Il carcere a prova di virus del ministro Bonafede di Eleonora Martini Il Manifesto, 1 ottobre 2020 Lo stato dell’arte delle celle. Il guardasigilli in Senato: “Pochi contagi, più posti e più agenti”. Fin qui tutto bene, nelle carceri italiane. O meglio, qualche problemino ancora c’è ma dovrebbe rassicurare la strada intrapresa dal ministero di Giustizia a guida pentastellata, almeno stando alle parole di Alfonso Bonafede che ieri in commissione Giustizia del Senato, indossando una mascherina prodotta in carcere con su scritto “Stop alla violenza contro le donne”, ha riferito - con molte dimenticanze, tanto ottimismo e senza alcun contraddittorio da sinistra - lo stato dell’arte delle celle, ora che un picco dell’emergenza pandemica si può considerare superato. Le misure anti Covid adottate, ha riferito il ministro, hanno “evitato la diffusione massiva del contagio” tra i detenuti. I quali, anzi, si sarebbero ammalati più ai domiciliari che in cella. Al momento solo 20 reclusi risultano positivi, di cui uno ricoverato in ospedale, mentre tra il personale dell’Amministrazione in 57 hanno contratto il virus. Nel maggio scorso invece “risultavano accertati solo 115 casi di positività tra i reclusi”, un detenuto morto per Covid in cella e due che erano già ai domiciliari. Mentre tra il personale Dap, “al termine della fase 1, erano 159 i positivi a fronte di 40.751 persone in servizio”. Due gli agenti morti. Bisogna ammettere che il rigido lockdown imposto durante l’emergenza, per quanto doloroso, sicuramente ha dato i suoi frutti. Ma Bonafede rivendica come proprio successo anche la deflazione del sovraffollamento (“al 31 agosto i detenuti erano 53.921, rispetto ai 61 mila dei primi giorni di marzo”). Salvo poi spiegare che il ministro non ha alcuna responsabilità se ad una manciata di detenuti in regime duro, particolarmente a rischio Covid, erano stati concessi in un primo momento i domiciliari, subito revocati dopo le furiose polemiche: al 23 settembre 2020 sono rientrati, “tutti e tre i detenuti sottoposti al regime del 41bis che erano stati precedentemente inviati ai domiciliare, nonché i 109 detenuti appartenenti al circuito alta sicurezza”, ha assicurato Bonafede, aggiungendo poi che di questi “70 risultano detenuti definitivi e 42 sono ristretti a titolo cautelare”. Inoltre “si è proceduto all’immissione anticipata in servizio di 1.100 nuovi agenti di polizia; all’assunzione straordinaria di 1.000 operatori sanitari”, e sono state reperite “risorse aggiuntive per oltre 7 milioni, tramite Dl 18 e Dl 34 del 2020, destinate agli straordinari per la polizia penitenziaria, oltre a 5.541.200 euro del Dl 104 in fase di conversione”. E ora, nella fase post emergenziale, grazie al lavoro di 320 detenuti, scelti a turno “in tre strutture produttive individuate” saranno prodotte in carcere 800 mila mascherine chirurgiche. Il guardasigilli insomma, offre una visione quasi rosea, ben sapendo che l’unica opposizione che riceverà viene da destra, dai portavoce di un populismo penale che chiede di “rimandare a casa loro gli immigrati” che affollano per il 33% gli istituti italiani, “il taser o lo spray al peperoncino” in dotazione agli agenti, le “fascette di contenimento”, le “unità cinofile”, regole più ferree e così via. Dimentica, Bonafede, (e qualcuno glielo fa notare) le rivolte di marzo con 13 detenuti morti, le violenze che ne sono seguite come quella di cui si riparla in questi giorni, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dove la richiesta di mascherine e la protesta di alcuni detenuti contro le misure di quarantena sarebbe stata sedata da decine di poliziotti a suon di torture. Mentre qualche senatore ricorda al ministro che l’Italia continua a pagare multe salate in base alla sentenza Torreggiani, perché continua a violare il diritto minimo di 3 metri quadri a testa richiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la vivibilità di ciascun detenuto. “I dati del ministro certificano il fallimento di certe politiche, come quelle nei confronti delle droghe leggere - commenta Giulia Crivellini dei Radicali italiani - proprio nelle ore in cui la Commissione europea torna a bacchettarci anche per l’eccessiva durata dei processi civili e penali”. Mentre Rita Bernardini, della direzione del Partito Radicale, punta il dito contro “il Pd degli Stati generali dell’esecuzione penale” che “non ha aperto bocca sulle pene alternative al carcere, o sulla carenza di figure professionali destinate al trattamento in carcere, assecondando così l’impronta securitaria. Mancanza di conoscenza e approssimazione - conclude Bernardini - sono la cifra di questo governo in cui il Pd ha interamente delegato la politica sulla giustizia e sulla sua appendice penitenziaria al M5S. Un disastro”. Bonafede: “Intervenuti per evitare l’irreparabile con la pandemia” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 ottobre 2020 Poco affrontato il discorso trattamentale e quindi rieducativo dei detenuti, appena toccata la problematica del sistema sanitario e quindi del diritto alla salute delle persone recluse, nessun accenno alle vicende riguardante i presunti pestaggi che sarebbero avvenuti nei diversi penitenziari. Parliamo della riunione della commissione Giustizia del Senato, dedicata all’indagine conoscitiva sulle condizioni dei soggetti sottoposti a regime carcerario italiano. Due ore e mezzo è stato il tempo dedicato dal ministro Alfonso Bonafede, rispondendo anche alle domande dei membri della commissione. Ma quasi la totalità del tempo che il guardasigilli vi ha dedicato - anche a causa degli interventi di diversi senatori - è stato concentrato per chiarire il discorso “scarcerazioni”. Parliamo delle polemiche riguardanti i provvedimenti di detenzione domiciliare - contemplata dal nostro ordinamento - per gravi motivi di salute concessi a diverse centinaia di persone recluse per reati di mafia. Su 500, si è poi scoperto che solo meno della metà erano stati “scarcerati” per motivi legati all’emergenza Covid (erano malati e il virus sarebbe stato mortale, come in effetti è accaduto con alcuni detenuti già pieni di patologie gravi), mentre il resto era una detenzione domiciliare per assoluta incompatibilità con l’ambiente carcerario. L’intervento più duro, e anche sintomatico di una certa cultura dietrologica, è stato quello del senatore Mario Giarrusso. Ha parlato di trattativa, di magistrati di sorveglianza che non avrebbero fatto correttamente il loro dovere, di liberazione dei mafiosi in cambio di pace nelle carceri. Tutte questioni sviscerate più volte, ma evidentemente non è bastato. Non è l’unico senatore. In commissione è intervenuto anche il leghista Simone Pillon, il quale ha fatto da eco a Giarrusso sottolineando che quelle “scarcerazioni” sono state qualcosa di poco chiaro. Diversi interventi sono stati in quella direzione. Dal tenore delle domande, più che una indagine conoscitiva è sembrato un comizio. E a dirlo è stata la senatrice Anna Rossomando del Pd. È intervenuta sottolineando che molti senatori presenti sono avvocati come lei e ha trovato singolare il fatto che ci siano stati interventi poco conformi alla sede istituzionale, con argomentazioni non basate sulla conoscenza dei codici e articoli del nostro ordinamento penitenziario. A farlo notare è stato anche il senatore Giuseppe Cucca, di recente passato a Italia Viva, il quale ha cercato di correggere diverse inesattezze poste dagli altri parlamentari. Cucca ha ricordato, ad esempio, il fatto che i detenuti over 70 non sono solo mafiosi (il riferimento è alle polemiche della famosa circolare del Dap), ma ce ne sono tanti che - nonostante la norma sulla detenzione domiciliare parli chiaro - rimangono in carcere anche a 80 anni. Il senatore Cucca è anche stato uno dei pochi a chiedere qualcosa in più, come ad esempio la richiesta di ampliare la giustizia riparativa che era contemplata nella riforma originaria dell’ordinamento penitenziario. Riforma, ricordiamo, approvata a metà. Altro intervento fuori dal coro è stato quello della senatrice del Pd Monica Cirinnà, la quale ha evidenziato le problematiche delle detenute trans che hanno difficoltà a proseguire la cura ormonale in carcere. Ma, come detto, la grande maggioranza degli interventi sono stati tutti finalizzate al discorso “sicurezza” e su improbabili forme di lassismo. Lo stesso ministro Bonafede, alla fine dell’intervento ha tuonato: “Il sistema penitenziario è stato trascurato per decenni, la pandemia ha messo in crisi tutti i luoghi chiusi e tutte le misure intraprese. Un focolaio in carcere, sarebbe stato una apocalisse. Per questo siamo intervenuti per evitare l’irreparabile”. Il riferimento è al decreto cura Italia, che tra l’altro ha inciso poco sulla diminuzione del sovraffollamento (gran parte è stata l’azione incisiva della magistratura di sorveglianza ad evitare, appunto, l’irreparabile), una misura che ha utilizzato già la normativa esistente: la concessione - ovviamente sempre a discrezione della magistratura - di una detenzione domiciliare provvisoria a quelle persone che hanno avuto una pena residua di massimo 18 mesi. Il ministro Bonafede, per rispondere soprattutto all’accusa del suo ex compagno di partito Giarrusso, ha specificato che da tale misura erano esclusi chi si era macchiato di gravi reati e chi aveva partecipato alle rivolte carcerarie. Ha voluto poi rimarcare un concetto che teoricamente dovrebbe essere scontato per tutti: “La magistratura, come recita la nostra Costituzione, deve essere autonoma e indipendente, quindi io non ho il potere di decidere quale detenuto può uscire o entrare nel carcere”. Nello stesso tempo ha rivendicato i due decreti “antiscarcerazione”, sottolineando che grazie a questi sono potuti rientrare gran parte dei mafiosi, compresi i tre del 41 bis. Ma nessuno, in quella sede, ha ricordato che alcuni detenuti per mafia (ad esempio Carmelo Terranova), vecchi e gravemente malati, una volta fatto ritorno in carcere grazie alla rivalutazione imposta dai decreti, sono poi deceduti. Ma, come detto, in commissione Giustizia, di queste indagini conoscitive finora non ce ne sono traccia. Scarcerati per emergenza Covid, Bonafede: “Non decide il ministro chi deve rientrare in cella” di Liana Milella La Repubblica, 1 ottobre 2020 Il Guardasigilli: “In 111 sono ancora in detenzione domiciliare, ma per una decisione autonoma dei giudici”. L’ex 5S Giarrusso attacca: “Perché con la circolare del 21 marzo ne fu consentito il rilascio?”. La replica: “L’autonomia costituzionale dei magistrati è la base della democrazia”. “Sono 112 i boss già rientrati in cella”. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede, accompagnato dal capo del Dap Dino Petralia, parla davanti alla commissione Giustizia del Senato che ha aperto un’indagine conoscitiva sulle carceri. Fornisce i dati sui mafiosi - in tutto 223 dice Bonafede - messi agli arresti domiciliari durante l’emergenza Covid. Dice testualmente: “Alla data del 23 settembre i detenuti del circuito alta sicurezza e quelli sottoposti al regime del 41-bis rientrati negli istituti penitenziari risultano essere 112, cioè tutti e 3 quelli sottoposti al regime del 41-bis che erano stati precedentemente sottoposti a detenzione domiciliare, nonché ai 109 detenuti appartenenti al circuito dell’alta sicurezza. Dei 112 rientrati, 70 risultano detenuti definitivi e 42 sono ristretti a titolo cautelare”. Quindi sarebbero ancora 111 quelli tuttora ai domiciliari. Di questi Bonafede dice: “Si deve certamente ritenere che la permanenza degli stessi in detenzione domiciliare sia da ricondurre ad autonoma valutazione effettuata dall’autorità giudiziaria. Perché, lo ricordo ancora una volta, il decreto ha obbligato tutti i detenuti scarcerati per emergenza Covid a tornare davanti al giudice per una nova valutazione”. Il Guardasigilli si riferisce al suo decreto dello scorso maggio che ha imposto ai giudici di sorveglianza di rivedere la concessione dei domiciliari, rivalutandola periodicamente, la prima volta dopo un mese, e poi ogni 15 giorni. Decreto che i giudici hanno contestato ricorrendo anche alla Corte costituzionale, perché ritengono che limiti l’autonomia delle loro decisioni. Bonafede annuncia anche di aver disposto “un monitoraggio” sull’attuazione del decreto. Ma le sue parole non frenano le polemiche. Lo attacca l’ex M5S Mario Michele Giarrusso, che fa parte anche della commissione parlamentare Antimafia, che gli chiede le ragioni per cui fu emessa la nota circolare del 21 marzo, con cui il Dap segnalava ai giudici di sorveglianza di monitorare i detenuti affetti da una serie di patologie, ma anche quelli over 70. Secondo Giarrusso ritiene che fu proprio quella circolare a determinare le scarcerazioni di numerosi boss. Circolare e successive scarcerazioni che, sempre Giarrusso, collega alle rivolte avvenute in carcere a febbraio su cui sono state aperte indagini giudiziarie per verificarne la natura e l’ipotesi che fossero il segnale di una trattativa aperta con lo Stato che poi, come conseguenza, ha portato alle scarcerazioni. La reazione di Bonafede sulle scarcerazioni - La replica del Guardasigilli arriva a fine audizione. “Il sistema penitenziario è stato trascurato per decenni, quindi si trova in una situazione di normale precarietà, che inevitabilmente entra in tensione se si affronta una pandemia che nessuna democrazia moderna aveva affrontato”. Poi ecco lo sfogo: “Rispetto tutte le opinioni, sicuramente si poteva fare di meglio, ma il Covid ha messo in crisi tutti i luoghi chiusi. Le misure adottate hanno evitato un contagio che sarebbe stato dannoso non solo per chi sta in carcere, ma anche per tutto il sistema sanitario. Perché era un quadro in cui morivano le persone e gli ospedali erano in crisi di posti. Un focolaio in un carcere con centinaia di persone coinvolte sarebbe stato una apocalisse. Il dovere di un ministro è fare di tutto per garantire le misure sanitarie, che in carcere sono un intreccio non sempre coordinabile tra coté sanitario e coté penitenziario. L’attenzione è tuttora altissima”. Rispetto alle scarcerazioni, il ministro 5S ha chiarito: “Voglio dire una volta per tutte: nella vita si possono avere opinioni differenti, ma c’è una realtà data dal quadro normativo e che è sotto gli occhi tutti sancito a livello costituzionale. L’autonomia dei magistrati è scritta nella Costituzione, è una base della nostra democrazia e del funzionamento della giustizia. Di fronte alle polemiche, per un ministro che giura sulla Costituzione, è un dovere riferire al Parlamento, al quale ho fornito tutti i dettagli possibili sulle rivolte e sulle scarcerazioni. Ma le domande non si possono trasformare in illazioni che evocano qualcosa”. Quindi, prosegue Bonafede, “le inchieste giornalistiche sulle scarcerazioni hanno avuto il loro merito. Ma c’è un momento in cui la politica non può mettere dentro qualsiasi cosa. Bisogna essere chiari una volta per tutti: a livello internazionale ci si muoveva con provvedimenti orizzontali per ridurre il sovraffollamento, fino ad arrivare all’indulto, applicabili quindi a chiunque. Invece questo governo ha deciso di escludere non solo i detenuti condannati per reati gravi, ma anche chi aveva avuto sanzioni nell’ultimo anno, o era soltanto stato coinvolto nelle rivolte. La volontà del governo, quindi, non è equivocabile. Mettiamo fine allo scempio della disinformazione”. Secondo il Guardasigilli “il governo ha messo nero su bianco che il decreto Cura Italia non doveva essere applicato ai mafiosi o ai detenuti coinvolti nelle rivolte. Ho voluto - ha proseguito - che il governo desse una risposta, creando un nesso tra i decreti e le rivolta. Tant’è che, nel Cura Italia, ho chiesto di prevedere i braccialetti elettronici, che nessuno prima aveva chiesto di rendere obbligatori. Io non posso commentare le decisioni dei magistrati. Se lo facessi, voi stessi direste che non posso farlo. Ma questo governo, a fronte di decisioni nelle quali non voglio entrare, ma che potevano avere conseguenze che questo Paese non può permettersi, poiché si parla di determinati detenuti, ha approvato dei decreti che rispettano il perimetro costituzionale, ma dicono che tutti quei detenuti devono essere rivalutati. Si può fare un conto giornalistico, rispetto la libertà di informazione - conclude Bonafede - ma in Italia non è consentito a un ministro della Giustizia stabilire chi