019, con un accoglimento complessivo intorno all’ 80 per cento”. I soggetti sottoposti ad una procedura di richiesta di consegna per Mae “processuale” o per Mae “esecutivo”, “tra il 2006 ed il 2019, nell’ambito regionale, sono stati 369. La nazionalità del Mae, cioè lo Stato europeo che lo emette, è in quasi la metà dei casi rumena (48,9%)”. Come ha sottolineato l’avvocato Nicoletta Garibaldo dell’Osservatorio, “le autorità rumene utilizzano il Mae per tutti i tipi di reati, compresi quelli bagatellari, come la guida in stato di ebbrezza”. Consulta: lette in dibattimento anche le dichiarazioni rese al Gip dal testimone assistito di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2020 La sentenza ha dichiarato incostituzionale il primo comma dell’articolo 512 del Cpp. Anche le dichiarazioni rese al Giudice per le indagini preliminari dal testimone assistito, potranno essere lette in dibattimento. La Corte costituzionale con la sentenza n. 218 depositata il 20 ottobre ha, infatti, affermato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 512, comma 1 del Codice di rito penale. Una norma bocciata per la parte in cui non prevede la possibilità di leggere in dibattimento le dichiarazioni rese al Gip nel corso dell’interrogatorio di garanzia - diventate nel frattempo irripetibili - dall’imputato di un reato collegato, che sia stato avvertito che sulle affermazioni che implicano la responsabilità di terzi, potrà essere citato come “testimone assistito”. A chiamare in causa la Consulta sulla questione di legittimità dell’articolo 512 era stato il tribunale ordinario di Roma. Le dichiarazioni, oggetto dell’ordinanza di rinvio, erano state rese da una persona arrestata per vari reati. Durante l’interrogatorio di garanzia davanti al Gip l’imputato, dopo essere stato avvertito che, nel caso di affermazioni su responsabilità altrui avrebbe assunto la veste di testimone (articolo 64 terzo comma lettera c, del Codice di rito penale) aveva accusato di lesioni e altro a i suoi danni, i pubblici ufficiali che lo avevano arrestato. Il Pm aveva chiesto dunque la sua citazione come testimone “assistito”, ma lui nel frattempo si era reso irreperibile. Ipotesi non prevedibile quando erano state fatte le dichiarazioni che coinvolgevano terze persone. La Corte costituzionale ricorda che, in base all’attuale formulazione dell’articolo 512 del Codice di procedura penale, possono essere letti gli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dai difensori delle parti private e dal giudice nel corso dell’udienza preliminare. E questo quando, per fatti o circostanze imprevedibili, non è più possibile la ripetizione. Per il giudice delle leggi è dunque del tutto irragionevole la mancata previsione di una identica possibilità nel caso in cui “l’atto assunto sia un atto formato dal giudice delle indagini preliminari”. Le dichiarazioni fatte dall’imputato di un reato collegato (articolo 371, comma 2, lettera b)), che abbia assunto la qualità di testimone assistito, sia per affetto dell’avvertimento, sia in conseguenza di un’intervenuta sentenza di proscioglimento nei suoi confronti, o di condanna o di patteggiamento sarebbero - sottolinea la Corte - suscettibili di lettura nel caso fossero state “raccolte” dal Pm. Anche da questo punto di vista risulta dunque irragionevole che la stessa cosa non possa accadere nell’ipotesi di interrogatorio del Gip con tutte le garanzie proprie di tale atto. Né, per la Consulta, è significativo il fatto che l’interrogatorio di garanzia costituisca uno strumento di difesa perché questo, nello specifico, è rilevante per le dichiarazioni che riguardano la responsabilità di altri. La norma censurata, mette dunque in atto una disparità di trattamento in contrasto con l’articolo 3 della Carta. Interruzione pubblico servizio per chi registra non autorizzato seduta del Consiglio comunale di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2020 La Cassazione con la sentenza 28950 ha ricordato come l’autorizzazione vada richiesta a tutela della privacy. Il cittadino che registra la seduta del Consiglio comunale senza aver ottenuto una previa autorizzazione e, nonostante l’invito del Sindaco ad interrompere le riprese, si rifiuti di spegnere il registratore commette il reato di interruzione di pubblico servizio. Questo è quanto affermato nella sentenza n. 28950 dalla Cassazione, per la quale non sussiste alcun diritto del privato a registrare l’attività consiliare in nome della trasparenza. Il caso - La singolare vicenda da cui trae origine il procedimento penale si svolge a febbraio 2010 nell’aula del Consiglio comunale di un paese nel bergamasco. Un cittadino veniva scoperto a registrare tramite un apparecchio portatile la seduta consiliare, in assenza di autorizzazione e perciò contrariamente a quanto previsto nel regolamento comunale. A quel punto il Sindaco chiedeva al concittadino di interrompere la registrazione, in quanto non consentita, e, dinanzi al rifiuto di stoppare le riprese, si vedeva costretto a chiamare i Carabinieri che, interrompevano la seduta e invitavano l’uomo con la telecamera ad allontanarsi. Il tutto era durato circa un’ora e mezza. Il comportamento dell’uomo passava poi al vaglio dei giudici penali che, sia in primo grado che in appello, lo ritenevano responsabile del reato di interruzione di pubblico servizio, previsto dall’articolo 340 del codice penale. Per i giudici il caso era semplice: si trattava di un comportamento non autorizzato e non necessario che causava la sospensione della seduta comunale. Il cittadino ricorreva però in Cassazione ritenendo che la registrazione da lui eseguita rispondeva ad esigenze personali, in quanto egli aveva la necessità di registrare le dichiarazioni dei consiglieri su specifiche questioni all’ordine del giorno. Inoltre, la prescritta autorizzazione, secondo l’imputato, riguardava non i singoli cittadini ma le emittenti televisive, le cui riprese erano finalizzate ad informare l’opinione pubblica. L’autorizzazione richiesta a tutela della privacy - La Cassazione ritiene il ricorso non fondato e, anche se nel frattempo il reato commesso si è estinto per prescrizione, tiene a precisare i contorni giuridici della vicenda. In primo luogo, per i giudici di legittimità il regolamento comunale è chiaro laddove prevede una apposita autorizzazione per registrare le sedute del Consiglio comunale, indipendentemente dal mezzo utilizzato e dal soggetto che effettua le riprese. Tale statuizione è in linea con l’articolo 38 comma 3 del Tuel (Dlgs 267/2000), che attribuisce ai Comuni autonomia funzionale e organizzativa. In secondo luogo, sottolinea ancora il Collegio, tale limitazione è altresì “in sintonia con le direttive date dal Garante per la protezione dei dati personali con nota del 23 aprile 2003 in ordine alla registrazione delle sedute dei consigli comunali per finalità non istituzionali”, per la quale se le riprese sono destinate a scopi diversi dalla informazione, allora “gli interessati devono essere posti in condizione di essere informati”. Pertanto, nel caso di specie, la previa autorizzazione alla registrazione, prevista dallo statuto comunale, si poneva come strumento di tutela per la diffusione incontrollata di dati personali e giustificava l’interruzione della seduta da parte del Sindaco, una volta scoperto l’uso non autorizzato di un registratore da parte dell’imputato. Firenze. Covid, a Sollicciano situazione sotto controllo ma il carcere si riempie di poveri di Stefania Valbonesi stamptoscana.it, 21 ottobre 2020 Un sunto, breve, della visita compiuta nel carcere di Sollicciano da Massimo Lensi (Associazione Progetto Firenze), il consigliere comunale Dmitrij Palagi (Spc) e il garante regionale della Toscana Giuseppe Fanfani, accompagnati