Il ministro Alfonso Bonafede non vuole far luce sulle torture in carcere di David Allegranti Il Foglio, 20 ottobre 2020 Nel 2020 le prigioni italiane continuano a essere un posto molto brutto. I detenuti non rischiano soltanto di patire le conseguenze dell’emergenza sanitaria (il carcere si trova a suo agio con il lockdown, che lo rende ancora più impermeabile), ma anche le violenze della polizia penitenziaria. Questa è quantomeno l’accusa a carico di 5 agenti nel carcere di Ranza, a San Gimignano, per fatti risalenti al 2018. All’epoca c’era ancora ministro dell’Interno Matteo Salvini, che solidarizzò con gli agenti accusati del reato di tortura, senza minimamente porsi qualche domanda sull’accaduto. Due anni dopo - governo diverso, maggioranza diversa, ma stesso ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede - le cose non sono cambiate. Il ministero della Giustizia, tramite avvocatura dello Stato, ha presentato l’atto di costituzione, all’interno del procedimento per i reati contestati agli agenti, contro L’Altro diritto, l’associazione Garante delle persone private della libertà personale del Comune San Gimignano, che si era costituita parte civile (il Ministero ne ha chiesto l’esclusione dal procedimento). La prima udienza c’è stata il 10 settembre, la prossima ci sarà il 5 novembre. Al ministro Bonafede evidentemente però l’accertamento dei fatti pare poco importante. Avrebbe potuto infatti costituirsi direttamente lui parte civile in quanto persona offesa, visto che gli agenti di polizia penitenziaria sono dipendenti del suo ministero, ma ha scelto di non farlo. È stato dunque costretto dall’Altro diritto, che l’ha chiamato a responsabile civile. Per intenderci, la differenza sta nel fatto che la parte civile costituita insite per la condanna degli imputati, mentre il responsabile civile siede accanto agli imputati, essendo obbligato in solido all’eventuale risarcimento del danno alla parte civile stessa. Non è un dettaglio secondario: l’Altro, diritto come associazione, è Garante delle persone private della libertà personale al carcere di San Gimignano, ha il compito di assumere, come figura autonoma e nel rispetto del principio di indipendenza, “ogni iniziativa a tutela dei diritti delle persone detenute, anche negli istituti penitenziari, ponendo in essere ogni azione necessaria ad assicurare il diritto alla salute e il miglioramento della qualità della vita degli stessi, sollecitando le amministrazioni competenti affinché assumano le iniziative volte ad assicurare i diritti fondamentali delle persone ristrette, segnalando i fattori di rischio o di danno di cui venga a conoscenza e intervenendo nei confronti delle strutture e degli enti competenti in caso di inosservanze che compromettano l’erogazione delle prestazioni inerenti i diritti delle persone ristrette, come meglio specificato dall’articolo 3 del Regolamento del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale approvato con deliberazione del Consiglio comunale di San Gimignano n. 19 del 21.03.2012”. Quello di San Gimignano non è l’unico caso. Di recente, alcuni giornali - Domani e il Riformista - hanno affrontato a lungo la storia delle presunte torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove circa 300 agenti avrebbero fatto parte di una spedizione punitiva contro i detenuti. Ma in totale i procedimenti in corso per episodi di tortura in cui sarebbero implicati agenti di polizia penitenziario sono otto: San Gimignano, Monza, Torino, Milano, Melfi, Santa Maria Capua Vetere, Palermo, Pavia. Insomma, se il ministero della Giustizia volesse approfondire la questione avrebbe di che lavorare. Purtroppo. Il Garante dei detenuti: “Anarchici, islamisti e terroristi tutti insieme in Alta Sicurezza” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 ottobre 2020 Ma possono convivere, in carcere, detenuti anarchici e terroristi islamisti nella stessa sezione di alta sicurezza? La risposta ovvia è no, ma purtroppo è ciò che accade nelle carceri italiane. A chiedere un ripensamento di tali sezioni, tra l’altro definite da nessuna norma, ma solo dovuto da atti amministrativi, è l’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà. Tramite una nota fa sapere che ha condotto una visita alle sezioni di Alta sicurezza 2 (AS2), riservate alle persone imputate o condannate per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico. Tali sezioni, come detto definite con atto amministrativo e non da alcuna norma, “hanno perso nel corso degli anni - sottolinea il Garante - la caratteristica di omogeneità che le caratterizzava, in quanto le persone in esse detenute rispondono di reati legati a tre diversi fenomeni: quello del radicalismo violento di tipo islamista, quello dell’antagonismo politico anche di tipo anarchico, e quello residuale dei cosiddetti “anni di piombo” degli anni 70 e 80”. Proprio per questa disomogeneità che rende vago ogni riferimento a possibili percorsi di reinserimento, il Garante nazionale ha effettuato una visita alle quattro sezioni di AS2 in cui tali diverse tipologie si trovano a convivere. Queste sono negli Istituti di Ferrara, Terni, Rossano e Rebibbia femminile. Il Garante denuncia che si tratta di situazioni diverse tra loro in cui vi è di fatto sempre una prevalenza numerica di una tipologia rispetto ad altre, rendendo così ancora più complessa la loro gestione nel pieno rispetto della finalità costituzionale della pena. Tanto più quando soltanto una o due persone di una determinata caratteristica sono poste in questo contesto del tutto diverso e distante per lingua, religione, cultura. “Si determina così un microcosmo detentivo - prosegue il Garante - (le sezioni visitate ospitavano da un minimo di 6 a un massimo di 17 persone), separato dal resto dell’Istituto e da ogni praticabilità di obiettivi diversi dal trascorrere il tempo, segnando oltretutto una disparità di trattamento rispetto alle altre sezioni”. Sottolinea, inoltre, che tale disparità si ripropone anche laddove i progetti sono pensati in maniera da raggiungere la maggior parte delle persone delle sezioni a discapito dei pochi. “In tal modo - approfondisce il Garante -, le “minoranze” interne alle sezioni di AS2 miste sono più penalizzate degli altri. A ciò si aggiungono talvolta situazioni di totale incompatibilità tra persone ristrette nella stessa sezione. Talvolta anche la sicurezza di chi si trova in un contesto così diverso e quantitativamente rilevante può presentare problemi”. Il Garante nazionale ritiene quindi necessario un ripensamento delle sezioni di AS2 che, con l’evolversi del contesto sociale, hanno perso quella caratteristica propria sulla base della quale erano state istituite. Come da consuetudine invierà a breve al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria il Rapporto tematico sulle sezioni di AS2. Rapporto che sarà, come da prassi, successivamente pubblicato sul sito del Garante stesso con la risposta dell’Amministrazione. L’osservazione del Garante fa il paio con la situazione di Cesare Battisti, l’ex terrorista del gruppo Proletari Armati per il Comunismo, che si trova appunto in AS2 del carcere di Rossano assieme agli islamisti. Anche perché, come denuncia il suo legale Gianfranco Sollai, è stato nel passato vittima di pesanti minacce da Al Qaeda mentre era detenuto in Francia. Il Dap però smentisce che abbia ricevuto alcuna intimidazione. Resta però sullo sfondo la problematica di una convivenza forzata tra due realtà agli antipodi e quindi in contrasto con il trattamento risocializzante. Cesare Battisti rinchiuso con i terroristi islamici di Tiziana Maiolo Il Riformista, 20 ottobre 2020 Mi dite che cosa c’entra con gli estremisti da cui era pure stato minacciato quando in Francia aveva manifestato contro il velo? Per il garante Palma le sezioni antiterrorismo sono un “sistema da rivedere”. Un anno e mezzo da detenuto modello nel carcere di Oristano, con la conquista di novanta giorni di liberazione anticipata e due provvedimenti positivi del giudice di sorveglianza che attestano il suo comportamento esemplare. Questo il passato prossimo. Ma, da quando Cesare Battisti è stato trasferito in Calabria, a Rossano, la sua vita è diventata un inferno. Sarà il suo brutto carattere o sarà la sua capacità di fare valere i propri diritti. O non sarà invece la nuova linea Petralia-Tartaglia, i dirigenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che stanno portando nelle carceri la logica della loro cultura “antimafia”? Fatto sta che quel che è successo nelle ultime due settimane all’ex dirigente dei Proletari Armati per il comunismo ha dell’incredibile. Sembra che non possa più muoversi senza beccarsi una punizione, come se fosse stato preso di mira. Nel carcere di Oristano, dove pure gli hanno fatto scontare un anno e mezzo di isolamento, di cui dodici mesi illegittimi in quanto non previsti dalla sua sentenza di condanna, Battisti non ha mai avuto problemi di conflittualità con la direzione né con gli agenti di polizia penitenziaria. Ha fatto denunce alla magistratura per l’isolamento illegittimo, si è lamentato per un’alimentazione non consona alle sue condizioni di salute e poi uno sciopero della fame per far valere i propri diritti. Ma senza che i suoi comportamenti fossero considerati degni di punizione. Non si è lamentato per la classificazione della sua detenzione, anche se lo ha fatto per lui il suo legale, l’avvocato Davide Steccanella. Anche nell’ultima ordinanza della corte d’appello di Milano, quella che in maggio aveva rigettato la richiesta di tramutare la pena dell’ergastolo con quella a trenta anni di carcere, l’autorità giudiziaria aveva ribadito che Cesare Battisti deve avere un percorso carcerario assolutamente normale e può godere di ogni beneficio, come gli altri detenuti. Non è un prigioniero “ostativo”, insomma, di quelli che subiscono il regime dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Il Dap del nuovo corso Petralia-Tartaglia (o Tartaglia-Petralia) però si ostina a considerare Cesare Battisti la stessa persona che era quarant’anni fa, quando era un giovane rivoluzionario che ha rapinato, ferito e ucciso. Gli ha scattato una fotografia allora e quell’immagine gli è rimasta appiccicata addosso. Così lo classifica AS2, cioè alta sicurezza riservata, nella situazione di oggi, ai terroristi islamici o a qualche anarchico in vena di sovversione. Cui si aggiungono i terroristi di ieri, cioè quegli degli anni settanta del secolo scorso, i quali però non sono in carcere. Con l’eccezione di Cesare Battisti. Sono classificazioni ormai desuete, come ha denunciato il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, che proprio ieri è andato in visita al carcere di Rossano e ha incontrato Battisti. Lui gli ha raccontatole sue disavventure delle ultime ore: i 15 giorni di sospensione dalle attività comuni dopo che un ispettore si è sentito oltraggiato dalle sue proteste. Altri 15 giorni di punizione perché lui si rifiutava di allontanarsi dal reparto “Covid” dove era stato collocato in arrivo dalla Sardegna. E infine ancora sette giorni di “pena” perché, mentre era al telefono con il fratello (il permesso era stato accordato solo per un colloquio con il congiunto) si era fatto passare al telefono un’altra persona, di sesso femminile. Piccole cose, grandi cose nel regime carcerario. L’insofferenza da una parte, il puntiglio punitivo dall’altra. In carcere, si sa, quando sei preso di mira, la tua vita può diventare veramente difficile. Mauro Palma, che ha iniziato nella sua veste di garante un giro nelle uniche quattro sezioni di Alta Sicurezza 2 (Ferrara, Terni, Rossano e Rebibbia femminile) esistenti, ha preso nota di tutto e ha emesso un comunicato preciso e severo. Ha ricordato innanzi tutto che nessuna norma ha mai istituito queste sezioni antiterrorismo, frutto di decisioni di tipo amministrativo, che non tengono in conto la disparità di situazioni che sono state messe insieme. Che cosa può avere a che fare Cesare Battisti con i terroristi islamici, da cui peraltro ha anche ricevuto minacce di morte quando aveva manifestato insieme ad altri intellettuali in Francia contro il velo? Va a finire, dice ancora Mauro Palma - e la sua è una denuncia molto forte - che alcuni di questi detenuti finiscano con l’essere discriminati rispetto a tutti gli altri, oltre a correre qualche pericolo per la propria sicurezza. Questo sistema va ripensato e lo suggeriremo in una nostra relazione al Dap - conclude il garante - perché non garantisce il percorso di reinserimento dei detenuti. Ma l’impressione è invece che il nuovo corso della dirigenza del Dap stia andando nella direzione opposta. Perché se tutto è mafia, come pare pensino i nuovi dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, il carcere va trattato come una grande indistinta Cosa Nostra. Un atteggiamento contrario all’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, che ha più il sapore della vendetta che non quello della rieducazione. Cesare Battisti è oggi vittima di questo tipo di sub-cultura. Cgil: “Sì al lavoro per i detenuti, ma retribuito” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 ottobre 2020 Il ministro della Giustizia lo ha ritenuto il fiore all’occhiello del sistema penitenziario, tant’è vero che lo ritroviamo nell’elenco dei progetti stilato dal governo italiano per chiedere i fondi europei del Recovery Fund. Parliamo del progetto di reinserimento socio-lavorativo in lavori di pubblica utilità rivolti ai detenuti. Lavori non retribuiti, ma svolti a titolo volontario. Tutto è iniziato con l’inaugurazione “Mi riscatto per Roma” fino ad estenderlo in varie parti del nostro Paese. Infatti molti comuni hanno cominciato a far lavorare i detenuti, a gratis, per la manutenzione delle strade, i giardini, insomma tutto quello che di solito viene appaltato alle ditte. Poche sono state le critiche, ma questa volta ad alzare la voce è la Cgil che si è scagliata contro il comune di Rogoredo: secondo il sindacato i detenuti devono essere pagati. “Abbiamo appreso della volontà di attivare un progetto di manutenzione di un’area del parco di Rogoredo, dai prossimi giorni in concessione al comune di Milano, da realizzarsi attraverso un programma di lavori di pubblica utilità svolto da detenuti della Casa di Reclusione di Milano Opera. Riteniamo questa scelta profondamente sbagliata”, a dirlo in una nota è appunto la Cgil di Milano. “Il lavoro è principio fondante la nostra società - spiega il sindacato di lavoratori - architrave della Costituzione che lo tutela in tutte le sue forme. Il lavoro dei detenuti è strumento fondamentale per dare piena attuazione ai dettami costituzionali e dell’ordinamento penitenziario sulla funziona rieducativa della pena. Lo è però nel momento in cui il lavoro è riconosciuto, è tutelato ed è retribuito dignitosamente”. Prosegue la nota della Cgil: “Crediamo che il lavoro di pubblica utilità non si muova in questa direzione. Al contrario lo riteniamo essere figlio di una visione e di un pensiero che deve essere superato e che vede nel lavoro penitenziario un carattere espiatorio e risarcitorio. Produce inoltre l’enorme rischio che sostituisca il lavoro che molte volte viene realizzato dalle cooperative sociali, soggetti che svolgono un ruolo fondamentale nell’inserimento lavorativo delle persone ristrette”. Il sindacato sottolinea il fatto che non è oggettivamente tollerabile una ‘ guerra’ tra soggetti fragili. “Se quindi è assolutamente positiva l’idea di coinvolgere lavoratori detenuti nella manutenzione e della pulizia di un luogo di tutti, come un parco - prosegue la Cgil -, siamo altrettanto convinti che questo non possa che passare da un pieno rispetto dei diritti del lavoro”. Conclude infine il sindacato: “Da Milano pensiamo debba partire un messaggio chiaro. Un messaggio che dica a tutto il Paese che sul lavoro penitenziario è necessario investire, che è fondamentale garantire percorsi di orientamento al lavoro e di formazione a tutti i detenuti, che bisogna dare piena attuazione alla legge Smuraglia, che serve un grande lavoro culturale, che racconti di come i percorsi lavorativi che garantiscono dignità, diritti e autonomia sono un valore per la persona detenuta e hanno un valore per tutta la collettività”. Spesso i detenuti si tengono in vita col telefono di Carmelo Musumeci agoravox.it, 20 ottobre 2020 Invece di liberalizzare le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri familiari, come già avviene in molti Paesi, il legislatore italiano ha creato un nuovo reato, ma chi è quel prigioniero che non rischierà quattro anni di carcere per sentire la voce dei propri figli? Con la nuova legge, una telefonata che fuori costa pochi centesimi in carcere potrebbe costare quatto anni di carcere: in questo modo i nostri legislatori pensano di evitare che i telefoni entrino in carcere. Non sanno quanto si sbagliano, rischiano solo di riempire le carceri, perché quando sei murato in una cella, solo e disperato, una telefonata con la donna che ami o con una persona cara, ti salva la vita. Si parla spesso di responsabilizzazione dei detenuti, ma è difficile che un detenuto si senta responsabile quando ti impediscono di relazionarti con le persone che ami. È difficile pentirsi del male fatto quando una volta in carcere, in nome del popolo italiano, ti limitano di parlare al telefono con i tuoi genitori anziani, ti proibiscono di dare, o ricevere, un bacio o una carezza in intimità con la propria compagna o con i propri figli. In questo modo, con il passare degli anni, in carcere smarrisci la forza e la voglia di amare. E la cosa più tremenda è che non ti accorgi neppure di perderla e col tempo “l’Assassino dei Sogni” (come chiamo io il carcere) ti mangia tutto l’amore che avevi prima di entrare in galera. Alla lunga il carcere divora l’amore di chi sta fuori e uccide l’amore di chi sta dentro. E l’amore in carcere quando finisce non fa rumore, ti spezza solo il cuore. Credo che nessuna pena, nessuna legge, dovrebbe impedire di comunicare, di amare, di dare un bacio, una carezza alle persone che ami, neppure in nome della sicurezza sociale. Eppure nelle nostre Patrie Galere accade anche questo. Sembra che l’Assassino dei Sogni odi l’amore e usi le sbarre, i blindati e i cancelli per non farlo entrare, neppure per telefono. Credo che in fondo i detenuti italiani non chiedano molto, neppure la luna, chiedono solo, come accade in molti Paesi del mondo, di continuare a rimanere umani per potere amare ed essere amati, anche per telefono. Alcuni professionisti dell’antimafia si giustificheranno sostenendo che gli altri Paesi possono liberalizzare le telefonate perché non hanno detenuti mafiosi, ma questa è una bugia, perché le telefonate si possono registrare e ascoltare. Molti Paesi del nord Europa trattano meglio i loro prigionieri perché si dicono che “Il detenuto di oggi sarà il mio vicino di casa domani” invece in