deve entrare in carcere, il decreto infatti stabilisce che chi era uscito doveva tornare davanti al magistrato per una nuova valutazione”. La polemica sulle circolari - Bonafede nella sua relazione non si sofferma in modo particolare sulla circolare del 21 marzo e sulle relative polemiche. La inserisce nella serie di circolari che “l’amministrazione penitenziaria, in concomitanza con l’emergenza epidemiologica ha emanato già a partire dal 22 febbraio tese a disciplinare le modalità di entrata e di uscita dagli istituti penitenziari; i meccanismi di pre-triage e di isolamento sanitario volti a limitare occasioni di contagio all’interno delle carceri; le modalità di acquisto dei prodotti necessari per fronteggiare l’emergenza; le modalità inerenti i colloqui visivi dei detenuti, nonché quelli telefonici e video-colloqui, sia con i congiunti che con i difensori; le modalità inerenti la tutela del diritto allo studio; l’elaborazione di protocolli operativi con le ASL locali”. E qui inserisce la ben nota circolare del 21 marzo, “la segnalazione all’Autorità Giudiziaria dei dati dei ristretti connotati da particolari patologie o condizioni personali, secondo le indicazioni dell’autorità sanitaria”. Bonafede fa seguire poi le altre circolari “sulle indicazioni da adottare in caso di sospetto contagio e di esecuzione del tampone; le procedure per l’incremento del numero e per una più celere installazione dei braccialetti elettronici per l’esecuzione della detenzione domiciliare; nonché i meccanismi finalizzati a garantire protezione e sostegno economico agli appartenenti alla polizia penitenziaria e al personale”. Effetti del Covid oggi - Al 29 settembre i detenuti che risultano positivi al Covid sono 20, di cui - dice Bonafede - “solo uno ricoverato in una struttura ospedaliera esterna”. Tra il personale dell’amministrazione invece, alla stessa data, “sono 57 quelli affetti dal Covid, 55 sono in isolamento presso la propria abitazione e 2 presso le caserme degli istituti”. Effetti del Covid nella fase acuta - Bonafede riferisce che “al picco dell’emergenza, a maggio 2020, risultavano accertati solo 115 casi di positività tra le persone recluse, di cui una ricoverata in strutture sanitarie esterne, su una popolazione di oltre 50mila detenuti”. Solo un detenuto è deceduto in carcere e “due ulteriori decessi sono avvenuti per detenuti già ammessi alla detenzione domiciliare concessa in data antecedente alla loro positività e uno relativo a una persona con sintomi da Covid, seppure negativa al tampone”. Tra il personale, “sonno stati 159 i casi di positività a fronte di 40.751 persone in servizio”. Due hanno perso la vita, Gianclaudio Nova e Nazario Giovanditto. I dati sul carcere - Il Guardasigilli fornisce i dati sulla situazione delle carceri, “al 31 agosto, presso gli istituti di pena, erano presenti 53.921 detenuti, rispetto alle 61mila unità dei primi giorni di marzo”. Quanto agli agenti, “a fronte della dotazione organica di 41.595, sono effettivamente presenti 37.347 unità, con una carenza complessiva di 4.248 unità, pari al 10,21% dell’organico previsto. È prevista l’assunzione di 970 agenti e di 650 allievi agenti”. Più posti negli istituti, ma su Parma c’è un processo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 ottobre 2020 Il guardasigilli ha parlato del piano di edilizia carceraria. Durante il suo intervento il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha parlato anche dell’edilizia carceraria. Ha illustrato che nel corso del 2020 sono stati ultimati ed attivati 3 nuovi padiglioni detentivi da 200 posti ciascuno presso gli istituti di Parma, Trani e Lecce, mentre è imminente l’attivazione di un ulteriore nuovo padiglione di pari capienza presso l’istituto di Taranto. Entro l’anno sarà ultimato anche un ulteriore padiglione da 200 posti nella Casa di Reclusione di Sulmona. “A seguito delle competenze recentemente attribuite all’Amministrazione Penitenziaria - ha spiegato il guardasigilli -, nel marzo 2019 è stato varato un piano finanziario per la progettazione e la realizzazione di 25 nuovi padiglioni modulari media sicurezza, da 120 posti cadauno, per complessivi 3.000 nuovi posti detentivi. Risultano attualmente già avviati i procedimenti per 12 moduli diffusi capillarmente sul territorio”. Ha aggiunto che sono ripresi i lavori di completamento del reparto 41 bis di Cagliari Uta (92 posti) che dovrebbe essere ultimato entro il corrente anno e che sono stati consegnati i lavori per il nuovo padiglione detentivo da 200 posti presso la Casa Circondariale di Bologna, il quale dovrebbe essere ultimato entro il 2021. “In relazione al tema dell’edilizia penitenziaria evidenzio che, per la manutenzione ordinaria e straordinaria nonché per il potenziamento del patrimonio immobiliare demaniale in uso governativo penitenziario, è stato ottenuto un rilevante incremento di risorse finanziarie assegnate al Dap negli anni 2019 e 2020 rispetto agli anni precedenti”, ha concluso Bonafede. Però, per quanto riguarda il nuovo padiglione del carcere di Parma, non è stato detto che qualche problema c’è. Lo scorso agosto le sigle sindacali di polizia penitenziaria Sappe, Osapp e Sinappe hanno depositato, presso il Tribunale civile di Parma, il ricorso ex articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori per condotta antisindacale. Si tratta di un ricorso per l’accertamento dell’eventuale condotta antisindacale da parte della Direzione degli Istituti Penitenziari di Parma e del Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria dell’Emilia Romagna e Marche, avverso l’apertura - che sarebbe ritenuta “illecita” - proprio del nuovo padiglione. Il Dubbio ha potuto verificare che tale ricorso è stato accolto dal giudice e l’avvocatura di Stato si è costituita. Il processo è in corso, l’esito ci sarà nei prossimi giorni. Un’altra critica a Bonafede è arrivata dal senatore della Lega Andrea Ostellari, presidente della Commissione Giustizia a Palazzo Madama, il quale ha sottolineato che il ministro non ha parlato “delle condizioni di lavoro degli agenti di Polizia penitenziaria. Annunciare prossime assunzioni non basta: servono garanzie sulle modalità di svolgimento del servizio, sugli orari di lavoro e sulla sicurezza di donne e uomini, che non sono detenuti, ma spesso vivono come se lo fossero”. Vigiliamo perché le violenze in cella non restino impunite di Mauro Palma* Il Domani, 1 ottobre 2020 La vicenda che si è consumata il 6 aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è al vaglio della magistratura. La procura sta acquisendo gli atti, ascoltando i testimoni, raccogliendo le informazioni e gli elementi di prova. È suo il compìto di fare luce su fatti e responsabilità. Fino in fondo. E siamo certi lo stia facendo. Perché la gravità di quanto ci veniva via via riportato, di ciò che stava accadendo oltre quel muro - e che ora i video aiuteranno a ricostruire - è apparsa chiara fin da subito. L’intervento immediato della magistratura di sorveglianza con il sopralluogo notturno, con la raccolta di dichiarazioni e documenti - anche video - e con la possibilità di una percezione a caldo della tensione ancora viva in quei corridoi consente a chi indaga di disporre di un’ampia base di informazioni “genuine”. Non come è accaduto altre volte, in cui l’esito dell’indagine è stato viziato dal tempo trascorso e dal materiale visivo non più disponibile. Per questo il garante nazionale ha deciso di incontrare già nella settimana successiva ai fatti i magistrati di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, per testimoniare il proprio appoggio e mettere a disposizione le informazioni ricevute, dense di racconti di chi aveva avuto occasione di contattare i propri congiunti ristretti in quel carcere. I fatti di Santa Maria si inseriscono indubbiamente in un clima di tensione che amplifica una modalità rabbiosa vissuta anche all’esterno e resa ancora più evidente entro le mura della restrizione. Non mancano - è vero - episodi di aggressione agli operatori, ma colpisce l’emergere di comportamenti di singoli o gruppetti che pur dovendo agire in nome dello stato, quali tutori sia dell’ordinato svolgersi dell’esecuzione penale, sia della scrupolosa tutela delle persone loro affidate, interpretano invece il proprio compito come titolari di un’abusiva potestà punitiva. Si immaginano presunti interpreti dell’opinione pubblica e quindi credono che sia la legittimazione consensuale a definire la loro funzione. Non è un caso isolato - Emergono fatti gravi in procedimenti a Torino, Viterbo, San Gimignano, Napoli, solo per citarne alcuni direttamente denunciati dal garante nazionale o nei quali si è presentato come persona offesa per poter seguire da vicino il loro svolgersi e opporsi a possibili troppo rapide archiviazioni. Anche perché il reato contestato è in taluni casi quello di tortura e il garante ha il compito di prevenirla, proprio a partire dall’evitare che la non appropriata reazione penale e disciplinare a tali comportamenti, qualora accertati, invii un messaggio di sostanziale impunità. Non sarebbe cosa nuova, tale messaggio, ma rivelata ormai la sostanziale debolezza della logica delle singole “mele marce”, senza alcuna riflessione sulle culture soggiacenti a tali comportamenti, emerge la necessità di un investimento molto maggiore su una formazione continua e non simulacro di una adesione a principi di rispetto della persona anche privata della libertà. L’implicita fiducia nella copertura per l’appartenenza a un insieme coeso e autoriflessivo, in grado di garantire opacità è evidente nel non timore delle stesse riprese video, che troppo spesso ci restituiscono comportamenti che non corrispondono alla generale professionalità e democraticità delle diverse forze di polizia e che gettano su di esse l’ombra del disvalore. Eppure, qua e là ritornano e interrogano tutti noi su quanto ci sia ancora da fare. È in questa prospettiva che Il garante nazionale a luglio ha incontrato i vertici delle diverse forze di polizia per esprimere la propria preoccupazione per una serie di gravi fatti accaduti e per condividere azioni comuni nell’ottica della costruzione di una cultura dei diritti degli operatori capace di dare corpo e sostanza a un agire rispettoso dei principi della Costituzione, anche in condizioni difficili. Ma nessuno è esonerato dal contribuire a questa azione, perché quello che avviene all’interno dei luoghi dove la libertà è privata e gli sguardi sono meno presenti, è il riflesso di ciò che è fuori. Dove troppo spesso si urla. *Garante nazionale dei detenuti Violenze in carcere, non è un caso isolato. Il governo sia parte civile di Susanna Marietti* Il Domani, 1 ottobre 2020 L’inchiesta del Domani rompe un altro mattone nel muro delle omertà sugli episodi di violenza nel carcere. Ormai molte le denunce, non servono foto con le divise, serve aiutare chi crede in una pena costituzionale. Monza, Milano, Torino. La vicenda di Santa Maria Capua Vetere purtroppo non è un episodio isolato. La magistratura chiarisca con rapidità se le denunce hanno un fondamento. L’importante inchiesta di Nello Trocchia su questo giornale rompe un altro, decisivo mattone nel muro delle omertà e delle opacità che da sempre avvolge gli episodi di violenza nelle carceri italiane. Circa un anno fa, un uomo compone il numero dell’ufficio di Antigone e racconta le brutali violenze cui sarebbe stato sottoposto il fratello detenuto. Antigone deposita un esposto in Procura. Quando all’uomo, a seguito di altro procedimento connesso, viene mostrato un video, egli è colto da malore. Vi si vedono le immagini del violento pestaggio subito da parte di poliziotti penitenziari. Nel febbraio 2020 il fatto viene iscritto come tortura. Santa Maria Capua Vetere? No, casa circondariale di Monza. Nel marzo scorso, nell’arco di pochi giorni, Antigone viene contattata da un numero elevato di persone che denunciano una ‘spedizione punitiva’ cui avrebbero preso parte, oltre a poliziotti penitenziari, anche Carabinieri e Polizia di Stato e che, il 9 marzo, si sarebbe risolta in abusi e violenze ai danni dei loro congiunti detenuti. Santa Maria Capua Vetere? No. Primo Reparto del carcere milanese di Opera. In quattro celle dedicate a questa pratica criminale, dalla primavera 2017 alcuni detenuti sarebbero stati fatti denudare, picchiati brutalmente, riempiti di sputi, invitati a impiccarsi con le loro mani, minacciati di altre violenze se non avessero dichiarato che era stato un altro detenuto a conciarli in quel modo. Decine gli indagati, alcuni destinatari di misure cautelari. Santa Maria Capua Vetere? No, carcere di Torino. Purtroppo Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato. Da decenni raccontiamo che il carcere a volte è violento. Per questi episodi, solo alcuni di quelli che ci hanno raggiunti, Antigone ha depositato esposti alle competenti Procure nei quali si ipotizza il reato di tortura. Ci auguriamo che la magistratura chiarisca con rapidità se quelle denunce abbiano o meno un fondamento. Il 20 aprile 2020, un esposto è stato depositato dalla nostra associazione anche in relazione agli eventi di Santa Maria Capua Vetere che Domani ha ricostruito magistralmente nelle scorse ore. Nei giorni successivi ai presunti pestaggi, ad alcune vittime non sarebbe stato permesso di telefonare ai famigliari e diverse sarebbero state le minacce nel caso avessero raccontato l’accaduto. Inoltre - e su questi tradimenti del giuramento di Ippocrate, che più volte Antigone ha tristemente incrociato, dovremmo davvero interrogarci in profondità - di fronte a lesioni anche importanti i medici dell’istituto avrebbero omesso la refertazione nonché la prescrizione di terapie. Nell’esposto di Antigone evidenziamo come si debba indagare anche per omissione di referto, falso e favoreggiamento. Questi racconti - gli ultimi di una serie di cui purtroppo Antigone è stata chiamata a occuparsi - mostrano come la teoria delle mele marce non possa più costituire il riparo di chi non vuole guardare alle distorsioni del sistema. A fronte dei pochi che usano la violenza quale strumento di dominio e umiliazione verso chi è in custodia, la grande maggioranza di persone oneste che compone le nostre forze dell’ordine non potrà mai vincere se non si crea una frattura culturale, politica e sociale tra chi si sente immune e impunito nell’abuso della forza e chi invece si muove nel solco della legalità costituzionale, che afferma che la pena non deve mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Molto è nelle mani di chi ci governa. Va alzato un muro di disapprovazione verso chi si avvale di metodi di polizia e di custodia disumani, degradanti e crudeli. Vorremmo che dal Ministero della Giustizia arrivassero - sempre nel rispetto del principio sacrosanto di presunzione di non colpevolezza - parole e atti inequivoci. Vorremmo che il Governo si costituisca parte civile in tutti i procedimenti penali per tortura, quando a commetterla potrebbe essere un servitore infedele dello Stato. Solo così uno schieramento democratico e progressista potrà credibilmente distinguersi da chi, come Salvini, ha alimentato sentimenti di conflitto, schierandosi aprioristicamente dalla parte degli accusati di tortura. Non abbiamo bisogno di slogan e fotografie in divisa, quanto piuttosto di gratificare quei poliziotti, medici, educatori, direttori che portano avanti il difficile compito di una pena costituzionale. *Coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone Sovraffollamento, interviene la Cassazione: “Basta stipare detenuti come bestie” di Viviana Lanza Il Riformista, 1 ottobre 2020 Il 90% dei ricorsi per trattamento inumano o degradante in carcere si risolve in indennizzi a favore dei detenuti sotto forma di sconti sul tempo di reclusione. Sono ricorsi che si ispirano alla sentenza Torreggiani, quella con cui - con decisione presa all’unanimità l’8 gennaio 2013 a seguito del ricorso presentato da sette detenuti delle carceri di Busto Arstizio e Piacenza per i mesi trascorsi in celle triple e ciascuno con meno di quattro metri quadrati a disposizione - la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. “Lo Stato italiano - osserva il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello - preferisce essere condannato per il trattamento degradante nelle carceri e pagare risarcimenti invece di investire seriamente per migliorare le condizioni