Il Covid visto da “dentro”. I detenuti raccontano i mesi dell’emergenza di Elisa Del Pupa Italia Oggi, 19 ottobre 2020 Il mondo di fuori visto da dentro. È questo il tema della tredicesima edizione del premio Carlo Castelli per la solidarietà, il concorso letterario riservato ai detenuti delle carceri italiane promosso dalla società di San Vincenzo De Paoli. La cerimonia di premiazione, accessibile anche in diretta Facebook e You Tube, si è tenuta a Roma lo scorso venerdì 16 ottobre presso la sede di Palazzo Maffei Marescotti, con il patrocinio di Senato della Repubblica, Camera dei deputati, Ministero della giustizia e Università europea di Roma, oltre allo speciale riconoscimento della medaglia da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Vincitori della tredicesima edizione sono Stefania Colombo (Cr Milano Bollate) con “La paura di decidere chi essere”, Ziri Elton (Cr Vigevano) con “Quello che vedo dall’aldiquà” e Marcello Spiridigliozzi (Cr Roma Rebibbia) con “Il buco della serratura”, che si sono aggiudicati, rispettivamente 1.000, 800 e 600 euro e il merito di finanziare anche un progetto di solidarietà. In aggiunta ai premi, infatti, a nome di ciascuno dei tre vincitori saranno devoluti, nell’ordine: 1.000 per finanziare la costruzione di un’aula scolastica nel Centro Effata di Nisiporesti in Romania; 1.000 destinati ad un progetto formativo e di reinserimento sociale di una giovane dell’istituto minorile di Casal del Marmo, in provincia di Roma; infine, 800 per l’educazione scolastica a distanza di una bambina dell’India. Inoltre, la giuria del premio Castelli ha conferito dieci segnalazioni di merito ai migliori elaborati pervenuti da vari istituti penitenziari. Le opere finaliste sono state raccolte e pubblicate in un volume intitolato “Spazi vicini Vite distanti” edito da Anthology digital publishing. È nell’introduzione all’opera che Luigi Accattoli, presidente della giuria, spiega come la tredicesima edizione del premio ricada in un periodo di rara eccezionalità a causa della pandemia da Covid-19. Seppur l’argomento “Il mondo di fuori visto da dentro” fosse stato individuato a gennaio, infatti, i concorrenti detenuti hanno elaborato e inviato i lavori nei tre mesi di maggiore impatto per l’emergenza, cioè da marzo a maggio. Ciò ha inciso profondamente nel ridotto numero di lavori pervenuti e nella propensione dei detenuti a trattare la similitudine tra lockdown e clausura forzata come risultato delle misure adottate dal governo per fronteggiare l’emergenza. In particolare, come racconta Antonio Gianfico, presidente della federazione nazionale società di San Vincenzo De Paoli, “anche nelle carceri italiane è entrato il Covid-19, causando forti disagi e purtroppo mietendo vittime. Soprattutto ha impedito l’incontro fisico con i familiari e l’ingresso delle migliaia di volontari che ogni giorno svolgono attività di sostegno, scolastiche, culturali e di vario genere. Si è creato così, improvvisamente, un grande vuoto, un senso di abbandono nelle persone ristrette, perché è mancato loro quel filo diretto con il mondo esterno attraverso una persona che dona la sua vicinanza, il suo mettersi alla pari senza pregiudizio”. Negli elaborati, i detenuti hanno quindi espresso la propria percezione su ciò che stava avvenendo fuori, spesso in modo contrastante e strettamente personale, talvolta ergendo il luogo carcerario a tempio di protezione lontano dai contagi, talvolta identificandolo come ambiente pieno di ansie e preoccupazioni per i familiari esterni più esposti. “L’esperienza della scrittura vissuta tra le sbarre può condurre a insperati orizzonti umani e spirituali. Un’esperienza che ci rivela che il carcere può essere un luogo educativo (o meglio rieducativo) dove poter esprimere continuamente una personalità attiva, sia verso l’universale (lo stato) che verso il particolare (le persone e i gruppi sociali”, ha commentato Davide Dionisi, del dicastero per la comunicazione Città del Vaticano nella prefazione. La gran voglia di patibolo che ribolle in Italia di Mattia Feltri huffingtonpost.it, 19 ottobre 2020 Viviamo nel Paese più sicuro del continente ma secondo un sondaggio Swg quasi quattro italiani su dieci chiedono la pena di morte, nello sfilacciamento inarrestabile di un approccio garantista di giustizia, una conquista lunga secoli e oggi considerata una fisima da bevitori da champagne. Un sondaggio che Swg ha chiuso da pochi giorni e offerto a HuffPost conferma le sensazioni: in Italia comincia a ribollire una gran voglia di patibolo. Il 37 per cento gradirebbe sbrigare certe faccende con la pena di morte. Tre anni fa eravamo al 35, nel 2010 al 25. Più di un punto all’anno, e se va avanti così nel 2030 saremo pronti a ritirare su le forche o a riarmare i plotoni d’esecuzione. Bel paese dei paradossi. Venerdì sera ero al Maxxi a presentare il libro di Federica Graziani e Luigi Manconi (Per il tuo bene ti mozzerò la testa, Einaudi stile libero) e insieme abbiamo offerto qualche dato. Nel 1990 in Italia sono stati compiuti quasi mille e ottocento omicidi volontari. Due anni dopo erano già oltre trecento in meno. Nel 1996 siamo scesi sotto la soglia dei mille (953) per non varcarla più. A ogni rilevazione le cose vanno meglio. Nel 2017 erano 397, 