Italia, nella maggioranza dei casi, la detenzione è molto più illegale e stupida del crimine che uno ha commesso. E spesso non serve a nulla. In molti casi serve solo a far incattivire e a far diventare più delinquente chi la subisce. In carcere in Italia, il tuo reato sembra ti faccia perdere anche tutta la tua umanità. In fondo i prigionieri chiedono solo una vita più umana e un po’ d’amore. È già difficile essere dei buoni padri (e nonni) fuori, immaginatevi dentro, con solo poche ore all’anno di colloqui, che, oltretutto, se sei sbattuto in carceri lontani da casa non riesci neanche a fare. E allora ti tocca fare il padre (e il nonno) per telefono anche se rischi quattro anni di carcere, ma spesso i prigionieri si tengono in vita solo per amore. Il 37% degli italiani dice sì alla pena di morte di Chiara Viti Il Riformista, 20 ottobre 2020 È quello che emerge da un recente sondaggio di Swg. Tre anni fa la percentuale era del 35%, nel 2015 del 25%. Oggi quasi quattro connazionali su dieci sarebbero favorevoli all’iniezione letale. La pena di morte è stata ufficialmente abolita nel 1947 e definitivamente cancellata dalla nostra Costituzione nel 2007, eppure gli italiani non sembrano essere così contrari. I dati che emergono da un recente sondaggio elaborato da Swg (e offerto all’Huffington Post) raccontano un Paese pronto a somministrare, senza pietà, iniezioni letali. Il 37% degli intervistati si è dichiarato favorevole, tre anni fa la percentuale era del 35%. Nel 2010 eravamo al 25%. Il dato cresce di più di un punto all’anno e se questo trend forcaiolo continuerà, con questi ritmi, chissà se fra meno di dieci anni saremo pronti a organizzare esecuzioni in diretta streaming. Basta con la pietà e con il buonismo, sì alle sedie elettriche, magari di ultima generazione. Ma di chi è la colpa? Degli immigrati! Qualcuno è già pronto a twittare. L’Italia è uno dei paesi europei più sicuri, ma fra i casi di cronaca nera raccontati sui giornali, le opinioni di improvvisati opinionisti nei salotti tv, ecco che gli italiani sono pronti a invocare punizioni esemplari e a improvvisarsi criminologi, mentre si diffonde un sentimento collettivo di paura e sospetto che altera la realtà. Eccolo qua il punto di partenza di un legislatore pigro che inasprisce le pene, acconsente a uno scellerato uso dei trojan e sospende la prescrizione. Ma non saranno allora i ritardi e le disfunzioni del sistema giustizia il problema? Tra innocenti in carcere e colpevoli a piede libero, restiamo tutti sotterrati sotto agli enormi faldoni stipati, da anni, nelle procure. Mentre più di qualcuno è pronto a mettere in piedi veri e propri plotoni d’esecuzione, nel mondo sono ben 142 gli stati che hanno abolito la pena di morte o che comunque non eseguono condanne da molti anni. L’Oceania è l’unico continente libero dalla pena di morte. Lo sarebbero anche l’Europa e le Americhe, se non fosse per la Bielorussia e gli Stati Uniti d’America dove dopo 17 anni “grazie” al presidente Donald Trump sono ripartite le esecuzioni. Discorso a parte va fatto per la Cina che continua a considerare i dati sulla pena di morte un segreto di stato. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International in Medio Oriente Iran, Iraq e Arabia Saudita sono poi tra i primi cinque stati per numero di esecuzioni. Qualche passo avanti lo ha fatto l’Africa sub-sahariana, dove alla fine dell’anno scorso la Corte africana dei diritti e dei popoli si è pronunciata contro l’obbligatorietà della pena capitale e dunque in favore del principio della discrezionalità del giudice. Lo scorso anno nel mondo sono state però almeno 657 esecuzioni. Per fortuna l’orientamento delle nostre istituzioni non sembra allinearsi con la sempre più invocata “pancia del paese”. Qualche giorno fa la vice ministra degli Esteri Marina Sereni, intervenendo in video conferenza in occasione del decennale della nascita della Commissione internazionale contro la pena di morte ha dichiarato: “Nel corso degli anni abbiamo contribuito attivamente a diverse iniziative per sensibilizzare le opinioni pubbliche sull’applicazione della pena di morte a persone vulnerabili, ma anche sulle tantissime altre ragioni che devono spingerci a fermare le esecuzioni”. Ma i dati ci sono e parlano chiaro. Forse invece di sperare inerti di non regredire alla legge del taglione dovremmo ripensare seriamente il sistema giustizia. Rendere più agile il lavoro dei tribunali, senza rinunciare però al diritto di un processo giusto. È tempo di smetterla di accettare, a prescindere, discorsi del tipo “chiudiamolo dentro e buttiamo la chiave, deve marcire in carcere” o peggio “si merita la morte”. Non è la soluzione. Per invertire la tendenza c’è bisogno di riformare il sistema giustizia e migliorare il sistema carcerario, così che i discorsi sulla pena di morte restino chiacchiere da bar e che non si possano tramutare in una spaventosa realtà. Davigo in pensione e fuori dal Csm “Restaurazione nella magistratura” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 20 ottobre 2020 Voto a maggioranza: “Un pensionato non può rappresentare le toghe”. Nelle chat attacchi al vicepresidente Ermini. La trama è scespiriana. Mentre testimonia a Perugia, convocato dallo stesso Luca Palamara che ha appena contribuito a espellere dalla magistratura, Piercamillo Davigo va in pensione e viene giubilato dal Consiglio superiore della magistratura dove era entrato due anni fa, plebiscitato dai colleghi per dare l’assalto alle correnti. Chi gli aveva parlato negli ultimi giorni aveva percepito, oltre la proverbiale corazza da ufficiale di cavalleria nella battaglia di Guastalla, la percezione di un esito infausto. La questione della permanenza nel Csm anche da pensionato s’era ingarbugliata. Troppe variabili ostili: un lontano precedente del Consiglio di Stato, il parere dell’Avvocatura dello Stato, la campagna dei penalisti (tre sono nel Csm), lo schieramento dei vertici della Cassazione e del vicepresidente Ermini, i regolamenti di conti nella sinistra giudiziaria. Infine ieri, in apertura del dibattito, la sentenza di Nino Di Matteo, pm antimafia eletto un anno fa con il sostegno della corrente di Davigo (che però aveva sconsigliato la candidatura). “Dobbiamo volare alto - ha detto Di Matteo - la permanenza di Davigo violerebbe lo spirito della Costituzione”, compromettendo “autonomia e indipendenza della magistratura” perché il Csm è per magistrati in servizio, non ex. Argomenti analoghi a quelli, attesi, dei vertici della Cassazione (presidente Pietro Curzio e procuratore Giovanni Salvi). E a quelli, meno attesi, del vicepresidente David Ermini, che ha letto l’intervento in coda al dibattito. Gioco, partita, incontro. Tutto il resto - dal pallottoliere dei voti, alla fine 13 su 24, alle 5 astensioni tattiche, alle punzecchiature personali, ai silenzi imbarazzati - è noia. Era stato lo stesso Davigo a porre la questione a settembre. Sia formalmente con una lettera alla commissione titoli del Csm che ha avviato l’ordalia. Sia informalmente, con una visita riservata al capo dello Stato, presidente di diritto del Csm. Il Quirinale ha avuto un ruolo, perché i vertici del Csm non decidono tirando i dadi. Ma solo nel senso di autorizzare una presa di posizione di Ermini e dei capi della Cassazione, poi orientata verso la soluzione più adeguata a rinsaldare il Csm, anche nel rapporto con le altre istituzioni e in un’ottica di sistema. Certo non sfuggono le implicazioni della decisione. Simboliche, in primis. Far fuori Davigo è come sostituire Cristiano Ronaldo a partita in corso (ne sa qualcosa Sarri, uno dei migliori amici di Ermini). E infatti sui social esultano i suoi nemici politici, togati e mediatici. Ma, quel che più conta, cambiano gli equilibri nel Csm. L’asse Davigo-Area, un compromesso storico destra-sinistra che ha retto il post Palamara in nome della “questione morale”, è piegato. Quanto, si misurerà sulle nomine e sui collegi dei processi disciplinari in calendario (Palamara non si dilettava in solitari all’hotel Champagne). Rialzano la testa, basta leggere i comunicati serali, Magistratura Indipendente e Unicost, le correnti di centrodestra che nel 2018 si erano impadronite del Csm grazie al patto Ferri-Palamara. E, complice Lotti, avevano eletto Ermini vicepresidente, contro tutto e tutti (da Forza Italia a Magistratura Democratica). Ermini che, superati i patemi per le chat e le allusioni di Palamara, esce rafforzato in un ruolo non più meramente notarile. Non a caso Ilaria Pepe, consigliera della corrente Autonomia & Indipendenza fondata da Davigo, parla di “gravissima perdita della residua credibilità del Csm”. E nelle chat della corrente si grida alla “restaurazione” (ri)mettendo Ermini nel mirino in quanto “amico di Renzi” (non come un tempo, peraltro). Renzi che venerdì si era pronunciato pubblicamente sul caso Davigo, e si può immaginare come. A proposito di chi dice che è stata solo una contesa giuridica. In attesa di giocarsi l’ultima carta al Tar Lazio, Davigo oggi tornerà un ultimo giorno al Csm. Per salutare e fare gli scatoloni. Comunque la si pensi, è stato un consigliere autorevole e ascoltato. Anche da insospettabili colleghi che a orari antelucani (arrivava prima dei custodi) bussavano al suo ufficio. Pure ieri non ha fatto una piega. Al punto da rifiutare il rinvio che Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, gli aveva prospettato per la deposizione a Perugia nell’ambito del caso Palamara. Testimonianza di un’ora chiesta dagli avvocati dell’indagato, sugli incontri tra magistrati nella stagione delle nomine e degli esposti incrociati. Così Ermini e Di Matteo hanno scaricato Davigo di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 20 ottobre 2020 È finita l’esperienza di Piercamillo Davigo al Csm. Al termine di un dibattito durato diverse ore, ieri pomeriggio il plenum ha votato la decadenza da consigliere superiore dell’ex pm di Mani pulite. È finita l’esperienza di Piercamillo Davigo al Csm. Al termine di un dibattito durato diverse ore, ieri pomeriggio il plenum ha votato la decadenza da consigliere superiore dell’ex pm di Mani pulite. A favore dell’uscita di scena si sono pronunciati i componenti del comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, vale a dire il vicepresidente del Csm David Ermini, il primo presidente e il pg della Cassazione, Pietro Curzio e Giovanni Salvi. No al prosieguo del mandato, con una certa sorpresa, anche da parte dell’”indipendente” (ma eletto col sostegno del gruppo davighiano) Nino Di Matteo, dai 3 di Magistratura indipendente Loredana Micciché, Paola Braggion e Antonio D’Amato, dai 2 di Unicost Conchita Grillo e Michele Ciambellini, e dai laici Filippo Donati (indicato dal M5S), Emanuele Basile (Lega), Alessio Lanzi e Michele Cerabona (FI). Alla fine si sono schierati, senza successo, per la permanenza di Davigo solo 2 dei 5 consiglieri di Area, Alessandra Dal Moro ed Elisabetta Chinaglia, uniche altre togate oltre ai 3 rappresentanti della davighiana Autonomia e indipendenza, ovvero Sebastiano Ardita, Ilaria Pepe e Giuseppe Marra. Tra i laici, il solo che abbia votato perché Davigo restasse in plenum è stato Fulvio Gigliotti (indicato dal M5S). Si sono invece astenuti Stefano Cavanna (Lega) e Alberto Maria Benedetti (M5S), così come gli altri 3 togati di Area Giuseppe Cascini, Giovanni Zaccaro e Mario Suriano. Un esito che nessuno si aspettava, alla luce della forte campagna d’opinione portata avanti in questi mesi a favore della permanenza di Davigo al Csm anche dopo la sua entrata in quiescenza, formalizzata ieri dalla delibera approvata pochi minuti prima del dibattito sul prosieguo del mandato. Chissà perché fino all’ora fatidica del plenum non era balenata in modo così nitido la volontà di attenersi alla Costituzione. Difficile spiegarlo se non con il peso che hanno avuto, prima e durante la discussione consiliare, i vertici dello stesso organo di autogoverno. Saranno risuonate anche nella testa di possibili “indecisi” parole come quelle del presidente della Suprema corte, Curzio: “Il pensionamento fa venire meno lo status di magistrato, quindi anche le funzioni di componente del Csm. Ne ho parlato anche in comitato di presidenza”, ha spiegato in modo molto trasparente Curzio, “e ho trovato conferma in questa mia conclusione. Ne ho parlato anche con Davigo, per la chiarezza che ha sempre contraddistinto i nostri rapporti. È stato un onore essere suo collega, aver lavorato con lui, ma gli argomenti per la decadenza sono più convincenti”. Anche il pg Salvi ha parlato di una “necessità derivante da principi costituzionali: a far parte del Csm non possono che essere magistrati in servizio”. Fino all’intervento di Ermini, secondo il quale “la Costituzione ci impone di rinunciare all’apporto che Piercamillo Davigo, magistrato eccezionale, potrebbe ancora dare al Consiglio superiore”. Va dato atto al vicepresidente del Csm di aver speso parole forti per l’ex pm del Pool, a proposito delle sue “qualità”, della “intransigente onestà intellettuale”, dell’”assoluta indipendenza di giudizio” e “inattaccabile libertà morale”, che “hanno connotato il percorso di un magistrato eccezionale” e la sua “esemplare carriera”. A Davigo, ha aggiunto Ermini, “mi lega ora un’amicizia per me preziosa e irrinunciabile”, ma “tuttavia, nella vita, ci sono momenti in cui chi è chiamato a compiti di responsabilità istituzionale deve assumere decisioni dolorose”. Del no pronunciato da Di Matteo al prosieguo del mandato, resterà tra l’altro un’osservazione non sentita spesso, nel dibattito degli ultimi giorni: “L’appartenenza all’ordine giudiziario è condizione imprescindibile per l’organo di autogoverno”, che è “per due terzi composto da magistrati: il rapporto predeterminato tra laici e togati è una regola sancita dalla Costituzione”, ha detto Di Matteo. La permanenza di Davigo al Csm dopo il suo collocamento in pensione violerebbe dunque, ha sostenuto il pm antimafia, “la ratio e lo spirito delle norme costituzionali”. Di Matteo ha comunque parlato di una decisione “presa con grande dolore” per la stima nei confronti del collega che “lascerà un segno nella storia recente della magistratura italiana”. Con l’uscita di Davigo cambiano i rapporti di forza al Csm, contraddistinti finora da una maggioranza imperniata sull’alleanza fra Area e davighiani. Il posto dell’ex pm di Mani pulite (che compie oggi 70 anni) sarà preso dal giudice di Cassazione Carmelo Celentano, di Unicost. Difficile dire, almeno per questo, che l’uscita di Davigo dal Csm non produca conseguenze politiche. Perso il “censore”, l’Anm dovrà uscire dalla crisi con più coraggio di Errico Novi Il Dubbio, 20 ottobre 2020 Si rinuncia al simbolo del rigore con le urne del dopo-Palamara aperte. Si è spesso sostenuto negli ultimi anni, e soprattutto dal trauma dell’hotel Champagne in poi, che Piercamillo Davigo fosse una coscienza critica trapiantata nel cuore della magistratura, pronta a far sentire tutto il peso della propria irreprensibile vicenda professionale, della propria immagine di nemico dell’illegalità. Ieri la magistratura ha deciso, piuttosto uniformemente, di rinunciare a quella specie di tutela. Anche se i dirigenti del gruppo davighiano, “Autonomia e indipendenza”, hanno dichiarato fino all’ultimo che le ragioni a sostegno della permanenza in plenum del loro leader fossero “tecnico- giuridiche e non di opportunità, men che meno politica”, la verità è che a frenare il Csm sulla decadenza era proprio il timore di perdere uno scudo. Come se la magistratura, almeno una sua parte, paventasse un’onda di discredito popolare legata alla rimozione del più inflessibile fra i colleghi proprio nel mezzo dell’uragano Palamara. È andata in modo diverso dal previsto. Magistratura indipendente e Unicost hanno votato contro la tesi che Davigo potesse restare in carica al Csm anche dopo il congedo. Persino Area, data per favorevole al prosieguo del mandato, si è spaccata, col capodelegazione Cascini e i consiglieri Suriano e Zaccaro non andati oltre l’astensione. Mentre il comitato di presidenza, formato oltre che da Ermini anche dai due vertici della Cassazione, non ha esitato a pronunciarsi per l’uscita di scena. Il tutto mentre l’Anm consuma la propria tre giorni elettorale (alle 13 di ieri l’affluenza aveva già toccato il 54,7 per cento, tasso elevato se si considera che c’è ancora tempo fino alle 13 di oggi). Adesso è come se la magistratura associata fosse ancor più costretta ad affrontare la crisi con maturità. Non ha più scudi, non ha più in Davigo la suggestiva personificazione del contraltare al correntismo. Non c’è più l’estremo rigore a bilanciare le immagini degradate. Chissà se proprio ora - certo troppo tardi per assicurare a Palamara il giusto processo disciplinare - si riuscirà ad analizzare la crisi della magistratura con più freddezza e meno riflessi pavloviani. Avvocati senza tutele e trattati da untori di Gian Domenico Caiazza* e Eriberto Rosso** Il Riformista, 20 ottobre 2020 L’Unione delle Camere Penali protesta: “Lavoriamo esposti al contagio da Covid. Troppe ora in fila per depositare gli atti”. Perdura il disinteresse del governo verso la pur evidente necessità della adozione di un provvedimento normativo che dia finalmente copertura legale al deposito a mezzo pec degli atti processuali (impugnazioni, memorie, istanze, documenti) da parte degli avvocati difensori. Una norma necessaria già a prescindere dalla emergenza sanitaria, per i benefici che essa comporterebbe. Si tratta di una grave disattenzione nei confronti degli avvocati che svolgono la essenziale funzione di rappresentanza e di concreto esercizio del diritto di difesa dei cittadini. Per il governo la tutela della salute dei protagonisti della vita giudiziaria si concentra doverosamente sui pubblici dipendenti, ma non anche sugli avvocati, patrocinatori dei cittadini utenti della giustizia, trattati da un lato come fastidiosi intrusi che importunano il lavoro degli uffici, mettendo per di più a rischio - novelli untori - la salute dei padroni di casa, dall’altro esposti a rischi di contagio (evidentemente questi privi di rilevanza e di allarme sociale) perché costretti a file e ore di attesa con relativi assembramenti solo per depositare gli atti. Questo spettacolo indecoroso può e deve essere in gran parte risolto adottando il governo, con decreto-legge, un provvedimento normativo di copertura del deposito atti e della richiesta di copie la cui assoluta necessità ed urgenza non è più oltre rinviabile. Di seguito la lettera dell’Unione al Ministro della Giustizia. Signor Ministro, abbiamo come tutti appreso da notizie di stampa del recente incontro che lei ha avuto con i rappresentanti sindacali dei pubblici dipendenti del comparto giustizia, nel corso del quale sarebbero state adottate o comunque concordate misure per organizzare e favorire lo smart working, nel caso di recrudescenza