di vita all’interno delle celle”. È l’ennesima contraddizione che balza agli occhi quando si affronta il tema carcere. Eppure investire sulla funzione rieducativa del carcere dovrebbe essere una priorità per lo Stato, per la società civile. E la funzione rieducativa ha senso se non si perde di vista il rispetto della dignità dei reclusi: un concetto recentemente ribadito dalla Cassazione secondo la quale lo spazio vitale per ciascun detenuto dev’essere di tre metri quadrati e va calcolato al netto degli arredi fissi. “A cosa serve allestire librerie nei corridoi dei padiglioni se poi ci sono carceri dove non ci sono spazi per la socialità, celle dove non entra la luce del sole, dieci o dodici detenuti in una stanza?”, chiede provocatoriamente Ciambriello. Poi cita l’esempio del carcere di Secondigliano. Lì le celle singole, con bagno e doccia annessi, dovevano essere un modello di dignità (riconosciuta ai reclusi) e di efficienza (legata alla gestione degli spazi): “Ma alla fine hanno messo i letti a castello anche in quelle celle - spiega il garante regionale - e se è vero che si è data compagnia al detenuto, è anche vero che si è ridotto lo spazio vitale di ognuno di loro”. Il fatto è che le celle con meno di 3 metri di spazio funzionale rischiano di rendere la detenzione una tortura. Servirebbero maggiori spazi e una diversa gestione delle misure restrittive. Riguardo al secondo punto è sempre acceso il dibattito sui temi della carcerazione preventiva e della separazione delle carriere tra giudici e pm. Quanto al primo punto, invece, è chiaro che andrebbe attuata una nuova progettualità di edilizia penitenziaria. Ma i tempi sembrano biblici. A Poggioreale ancora si attende il via ai lavori per la ristrutturazione di tre padiglioni finanziata dal governo più di tre anni fa con 12 milioni di euro e rimasta in sospeso in attesa dello sblocco dei fondi da parte del Provveditorato alle opere pubbliche della Campania. Se sarà rispettato l’ultimo programma stilato dal Provveditorato dopo le sollecitazioni del garante regionale, l’attesa starebbe per terminare e all’inizio del 2021 dovrebbero iniziare i lavori, dopo i sopralluoghi e i carotaggi avviati in questi mesi. Si vedrà. Intanto il sovraffollamento resta un problema e le carceri pollaio rischiano di rendere la reclusione “un trattamento degradante o inumano”, per dirla con le parole della Corte europea che ha dettato la traccia per centinaia di ricorsi. È stato il caso del boss napoletano Patrizio Bosti, considerato uno degli storici esponenti della camorra influente tra la periferia e il centro storico di Napoli. Dopo aver scontato 30 anni di reclusione per una serie di reati di matrice camorristica, Bosti aveva ottenuto una scarcerazione anticipata e un risarcimento di circa 3mila euro avendogli riconosciuto, il Tribunale di Bologna, le condizioni inumane e degradanti patite nei vari penitenziari in cui era stato recluso, da Poggioreale a Bellizzi Irpino, Rebibbia, Regina Coeli, Trani, Palermo, Parma. A maggio scorso, dopo le polemiche per la sua scarcerazione, Bosti fu nuovamente arrestato per un residuo di circa sei anni da scontare. Un caso simile è quello di Pasquale Zagaria, che aveva ottenuto una riduzione di 210 giorni sul suo periodo di reclusione per il trattamento inumano riconosciuto dai giudici quando, in un carcere piemontese, fu messo in una cella senza riscaldamento. Il caso del boss dei Casalesi, messo ai domiciliari a febbraio e tornato in carcere la settimana scorsa, è quello su cui più si sono concentrate le tesi populiste e giustizialiste di questi mesi. Giustizia a costo zero di Simona Musco Il Dubbio, 1 ottobre 2020 Per civile e penale le somme attualmente previste per la riforma sono pari a zero. Ma il piano è in divenire. Zero. È la somma attualmente prevista nelle griglie dei progetti per il Recovery Fund per le voci relative alle riforme del processo civile, del codice di procedura penale e per quella dell’ordinamento giudiziario. Riforme da portare a termine in due anni, come si legge nel documento, che si accompagnano ad interventi strutturali e di reinserimento, soprattutto per i minori coinvolti nel sistema Giustizia, per i quali lo schema in mano a deputati e senatori prevede cifre anche consistenti. Per il momento, stando a quanto riferito pochi giorni fa dal ministro Alfonso Bonafede in audizione davanti alla Commissione Giustizia alla Camera, gli impegni sono accennati “in via assolutamente generale”. Ma in attesa che il piano venga approfondito ed eventualmente integrato, ciò che si può fare è analizzare numeri e linee generali di intervento. Attualmente, le somme complessive previste per la Giustizia sono per la maggior parte inserite nel campo dell’edilizia giudiziaria. Con 300 milioni impiegati, tra gli altri, per la riqualificazione del patrimonio immobiliare penitenziario per combattere il cronico sovraffollamento, con il miglioramento delle carceri già esistenti e la realizzazione di nuove strutture, “finalizzate all’obiettivo della rieducazione e del reinserimento sociale”. Altrettanti fondi sono previsti per interventi antisismici, 540 milioni per l’impiego di manodopera detenuta anche nei settori ecosostenibili, 45 milioni per lavori di pubblica utilità e oltre 5 milioni per l’inserimento lavorativo dei minori e per il loro diritto allo studio. Mentre per la riforma del processo, almeno allo stato attuale, le risorse non ci sono, escluso un intervento di 35 milioni per il potenziamento dell’ufficio del processo e delle risorse umane per la giurisdizione: un progetto lungo 18 mesi che prevede borse di studio di non oltre 400 euro mensili destinate agli ammessi ai tirocini formativi. Un intervento, questo, che ricalca una delle richieste avanzate al tavolo aperto a via Arenula con l’avvocatura dall’Unione delle Camere civili. Si tratta di una struttura di staff qualificato in grado di affiancare il giudice nella sua attività, un’idea dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando naufragata, soprattutto, a causa della carenza di personale, mezzi e tirocinanti. Il presidente dell’Uncc, Antonio De Notaristefani, ne aveva proposto proprio il ripristino, ma la somma attualmente prevista dal piano, secondo il leader dei civilisti, non basta. “Avevamo caldeggiato fortemente questa soluzione - spiega al Dubbio. Ma non mi pare sia possibile lavorare a questo prezzo per smaltire l’arretrato, solo per 18 mesi, oltretutto”. Ma è soprattutto lo zero che affianca la riforma del processo a preoccupare De Notaristefani. Una riforma che, per quanto riguarda il civile, prevede, stando alle griglie, “di rendere più efficiente la giurisdizione, garantire esecutiva` ai provvedimenti giurisdizionali, aumentare l’area di tutela dei diritti, favorire l’economia rendendo più attrattivi gli investimenti in Italia; implementare la digitalizzazione della giurisdizione, in particolare attraverso la previsione che nei procedimenti davanti al giudice di pace, al tribunale ed alla Corte di Appello e di Cassazione, il deposito dei documenti e degli atti di parte abbia luogo esclusivamente con modalità telematiche”. Mentre per quanto riguarda il penale, il progetto si propone di rendere più efficiente la giurisdizione ed aggredire l’arretrato “attraverso un radicale ripensamento della struttura processuale ed un ampio ricorso alla digitalizzazione”. Le risorse per la digitalizzazione, però, sembrano non essere attualmente presenti. “Per farlo - dice De Notaristefani - occorrono le strutture. Può anche darsi che la parte tecnica sia prevista in altre voci di spesa, ma il problema è che la riforma, nella sostanza, continua a essere a costo zero e, siamo tutti d’accordo: senza fondi non serve a nulla”. Alcune voci sono poco chiare: come quella sul “capitale umano”, che prevede l’acquisizione di professionalità tecniche funzionali all’implementazione di nuovi modelli organizzativi, portando alla razionalizzazione degli uffici giudiziari per la parte logistica e funzionale, valorizzando gli indicatori green. Una voce che, almeno in linea teorica, potrebbe corrispondere a quella del “manager dei tribunali”, per il quale sono previsti 320 milioni. “Se è così ben venga”, dice De Notaristefani. Altra voce, pari a 375.555.000 euro, è quella relativa al rafforzamento della sicurezza perimetrale del ministero della Giustizia, “mediante la predisposizione di un sistema per il Network Access Control (Nac), l’acquisizione di postazioni di lavoro aggiornate a livello hardware e di sistemi operativi e l’adozione di specifici strumenti per la sicurezza delle PdL (desktop o notebook), con particolare riferimento a quelle che si connettono in remoto ai sistemi della Giustizia, come in occasione delle postazioni adibite a smart-working, durante l’emergenza epidemiologica”. Un investimento, dunque, per risolvere i problemi sorti durante il lockdown, che hanno di fatto paralizzato la Giustizia rendendo quasi impossibile il lavoro dei cancellieri da casa. “Mi auguro questo progetto serva a consentire l’accesso da remoto ai cancellieri se si dovesse entrare in un secondo lockdown - conclude De Notaristefani. Ma onestamente, spero che non sia tutto qui: questa è l’ultima occasione per disporre di risorse importanti. Questo piano potrebbe avere un impatto positivo, se l’investimento viene pensato in maniera corretta. Spero che non sia l’ennesimo buco nell’acqua” Prescrizione, si cambia ancora: stop solo dopo una condanna di Massimo Malpica Il Giornale, 1 ottobre 2020 In Commissione la richiesta dell’Anm. Le toghe bocciano anche le sanzioni per i giudici sui processi lumaca. Tempo di riforme per la giustizia, e a mettere il pepe sulla coda a una maggioranza che cerca la quadra tra nuovo Csm e riforma dei processi ci pensa pure la Commissione europea, che nella sua relazione sullo stato di diritto nell’Ue, quanto all’Italia, rimarca come “l’efficacia delle misure repressive” sia “ostacolata dall’eccessiva durata dei procedimenti penali”. Ricordando, appunto, che “è in discussione una riforma globale per snellire la procedura penale”. E ieri, proprio sul disegno di legge per l’efficienza del processo penale e per la “celere definizione” dei processi pendenti in appello, che da giugno è all’esame della commissione Giustizia, sono stati ascoltati i vertici dell’Anm e il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. Il presidente dell’Anm Luca Poniz, per cominciare, ha rivendicato la genesi della proposta di modifica della sospensione della prescrizione contenuta nel testo del disegno di legge, che prevede la sospensione dopo il primo grado solo in caso di condanna, tornano dunque alla Riforma Orlando e “correggendo” la riforma della prescrizione voluta da Bonafede, con sospensione della prescrizione anche in caso di assoluzione. Per il sindacato delle toghe, il passo indietro non sembra essere un problema, visto che “si ritorna a una nostra proposta originaria”, spiega Poniz, “cioè all’interruzione della prescrizione possibile, ma con una condanna”. E sempre il numero uno dell’Anm ha ammesso che i numeri del sistema giustizia dimostrano “in maniera molto chiara” che esiste un problema di efficienza. Provocato anche da un grande carico di lavoro che però, si è giustificato Poniz, “non è figlio del modello inquisitorio dei nostri pubblici ministeri ma deriva dalle notizie di reati”. Qui i vertici dell’organismo rappresentativo dei magistrati italiani hanno chiuso il capitolo delle concessioni autocritiche per poi alzare paletti su altri punti “sgraditi” della riforma. È stato il segretario Anm Giuliano Caputo a cambiare linea, prima sottolineando come non servano le sanzioni disciplinari previste dal ddl in caso di violazione dei tempi stabiliti in quanto “abbiamo già un sistema che funziona”, per poi aggiungere, restando sull’argomento, che sia “illusorio pensare di predeterminare i tempi delle indagini preliminari dei processi”, come prevede il testo della riforma. Anche Poniz, del resto, ha rimarcato come l’Anm condivida “molte cose” del progetto di riforma del processo, ma ritenga invece “inaccettabili”, appunto, “la rigida predeterminazione indagini preliminari e la discovery obbligatoria degli atti, oltre che “le sanzioni disciplinari” in caso di mancato rispetto dei tempi. Questo perché, secondo Poniz, “la previsione di un ulteriore illecito disciplinare mette il pm nel timore di incorrere in sanzioni e rischia di creare una giurisdizione difensiva”. Processi mediatici, il tallone d’Achille della magistratura di Vincenzo Musacchio Il Dubbio, 1 ottobre 2020 La crisi della magistratura accresce l’illegalità che pervade la società civile. Il nostro Paese, un tempo culla e modello della civiltà giuridica mondiale, è sconvolto dallo scandalo che sta compromettendo una parte della nostra magistratura. Nonostante l’attuale silenzio, è evidente che non siamo di fronte a vicende di singoli, bensì a un sistema di potere che coinvolge politica e magistratura con lo scopo di condizionare nomine in funzioni inquirenti e giudicanti, secondo interessi ancora non sufficientemente chiari. Chi sottovaluta questa situazione o cerca in qualche modo di silenziarla, gioca sporco poiché a essere coinvolti, sono membri del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’Associazione Nazionale Magistrati, ossia, gli organi vitali del potere giudiziario. In una situazione simile, toccherebbe, in primis, ai magistrati seri, onesti e leali verso le Istituzioni, intervenire portando a compimento la pulizia al loro interno, senza guardare in faccia a nessuno. Se questo non avverrà nel breve periodo, a rischio saranno l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati costituzionalmente garantite. Altro aspetto incomprensibile è come mai, nell’attuale agenda politica di questo governo, tutto si affronta tranne che la riforma della Giustizia. Sostengo, ormai da qualche tempo, l’urgenza occuparsi del sistema giudiziario e processuale italiano facendolo divenire in concreto il pilastro portante di una democrazia moderna e progredita come dovrebbe essere la nostra. In Italia sta pericolosamente prendendo piede l’idea che l’illegalità convenga. Se a ciò si aggiunge il sentore di una Giustizia incapace di essere percepita dai cittadini uguale per tutti, garantendoli allo stesso modo, a rischio potrebbe esserci persino l’idea dello Stato di diritto. Il fine della Giustizia è l’uguaglianza tra i singoli, nelle famiglie, nelle relazioni interpersonali e sociali, tra le generazioni, tra le Nazioni e tra i popoli. Theodore Roosevelt affermò che “nessun uomo può essere al di sopra della legge e nessun uomo può essere al di sotto”. L’idea di Giustizia, di conseguenza, non può non reggersi sulla centralità della persona umana, intesa non come mezzo ma come fine principale dell’ordinamento giuridico. Lo strumento per garantire la Giustizia, e cioè il processo, deve incentrarsi sull’individuo e sul diritto di difesa, il che significa facile acceso, ragionevole celerità, rispetto di tutti i diritti, tra cui essenziali quelli del giusto processo. Se continua a passare il messaggio pericolosissimo che il sopruso, specie se contro i più deboli, non è punito in maniera equa e giusta per tutti, non si garantirà un futuro migliore neanche alle generazioni che verranno dopo di noi. Al sacrosanto principio di rieducazione della pena non può non essere associato il principio della certezza della stessa. Le leggi devono essere ragionevoli, chiare, semplici, facilmente comprensibili da tutti e al tempo stesso effettive ed efficaci. Rispetto della legalità significa innanzi tutto sapere e poter facilmente comprendere cosa la legge prescrive, evitando per quanto possibile l’indeterminatezza e il dubbio. I processi, quindi, devono essere brevi, semplici, chiari nella loro estensione ed essenziali ed efficaci nel loro contenuto. Personalmente credo molto in una seria informatizzazione dell’intero apparato giudiziario e nella necessità del diritto di difesa che non potrà esistere davvero senza un’avvocatura libera e responsabile. Buona parte della crisi della magistratura e delle sue recenti distorsioni è derivata anche dalle commistioni politiche e dalla spettacolarizzazione dei processi. I “processi mediatici” sono stati e sono uno dei talloni d’Achille della magistratura moderna. Il mio compianto maestro Antonino Caponnetto mi ripeteva sempre, fino all’ossessione, come i magistrati