dal cappellano del carcere fiorentino don Vincenzo Russo, è stato fatto questa mattina nel corso di un incontro con la stampa in palazzo Vecchio. Una breve sintesi che mette sul tavolo tematiche nuove come le misure riguardo la pandemia, e vecchie come lo stato del carcere, le condizioni di chi ci si trova, ma anche l’occasione di una riflessione a tutto tondo che tocchi anche il tema del territorio. Infatti, sebbene l’intervento scioccante e scioccato di qualche giorno fa del garante toscano Fanfani rispetto alle condizioni fisiche e morali dei detenuti nella struttura fiorentina sia una testimonianza di alto valore sulla situazione reale, è sul punto del rapporto col territorio e delle sue realtà che, in particolare secondo don Russo, è necessario riflettere e trovare il modo, il coraggio, la volontà di cambiare indirizzo. Aggiungendo anche, in particolare per Sollicciano e in particolare visti i tempi, la necessità di una stabilità nella direzione (i direttori si susseguono dopo brevi periodi) che sia anche garanzia di riconoscimento degli effettivi rischi che si corrono nell’istituto. Per quanto riguarda il rischio dell’esplodere di una pandemia che sarebbe difficilmente contenibile, viste le condizioni di sovraffollamento dell’istituto e le condizioni quotidiane in cui vivono i detenuti, ad ora sembrerebbe che la situazione sia tutto sommato positiva. “Nell’istituto fiorentino, le misure di contenimento al contagio sembrano, al momento, adeguate. Tre sezioni sono state organizzate in reparti di isolamento preventivo, con celle singole, per i nuovi giunti. I posti letto sono 41 al maschile e 3 al femminile. Inoltre, è stato creato un reparto Covid con 4 posti letto, all’interno del quale è attualmente ricoverato un positivo” spiega Massimo Lensi, Presidente dell’Associazione Progetto Firenze. Ricordiamo che ad ora i detenuti risptretti a Sollicciano sono 737, a fronte di una capienza regolamentare di 494, fra cui 103 donne. Lensi batte anche su di un punto fondamentale in previsione della salute dei detenuti nella particolare contingenza pandemica: un forte appello circa la necessità di avviare una campagna di vaccinazione antinfluenzale fra la popolazione carceraria. “Lancio un pressante appello alla Regione Toscana affinché inserisca nelle categorie a rischio per il vaccino anti influenzale i 3.247 ristretti nei 16 istituti penitenziari regionali”. “Ad agosto dello scorso anno il Sindaco di Firenze ha proposto di costruire un carcere più grande, abbattendo Sollicciano. Ipotesi che avevamo considerato sbagliata dall’inizio. In Consiglio comunale era stata approvata la nostra richiesta di una seduta dedicata alla detenzione e al sistema penale. Purtroppo poco è avvenuto in questi mesi, nonostante l’impegno del Presidente del Consiglio e di alcuni consiglieri della maggioranza. Quello che devono fare la politica e le istituzioni è diminuire la popolazione carceraria e mettere in discussione un sistema che reprime o rimuove tutto ciò che è povertà, rendendo gli istituti penali delle discariche”, ha dichiarato il Consigliere comunale di Sinistra Progetto Comune, Dmitrij Palagi. “La struttura non aiuta qualsiasi tipo di protocollo - dice don Vincenzo Russo - anche se possiamo ripetere che il Covid a Solllicciano, ad ora, non solleva preoccupazioni immediate. L’era del covid mette in luce con più urgenza il fatto che la struttura sia vecchia, decadente, fatiscente. Si tratta di un aspetto da non sottovalutare non solo in fase di emergenza ma anche di ordinarietà: per questo chiediamo un intervento del Ministero, un intervento deciso, dal momento che, nonostante la buona volontà di qualsiasi direttore, se non accade che si prendano decisioni forti le cose non cambiano. Qualsiasi tipo di intervento diciamo di “toppa” non porta a nessun risultato, negli anni la struttura peggiora sempre più. Gli interventi diventano sempre più pesanti a livello strutturale e a questo punto il Ministero deve decidere cosa fare di Sollicciano: se continuare su questa strada, che offende le persone che sono all’interno, che hanno diritto a cose diverse rispetto a quelle che sono costrette a vivere, oppure se ripensare alla nascita di un nuovo istituto che abbia le caratteristiche giuste per accompagnare i detenuti in un percorso educativo”. Ma non è tutto. Il Covid, l’emergenza, i rischi emergenti, danno la possibilità di una riflessione doverosa che riguarda il discorso carcere in modalità omnicomprensiva e di fondo. “Bisognerebbe fare una riflessione su quello che c’è fuori, perché dentro ci sono le persone che provengono da questa città - dice don Russo - ed è una riflessione che riguarda i territori. Mi confronto sempre di più con persone estremamente povere. Miglioriamo gli istituti, certo, ma ho grandi perplessità: servono gli istituti? A Firenze ci sono sacche di disagio che aumentano di giorno in giorno, aumentano sempre di più i poveri e i poveri sono sempre più nelle carceri. Non possiamo limitarci a dire che Sollicciano è una struttura inadeguata. Di carcere dobbiamo parlare come di un soggetto dentro la città”. Ed è proprio l’aumento dei poveri nelle carceri, anche in quella di Sollicciano, che smuove l’analisi. Forse il problema è davvero, come dice don Russo, nel sistema. “Bisogna fare investimenti: cosa si propone a un detenuto in procinto di uscire? La solita vita se non peggio. Una vita ai margini prima, poi l’esperienza del carcere, poi la restituzione, scontata la pena. Restituzione a chi, e in quali condizioni? A quella stessa esistenza di disagio che ha preparato l’entrata in carcere? Dobbiamo intervenire, ma per fare questo in modo efficace serve una riflessione seria sul carcere e il suo ruolo. Il degrado cresce non solo a Firenze, in altri territori è ancora più marcato, penso al meridione e non solo. Introduciamo politiche che rispettano la vita dei cittadini, che rendano difficile il protrarsi del circolo vizioso disagio-carcere-disagio”. Tirando le fila, è anche la città che deve interrogarsi su come intervenire sui bisogni e non rendere diabolicamente facile, se non scontata, la caduta. Fermo. Nella Casa di reclusione niente diritti di Marco Purita* dirittiglobali.it, 21 ottobre 2020 Il Governo e il Parlamento italiano hanno l’obbligo internazionale di garantire condizioni dignitose e rispettose dei diritti umani nelle carceri per le persone detenute. Ciò significa assicurare in primis il diritto alla dignità umana, e il diritto per tutti a non essere sottoposti a pene o a trattamenti disumani. Quali diritti vengono riconosciuti ai detenuti nel 2020 nella casa di reclusione di Fermo? Nessuno. Quando il portone di ferro si chiude alle tue spalle, si sigilla. La prima cosa che dici è: “Sono morto”. Tu non sei un detenuto, sei il padre della persona reclusa nel carcere di Fermo. “Sono morto”, mi ripeto nella saletta pre-colloquio, dove lascio i documenti e gli oggetti personali. Nel carcere di Fermo, per i parenti delle persone detenute è riservata una saletta di due metri quadrati, stile 416 bis. Da una finestrella a mezzo metro d’altezza sbuca una guardia, che con tono rabbioso m’impone di consegnargli i documenti. La porta blindata si apre, entro nella sala colloquio vera e propria. Un’altra stanza in miniatura, che può contenere al massimo (e non per il Covid-19) due detenuti. I parenti si alternano per parlare, altrimenti non si sente nulla. Da mio figlio mi separa una parete di plexiglass, che quasi impedisce del tutto la comunicazione. Nella casa di reclusione di Fermo, ogni persona detenuta deve trascorrere la prima settimana in isolamento. Non in una cella, ma in una grotta. Una persona alta un metro e settanta non può stare all’in piedi tanto il soffitto è basso. Dopodiché si passa alle celle da 2 persone, che