dell’epidemia da Covid. Ferma restando ogni valutazione circa un accordo del quale non conosciamo l’esatto contenuto, dobbiamo rappresentarle il disappunto dei penalisti italiani per il perdurante disinteresse verso la pur evidente necessità della adozione di un provvedimento normativo che dia finalmente copertura legale al deposito a mezzo pec degli atti processuali (impugnazioni, memorie, istanze, documenti) da parte degli avvocati difensori. Si tratta di una misura che tutti sentiremmo necessaria già a prescindere dalla emergenza sanitaria, per i benefici che essa comporterebbe, e che non mette conto nemmeno di dover illustrare attesa la loro ovvia evidenza. Ma il fatto che essa non venga adottata in tempi di pandemia dal governo, con i caratteri della necessità e urgenza che nessuno potrebbe seriamente confutare, appare a noi un segno inequivocabile di grave disattenzione nei confronti di chi, come noi avvocati, svolge la essenziale funzione di rappresentanza e di concreto esercizio del diritto di difesa dei cittadini. Saremmo lieti di comprendere, signor Ministro, per quale ragione la giusta attenzione alle esigenze di tutela della salute dei protagonisti della vita giudiziaria si concentri doverosamente sui pubblici dipendenti, ma non anche sugli avvocati, patrocinatori dei cittadini utenti della giustizia. Assistiamo da mesi a uno spettacolo quotidiano indecoroso, che mortifica la dignità stessa del nostro lavoro. Siamo per un verso, come è ovvio, costretti ad accedere alle cancellerie dei magistrati e agli uffici giudiziari per depositare atti, prendere visione dei fascicoli, richiedere copie, interloquire con giudici e pubblici ministeri. Ma, al tempo stesso, ci troviamo a farlo in una condizione inaccettabile, come fossimo fastidiosi intrusi che importunano il lavoro degli uffici, mettendo per di più a rischio la salute dei padroni di casa. Siamo costretti a districarci tra divieti, cancellerie chiuse senza spiegazioni, prenotazioni cervellotiche per l’accesso, file e ore di attesa con relativi assembramenti, che ci espongono a rischi di contagio evidentemente, questi, privi di rilevanza e di allarme sociale. Questo spettacolo indecoroso, lo ripetiamo, può e deve essere in gran parte risolto adottando il governo, con decreto-legge, un provvedimento normativo di copertura del deposito atti e della richiesta di copie la cui assoluta necessità e urgenza non è più oltre rinviabile. Chiediamo dunque di poterla con urgenza incontrare per rappresentarle, anche nel dettaglio, questa impellente esigenza della avvocatura penalistica italiana. Confidando in un Suo cortese riscontro, cogliamo l’occasione per rivolgerle i saluti più cordiali. *Presidente Unione Camere Penali **Segretario Unione Camere Penali Caso Shalabayeva. “Cortese è il capro espiatorio: perché non indagano Pignatone?” di Giorgio Mannino Il Riformista, 20 ottobre 2020 A Palermo la manifestazione in difesa del questore condannato per il caso Shalabayeva: “Perché non coinvolgono i pm che decisero l’espulsione?”. L’affondo di Fava: “Chi ha mentito resta libero”. “Una sentenza di imbarazzante e manifesta ingiustizia: chi volle quell’espulsione, fornendo informazioni false, la fa franca; chi si trovò a dover applicare la legge, in galera. L’umiliazione per Renato Cortese, per gli altri condannati e per questo paese in cui, sul palcoscenico dell’antimafia da operetta, si esibiscono ogni giorno eserciti di narcisi petulanti e inoffensivi, resta intatta. Ci sarà un processo d’appello, è vero. Pur rispettosi di ogni sentenza penso che occorra far sentire lo stupore e l’imbarazzo per la condanna di chi applicò le disposizioni ricevute e per la graziosa immunità riconosciuta a chi quelle disposizioni le impartì”. Claudio Fava, presidente della Commissione regionale Antimafia all’Ars, commenta così la sentenza di condanna a cinque anni emessa dal tribunale di Perugia nei confronti - tra gli altri - di Renato Cortese, questore di Palermo, per il sequestro (avvenuto nel 2013) e l’estradizione di Alma Shalabayeva, moglie di un dissidente kazako ricercato in patria per motivi politici. Un pronunciamento, quello della corte perugina, che ha sconvolto parte del mondo della politica e della società civile. Ieri pomeriggio, infatti, a Palermo, davanti il Teatro Massimo, si sono riunite associazioni, rappresentanti dell’amministrazione comunale e molti poliziotti “per solidarizzare col questore Cortese che ha contribuito, con grande impegno, a combattere la criminalità organizzata e a onorare lo Stato”. L’uomo che ha infranto la latitanza record del boss Bernardo Provenzano sarà sostituito, nei prossimi giorni, da Leopoldo Laricchia. Una disposizione che arriva dal ministero dell’Interno e dai vertici della Polizia: “Con la decisione presa si riafferma il principio che la polizia osserva e si attiene a quanto dalle sentenze”, ha detto Franco Gabrielli. Ma l’indignazione, in piazza, si tocca con mano. C’è persino Vincenzo Agostino, padre del poliziotto Nino ucciso in circostanze tutte da chiarire il 5 agosto 1989, che agitando il cellulare mostra una foto che immortala il momento della cattura di Provenzano con un giovanissimo Cortese al suo fianco: “È ingiusto che abbia pagato soltanto lui. Ha pagato il pesce più piccolo, l’ultimo anello di una lunga catena di comando rimasta impunita. La sentenza non ha fatto giustizia”, ha detto Agostino. Ed è proprio contro la sentenza, ritenuta ingiusta, che molti poliziotti si scagliano. “Sono convinto - ha detto Carmine Mancuna, so, ex politico e figlio di Lenin Mancuso, ucciso da Cosa nostra insieme al giudice Cesare Terranova il 25 settembre 1979 - che la sentenza sia iniqua. A pagare non possono essere soltanto quanti hanno eseguito gli ordini. Quindi credo sia importante che i giudici accertino le responsabilità ai vertici”. Mancuso, infine, giudica “ingiusto il trasferimento, perché, intanto, si tratta di una sentenza di primo grado e Cortese ha servito con grande onore lo Stato”. Un’idea condivisa dai tanti presenti che affollano piazza Verdi. Restii a credere che per Cortese possa esserci una forma di riabilitazione: “Era destinato a diventare capo della Polizia. La sua carriera, ai vertici, ormai è finita”, sussurra qualcuno. E rimbalzano tante domande senza risposta: “Perché Angelino Alfano (allora ministro degli Interni, ndr) tace? Perché le sue dimissioni, allora chieste a gran voce, furono respinte? Chi aveva deciso quell’operazione? Perché Eugenio Albamonte e Giuseppe Pignatone che diedero il via all’espulsione non sono stati coinvolti nell’inchiesta?”, si chiede un poliziotto che preferisce rimanere anonimo. Mentre Palermo si appresta a dare il benvenuto al nuovo questore: “Siamo qui anche per Laricchia, per augurargli buon lavoro”, dicono gli organizzatori del raduno. Parole che mal nascondono la grande amarezza. Caso Nicosia, a processo per falso la deputata renziana Giusy Occhionero Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2020 La parlamentare, secondo l’accusa, consentì ad Antonello Nicosia, poi fermato per mafia, di entrare con lei nelle carceri senza autorizzazione e di avere incontri con i boss. Solo in un secondo momento, dopo tre ispezioni in istituti di pena siciliani, i due avrebbero formalizzato il rapporto di collaborazione. Sarà processato per falso la deputata di Italia viva Giusy Occhionero. Il giudice per l’udienza preliminare di Palermo l’ha rinviata a giudizio nell’ambito dell’inchiesta scaturita dopo il fermo per mafia di Antonello Nicosia, l’attivista radicale poi diventato suo collaboratore dopo un colloquio telefonico. La parlamentare, secondo l’accusa, gli consentì di entrare con lei nelle carceri senza autorizzazione e di avere incontri con i boss. Solo in un secondo momento, dopo tre ispezioni in istituti di pena siciliani, i due avrebbero formalizzato il rapporto di collaborazione. Nicosia, coimputato della Occhionero accusato di falso aggravato e associazione mafiosa, ha scelto il rito abbreviato, come il boss di Sciacca Accursio Dimino e Paolo e Luigi Ciaccio, che rispondono di favoreggiamento. Rinviato a giudizio, come Occhionero, Massimiliano Mandracchia, anche lui imputato di favoreggiamento. Dall’inchiesta è emerso che, oltre a progettare estorsioni e omicidi, Nicosia, sedicente docente universitario, da anni impegnato in battaglie a difesa dei detenuti, era riuscito a incontrare anche capimafia al 41 bis. Il 21 dicembre 2018, dopo aver avuto con Nicosia solo contatti telefonici, la deputata è arrivata a Palermo e ha incontrato Nicosia con cui è andata immediatamente a fare un’ispezione al carcere Pagliarelli. All’ingresso ha dichiarato che era un suo collaboratore: circostanza, hanno accertato i pm anche attraverso indagini alla Camera, falsa. All’epoca, infatti nessun rapporto di lavoro era stato formalizzato. Il giorno successivo i due hanno fatto, con le stesse modalità, visite nelle carceri di Agrigento e Sciacca. Ai pm che in principio l’hanno sentita come persona informata sui fatti, la donna ha detto di non aver avuto contezza della doppia personalità di Nicosia, formalmente paladino dei diritti dei carcerati, di fatto uomo d’onore che portava all’esterno i messaggi dei boss. La deputata era stata interrogata e aveva spiegato di aver conosciuto Nicosia ramite i Radicali Italiani che, non avendo un proprio un deputato alla Camera, le avevano suggerito di assumerlo per avere la possibilità di fare ispezioni nelle carceri. Una prerogativa legittima che, però, il collaboratore aveva usato per i suoi scopi: avere contatti, secondo l’ipotesi della Dda, coi capimafia e portare all’esterno informazioni. L’uomo veniva retribuito con 50 euro al mese. Una cifra simbolica perché, come era emerso dalle intercettazioni, lo scopo della collaborazione, per Nicosia, che definiva il boss Matteo Messina Denaro “il nostro primo ministro”, per entrare in contatto con i mafiosi. Ai pm che ieri le chiedevano come mai avesse assunto l’indagato, nonostante i suoi precedenti penali - una condanna per traffico di droga, tre per ricettazione e una per appropriazione indebita - Occhionero aveva risposto sostenendo che alla Camera nessuno fa controlli sui collaboratori. Nonostante il contratto fosse scaduto a maggio perché la deputata, insospettita dal singolare curriculum del collaboratore ne aveva accertato la falsità, il tesserino era rimasto nella disponibilità di Nicosia. Imprenditore di Napoli trascorre 800 giorni in cella da innocente di Claudia Osmetti Libero, 20 ottobre 2020 Accusato di un omicidio mai commesso per un’intercettazione mal interpretata. Sarà risarcito con 188mila euro. Si è fatto ottocento giorni di carcere per un’intercettazione ambientale interpretata male. Ottocento, ed era innocente! Lui, Girolamo, un imprenditore napoletano, con l’omicidio di Luigi Borzacchiello non c’entrava nulla. Non ha mai nemmeno pensato d’ammazzarlo. Eppure è finito negli incagli di un processo per delitto premeditato e pure aggravato dal fine camorristico, con l’unica colpa (diciamo così) di avere legami di parentela con alcuni soggetti che la magistratura campana ritiene coinvolti nella vicenda. Diciamocelo subito: oggi (quattordici anni dopo l’omicidio e otto dopo l’errore giudiziario) il protagonista di quest’assurda storia di malagiustizia si è visto riconoscere un risarcimento di 188.656 euro. E diciamoci subito anche questo: la cifra può sembrare alta, ma non basta. Ché non c’è cifra che possa davvero risarcire le profonde ferite che restano dopo oltre due anni di celle e sbarre e privazione. Andiamo per gradi. Borzacchiello viene ucciso il 9 dicembre del 2006 ad Afragola, cittadina dell’area metropolitana di Napoli: è un costruttore edile di 47 anni, ha precedenti penali ed è legato al clan dei Mariniello. Che si tratti di criminalità organizzata è pacifico fin dal principio, infatti le indagini incastrano il clan rivale dei De Falco-Fiore. Sfortuna vuole, però, che Girolamo ci si trovi nel mezzo. Questione di sangue (è il fratello di uno dei boss) e ci sarebbero due elementi che, secondo i pm, lo metterebbero al muro: la prima è l’accusa di Pasquale Di Fiore, un “collaboratore di giustizia”; la seconda è per l’appunto un’intercettazione ambientale. Sulla base di ciò, in primo grado, Girolamo busca trent’anni di reclusione. Però c’è di più, perché quando l’avvocata partenopea Marianna Febbraio riesce a portare il faldone in Appello, si sgretola tutto come un fortino di sabbia. Dichiarazioni contraddittorie, valutazioni e perizie che ribaltano quanto messo agli atti. Perché sì, un’intercettazione c’era. Ma non provava per nulla la presenza di Girolamo alla “riunione” che avrebbe deciso la morte di Borzacchiello. Le voci, in quella registrazione, si sovrappongono, sono confuse, cozzano. E sicuramente non rendono possibile attribuire a Girolamo anche solo una delle frasi di morte che si sentono. Insomma: lo sbaglio è evidente. E viene alla luce solo per la caparbietà del legale, altrimenti campacavallo. A questo punto, per Girolamo, si apre un altro filone, quello del risarcimento. Perché non è mica detto gli spetti: c’è un cavillo, nella norma del 1989, che impedisce di rimborsare chi, all’ingiusta detenzione, abbia “dato causa per dolo o colpa grave”. Magari (anche qui, da strabuzzare gli occhi) frequentando cattive compagnie: che è un po’ come dire che lo sbaglio l’ha fatto il tribunale, ma è stato tratto in inganno dal colui che ne ha pagato le conseguenze. Ma le “compagnie sbagliate” Girolamo pare le avesse in famiglia: per lui era difficile eluderle. Il difensore Febbraio lo dice subito. Sulla sua posizione si esprime l’ottava sezione penale: “L’eventuale colposo comportamento è escluso proprio dall’esistenza dei rapporti di parentela tra gli imputati”. Fine della storia e risarcimento concesso. Girolamo deve pure sentirsi fortunato: lo Stato italiano, nel 2019, ha risarcito solo un migliaio di persone detenute ingiustamente e, mediamente, ha concesso loro appena 43mila euro: le richieste accolte sono state 465, gli altri aspettano. Incompatibilità carceraria: rischio di contrarre il Covid-19 deve essere concreto di Anna Larussa altalex.com, 20 ottobre 2020 Occorre valutare le misure per garantire la distanza di sicurezza e la possibilità di trasferimento di detenuti a rischio in altri istituti o strutture più adeguate (Cass. 27917/2020). L’incompatibilità tra le condizioni di salute e lo stato di detenzione di soggetti a rischio, in caso di contrazione del virus Covid-19, deve essere valutata con riguardo alla situazione in concreto esistente nella casa circondariale, all’adozione, da parte di questa, di misure di precauzione per garantire la distanza di sicurezza, nonché alla possibilità che i reclusi in condizioni di salute precarie, che ivi si trovino, possano godere del trasferimento presso altri istituti o strutture sanitarie più adeguate del circuito penitenziario. È quanto stabilito dalla Sesta Sezione Penale della Corte di cassazione con la sentenza depositata in data 7 ottobre 2020, n. 27917 nel dichiarare inammissibile il ricorso avverso l’ordinanza con cui il Tribunale, in sede di appello cautelare, aveva confermato il rigetto della richiesta di sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari a un detenuto affetto da pancreatite. Il fatto - Il ricorrente, detenuto in regime custodiale per il reato di ricettazione nonché per reati in materia di stupefacenti e di armi, aveva proposto appello cautelare avverso il rigetto dell’istanza difensiva di sostituzione della misura custodiale con quella degli arresti domiciliari, avanzata in ragione dell’incompatibilità dello stato di salute precario con la detenzione in carcere: ed invero, lo stesso risultava affetto da una grave forma di pancreatite e, per ciò stesso, esposto ad un maggiore rischio di conseguenze infauste nel caso di contrazione del virus Covid-19. A seguito del rigetto anche dell’appello, la difesa del ricorrente aveva interposto ricorso per cassazione denunciando violazione di legge e vizio di motivazione per non avere il Tribunale tenuto conto della storia clinica del detenuto, degli esami strumentali cui era stato sottoposto in carcere, delle specifiche indicazioni sanitarie evidenziate dalla difesa e, in particolare, del fatto che la direzione sanitaria dell’istituto avesse concluso nel senso che la pancreatite fosse un concreto fattore di aumento del rischio quoad vitam in caso di infezione da Covid-19; infine, per avere omesso di considerare che i coimputati, in una posizione processuale sostanzialmente parificabile, avevano beneficiato degli arresti domiciliari. La sentenza - La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile per aspecificità del motivo dedotto. Ha, in particolare, rilevato che il Tribunale dell’appello cautelare aveva spiegato che le condizioni di salute non potessero considerarsi particolarmente gravi tenuto conto delle relazioni con cui la direzione della casa circondariale aveva escluso la presenza di particolari criticità sanitarie, e aveva affermato inoltre - lo stesso Tribunale - come, sulla base di tutta la documentazione a disposizione, fosse risultato evidente che non era necessario trasferire il detenuto presso altro istituto, in quanto l’incompatibilità delle sue condizioni di salute con il regime carcerario, in ragione di un rischio di contrarre una infezione da Covid-19, era in quel momento solo ipotetica. La Corte ha pertanto condiviso le conclusioni del Tribunale secondo cui, ancorché il tipo di patologia del detenuto rappresentasse un fattore di aumentato del rischio quoad vitam nel caso di infezione da Covid-19, al momento non vi fossero ragioni per reputare la concreta esistenza di quel rischio, non avendo la difesa dedotto l’esistenza di quel tipo di infezioni nella casa circondariale in questione, nè essendo desumibili dati di segno contrario dalle relazioni trasmesse dalla direzione sanitaria di quell’istituto. Ha quindi concluso che “se è vero che la detenzione in carcere costituisce obiettivamente un contesto nel quale è più facile la diffusione del virus, in quanto i detenuti vivono in ambienti nei quali è tendenzialmente più difficile il mantenimento delle distanze di sicurezza ed in cui sono ben possibili fenomeni di assembramento o di sovraffollamento” tuttavia occorre valuatare l’incompatibilità tra le condizioni di salute e lo stato di detenzione di soggetti a rischio in caso di contrazione del virus Covid-19 con riguardo alla situazione effettivamente esistente nella casa circondariale, all’adozione, da parte di questa, di misure preventive e precauzionali nonché alla possibilità che i reclusi in condizioni di salute precarie, che ivi si trovino, possano godere del trasferimento presso altri istituti o strutture sanitarie più adeguate del circuito penitenziario. Rispetto alla mancanza di equità nella valutazione della posizione processuale del ricorrente i giudici di legittimità