345 nel 2018. I numeri così dicono già qualcosa ma non abbastanza. Vanno raffrontati. L’ultimo studio di Eurostat spiega che il paese più pericoloso d’Europa è la Lettonia: 5.6 omicidi ogni centomila abitanti. Seguono Lituania, Estonia, Malta e poi il Belgio (1.7). In Francia sono 1.4, In Finlandia 1.3, in Inghilterra 1.2, in Svezia e Danimarca 1.1, in Germania 0.9. E l’Italia? Ultima. Zero virgola sei omicidi ogni centomila abitanti, come in Lussemburgo (dove però vivono in seicentomila e basta poco a ribaltare le statistiche da un anno con l’altro). L’Italia è il paese più sicuro d’Europa. Ma non lo sa nessuno, o quasi. Potremmo vantarcene, imbastirne campagne di autocelebrazione, macché: il discorso pubblico, politico e mediatico, gira attorno all’insicurezza, a come rimediare a un sentimento collettivo di violabilità che è, appunto, soltanto un sentimento. Nemmeno l’aumento dell’immigrazione - l’immigrazione porta sempre criminalità, non soltanto la nostra, sempre - ha impedito agli omicidi di calare in quantità spettacolari, intanto che calano le rapine, i furti con scasso, i reati in generale. E invece, a ogni caso di cronaca nera, da eccezione che è se ne fa la regola, la costante di un orrore che non esiste, si invocano punizioni esemplari e drastiche, si lacrima su tempi cupi in una delirante idea di cupezza, si imbastiscono indagini sociologiche basate sul niente. Si diffonde soprattutto una sensazione di paralizzante insicurezza che è un incredibile ribaltamento della realtà, e porta a leggi sproporzionate, a esser buoni, come quelle sulla legittima difesa o l’omicidio stradale, all’inasprimento delle pene come unica, spietata e pigra risposta a emergenze immaginarie, alla sospensione della prescrizione, all’uso sovietico dei trojan e così via. Fino al sondaggio di Swg: quasi quattro italiani su dieci vivono nel paese più sicuro del continente ma chiedono la pena di morte, nello sfilacciamento inarrestabile di un approccio garantista di giustizia, una conquista lunga secoli e oggi considerata una fisima da bevitori da champagne. Un’ultima annotazione. Nel 2015, Skuola.net chiese a 21 mila studenti un parere sulla reintroduzione della pena capitale. Il 43 per cento se ne disse favorevole. Sarebbe bello capire come stanno le cose cinque anni dopo e, se il trend segue quello offerto da Swg, forse siamo già alla maggioranza. È questa la generazione che stiamo tirando su, inconsapevole dell’orrore del patibolo. Toghe al voto per eleggere l’Anm. Sfida tra la sinistra di Area e la destra di Mi di Liana Milella La Repubblica, 19 ottobre 2020 Da oggi a martedì urne online per i magistrati. Finora 7.100 iscritti. In lizza 155 candidati divisi in 5 liste. Una magistratura compromessa dal caso Palamara. A sanare la quale non può certo bastare la radiazione dell’ex pm. Un Csm profondamente diviso sul caso Davigo, per il quale domani in Consiglio è il giorno decisivo. Le correnti delle toghe divenute simbolo di trattative sotto banco per ottenere un posto ambito anziché luoghi di dibattito ideale e giuridico. È in questo mare magnum che cadono le elezioni per il nuovo parlamentino dell’Associazione nazionale magistrati, per tutti l’Anm. Con il rischio, agitato da più parti, che una corrente - la conservatrice Magistratura indipendente, per anni (ma c’è chi dice tuttora) feudo del deputato renziano Cosimo Maria Ferri - decida di spaccare il sindacato unitario dei giudici per mettersi per conto suo, forte di un’alleanza con un gruppo di fuoriusciti dalla centrista Unità per la costituzione, per tutti Unicost. E di una possibile alleanza con la neonata Articolo Centouno, il cui leader, Andrea Reale, giudice a Ragusa, aveva già tentato nel 2012 con Proposta B di scalare l’Anm con risultati assai modesti (fu eletto solo lui). Ma i tempi sono cambiati, e la sua battaglia per sorteggiare il Csm potrebbe portargli più consensi di allora. La prima elezione online - Per 36 posti corrono in 155. Divisi in 5 liste. Voteranno - da oggi a martedì - per rinnovare il “parlamentino” del sindacato dei giudici. Sarà l’Anm del “dopo Palamara”. Tant’è che, a parte un caso (per giunta con una citazione indiretta), non c’è alcun nome in corsa che ricorra nelle ben note chat dell’ex pm in cui decine di colleghi si raccomandavano per avere i posti migliori dal Csm. I 7.100 magistrati che si sono iscritti per votare lo faranno - per la prima volta nella loro storia - online, da casa o dall’ufficio. L’avevano deciso già a maggio dopo un doppio rinvio dovuto al Covid. Ci sono state resistenze, perché la scadenza naturale sarebbe caduta a marzo. C’è chi voleva votare subito. E con il metodo tradizionale. Ma ha prevalso la prudenza e anche la voglia di sperimentare un voto online che se non fosse stato deciso oggi avrebbe creato difficoltà. Chi sfida chi - Non ci sono nomi che bucano il video nelle liste, e forse questo potrebbe spiegare perché le elezioni siano passate complessivamente sotto silenzio. O forse - Covid e disastri economici e politici a parte - proprio il caso Palamara ha gettato un’ombra su tutta la magistratura. L’ha messa nell’angolo. Ha rotto per sempre il cristallo della trasparenza. Adesso anche i giudici sono visti come tutti gli altri, come i politici, occupati a spartirsi i