ospitano però 4/6 detenuti. E il bagno? Prima di accennare al bagno, esaminiamo il passeggio destinato alle quattro ore d’aria riconosciute alla persona detenuta. In trenta metri per trenta di cemento devono passeggiare tutti i 100 detenuti reclusi, in una struttura che ha una capienza massima di 50 persone. Nella casa di reclusione di Fermo il sovraffollamento è del 200%. “È meglio starsene in cella”, dice mio figlio. Fermo è un carcere abbandonato a se stesso. La pena vera la scontano i familiari. Ricordiamo che già nel Settecento, con l’illuminismo e Beccaria si ebbe una profonda rivoluzione nell’istituzione penitenziaria: il principio punitivo della pena viene rifiutato, si adotta il principio basato sulla rieducazione e sull’umanizzazione delle pene. Il diritto alla rieducazione del condannato è riconosciuto oggi dall’art.27 della Costituzione italiana. Il diritto fondamentale dell’umanizzazione delle pene è sancito non solo dalla Costituzione italiana, bensì dal diritto internazionale con la Cedu (art. 3), ovvero la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, giuridicamente vincolante per gli stati dell’Unione Europea con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona (dicembre 2009). Nella casa di reclusione di Fermo l’educatore viene dall’esterno una volta alla settimana e chiama una o due persone. Il tuo turno è tra quattro/cinque mesi. Non ci sono psicologi, non ci sono assistenti sociali. Non c’è palestra. Non c’è lavoro. Non ci sono attività culturali. Sebbene l’educazione e l’umanizzazione delle pene siano legiferati altresì dalla Legge Gozzini in materia di Ordinamento Penitenziario. Testualmente, l’esecuzione della pena deve favorire “il graduale reinserimento del soggetto nella società, attraverso un allargamento delle possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione, con la previsione di determinati meccanismi che incentivano la partecipazione e la collaborazione attiva del detenuto all’opera di trattamento”. Sul tema dell’umanizzazione della pena, la legge Gozzini introduce altresì l’art. 47 ter, la disciplina della detenzione domiciliare, ovvero una modalità di esecuzione della pena extra-carceraria. La detenzione domiciliare evita - nella sua ratio - la carcerazione a coloro che possono risentire sia sul piano fisico sia sul piano psicologico della permanenza in carcere. Tale disciplina confligge con la detenzione giustizialista, di moda negli ultimi anni in Italia. Il giustizialismo degli ultimi anni ha inciso con pesantezza e negatività sulle condizioni di vita dei detenuti: l’incremento del sovraffollamento in carcere è il reato commesso dall’Italia. La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo ha condannato l’Italia (l’8 gennaio 2013) per aver violato l’art.3: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani o degradanti”. Oggi sono centinaia i detenuti che hanno scelto di suicidarsi a causa del sovraffollamento che toglie l’ossigeno. Il carcere di Fermo rieduca alla morte? Se non si vuole che le pene degradino a trattamenti contrari al senso di umanità e il carcere a luogo di sopraffazione come nella casa di reclusione di Fermo, alla persona detenuta sono riconosciute dalle Costituzioni nazionali e internazionali una serie di garanzie minime insopprimibili. In primis il diritto alla dignità umana e il diritto alla salute, valori fondamentali delle società democratiche, diritti inalienabili e necessari per qualunque trattamento rieducativo (studio, educazione, lavoro di utilità sociale, attività culturali, mantenimento delle relazioni familiari) del condannato. Non era l’illuminista Voltaire che già nel Settecento scriveva che “il grado di civiltà di uno Stato si misura dal grado di civiltà delle sue prigioni”? Ah! Il bagno nelle celle del carcere di Fermo: non c’è la porta, c’è un muretto di massimo 50 centimetri che non ripara dagli odori e dai rumori di sei persone recluse tutte insieme (italiani, stranieri, tossicodipendenti, sieropositivi). Rinunciare al proprio pudore e alla propria igiene è violenza contro la persona detenuta, che viene privata di se stessa, della propria dignità. Il carcere di Fermo non rieduca le persone, ma li riduce a numero, produce nelle persone detenute sentimenti di disprezzo e di rivalsa verso la società in cui dovrebbero essere re-inserite, socializzate, ri-abilitate. Ma cos’è la dignità umana? Il dizionario della lingua italiana risponde così: con il termine dignità ci si riferisce al valore intrinseco dell’esistenza umana che ogni uomo, in quanto persona, è consapevole di rappresentare nei propri principi morali, nella necessità di liberamente mantenerli per se stesso e per gli altri e di tutelarli nei confronti di chi non li rispetta. *Scrittore Napoli. Minori a rischio protagonisti di “Scugnizzi a Vela” di Amedeo Junod Il Riformista, 21 ottobre 2020 L’arte della navigazione per riconquistare dignità e libertà. Se è vero, come vuole un adagio solitamente attribuito a Seneca, che “non c’è porto sicuro per chi non sappia dove andare”, i ragazzi dei cantieri del progetto “Scugnizzi a Vela” possono sentirsi fortunati. Sono infatti accolti e guidati da un capitano coraggioso e rassicurante, Stefano Lanfranco, che con l’associazione Life Onlus da ormai 15 anni porta avanti una serie di iniziative volte al recupero dei minorenni con condanne penali in fase di messa alla prova, e rifugiati, tramite l’apprendimento dei mestieri del mare e dell’antica arte del restauro di imbarcazioni in legno dismesse o abbandonate, nell’area di Napoli. L’odore di salsedine e gli scintillii delle superfici umide e corrose fanno da scenario ad un cantiere di corpi e di anime dove i rimpianti e i fantasmi del passato vengono messi da parte, per fare spazio all’olio di gomito, alla disciplina e alla soddisfazione di imparare un mestiere, antico e faticoso, che possa restituire a questi giovani orgoglio e dignità. Ciro, nome di fantasia, proviene dal carcere minorile, ma non rimpiange la vecchia vita “che porta via solo la libertà, la cosa più importante che ci sia” sostiene senza esitare. Occhialini, guanti da lavoro consunti e tanta voglia di fare. Ciro non somiglia allo stereotipo dello scugnizzo “di mezzo la via” che cinema e letteratura degli ultimi ci hanno consegnato, ma piuttosto ad un ometto pronto a spaccarsi la schiena per migliorare e un giorno lasciarsi definitivamente alle spalle un passato di errori e di cattivi maestri. “Sono cambiato e ho imparato a stare con la gente e a lavorare, ci dice, ed è un’opportunità che non mi lascio scappare”. Pierre invece, altro nome di fantasia, è un rifugiato politico, che lavora nel cantiere grazie alla mediazione dell’associazione Less, che gli ha donato “una grande opportunità, da mettere a frutto nel futuro. Piano piano sto imparando sempre di più dei mestieri interessanti che vorrei svolgere anche dopo il periodo di formazione”. Ama riparare le barche, si sente a suo agio tra le travi e le impalcature e nei suoi occhi si legge la speranza di poter trasformare questo periodo di formazione in un trampolino di lancio per un futuro lontano dalla sopraffazione e dal dolore. C’è l’entusiasmo che si respira al cospetto delle grandi occasioni, nei discorsi di questi scugnizzi a vela, tra chi è consapevole di aver sbagliato e chi cerca di riaccaparrarsi della perduta libertà e della dignità negata, ed è lo stesso entusiasmo che sprigiona dallo sguardo di Stefano Lanfranco, grande timoniere di un progetto che rilancia a suon di forza di volontà e di attività pratiche tutta la semantica del mare, del viaggio di transizione e del percorso di cambiamento, e che valorizza mestieri dalla tradizione millenaria, intimamente legati alla Napoli che lavora e che si guadagna da vivere onestamente. “Gli