parlassero solamente attraverso i loro provvedimenti (sentenze, ordinanze e decreti). Considerato lo stato di crisi in cui versa una parte della nostra magistratura, diventa fondamentale una seria ed efficace riforma del sistema elettorale del Csm. Occorre agire affinché vi sia una separazione netta e definitiva tra la carica di magistrato e quella politica. Non ultimo sarà indispensabile agire sulla netta distinzione tra la carriera del pubblico ministero e quella del giudice. Se non si faranno questi cambiamenti necessari, pur se non risolutivi, continuerà a crescere la percezione che delinquere convenga e, ciò, come ho già detto, potrà mettere in crisi le regole essenziali della convivenza civile e dello Stato di diritto. *Giurista, docente di diritto penale L’ex Sottosegretario Cosentino assolto in Appello dall’accusa di rapporti con i clan Corriere della Sera, 1 ottobre 2020 La Corte d’Appello di Napoli ha assolto “per non aver commesso il fatto” l’ex sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, nel processo in cui l’ex coordinatore campano di Forza Italia era accusato del reato di tentato impiego di capitali illeciti con l’aggravante mafiosa, in relazione alla costruzione a Casal di Principe (Caserta) di un centro commerciale voluto dal clan dei Casalesi, ma mai edificato. “Dopo 9 anni di inferno, finalmente è finita”, ha detto Cosentino, “sono felice dell’assoluzione, ma nessuno potrà cancellare la mia sofferenza e quella dei miei familiari”. In primo grado Cosentino era stato condannato a cinque anni e mezzo di carcere dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Ieri il procuratore generale aveva chiesto per lui la conferma della condanna. Alla Camera, momenti di tensione dopo l’intervento di Vittorio Sgarbi che ha parlato di “certa magistratura arbitraria, politicizzata e criminale”. È la seconda assoluzione per l’ex uomo forte di FI nella regione, dopo quella ricevuta in Cassazione nel giugno 2019 per reati relativi all’azienda di carburanti di famiglia, Aversana petroli. Restano aperte altre vicende, come quella relativa a una condanna in primo grado per concorso esterno in associazione camorristica. Assolto, ma non troppo: cosa manca al Cosentino “pulito” di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2020 L’EX sottosegretario ha ancora una condanna in primo grado per concorso esterno a 9 anni e una definitiva per corruzione. Fa bene Nicola Cosentino ad esultare per la seconda assoluzione in Appello, dopo due pesanti condanne in primo grado, da accuse varie di complicità con il clan dei Casalesi che si trascinavano da quasi dieci anni intorno a un centro commerciale mai realizzato a Casal di Principe. È giusto, legittimo e umano. Fanno meno bene i cosentiniani e gli amici dell’ex sottosegretario di Berlusconi a provare a dipingerlo come una vittima “di un uso politico della giustizia” (Annamaria Bernini, capogruppo di Forza Italia al Senato), e di “gogne mediatiche, sbattuto in un tritacarne giudiziario, letteralmente massacrato ed emarginato” (Amedeo Laboccetta, ex parlamentare Pdl). Non rendono un buon servizio alla gioia, tutto sommato composta, di Cosentino che dopo il verdetto che ha cassato una condanna di cinque anni e mezzo, ha lamentato “nove anni di inferno” e si è detto felice “per la fine di un incubo”. Parole che chiunque di noi avrebbe pronunciato al suo posto. Ma quando Bernini posta sui social che Cosentino “è stato assolto in appello da tutte le accuse di collusione con la camorra” scrive una cosa inesatta. La situazione giudiziaria dell’ex coordinatore campano di Forza Italia è ancora aperta e il bilancio complessivo non è affatto positivo. Il 28 ottobre infatti riprenderà il processo di secondo grado della madre di tutte le inchieste che lo riguardano. È l’appello alla condanna del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione camorristica. Una sentenza dell’autunno 2016 arrivata al termine di 141 udienze iniziate nel 2011, durante le quali sono stati ascoltati circa 110 testimoni, di cui 16 collaboratori di giustizia collegati in videoconferenza da luoghi protetti, tra cui l’ex reggente del clan Bidognetti Luigi Guida, Gaetano Vassallo, Anna Carrino, Franco Di Bona, ha messo nero su bianco che Cosentino fu il “referente politico nazionale” del clan. Furono sentiti anche alcuni tra i leader della politica campana e nazionale, tra cui l’ex governatore della Campania Antonio Bassolino, in aula nel febbraio 2012 per rispondere a domande sulla gestione del commissariato per l’emergenza rifiuti. Il tutto è stato trasfuso in 648 pagine di motivazioni tra le quali spicca un passaggio chiave: le “specifiche risultanze probatorie - nonostante la difficoltà di ricostruire i fatti per il tempo decorso - sono particolarmente ricche e indicano il sostegno elettorale offerto all’imputato (Cosentino, ndr), sia dal gruppo Bidognetti, sia dal gruppo Schiavone”. Secondo i giudici “l’esito della verifica probatoria ex post non consente di dubitare che l’imputato abbia offerto un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario e casualmente efficiente al rafforzamento delle capacità operative del sodalizio (il clan dei Casalesi, ndr). Tale contributo si desume già dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia riferibili a epoca successiva al 1995 (le elezioni regionali, ndr) che indicano nel Cosentino un sicuro e affidabile riferimento politico e un punto di forza del clan”. Per carità, la sentenza non è definitiva e gli avvocati di Cosentino, Agostino De Caro e Stefano Montone, forti anche delle ultime due pronunce favorevoli, che minano la solidità delle presunte collusioni tra l’ex sottosegretario e la camorra, sono fiduciosi di avere ottimi argomenti per cancellarla. Ma fino ad allora le accuse più pesanti restano in piedi. Altra lamentela ricorrente tra i cosentiniani: il presunto eccesso di carcerazione preventiva. Cosentino, perso nel 2013 lo scudo parlamentare, ha trascorso quattro anni tra prigioni e domiciliari. Un bonus che però si è giocato con la condanna, definitiva, a 4 anni per la corruzione di agenti di polizia penitenziaria che ne gestivano la custodia cautelare nel 2014 e gli concessero beni e favori di nascosto. Quella volta Cosentino era in cella per accuse di estorsione aggravata nell’ inchiesta sul business dei carburanti nel Casertano. Condannato a 7 anni e 6 mesi in primo grado, Cosentino è stato assolto in appello e in Cassazione. Lo misero in galera per reati rivelatisi infondati, e qui ne avrebbe commessi altri, accertati. Una beffa. Ognuno ne tragga le riflessioni che crede. Quanti Cosentino ci sono in Italia? di Iuri Maria Prado Libero, 1 ottobre 2020 Lunedì scorso, qui intervistato da Pietro Senaldi, il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, dice che “bisogna smetterla con questa storia dei politici sotto schiaffo”, perché “se uno non ha nulla da temere, non ha ragione di preoccuparsi”. Il giorno dopo, Nicola Cosentino - un politico che non avrebbe avuto nulla da temere, se non la giustizia che l’ha ingiustamente perseguitato - è assolto dalle accuse di maneggi mafiosi che l’hanno costretto in detenzione per quattro anni. Mentre quell’uomo poi riconosciuto innocente stava in galera, magistrati con dimora abituale negli studi televisivi spiegavano che i politici a piede libero sono perlopiù colpevoli non ancora acciuffati; spiegavano che bisogna multare gli avvocati perché impediscono alla giustizia di funzionare permettendo così ai clienti di farla franca; spiegavano che bisogna finirla con gli appelli perché il primo grado basta e avanza; spiegavano che non c’è niente di male se un cittadino sta sotto processo per quindici anni e anzi è giusto inchiodarlo sulla panca degli imputati per trenta, per quaranta, per cinquant’anni: e ovviamente non bastava, perché nel ciclo di quelle requisitorie in favore di telecamera l’opinionismo togato si dava il cambio col ministro dell’onestà giudiziaria il quale, in affanno competitivo per la primazia forcaiola, dichiarava che non ci sono innocenti che finiscono in carcere. L’autocrate che illustra i meriti del proprio regime e rivendica il giro di vite per proteggerlo dai dissidenti è meno tronfio, meno sfrontato, meno indecente di quell’apostolato giudiziario che reclama pene inasprite e galera per tutti e degrada a fisiologica inevitabilità la distruzione della vita dei tanti innocenti affidati alle buone cure dell’ingiustizia italiana. E per un caso di cui si sa qualcosa - perché, come questo Cosentino, si tratta di persona che aveva incarichi pubblici - di tantissimi altri non si sa proprio nulla perché in televisione non ci va l’innocente massacrato ma il responsabile del massacro, cioè il magistrato: e non per risponderne e chiedere scusa, ma per tenere comizio sulla magistratura eroica impegnata a far pulizia nella società corrotta. L’esistenza di troppe persone è violentata dal capriccio, dall’arbitrio, quando va bene dall’errore giudiziario. Una giustizia così c’è da temerla eccome, e che uno può stare tranquillo se non ha fatto nulla di male è una specie di vergognoso sfottò. Carceri, i tre metri vitali sono al netto degli arredi fissi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2020 Lo spazio minimo di tre metri che il detenuto deve avere a disposizione nella cella, va calcolato senza considerare gli arredi fissi come i letti a castello. Le Sezioni unite, con un’informazione provvisoria, anticipano la decisione invocata con l’ordinanza interlocutoria 14260/20. La sentenza prende le mosse dal ricorso di un detenuto che chiedeva di essere risarcito per il trattamento inumano e degradante, come previsto dall’articolo 35-ter dell’Ordinamento penitenziario, a causa dello spazio nel quale era stato ristretto: al di sotto dei tre metri indicati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Un’istanza accolta dal magistrato di sorveglianza, ma contestata dal ministero della Giustizia- Dap, per la scelta di sottrarre dalla superficie calpestabile l’ingombro degli arredi. Sul punto la giurisprudenza di legittimità si è spaccata, affermando le tesi dello spazio da calcolare al netto o al lordo. Secondo un orientamento va fatta una distinzione tra arredi fissi al suolo come letti a castello e armadi e quelli facilmente rimovibili come sgabelli, sedie e tavolini, che si potrebbero detrarre. Secondo l’indirizzo più favorevole al detenuto, lo spazio va considerato al netto, escludendo tutti i mobili senza distinzioni. Il principio secondo la quale “pesano” solo gli arredi fissi come i letti a castello è giustificabile con la con la considerazione che questi sono utilizzabili solo per il riposo, mentre il letto singolo si può usare anche per leggere, sedersi o svolgere altre attività quotidiane. La scelta tra i diversi punti di vista, comporta il riconoscimento o meno del diritto al risarcimento per la violazione dell’articolo 3 della Cedu che vieta i trattamenti inumani e degradanti. La Sezione remittente ricorda che l’articolo 35-ter, è stato introdotto dopo la sentenza pilota Torreggiani, con la quale i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per il sovraffollamento carcerario. Un “rimedio” che prevede sia uno sconto di pena sia un ristoro in denaro per ogni giorno di carcere vissuto in condizioni non dignitose. I giudici del rinvio ricordano che la mancanza dello spazio vitale dei tre metri, è un forte indizio di trattamento degradante ma non la prova matematica, in presenza di fattori compensativi come, la breve durata della detenzione o lo svolgimento di attività al di fuori della cella o all’aperto. Ma anche su questo punto la giurisprudenza di legittimità non è univoca. In alcune decisioni si afferma che i fattori compensativi sono rilevanti solo quando lo spazio a disposizione del detenuto è comunque di tre metri anche se ci sono altre disfunzioni, mentre per altre la compensazione c’è anche se lo spazio minimo è sotto lo standard. Ma la di là dell’ambito di operatività, più o meno esteso, dei valori compensativi, la risposta delle Sezioni unite fuga i dubbi sul calcolo dello spazio minimo. Per il Supremo collegio “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti “a castello”. È peculato il mancato riversamento del Prelievo unico nel settore giochi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2020 Per gli esperti è una decisione “fondamentale” in tutto il settore giochi, in particolare quello delle slot machine. Le Sezioni unite penali, con decisione resa nota per ora solo nella forma dell’informazione provvisoria, hanno stabilito che costituisce peculato il mancato riversamento, da parte del gestore o del concessionario, del Prelievo erariale unico (Preu) maturato dagli apparecchi da gioco con vincite in denaro, cioè le slot machines. “Una decisione estremamente significativa per tutto il settore”, commenta l’avvocato Gilda De Simone, direttore Affari legali di Snaitech. “Questo provvedimento - osserva De Simone - consolida un orientamento messo in discussione tanto tempo fa e va finalmente a riequilibrare tutto il comparto. Snaitech da sempre, così come in questa causa, si è battuta a difesa di tutto il settore del gioco pubblico composto da gestori, esercenti e concessionari che rispettano le regole”. Per capire la portata della decisione, che si concentra sulla natura del prelievo erariale previsto per gli apparecchi, è necessario ricordare la complessa articolazione del mercato slot: dal 2004 il gioco lecito attraverso questi apparecchi è affidato in concessione a un numero ristretto di soggetti di elevata affidabilità economico-finanziaria (i concessionari) che, a loro volta, possono delegare alcune funzioni a soggetti terzi, i cosiddetti gestori, che spesso sono anche proprietari del congegno di gioco collegato alla rete del concessionario. Tra le funzioni delegabili ai gestori, oltre alla manutenzione ordinaria dei congegni, c’è, soprattutto, la raccolta dell’”importo residuo”, cioè delle somme giacenti negli apparecchi al netto di quelle tornate in vincite ai giocatori. Il sistema telematico del concessionario, collegato direttamente all’Agenzia Dogane e Monopoli, permette infatti di controllare da remoto l’andamento del gioco, consentendo in tal modo anche la contabilizzazione in tempo reale del Preu maturato da ciascun apparecchio, calcolato in misura fissa (oggi il 23,5%) sulla base delle somme giocate. Ma che succede se il gestore non riversa il Preu al concessionario, o se quest’ultimo, una volta incassato il Preu dal gestore, non lo riversa all’Erario? La questione era diventata controversa dopo una sentenza della Sesta sezione penale (21318/18), che scostandosi da un precedente orientamento e valorizzando il carattere tributario del Preu, aveva giudicato l’omesso versamento un semplice illecito fiscale, privo cioè di conseguenze sul piano penale e sanzionabile solo sul piano amministrativo. Secondo questa ricostruzione, il Preu maturato dai congegni da gioco avrebbe costituito parte di un più generale ricavo d’impresa del titolare degli apparecchi stessi - dunque, a seconda dei casi, del gestore o del concessionario - divenendo di pertinenza dell’Erario solo al momento del pagamento dell’imposta. “Questa impostazione, però - sottolinea De Simone - rischiava di terremotare l’intero settore del gaming, da un lato garantendo l’impunità a condotte “appropriative” anche imponenti, dall’altro lasciando ricadere il peso economico degli omessi versamenti sul concessionario, a quel punto privo del deterrente penale. È proprio ai concessionari, infatti, che la legge impone di versare il Preu maturato dagli apparecchi collegati alla sua rete indipendentemente dall’effettivo riversamento da parte dei gestori”. Niente prescrizione per l’ordine di demolizione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2020 Edilizia - Abusi edilizi - Ordine di demolizione - Natura - Sanzione amministrativa - Effetti - Prescrizione - Esclusione. Essendo l’ordine di demolizione una sanzione amministrativa di natura ripristinatoria dell’assetto del territorio, che deve essere applicata, in quanto tale, a prescindere dalla sussistenza di un danno o dall’elemento psicologico del responsabile, non è soggetto alla prescrizione quinquennale stabilita dall’articolo 28 legge n. 689/1981, in quanto applicabile alle sole sanzioni amministrative pecuniarie di natura punitiva. Né l’ordine demolitorio può estinguersi per il decorso del tempo ex art. 173 cod. pen. stante che tale disposizione si riferisce solo alle pene principali. • Corte di cassazione, sezione III penale, 21 settembre 2020 n. 26334. Edilizia - Ordine di demolizione - Natura di sanzione amministrativa - Prescrizione - Esclusione - Riconducibilità alla nozione convenzionale di pena - Esclusione. In materia di reati concernenti violazioni edilizie, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla disciplina della prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, avendo natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l’autore dell’abuso. (In motivazione, la S.C. ha precisato che tali caratteristiche dell’ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità anche alla nozione convenzionale di “pena” elaborata dalla giurisprudenza della Corte EDU). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 15 dicembre 2015 n. 49331. Edilizia - Ordine di demolizione - Prescrizione - Operatività - Esclusione. In tema di reati edilizi, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo non è soggetto né alla prescrizione stabilita dall’art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, in quanto sanzione amministrativa, né alla prescrizione stabilita dall’art. 28 legge n. 689 del 1981 riguardante, infatti, unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva. • Corte di cassazione, sezione III penale, ordinanza 19 maggio 2011 n. 19742. Edilizia - Abusi edilizia - Ordine di demolizione - Estinzione per decorso del tempo - Esclusione - Fondamento. L’ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito dal giudice ex art. 7 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 con la sentenza di condanna per il reato di costruzione abusiva non si estingue per il decorso del tempo ex art. 173 cod. pen., atteso che quest’ultima disposizione si riferisce alle sole pene principali. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 21 ottobre 2003 n. 39705. Non c’è giustizia senza dignità di Lucio Boldrin Avvenire, 1 ottobre 2020 Nel mio primo anno di servizio a Rebibbia comprendo ogni giorno di più che solo umanizzando questi luoghi di solitudine e di sofferenza si può accompagnare verso un vero recupero chi è privato momentaneamente della libertà personale. Gli istituti di pena, per molti solo luoghi di emarginazione e di “sicurezza”, possono divenire una vera e propria provocazione, uno stimolo, una sfida a interrogarci affinché il nostro mondo sia più misericordioso e più attento alle persone. Accoglienza e recupero, senza puntare il dito contro chi ha sbagliato ma spalancando il cuore: ecco le strade per una vera trasformazione della persona. Penso che noi cappellani siamo chiamati ad aiutare i detenuti a scoprire la possibilità di cambiare, non come dovere ma come amore per le regole e come segno di rispetto nei confronti degli altri. È molto importante avere con i detenuti una relazione nella quale ci si riconosce reciprocamente. La prima cosa è far vedere che le regole si possono rispettare e íl rispetto delle regole è vantaggioso soprattutto in carcere. E un passaggio fondamentale. Tuttavia, personalmente, non sono riuscito a dare una risposta a tanti interrogativi che mi hanno accompagnato in questo anno. Ad esempio: è giusto togliere un padre o una madre a un figlio piccolo, spedendoli in prigione, a causa di una condanna per rapina o per un reato minore divenuta definitiva dopo tanti anni, e di cui magari l’imputato è venuto a sapere per un casuale controllo della Polizia stradale? Dov’è la giustizia nel dover lasciare un figlio e, talvolta, anche un lavoro trovato con fatica? Interrogativi che mi porto a casa ogni sera, pur tenendo conto delle esigenze di sicurezza per i cittadini e il rispetto per le vittime. Ascoltando ragazzi e adulti comprendo come molti vivano momenti difficili in prigione. Uomini che hanno assistito anche a dei suicidi, anni molto duri, momenti di grande sconforto, di desolazione e devastazione. Il carcere è una prova più dura anche della malattia. Mentre un malato può rassegnarsi o sperare, infatti, in prigione si è sempre vigili con la mente, però ci si trova in un mondo parallelo. Fuori la vita continua, dentro il detenuto è come “parcheggiato”. Una persona che è stata in cella porterà sempre quella cicatrice, ma è necessario trasformarla in qualcosa di positivo. Il carcere va vissuto con dignità. Bisogna sapere accettare, rispettare le persone che fanno parte dell’istituto penitenziario, scontare la propria pena e capire gli errori, perché solo così si può andare avanti e non tornare indietro. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Santa Maria Capua Vetere (Ce). Il caso dei pestaggi in carcere arriva in parlamento di Nello Trocchia Il Domani, 1 ottobre 2020 Pd, Leu e +Europa Radicali chiedono al ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, di spiegare quanto accaduto il 6 aprile, nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere. Il 6 aprile, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, sono stati commessi abusi gravissimi sui detenuti. Il caso sollevato su queste pagine, attraverso la rivelazione dell’esistenza di video che documentano le violenze, è arrivato anche in parlamento. Il Partito democratico ha presentato un’interrogazione parlamentare, firmata da Walter Verini, responsabile giustizia del Pd, e dai componenti democratici della commissione giustizia. I deputati chiedono, a seguito di quanto emerso, risposte al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. “Occorre in ogni caso che il ministro e il Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per quanto di competenza, forniscano tutti gli elementi utili per avere un quadro della vicenda”, si legge nell’interrogazione. Gli interroganti vogliono sapere dal ministero “di quali elementi conoscitivi disponga riguardo la vicenda esposta in premessa e se sia stata avviata un’inchiesta amministrativa per accertare le eventuali responsabilità, anche al fine di tutelare l’immagine del corpo della Polizia penitenziaria”. In quei giorni di aprile, dopo la protesta da parte dei detenuti preoccupati dal primo caso di contagio in carcere, è stata disposta una perquisizione straordinaria. Si è proceduto, così, al reperimento di personale proveniente da altri istituti di pena, come Secondigliano e Ariano Irpino. I16 aprile, infatti, sono intervenuti solo agenti provenienti da altre carceri e non, come erroneamente riportato dall’agenzia Ansa, personale del Gom, il gruppo operativo mobile che non è stato utilizzato nella perquisizione. Il padiglione Nilo, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, quel giorno, è stato occupato militarmente dagli agenti, sono entrati in ogni cella, i detenuti sono stati picchiati sia all’intero che fuori, nei corridoi, lungo le scale fino all’area destinata all’ora d’aria. La svolta è arrivata dai video, ora agli atti dell’indagine giudiziaria, ai quali si aggiunge la verifica del contenuto dei cellulari, sequestrati agli agenti indagati, lo scorso 11 giugno. Uno dei detenuti pestati, lo scorso aprile, ha guardato i video durante l’interrogatorio a cui è stato sottoposto. Oggi, da uomo libero, ha rivelato quanto ha subito e quanto ha visto in quelle immagini. Sono almeno un centinaio i video che riprendono gli episodi di violenza. Proprio partendo dalle rivelazioni di questi giorni, anche Erasmo Palazzotto, deputato di Leu, interroga il ministro della giustizia. L’interrogazione inizia da una considerazione: “Alla base di quella che all’interrogante appare una vera e propria spedizione punitiva ci sarebbe la ritorsione per le proteste nelle carceri di marzo a causa delle restrizioni previste per l’emergenza del Covid-19”. Palazzolo parla di una “totale sospensione dello stato di diritto ai danni di cittadini che si trovano sotto la custodia dello stato”. In chiusura il deputato chiede al ministro “se era a conoscenza dei fatti esposti in premessa, viste anche le ripetute denunce da parte dell’Associazione Antigone circa il clima che si era creato nelle carceri già a partire dallo scorso mese di marzo e quali iniziativa di competenza ha adottato per verificare e accertare la veridicità di quelle denunce”. Ma soprattutto: “Quali iniziative intenda adottare (...) al fine di ricostruire le esatte responsabilità e la catena di comando che ha deciso e poi determinato quelle violenze ai danni di decine di detenuti”. Un’interrogazione è stata presentata anche dal deputato di +Europa-radicale Riccardo Magi, che insiste su un punto chiave dell’intera vicenda: “Se il Dap abbia avviato, per quanto di competenza, delle indagini interne sui pestaggi illustrati in premessa, su quali aveva ricevuto una nota dall’associazione Antigone, prima che fosse avviate le indagini della magistratura, o se lo abbia fatto successivamente, e con quali esiti, anche in termini di accertamento delle responsabilità della catena di comando”. Domande alle quali dovrà rispondere il ministro della Giustizia, Bonafede, che, fino a questo momento, non ha rilasciato dichiarazioni sulla vicenda. Nessuna presa di posizione neanche da Matteo Salvini, leader della Lega, che 1’11 giugno andò a Santa Maria Capua Vetere per esprimere solidarietà agli agenti indagati per tortura, destinatari di un decreto di perquisizione. Quel giorno Salvini disse: “Se uno su mille sbaglia, paga, ma non si possono indagare e perquisire come delinquenti servitori dello stato”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Una nuova Diaz? Il carcere casertano sotto accusa Il Dubbio, 1 ottobre 2020 Il Garante: “Un carcere dove convivono denuncianti e denunciati. I detenuti mi dicono: continuiamo a vedere i nostri aguzzini tutti i giorni. Che facciamo?”. Il Covid non è l’unico virus che minaccia l’incolumità dei detenuti. Nelle carceri si fa largo un altro e più pernicioso contagio: la sindrome della Dìaz. Umiliate, picchiate, torturate, decine di persone ristrette si sono rivolte agli avvocati. Il 5 aprile a Santa Maria Capua Vetere c’è una rivolta. Il 6 mattina arriva il magistrato di sorveglianza e parla con i detenuti. Torna il dialogo, i disordini rientrano e lui va via. Nel pomeriggio tra le 15 e le 16 trecento divise della polizia penitenziaria entrano per una ‘perquisizione straordinaria”. I quattro piani del padiglione Nilo sono occupati dai trecento agenti. È allora che ha inizio questa nuova Diaz, i detenuti trattati come bestie da macello. I malcapitati vengono fatti uscire dalle celle, una cella alla volta. E gli agenti iniziano a picchiarli. È una tonnara: gli agenti si dispongono a imbuto, nel corridoio. E in quel budello si incanala la carne umana: in fila, i detenuti passano attraverso spinte, calci, schiaffoni e manganellate. “Pensavano di aver aggirato le telecamere, invece ci sono delle riprese”, dice Samuele Ciambriello, Garante per i detenuti della Campania. C’è un video. E così trovano conferma le denunce dei famigliari. Antigone le mette insieme e va in Procura, come ci riferisce l’avvocato Simona Filippi. “Sono arrivate decine di segnalazioni. Abbiamo depositato cinque esposti tra fine marzo e aprile, una mole importante. Normalmente se ne facevano due l’anno. Quest’anno cinque in un mese, un lavoro che implica per ciascun caso tantissime notizie, testimonianze, video e foto. Nel caso di Santa Maria Capua Vetere la distanza temporale tra le proteste e le rappresaglie è stata la più procrastinata nel tempo”. Un passaggio-chiave, perché l’art. 41 della legge penitenziaria dice che l’uso della violenza non è consentito, a meno che non sia indispensabile per prevenire o impedire un atto di violenza. Deve essere contestuale all’eventuale rivolta. Nel caso di Opera la reazione è stata immediata. A Santa Maria C.V. vanno il 6 aprile, a un giorno di distanza dai disordini. Un pestaggio organizzato su cui adesso la Procura di Caserta ha aperto un fascicolo. Il garante Ciambriello ricostruisce per il Riformista: “Iniziarono a telefonarmi i famigliari dei detenuti, concitati. Il 9 aprile mandai al Procuratore capo una serie di segnalazioni di abusi. Da quel giovedì inizio ad ascoltare direttamente venti detenuti del padiglione Nilo, che sono in isolamento. Mando una seconda lettera per dire alla Procura che le notizie sono gravi. E chiedo ai famigliari di firmare le denunce. Avevano paura, ma l’hanno fatto. La Procura è andata diverse volte a raccogliere notizie. E sono state prese le immagini della videosorveglianza, che contrariamente a chi voleva manometterle, hanno ripreso alcune sequenze”. Un detenuto trasferito dopo il pestaggio a Poggioreale ha chiamato ieri Ciambriello. Gli inquirenti gli hanno mostrato il video della mattanza: “Ti riconosci?” “Sono quello in ginocchio vicino al muro, lì è quando mi colpiscono con il manganello. Mi hanno spaccato i denti”. Ha riconosciuto i picchiatori. Ha fatto i nomi. Quali? “Si sono mossi i gruppi speciali, i Gom”. Sono i gruppi organizzati mobili che intervengono per risolvere le grane importanti. “È un carcere dove convivono denuncianti e denunziati. Che facciamo? A me lo dicono i detenuti: continuiamo a vedere i nostri aguzzini tutti i giorni. Abbiamo parlato con la Procura, ma tutti i giorni viviamo a contatto con le persone di cui abbiamo fatto i nomi”. “I Gom si allenano per menare le mani, fanno esercitazioni come le teste di cuoio. Inquietanti. Lavorano nei reparti 41bis, di loro tutti hanno paura e nessuno parla”, ci racconta Pietro loia, garante detenuti di Napoli. A lui, due giorni dopo il pestaggio, i detenuti mandano foto raccapriccianti da Santa Maria Capua Vetere, carcere degli orrori dove non è mancato il morto: Lamine H, 28 anni, algerino, deceduto lo scorso 4 maggio, in isolamento. Era stato picchiato anche lui? Non si hanno notizie dell’autopsia, che pure era stata disposta. Ma d’altronde, aggiunge l’avvocato Filippi, di Antigone, “c’è un problema legato ai medici carcerari: ci sembra sempre che i riscontri si facciano con il contagocce e controvoglia. Non sono rari i casi in cui il medico si rifiuta di refertare le lesioni derivanti dalle violenze dietro le sbarre. Perché fanno parte di una catena di complicità”. E non c’è solo il caso campano. Si parla di tortura anche a San Gimignano: “Ci siamo costituiti, sono indagati cinque agenti carcerari e il medico che ha omesso di refertare”, aggiunge il legale dell’associazione Antigone. “In tutto al momento seguiamo sedici procedimenti pendenti per violenze in carcere. Fascicoli dentro ai quali ci sono lesioni, violenze Tisi che, violenze psicologiche e tortura. Un reato che si sta iniziando a integrare adesso”. Biella. Sonia Carronni confermata Garante dei detenuti bitquotidiano.it, 1 ottobre 2020 Il Consiglio comunale di ieri l’ha votata all’unanimità. La Città di Biella ha confermato Sonia Caronni come Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà. In carica da aprile 2016, è stata confermata ieri con voto unanime del Consiglio comunale. Il Garante regionale Bruno Mellano, ringraziando il sindaco di Biella Claudio Corradino, esprime soddisfazione per una nomina che conferma l’indiscutibile valore della Garante e dà ulteriore impulso alla Rete dei garanti piemontesi, unica in Italia perché dotata di un Garante per ogni città sede di carcere. Il Covid non ha fermato l’azione dei Garanti territoriali: quelli piemontesi si riuniranno martedì 6 ottobre per fare il punto della situazione sui singoli istituti e sugli interventi progettuali in corso. La riunione sarà da remoto per le limitazioni dovute all’emergenza sanitaria in corso. Inoltre, tutti Garanti territoriali delle persone private della libertà si riuniranno a livello nazionale nella loro Assemblea Annuale il 9 e 10 ottobre a Napoli, presso la sede del Consiglio regionale della Campania. Mellano, che sarà impegnato nella sessione tematica relativa a “Reinserimento sociale e accoglienza delle persone private della libertà” ha dichiarato che “sarà un’ottima un’occasione di scambio e confronto tra tutti coloro che a vari livelli territoriali ricoprono un importante ruolo di garanzia. Prevenzione sanitaria, lavoro, istruzione e reinserimento sociale sono solo alcuni dei temi che affronteremo con la convinzione che la ripartenza post Covid del mondo del carcere non possa prescindere da un’attiva partecipazione al dibattito da parte di tutte le componenti del mondo dell’esecuzione penale, dalla magistratura di