posti tipo manuale Cencelli. Forse peggio. L’iter sbrigativo che, sia l’Anm che il Csm, hanno attuato per liberarsi di Luca Palamara, ha accreditato l’idea che la polvere sia stata messa in tutta fretta sotto il tappeto chiudendo la questione, almeno per Palamara, il prima possibile. Del resto, la stessa Anm ha liquidato il caso in un paio di giornate. La prima, a luglio, per votarne l’espulsione. La seconda, il 19 settembre, per ascoltarlo e criticarlo subito dopo, per poi confermare la misura presa. Tutto davanti soltanto a un centinaio di colleghi. Pochi per una faccenda del genere. Ma era un sabato, il giorno dopo si votava per il referendum sul taglio dei parlamentari, e c’era il Covid. Le cinque liste - Alle ultime elezioni - era il 18 marzo 2016 - vinse Unicost con 2.522 voti di lista. Seguita da Area che ne prese 1.836. Al terzo posto Magistratura indipendente con 1.589 e ultima Autonomia e indipendenza con 1.271, alla sua prima uscita dopo la rottura di Davigo con Mi, e che registrava però il successo personale dell’ex pm di Mani pulite con 1.041 voti. Si parlò allora di vittoria dei centristi e di sconfitta di Area. Davigo vinse, tant’è che diventò presidente dell’Anm per tutto il primo anno. Seguì una rotazione automatica che certo non ha giovato al prestigio dell’Anm, fu la volta di Francesco Minisci di Unicost, di Eugenio Albamonte di Area. Poi arrivò Pasquale Grasso di Mi, ma anche il caso Palamara che portò alle dimissioni di Grasso, “colpevole” di non aver preso subito le distanze dai suoi. Nuova giunta allora, con il presidente di Area Lucca Poniz. Che si ricandida di nuovo. Non senza polemiche. La galassia di Area - Stavolta non c’è un Davigo in corsa. Nel senso che è inutile cercare nomi super famosi tra chi si candida. Tra i 35 di Area, la corrente in cui è tuttora aperta la dinamica tra chi è iscritto a Magistratura democratica, e chi lo è alla sola Area, nata come un cartello che ha unito nelle sfide elettorali Md e il Movimento per la Giustizia, il magistrato più noto è Giuseppe Santalucia, oggi consigliere in Cassazione, ma già capo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia. C’è Poniz, il presidente uscente, la cui candidatura ha creato più di un nervosismo con gli altri gruppi. Erano già nell’Anm Silvia Albano, giudice del tribunale di Roma, e Giovanni Tedesco, presidente di sezione al tribunale di Napoli. Paola Cameran, sostituto procuratore generale a Venezia, aveva già corso in autunno per le suppletive del Csm. Tra i volti che hanno la storia di Md ecco Stefano Celli, pm a Rimini, Giorgio Falcone, pm a Padova, di cui non si contano gli interventi nella mailing list. Corre anche Rocco Gustavo Maruotti, il pm di Rieti che ha indagato sul terremoto ad Amatrice e si è commosso alla lettura della sentenza. Carlo Marsella invece è napoletano ma lavora a Palermo, da pm ha indagato sul latitante Matteo Messina Denaro e ora è un sostituto procuratore generale. Modestino Villani, oggi presidente di sezione di tribunale a Torino, è stato protagonista con Mario Suriano e Antonello Ardituro, entrambi oggi in Area, di un’importante scissione da Unicost quando nacque Articolo3. La crisi di Unicost - Unità per la Costituzione soffre, ovviamente, il caso Palamara. E subisce anche una scissione. Se ne vanno i dissidenti che fondano il Movimento per la Costituzione che decide invece di fare cartello con Magistratura indipendente. Mentre Unicost è alle prese con un’assemblea costituente in cui 80 magistrati riscrivono lo statuto, gli scopi e le modalità per stare insieme. Non si ricandida il segretario uscente Giuliano Caputo, pm a Napoli, mentre lo fa Alfonso Scermino, giudice al tribunale di Salerno. Corre Silvia Giorgi, che è stata segretaria del Csm. Un nome di punta è quello di Giacomo Ebner, che da via Arenula, dove seguiva la giustizia minorile, ha chiesto il rientro al tribunale di Roma. Ha inventato, quando era presidente dell”Anm romana, “la notte bianca per la legalità”, con i tribunali aperti agli studenti. In corsa Ettore Cardinali, pm a Bari, dove ha seguito l’inchiesta sul naufragio della nave Norman Atlantic con 31 morti. Mentre è di Napoli, dov’è stato pm, ed è procuratore aggiunto a Torre Annunziata Pierpaolo Filippelli, che ha sequestrato il palazzo Fienga, roccaforte del clan Gionta, e ha arrestato la cosiddetta “dama bianca” di Berlusconi. Le mire di Magistratura indipendente - L’ex - o a detta di alcuni - la tuttora corrente di Ferri, punta a conquistare il posto egemone che è stato di Unicost. E non solo si allea con il Movimento per la Costituzione composto dai dissidenti di Unicost, che entrano in lista mantenendo però la loro sigla, ma ospita anche altri transfughi della corrente di cui Palamara era l’uomo più ricercato. Con Antonio Sangermano - che oggi è il campo della procura per i minorenni di Firenze, ma è stato pm a Prato, ma soprattutto a Milano dove era il pm del caso Ruby insieme a Ilda Boccassini - ci sono l’ex segretario della corrente Enrico Giacomo Infante, pm a Foggia, Luca Nania, giudice al tribunale di Lamezia Terme. Ma nella lista di Mi si contano altri esponenti di Unicost, come Salvatore Casciaro, Giovanna Leboroni, procuratore del tribunale per i minori di Ancona, Ilaria Perinu, pm a Milano, Maria Cristina