scugnizzi sono ragazzi che vanno aiutati da chi può in termini di sensibilità, di tempo e di attività e opportunità concrete”, sottolinea Stefano. “Ultimata la presenza nel carcere minorile di Nisida, il tribunale minorile decide di affidarli alle nostre cure. Gli insegniamo il restauro del legno e l’arte marinaresca in un ambiente straordinario come quello dell’antico arsenale borbonico, attuale quartier generale della marina militare, rimettendo insieme le parti giuste coerenti e corrette di questi ragazzi, che hanno bisogno soprattutto di una guida, in un percorso che dura un anno, un anno e mezzo”. L’associazione si regge anche grazie a sostenitori quali il Gruppo Grimaldi, la banca Unicredit e la generosità dei Cantieri Napoletani che attualmente ospitano il cantiere di restauro della Nave Matteo, un bialbero di 17 metri il cui varo è previsto per la prossima primavera. A questa fascinosa carrozza del mare è legato un aneddoto che in qualche modo ispira i numerosi progetti e iniziative degli Scugnizzi in giro per l’Italia: “Il terzo nome di Nave Scuola Matteo è Caracciolini, per riprendere un’iniziativa di più di 100 anni fa, quando nel corso della prima guerra mondiale, molti scugnizzi senza arte né parte, raccattati per le strade, grazie alla Signora Civica, educatrice di altri tempi, riuscivano attraverso l’arte marinaresca, a diventare marinari e alcun idi loro anche sommergibilisti. Una storia che in piccolo stiamo ripercorrendo per dimostrare l’utilità e la bontà delle iniziative di recupero dei ragazzi a rischio”. Catanzaro. Due detenuti scrivono al Dap e al Garante chiedendo il trasferimento di Massimo Veltri Corriere della Calabria, 21 ottobre 2020 Dopo il trasferimento da Castrovillari in piena emergenza pandemica da due mesi si trovano in regime di isolamento. Chiedono di essere trasferiti o reinseriti nella vita sociale del carcere. Pronti ad adire l’autorità giudiziaria. Si appellano alle ragioni di “carattere umanitario” Maurizio Tancredi e Vincenzo Di Martino che in una lettera inviata al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della regione Calabria così come al garante dei detenuti lamentano delle condizioni di trattamento carcerario inasprito nonostante si tratti per entrambi di scontare un residuo di pena. Tancredi e Di Martino, come ricostruito dall’avvocato Riccardo Rosa nella lettera inviata agli organismi competenti, sono stati trasferiti dalla casa circondariale di Castrovillari a quella di Catanzaro in piena emergenza di propagazione da Covid-19 per “sovraffollamento dell’istituto penitenziario” che si trova nella cittadina del Pollino. Un trasferimento che ha determinato un maggiore allontanamento dalla famiglia, considerato che “per ragioni legate alla distanza ed alla tenera età dei figli, non hanno avuto modo di svolgere i colloqui familiari”. Per i due le cose però sono precipitate negli ultimi due mesi, perché dopo un primo periodo di inserimento positivo nell’istituto penitenziario di Catanzaro adesso, sottolinea l’avvocato, “a causa di alcuni rapporti a loro notificati da due mesi si trovano in un reparto dove di fatto è applicato un trattamento paragonabile all’isolamento”. Il vivere in questo stato, lamentano i due detenuti affidandosi alle istanze del loro legale “comporta difficoltà nel ripristino della socialità con la popolazione carceraria, nonché vanifica ogni possibilità di reinserimento, a causa della esclusione dai progetti e percorsi di recupero oggi drasticamente compromessi”. Aspetti da non tralasciare a cui si aggiungono anche “effetti dannosi per la salute la cui gravità aumenta con la durata e l’incertezza sulla durata del trattamento punitivo, da considerarsi a tutti gli effetti degradante”. La situazione tiene in apprensione i due perché non sono stati fornite rassicurazioni circa la possibile data di rientro nella popolazione carceraria né “rassicurazioni su un auspicato trasferimento degli stessi ad altra Casa Circondariale, nonostante i reiterati solleciti”. Le soluzioni prospettate a questo punto si biforcano, da una parte c’è la speranza che entrambi possano essere trasferiti facendo venire meno il regime di isolamento, situazione equiparabile al reinserimento nei reparti comuni, oppure l’intera vicenda finirà a carte bollate con entrambi pronti ad adire l’autorità giudiziaria competente. Coprifuoco: così l’impotenza è mascherata da fermezza di Marco Bascetta Il Manifesto, 21 ottobre 2020 Il messaggio piuttosto osceno che oggi circola con insistenza è che i cittadini, per garantire la salute propria e altrui debbano “cedere quote di libertà”. Non pretendere una riorganizzazione razionale della vita produttiva, non prendere per il collo chi li costringe a file di otto o nove ore negli assembramenti obbligatori esposti alle intemperie per ricevere un tampone. La pazzia regna sovrana nel governo del paese. Ma non vi è logica alcuna in questa follia. Il governatore della Lombardia Attilio Fontana non è forse lo stesso che durante la prima ondata dell’epidemia riduceva le corse dei mezzi pubblici determinando l’affollamento sui medesimi? E il sindaco del capoluogo lombardo Sala non è lo stesso dell’orgoglioso motto “Milano non si ferma!” che precedette un week end di delirio? Non è quella la regione dei trasferimenti degli infetti nelle Rsa e delle valli della morte aperte a pendolari e lavoratori? Di fronte alla ripresa virulenta dell’epidemia questi governanti autoassoltisi da ogni errore e inadempienza, celebrando successi mai conseguiti, decretano ora il coprifuoco, senza virgolette, dalle 23 alle 5 della mattina. Non la chiusura dei locali e della vendita di alcolici, ma il confinamento notturno nelle case, quello imposto dai colpi di Stato e dai tempi di guerra. Come già accadde per i mezzi di trasporto ne conseguirà un concentramento della movida dalle 21 alle 23, un’esplosione senza precedenti dell’apericena e un effetto più dannoso che nullo sulla diffusione del virus. Il governo che non sa quali pesci pigliare e che è arrivato del tutto impreparato alla seconda ondata dell’epidemia, lascia fare. Il pugno di ferro che viene dal basso (regioni, comuni) lo solleva fortunosamente da responsabilità e scelte difficili. Laddove, invece, il coprifuoco integrale e generalizzato non sarà applicato, ai sindaci spetterà solo il compito di indicare a prefetti e questori le strade e le piazze del vizio da chiudere alla circolazione. Scatenando una probabile partita a rimpiattino tra ragazzi e agenti di polizia. Assolti Stato e regioni che non hanno mosso un dito per affrontare il problema cruciale dei trasporti, che non hanno rafforzato a sufficienza con rapide assunzioni di personale e nuove strutture il Sistema sanitario territoriale, assolta (per il momento e non in Campania) la scuola nonostante il colpevole deficit di spazi e personale docente (grazie anche alla paranoia concorsuale) e in assenza dei promessi canali rapidi e dedicati di tracciamento, assolte le aziende cui per atto di fede si attribuisce un impeccabile rispetto dei parametri di sicurezza, assolto lo sport, ma solo quello che rende soldi (non dunque il calcetto in parrocchia), un colpevole bisognava pur trovarlo. E lo si è trovato nei giovani della movida. Che quest’ultima sia inscindibile da fenomeni di assembramento e da un’inclinazione all’imprudenza è fuor di dubbio. Ma sono caratteristiche che condivide con molti altri fenomeni della vita sociale, che però non portano su di sé lo stigma del “superfluo” e dell’indisciplina. Senza contare che quella della notte è comunque un’industria come altre, fonte non indifferente di occupazione. Il messaggio piuttosto osceno che oggi circola con insistenza è che i cittadini, per garantire la salute propria e altrui debbano “cedere quote