sorveglianza, ai decisori politici, passando per l’Amministrazione penitenziaria, i Garanti e la comunità penitenziaria nella sua interezza”. Siracusa. L’Arcolaio: gli ex detenuti trovano lavoro valorizzando il territorio in cui vivono di Gabriele Giannetto italiachecambia.org, 1 ottobre 2020 Favorire il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti del carcere di Siracusa, di giovani immigrati e altre persone svantaggiate attraverso attività legate alla promozione e valorizzazione della diversità naturale e culturale della Sicilia. È questa la missione de L’Arcolaio, cooperativa che costruisce percorsi di cambiamento e riscatto. Uno dei primi incontri durante il tour di Sicilia che Cambia è stato con l’Arcolaio, una cooperativa sociale di tipo B nata nel 2003 per favorire percorsi di integrazione socio-lavorativa dei detenuti attraverso la gestione di un’attività produttiva all’interno del carcere di Siracusa. In una calda giornata di fine luglio abbiamo incontrato Maksim Coshman. Maksim è di origini ucraine e durante il suo percorso detentivo ha iniziato una collaborazione con la cooperativa, inizialmente all’interno del carcere di Siracusa e oggi, in regime di semi libertà, come socio e responsabile del laboratorio. Prima di visitare i luoghi della trasformazione e confezionamento dei prodotti, abbiamo fatto un giro nel campo di aromatiche curato dalla cooperativa. Nonostante il caldo, il paesaggio era molto suggestivo, l’odore delle erbe aromatiche travolgente e con piacere ci siamo immersi nelle storie di Maksim Coshman e Bruno Buccheri, responsabile della produzione, che ci attendeva già sul posto. Con lo scopo di affiancare e promuovere la funzione rieducativa della struttura detentiva dal 2003 la cooperativa ha avviato diversi progetti. Inizialmente si è dedicata alla produzione di pane biologico, ma dopo aver incontrato alcune difficoltà commerciali ha scelto la realizzazione biologica di paste di mandorla e di altri dolci tipici della tradizione siciliana. Nel 2005 viene creato il marchio registrato “Dolci Evasioni” e viene sviluppato un packaging dedicato. I prodotti Dolci Evasioni, senza glutine e con una filiera solidale, negli anni hanno conquistato il mercato nazionale attraverso i negozi specializzati di biologico, le botteghe del commercio equo e i Gas (gruppi di acquisto solidale). Dal 2010 L’Arcolaio gestisce la cucina detenuti e la preparazione dei pasti per i detenuti della Casa Circondariale, ma offre altri servizi come la preparazione di catering in occasione di feste private, eventi e manifestazioni. Nel 2014, con il sostegno della Fondazione di Comunità Val di Noto, di cui l’Arcolaio è socio fondatore, viene avviato il progetto di agricoltura sociale Frutti degli Iblei. Vengono così introdotte nuove categorie di prodotti, come erbe aromatiche, sali aromatizzati e ortaggi essiccati attraverso il recupero di terreni incolti e il coinvolgimento di altre categorie di persone svantaggiate (principalmente giovani e donne immigrate). La cooperativa l’Arcolaio, passo dopo passo, è riuscita ad ampliare la sua rete di contatti sul territorio locale e nazionale che le hanno consentito di crescere e rafforzarsi e acquisire una notevole visibilità. Tra gli obiettivi principali della cooperativa c’è l’inserimento degli ex detenuti nel mondo del lavoro, Buccheri infatti definisce il ruolo della cooperativa un “trampolino di lancio” che consenta a tutti, una volta fuori l’istituto penitenziario, di avere un’altra possibilità. L’Arcolaio, quindi, offre concrete alternative a persone svantaggiate, come detenuti o immigrati, creando un modello economico basato sul rispetto dell’ambiente e la solidarietà. Le paste di mandorla e le erbe aromatiche, rigorosamente biologiche, uniscono un’ottima qualità e genuinità, a un grande valore sociale. L’Arcolaio rappresenta un piccolo, ma prezioso frammento della Sicilia solidale, equa e inclusiva, attenta alla valorizzazione delle persone e delle risorse del territorio. Prato. Detenuto positivo al coronavirus, due avvocati in quarantena di Silvia Bini La Nazione, 1 ottobre 2020 Si trattava di un’udienza da remoto proprio per contenere il rischio contagi, ma avvocato e detenuto sono stati costretti a stare a meno di un metro di distanza per essere ripresi dalla telecamera in collegamento con il tribunale. Due avvocati in quarantena in attesa di tampone. È il bilancio dell’udienza di convalida in carcere di un detenuto risultato positivo al Covid. A darne notizia è la Camera penale che prende una dura posizione contro le scarse misure di sicurezza che sono state adottate durante l’udienza. Tanto più che si trattava di un’udienza da remoto proprio per contenere il rischio contagi. Il problema è tanto banale quanto assurdo: avvocato e detenuto sono stati costretti a stare a meno di un metro di distanza per essere ripresi dalla telecamera in collegamento con il tribunale. “Decisiva è stata la circostanza - spiegano la nota inviata dalla Camera penale - che il difensore, nel carcere di Prato, sia stato seduto accanto al detenuto a meno di un metro per poter essere ripreso dalla telecamera del computer durante lo svolgimento a distanza dell’udienza”. In questo caso specifico ad aggravare la situazione c’è il fatto che il detenuto fosse risultato positivo al tampone effettuato nel centro di accoglienza per migranti dal quale si era allontanato. “Qualcuno avrebbe dovuto segnalare che l’uomo era già risultato positivo ad un controllo, quanto meno sarebbero state adottate delle misure precauzionali adeguate”, interviene Gabriele Terranova. “È intollerabile che gli avvocati debbano essere pesantemente esposti al pericolo di contagio mentre assolvono alla loro funzione - prosegue - e tanto più che ciò accada proprio al fine di consentire, con mezzi evidentemente inappropriati, la celebrazione dell’udienza a distanza, che comprime i diritti delle parti proprio per prevenire - evidentemente in modo inappropriato e non per tutti - il rischio di contagio”. Il bilancio è pesante: attualmente un avvocato penalista si trova in quarantena in attesa di accertamenti così come una collega (anche lei presente all’udienza) costretta a restare in isolamento in attesa dell’esito del tampone che per fortuna è risultato negativo. Quanto accaduto mette in luce le carenze del sistema e impone una riflessione: “Lanciamo un allarme perché si provveda a mettere in campo dei correttivi, non è ammissibile che sia messa a rischio la salute - prosegue Terranova - Basterebbe ad esempio che per le udienze da remoto venissero utilizzate due telecamere così da permettere di mantenere le distanze, oppure con il giudice presente tutti avrebbero potuto stare a debita distanza. Quanto accaduto, aggravato dalla mancata comunicazione al penitenziario dello stato di salute del detenuto risultato positivo al Covid, creano molto sconcerto e timori”. Napoli. Dibattito sul carcere al tempo del Covid comunicareilsociale.com, 1 ottobre 2020 Sarà il Sottosegretario di Stato alla Giustizia Andrea Giorgis a concludere il dibattito su vita detentiva al tempo del Covid-19, misure alternative al carcere e giustizia veramente giusta, in programma venerdì 2 ottobre alle 11 a Napoli, presso il ristorante Il Poggio, in via Nuova Poggioreale 160/c. L’occasione è offerta dalla presentazione del nuovo libro del Garante dei Detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello “Carcere. Idee, proposte, riflessioni” (Rogiosi) promossa dal gruppo di imprese sociali Gesco in collaborazione con la casa editrice Rogiosi. Con l’autore, interverranno: il presidente di Gesco Sergio D’Angelo, il presidente della casa editrice Rogiosi Rosario Bianco, il portavoce della conferenza nazionale dei garanti regionali e locali Stefano Anastasia, il responsabile nazionale dell’Osservatorio carcere dell’UCP Riccardo Polidoro, il presidente della Camera Penale di Napoli Ermanno Carnevale, la docente universitaria Anna Malinconico, il cappellano del Carcere di Poggioreale Don Franco Esposito, l’ergastolano semilibero Cosimo Rega. Modera la giornalista Elena Scarici. Il libro - “Carcere è l’anagramma di cercare. Cercare per ricostruire, per ritrovarsi, per seguire una strada che è tracciata anche dalla Costituzione: assumersi le responsabilità, per trovare sé stessi, rispettando i diritti delle persone”. È questo lo slogan di Samuele Ciambriello, giornalista, scrittore, professore, attivamente impegnato da 40 anni nella lotta per i diritti delle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale e Garante dei Detenuti della Regione Campania da ottobre 2017. Milano. Il Cenacolo e le altre opere di Leonardo, l’arte dei detenuti in mostra a Ville aperte ilcittadinomb.it, 1 ottobre 2020 Limbiate, con villa Crivelli Pusterla, Barlassina con palazzo Rezzonico, e Arcore, con villa Borromeo d’Adda ospitano le opere, frutto di percorsi artistici all’interno della casa di reclusione di Bollate grazie alla collaborazione di Ville aperte con l’associazione “dEntrofUoriars”, che ha come intento il reinserimento sociale di detenuti attraverso la fruizione del patrimonio culturale ed artistico in tutte le sue forme. Leonardo accompagna i visitatori anche in questa edizione 2020 di “Ville aperte”. E questa volta (dopo il filo rosso delle vie d’acqua dello scorso anno) lo fa con una modalità unica nel suo genere. Un Cenacolo vinciano dove gli apostoli sono ritratti con il volto di detenuti. E ancora, una Battaglia di Anghiari sorprendente e una Dama con l’ermellino ad effetto, rivisitata in chiave floreale e faunistica. Sono queste le riproduzioni di opere leonardesche realizzate, con estro, dai detenuti del carcere di Bollate che abbelliscono alcune residenze della Brianza durante le giornate della manifestazione che apre le porte del patrimonio artistico-culturale del territorio. Limbiate, con villa Crivelli Pusterla, Barlassina con palazzo Rezzonico, e Arcore, con villa Borromeo d’Adda ospitano le opere, frutto di percorsi artistici all’interno della casa di reclusione che viene indicata come modello anche per i progetti di reinserimento. Anche per l’edizione odierna di Ville aperte, infatti, si rinnova la collaborazione con l’associazione “dEntrofUoriars”, che ha come intento proprio il reinserimento sociale di detenuti attraverso la fruizione del patrimonio culturale ed artistico in tutte le sue forme. Nelle passate edizioni alcune persone recluse avevano affiancato come volontari le guide nell’accompagnare i visitatori in luoghi aperti, come la Villa reale a Monza e palazzo Arese Borromeo a Cesano Maderno. Dostoevskij scriveva che la bellezza salverà il mondo ed è proprio questo ad ispirare il progetto dell’associazione dEentrofUori ars di Milano. Tutto è nato da un’esperienza pilota nel capoluogo lombardo, di pochissimi anni fa, in occasione dell’iniziativa “Aperti per voi” del Touring Club italiano con detenuti impegnati nelle visite alla chiesa di San Fedele e alla Casa Museo Boschi: uscite dal carcere che hanno mostrato subito la loro efficacia, Così è arrivata anche la Brianza. Impossibile però quest’anno, in base alle disposizioni per l’emergenza da Covid 19, far uscire i detenuti dalla casa circondariale. Ma il ponte tra il mondo della detenzione e la cultura non poteva fermarsi ed è nato un nuovo progetto, in collaborazione con l’associazione Le Belle Arti che opera a Bollate e la disponibilità della casa di reclusione. “Non possiamo mollare, ci siamo dette - spiega Patrizia Rossetti, presidente di “dEntrofUoriars” e con Ornella Forte ideatrice del progetto. - E così abbiamo pensato a una diversa modalità di “presenza” ed è avvenuto qualcosa di eccezionale: abbiamo ricevuto quattro richieste da Comuni brianzoli. Tre siamo riuscite ad accettarle ed eccoci qui: il nostro impegno è un modo anche per far comprendere alla società civile che se non si regalano prospettive diverse ai detenuti, non si potrà mai pensare di mostrare loro una nuova strada”. Una sfida forte, tutta in divenire. Un’alleanza che ha visto unire gli intenti di Rossetti e Forte, da molto tempo volontarie in carcere, a quelli di Renato Galbusera e Anna Garau di “Le belle arti”, che hanno seguito i laboratori per la realizzazione delle opere. A villa Crivelli Pusterla è già stato collocato il dipinto, un metro per quattro metri, realizzato da Sasha Galli, attualmente detenuto a Bollate, che ha la particolarità di riprodurre il Cenacolo con i volti dei detenuti e proprio dei due docenti che hanno supervisionato il lavoro. “Un’Ultima cena odierna, dove prodotti da fast food fanno capolino sul tavolo - spiega Rossetti - e in cui nessuno dei detenuti ha voluto prestare il volto a Giuda”. A Palazzo Rezzonico di Barlassina sono stati invece esposti un altro dipinto di Galli, questa volta ispirato alla Battaglia di Anghiari e una serie di sanguigni realizzati dal detenuto Giacomo Sessa, sempre con la riproduzione di alcune opere di Leonardo. “Abbiamo persone che ancora ricordano la giornata trascorsa tra le bellezze della Villa reale a Monza. Per loro è stata un’esperienza unica: dare l’opportunità di stare in un ambiente bello, ricco di storia e cultura, di qualità, è una strada per ritrovare autostima e scoprire contesti diversi, dove proprio la bellezza cambia la prospettiva. Speriamo di poter tornare presto a fare uscite con i detenuti”. Info e prenotazioni: villeaperte.info Decreti sicurezza, i dubbi dei 5S. L’aut aut di Zingaretti: agire subito di Alberto Mattioli La Stampa, 1 ottobre 2020 I Dem definiscono “inaccettabile” l’ennesimo stop dai grillini, che vorrebbero solo modifiche miratissime e limitate. Nicola Zingaretti sbuca davanti al bar Liberty di Voghera per comiziare a sostegno di Nicola Affronti, candidato del centrosinistra (molto più centro che sinistra, è dell’Udc) a sindaco della città, che domenica affronta un difficile ballottaggio. Ma il tema del giorno sono i decreti sicurezza del governo Conte I griffati Matteo Salvini, “che in realtà con la sicurezza c’entrano niente”, chiosa Zingaretti, e che il Conte II vorrebbe e, stando agli accordi programmatici, dovrebbe cambiare in profondità. Per tutto il giorno, però, fonti del Pd fanno sapere che l’intesa traballa perché il M5s frena, specie sulla reintroduzione della protezione umanitaria. Divisi su tutto, i grillini lo sarebbero anche sul fatto di dare finalmente via libera a una riscrittura “pesante” dei decreti salviniani: “Siamo per recepire le osservazioni del Capo dello Stato”, dicono, insomma modifiche poche e mirate. E per il Pd questo è “inaccettabile”. Poi però filtrano retroscena uguali e contrari, stavolta dal Movimento. Assicurano che in realtà Di Maio non bloccherà il dossier, che quindi potrebbe approdare già al Consiglio dei ministri convocato per domenica sera. Conferma, segretario? “Questo non lo so, non sono un ministro”, dice Zingaretti, che però si mostra molto fiducioso, anzi quasi certo di portare a casa il risultato: “Sono convinto che la modifica dei decreti Salvini, anzi dei decreti paura, avverrà nei prossimi giorni o nelle prossime ore. È un insieme di provvedimenti che penso sia maturo per essere approvato. Ne abbiamo discusso per mesi, la ministra Lamorgese ha detto da settimane che l’accordo è pronto, trovo naturale che lo si faccia”. Politicamente, è il punto più rilevante del tour lombardo del segretario dem, tre comizi in quattro ore, a Voghera, Saronno e Legnano, una media quasi salviniana. Zingaretti mancava dalla regione dal famigerato aperitivo con Beppe Sala nell’incauta fase “riapriamo tutto” d’inizio Covid, quando il virus se lo prese anche lui. È l’occasione per togliersi qualche macigno dalle scarpe: “Nessuno si permetta di dire che sono corresponsabile perché facevo gli aperitivi a Milano. Io a Milano sono venuto a portare la mia solidarietà alla città ferita. Ma lì ho sempre rispettato le regole di comportamento stabilite dalla Regione Lombardia”, insomma dal centrodestra. “Non mi sognerei mai di dire di non rispettare le regole perché sono sbagliate, come spesso fa la destra. Ecco la differenza fra noi e loro”. Per Sala e i suoi amletici dubbi se ricandidarsi o no, solo elogi: “Non devo convincere nessuno. Ma è stato un sindaco eccezionale, fra i migliori del Paese, che ha guidato una città complessa facendone una capitale mondiale”. Il quale Sala, però, a Saronno dove hanno parlato insieme, ha ricordato al segretario che in Italia “c’è una questione Sud ma