Ribera, pm a Napoli e impegnata nell’indagine sui rifiuti, Ugo Scavuzzo, presidente di sezione del tribunale di Patti, che aveva fatto parte della giunta di Minisci. Nome di rilievo quello di Giuseppe Spadaro, calabrese, presidente del tribunale dei minori di Bologna, uscito del tutto indenne dall’ispezione del Guardasigilli Alfonso Bonafede dopo i fatti di Bibbiano. Tra i candidati di Mi c’è anche Riccardo Crucioli, giudice del tribunale di Genova, che è fratello di Mattia Crucioli, senatore di M5S. A&I senza Davigo - È ovviamente tutta in salita la sfida di Autonomia e indipendenza. Innanzitutto senza Davigo che nel 2016, come nel 2018 al Csm, era il candidato di richiamo. Per di più con il rischio che proprio domani il Csm gli voti contro e lo faccia decadere. Nell’ordine del giorno per la seduta di lunedì c’è già la proposta contro Davigo della consigliera di Mi Loredana Micciché che sposa in toto la tesi dell’Avvocatura dello Stato sul pensionamento definitivo di Davigo anche dal Csm in quanto non più magistrato, ma toga in pensione. La gara è affidata ad Aldo Morgigni, giudice della Corte di appello di Roma, che è già stato consigliere togato del Csm, a Cesare Bonamartini, giudice del tribunale di Brescia, vice segretario nell’ultimo governo dell’Anm. In lista Giuseppe Dentamaro, il pm di Bari che aveva fatto arrestare per ricettazione la giornalista Angela Balenzano, poi assolta dal tribunale, per aver pubblicato i verbali delle escort nel processo a Berlusconi. In lista anche un ex Unicost come Camillo Falvo, procuratore di Vibo Valentia. E Roberta Licci, pm a Lecce, che ha fatto arrestare per corruzione i colleghi Michele Nardi e Antonio Savasta di Trani. La nuova sfida di Andrea Reale - Nel 2012, con Proposta B, era stato un flop, ma adesso Andrea Reale ci riprova. La sua - Articolo Centouno - è la lista più corta, 18 nomi in tutto. C’è lui, c’è Giuliano Castiglia, giudice a Palermo, c’è Maria Angioni, giudice del lavoro a Sassari. Togheblogspot lancia i temi della loro campagna, il sorteggio per il Csm, la rotazione dei dirigenti, l’abolizione dell’immunità per i componenti del Csm, ma soprattutto una commissione d’inchiesta sul caso Palamara che vada oltre quella che considerano una giustizia domestica. Ovviamente sono anche perché Davigo lasci il Csm. Anm al voto della svolta, rischia la spaccatura bipolare di Errico Novi Il Dubbio, 19 ottobre 2020 Da oggi a martedì i magistrati sono chiamati a eleggere il nuovo “parlamentino” della loro associazione. Nella prima tornata del “dopo Palamara”, in corsa anche un gruppo “anti-correnti”, Articolo Centouno, e i 4 schieramenti tradizionali (Area, Magistratura indipendente, Unicost e Autonomia e indipendenza), che potrebbero dividersi in due fronti contrapposti Settemila e cento magistrati: sono gli iscritti alla Anm che hanno completato nei giorni scorsi la procedura di registrazione per il voto telematico. Tantissimi - il 78 per cento dei 9.000 iscritti al “sindacato” - considerata la novità della procedura. Urne virtuali aperte da oggi a martedì, per eleggere i 36 componenti del comitato direttivo centrale, il cosiddetto “parlamentino” dell’Anm. Sarà poi il “cdc” a individuare la giunta esecutiva centrale e il nuovo presidente. Il dato sembra indicare una grande volontà di cambiamento. Le urne dell’associazione resteranno dunque aperte per tre lunghi giorni, scandite nel mezzo da un evento clamoroso: la discussione in programma domani al plenum del Csm sulla permanenza di Piercamillo Davigo nella carica di consigliere anche dopo che, da martedì, avrà compiuto 70 anni è sarà dunque congedato dalla magistratura. Tutto in poche ore, con tanti significati e un interrogativo: che forma prenderà l’indiscutibile aspirazione a un nuovo corso diffusa nella magistratura? Ci si limiterà a individuare e preferire i più giovani fra i candidati proposti dalle 5 liste, o ne sarà premiata qualcuna in particolare? La lista delle toghe “anti sistema” - Intanto, il panorama della competizione offre alcuni spunti di novità. Uno su tutti, la presentazione di una compagine non presente nella tornata del 2016: si chiama Articolo Centouno. È la creatura di un gruppo di magistrati non del tutto nuovi all’impegno associativo, ma storicamente orientati a una sorta di approccio “anti sistema”. Alcune delle toghe schierate dal Articolo Centouno, ad esempio Andrea Reale e Giuliano Castiglia, vengono dall’esperienza di Proposta B, la corrente alternativa che due “legislature” fa riuscì a eleggere un rappresentante nel direttivo (proprio Reale) e che soprattutto chiede una “palingenesi purificatrice” nell’associazionismo giudiziario. Al punto da apparire come una “corrente anti-correnti”, schierata su posizioni radicali. Ad esempio sul sorteggio per l’elezione dei togati al Consiglio superiore e per la rotazione degli incarichi direttivi. Una rivoluzione. Troverà seguaci tra i 7.100 magistrati che hanno deciso di partecipare al voto? Le quattro correnti “tradizionali”, mai così divise - L’altro interrogativo riguarda la temuta (da alcuni) bipolarizzazione della dinamica fra le correnti. Com’è noto, oltre alla new entry Articolo Centouno sono in corsa i 4 gruppi associativi tradizionali: Magistratura indipendente, che presenta una lista