di libertà”. Non pretendere una riorganizzazione razionale della vita produttiva, non prendere per il collo chi li costringe a file di otto o nove ore negli assembramenti obbligatori esposti alle intemperie per ricevere un tampone. E questo dopo svariati mesi che avrebbero dovuto consentire di mettere a punto un dispositivo di tracciamento più efficace e meno disumano. Non esigere un ampliamento eccezionale del telelavoro. Ma accettare di essere confinati nelle case durante le “improduttive” ore della notte. Il coprifuoco è al tempo stesso il segno e la negazione di un completo fallimento, un menar fendenti nell’aria. Per non arrivare a questa impotenza mascherata da fermezza, oltre a una politica più lungimirante sarebbe stato necessario anche un ulteriore indebitamento, accettando le risorse del Mes? Che certamente significa a sua volta una “cessione di quote di libertà” futura? Probabile. Ma almeno con qualche chance di posare fondamenta più solide e acquisire strumenti più efficaci. Senza contare che l’intero sistema globale del debito e del credito non potrà conservarsi indenne attraverso un passaggio così generalmente devastante come quello imposto dalla pandemia. Come dimostra il generale allentamento dei dogmi finanziari in Europa e nei singoli stati. E come la probabile esplosione delle contraddizioni sociali renderà presto ineludibile. Il confine labile tra libertà e sicurezza: massima trasparenza o si rischia di Vincenzo Musacchio* Il Dubbio, 21 ottobre 2020 Stiamo accettando, subendo in religioso silenzio, la deroga a quei diritti e quelle libertà fondamentali ritenute fino a pochi mesi fa intoccabili. Ci sono state imposte misure restrittive spesso arbitrarie e incostituzionali, (il più recente: il divieto di “ora d’aria” per i bambini a scuola) scarsamente rispondenti a evitare il rischio pandemico da Covid-19. Si è arrivati a proporre addirittura l’ingresso in casa da parte delle forze dell’ordine per evitare assembramenti nel proprio domicilio o dimora. Deficienza giuridica e costituzionale allo stato puro! La soluzione prospettata è palesemente incostituzionale perché viola l’articolo 14 della Costituzione che riconosce l’inviolabilità del privato domicilio. La tutela della salute e dell’incolumità pubblica sarà anche importante ma non basta a far sì che la polizia irrompa nelle abitazioni private in tal modalità. Una misura opportunamente stralciata. Una simile deroga è possibile nel nostro ordinamento costituzionale solo se il Parlamento dichiari lo stato di guerra e conferisca al Governo i poteri necessari per farvi fronte. Se non erro, non siamo in guerra. Nonostante questi obbrobri giuridici, tuttavia, c’è chi avrebbe accettato anche queste coercizioni per il senso diffuso di terrore e per il senso di responsabilità indotto. Stiamo attenti a non abbandonare i porti sicuri offerti dallo Stato di diritto e dalla democrazia parlamentare per lidi molto meno sicuri e più pericolosi quali quelli che potrebbero condurci verso l’oclocrazia individualistica o oligarchica. È vero che durante uno stato di emergenza si debbano prendere decisioni rapide e per questo si possano aggirare verifiche e controlli ma è pur vero che le responsabilità e i poteri in tali circostanze non possano essere accentrati nelle mani di pochi o addirittura di uno solo. La compressione di diritti costituzionalmente garantiti esige una “condicio sine qua non”: l’assoluta trasparenza degli atti che riguardano l’emergenza in corso. L’unico mezzo per evitare l’arbitrio del potere pubblico e per tutelare i diritti e le libertà fondamentali dei cittadini è la trasparenza degli atti pubblici o aventi valenza pubblica. Il cittadino ha diritto di conoscere, proprio in quanto tale, i fatti che portano a restrizioni dei propri diritti. Questa trasparenza caratterizza lo Stato di diritto rispetto all’autoritarismo individualistico, dove regna il segreto. Non siamo ancora né consci né preparati a comprendere questa nostra particolare condizione esistenziale. In nome del diritto alla salute non tutto è possibile, occorre sempre rispettare i principi costitutivi dello Stato di diritto e della democrazia rappresentativa. Le restrizioni non possono non avere un tempo limitato alla durata dell’emergenza e sempre alla presenza delle garanzie democratiche e nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali contenute nella Costituzione. Se così non fosse, chi ci garantisce che una simile degenerazione non continui anche fuori dall’emergenza (o in uno stato di emergenza permanente) e simili storture siano usate non a fini di prevenzione del contagio ma per scopi politici occulti? La migliore garanzia per tutti noi è che queste restrizioni provengano dal Parlamento e siano totalmente sottratte ai poteri del singolo e dei pochi in modo che si garantisca univocamente il monitoraggio, il controllo e il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini da parte delle autorità a ciò deputate: Parlamento, Capo dello Stato, Corte Costituzionale. L’oclocrazia non è fantasia o reperto archeologico del passato, è un vecchio strumento di governo che spesso si alimenta di disagi sociali profondi e di crisi ed emergenze continue. L’attuale crisi pandemica può essere terreno in cui possono germogliare semi che hanno attecchito non molti decenni fa. Magari oggi no, ma in futuro possiamo escludere questo rischio? Secondo il compianto scrittore Andrea Camilleri c’è un forte rischio di “ritorno del fascismo”, sia in Italia sia in diversi paesi dell’Europa. Camilleri scrisse di sentirsi alquanto preoccupato per ciò che sta avvenendo nella società e per la continua rassegnazione presente nella gente, che è sempre più schiacciata dalla crisi economica e finanziaria che sta interessando tutto l’Occidente. Meccanismi autoritari potrebbero tornare da un momento all’altro e i segnali attuali non vanno assolutamente ignorati o minimizzati. Non tutte le compressioni dei diritti della persona umana sono giustificabili perciò oggi più che mai vanno evitati gli individualismi che sono alla base della demolizione di una democrazia rappresentativa come la nostra. *Giurista, professore di diritto penale Tutela dei diritti durante il lockdown. Il Consiglio d’Europa esamina l’Italia di Alberto Rizzo Il Dubbio, 21 ottobre 2020 In seguito alla denuncia presentata alla Segretaria Generale del Consiglio d’Europa, da parte dell’Osservatorio per la Legalità Costituzionale, istituito presso il Comitato Popolare per la difesa dei beni pubblici e comuni Stefano Rodotà - composto da giuristi, avvocati, e professori universitari in discipline giuridiche, tra cui il Professor Ugo Mattei dell’Università di Torino - è giunta nelle scorse settimana la decisione in merito alle gravi violazioni dei diritti e delle libertà individuali garantite dalla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), commesse dallo Stato Italiano durante la crisi sanitaria da Covid-19. Tutto nasce dall’esposto alla Segretaria Generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejcinovic Buric, relativo alle violazioni non previamente notificate dal Governo italiano durante il lockdown, come invece previsto ai sensi della Cedu. Il mancato rispetto dell’articolo 15 della Convenzione, infatti, imponeva la previa notifica della sospensione dei diritti fondamentali da parte del Governo italiano al Consiglio Europeo. Di qui, la decisione che ha condotto il Consiglio di Strasburgo ad imporre al nostro Paese il rispetto della stessa Convenzione. Da oggi, pertanto, gli italiani finalmente hanno un’arma giuridica internazionale per difendersi dalle violazioni delle proprie libertà e dei propri diritti fondamentali, in conseguenza delle misure di prevenzione che impattano sulla libertà dei singoli imposte