hanno ribadito l’ orientamento interpretativo secondo cui può risultare giustificata l’adozione di regimi difformi, pur a fronte della contestazione di un medesimo fatto di reato, in quanto la valutazione da esprimere in tema di esigenze cautelari di ciascun coindagato o coimputato si fonda, oltre che sulla diversa entità del contributo individuale alla realizzazione dell’illecito, anche su profili strettamente attinenti alla personalità del singolo. Detenuto non chiede trattazione udienza: si allungano i termini massimi di fase? di Simone Marani altalex.com, 20 ottobre 2020 Per la Cassazione il termine ex art. 304 c.p.p., non è dilatato dalla mancata richiesta di trattazione del processo a carico dell’imputato detenuto (sentenza n. 27989/2020). È da escludere che il termine ex art. 304, comma 7, c.p.p., sia dilatato dalla mancata richiesta di trattazione del processo a carico dell’imputato detenuto. Questo è quanto emerge dalla sentenza 21 settembre-7 ottobre 2020, n. 27989 (testo in calce) della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione. Il D.L. 8 marzo 2020, n. 11, art. 1, prevedeva che a decorrere dal giorno successivo alla entrata in vigore del decreto, ovvero dal 9 marzo 2020, e sino al 22 marzo 2020, le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari, con le eccezioni di cui all’art. 2, comma 2, lett. g), dovessero essere rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020. Il D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, art. 83, comma 1, prevedeva poi che la sospensione generale andasse sino al 15 aprile 2020, termine infine prolungato al 11 maggio 2020 dal D.L. 8 aprile 2020, n. 23, art. 36. Si sottraevano a detto rinvio in particolare le udienze dei procedimenti nei quali nel periodo di sospensione scadessero i termini di cui all’art. 304 c.p.p., e, quando gli imputati o i loro difensori espressamente richiedessero che si procedesse, anche le udienze nei procedimenti in cui fossero state applicate misure cautelari. Quando, come nella fattispecie, la scadenza del termine massimo ex art. 304 c.p.p., comma 6, non fosse caduta nel periodo di sospensione suddetto, né vi fosse stata istanza degli imputati sottoposti a misura cautelare o dei loro difensori e, quindi, i processi avessero subito il rinvio d’ufficio, il D.L. n. 11 prevedeva, quanto al riverbero del rinvio sul versante dei termini cautelari, la sospensione di quelli ex art. 303 e il D.L. n. 18 anche dell’art. 308 c.p.p., nulla disponendo quanto al termine di cui all’art. 304, comma 6, c.p.p. L’art. 304, comma 1, c.p.p., prevede, tra le altre, due cause di sospensione dei termini della misura cautelare legate al rinvio o alla sospensione del giudizio, definite obbligatorie nel senso che il Giudice, una volta verificata la sussistenza dei presupposti per concedere il rinvio, deve necessariamente disporre la sospensione della decorrenza del termine della misura cautelare in esecuzione nei confronti dell’imputato (Cass. pen., Sez. I, 25 gennaio 2018, n. 22289). La lett. b) della disposizione ora richiamata contempla un caso di sospensione del termine cautelare nella fase del giudizio, che si verifica durante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato a causa della mancata presentazione, dell’allontanamento o della mancata partecipazione di uno o più difensori che rendano privo di assistenza uno o più imputati; si tratta di situazioni di oggettiva assenza del difensore dell’udienza tale da rendere l’imputato privo di assistenza, sì da determinare l’impossibilità di svolgere attività processuale. Gli ermellini ritengono che la mancata richiesta di trattazione del processo a carico di imputato detenuto, ovvero la richiesta di rinvio del difensore, ovvero ancora la mancata presentazione di quest’ultimo in udienza non siano comportamenti processuali idonei a dilatare il termine massimo di cui all’art. 304, comma 7, c.p.p., in quanto detti comportamenti non equivalgono all’ipotesi prevista dall’art. 304, comma 1, lett. b), c.p.p. Non si verte, infatti, in un caso di mancata partecipazione del difensore che rende privo di assistenza l’imputato e che lo legittima ad ottenere un rinvio, ma ci si trova al cospetto dell’ipotesi, diversa, dell’omesso esercizio di una facoltà processualmente riconosciuta dalla normativa emergenziale, vale a dire quella di richiedere la trattazione, evenienza, quella dell’omesso esercizio della suddetta facoltà, che ha incluso il processo in quelli da rinviare obbligatoriamente in virtù della fissazione delle udienze nel periodo emergenziale; in altre parole, il rinvio derivava dall’applicazione della disposizione emergenziale e non poteva certamente ascriversi a mancata presentazione, allontanamento o mancata partecipazione del difensore. No alla sostituzione della misura cautelare senza contraddittorio? Violato il diritto di difesa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2020 Nulla l’ordinanza che nega la revoca per il detenuto malato, basata su una perizia senza coinvolgere il difensore. Nullo il no alla richiesta di sostituzione della custodia in carcere, motivata dalle condizioni di salute del detenuto, se l’accertamento sulla compatibilità della patologia con la misura più restrittiva avviene senza contraddittorio. La quinta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 28854, accoglie il ricorso di un indagato per delitti di associazione a delinquere di stampo mafioso, con un ruolo di vertice. Il tribunale del riesame aveva respinto il ricorso malgrado, nello specifico, l’incarico al perito fosse stato conferito senza alcuna interlocuzione con la difesa in nessuna fase dello svolgimento delle operazioni. Una chiara violazione del diritto di difesa che scatta quando il no all’istanza di revoca si basa su una perizia disposta senza coinvolgere il difensore: né rispetto alla nomina del perito né sull’inizio delle sue operazioni e dunque in assenza di un qualunque contraddittorio tra le parti. Diverso è il caso affrontato in una sentenza citata dal Riesame (46604/2019) a supporto del rigetto del rigetto del ricorso, con la quale la Cassazione aveva negato la violazione dei diritti dell’imputato/indagato malgrado la nomina del perito non preceduta da un contraddittorio, perché il consulente di parte dell’imputato aveva comunque avuto modo, nei quindici giorni assegnati al perito per svolgere il suo ruolo, di partecipare alle operazioni e, in particolare alla visita medica del paziente. Nessuna scansione rigida - La Suprema corte chiarisce, infatti, che non è rigido il rispetto della scansione dei procedimenti ma lo è il “risultato”. Con la sentenza 19404/2016 la Cassazione ha ribadito che l’interlocuzione con il consulente tecnico della difesa va garantita anche in sede di appello cautelare “la cui disciplina, pur contratta nei tempi, non può sacrificare il diritto di difesa, pena l’integrazione di un’ipotesi di nullità generale”. Una garanzia da assicurare anche se non necessariamente “ingabbiata” in un modulo predefinito, specie quando siano preminenti le esigenze di celerità e “non tutte le disposizioni in materia di perizia possono risultare suscettibili di applicazione”. In tal caso, conclude la Corte, spetterà al giudice trovare tempi e modi per assicurare il fondamentale contraddittorio tra le parti, bilanciando le diverse o a volte opposte esigenze in gioco. Nel caso esaminato non c’era alcuna situazione di urgenza che non consentisse l’immediata integrazione del contraddittorio sin dall’inizio della nomina del perito da parte del tribunale del riesame. Azienda sequestrata per mafia, ricorribile la cessazione dell’attività di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2020 Lo ha stabilito la Cassazione, sentenza n. 28922/2020, accogliendo sotto questo profilo il ricorso di uno degli esponenti del clan Spada di Ostia. Sì alla possibilità di impugnare il provvedimento del Tribunale di approvazione del “programma di gestione” della azienda sequestrata per mafia. Lo ha stabilito la II Sezione penale della Cassazione, sentenza n. 28922 depositata il 19 ottobre, accogliendo sotto questo profilo il ricorso di uno degli esponenti del clan Spada di Ostia. Sarà dunque la Corte di appello di Roma a dover confermare o meno il decreto del Tribunale di Roma, Sezione misure cautelari di prevenzione, che ha disposto la cessazione dell’attività della pizzeria “Lo Sfizio”, l’estinzione della ditta individuale, la cancellazione della partita Iva e del codice fiscale, oltre alla vendita di tutti i beni mobili rinvenuti in occasione del sequestro. Per la Cassazione infatti il principio del doppio grado di giurisdizione, di cui agli articoli 10 e 27 del Codice Antimafia, “deve ritenersi applicabile anche con riferimento al decreto del tribunale che in sede di gestione abbia disposto la cessazione dell’attività e la vendita dei beni strumentali”. Parere favorevole lo ha espresso anche la Procura generale che ha concluso per la riqualificazione del ricorso in appello con la trasmissione degli atti. Per arrivare al punto, la Suprema corte richiama i principi affermati dalla sentenza n. 46898/2019, quando chiamata a pronunciarsi a Sezioni unite sulla impugnabilità con ricorso per Cassazione del provvedimento di diniego della misura del Controllo giudiziario, richiesto ex articolo 34 - bis, comma 6, del Dlgs n. 159/2011, ha superato l’orientamento di legittimità che considerava la misura dell’Amministrazione giudiziaria non presidiata da mezzi di impugnazione, ritenendo invece applicabile, anche in tale ipotesi il principio del doppio grado di impugnazione. Del resto, prosegue il ragionamento, la stessa giurisprudenza, con il ricorso all’interpretazione analogica, aveva posto rimedio ad una discrasia di legge relativa alla impugnabilità della confisca. La confisca, adottata in via ordinaria, infatti, risultava appellabile e ricorribile per Cassazione ai sensi dell’articolo 27 del Codice Antimafia, mentre per quella adottata all’esito del controllo dell’articolo 34 del Codice Antimafia non era previsto alcun mezzo di impugnazione. La Corte di legittimità, con un’interpretazione costituzionalmente conforme, aveva riconosciuto l’appellabilità e la ricorribilità per Cassazione anche per tale ultima misura, prima dell’intervento del legislatore che, recependo l’orientamento giurisprudenziale, “ha dapprima integrato il comma 7 dell’articolo 34 e successivamente, con la legge n. 161/2017, interamente riscritto l’art. 34 inserendo al comma 6 la previsione dell’ impugnazione con il doppio grado di giudizio, riferita sia alla confisca conseguente all’amministrazione giudiziaria che a quella intervenuta a seguito del controllo giudiziario adottabile nello stesso contesto”. Le S.U. hanno quindi ritenuto che le decisioni del Tribunale in tema di controllo giudiziario, al pari di quelle sulla ammissione all’amministrazione giudiziaria, appartenenti ad un unico sotto-sistema, debbano andare soggette al mezzo di impugnazione “generale” previsto dal Dlgs n. 159 del 2011, articolo 10. Ed oggi, muovendo da “tali principi”, la Corte ha affermato il principio del doppio grado di giudizio anche riguardo al decreto che dispone la cessazione dell’attività. Medici, falso ideologico per chi prescrive farmaci al buio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2020 Stop della Cassazione alle ricette scritte dai medici la “buio”, senza una conoscenza diretta delle patologie del paziente. Chi lo fa rischia la condanna per falso ideologico, anche se la prescrizione viene fatta su una ricetta bianca. La Cassazione (sentenza 28847), conferma la responsabilità de medico nel reato, previsto dall’articolo 481-bis del Codice penale. Nello specifico l’imputato era stato condannato per aver fatto un favore ad un farmacista che aveva venduto un farmaco senza ricetta e chiedeva ora una “pezza d’appoggio”, per un paziente del tutto sconosciuto al medico. Per la difesa il reato non c’era, visto che la difesa le ricette “incriminate” erano bianche e dunque, a differenza delle rosse non a carico del servizio sanitario nazionale. E il medico di base non aveva poi agito come pubblico ufficiale. La ricetta bianca era una semplice scrittura privata, che non riportava fatti di cui doveva essere provata la verità. Solo un modo per rimuovere l’ostacolo che la legge pone alla vendita di tutti i farmaci non da banco. Ma Suprema corte conferma il reato, commesso da una persona che svolge un servizio di pubblica utilità. E ricorda che anche la prescrizione sul ricettario bianco - che il medico deve usare quando svolge attività privata, intramoenia compresa - presuppone un accertamento della sussistenza di una patologia che giustifichi la somministrazione del prodotto, a prescindere dall’obbligo di indicare la diagnosi. Una ricognizione diretta, imposta anche dal Codice deontologico dei camici bianchi che obbliga i sanitari ad indicare nelle ricette, solo dati clinici constatati. E questo per evitare le ricette di comodo. La Suprema corte chiarisce che non può essere considerata attività ricognitiva “nonostante la prassi diffusa in tal senso, quella del medico che prescriva un farmaco semplicemente colloquiando al telefono con un assistito mai incontrato, il quale descrive determinati sintomi, senza averlo mai visitato e senza neanche conoscerne, ad esempio, le potenziali reazioni allergiche ad un determinato farmaco”. In linea generale dunque la prescrizione di un medicinale presuppone una vista o la conoscenza diretta di un patologia, a prescindere dal loro colore. Le regole più stringenti dettate per la ricetta rossa sono giustificate dal fatto che quanto prescritto pesa sul servizio sanitario nazionale, e può essere usata contro il medico, in caso di uso inappropriato, davanti alla Corte dei conti. Circostanza che non vale per la bianca che conserva comunque la sua valenza di certificativa: il beneficiario deve dunque rientrare nella categoria dei soggetti che hanno diritto alla prestazione. Nel caso esaminato per i giudici di legittimità non c’è dubbio che il camice bianco abbia rilasciato certificazioni di comodo, scrivendole sotto dettatura del farmacista, che aveva indicato le date utili e il tipo di medicinale da richiedere. Milano. Paura per il focolaio del Tribunale, c’è chi parla di chiuderlo di Manuela D’Alessandro agi.it, 20 ottobre 2020 Mentre la Procura viene sanificata dopo la notizia di tre pubblici ministeri positivi e cresce il contagio tra i dipendenti, si discute su come evitare scenari peggiori. L’imponente Palazzo di Giustizia di Milano trema. In Procura si può parlare già da qualche giorno di un focolaio, con tre pubblici ministeri positivi e altri in isolamento, tanto che in mattinata il corridoio di quello che è uno degli uffici giudiziari più noti d’Italia è stato sanificato. Di oggi la notizia della positività anche di una giudice mentre sono in crescita i contagi tra i dipendenti. In questo contesto, stando a quanto apprende l’Agi, “i capi degli uffici giudiziari stanno valutando la possibilità di sospendere in autonomia i processi”. La rabbia dei lavoratori - Inoltre, i lavoratori lamentano una scarsa circolazione delle notizie e hanno dato mandato a un legale per preparare un esposto alla Procura di Brescia sulle lacune del sistema informativo. Riferiscono di non sapere per tempo quando c’è un contagio. La paura è quella di ricadere nel clima lugubre della scorsa primavera, quando due lavoratori del Palazzo, il carabiniere Mario Soru, 55 anni, e la funzionaria della giustizia civile Anna Bergamaschi, di 63, persero la vita a causa del Covid. Tanti, una decina, anche i magistrati che l’avevano contratto prima che su disposizione del Ministero della Giustizia venisse rarefatta l’attività che muove ogni giorno migliaia di persone nel vasto edificio di epoca fascista. La possibilità di chiudere il Palazzo - C’è qualche toga che parla della possibilità di chiudere il Palazzo, domandandosi a chi eventualmente spetterebbe la decisione. In teoria, la sicurezza è in mano alla Procura Generale ma questo è un caso che va oltre, investendo la sfera sanitaria, dunque inedito. Di certo, fanno sapere da via Arenula, non è competenza del Ministero. Nei giorni scorsi aveva chiuso per Covid, una prima volta, una cancelleria civile. Il punto di vista dei dipendenti del Palazzo è molto severo sulla gestione della comunicazione. “Siamo molto arrabbiati - dice Lino Gallo, rappresentante della sigla Flp - perché non ci viene data immediata informazione a tutela della salute dei colleghi. L’età media è di 55 anni e ci sono persone fragili, con seri problemi di salute, che vanno tutelati”. Bergamo. “Due detenuti positivi. Processi da remoto per tutti” Corriere della Sera, 20 ottobre 2020 Il presidente della Corte d’Appello ha invitato i presidenti dei tribunali del distretto a celebrare i processi con i detenuti da remoto. La settimana scorsa, il detenuto imputato in un processo in corte d’Assise ha rinunciato a partecipare. Altrimenti si sarebbe collegato da remoto dal carcere. Il presidente del tribunale di Bergamo, Cesare de Sapia, ha firmato un decreto che vale dal 14 al 31 ottobre: i dibattimenti con i detenuti, oltre che gli interrogatori di garanzia e di convalida dell’arresto o del fermo da parte del gip vanno fatti in videoconferenza. Una misura d’emergenza, in attesa di protocolli più stretti, dopo le indicazioni del presidente della Corte d’Appello di Brescia, Claudio Castelli, che aveva ricevuto la recente segnalazione di due detenuti positivi nel carcere di Bergamo e di cinque nel carcere di Brescia. “Ma ora siamo a zero casi”, rassicura la direttrice di via Gleno, Teresa Mazzotta. I due segnalati erano asintomatici: “Erano compagni di un detenuto che aveva avuto sintomi di influenza, poi regrediti, e che una volta sottoposto al tampone per il Covid è risultato negativo”. Comunque, indipendentemente dal decreto del presidente del tribunale, il rischio che in aula arrivino detenuti positivi è scongiurato dai controlli a monte. “Se il detenuto vuole partecipare all’udienza, 48 ore prima viene sottoposto al tampone, per la tutela degli agenti, dei magistrati, degli avvocati, del personale - assicura Mazzotta. L’esito è veloce. Se una traduzione viene disposta in tempi stretti e non siamo in grado di avere il risultato, ma di solito sì, allora il detenuto non va in udienza”. I due segnalati non sono i soli positivi di via Gleno. “Da febbraio ne abbiamo avuti sette, diversi non confermati- ricapitola la direttrice -. Solo due con sintomi: uno è stato portato in ospedale per sicurezza ed è rientrato dopo una settimana; l’altro, con patologie già note qui, è stato curato in struttura. Degli altri cinque, tre erano nuovi ingressi”. Nel mondo parallelo dei colloqui con i parenti ridotti a un incontro al mese, oltre alle videochiamate, i nuovi arrivati vengono prima inseriti in una sezione separata e sottoposti a un doppio tampone: “Abbiamo un