unica con i colleghi di Movimento per la Costituzione, vale a dire i fuoriusciti da Unicost come Enrico Infante e Antonio Sangermano; Area, che mette in campo il leader uscente dell’Anm Luca Poniz e al cui interno restano alcuni candidati di Magistratura democratica, come Silvia Albano, nonostante i venti di scissione della storica componente di sinistra; Unicost, che propone un altro componente della giunta Poniz, Alfonso Scermino; e Autonomia e indipendenza, la corrente di Davigo, che si affida tra gli altri all’ex togato Csm Aldo Morgigni. Il bipolarismo, incognita per i magistrati - Se le prime due sigle staccassero nettamente le seconde due, si prefigurerebbe quell’assetto bipolare immaginato da diversi leader dell’associazionismo togato. Uno schieramento “moderato” con al centro “Mi”, e uno progressista imperniato su Area. Con Unicost flagellata dal caso Palamara e attratta da uno dei due poli, e i davighiani in sofferenza per l’uscita di scena, comunque inevitabile sul piano associativo, del loro leader. Tutto sta a capire quanto un riassetto simile possa complicare e irrigidire i rapporti fra l’Anm e la politica. Probabile che un bipolarismo esasperato costringa la nuova maggioranza relativa ad accentuare il conflitto col governo. Forse solo una buona affermazione di Articolo Centouno potrebbe attenuare la distanza fra le altre 4, persino fra Area e “Mi”. Ma sul dopo voto incombe la minaccia di una scissione ad opera proprio della corrente moderata. Ecco perché mai prima d’ora su un’elezione per il parlamentino dell’Anm era sembrata incombere la possibilità di una svolta tanto clamorosa. Il Csm decide su Davigo, un paradosso giuridico minaccia l’ex pm del Pool di Errico Novi Il Dubbio, 19 ottobre 2020 Si annuncia drammatica la discussione sulla permanenza del consigliere, che martedì compie 70 anni e si congeda dal servizio in magistratura: nel parere sollecitato da Palazzo dei Marescialli, l’Avvocatura dello Stato ha sostenuto che la decadenza di Davigo è inevitabile. Ma se il plenum votasse per la permanenza, la stessa Avvocatura sarebbe costretta a contraddirsi per difendere l’organo di autogoverno nell’eventuale ricorso del primo dei non eletti. Il paradosso è ormai noto e complica la partita di Piercamillo Davigo, che chiede al plenum del Csm di lasciarlo in carica: il paradosso è che la stesa Avvocatura dello Stato, autrice di un parere richiesto da Palazzo dei Marescialli e tutto sbilanciato per la decadenza del consigliere, potrebbe trovarsi a dover smentire se stessa in un futuro ricorso al Tar, qualora l’ex pm di Mani pulite restasse in carica. Nell’ipotesi in cui il Csm oggi, o al più tardi martedì, decida per la permanenza di Davigo, l’Avvocatura dello Stato potrebbe poi essere chiamata a difendere il Csm nel ricorso eventualmente proposto da parte del magistrato che altrimenti sarebbe subentrato all’ex pm del Pool, il giudice di Cassazione Carmelo Celentano. In un’eventuale causa dinanzi al Tar del Lazio, cioè, la stessa Avvocatura che, interpellata dalla Commissione verifica titoli del Csm, ha appena sostenuto per iscritto la necessità dell’uscita di Davigo, dovrebbe per forza di cose contraddirsi e difendere in giudizio il Consiglio superiore contro l’eventuale ricorso di Celentano, fino a sostenere la legittima permanenza in carica del togato. Nonostante il quadro politico per Davigo non fosse, inizialmente, sfavorevole, proprio tale cortocircuito istituzionale ha nelle ultime ore intaccato le chances dell’ex pm di Milano. Si vedrà domani, quando inizierà la discussione e forse si arriverà al voto. Non è escluso che la drammaticità della questione allunghi il dibattito fino al giorno dopo. Il calendario fissato dal vicepresidente del Csm David Ermini prevede infatti il possibile proseguimento del plenum su Davigo fino a martedì. Giorno in cui si chiuderanno oltretutto le urne telematiche dell’Anm, aperte da oggi, e che coinciderà anche col settantesimo compleanno per l’ex inquirente di Mani pulite. Poteva essere un dilemma giuridicamente intrigante ma non tanto decisivo politicamente. Invece la tensione c’è ed è giustificata da almeno due aspetti. Innanzitutto, siamo ancora in pieno “caso Procure”. La vicenda cosiddetta “Palamara” tiene ancora nell’angolo l’intera magistratura, nonostante il tentativo compiuto dallo stesso Csm di liberarsi dell’imbarazzo con la radiazione lampo dello stesso Palamara. Come insistono a ricordare i magistrati di Autonomia e indipendenza, la corrente fondata dallo stesso Davigo, il percorso professionale dell’ex pm di Mani pulite “è ben noto, e si identifica con comportamenti irreprensibili e con il fermo contrasto ad ogni forma di illegalità e di scostamento dalle regole sia quando ha svolto funzioni giurisdizionali sia nel passato più recente quale componente del Csm”. Anche se poi la nota diffusa venerdì scorso dal coordinamento di “Aei” sostiene che le motivazioni a sostegno di una permanenza di Davigo a Palazzo dei Marescialli sono “tecnico-giuridiche, e non certo di opportunità men che meno politica”. L’altro motivo di tensione è la ricordata coincidenza fra la decisione su Davigo e il voto per l’Anm, in corso da stamattina e programmato fino a martedì. Le correnti favorevoli alla decadenza, come Magistratura