dal Governo Conte, attraverso i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (D.P.C.M.). La Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, non essendo stata sospesa, resta vigente anche durante l’emergenza sanitaria, dando la possibilità agli italiani di chiederne l’applicazione e, quindi, di ricorrere contro eventuali e gravi violazioni perpetrate da parte del Governo italiano. La Segretaria Generale del Consiglio d’Europa ha dichiarato la piena vigenza della CEDU e ciò conferisce piena giurisdizione alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. Come noto, si tratta del Tribunale internazionale con sede a Strasburgo, in Francia. La Corte si compone di un numero di giudici pari a quello degli Stati membri del Consiglio d’Europa che hanno ratificato la CEDU. Ogni persona fisica, ogni organizzazione non governativa o gruppi di privati che ritengano di essere stato vittima di una violazione da parte dello Stato di uno dei diritti e delle garanzie riconosciuti dalla Cedu, o dai suoi protocolli, può presentare ricorso davanti alla Corte Europea. Quest’ultima può essere adita per tutte le fattispecie che si sono create in fase di emergenza Covid-19, tramite ricorsi diretti alla tutela internazionale per il diritto alla vita, il diritto alla libertà, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, delle libertà di pensiero, coscienza, religione, espressione, riunione ed associazione, il divieto di discriminazione, il divieto di abuso dei diritti. Nel concreto, e solo per citare alcune fattispecie concrete, queste spaziano dalle misure di sicurezza tramite D.P.C.M. (trattandosi di norme di secondo livello) alle ordinanze regionali (trattandosi di mere norme amministrative), le quali non contraddicono soltanto il Decreto Legge 125/ 2020, l’articolo 85 del T.U.L.P.S. e la Legge 152/1975, ma anche la Legge 848/1955, la Legge 881/1977 e la Legge 145/2001, trattandosi tutte norme di primo grado nella gerarchia delle fonti del Diritto. In disparte, per il momento, la formulazione di qualsiasi considerazione in ordine agli aspetti economici della vita delle persone e delle imprese, essendosi verificati dei tracolli come conseguenza del lockdown, a seguito del quale - è immaginabile - la povertà ed i suicidi minacciano di provocare molte più vittime del virus. Migranti. I decreti sicurezza hanno davvero bloccato gli sbarchi? Ecco i numeri di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 21 ottobre 2020 Quando il primo giugno 2018 Matteo Salvini diventa ministro dell’Interno gli sbarchi degli ultimi dodici mesi sono 52.194; quando dopo 15 mesi se ne va (5 settembre 2019) scendono a 8.428. Nei 13 mesi successivi con il ministro Luciana Lamorgese gli arrivi dei migranti triplicano fino a raggiungere i 27.775 in un anno. Solo negli ultimi tre mesi, da luglio a settembre, in Italia sbarcano 16.778 immigrati. Più che in tutto il 2019 quando sono stati 11.471. Due le domande: sono stati i decreti Sicurezza di Salvini a bloccare il flusso? E perché questa crescita se le norme dell’ex ministro dell’Interno sono state modificate solo due settimane fa? Ci aiuta a rispondere un’elaborazione dati dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) realizzata per Dataroom. Il numero di sbarchi: che cosa lo influenza - Le “Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”, note come decreto Sicurezza bis, sono approvate dal Consiglio dei Ministri il 14 giugno 2019. La novità di maggior rilievo è l’attribuzione al ministro dell’Interno, del potere di limitare o vietare l’ingresso, il transito, o la sosta di navi nel mare territoriale. Provvedimenti limitativi o impeditivi dovranno essere adottati di concerto con il ministro della Difesa e con il ministro dei Trasporti, e dovrà essere informato il presidente del Consiglio. Ma per capire quel che sta succedendo bisogna tornare indietro. Sull’andamento degli sbarchi i dati raccontano tre storie. Primo: la riduzione degli sbarchi inizia già con il ministro Marco Minniti. Al 12 dicembre 2016, data del suo insediamento al Viminale, gli arrivi sono 181.436, alla fine del suo mandato 72.571. Determinante è l’accordo con la Libia del 2 febbraio 2017 per contrastare le partenze dalle sue coste. La durata del memorandum tra il governo Gentiloni e quello di Tripoli guidato da Al Serraj è triennale, ed è stato rinnovato lo scorso febbraio. In cambio il nostro Paese si impegna a fornire “supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina”, che vuol dire addestrare la Guardia costiera libica e fornirle mezzi e fondi. Inoltre l’Italia fornisce aiuti economici ai sindaci delle tribù per chiudere il confine meridionale del Paese, quello con il Niger, da cui transita la maggior parte dei migranti che entrano dall’Africa subsahariana. Vengono anche finanziati, tra le proteste delle associazioni umanitarie, i centri di accoglienza libici, in realtà strutture detentive visto che in Libia l’immigrazione illegale è punita con la reclusione. Secondo: dopo alcuni mesi dall’accordo con la Libia, da luglio 2017, gli arrivi iniziano a ridursi in modo costante. Questa riduzione continua con l’inizio del primo governo Conte fino a scendere al minimo storico, sotto i 300 mensili, tra gennaio e aprile 2019. Siamo a poco meno di un anno da quando, nel giugno 2018, Salvini annuncia “porti chiusi” e lascia decine di navi in mare per giorni prima di dar loro la possibilità di attraccare sulle coste italiane. Terzo: la possibilità di vietare l’ingresso in Italia alle imbarcazioni di soccorso su ordine del ministro dell’Interno scatta formalmente a giugno 2019, con l’approvazione del decreto Sicurezza bis. Ma paradossalmente proprio allora gli sbarchi iniziano a risalire intorno ai mille al mese. Le crisi in mare: qual è il numero di morti - L’effetto deterrente, dunque, più che dal decreto Sicurezza bis, viene giocato momentaneamente dagli annunci sui porti chiusi e dalle navi lasciate in mare per settimane. Un risultato che si esaurisce nel giro di pochi mesi, anche perché nulla ferma la stagione estiva, quella in cui gli sbarchi possono riprendere con maggior vigore. Ma le conseguenze del decreto si misurano in termini di vite: nei 15 mesi di Salvini ci sono 29 crisi in mare che durano8 giorni ciascuna in media (richieste di attracco in Italia di navi che vengono lasciate a largo). Nei 13 mesi di Lamorgese le crisi in mare sono 31: anche se la ministra non ha mai usato il potere di divieto di attracco, prima di fare entrare le navi si cerca il modo di smistare gli immigrati in arrivo anche in altri Paesi europei. La durata delle crisi è inferiore ai 5 giorni. Risultato: gli annegati in mare sotto Salvini sono 1.369, che scendono a 572 con Lamorgese, mentre il rischio di morte nel Mediterraneo centrale passa dal 6% al 2%. La durezza di quel decreto ha avuto una ricaduta politica, mettendo l’Europa di fronte alle proprie responsabilità e a condividerle. La protezione umanitaria eliminata: perché crescono gli irregolari - Dopo aver visto cosa succede in mare, guardiamo cosa avviene a terra. Il primo decreto Sicurezza di Salvini è dell’ottobre 2018, e di fatto abolisce la protezione umanitaria. Fino ad allora ne beneficiavano circa 20 mila immigrati l’anno, sui 34 mila che complessivamente ottengono una protezione internazionale in Italia (oltre all’umanitaria c’è lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria). In quel momento i dati certificano che il nostro Paese è il più accogliente rispetto al resto d’Europa, con una media del 50% in più di stranieri protetti. È, dunque, giusto e necessario dare una stretta? La risposta la fornisce l’effetto pratico del decreto: chi è in attesa di una protezione, e prima l’avrebbe ottenuta, con la scomparsa dell’umanitaria si vede opporre