protocollo rigidissimo, per la serenità di tutti”. Trento. Tribunale, altre restrizioni. Accessi solo su prenotazione di Dafne Roat Corriere del Trentino, 20 ottobre 2020 L’aumento dei contagi fa scattare le restrizioni. Penalisti preoccupati. Nuove regole per gli ingressi al palazzo di giustizia da oggi: il presidente dell’Ordine degli avvocati Russolo richiama alla responsabilità. Penalisti preoccupati. “Siamo consapevoli che si debba tutti fare la nostra parte per contenere il più possibile i rischi di contagio”. Il presidente dell’Ordine degli avvocati, Michele Russolo, si richiama alla responsabilità di tutti perché “è chiaro - dice - i disagi ci sono, ma stiamo vivendo un momento difficile e dovremmo imparare a convivere con tutto questo”. Insomma niente polemiche, ma, è innegabile, che a palazzo di giustizia un po’ di preoccupazione c’è. Da domani scatteranno infatti nuove regole per gli ingressi al palazzo di giustizia. Una stretta motivata dall’aumento di contagi da Covid-19 che sta tenendo con il fiato sospeso anche il Trentino. Domenica sera è uscito il nuovo Dpcm di Conte, nessun cenno ai Tribunali ma Trento ha deciso di partire in anticipo imponendo nuove regole per evitare i rischi di una diffusione del virus all’interno del tribunale che potrebbe paralizzare l’attività. Così la presidente della Corte d’appello, Gloria Servetti, e il procuratore generale Giovanni Ilarda hanno firmato una nuova circolare con la quale vengono introdotte nuove regole, a partire dagli accessi che dovranno avvenire su prenotazione. “Gli uffici riceveranno solo su appuntamento - si legge nella circolare - da prenotare attraverso due call center centralizzati, uno per gli uffici di Trento e Rovereto e l’altro per gli uffici di Bolzano”. Sono previste eccezioni per i “casi di motivata urgenza”. Non si tornerà al lockdown di marzo, le udienze saranno celebrate ma con una diversificazione degli orari di comparizione dei testi, periti, consulenti e difensori. Per i servizi di cancelleria e segreteria si potrà accedere solo su appuntamento. Non si dovranno prenotare gli accessi “documentati” per la partecipazione delle udienze e per le attività d’indagine del pm o della polizia giudiziaria e per le riunioni per la mediazione. La circolare è stata adottata in concerto con gli ordini degli avvocati di Trento, Rovereto e Bolzano. Russolo parla di un “clima di collaborazione”. “Abbiamo chiesto e ottenuto che la ripartizione oraria venga comunicata dalla cancelleria e di avere un occhio di riguardo per i penalisti”, spiega. Ma sono proprio gli avvocati penalisti a dimostrare le maggiori preoccupazioni e perplessità. “Dispiace che nessuno ci abbia consultato - afferma il presidente della Camera penale, Filippo Fedrizzi - c’è sempre stato un clima di collaborazione. Il Dpcm ha mantenuto aperte tutte le scuole, per gli esercizi pubblici il governo demanda eventuali provvedimenti restrittivi ai sindaci, non si capisce perché la giustizia debba subire delle limitazioni”. Fedrizzi ricorda poi alcuni processi e procedimenti importanti in corso. “Vorrei sapere come pensano di garantire il processo del 28 ottobre sulla rivolta in carcere. È stata fissata un’udienza preliminare nell’aula di Corte d’assise che con le nuove restrizioni può contenere al massimo 55 persone e ci sono 81 imputati e i rispettivi difensori. Ci sono alcuni maxi processi e nessuno ha preso iniziative per trovare gli spazi adeguati”. Fedrizzi riflette poi sulla vasta inchiesta sulla ‘ndrangheta: “Le cancellerie saranno in grado di garantire migliaia di atti con accessi contingentati? Servono provvedimenti idonei a garantire il diritto alla difesa in processi importanti”. Intanto ieri sulla vetrata d’ingresso degli uffici giudiziari in via Acconcio campeggiava un cartello con la scritta: Unep chiuso. Il motivo? Un ufficiale giudiziario venerdì è risultato positivo al Covid e quindi è scattato l’isolamento fiduciario per tutti. Uffici chiusi quindi, niente notifiche almeno fino a lunedì. Ieri gli altri ufficiali giudiziari hanno effettuato il tampone ma per i risultati servono cinque giorni. “È un servizio essenziale - spiega Russolo - abbiamo chiesto la possibilità che l’Unep di Rovereto riceva gli atti urgenti anche di Trento”. Torino. Il Covid torna anche nelle carceri, due casi all’Icam e all’Ipm lavocetorino.it, 20 ottobre 2020 Sospesi i corsi e le attività. Il Covid torna a manifestarsi anche in carcere. Un caso di positività, secondo quanto appreso, si sarebbe manifestato nella sezione Icam, la struttura a custodia attenuata per madri detenute con i loro figli, della casa circondariale di Torino. Positivo anche un agente di polizia penitenziaria. La direzione ha subito attivato le procedure previste in questi casi, isolando delle detenute della sezione in questione. Quello di Torino è il penitenziario in cui si è registrato il numero più alto di contagi da Covid nella prima fase della pandemia. Una settantina i casi accertati tra i detenuti, dieci fra gli agenti. Nessuna criticità sanitaria era stata invece rilevata al carcere minorile Ferrante Aporti di Torino, dove da alcuni giorni sono in isolamento una decina di agenti a causa della positività di un collega. A scopo precauzionale i corsi e le attività per gli ospiti della struttura sono stati sospesi. Roma. Progetto di reinserimento socio-professionale per detenuti ed ex detenuti di Mimmo Frassineti agi.it, 20 ottobre 2020 Iniziativa del dipartimento Turismo, formazione e lavoro del comune di Roma. Alcune persone saranno impiegate in attività di manutenzione del verde, piccoli lavori edili, pulizie, artigianato e pelletteria. È partito a Roma il nuovo percorso di reinserimento socio-professionale che impegna detenuti ed ex detenuti in tirocini presso associazioni e cooperative convenzionate. Alcuni saranno impiegati in attività di manutenzione del verde, piccoli lavori edili, pulizie, artigianato e pelletteria. Altri, produrranno marmellate, conserve e succhi di frutta presso il laboratorio alimentare “Papa Francesco” gestito da Isola Solidale all’interno del Centro Agroalimentare di Roma. Parte dei beni alimentari sarà devoluta in beneficenza. “I percorsi di riabilitazione professionale sono una risposta alle difficoltà di inclusione incontrate da chi sconta una pena detentiva. Restituire una prospettiva esistenziale attraverso il lavoro, aiuta a reinserire in società persone motivate a crescere e migliorare, sottraendole a criminalità ed emarginazione. Miglioramento e possibilità di riscatto per i singoli, quindi, ma anche attività benefiche e utili all’intera città”, dichiara il sindaco Virginia Raggi. Si parte con i primi 17 destinatari del progetto - curato dal Dipartimento Turismo, Formazione e Lavoro attraverso i Centri di Orientamento al Lavoro - cui se ne aggiungeranno altri individuati dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà di Roma Capitale. A questo scopo, sono stati infatti destinati 100.000 euro, utili al finanziamento di tirocini trimestrali che prevedono 30 ore di lavoro settimanale, cui far corrispondere una retribuzione di 600 euro mensili. Il tutto, nell’ambito dei protocolli d’intesa fra Roma Capitale e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, diretti alla riabilitazione e inclusione sociale dei detenuti. “La crescita individuale passa anche per l’occupazione: questo è ancor più vero per quanti sono stati privati della libertà personale. Formazione professionale e inclusione sono le parole d’ordine dei tirocini curati da Roma Capitale in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia. All’interno della struttura del C.A.R. - importante società partecipata da Roma Capitale - prende il via una importante esperienza che consente a chi la vive di riscoprire la dignità del lavoro e l’orgoglio di fare qualcosa di utile per il prossimo, coniugando virtuosamente produzione e beneficenza”, dichiara l’assessore allo Sviluppo economico, Turismo e Lavoro, Carlo Cafarotti. “Dal 2017 - spiega Daniele Frongia, assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale -, quando abbiamo iniziato in fase sperimentale il percorso teso a favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso il progetto di lavori di Pubblica Utilità, sino ad oggi, sono stati complessivamente interessati 130 detenuti, tra attività di manutenzione del verde pubblico e piccola manutenzione stradale”. Altri 35 detenuti al Nuovo Complesso del carcere di Rebibbia stanno per iniziare un nuovo corso di formazione e andranno a breve a rafforzare la squadra di operatori giardinieri. “Sono numeri importanti - aggiunge Frongia - che testimoniano quanto l’iniziativa, svolta in stretta collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dap e il Dipartimento Tutela Ambientale di Roma Capitale che ringrazio sentitamente, si dimostri valida non solo per la diminuzione del rischio di recidiva del detenuto ma anche per il servizio prestato a beneficio della collettività. La ripresa del progetto legato al percorso di reinserimento socio-professionale con la novità costituita dai tirocini retribuiti va a rafforzare l’aspetto di riscatto del debito nei confronti della comunità e rappresenta una rinascita capace di donare nuova speranza e nuove prospettive di vita una volta espiata la pena”. Pisa. In Consiglio comunale si discute della relazione annuale del Garante dei detenuti pisatoday.it, 20 ottobre 2020 Molti gli aspetti critici del Don Bosco, fra cui la realizzazione del gazebo all’esterno per chi è in attesa per le visite, Scognamiglio: “Progetto mai partito”. Dopo un minuto di silenzio in ricordo Jole Santelli, la Presidente della Regione Calabria improvvisamente deceduta la scorsa settimana, e dopo un minuto di silenzio per il professore Samuel Paty brutalmente ucciso la scorsa settimana a Parigi nel corso di un attacco terroristico, e, infine, dopo alcuni question time ed interpellanze, la seduta di oggi 20 ottobre del Consiglio Comunale (dalle 14.30, Sala delle Baleari, diretta streaming), avrà al centro la relazione annuale del Garante dei detenuti e delle persone private della libertà personale, avvocato Alberto Marchesi. “L’istituto penitenziario - così scrive, nella sua relazione l’avvocato Marchesi - è una struttura ormai obsoleta, la cui costruzione risale al 1935 e, quindi, presenta problematiche di vario genere tali da richiedere l’avvio di importanti ed urgenti lavori di manutenzione straordinaria”. Per quanto riguarda le attività dei detenuti, lo scorso anno, su 248 (di cui 151 sono di nazionalità straniera), 17 hanno frequentato la Scuola Alberghiera Michelangelo, mentre 7 hanno frequentalo corsi universitari. “Le attività trattamentali prevedono tutti i gradi di istruzione, dai corsi di alfabetizzazione fino agli studi universitari” conferma la relazione. Sempre per quanto riguarda i detenuti, “avuto riguardo - così scrive sempre l’avvocato Marchesi - all’attuale chiusura della sezione femminile ed alla inagibilità di alcuni locali nella sezione penale maschile, ne discende che il numero dei presenti è di gran lunga superiore alla capienza massima, in rapporto anche alle attuali situazioni di emergenza sanitaria”, aspetti che tra l’altro “hanno dato occasione a manifestazioni di protesta”. Molte poi le problematiche relative alla situazione del Servizio di Assistenza Intensiva, tenuto conto di “un elevato numero di soggetti tossicodipendenti”, anche se “nel corso del 2019 non si sono registrai eventi suicidari, ma solo gesti di autolesionismo”. Inoltre l’avvocato Marchesi, dopo aver ricordato che “sarebbe finalmente in corso di avvio un progetto volto all’allestimento di uno spazio esterno di accoglienza destinato ad ospitare le persone che attendono di accedere alla sala colloqui”, segnala che vi sono state “molte difficoltà ad instaurare uno stabile rapporto di collaborazione con i Servizi del territorio che si occupano dei figli minori dei detenuti”, mentre, per quanto riguarda l’inserimento nel mondi del lavoro dei detenuti, la relazione dell’avvocato Marchesi sottolinea “la totale assenza di opportunità per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, così come previsti dallo stesso Ordinamento penitenziario”. Viene quindi auspicato, sempre in questa relazione, “che, tra l’altro, l’amministrazione comunale di Pisa possa assegnare alcuni posti di lavoro con mansioni manuali di manutenzione del verde pubblico” e che la stessa amministrazione possa comunque farsi “portavoce anche nei confronti di altre aziende del territorio”. Ultima raccomandazione su “l’opportunità di potenziare il servizio di assistenza in favore dei detenuti tossicodipendenti al fine di avviarli a programmi di recupero, atteso che nella maggioranza dei casi i giovani ristretti in carcere hanno problematiche connesse all’abuso di sostanze”. Trani (Bat). Chiude la Sezione Blu del carcere: detenuti trasferiti in nuovo padiglione telebari.it, 20 ottobre 2020 Chiude definitivamente dopo 45 anni la “Sezione Blu” del carcere di Trani, un tempo destinata ai detenuti in regime di massima sicurezza. Era “una vergogna”, spiega il Garante pugliese per i diritti dei detenuti, Piero Rossi, con celle molto piccole e bagni a vista, chiamata blu dal colore di pareti e inferriate. I detenuti saranno trasferiti nel nuovo padiglione, una palazzina attigua alla struttura penitenziaria, i cui lavori sono appena conclusi, per il “definitivo allontanamento dalla dimensione di inumanità e degrado di quell’istituto”, dice Rossi, giudicando indispensabile “la dignità di trattamento dei detenuti”. La cosiddetta “Sezione Blu”, realizzata quando fu costruita la struttura penitenziaria di Trani destinata ad essere un supercarcere di massima sicurezza, oggi non più con quella funzione, sarà svuotata e ristrutturata. Oristano. Aule troppo piccole per lezioni in presenza, i carcerati-studenti non possono studiare oristanonoi.it, 20 ottobre 2020 Impossibile la didattica a distanza perché le attrezzature sono ancora in arrivo. La denuncia dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. “Una dozzina di classi di detenuti iscritti alle superiori, tecnici e artistico, e ai corsi per adulti del Cpia potranno riprendere l’attività didattica soltanto a novembre, in quanto l’istituto di Massama-Oristano è attualmente in attesa che vengano forniti i kit per l’attività didattica a distanza”. Lo segnala Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ha raccolto le testimonianze dei familiari dei detenuti che vorrebbero fruire del diritto allo studio. “Il mancato avvio delle lezioni”, sottolinea l’esponente di SDR, “ha suscitato preoccupazione tra i detenuti. Molti ergastolani rischiano di restare del tutto privi di attività, anche perché la maggior parte delle iniziative sono sospese a causa della pandemia di coronavirus, che non ha risparmiato la casa di reclusione di Oristano”. “Il nostro impegno è quello di garantire a tutte le classi programmate l’accesso alla formazione”, ha precisato Pierluigi Farci, direttore del Casa di reclusione ‘Salvatore Soro’. “Purtroppo, anche per limiti strutturali, in quanto non c’è nell’Istituto un numero sufficiente di aule abbastanza grandi da garantire il distanziamento tra gli studenti e gli insegnanti, non possiamo organizzare lezioni in presenza senza incorrere in gravi rischi di diffusione del virus. Abbiamo quindi richiesto tempestivamente un finanziamento per poter disporre dei kit previsti per le lezioni a distanza nelle carceri. Riteniamo che l’istruzione, oltre che un diritto costituzionale, sia uno strumento importantissimo per la crescita civile e culturale dei detenuti e pensiamo che nell’arco di un mese saremo in grado di offrire le lezioni. Per cercare di ridurre i disagi, e favorire un rapporto con gli insegnanti, pensiamo altresì di organizzare incontri in presenza nella sala teatro”. “Non si può però fare a meno di sottolineare ancora una volta”, conclude Maria Grazia Caligaris, “che la nuova struttura penitenziaria di Massama è stata pensata con criteri molto discutibili. Un teatro e due sole aule per garantire il diritto allo studio in un istituto con 263 posti. Incredibile ma vero”. Torino. Carcere minorile Ferrante Aporti, una colletta per il teatro di Marina Lomunno vocetempo.it, 20 ottobre 2020 Progetto. Le associazioni di volontariato e gli enti che lavorano perché i giovani ristretti nell’Istituto penitenziario, una volta scontata la pena, si reinseriscano nella società invitano la città a contribuire a realizzare un sogno: un nuovo teatro nel carcere minorile aperto al pubblico progettato per i ragazzi e con i ragazzi. C’è tempo fino al 3 novembre per contribuire alla realizzazione di un «sogno» di quelli che sarebbero piaciuti a don Bosco a cui, visitando i giovani «discoli e pericolanti» detenuti alla Generala (oggi il carcere minorile «Ferrante Aporti») venne in mente il «sistema preventivo» che sta alla base del progetto educativo dell’oratorio salesiano. Il sogno porta il nome di «Wall coming», in inglese «Abbattere le barriere», un teatro da realizzare all’interno del carcere minorile di Torino. «Il progetto promosso da varie realtà che operano con i giovani (Artieri, Aporti Aperte, Codicefionda, Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani onlus, Rigenerazioni Aps, Inforcoop Ecipa Piemonte)», spiega Eleonora De Salvo, coordinatrice dell’associazione di volontariato «Aporti Aperte» che dal 2005 opera nell’Istituto penale minorile di Torino come ponte tra il carcere e la città a favore del reinserimento dei giovani detenuti, «è uno dei 13 su 48 che ha vinto il bando del Festival Bottom up promosso dalla Fondazione per l’Architettura di Torino. L’idea è di realizzare al Ferrante un teatro ‘per i ragazzi con i ragazzi’». Nel carcere minorile torinese dal 2010, dopo la riorganizzazione degli spazi interni, non c’è più uno spazio-teatro: al suo posto, accanto alla cappella, c’è un grande salone non attrezzato con qualche sedia e due calcetti che i ragazzi chiamano «la stanza del fumo». «Un locale sottoutilizzato che vogliamo trasformare in un nuovo teatro pubblico ma anche come spazio multifunzionale, gestito direttamente dai ragazzi ristretti, minori e giovani adulti», prosegue Eleonora De Salvo, «un luogo che abbiamo pensato per attività di aggregazione e laboratori multidisciplinari per i ragazzi, per le Messe più solenni quando la cappella non riesce a contenere tutti i ragazzi e i volontari ma anche uno spazio aperto al quartiere e alla città, con pizzeria e un palco dedicato a rassegne culturali e teatrali, concerti, presentazioni di libri e molto altro». Il progetto del nuovo teatro si chiama Wall-coming, abbattere i muri - Per realizzare questo sogno si è lanciata una campagna di crowdfunding (raccolta fondi) a cui possono aderire, fino al 3 novembre con donazioni libere, coloro che condividono l’idea dei promotori del progetto e cioè, come spiega la coordinatrice di «Aporti Aperte» che «il