anche una questione Nord, e io non voglio che il Nord sia rappresentato solo dalla Lega”. Intanto Zingaretti chiama a raccolta tutti “per evitare il rischio della destra”, dice che nel M5s “c’è finalmente un’evoluzione positiva, perché adesso governiamo da alleati e non da avversari” e poi naturalmente smentisce l’asse con Di Maio di cui sono pieni i giornali, “nessun asse privilegiato con nessuno, ma dialogo con tutti”. E il Mes? “Se votate Pd arriverà”. Il comizio a Voghera va bene, gente e applausi, e dire che per strada non c’è nemmeno un manifesto con la faccia del Zinga (mentre c’è quella di Omar Codazzi, star del concerto terminale della campagna, venerdì al Palaoltrepò), la battaglia di Voghera è difficile ma non impossibile, anche se la candidata di centrodestra parte dal 49 e rotti del primo turno. Però, segretario, come mai non ha nominato Conte nemmeno una volta, né con i giornalisti né dal palco? “Ma con Conte il rapporto è ottimo, ci sentiamo quasi tutti i giorni e quando c’è bisogno ci vediamo pure. Il governo è solido e se tutti si comportassero come me lo sarebbe ancora di più”. Il nuovo decreto sicurezza slitta ancora di Daniela Preziosi Il Domani, 1 ottobre 2020 Allarme Pd, il testo scompare dal tavolo del Consiglio dei ministri di domenica. Zingaretti: “Sono sicuro che sarà firmato nelle prossime ore”. L’accordo, giurano ai vertici del Pd, c’è. Ed è che alla riunione del Consiglio dei ministri di domenica sarà varato il decreto “sicurezza” che sostituisce buona parte delle norme che avevano dato un giro di vite all’accoglienza dei naufraghi e dei richiedenti asilo contenute nel primo e nel secondo Decreto Salvini e approvate dal governo Conte Primo. È un anno che queste norme aspettano di essere varate. Ma a ieri l’ordine del giorno di palazzo Chigi non dice nulla di buono sul tema. Domenica si discuterà solo del Nadef, ala nota di aggiornamento al documento di Economia e Finanza. Slitta dunque ancora in avanti il varo delle nuove norme sull’accoglienza e sul diritto di asilo. Niente di strano, viene giurato. Eppure per la maggioranza è ormai un chiaro indizio che qualcosa sta andando storto. E cioè che c’è un ennesimo nuovo inciampo sulla strada del nuovo decreto. E un altro indizio è l’insistenza sul tema di Nicola Zingaretti, segretario Pd, ieri pomeriggio, dalla piazza in cui tiene gli ultimi comizi elettorali per i ballottaggi proprio di domenica. “C’è un insieme di provvedimenti che penso sia maturo per essere approvato. I decreti Salvini, con la sicurezza degli italiani non c’entravano nulla, anzi erano i decreti paura. Abbiamo discusso per mesi, la ministra Lamorgese ha detto da settimane che l’accordo è pronto, io trovo naturale rispettare questo punto. “Sono convinto che nei prossimi giorni, nelle prossime ore questo avverrà” dice da Voghera. L’intesa sul testo era stata trovata alla fine dello scorso luglio quando era stato siglato l’accordo sul nuovo testo destinato a sostituire i decreti salviniani. Davanti alla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, c’erano tutti i rappresentanti della maggioranza, compreso il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia del M5s. Quel testo prevede l’allargamento della possibilità per i migranti di accedere alla protezione umanitaria, la revisione del sistema di accoglienza Siproimi - per i titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati -, la possibilità di iscriversi all’anagrafe comunale (dopo la disobbedienza di alcuni sindaci e la bocciatura parziale della Corte costituzionale) e un alleggerimento parziale delle multe milionarie alle Ong, elemento sul quale erano arrivati anche i rilievi del Quirinale. Poi però il Covid aveva rimandato il varo a settembre, poi le elezioni amministrative avevano consigliato la maggioranza a non regalare occasioni di propaganda a Matteo Salvini, e infine la data era slittata almeno a dopo sabato 3 ottobre, e cioè dopo l’udienza preliminare che vede il leader della Lega rischiare di andare a processo a Catania per sequestro di persona per la vicenda della nave Gregoretti. Per quella data Salvini prepara un comizio, e c’è da giurare che non ha bisogno del sì al nuovo decreto per attaccare il governo giallorosso. L’asse con Di Maio? L’approvazione del testo da parte del governo “è questione di ore” dice dunque Zingaretti. Ma sembra più una speranza che una certezza. Perché il Movimento Cinque stelle ieri avrebbe riaperto i giochi. La bozza va ridiscussa, è la parola d’ordine che circola fra parlamentari, alcuni dei quali chiedono una stretta sulla reintroduzione della protezione Umanitaria tra le motivazioni della concessione dei permessi di soggiorno. Agli spifferi pentastellati rispondono quelli dem: “L’accordo è stato sottoscritto da tutta la maggioranza a luglio”. Zingaretti, come sempre, non vuole drammatizzare. Spiega di avere con tutti buoni rapporti, che vanno addirittura sempre meglio: “È vero che percepisco sia con Renzi che con Speranza che con Crimi un’evoluzione positiva dei rapporti”. Viene ventilato persino l’asse con Luigi Di Maio. Se fosse, non sarebbe poi così di ferro. Proprio Di Maio domenica scorsa aveva detto una frase poco rassicurante: “C’è una discussione politica in corso su una modifica, dialogando troveremo una soluzione”. Una “discussione in corso”, non un accordo firmato. E così ieri nei vertici del Pd è scattato l’allarme. Uno stop, giurano, sarebbe “inaccettabile”. I migranti tra silenzi e amnesie di Paolo Mieli Corriere della Sera, 1 ottobre 2020 Ancora un giorno e il leader della Lega entrerà nell’albo d’oro dei leader politici italiani transitati per le aule giudiziarie. Come Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi. Ci siamo. Ancora un giorno e Matteo Salvini entrerà nell’albo d’oro dei leader politici italiani transitati per le aule giudiziarie. Come Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi. Lui, a differenza dei predecessori, non ha neanche fatto una onorevole sosta a Palazzo Chigi. Senza esser stato presidente del Consiglio (ma esclusivamente vice, oltreché ministro dell’Interno), Salvini dovrà rispondere a Catania di aver sequestrato - da solo, presumiamo - 131 migranti in attesa di scendere a terra dalla motonave della Guardia costiera “Bruno Gregoretti”. I profughi maschi, al termine di un viaggio infernale che durava da gennaio, dovettero aspettare per cinque lunghissimi giorni, tra il 27 e il 31 luglio del 2019. Donne e bambini per due. Il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro aveva chiesto l’archiviazione di questo caso Gregoretti-Salvini. Un altro magistrato, parlandone con Luca Palamara (quando l’ex capo dell’Associazione nazionale magistrati era ancora in auge) aveva espresso dubbi sull’iniziativa giudiziaria anti-salviniana. Ma il presidente dei giudici delle indagini preliminari, Nunzio Sarpietro, è andato avanti con decisione: “A me Palamara non lo dice nessuno”, ha dichiarato. E il Senato ha concesso l’autorizzazione a procedere contro l’ex ministro per “sequestro di persona aggravato”. Va riconosciuto che Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio - di allora e di adesso - è stato assai fortunato. Nessun giudice ha pensato di coinvolgerlo, neanche marginalmente, nella decisione di trattenere quei disgraziati a bordo della “Gregoretti” in quell’ormai lontano luglio del ‘19. E ugualmente baciati dalla fortuna sono stati i colleghi di governo dell’ex ministro. C’è da aggiungere che anche dovesse uscire indenne dalle forche catanesi, come già capitò ai succitati predecessori, altri procedimenti si prospettano per Salvini. Sicché sabato 3 ottobre probabilmente inizierà per il leader leghista una vita nuova tra tribunali e toghe che - presumiamo - non sarà ininfluente agli effetti della prosecuzione dell’altra sua vita, quella politica. Nel frattempo i migranti - ovemai a qualcuno stesse tuttora a cuore il loro destino - hanno continuato ad essere “trattenuti” sui ponti delle navi. L’Italia giallorossa sulla scia di quella gialloverde ha poi stanziato dieci milioni per la guardia costiera libica. Nicola Zingaretti il 18 luglio scorso ha annunciato l’intenzione di verificare “con assoluta inflessibilità” che con tale impegno implicasse un “termine alla condizione infernale nella quale sono costretti a vivere tanti migranti”. Ma di quella “inflessibile” verifica si è saputo poco. Diciamo meglio: niente. Fortunatamente si batte per la causa dei fuggiaschi dall’Africa un esperto di diritti umani, il greco Jason Apostolopoulos, che (in compagnia del medico Fabrizio Gatti) avrebbe voluto farle lui questo genere di verifiche imbarcandosi sul rimorchiatore Mare Jonio della ong “Mediterranea”. Apostolopoulos è una figura quasi leggendaria da quando nell’ottobre 2015 ha lasciato il lucroso mestiere di ingegnere per andare a Lesbo ad aiutare i profughi provenienti dalla Turchia. Da allora si è occupato solo di loro, dei migranti, in decine, centinaia di casi. Ma stavolta si è imbattuto in un italiano d’acciaio, il comandante della Guardia costiera Donato Zito, che non ha consentito né a lui né a Gatti di imbarcarsi: “trattasi di due profili che non hanno alcuna attinenza con la tipologia di servizio svolto dal rimorchiatore”, ha sentenziato. Il governo non ha sconfessato Zito. Anzi ha avallato le sue motivazioni. Si sono levate soltanto le proteste dei radicali Giulia Crivellini e Massimo Iervolino, più a sinistra di Rossella Muroni, Nicola Fratoianni, Erasmo Palazzotto, Matteo Orfini e dell’ex M5S Gregorio de Falco. Tutti concordi su un’unica cosa: dai tempi di Salvini, in Italia non è cambiato niente. Solo che adesso nessuno o quasi ne parla più. Nel frattempo Alarm Phone ha denunciato che tra il 14 e il 25 settembre, centonovanta persone sono morte in sei naufragi davanti alla Libia. Cioè in dieci giorni: sei naufragi e centonovanta morti. Qualcuno ne ha saputo qualcosa? Secondo la portavoce di Sea-Watch Giorgia Linardi il silenzio che avvolge queste storie risponde ad una “strategia del governo italiano” in complicità con il resto d’Europa. Tra il governo Conte I e il governo Conte II, prosegue la Linardi, “sono cambiate le modalità e i toni ma non è cambiato l’obiettivo di cacciare le Ong dal Mediterraneo”. Salvini a suo tempo voleva “porti chiusi”; il governo attuale, con il decreto del 7 aprile scorso, ha dichiarato i porti italiani “non sicuri”. “Quasi peggio”, sostiene Giorgia Linardi. Quanto al cambiamento dei decreti sicurezza, pare che tale modifica preveda la revisione delle sanzioni. Ma, secondo la portavoce di Sea-Watch, manterrebbe “l’approccio criminalizzante verso chi salva vite in mare”. A parole, denuncia l’attivista umanitaria, “le nuove policy italiane ed europee menzionano il soccorso in mare, ma poi, a leggere bene, si coglie che l’unico cambio di passo è il rafforzamento di Frontex e dei respingimenti verso la Libia”. Le critiche mosse da radicali, da sparuti elementi di sinistra varia e dalla rappresentante di Sea-Watch all’attuale governo ci sembrano esagerate. Siamo persuasi che nel suo intimo il presidente del Consiglio sia cambiato dall’agosto 2019, che a lui sarebbe sufficiente qualche sollecitazione per dar prova di quanto gli stia a cuore la causa dei migranti. Allo stesso modo non può sfuggirci il più che evidente cambio di passo dell’attuale titolare degli Interni: la Lamorgese lunedì scorso è stata persino ricevuta dal Papa che ha dato evidenti segni d’assenso al monito della ministra a “non dimenticare, in un frangente così gravido di domande, il dramma dell’immigrazione”. Quel che si è visto meno - ce ne siamo accorti da tempo - sono le manifestazioni di sostegno alla causa dei fuggiaschi da parte del mondo della cultura e delle arti. Pochi letterati, poche personalità dello spettacolo si sono prodigate, negli ultimi e penultimi tempi, per premere sul Parlamento a che vengano presi provvedimenti adeguati al dramma messo in risalto dalla Lamorgese. Ancor meno sono gli scrittori che, sul modello di quel che loro stessi fecero nelle estati 2018 e 2019, abbiano preso la via del mare per portare un pur minimo sollievo ai disperati in fuga dalle coste africane (così da aver poi modo di scrivere libri su quelle loro sofferte esperienze). Per buona sorte ci è rimasto - assieme a un modesto numero di compatrioti - il greco Apostolopoulos che, dopo il cambio d’inquilino al Viminale, non ha modificato la propria sensibilità in materia di migranti. Peccato che Conte, Zingaretti e Grillo non lo abbiano preso a modello. Armin Laschet (Cdu): “Sui migranti la Ue dia un segnale all’Italia” di Paolo Valentino Corriere della Sera, 1 ottobre 2020 Parla il più quotato tra i possibili successori di Merkel: Dublino, la crisi sanitaria, il recovery fund, il caso Navalny. In visita a Roma, tra mercoledì e giovedì incontra il Papa e Conte. “Il Next Generation Eu è giusto, ora tocca a tutti noi usarlo in modo da rilanciare un mercato europeo più grande, più robusto e più unito”. Non è solo una visita celebrativa per i 30 anni della Riunificazione tedesca, quella di Armin Laschet a Roma. A suggerirlo è un’agenda del tutto inusuale per il ministro-presidente di un Land federale, fosse pure il più grande com’è il caso del Nord Reno-Vestfalia. Laschet infatti incontra oggi il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e domani il Papa, con il quale vuole ricordare il “contributo decisivo che Giovanni Paolo II diede all’unità europea con la sua lotta per la fine del comunismo e la libertà dell’Europa orientale”. Il premier renano vedrà anche il ministro degli Esteri Di Maio e, in un ricevimento alla residenza dell’ambasciatore tedesco, si intratterrà con un pezzo importante di establishment italiano: i ministri Lamorgese e Gualtieri, la presidente del Senato Casellati e poi Zingaretti, la sindaca Raggi, gli ambasciatori dell’Ue, alcuni capi d’impresa e direttori di giornali. C’è una sola spiegazione per questo calendario: dopo la vittoria della Cdu nelle comunali del suo Land, Laschet è il candidato di testa per la presidenza della Cdu, una carica che renderebbe inevitabile la sua candidatura alla cancelleria nelle elezioni del prossimo settembre. Ed è lui in realtà il favorito in pectore di Angela Merkel, che in Laschet vedrebbe assicurata la continuità del suo corso centrista. Detto altrimenti, il viaggio in Italia è quasi una investitura per l’uomo che tra un anno potrebbe essere il nuovo cancelliere tedesco. Perché 30 anni dopo la riunificazione ci sono ancora divisioni tra le due Germanie? “L’unità della Germania così come quella dell’Europa non sono ancora state completate. Ci sono su alcuni atteggiamenti diversi nel centro e nell’Est europei. Ma ci sono anche differenze di mentalità e di visione tra l’Est e l’Ovest della Germania. In questo senso c’è ancora molto lavoro. Dal punto di vista economico è stato fatto tanto. Helmut Kohl aveva parlato di “paesaggi in fiore”. È un fatto che ci siano molte aree e città dell’Est in ottime condizioni, il decadimento di allora è stato fermato e rovesciato. Si è investito tanto nelle infrastrutture. Ma dal punto di vista mentale, molte persone non si sentono del tutto accettate. Vivere in un sistema politico diverso fa una differenza, ne conseguono percorsi di vita ed esperienze diverse. Ed è compito di tutti i tedeschi superare gli ostacoli che ancora esistono e completare anche l’unità nelle teste delle persone”. Con il Next generation Eu l’Europa ha rotto il tabù dei debiti in comune. Ma la possibilità di emettere bond europei è una tantum o dev’essere il primo passo verso più integrazione e solidarietà? “La mia speranza è che si tratti di un primo passo verso una nuova, comune coscienza europea. Di fronte alla pandemia, l’Europa ha fronteggiato il rischio di una rottura tra Nord e Sud, Est e Ovest. Ora, grazie alla decisione del Consiglio europeo, è possibile rendere di nuovo forti i Paesi, in particolare quelli del Sud, più colpiti dal coronavirus. Una cosa è evidente: proprio la Germania, il maggior Paese esportatore, dipende in modo massiccio dal successo economico dell’Italia. Noi e gli altri Paesi dell’Ue possiamo essere forti solo se anche l’Italia e le nazioni del Sud lo sono. Questo riconoscimento è al tempo stesso segno di solidarietà e nostro primario interesse”. La preoccupa che l’Italia possa non riuscire a usare in pieno il Recovery Fund? “No. Il governo italiano ha l’obiettivo non solo di