un diniego e diventa clandestino. Parliamo di 37 mila nuovi irregolari in due anni. A questi numeri si aggiungono tutti coloro che già godevano di una protezione umanitaria (39 mila) e ai quali probabilmente non è stata rinnovata, ma quanti esattamente siano non è dato sapere. Siccome i rimpatri nel frattempo non aumentano (ruotano intorno ai 600 al mese, come negli anni precedenti), si stima che in Italia il numero di chi è senza un permesso di soggiorno oggi sia complessivamente salito sopra i 600 mila, contro i 530 mila di quando si è insediato il governo Conte 1. Secondo le ultime ricerche disponibili, quando uno straniero passa da regolare a irregolare, il rischio che commetta un reato aumenta tra le 10 e le 20 volte. Inoltre i clandestini finiti all’ospedale perché malati di Covid, e che possono essere dimessi, ma devono ancora restare in isolamento, continuano ad occupare posti letto, perché le foresterie adibite a questo scopo non accolgono chi non è in possesso di un codice fiscale. Il decreto Lamorgese: cosa cambia - Il 5 ottobre su proposta del ministro Lamorgese il governo Conte 2 modifica i due decreti Salvini. Il divieto o la limitazione del transito delle navi non potrà più applicarsi alle operazioni di salvataggio dei migranti (in caso di mancato rispetto delle norme di navigazione internazionali il potere di veto resta al ministro dell’Interno che dovrà coordinarsi con quelli delle Infrastrutture e della Difesa e informare il presidente del Consiglio). Per chi è esposto al rischio di “trattamenti inumani o degradanti” torna in vigore anche il meccanismo della protezione umanitaria. Però gli sbarchi erano ripartiti già dal mese di luglio. Non è un caso che gli arrivi siano al 70% dalla Tunisia (ben diverso dal 90% provenienti dalla Libia nel periodo di sbarchi record tra il 2014 e il 2016). È la conseguenza dell’effetto Covid: con il crollo del turismo, aumentano le partenze di chi è senza lavoro. È questa la ragione delle recenti missioni in Tunisia del ministro degli Esteri Luigi Di Maio e di Lamorgese. La scommessa è sempre la stessa, e non è ancora stata vinta da nessuno: non farci travolgere dai nuovi arrivi, ma senza sacrificare vite in mare e creare nuove sacche di irregolari. Una partita più complessa di un decreto. Cannabis terapeutica, divieto di spedizione e limiti alle farmacie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 ottobre 2020 La cannabis terapeutica è legale, ma non è sempre reperibile. Infatti migliaia di persone hanno ancora il problema di non poter ricevere la quantità di cannabinoidi prevista dal proprio medico. Alcuni se la producono da soli e, essendo illegale, finiscono diritti in galera. Altri invece rimangono in balia dei propri insopportabili dolori. Ma se a questo ci aggiungiamo il fatto che il ministro della salute Roberto Speranza ha vietato la possibilità alle farmacie di spedire - tramite corriere - il farmaco al paziente che magari è impossibilitato di muoversi per via della malattia, lontananza o isolamento per Covid 19, allora il problema diventa devastante. Per comprendere meglio, c’è da aggiungere un dato: le farmacie galeniche che forniscono la cannabis terapeutica sono poche decine. Pensare di vietare la spedizione tramite corriere vuol dire anche scoraggiare le farmacie ad offrire questo servizio. Infatti, sono poche anche perché ci vuole un personale qualificato ed occorre molto tempo per allestire alcuni tipi di preparazioni. Il ministro Speranza, con una recente comunicazione, ha scritto nero su bianco che “la dispensazione del medicinale, ai sensi dell’articolo 45 del Dpr 309/ 90, deve essere effettuata in farmacia, dietro presentazione di ricetta medica, direttamente al paziente o a persona delegata”. Un paziente, quindi, se è impossibilitato a muoversi, ha due possibilità: delega una persona che prende il medicinale al posto suo oppure, se è impossibilitato, si arrangia: o ricorre al “fai da te” e quindi c’è il rischio di finire in prigione, oppure accetta di soffrire di indicibili dolori. Non è finita qui. Il 23 settembre scorso si è aggiunto un altro problema con la circolare a firma dal nuovo direttore generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico. Forum Droghe, Associazione Luca Coscioni, Società della Ragione, Cgil, Cnca, Lila, Meglio Legale, Fatti Segreti, La Casa di Canapa, Radicali Italiani hanno stigmatizzato il passaggio in cui sono “consentite solo le forme farmaceutico del decotto e della vaporizzazione e esplicitamente negare la possibilità di prescrivere resine e oli”. Un passaggio incomprensibile per le associazioni visto che - sottolineano in una lettera inviata al ministro Speranza - le preparazioni a base di cannabis in olio sono prescritte da molti anni in Italia ed utilizzate insieme alle capsule decarbossilate, in particolare per dosare con maggiore facilità e sicurezza la quantità di farmaco assunto. “Inoltre - aggiungono le associazioni - la forma del decotto, che di norma viene preparato dallo stesso paziente con metodi casalinghi, è una forma “antica” che non garantisce in alcun modo sulla qualità e quantità del principio attivo estratto”. Ricordiamo che dal 2007 l’Italia consente la prescrivibilità dei prodotti a base di cannabis per vari tipi di condizioni e dal 2012 una quindicina di Regioni ha adottato leggi per rimborsare i prodotti specificando chi possa scrivere le ricette e chiarendo il catalogo dei prodotti rimborsabili. Dal 2015 lo Stabilimento Farmaceutico Militare di Firenze coltiva infiorescenze ricche di Cbd (uno dei due principi attivi utilizzati per fini terapeutici) che spedisce direttamente alle farmacie che ne fanno richiesta. Da una decina d’anni la stragrande maggioranza dei prodotti disponibili sul mercato proviene dall’Olanda, mentre dal 2018 sono stati importati prodotti anche dalla Germania, a seguito di specifiche gare d’appalto. Il rischio di queste disposizioni ministeriali è quello di disincentivare la produzione dei farmaci a base di cannabis da parte delle poche farmacie specializzate e, quindi, creare insormontabili difficoltà ai malati. Retorica securitaria, la droga è il capro espiatorio di Elia De Caro Il Manifesto, 21 ottobre 2020 Mentre nel mondo si legalizza, in Italia si reprime: le novità introdotte dal nuovo decreto sicurezza della ministra Luciana Lamorgese. Il nuovo decreto sicurezza contiene interventi criticabili in materia di ordine pubblico espandendo i concetti di decoro e (in)sicurezza urbana e incrina il principio di presunzione di innocenza e quello di rieducazione della pena. Sono tante le disposizioni introdotte censurabili. Il cuore nevralgico di tali interventi si rinviene però nell’aggravamento dei divieti di accesso a determinati luoghi per persone che siano state denunciate per il reato di cui all’art.73 DPR 309/90 ovvero detenzione ai fini di cessione a terzi di sostanze stupefacenti. Si aggravano i dispositivi introdotti nel nostro ordinamento dagli art. 13 e 13 bis del decreto Minniti su decoro e sicurezza urbana. Quelle norme prevedevano che nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o confermata in grado di appello nel corso degli ultimi tre anni per la vendita o cessione di sostanze stupefacenti per fatti commessi nelle immediate vicinanze di scuole, università, locali pubblici o aperti al pubblico, il Questore potesse disporre il divieto di accesso a tali locali o esercizi analoghi specificatamente indicati e il divieto di stazionamento nelle immediate vicinanze degli stessi. Il divieto aveva una durata da 1 a 5 anni e la sua violazione comportava la sanzione amministrativa da 10 a 40.000 euro e la sospensione della patente da 1 a 6 mesi (art 13 DL 14 n.2017). L’art 13 bis in modo similare prevedeva analoga possibilità da parte