teatro possa essere un luogo di incontro tra comunità, un ponte tra carcere e territorio e dare un opportunità formativa ai ragazzi che vivono il percorso di rieducazione penitenziaria per creare relazioni ed occasioni di cittadinanza per se stessi e per gli altri. Ma anche per riconoscere nella cultura e nell’arte percorsi di crescita e magari anche di prospettive occupazionali in futuro». Per questo per la realizzazione del teatro in tutte le sue fasi – dall’insonorizzazione all’allestimento del palco, ad un murales-insegna fuori dall’Istituto ai doni per chi partecipa alla colletta – i ragazzi saranno protagonisti nella progettazione e nel cantiere in prima persona perché «il teatro sia frutto del loro lavoro e della loro creatività, un luogo da custodire e mantenere in ordine perché di tutti», conclude Eleonora De Salvo. La somma per realizzare il progetto, sostenuto anche dalla Garante dei detenuti di Torino Monica Cristina Gallo, è ingente, 80 mila euro. Per questo c’è bisogno del contributo di tutti perché si parte da zero. Ben accette sono le donazioni di materiale da parte di aziende o imprese che abbasserebbero così la cifra da raccogliere. Tutte le informazioni e le modalità per aderire alla raccolta si trovano sul sito www.crowdfunding.bottomuptorino.it/wallcoming. Bastano anche 10 euro per dare una mano a realizzare un sogno, per abbattere le barriere dei pregiudizi e dare una possibilità ai ragazzi «discoli e pericolanti» di oggi a cui don Bosco ha dedicato la sua vita. Catanzaro. Studenti donano ai detenuti la possibilità di tornare a sorridere di Antonella Barone gnewsonline.it, 20 ottobre 2020 È stato firmato nei giorni scorsi da Elisabetta Zancone, dirigente scolastico dell’Istituto superiore “Petrucci - Ferraris - Maresca” di Catanzaro, e Angela Paravati, direttore della Casa Circondariale Ugo Caridi, il protocollo d’intesa che ha dato il via al La didattica per… Ri-dare un sorriso, progetto che all’esperienza formativa dell’Alternanza scuola-lavoro aggiunge il valore della solidarietà. Gli allievi del corso di odontotecnica (classi IV e V) realizzeranno, infatti, protesi dentarie per i detenuti indigenti che ne hanno bisogno e che costituiscono una percentuale non trascurabile dei pazienti odontoiatrici negli istituti penitenziari. Un problema che riguarda soprattutto persone dipendenti dall’uso di droghe causa di serie patologie dell’arcata dentaria. La mancanza dei denti, riscontrabile anche in soggetti giovani, e la derivata difficoltà nel masticare compromette anche la dieta con conseguenti carenze nutrizionali che vanno ad incidere sul generale stato di salute. Il Servizio sanitario nazionale assicura le cure conservative ed estrattive ma la prestazione di protesi mobili non fa parte dei Livelli Minimi di Assistenza e pertanto è a pagamento. Grazie al progetto contenuto nell’accordo tra la casa circondariale e l’Istituto superiore, i detenuti che versano in condizioni di necessità, potranno tornare non solo a mangiare ma anche a parlare e sorridere in quanto, com’è noto, la mancanza di denti può condizionare anche l’espressione fonetica e le relazioni sociali. “La didattica per… Ri-dare un sorriso” è la risultanza di una serie di contributi che comprendono le prestazioni volontarie di oltre venti odontoiatri, materiale protesico offerto da ditte specializzate e l’inserimento del tutto, da parte dell’Azienda Sanitaria Provinciale, nel più vasto progetto di Odontoiatria sociale regionale. Lucca. Webinar sul lavoro come opportunità di crescita per detenuti e aziende agricole lagazzettadilucca.it, 20 ottobre 2020 Si tiene oggi, martedì 20 ottobre alle ore 15.30 sulla piattaforma Zoom, l’evento intitolato “Fuori dal carcere. Il lavoro come opportunità di crescita per detenuti ed aziende agricole”. L’incontro, che avrebbe dovuto svolgersi il 26 febbraio scorso, rinviato a causa dell’emergenza sanitaria, è stato organizzato dalla Garante dei diritti dei detenuti Alessandra Severi, in collaborazione con Aiga, Camera penale di Lucca, Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lucca, Mestieri Toscana e con il patrocinio del Comune di Lucca. Per iscriversi e ricevere le credenziali di accesso per la piattaforma Zoom è necessario inviare una mail all’indirizzo aigalucca.organizza@gmail.com. Per gli avvocati è possibile iscriversi a mezzo piattaforma Sfera. L’evento è stato accreditato per 3 crediti formativi dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lucca. “Il carcere? Andrebbe smontato pezzo a pezzo” di Agnese Pellegrini Famiglia Cristiana, 20 ottobre 2020 Dal 22 ottobre in libreria, “Dei relitti e delle pene”, il nuovo libro del giornalista Stefano Natoli sui temi dell’esecuzione penale. Si intitola “Dei relitti e delle pene. Giustizia, giustizialismo, giustiziati. La questione carceraria tra indifferenza e disinformazione” (Ed. Rubettino), il nuovo libro di Stefano Natoli, già giornalista de Il Sole 24 ore e attualmente volontario nel carcere di Milano Opera. La prefazione del volume porta la firma di Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano ora europarlamentare. Il volume che arriva in libreria il 22 ottobre è dedicato “all’umanità reclusa, che ha sognato di vivere e ora vive sognando”. Dopo le sommosse dello scorso marzo e la decisione dei magistrati di sorveglianza di mandare ai domiciliari - per ragioni di salute - prima tre condannati al 41bis (di cui due ultraottantenni e malati gravi) e successivamente altri 373 detenuti presenti nel circuito dell’Alta Sicurezza (i magistrati hanno ribadito, giustamente, che tutti i detenuti hanno il diritto di essere curati), la questione carceraria è tornata in primo piano, anche se, purtroppo, soltanto come dato di cronaca e non come ripensamento della funzione dei 190 istituti penitenziari italiani (per fare un esempio, la pandemia ha spinto il Portogallo a legiferare una grazia per i detenuti inclusi nelle categorie più vulnerabili...). E se la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte condannato l’Italia per le condizioni “disumane e degradanti” delle proprie carceri, viene da pensare che il nostro Paese non abbia compreso il messaggio di Cesare Beccaria, l’illuminista milanese autore del celeberrimo “Dei delitti e delle pene”, circa il senso profondo della pena che - nel Diciottesimo secolo come adesso - deve essere certa, ma anche, e soprattutto, equa ed efficace. I protagonisti di questo libro, come sottolinea anche Pisapia nella prefazione, sono le persone ai margini della società, “i tanti che entrati nel cerchio, spesso infernale, delle nostre carceri, si trovano spesso a vivere in condizioni disumane e degradanti”. I relitti, appunto, che - come scrive Natoli - “hanno navigato nel mare in tempesta della vita e a un certo punto sono andati alla deriva”. Ed è significativo che l’autore parli di esseri umani, e non di detenuti, riconoscendo a chi vive in carcere quella dignità di uomini che Papa Francesco continua a sottolineare nei suoi interventi in tema di giustizia. Partendo da un punto di vista laico ed evitando pietismi, buonismi e qualsiasi deriva ideologica, l’autore spiega a chiare lettere l’intento del suo libro: “Il carcere ha a che fare con la sicurezza sociale. E la sicurezza è un bene collettivo, un bene di cui tutti ci dobbiamo occupare e preoccupare. Senza intenti forcaioli, ma con tutta l’umanità possibile. Facendo prevalere la forza della ragione sulla ragione della forza e tenendo sempre a mente che la persona non è - sempre, e comunque - il reato che ha commesso”. Cambiare marcia è possibile. Le soluzioni non mancano. Natoli ne ricorda alcune: misure alternative alla detenzione, anche per ridurre l’intollerabile e pericoloso sovraffollamento, fonte inesauribile si malessere e suicidi di reclusi e poliziotti penitenziari; spazi del carcere a misura d’uomo; ripensamento della sanità penitenziaria (attualmente, in media c’è un medico ogni 315 reclusi); conferma delle tecnologie introdotte durante l’emergenza Covid e loro estensione ai percorsi rieducativi e risocializzanti; sostegno convinto delle attività educative e del lavoro del volontariato: due realtà che contribuiscono a depotenziare quell’anonimia che secondo l’autore rappresenta “il rischio più grande di tutte le collettività recluse e, allo stesso tempo, garantiscono la funzione costituzionale della pena”. Quello di oggi, sottolinea ancora Natoli, “è un carcere che vìola nei fatti la Costituzione privando le persone recluse di diritti fondamentali quali quelli all’affettività, alla salute, alla sessualità, ma anche al lavoro, uno strumento - quest’ultimo - importantissimo in quanto abbatte il tasso di recidiva, ovvero di ritorno al reato”. Un carcere, dunque, che va cambiato in profondità. Un compito certamente arduo in questo momento storico che vede crescere l’ottica giustizialista o pregiudizialmente securitaria di un’opinione pubblica sempre più sottoposta al bombardamento operato da costruttori di paura che seminano allarmismo per alimentare stereotipi e pregiudizi. Un compito arduo, dicevamo, ma comunque non impossibile. E, soprattutto, doveroso. Perché - sono ancora parole dell’autore - “dietro le sbarre, troviamo ancora oggi, in grandissima maggioranza, poveri ed emarginati, persone provenienti da famiglie disagiate, immigrati senza permesso di soggiorno, tossicodipendenti: una varia umanità cui hanno fatto credere, o ha voluto credere, che la furbizia vince sempre”. Un capitolo a parte merita l’ergastolo, in particolare quello cosiddetto ostativo, “alienante e disumano in quanto priva il condannato del diritto alla speranza di un possibile recupero della libertà”. Una pena che lo Stato del Vaticano ha abolito nel 2013, su impulso di papa Francesco, sostituendola con la detenzione fino a un massimo di 35 anni. In realtà, il carcere sembra essere più una “gabbia mentale”, che un reale strumento rieducativo: “Quando sente parlare di carcere la gente ha istintivamente paura e, dominata da questa paura, pensa che le pene non siano mai abbastanza dure, il carcere mai abbastanza chiuso”. Ma la semplice punizione (“Trattare il male col male, insomma, in una sorta di approccio omeopatico alla giustizia penale”) non serve: “Se non ti prendi cura di chi entra in prigione, rischi di perderlo per sempre e di doverne, poi, subire anche le conseguenze. Non gli puoi certamente cambiare il passato, ma puoi senz’altro dargli una seconda occasione perché possa migliorare il suo futuro”. Ovvero: “La restituzione del detenuto alla società civile - opportunamente rieducato e in assoluta sicurezza - restituisce alla stessa società la sua funzione civile di punire e allo stesso tempo di rieducare”. Si tratta, in definitiva, del concetto di giustizia riparativa, che spinge a “riparare per ripararsi”. Il percorso non sarà certamente facile e la strada risulterà in gran parte in salita. Ma non è una buona ragione per non provare a percorrerla, tenendo presente che l’obiettivo - come ricorda Papa Francesco - è “fare giustizia alla vittima, non giustiziare l’aggressore”. Il garantismo non è un luogo comune di Luigi Manconi e Federica Graziani Il Foglio, 20 ottobre 2020 Caro direttore, ti ringraziamo innanzitutto del generosissimo spazio che il tuo giornale ha offerto al nostro “Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale” (Einaudi). Tanta attenzione ci induce a entrare nel merito di quanto scritto da Giuliano Ferrara sabato scorso. Dopo aver definito il nostro come “un buon libro di cui c’era bisogno”, e questo basterebbe a blandire il nostro ego, Ferrara solleva, con elegante noncuranza, questioni importanti, che riguardano il funzionamento e la natura stessa dello stato di diritto. In effetti, la categoria di garantismo, come radicalmente avversa a quella di giustizialismo, rimanda a un giudizio sul nostro sistema democratico e sui princìpi, appunto, garantisti e liberali ai quali dovrebbe ispirarsi. Poi, le parole - com’è fin troppo noto - sono convenzioni e sappiamo che il termine “garantista” non piace a tanti, ma è utile a definire puntualmente le cose di cui vogliamo parlare. E non si tratta di fuffa, come sembra credere Ferrara quando scrive: “vedo nell’ipergarantismo, soprattutto di questi tempi, una chiacchiera politicamente correttissima, che non mi assomiglia e non frequento di mio”, e più oltre: “La litania liberale e radicale del garantismo in sé non mi affascina […]. La trovo un altro dei tanti modi di manipolare il discorso pubblico, uno dei più decenti, d’accordo, ma nel dizionario delle idee ricevute, dei luoghi comuni, metterei senz’altro la voce: garantismo”. È qui che il nostro dissenso si fa profondo. Intanto per una ragione statistica: il garantismo, in Italia, è tuttora drammaticamente minoritario (altro che “dizionario dei luoghi comuni”). Atteggiamento culturale di pochi e opzione politica di pochissimi, se ci riferiamo a ciò che Ferrara chiama, chissà perché, “ipergarantismo”: e che è invece il solo garantismo possibile. Ossia quello che va applicato ai poveri cristi gettati in galera senza uno straccio di avvocato, così come a Silvio Berlusconi. Sia all’immigrato irregolare, sia, ci vogliamo rovinare, a Matteo Salvini. Coloro che, al contrario, pretendono diritti e garanzie solo per Berlusconi e per Salvini, sono cosa diversa e poco interessante. Per questo ci permettiamo di dire che l’impostazione di Ferrara sembra tutta rinchiusa dentro una prospettiva mediatico-mondana, dove il garantismo è un’opzione tra le altre che equivale esattamente all’opzione opposta, finendo l’una con l’annullarsi nell’altra. In questa visione che tutto azzera e livella, le parole e le opere di Marco Travaglio, proprio perché intimamente calate nel circuito propagandistico-giudiziario, vengono valutate solo per la loro efficacia (tantissima, lo sappiamo) e per la loro capacità pervasiva (rilevante anche questa) e, così, vengono ridotte a una postura stilistica, a una variante dialettica, a un genere letterario come un altro. Insomma, Travaglio - al quale il nostro libro dedica appena un 15 per cento delle sue pagine - sarebbe una semplice clausola del discorso pubblico, da accogliere con neghittosa curiosità e da apprezzare o meno in base esclusivamente al voto ottenuto nel recitare la sua parte in commedia. E, invece, il garantismo è tutt’altra cosa. Senza enfasi e senza alcuna concessione all’eroicismo delle “battaglie” e alla tentazione della “superiorità morale”, il garantismo muove, secondo la lezione di Marco Pannella, dal fondo oscuro dove precipita la crisi della giustizia: la cella. Il garantismo ha un senso perché denuncia il fatto che una norma di un governo di centrosinistra ha ridotto i gradi di giudizio per i richiedenti asilo, limitandone i diritti e introducendo una discriminazione rispetto ai cittadini italiani; e ha senso perché Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia, è stato tenuto in isolamento per dieci mesi nel carcere di Nuoro. Insomma, dietro quel “dizionario delle idee ricevute” può esserci molta sofferenza. “Carcere e territorio”. I 40 anni dell’associazione in due libri Corriere della Sera, 20 ottobre 2020 In 40 anni duemila detenuti bergamaschi reinseriti nel mondo del lavoro, con il tasso di recidiva sceso sotto il 20%, contro il 70% di chi sconta l’intera pena in carcere. L’interpretazione rieducativa della pena è il focus dell’associazione Carcere e territorio. I libri “Carcere e territorio 40 anni di storia bergamasca” di Olivero Arzuffi e “Abitare le biografie nell’esecuzione penale esterna” di Greta Persico e Laura Boschetti, ripercorrono storie di detenuti e volontari. “I detenuti che non recidono i contatti con la famiglia e il territorio riescono a riprendere una vita nel rispetto della convivenza civile”, spiega Lucia Manenti, dell’Ufficio di esecuzione penale esterna. Mentre per il presidente di Carcere e territorio, Fausto Gritti “bisogna far sì che la sensibilità sul carcere si estenda fuori dalla città, in provincia”. “Carcere e territorio è concreta - aggiunge la direttrice del carcere, Teresa Mazzotta -. Le attività esterne e le misure alternative sono fondamentali al fine della rieducazione, vedo un calo dei volontari nell’ultimo periodo”. Il triste dilemma della rivista anarchica di Mario Di Vito Il Manifesto, 20 ottobre 2020 Dopo quarantanove anni “A” potrebbe cessare le sue pubblicazioni, come disposto dallo storico fondatore Paolo Pinzi nel testamento. Ma il fratello è contrario e il gruppo spaccato. La notizia, in sé, è semplice, per quanto spiacevole: dopo quarantanove anni A Rivista Anarchica cessa le sue pubblicazioni. La prima testata d’Italia “in ordine alfabetico” non arriverà più ai suoi abbonati e ai suoi diffusori, lasciando un buco là dove ogni mese era possibile leggere una rassegna piuttosto esaustiva di spunti, temi e idee dal variegato mondo libertario. La storia è nota e tinta di leggenda: il mensile preferito da Fabrizio De André (che finanziava), Piazza Fontana, la “strage di Stato”, la campagna per la liberazione di Pietro Valpreda, la convinzione intima che “non esistono poteri buoni” e che dunque l’anarchia non sia una posizione estrema, ma l’unica davvero accettabile. Era lunedì 20 luglio quando lo storico fondatore e redattore - in realtà direttore, ma odiava questa parola - Paolo Finzi ha scelto di morire lanciandosi sotto a un treno a Forlì, e non pochi si sono chiesti che fine avrebbe fatto la rivista di cui era anima, nume e cuore pulsante da decenni. La risposta è arrivata come un colpo secco alla fine della scorsa settimana: cessazione delle attività “per volontà testamentaria”, dicono dalla redazione. “È evidente che per l’affetto e il rispetto che portiamo nei confronti di Paolo e della sua opera, seguiremo le sue indicazioni”, si legge nella laconica lettera inviata a lettori e collaboratori. Il sociologo Enrico Finzi, fratello comunista di Paolo, però parla di questo gesto come di “un’infamia” e, in qualità di esecutore testamentario, si dice “amareggiato, schifato, infuriato” perché “la decisione di non dare un futuro ad A è stata presa da un minuscolo gruppo di persone; non è stata condivisa da me e da tante compagne e compagni. Ribalta orientamenti sino a poco tempo fa accettati”. Da qui anche la definizione di quello che, secondo lui, sarebbe stato il futuro della Rivista Anarchica: un numero dedicato al suo fondatore - già in preparazione ma mai concluso -, l’uscita di altri numeri per arrivare alla prossima primavera, cioè al cinquantesimo anniversario, e poi “una prosecuzione a costi abbattuti, ricorrendo all’online”. In sostanza, una morte dolce: se A è sopravvissuta tutto questo tempo è solo perché Paolo Finzi, di mese in mese, per miracolo (cosa a cui non ha mai creduto) riusciva a tenere insieme tutti i pezzi, far quadrare i conti e mandare il numero chiuso in tipografia, pronto per essere spedito. Per pensare che la Rivista Anarchica possa continuare a