indipendente, ricaverebbero un ritorno di immagine, tra i magistrati elettori, in caso di decisione del plenum contrario a Davigo. Discorso simmetrico per chi, come la corrente progressista di “Area”, propende per la permanenza: ricaverebbe qualche vantaggio elettorale da una delibera del Csm favorevole al togato. Immagine della magistratura, immagine delle correnti, prestigio e peso dell’interessato. Aspetti che fanno della decisione in arrivo da Palazzo dei Marescialli uno degli snodi più drammatici nella storia recente della magistratura. Riforma della magistratura onoraria: le posizioni restano inconciliabili di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2020 Terminato la sciopero i “non togati” chiedono un cambio di passo, intanto l’Italia rischia una procedura di infrazione. Si è chiusa, dopo quattro giorni, l’astensione proclamata dal 12 al 16 ottobre dalla Consulta della Magistratura Onoraria (nata dall’unione delle rappresentanze dei Got, Vpo e GdP). Al centro delle rivendicazioni dei “non togati” la richiesta di “un trattamento finalmente dignitoso e legittimo” per una categoria su cui grava, sono dati delle Associazioni, il 50-60 % del funzionamento della Giustizia italiana. Una produttività - sottolineano - che nei rapporti biennali della Cepej viene ascritta alla magistratura professionale che infatti registra gli indici di produttività più alti d’Europa. Secondo i giudici onorari, la Cassazione li definisce “volontari”, urge una riforma per adeguarsi a quella che ritengono una fondamentale vittoria: la sentenza con cui la Corte Ue nel luglio scorso (C-658/198 UX) avrebbe aperto al riconoscimento dello status di “lavoratore a tempo determinato” con tutto quello che ne consegue in termini di garanzie sociali, previdenziali ed economiche. Altro fronte aperto dall’Europa, questa volta con la Commissione, deriverebbe dalla decisione di Bruxelles del giugno 2017 che ha chiuso negativamente il caso Eu-Pilot 7779/15/EMPL, esponendo così l’Italia ad un rischio infrazione. La “Direzione generale occupazione” dell’Ue ha infatti bocciato la tesi italiana secondo cui l’esercizio della funzione sarebbe volontaria, priva di una reale retribuzione, e impiegata in questioni di particolare semplicità. Al contrario, per la Commissione, “numerosi elementi indurrebbero a considerarli lavoratori ai fini del diritto dell’Ue”. Infatti: “sono assunti a determinate condizioni, si vedono assegnare compiti e cause, sono valutati dal Csm che può revocarli”. Per quanto riguarda la retribuzione, poi, “le indennità possono essere considerate una vera e propria retribuzione, vista l’entità dell’importo”. Il Dlgs 116/2017, la riforma Orlando, cerca di rispondere proprio a questi rilievi disegnando una figura autonoma di magistrato. Entrerà in vigore per una prima parte a febbraio, quando i giudici dovranno scegliere tra due o tre “impegni” (non è chiaro se il riferimento sia alla definizione che ne dà il Csm), per il resto ad agosto 2021. Nel frattempo stanno per scadere (il prossimo 22 ottobre) i termini per proporre emendamenti al Ddl 1438 (“Modifiche alla disciplina sulla riforma organica della magistratura onoraria”) targato Bonafede. Relatrici le senatrici Elvira Lucia Evangelista (M5S) Valeria Valente (PD), che modifica la Orlando tramite, si legge nel dossier, “interventi diretti a migliorare le condizioni della magistratura onoraria”, in particolare di quella già in servizio. L’indennità non più in fissa e variabile, sarebbe rideterminata in misura globale in 31.473, per i magistrati onorari che esercitano funzioni giudiziarie, e 25.178, per i magistrati dell’Ufficio del processo. Per la realtrice Valente “va preservata l’impostazione della Orlando che prevede incarichi temporanei” anche se si deve dare una risposta “alle legittime aspettative maturate dalla M.O. in servizio, tenendo contro della professionalità acquisita e di cui lo Stato si deve fare carico”. In questo senso, “si è previsto che i giudici di pace possano mantenere cottimo e fisso”. “Per i Gop ed Vpo - prosegue - il cottimo era penalizzante, in una media città un Got poteva arrivare a 1.200 euro mensili, oggi abbiamo raddoppiato le cifre, potendo arrivare a 38mila euro all’anno”. Discorso diverso per la senatrice Valente è quello che riguarda gli altri diritti: “sono assolutamente d’accordo - afferma - che la previdenza e la maternità siano temi da affrontare ma nella prossima legge di bilancio perché in questa non ci sono le risorse, né possono arrivare dal Recovery fund”. Non soddisfatte le associazioni che ricordano come la sola iscrizione alla Gestione separata porta via il 27%, del lordo a cui va sottratta una trattenuta fiscale del 30%. La dottoressa Mariaflora Di Giovanni, Presidente Unagipa, premette: “lo sciopero è stato totalmente condiviso da tutta la magistratura onoraria poiché permangono anche nella proposta di riforma depositata in commissione giustizia dalle relatrici Valente e D’Angelo, redatta assieme alla tecnostruttura del Ministero di Giustizia, le violazione delle più elementari tutele riconosciute a tutti i lavoratori: equa retribuzione commisurata al prestigio e delicatezza della funzione, previdenza, assistenza, ferie, trasferimenti e gradazione del disciplinare”. E ciò prosegue “nonostante le statuizioni della recente Sentenza della Corte Ue contro lo Stato italiano del 16 luglio 2020 che ha riconosciuto al giudice di pace ricorrente non solo il rapporto di lavoro subordinato ma la funzione giurisdizionale anche come giudice europeo”. “Su questo fronte - continua Di Giovanni - siamo giornalmente in contatto con la Commissione affinché chiuda la procedura di infrazione con condanna dell’Italia, poiché è chiaro l’intento del ministero Bonafede di non risolvere nulla e di vanificare le statuizione della Corte di giustizia, cercando di negare l’attività essenziale svolta quotidianamente dalla magistratura onoraria nella gestione efficiente delle cause civili, penali e nelle convalide di espulsione affidategli con legge dello Stato”. “È palese che un lavoratore autonomo, figura di fantasiosa creazione ministeriale - attacca - con la quale il Ministro Bonafede, intende definire il rapporto con la Magistratura Onoraria, non può pronunciare sentenze in nome del popolo italiano e soprattutto il magistrato onorario attualmente in servizio sta svolgendo da 30 anni in via esclusiva la funzione quotidianamente per un unico datore di lavoro: il Ministero di Giustizia! “. Infine tornado allo sciopero: “Solo qualche ufficio non si è astenuto perché i colleghi hanno riferito di avere avuto esigenze economiche aggravate dal periodo di lockdown passato, temendone altro futuro”. La cooperazione giudiziaria penale nell’Unione ai tempi della Procura europea di Marco Letizi* Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2020 L’Eppo è competente per i reati che ledono gli interessi finanziari previsti dalla direttiva PIF “indipendentemente dall’eventualità che la stessa condotta criminosa possa essere qualificata come un altro tipo di reato ai sensi del diritto nazionale”. La Procura europea. “La Procura Europea è indipendente. Questo è un principio fondamentale per l’affermazione dello Stato di diritto: solo l’indipendenza della magistratura è in grado di far rispettare la legge uguale per tutti. La preoccupazione dei cittadini rispetto alle frodi finanziarie, la corruzione e il rispetto della legge sono più forti che mai. Proteggendo il bilancio dell’Unione europea, giocheremo un ruolo essenziale nel rafforzare ora più che mai la fiducia dei cittadini europei nell’Unione”. È uno stralcio del discorso pronunciato il 29 settembre scorso dal Procuratore Capo europeo, Laura Kövesi, in occasione dell’impegno solenne assunto dal Collegio della Procura Europea (Eppo), dinanzi alla Corte di Giustizia europea a Lussemburgo. Il Regolamento (UE) 2017/1739 del Consiglio del 12 ottobre 2017 ha istituito l’ufficio del Procuratore Europeo che segna un fondamentale passo in avanti nel processo della cooperazione giudiziaria internazionale e potrebbe rappresentare un’evoluzione verso l’implementazione di strumenti investigativi che vanno ben oltre la mera assistenza e cooperazione tra gli Stati membri come sinora concepita. Tale evoluzione dei processi d’indagine si realizza mediante la centralizzazione delle indagini e dell’azione penale presso le istituzioni europee. Infatti, la Procura europea dovrebbe sviluppare la propria mission istituzionale, superando la frammentazione delle attuali politiche nazionali in materia di esercizio dell’azione penale. Con l’istituzione di questo nuovo indipendente organismo unionale, il concetto di “territorialità europea” richiederà un cambio di mentalità e la sfida primaria dell’Eppo sarà proprio quella di abbattere gli ostacoli imposti dal vincolo della territorialità nazionale sul quale si basano i sistemi di giustizia penale dei singoli Stati membri, operando come un unico ufficio di procura che può esercitare, in via autonoma e diretta, i propri poteri negli Stati membri che hanno aderito al Regolamento sulla cooperazione rafforzata. Le indagini in carico alla Procura europea saranno condotte, nella maggior parte dei casi, dalle polizie giudiziarie nazionali, le quali saranno coordinate dall’EPPO. In detto sistema requirente, la posizione chiave verrà assunta proprio dai procuratori europei delegati che avranno un duplice ruolo: quello di procuratore europeo delegato e di pubblico ministero nazionale. L’EPPO dovrà riferire ogni anno sull’attività espletata alle istituzioni dell’UE e, in particolare, ai parlamenti nazionali, che, in tal guisa, eserciteranno un controllo indiretto sulle attività condotte dalla Procura europea. Un difficile iter legislativo. La bozza iniziale di regolamento sull’istituzione dell’EPPO forniva solo ciò che era necessario per combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione con il fine precipuo di incrementare il numero di procedimenti penali e di migliorare lo scambio di informazioni per condurre con successo indagini e azioni penali contro tali reati. In detta bozza di regolamento emergeva già in modo evidente la volontà del legislatore europeo di aumentare e rendere più efficace, attraverso l’istituzione di organismi ad hoc, il perseguimento dei reati gravi fortemente pregiudizievoli per l’Unione, proprio in considerazione del fatto che i sistemi nazionali di indagine e di azione penale apparivano - e lo sono tuttora - ancora limitati e frammentati rispetto alla natura transfrontaliera di