tornare ai livelli dell’economia precedenti la pandemia, ma anche di usare le risorse per la modernizzazione delle infrastrutture, l’agenda climatica, la digitalizzazione. Penso che l’Italia ce la farà. Solo così potremo insieme costruire un’Europa forte che abbia un posto nel mondo, di fronte agli Usa e alla Cina”. La questione migratoria è tornata ad aggravarsi. Cinque anni dopo la crisi del 2015, non c’è ancora un meccanismo di redistribuzione e le regole di Dublino sono ancora là. Come si risolve il problema? “C’è bisogno di un consenso, non si può costringere nessuno a maggioranza ad accettare i rifugiati. Ma i migranti che arrivano a Lesbo o a Lampedusa arrivano in Europa. Quindi occorre una risposta europea. È una responsabilità comune. Ciò significa che l’Ue deve aiutare nella protezione delle frontiere, nella registrazione dei profughi, nella distribuzione solidale. È una strada lunga ma sono ottimista”. Che ne pensa della recente proposta della Commissione? “È un buon inizio. Ci vuole più responsabilità europea, che è il segnale da dare a Grecia e Italia. Ma ci saranno ancora molte discussioni sui dettagli”. La pandemia è ancora fra noi. I nuovi contagi tornano a salire ovunque. Teme un altro lockdown? “Dobbiamo fare di tutto per evitarlo, altrimenti ci sarebbero danni pesantissimi all’economia in Europa. Già ora in Germania e nell’Ue siamo dentro la più grave crisi economica dalla Seconda guerra mondiale. Occorre interrompere e mettere sotto controllo le catene infettive. In Germania, dove gli sviluppi variano da Land a Land, vogliamo reagire in modo mirato: quando certi valori saranno superati, programmiamo un lockdown locale e in certe città specifiche attività potrebbero essere proibite. Voglio però dire che in questa fase l’Italia sta controllando la crisi meglio di altri Paesi, le cifre italiane del contagio ci danno speranza, gli italiani sono disciplinati e sono un modello per l’Europa”. Il caso Navalny, il dissidente russo avvelenato e poi curato a Berlino, ha innescato in Germania un dibattito sul gasdotto Nord Stream 2. Dev’essere fermato, come chiedono molti anche dentro la Cdu, come misura punitiva verso Mosca? “Il caso Navalny dev’essere chiarito rapidamente. È responsabilità della Russia trovare i responsabili. L’Ue deve far pressione su Mosca perché venga fuori la verità. Ma il Nord Stream 2 non ha alcun legame con questa vicenda. Ci vuole una risposta europea al caso Navalny. Anche negli anni della tensione con l’Unione Sovietica, c’erano forniture di gas in Europa. Per questo condivido la posizione del governo tedesco”. Lei è candidato alla presidenza della Cdu, che significa anche l’ambizione a candidarsi alla cancelleria. Se diventasse cancelliere, come guiderebbe la Germania nell’Europa e nel mondo? “Eleggeremo in dicembre il nuovo presidente dei cristiano-democratici. Poi insieme alla Csu bavarese discuteremo del candidato cancelliere. Io voglio che la Cdu rimanga ancorata al centro e che nella politica internazionale ed europea segua in pieno la tradizione di Konrad Adenauer, Helmut Kohl, Angela Merkel. Oggi occorre più coraggio per l’Europa. Abbiamo bisogno di un rilancio dello spirito europeo verso l’interno e di un’autoaffermazione dell’Europa verso l’esterno”. Come giudicherà la Storia Angela Merkel? “La sua cancelleria è stata segnata da grandi crisi internazionali: quella finanziaria mondiale, quella del debito europea, la crisi dei rifugiati e ora la pandemia. Il merito particolare di Angela Merkel è stato di aver tenuto insieme la Germania e l’Europa. E questo sarà il compito di ogni successore” Un compito difficilissimo... “È così per ogni grande personalità. Fu detto anche per il dopo Helmut Kohl. All’inizio alcuni erano scettici che Angela Merkel potesse diventare una grande cancelliera. Ogni generazione ha bisogno di nuove personalità, che mettono la loro impronta. Una cosa è indubbia: noi tedeschi abbiamo molto di cui essere grati ad Angela Merkel”. Turchia. Sciopero della fame degli avvocati per cercare di difendere lo Stato di diritto calpestato di Benedetta Pioli Caselli Il Dubbio, 1 ottobre 2020 Chi difende un terrorista, è un terrorista: con questo slogan vengono giustificati gli arresti degli avvocati in Turchia. Eppure, è evidente che lo slogan sia tanto mediatico quanto mistificante: chi difende un terrorista non è per questo un terrorista, proprio come chi difende un assassino non è per questo un assassino. Lo sanno bene gli avvocati turchi, dimenticati - dopo tanti proclami - dalla comunità internazionale, ma non dai colleghi italiani. Mobilitazione Generale Avvocati ha lanciato una staffetta di digiuno per chiedere all’ Italia una posizione netta contro il degrado dello stato di diritto in Turchia, tanto in sede europea quanto in sede Nato. Il successo è stato oltre ogni aspettativa, e i partecipanti continuano a crescere ogni giorno. “L’iniziativa è nata con l’idea di sostenere i colleghi turchi con lo strumento di lotta non violenta che loro stessi hanno scelto - mi dice Francesca Pesce, direttrice del dipartimento per i diritti umani di Mga - e l’adesione entusiastica di tanti colleghi dimostra che il tema è sentito, e che gli avvocati si sentono affratellati nella difesa dello Stato di diritto”. Cos’è successo? Il 12 settembre 2020 altri 60 fra colleghi e magistrati sono stati arrestati con l’accusa di simpatizzare per organizzazioni extra-legali. Nessuno ne ha parlato tranne Il Dubbio, e la cosa è stata presto dimenticata. Fare l’avvocato in Turchia, oramai, è diventato un atto di testimonianza più che un mestiere. Anzi: una testimonianza suicida, almeno in potenza. Tutti ricordano con commozione la morte di Ebru Timtik, la collega 42 enne che si è spenta al 238 esimo giorno di sciopero della fame, e su cui si sono spese molte parole e nessuna azione concreta. Minor risalto è stato dato alla storia del suo collega Aytac Unsal arrivato, anche lui, quasi a morire. Se la morte di Ebru Timtik poteva avere preso tutti in contropiede, il caso di Aytac Unsal, di pochi giorni successivo, ha dimostrato che non c’è alcuna volontà politica di agire. Occorre ricordare che i due avvocati, entrambi membri del CDH “Associazione degli avvocati progressisti”, erano stati arrestati insieme nel 2017 con l’accusa di essere terroristi. Questa accusa era stata mossa per aver difeso degli insegnanti allontanati dal posto di lavoro perché appartenenti ad un’organizzazione di sinistra, la Dhkp- C. Sia Timtik che Unsal erano stati arrestati, dunque, in funzione del loro mandato difensivo. Per entrambi il processo si è basato principalmente sulle accuse di testimoni segreti impossibili da contro- interrogare cioè, in altre parole, impossibili da contraddire. Entrambi hanno avuto pene altissime: 13 anni e 6 mesi per Timtik e 10 anni e 6 mesi per Unsal. Per questo, nell’impossibilità evidente di ottenere giustizia, i due colleghi avevano intrapreso lo sciopero della fame ad oltranza. Pochi giorni dopo la morte di Ebru Timtik, Aytac Unsal, ormai in condizioni critiche, aveva presentato un ricorso di urgenza alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte Edu lo aveva inaspettatamente respinto, ritenendo che dalla detenzione non derivasse alcun pericolo attuale e irreparabile per la salute del ricorrente. Negli stessi giorni, il suo presidente Robert Spano era volato in Turchia per ricevere dall’ Università di Istanbul una laurea honoris causa in giurisprudenza. Il gesto è stato oltremodo significativo. Attualmente sono pendenti alla Corte Edu circa 60.000 ricorsi per la violazione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in Turchia, e l’Università di Istanbul è una delle più colpite dalle epurazioni post 2016. Chi si aspettava un atto di forte valenza simbolica - come il rifiuto di partecipare alla cerimonia o di ritirare il titolo - è rimasto deluso. Per di più, è stata la stessa Corte di Cassazione Turca a sospendere l’esecuzione della pena a Unsal sulla base delle ragioni di salute, così recuperando una parvenza di legittimità e segnando, per contrasto, la delegittimazione della Corte Edu. La posizione dell’Unione Europea resta ambivalente, stretta fra la riprovazione informale per il degrado della rule of law e il formalissimo ricatto turco di aprire le frontiere ai profughi siriani. Uno spiraglio sembra invece aprirsi dal nostro Paese. L’Italia si è espressa sulla questione turca con la risoluzione di maggioranza n. 3 del 30 ottobre 2019, che impegna il governo ad attivarsi per il rispetto dei diritti umani sia come paese sia in sede internazionale. Se la risoluzione fosse rispettata e l’Italia prendesse veramente una posizione netta sulla questione, ponendosi come capofila morale di una battaglia di legalità, potrebbe ritrovare sul piano internazionale una credibilità da tempo perduta. Per il momento la voce degli avvocati non si spegne, e resta un memento chiaro sul ruolo della professione nella tutela dello Stato di diritto. Ruolo che il sacrificio di Ebru Timtik è servito a ricordare a tutti. *Avvocato Foro di Roma Libia. Anche quattro tunisini tra i pescatori detenuti agenzianova.com, 1 ottobre 2020 Tra i pescatori detenuti a Bengasi, in Libia, vi sono quattro tunisini. Lo ha dichiarato ad “Agenzia Nova” Mostafa Abdelkebir, attivista per i diritti umani e presidente dell’Associazione di amicizia tunisino-libica. A inizio settembre le autorità della Libia orientale hanno fermato 18 marittimi, tra cui otto cittadini italiani e dieci di nazionalità tunisina, filippina e senegalese. Per quanto riguarda i tunisini, Abdelkebir ha indicato che due sono originari di Sousse e altrettanti da Mahdia. Abdelkebir ha aggiunto che i pescatori detenuti in Libia si trovano attualmente nella prigione delle torture di El-Kouifia, sottolineando che sono in corso negoziati per il loro rilascio. L’attivista ha evidenziato, inoltre, che se i detenuti verranno giudicati colpevoli di traffico di droga, il loro rilascio sarà difficile. Abdelkebir ha chiesto alle autorità tunisine di intervenire in modo più approfondito in questo caso e di negoziare con le autorità libiche. Lo scorso 28 settembre, il generale Mohamed al Wershafani dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), ha detto a “Nova” che i pescatori italiani fermati dalle autorità della Libia orientale lo scorso primo settembre saranno processati da un Tribunale militare di Bengasi il prossimo mese di ottobre. i marittimi sono accusati di ingresso e pesca in acque libiche senza previa autorizzazione. Non figura, per ora, l’accusa relativa al sospetto traffico di sostanze stupefacenti che sarebbero state trovate a bordo dei pescherecci italiani Antartide e Medinea di Mazara del Vallo sequestrati dalle autorità libiche. Il caso è passato dalla Guardia costiera dell’Lna alla Procura militare, ha detto ancora Al Wershafani. La scorsa settimana, fonti della Procura di Bengasi avevano riferito sempre ad “Agenzia Nova” che i pescatori italiani fermati dalle autorità dell’est della Libia si trovavano ancora “agli arresti domiciliari e non sono stati trasferiti in carcere, in attesa della formulazione dei capi di accusa e la definizione del procedimento penale”. I marittimi nelle mani dei libici sono in tutto 18, tra cui otto cittadini italiani e dieci di nazionalità tunisina, filippina e senegalese. Incubo guerra civile nella crisi libanese di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 1 ottobre 2020 Le dimissioni sabato scorso del premier “tecnico” Mustafa Adib e le dure critiche pronunciate da Emmanuel Macron il giorno dopo contro in particolare i partiti sciiti Hezbollah ed Amal, ma in generale nei confronti dell’intera classe politica incapace a suo dire di “rinnovarsi” e dunque colpevole di “tradire” il proprio popolo, rappresentano soltanto la punta dell’iceberg. Nubi nere si addensano sul Libano impoverito dal collasso economico e paralizzato dalla crisi politica. La terribile esplosione al porto di Beirut del 4 agosto aveva generato l’illusione che il Paese potesse approfittare della catastrofe per rilanciarsi. Nulla di più sbagliato. Le incertezze odierne fanno ritenere non vi sia limite al peggio. Le dimissioni sabato scorso del premier “tecnico” Mustafa Adib e le dure critiche pronunciate da Emmanuel Macron il giorno dopo contro in particolare i partiti sciiti Hezbollah ed Amal, ma in generale nei confronti dell’intera classe politica incapace a suo dire di “rinnovarsi” e dunque colpevole di “tradire” il proprio popolo, rappresentano soltanto la punta dell’iceberg. La crisi è strutturale, esistenziale. Si vorrebbero cancellare le antiche logiche confessionali, che però restano salde. “Se non vi emancipate dai partiti religiosi rischiate una nuova guerra civile”, ha aggiunto il presidente francese. Lo spettro del conflitto fratricida, che dal 1975 al 1990 causò oltre 200.000 morti, bussa alle porte. Con un’aggravante: ora fattori esterni come lo scontro tra Iran sciita e Paesi sunniti, oltre alla guerra a distanza tra Teheran da una parte e Israele e Stati Uniti dall’altra, vengono giocati anche sulla pelle dei libanesi. “Se non saremo in grado di creare presto un nuovo governo finiremo tutti all’inferno”, ammette il presidente cristiano alleato del fronte sciita, Michael Aoun. Ciò detto, sarebbe un errore non tenere conto del peso di Hezbollah e comunque del suo elettorato. I cristiani, che dettavano legge al tempo del censimento del 1932, sono una minoranza in declino. Non a caso la proposta di un nuovo censimento resta controversa. Gli sciiti al contrario potrebbero ormai costituire una solida maggioranza. Senza di loro ogni forma di governo è fallace e velleitaria. Tailandia. Scrive cattive recensioni su un hotel, rischia 7 anni di carcere di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 1 ottobre 2020 Un cittadino americano rischia fino a sette anni di carcere in Thailandia dopo aver pubblicato online alcune recensioni negative su un hotel in cui ha soggiornato. È stato citato in giudizio ai sensi delle severe leggi anti-diffamazione del Paese. L’incidente, avvenuto all’inizio di quest’anno nel resort Sea View sull’isola di Koh Chang, nota per le sue spiagge sabbiose e le acque turchesi, è stato apparentemente innescato da una discussione sul fatto che l’ospite, Wesley Barnes, che insegna inglese nel Paese, volesse portare la sua bottiglia di alcol durante la cena al ristorante. L’hotel ha riferito che l’uomo ha provocato “trambusto”, rifiutandosi di pagare una tassa, poi revocata quando è intervenuto il manager. Nella prima recensione pubblicata su Tripadvisor, Barnes si era lamentato del “personale scortese” che “si comporta come se non volesse nessuno qui”. Il proprietario del resort ha presentato denuncia accusando l’americano di avere pubblicato commenti ingiusti su diversi siti, causando “danni alla reputazione dell’hotel”. Barnes è stato quindi arrestato dagli agenti dell’immigrazione ed è tornato a Koh Chang dove è stato detenuto per due giorni e poi liberato dietro pagamento di una cauzione di 3.160 dollari. Se ritenuto colpevole, rischia fino a sette anni di detenzione per diffamazione e violazione del Computer Crime Act. L’hotel ha riconosciuto che “l’utilizzo della legge sulla diffamazione può essere considerato eccessivo per questa situazione”, ma l’ospite ha ignorato tutti i tentativi di venire contatto “ed ha continuato a pubblicare costantemente recensioni negative e false”. L’insegnante si è difeso dicendo che con le sue recensioni aveva voluto proteggere i dipendenti della struttura dopo aver visto che erano maltrattati. Infatti uno dei suoi commenti, mai pubblicato da Tripadvisor che ha avvisato l’albergo, recitava così: “Non dormite qui! Non appoggiate la schiavitù moderna della popolazione thailandese”. Ora l’americano è disperato. “Ho perso il lavoro - si è lamentato lui - e ho paura di finire in prigione. Sto cercando di contattare l’albergo per risolvere la questione”. Il caso ha destato scalpore in Thailandia dove il turismo è stato già duramente colpito dalla crisi del coronavirus. “Non mi è chiaro in quale universo parallelo far arrestare un ospite per una recensione negativa sia considerato un atto di sana ospitalità” ha commentato ironico Stuart McDonald nella sua newsletter settimanale Travelfish. Le norme anti-diffamazione della Thailandia hanno attirato a lungo le critiche dei gruppi per i diritti umani e per la libertà di stampa.