esistere anche senza di lui serve un notevole sforzo di immaginazione. Sostiene, con una buona dose di ottimismo della volontà, Enrico Finzi: “L’idea è sempre stata quella di impegnare la meravigliosa comunità dei libertari e di alcuni supporter in uno sforzo condiviso, anche se Paolo lo riteneva improbabile”. Soprattutto negli ultimi tempi, in effetti, il redattore di A aveva espresso a più riprese pensieri molto cupi sul futuro del mensile, pur continuando a tessere rapporti e a organizzare iniziative per un domani che infine ha deciso di non raggiungere. Quel che resta della redazione di A, comunque, non intende replicare alla sfuriata del fratello del fondatore, ma si limita a ribadire che “quello che Editrice A aveva da dire è stato scritto”. Punto e basta. Non ha senso chiedersi dove sia la verità, nel lutto e nella sconfitta, in fondo, si tratta di una faccenda poco rilevante, buona giusta per far agitare notai e avvocati, categorie di persone che gli anarchici tengono alla giusta distanza. A far più male sono le parole, i pensieri e soprattutto i sospetti, con la paura del tradimento sempre in agguato a tormentare le coscienze e a mettere in dubbio anche l’assunto più importante di tutti, quello del fuorilegge Jules Bonnot: “Rimpianti sì, ma in ogni caso nessun rimorso”. Sono gli ultimi riflessi di una storia dolorosa cominciata con la morte volontaria dell’anarchico Finzi e che ora vede una schiera di orfani in atroce difficoltà a gestire un’eredità non solo ideale: la rivista e i suoi oltre cinquemila lettori mensili sono un capitale che sarebbe un peccato disperdere. Non che manchino le idee, ad ogni buon conto. La redazione di A sta lavorando per mettere in piedi un nuovo progetto e si è già lanciata alla ricerca di una casa editrice disposta a investire qualcosa, nell’ennesima riproposizione di un grande classico delle avventure anarchiche: la lotta per la sopravvivenza economica, un momento che di solito si vive con l’acqua costantemente all’altezza della gola ma che finisce anche con il cementare i rapporti e con la scoperta che l’impegno dei militanti-lettori spesso e volentieri si traduce in una pioggia di donazioni. È successo varie volte, non si può escludere che possa accadere di nuovo. Resta la spaccatura nella famiglia anarchica ed è qualcosa in più di un cattivo presagio. È la manifestazione di una stanchezza che ormai si avverte da anni, come se la storia fosse andata troppo avanti e avesse lasciato i libertari fermi al palo a domandarsi quale direzione prendere. Un dramma politico che scivola sul personale, tra compagne e compagni anche di vecchissima data che se ne dicono di tutti i colori, in faccia e dietro le spalle. Di certo non un bello spettacolo. È così che anche il testamento di Paolo Finzi diventa terreno di scontro: chiudere o no? E, se anche il fondatore avesse deciso di portare via con sé A, sarebbe davvero giusto ottemperare alle sue volontà o sarebbe meglio discuterle? C’è, ad esempio, chi taccia questa decisione, vera o presunta, di “autoritarismo”, attributo ben poco anarchico e, dunque, da respingere in toto, costi quel che costi. Alla fine, forse, l’eredità di Finzi non va ricercata nella rivista che ha tirato su come se fosse una figlia, ma nelle sue stesse parole, ovvero nella volontà sempre perseguita di condurre il pensiero libertario fuori dai suoi posti canonici, oltre le sue liturgie e i suoi spazi più o meno angusti, alla ricerca continua e ostinata di quel sospiro che si avverte ovunque nel mondo. La fiaccola dell’anarchia che resta accesa anche dopo che gli anarchici, per definizione “scacciati senza colpa”, sono andati via. La politica e il lato oscuro di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 20 ottobre 2020 In una comunità polarizzata possono emergere forze che pensano di guadagnare spazi sfruttando il caos. Nelle società polarizzate, come l’Italia (tradizionalmente) e gli Stati Uniti (da alcuni decenni), ove per molti il senso di appartenenza a una qualche “tribù” sub-nazionale è più forte del senso di appartenenza alla comunità nazionale, appare con più evidenza ciò che è sempre vero: una delle cause della pericolosità della politica è che essa è per tanta gente un mezzo per trasformare frustrazioni private in violenza pubblica e, spesso, purtroppo, non solo verbale. Solo in riferimento alla politica ti capita di imbatterti in persone, apparentemente miti e sane di mente, che dicono di “odiare” il tale leader politico. Sanno che usare la parola “odio” significa incitare alla violenza. Ma quando si tratta di politica a molti sembra lecito ciò che non riterrebbero tale se riferito ad altri ambiti della vita sociale. Anche quando si è al di qua della linea che separa la violenza verbale dalla violenza fisica, il “lato oscuro” della politica è sempre presente. Ad esempio, i disgraziati che hanno insultato la memoria di Jole Santelli, la defunta presidente della regione Calabria, non ci ricordano solo, genericamente, di cosa siano capaci gli esseri umani. Ci ricordano anche un’altra cosa: che se la politica è il luogo in cui certe persone si sentono legittimate a trasformare le proprie frustrazioni private in aggressività, ci sono sempre anche altre persone, dotate di razionalità e capaci di freddo calcolo, pronte a sfruttare e a manovrare i suddetti frustrati. Le conseguenze possono essere assai gravi. Vale per il professore decapitato in Francia e per tanti altri tragici episodi: i killer, per lo più, sono frustrati caricati a molla. I burattinai, invece, sono freddi calcolatori. Prendiamo il caso americano. È indubbio che esiste anche la stupidità ma appare chiaro che coloro che hanno deciso, in molte città statunitensi, di trasformare in rivolta urbana le più che legittime proteste per l’uccisione da parte della polizia di George Floyd e di altri, hanno freddamente scelto di “votare” per Donald Trump. Secondo la logica del “tanto peggio tanto meglio” che è sempre stata propria, in ogni tempo, dei rivoluzionari. Per lo meno, c’è da chiedersi se le degenerazioni violente del movimento Black Lives Matter faranno o no più danni allo sfidante Joe Biden di quanti gli estremisti di destra scesi in piazza contro quel movimento ne faranno al presidente in carica Donald Trump. Quale dei due gruppi spaventa di più l’elettorato? Al momento, i sondaggi danno vincente Biden (ma davano vincente anche Hillary Clinton alle elezioni precedenti e finì come sappiamo). È anche chiaro che Biden è una personalità debole, priva di carisma. È favorito ma ciò sembra più l’effetto di una diffusa avversione a Trump che di un apprezzamento senza riserve nei suoi confronti. Il vero vantaggio di Biden dipende dagli errori commessi dal presidente nella gestione dell’emergenza Covid e dai danni economici provocati dalla pandemia. Quel vantaggio potrebbe essere eroso se non si fermassero le violenze di strada che hanno spaventato molti americani nonché gli sfregi alla loro storia e alla loro identità con l’abbattimento di statue (da Colombo a Jefferson) che ne sono il simbolo. E sarebbe un guaio elettorale per Biden se i democratici dessero l’impressione di non essere abbastanza decisi nel contrapporsi a tutto ciò. In una società polarizzata possono emergere politici estremisti che pensano di guadagnare spazi e influenza sfruttando le manifestazioni violente. All’estrema sinistra politici “rivoluzionari” cercano di farsi spazio ai danni dei democratici (all’insegna dello slogan: “aboliamo la polizia”). La stessa cosa accade o accadrà a destra (tanto in caso di sconfitta che di riconferma di Trump): sorgeranno leader, punti di riferimento dell’estremismo di destra, che si faranno strada a scapito di esponenti repubblicani. Dopo di che, il nuovo estremismo (di destra e di sinistra) condizionerà le componenti più centriste dello schieramento politico americano. Ciò, però, non è inevitabile. Una nuova Amministrazione democratica potrebbe mostrarsi ferma e dura nei confronti di ogni forma di violenza, togliendo spazio agli estremisti e tranquillizzando così la maggioranza degli americani. Sempre ricordando però che in un sistema federale moltissimo dipende dalla disponibilità delle autorità statali e locali a cooperare con il presidente. È possibile, e forse probabile, nonostante i timori degli ultimi tempi, che le istituzioni politiche statunitensi si rivelino così forti e così radicate da poter superare, magari con qualche ammaccatura, anche un frangente come questo. Così forti da poter resistere a un presidente come Trump nonché alla pressione dell’estremismo più violento di destra e di sinistra. Ci sono alcuni aspetti della politica che sono sempre gli stessi in ogni tempo e luogo. Ci sono però anche differenti tradizioni e istituzioni. In taluni casi, esse sono solide e capaci di tenere a bada il lato oscuro, il potenziale di violenza collettiva sempre presente (magari sottotraccia ma pronto ad attivarsi) in ogni aggregato umano. Uno degli aspetti più ammirevoli della civiltà occidentale è il fatto di avere creato istituzioni che incoraggiano la libertà personale scoraggiando al tempo stesso le diffuse vocazioni e propensioni alla violenza. Se in un prossimo futuro ciò non valesse più per gli Stati Uniti, saremmo tutti, non solo gli americani, nei guai. Ci conviene confidare nella solidità e nella tenuta delle istituzioni democratiche americane. Il difficile equilibrio tra riforme e sicurezza di Mauro Magatti Corriere della Sera, 20 ottobre 2020 La sfiducia cresce a causa di instabilità lavorativa, basso livello di istruzione, marginalità territoriale. E con il Covid la situazione peggiora. L’ultima ricerca, pubblicata qualche giorno fa, dell’Ipsos su democrazia e corpi intermedi conferma la fragilità del nostro sistema istituzionale. Due intervistati su tre dichiarano infatti di essere favorevoli a cercare “un modo migliore per governare l’Italia oggi”. Rafforzando tendenze già esistenti prima del Covid, la sfiducia verso le istituzioni aumenta fino a diventare largamente maggioritaria col crescere del livello di insicurezza personale, causata dalla compresenza di una serie di fattori: instabilità lavorativa, basso livello di istruzione, marginalità territoriale, qualità della vita affettiva e relazionale. Con punte che si raggiungono nella fase centrale della vita (30-50 anni): in un Paese come l’Italia, a bassissima crescita ormai da molti anni, sono tanti coloro che hanno perso la speranza che le istituzioni politiche (ma anche le associazioni di rappresentanza, a cominciare dai sindacati) possano portare qualche beneficio alla loro vita personale. Ciò che si lamenta è l’assenza di un filtro rispetto ai potenti e imperscrutabili processi a cui molti si sentono esposti. Domanda di protezione che, pur non essendo priva di ambiguità, ha le sue ragioni, che non sono però mai state pienamente riconosciute. A questa domanda si tende a rispondere col mantra della crescita. Senza capire che l’insoddisfazione di molti è dovuta proprio alla ripetuta frustrazione di non vedere corrisposta quella promessa di prosperità così insistentemente ripetuta. In questo quadro diventano attraenti risposte più o meno semplicistiche. Che ruotano intorno alla democrazia diretta - a cui guarda con favore quasi il 70% degli italiani - o all’idea dell’uomo forte. Insomma, sono le istituzioni della mediazione - quelle su cui si basano le nostre democrazie - che incontrano sempre minor favore. Troppo lente, troppo inefficaci, troppo costose. Lo hanno documentato le ultime elezioni regionali: in modo del tutto indifferente rispetto alla collocazione destra-sinistra, tanto al Nord quanto al Sud, a vincere - anzi stravincere - sono stati candidati presidenti che, rispetto al proprio elettorato regionale, sono diventati punto di riferimento in grado di attenuare questo senso di smarrimento. E ciò senza una relazione precisa tra questo senso di rassicurazione e la capacità effettiva di realizzare una efficace azione di governo. Come a dire che non è affatto automatico che la risposta alla domanda di sicurezza venga cercata (e almeno in prima battuta trovata) in una logica di funzionamento e buon governo. Ugualmente (e in alcuni casi) più importante è anche una logica di appartenenza e riconoscimento. È chiaro che queste tendenze sono destinate a rafforzarsi col Covid, dato che è proprio il senso di insicurezza che cresce. Con conseguenze che meritano di essere considerate. Nella scorsa primavera, l’importanza di una politica in grado di contrastare un nemico imprevisto e imprevedibile è stata immediata e universalmente riconosciuta. E, nel quadro dell’emergenza, il governo ha avuto la possibilità di giocare la carta della protezione, con un forte aumento dell’indebitamento. Come ha documentato il recente rapporto dell’Asvis, le misure fin qui adottate dal governo sono state per due terzi di tipo protettivo, mentre assai più contenuto è stato l’impegno nelle politiche di adattamento e di trasformazione. Ora, però, il prolungarsi della crisi cambia lo scenario. Mentre la domanda di protezione non è affatto destinata a ridursi, diventerà sempre più difficile riuscire a garantire un ombrello per tutti. Il tema della asimmetria dei costi di aggiustamento - il fatto cioè che non tutti sono ugualmente esposti alle conseguenze della crisi pandemica - non potrà più essere eluso: mentre alcuni settori (per esempio i dipendenti pubblici) sono sostanzialmente protetti e altri hanno addirittura guadagnato (per esempio i settori medicale e digitale), ci sono comparti - a partire dal turismo e dal commercio e buona parte del lavoro indipendente - che si confrontano col crollo verticale del reddito. Né, si deve aggiungere, i cittadini si trovano tutti nella stessa condizione patrimoniale. Una frattura che, ricalcando tra l’altro gli orientamenti politici destra-sinistra, è destinata ad aumentare lo scetticismo nei confronti dell’azione di governo. D’altra parte, col prolungarsi della crisi, la semplice protezione dovrà essere superata. Anche perché l’accesso alle risorse europee è vincolato all’adozione di politiche trasformative che peraltro tendono a portate effetti nel medio termine e a beneficiare più alcuni gruppi che altri. Col rischio di una politica sempre più lontana dalla realtà di molti elettori, che si troveranno ad affrontare problemi estremamente concreti e urgenti. È dunque questo il dilemma politico che il governo dovrà tentare di risolvere nei prossimi mesi: come intraprendere la via delle riforme - sapendo che solo in questo modo l’Italia può tornare a guardare al futuro - quando una quota molto grande della popolazione italiana chiede solo di essere protetta? In questa situazione tracciare una via - vitale per la democrazia italiana - è molto difficile e comunque comporta riuscire a realizzare un qualche punto di equilibrio tra l’autorevolezza istituzionale (compattezza politica e leadership chiara, in grado di trasmettere il senso di una visione a garanzia di tutti) e l’efficacia dell’azione (sia sul lato protettivo che trasformativo). Facile a dirsi, difficilissimo a farsi. Tanto più che, allo stato attuale, è assai arduo essere ottimisti sul fatto che la maggioranza di governo sia davvero consapevole della portata della sfida. Arriva il coprifuoco e il Covid ci riporta ai tempi della guerra di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 20 ottobre 2020 In francese è “couvre-feu” e in inglese è “curfew”, che suonano proprio come il nostro “coprifuoco”, perché indicano proprio la stessa cosa, cioè l’ordinanza di spegnere tutti i fuochi di notte per evitare che le case di legno del tempo - siamo nell’alto Medioevo - divampassero con una scintilla come paglia e interi borghi finissero letteralmente in cenere. Una specie di pesante coperchio in ghisa (il copri- fuoco) veniva messo sui focolari per diminuire la potenza del fuoco e il rischio di incendio. Era una misura “domestica”, di cura e di servizio - non era ancora diventata, per metafora, una misura “militare”. Solo i tedeschi, che hanno una lingua precisa, indicano esattamente quel che significa: “Ausgangssperre”, ovvero “divieto di uscita”. Perché è questo, nell’era moderna, il coprifuoco: il divieto di circolare liberamente per le strade da una data ora a un’altra. “Il ministro Badoglio succeduto a Mussolini ha indetto per l’Italia lo stato d’assedio con la legge del coprifuoco. In tutte le città viene creato il Commissariato Militare”: è il 26 luglio 1943, il fascismo è caduto, Mussolini è stato arrestato e, a memoria d’uomo, è la prima volta che in Italia si applica il coprifuoco. Tutti, dalle 20 alle 6 del mattino, dovevano restare chiusi in casa. E l’ultima volta che è stato applicato in Italia è poco prima della Liberazione, quando il 18 marzo 1945 il Questore di Modena con un avviso pubblico diede comunicazione che il Comando Germanico aveva disposto il coprifuoco dalle ore 18.30 alle ore 6.30, e stabilì che “chiunque venisse trovato a circolare senza il permesso rilasciato dal Comando di Piazza fosse tratto in arresto e giudicato secondo le leggi di Guerra”. Perché, volente o meno, capisci che c’è una militarizzazione del linguaggio in questo dannato contagio e nelle misure che progressivamente si mettono in opera. Per farla breve, in un pugno di mesi, siamo passati dall’hashtag #iorestoacasa (con i suoi annessi di inni ai balconi e battimani ai nostri eroi in prima linea nella sanità e bandiere sventolate - e pure ce lo copiarono, nel mondo: #stayathome, #resteralamaison) - a #coprifuoco. È proprio un rovesciamento delle cose: da una consapevolezza collettiva di sacrifici e rinunce alla propria mobilità per poter ridurre la circolazione del virus, a un comando dall’alto che obbliga e fa divieto, proprio per lo stesso obiettivo: ridurre la circolazione del virus. Certo, non c’è un Commissariato Militare, non c’è il Comando Tedesco e non ci sono le Leggi di Guerra. Ma qualcosa non sta andando per il verso giusto. Non c’è la Legge Marziale, non dobbiamo oscurare i vetri con i fogli di giornale, spegnere la luce elettrica e accendere candele, e non dobbiamo applicare alla finestra lunghe strisce di scotch per impedire che si frantumino, per l’onda d’urto delle bombe che cadono sulle città. E non ci viene distribuita la tessera per i prodotti alimentari, mentre il burro e la carne sono razionati. E non c’è il mercato nero, dove prendere a peso d’oro qualche uovo fresco per i bambini o un pugno di farina o una pezza di stoffa, di quella “straniera”. E tutto questo, peraltro, è in buona parte “immaginario” perché solo una fetta piccola piccola della nostra popolazione può ricordare - da adolescente o da adulti già - quel tempo. Ma è un immaginario che ci sta con il fiato sul collo. Nel 1918 - durante la Prima guerra mondiale - in Inghilterra venne applicato il coprifuoco. Non era una misura messa in vigore per il timore di blitz aerei, la guerra non aveva ancora assunto quel carattere