del Questore di imporre tale divieto di accesso e di stazionamento vicino a determinati locali pubblici o di pubblico intrattenimento per chi fosse stato condannato anche con sentenza confermata in appello per delitti contro la persona e il patrimonio e per il reato di cui all’art 73 DPR 309/90 negli ultimi tre anni in occasione di gravi disordini avvenuti in pubblici esercizi. In questo caso il divieto poteva avere una durata dai sei mesi ai due anni. La violazione di tali divieti era punita con la reclusione da sei mesi a un anno e la multa da 5 a 20.000 euro. Con la nuova formulazione introdotta dalla ministra Lamorgese viene ampliata la platea dei destinatari di tali ordini includendovi anche le persone che siano state solo denunciate negli ultimi tre anni per il reato di cui all’art 73 laddove commesso presso i luoghi sopra indicati. La violazione di tale divieti non è più sanzionata in via amministrativa ma integra un reato con pene dai sei mesi ai due anni di reclusione e la multa da 8 a 20.000 euro. Parimenti i provvedimenti di cui all’art 13 bis ora possono essere adottati nei confronti di persone anche solo denunciate per reati contro il patrimonio se commessi nel corso di gravi disordini e qualora dalla loro condotta possa derivare un pericolo per la sicurezza. Scompare in questo caso il riferimento all’art.73 ma viene previsto che per chi ha riportato una condanna anche in via non definitiva per tali reati contro il patrimonio, possa essere disposta tale misura pur se non si sono verificati disordini in occasione del reato ascritto. Per chi è stato posto in stato di arresto o fermo convalidato tale divieto può essere esteso anche all’intera provincia e senza dover far riferimento ad un pericolo per la sicurezza pubblica. Vengono aumentate le pene previste per la violazione di tali divieti e portati da sei mesi a due anni di reclusione e con la multa da 8 a 20.000 euro. Viene infine introdotta una modalità di contrasto al traffico di stupefacenti consistente nella formazione di un elenco di siti web che debbano ritenersi utilizzati per la commissione di reati in materia di stupefacenti con la previsione di un sistema di filtraggio da parte dei provider che ne inibisca l’accesso agli stessi. La violazione di tale disposto comporta una sanzione amministrativa da 50 a 250.000 euro. La morale è banale. Nel mondo si legalizza, in Italia si reprime. Al via Women 20: “L’Arabia liberi le attiviste” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 21 ottobre 2020 Le associazioni per la tutela dei diritti umani si mobilitano per chiedere una svolta a Riad. Si sono aperti ieri i lavori “virtuali” del summit Women 20, l’engagement group ufficiale del G20, quest’anno presieduto dall’Arabia Saudita, che ha il compito di avanzare proposte e raccomandazioni sulla parità di genere ai leader delle principali economie mondiali. Alla tre giorni partecipano oltre 80 esperte di Ong, aziende, istituzioni accademiche, che discutono come “realizzare le opportunità del XXI secolo” per tutti e per tutte. Per l’Italia parlerà domani Linda Laura Sabbadini, pioniera delle statistiche di genere, che sarà Chair della presidenza italiana il prossimo anno. Le organizzazioni per i diritti umani non chiedono un boicottaggio, come quello che diversi sindaci - di Londra, Parigi, New York, Los Angeles - hanno deciso per il summit delle città, l’Urban 20, tenuto nell’anniversario dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul. Amnesty International e Human Rights Watch però invitano le partecipanti a parlare chiaro: avete “l’opportunità e la responsabilità” di chiedere il rilascio delle attiviste per i diritti delle donne che si trovano in carcere a Riad, non “fatevi usare” e incoraggiate riforme significative. Il volto di questa campagna è quello di Loujain Al Hathloul, una di 17 attivisti per i diritti umani - quindici donne, due uomini - arrestati nel 2018 (mentre il Regno metteva in atto riforme come la guida dell’auto per le donne) con l’accusa di minare la stabilità con l’assistenza economica di “entità straniere” e sovvertire le tradizioni nazionali e religiose. Cinque di loro restano in prigione: Samar Badawi, Naseema al-Sada, Nouf Abdulaziz, Maya’a al-Zahrani e la stessa Loujain che secondo i familiari è stata sottoposta a torture e aggressioni sessuali. Sua sorella Lina chiede su Twitter alle partecipanti al W20: “Per favore, chiedete il suo rilascio”. E a Riad: “Liberate i prigionieri di coscienza, se volete provare che il Regno è cambiato”. Congo. Lo Stato islamico “libera” oltre mille detenuti dalla prigione di Béni di Stefano Mauro Il Manifesto, 21 ottobre 2020 Una spettacolare azione che confermerebbe la saldatura tra Isis e ribelli ugandesi dell’Adf. Un problema in più per un’area della Repubblica democratica del Congo in cui operano già un centinaio di milizie fuorilegge. Più di mille detenuti sono fuggiti ieri dalla prigione centrale di Kangbayi a Béni, nella Repubblica democratica del Congo (Rdc), in seguito a un attacco rivendicato dall’Isis. Le circostanze di questa spettacolare azione non sono ancora chiare. L’attacco è avvenuto martedì 20 ottobre intorno alle 4 del mattino. “La postazione militare presente nei pressi del carcere è stata attaccata - ha dichiarato il sindaco di Béni, Modeste Bakwanamaha, all’agenzia Afp - gli aggressori erano in gran numero e solo un centinaio degli oltre 1400 detenuti non ha approfittato dell’attacco per fuggire”. Nel pomeriggio di ieri lo Stato Islamico ha rivendicato l’attacco, in una dichiarazione ufficiale rilasciata dalla sua “agenzia stampa” Amaq, secondo quanto riporta il sito di Site Intelligence. Nell’aprile del 2019 Daesh aveva rivendicato, sempre attraverso Amaq, il suo primo attacco nella Repubblica Democratica del Congo colpendo la caserma militare di Bovota, nella provincia del Nord Kivu al confine con l’Uganda, che aveva causato la morte di 5 militari. Da allora il gruppo jihadista ha rivendicato la responsabilità di altre operazioni sul suolo congolese, anche se secondo numerosi analisti non è ancora certa “la sua reale presenza nel paese”. In un rapporto del novembre 2018, il Congo Study Group ha indicato connessioni tra Isis e uno dei principali gruppi di ribelli presenti nell’area: le Forze democratiche alleate (Adf), un gruppo armato vicino all’Islam salafita, nato a metà degli anni 90 nel vicino Uganda per cercare di rovesciare il regime di Kampala Attraverso l’analisi dei video di propaganda e dei numerosi attacchi - con la morte di oltre duemila civili dal 2017 - gli esperti hanno stabilito che “il gruppo ha aderito allo Stato Islamico insieme ad altri gruppi jihadisti, raggruppati nella Madina Tauheed Wau Mujahedeen (Mtm), con una bandiera simile a quella usata da Al-Shabaab e Boko Haram”. Interrogato su questo argomento da France 24, il presidente congolese Félix Tshisekedi ha dichiarato che “l’Adf ha aderito alla logica terroristica sostenuta dallo Stato Islamico e che la maggior parte dei prigionieri liberati dalla prigione di Béni erano combattenti di quella formazione”. “La minaccia e i rischi di collegamenti tra gruppi armati ribelli nell’est del paese e gruppi jihadisti - ha continuato Tshisekedi - è ormai una realtà perché il nostro paese è diventato terreno fertile per lo Stato islamico, a causa della povertà diffusa e delle numerose rivolte nelle regioni di Béni e Butembo in particolare”. Per la Repubblica democratica del Congo, la posta in gioco è alta. La presenza di Daesh sul suo suolo rappresenterebbe un’ulteriore problema oltre alle numerose fazioni ribelli, almeno un centinaio, presenti sul territorio, fattore che potrebbe giustificare un maggiore sostegno operativo da parte degli oltre 15mila caschi blu della missione di pace Monusco.