e si moriva, a milioni, in trincea, terra terra. Era una misura di “risparmio”: si spegnevano le luci, si chiudevano i pub, i ristoranti, bisognava essere frugali, che lo sforzo bellico impegnava tutte le risorse. Ma qui, ora, non si tratta di risparmiare risorse - si tratta di fermare la circolazione delle persone. Rumore di stivali sul selciato, ordini secchi, tute mimetiche o total-body sanitarie, cingolati militari, reticolati e filo spinato, maschere antigas, armi. Armi, armi, armi. È questo immaginario che evoca il coprifuoco. Che sia storico o distopico - moderno o post- moderno. Che venga dal cinema, dalla letteratura o dalle immagini che già abbiamo visto durante questa pandemia. C’è un nemico invisibile che ci attacca e con cui siamo in guerra. Progressivamente, il nemico diventa il contagio - perciò i contagiati. Confinati, isolati, in quarantena. Il lockdown non basta più - ci vuole il coprifuoco, die Ausgangssperre. “On doit continuer de pouvoir aller au travail dans tous les secteurs. Pour celles et ceux qui rentrent du travail ou qui y vont, il y aura une autorisation” - comunica in conferenza- stampa il presidente francese Macron. E si vede che proprio non è una cosa che gli piace - insomma, la Francia, patria dei diritti. Si circolerà - per andare e tornare dal lavoro - solo con “une autorisation”. Insomma, un lasciapassare. Perché è questo che dovrai esibire se ti ferma la polizia, l’esercito - chi? Le parole evocano scenari - c’è chi prova a limitarsi agli aspetti “tecnici”: chiuderemo alle 23 o alle 24? Come se il contagio avesse, al contrario di noi, libera uscita da una cert’ora in poi, padrone delle strade di notte, e bastasse regolare i nostri orologi con il suo - e è fatta. C’è chi invece quasi se ne compiace: “Vi anticipo, che nel fine settimana di ottobre, che è Halloween, dalle 22 noi chiuderemo tutto. E sarà coprifuoco” - annuncia il governatore campano De Luca. In continuità, se così si può dire, con il suo metaforico “lanciafiamme”. I tecnicismi - consentito l’asporto, divieto di assembramento; consentite più di sei persone dentro i locali, divieto di più di sei persone fuori dei locali; tutti i congiunti nella fila di sinistra e i non congiunti nella fila di destra - che provano a trovare un equilibrio tra la virulenza e la socialità, tra il contagio e la mobilità, vengono spazzati via. Non abbiamo alcuna esperienza di coprifuoco, non sappiamo come sarà, chi lo gestirà, cosa comporterà realmente. Riempiamo perciò questa terra incognita dell’opposizione “militare” al virus verso la quale ci incamminiamo, riempiendola del nostro immaginario. E non ci dà sollievo. Anzi. Siamo alle invasioni aliene, alle catastrofi cosmiche, alla guerra dei mondi. Come ha scritto Susan Sontag - “L’immaginario, soprattutto quello difensivo che ci tiene lontano dagli altri, l’immaginario colpevolizzante è più difficile da sconfiggere che la malattia”. Per i malati mentali la giustizia italiana è quella di 90 anni fa di Massimo Cozza* Il Domani, 20 ottobre 2020 Il Regio Decreto 1399 del 19 ottobre 1930, cosiddetto Codice Rocco di procedura penale, compie 90 anni, con le norme relative al doppio binario e alla pericolosità sociale per infermità di mente ancora vigenti. Eppure il sapere psichiatrico è radicalmente cambiato. I principi lombrosiani di fine 800 sostenuti ne L’uomo delinquente, che hanno ispirato il codice, affermavano una malattia mentale di natura organica ed ereditaria, inguaribile e pericolosa per sé e per gli altri. Per chi soffriva di disturbi psichiatrici gravi si aprivano le porte del manicomio, dal quale poi era spesso assai difficile uscire. Chi compiva reati, anche di piccola entità, una volta riconosciuta l’incapacità di intendere e/o di volere per infermità mentale al momento in cui aveva commesso il fatto, veniva giudicato non imputabile e quindi prosciolto, contrariamente a tutti gli altri cittadini sottoposti invece a regolare processo. Per la persona giudicata non imputabile per infermità di mente, una volta ritenuta socialmente pericolosa sulla base della probabilità di commettere nuovi reati (o reiterare uno simile), scattavano le misure di sicurezza dell’internamento nei manicomi criminali. Questo è il cosiddetto doppio binario, un percorso diverso di giustizia e di cure tra chi veniva giudicato normale oppure malato di mente. Oggi la concezione della malattia mentale è radicalmente cambiata, con un riconoscimento del coinvolgimento multidimensionale dei fattori integrati biologici, psicologici e sociali. Al centro dell’interesse, come affermò Franco Basaglia, più il malato che la malattia. In Italia, in particolare, c’è stata la chiusura dei manicomi, e negli ultimi anni sono stati chiusi definitivamente anche gli ospedali psichiatrici giudiziari. Sono state istituite le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), con una capienza massima diventi posti letto a gestione sanitaria, strutturate all’interno dell’organizzazione dei dipartimenti di salute mentale delle Asl, che dovrebbero comunque rappresentare sulla carta una extrema ratio per le misure di sicurezza detentive, a fronte di una presa in carico territoriale. Eppure le norme del codice Rocco sono sempre rimaste le stesse. Persiste la logica del doppio binario per le persone con gravi disturbi mentali, nonostante la convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata in Italia nel 2009, che stabilisce i principi di eguaglianza e non discriminazione. Il reo folle e il folle reo, resta un dualismo ancora non sanato. Se è vero che il diritto di cittadinanza è uno degli obbiettivi principali per chi crede in una tutela della salute mentale comunitaria, questo non può che passare anche attraverso il diritto alla responsabilità. Peraltro il concetto della pericolosità per sé e per gli altri, secondo il quale si poteva essere internati in un manicomio, è stato definitivamente abolito dalla legge 180 che prevede la possibilità del trattamento sanitario obbligatorio in ospedale solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati e se non vi siano le condizioni per misure sanitarie extra ospedaliere.Ma la pericolosità della malattia mentale è ancora prevista dal vigente codice Rocco. pertanto necessario completare il percorso del diritto alla salute mentale con il superamento del doppio binario, accompagnandolo con una riforma dell’assistenza psichiatrica in carcere e con un potenziamento dei dipartimenti di salute mentale, anche attraverso le risorse europee per la sanità. C’è bisogno di indicazioni chiare, di requisiti da definire, di finanziamenti da impegnare, con la consapevolezza che la salute psichica dei detenuti va comunque affrontata in primo luogo con una revisione generale dell’istituzione, con spazi adeguati, con un nuovo clima rieducativo-trattamentale e relazionale. Si tratta, in definitiva, di partire dalla storia di ciascuno per progettare percorsi di cura e di riabilitazione tenendo conto non solo delle condizioni cliniche ma anche delle relazioni sociali, affettive e psicologiche, con la consapevolezza che l’uguaglianza dei diritti e dei doveri anche di compie un reato deve rappresentare un obbiettivo da costruire con una incisiva riforma legislativa e con un investimento culturale, scientifico e di risorse. Con la speranza di non arrivare al centenario del codice Rocco ancora con il doppio binario per la malattia mentale. *Psichiatra, direttore del dipartimento di salute mentale della Asl Roma 2. Colombia. L’autopsia propende per il “suicidio” di Paciolla. Sempre che non sia stato ucciso di Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 20 ottobre 2020 Il caso del volontario Onu. A 90 giorni dalla morte di Mario la rivista Semana pubblica l’esito degli esami effettuati a Bogotà. Dopo più di 90 giorni dalla morte di Mario Paciolla la rivista Semana ha reso pubblici i risultati dell’autopsia eseguita dalle autorità colombiane. La perizia fornisce alcuni dettagli circa la possibile dinamica della morte del cooperante Onu. Sugli avambracci sono stati riscontrati 8 tagli profondi meno di 4 millimetri. Sono stati inoltre rinvenuti due coltelli, una pozza e due recipienti pieni di sangue. Alcuni campioni del sangue sono stati inviati a un laboratorio per un esame del Dna dato che una tale quantità di sangue ha fatto sorgere dubbi sulla compatibilità con le ferite riscontrate sugli arti. Tali ferite hanno compromesso i tendini delle braccia e, secondo gli esperti tali lacerazioni difficilmente avrebbero reso Mario in grado di produrre un nodo così complesso come quello rinvenuto sul lenzuolo con cui è stato ritrovato impiccato. L’autopsia conclude però che la causa della morte è stata l’asfissia provocata dalla compressione dei vasi sanguigni del collo durante il soffocamento e suggerisce che il cooperante si sia tolto la vita. Nel documento dell’Istituto Nazionale di Medicina Legale e Scienze Forensi si può leggere: “Se il lavoro investigativo escluderà altre circostanze relazionate alle indagini sulle modalità della morte, la stessa è compatibile con il suicidio”. Nel referto vengono menzionati anche due computer, un hard disk e due cellulari presenti nella stanza di Mario Paciolla al momento del ritrovamento del suo corpo, di cui ancora non si conosce l’ubicazione. Nonostante i pochi dettagli che sono emersi in questi mesi le dinamiche della morte del lavoratore delle Nazioni Unite rimangono ancora impossibili da ricostruire con precisione. All’appello mancano gli esiti dell’autopsia svolta dalle autorità italiane i cui risultati parziali sembra abbiano portato all’apertura di un’indagine per omicidio da parte della Procura di Roma. Alle due indagini ancora in corso, in Colombia e in Italia, se ne aggiunge una terza, quella interna dell’Onu, che nonostante abbia sollevato dall’immunità i propri membri in modo che potessero essere interrogati dalle autorità italiane e colombiane, continua a mantenere silenzio e discrezione sul caso. Turchia. Domani inizia il processo per l’assassinio dell’avvocato Tahir Elçi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 ottobre 2020 Inizierà domani presso il tribunale di Diyarbak?r il processo contro tre agenti di polizia e un sospetto militante del Partito dei lavoratori del Kurdistan accusati dell’assassinio del noto avvocato per i diritti umani Tahir Elçi, avvenuto il 28 novembre 2015 al termine di una conferenza stampa tenuta nella città del sud-est della Turchia. La conferenza era stata indetta per chiedere la fine della violenza, dopo che il famoso minareto di Diyarbak?r era stato danneggiato negli scontri tra forze di sicurezza turche e militanti del Pkk. Alla fine dell’incontro con la stampa, Tahir Elçi disse: “Qui non vogliamo armi né scontri né operazioni di polizia”. Secondo la ricostruzione dei fatti, gli agenti di polizia spararono contro due sospetti militanti del Pkk in fuga centrando Tahir Elçi che si trovava ai piedi del monumento. La scena del crimine non venne transennata e indagini approfondite non vennero avviate se non quattro mesi dopo. Gli agenti di polizia presenti vennero inizialmente interrogati come testimoni. Solo dopo la pubblicazione di un rapporto di “Architettura forense”, che nel 2019 giunse alla conclusione che con ogni probabilità l’assassino era stato uno dei tre agenti presenti sul luogo del delitto, questi da testimoni sono diventati imputati. Rischiano una condanna per “morte causata da negligenza colposa” e una condanna da due a sei anni di carcere. Tahir Elçi era il presidente dell’Ordine degli avvocati di Diyarbak?r. Aveva rappresentato numerose vittime di violazioni dei diritti umani di fronte ai tribunali turchi e poi presso la Corte europea dei diritti umani, lavorando fianco a fianco con varie organizzazioni per i diritti umani, compresa Amnesty International. Nelle settimane precedenti il suo assassinio era stato al centro di una campagna denigratoria e aveva ricevuto minacce di morte, da lui regolarmente denunciate e rese pubbliche. Le autorità, anziché attivare misure di protezione, avevano aperto un procedimento contro di lui per accise del tutto inventate. Le intimidazioni erano iniziate dopo la partecipazione di Tahir Elçi a un programma televisivo nel quale aveva affermato che il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) non era un gruppo terroristico ma un movimento politico armato che godeva del sostegno popolare. “Il giorno in cui un avvocato che credeva nella lotta contro la guerra e la violenza è stato ucciso di fronte a tutti si è aperta una ferita, che rimane tuttora tale, nella società. Sebbene con un ritardo di cinque anni, speriamo nella giustizia. Non abbiamo abbandonato la nostra fiducia nella legge”. Sono le parole della vedova di Tahir Elçi, Türkan. Ci auguriamo che abbia ragione. Stati Uniti. Lisa Montgomery, la prima donna condannata a morte dopo il via libera di Trump di Francesco Semprini La Stampa, 20 ottobre 2020 Sarà uccisa l’8 dicembre: si tratta del primo caso dal 1953. La decisione è del Tribunale Federale dopo l’ok della Casa Bianca. Se nulla fermerà il boia nei prossimi cinquanta giorni, Lisa Montgomery diventerà la prima donna ad essere giustiziata per ordine delle autorità federali degli Stati Uniti da quasi settanta anni. Una condanna resa possibile dal ripristino delle esecuzioni a livello governativo voluto dall’amministrazione Trump lo scorso luglio. Il reato per cui è stata riconosciuta colpevole risale al 2004 quando ha strangolato una donna di 29 anni incinta e, dopo averle tagliato il ventre, ha rapito la bambina di otto mesi non ancora nata e che oggi ha 16 anni. Un delitto “particolarmente efferato” secondo il ministro della giustizia William Barr che ha fissato la data per l’esecuzione con iniezione letale per il prossimo 8 dicembre nel penitenziario federale di Terre Haute, in Indiana. A nulla sono valsi gli appelli e le richieste dei legali di Lisa, secondo cui si è in presenza di “una grave ingiustizia”: la donna infatti ha sempre sofferto di gravi disturbi mentali, più volte stuprata dal compagno della madre e poi abusata anche dai due mariti. Il tutto aggravato col tempo dalla dipendenza dall’alcol. La donna ha oggi 52 anni. Diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani promettono di dare battaglia fino all’ultimo istante per evitare che si replichi quanto non si vedeva dal 1953, quando furono due le donne ad essere giustiziate. Una di loro era Ethel Rosenberg, condannata alla sedia elettrica con l’accusa di spionaggio, per aver passato all’Unione Sovietica informazioni segrete sulla bomba atomica. L’altra detenuta giustiziata nel 1953 è Bonny Heady, condannata alla camera a gas per aver ucciso un bimbo di 6 anni. L’unica altra donna della storia americana mandata a morte per ordine del governo federale é stata nel 1865 Mary Suratt, proprietaria di una pensione, impiccata con l’accusa di aver preso parte a una congiura per assassinare il presidente Abraham Lincoln. Nelle prigioni statali, invece, 16 donne sono state giustiziate dal 1976, da quando la Corte Suprema ha terminato la moratoria sulle esecuzioni capitali. Barr ha inoltre fissato per il 10 dicembre l’esecuzione di Brandon Bernard, 40 anni, che nel 1999 in Texas uccise due giovani religiosi. Salgono così a nove in soli sette mesi le condanne a morte eseguite dall’amministrazione Trump. Eppure, il tema della pena di morte risulta non intercettato dai radar della campagna elettorale, sia da parte di Biden che da quella di Trump confermando come l’argomento a Washington sia blindato da una sorta di tacita inviolabilità trasversale. Nigeria. Rivolta contro la polizia corrotta e violenta. Assediato l’aeroporto di Lagos La Repubblica, 20 ottobre 2020 Le manifestazioni erano iniziate pacificamente contro la “Sars”, una formazione del Ministero dell’Interno contro le rapine che è diventata una sorta di mafia che depreda e terrorizza i cittadini. Sino ad oggi 15 morti, ma soprattutto migliaia di cortei, con assalti a stazioni di polizia. Liberati i detenuti di alcune carceri, schierato l’esercito. Da due settimane la Nigeria, il Paese più popoloso dell’Africa, sta precipitando in un vortice di violenze nate dalle prime proteste di un gruppo di giovani contro la polizia. Dall’inizio delle proteste sono morte 15 persone, fra cui 2 poliziotti, ma ormai le proteste e gli scontri violenti si sono diffusi in molte città dell’unione federale. Lagos, la capitale economica del Paese, è stata completamente bloccata un gigantesco ingorgo, con la folla che ha invaso tutte le strade principali e assediato anche l’aeroporto. Nella capitale dello Stato di Edo, Benin City, dove il tasso di criminalità è altissimo, centinaia di manifestanti si sono scontrati invece con gruppi di giovani armati di bastoni e pistole, accusati di essere pagati da responsabili politici locali. Le autorità hanno imposto un coprifuoco di 24 ore in seguito a quelli che sono stati descritti come “episodi di vandalismo e attacchi effettuati da teppisti sotto spoglie di manifestanti #endsars”, l’hashtag divenuto il simbolo della protesta. La “Sars” era la Squadra speciale anti-rapina della polizia sciolta proprio in seguito alle manifestazioni. Formata nel 1984 durante il regime militare, è accusata di estorsioni, torture e omicidi. La polizia ha denunciato su Twitter che presunti manifestanti hanno preso le armi liberando sospetti detenuti e incendiando alcune strutture. In video diffusi sui social si vedono alcuni uomini scavalcare un’alta recinzione di filo spinato che pare rappresenti le mura del carcere lungo la strada Sapele, sempre nello stato di Edo. Intanto, nella capitale federale Abuja l’esercito è stato schierato in forze dopo che i militari hanno messo in guardia da “elementi sovversivi e piantagrane” che stanno strumentalizzando le proteste per alimentare disordini. Scontri tra bande armate e dimostranti si sono verificati nei pressi della sede della banca centrale. A sostegno della protesta sono scesi in campo celebrità internazionali come il fondatore di Twitter Jack Dorsey, il rapper americano Kanie West, calciatori del calibro di Mesut Ozil e Marcus Rashford ma anche superstar nigeriane della musica come Davido e Wizkid. L’eco delle manifestazioni è arrivato anche in Italia. Alcuni attivisti di “Black Italians”, associazione che si batte per i diritti della comunità africana, si sono ritrovati davanti all’ambasciata della Nigeria e una delegazione è stata anche ricevuta nella sede diplomatica. “End police brutality in Nigeria” è la scritta con il pennarello su una maglietta bianca che Victor Osimhen, l’attaccante del Napoli, ha mostrato due giorni fa subito dopo aver messo a segno, nella partita con l’Atalanta, il suo primo gol nel campionato italiano. “Ai nostri eroi...il cambiamento sta per arrivare”, ha postato sul suo profilo instagram con la foto dell’esultanza dopo la rete alla Juventus, l’attaccante del Crotone, Nwanko Simy.