detti reati. Pertanto, sia nella bozza iniziale di regolamento (presentata per la prima volta nel luglio 2013) che in quella attualmente in vigore, è stata data enfasi alla considerazione che le indagini e le azioni penali condotte dagli Stati membri, ancorché supportate da Eurojust, Europol e Olaf, è carente di coordinamento, cooperazione e scambio di informazioni sufficienti, tali da impedire alle autorità nazionali competenti di garantire un livello adeguato di prevenzione e protezione. Tuttavia, sin dall’inizio, ben 14 Stati membri hanno espresso riserve sul contenuto della proposta e 11 hanno lamentato il mancato rispetto del principio di sussidiarietà oltre a sollevare dubbi sul principio di proporzione e sul rischio di violazione dei diritti fondamentali da parte dell’EPPO, anche in relazione alla possibilità che il nuovo organismo europeo potesse indebolire l’efficacia nella lotta alla criminalità organizzata a livello nazionale. A seguito di estenuanti negoziati con gli Stati membri più riluttanti, è emerso chiaramente che per superare le preoccupazioni sollevate da taluni Paesi sarebbe stato necessario realizzare la cosiddetta “cooperazione rafforzata” (art. 36, paragrafo 1, TFUE). Attesa l’assenza di unanimità in seno al Consiglio, sono stati avviati i negoziati per l’istituzione della Procura europea e il 3 aprile 2017 il Consiglio ha annunciato di aver ricevuto la notifica di 16 Stati membri che richiedevano l’avvio della procedura legislativa speciale per l’istituzione dell’EPPO. Il processo legislativo ha portato all’approvazione finale della proposta da parte del Parlamento europeo il 5 ottobre 2017. 20 Stati membri hanno approvato la costituzione dell’EPPO, mentre 5 Paesi non hanno aderito (Danimarca, Irlanda, Polonia, Svezia, Ungheria). Competenze dell’EPPO. L’articolo 22 del Regolamento (UE) istitutivo dell’EPPO sancisce che il nuovo organismo europeo è competente per i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione previsti dalla direttiva (UE) 1371/2071 (direttiva PIF), “indipendentemente dall’eventualità che la stessa condotta criminosa possa essere qualificata come un altro tipo di reato ai sensi del diritto nazionale”. L’EPPO è competente per le condotte fraudolente, attive od omissive, in materia di uscite (anche con riferimento agli appalti) e di entrate. L’art. 2, comma 2, della direttiva PIF precisa che la competenza materiale dell’EPPO, in materia di frodi all’IVA, previste dall’art. 3, par. 2, lett. d) della direttiva PIF, si limita ai casi di azioni od omissioni commesse intenzionalmente e perpetrate “in sistemi fraudolenti transfrontalieri”, cioè connesse al territorio di due o più Stati membri dell’Unione, che comportino un danno complessivo pari ad almeno 10 milioni di euro. L’EPPO è anche competente per i reati perpetrati da un’organizzazione criminale come definiti nella decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio, del 24 ottobre 2008, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata, nell’ipotesi in cui l’obiettivo dell’attività criminale sia di commettere uno dei reati PIF. L’art. 4 della direttiva (UE) 2017/1731 prevede la competenza materiale dell’EPPO anche su ulteriori fattispecie delittuose, quali il riciclaggio, la corruzione, l’appropriazione indebita, comprese le fattispecie autonome di reato relative all’istigazione, favoreggiamento, concorso e tentativo per la commissione delle citate ulteriori fattispecie delittuose. A tal riguardo, il reato di riciclaggio deve riguardare beni derivanti da reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, in quanto diversamente rientrerebbe nella competenza della direttiva (UE) 2018/1673 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2018 sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale (VI AMLD). Parimenti, ai fini dell’applicazione della direttiva PIF, sia la corruzione (attiva e passiva) che l’appropriazione indebita - che coinvolgono funzionari pubblici (funzionari dell’Unione o funzionari nazionali) - devono necessariamente comportare una lesione degli interessi finanziari dell’Unione. L’art. 22 del Regolamento (UE) 2017/1939 prevede una competenza “accessoria” dell’EPPO (accessoria rispetto alla sua competenza PIF), in relazione a qualsiasi altro reato che sia “indissolubilmente connesso” a condotte criminali che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva (UE) 1371/2017. Al riguardo, l’EPPO dovrà astenersi dall’esercitare la propria competenza nel caso in cui il reato “indissolubilmente connesso” (“inextricably linked”) risulti prevalente in termini di gravità del reato (con riferimento alla massima pena suscettibile di essere irrogata) rispetto a quello previsto dalla direttiva PIF, a meno che tale reato “indissolubilmente connesso” non sia accessorio o meramente strumentale alla commissione della fattispecie delittuosa rientrante nell’ambito di applicazione della citata direttiva. È, inoltre, esclusa la competenza dell’EPPO non solo quando vi sia motivo di presumere che il danno causato o che potrebbe essere causato agli interessi finanziari dell’Unione da un reato contemplato dalla direttiva PIF non superi il danno causato o che potrebbe essere causato a un’altra vittima ma anche quando il reato che rientra nell’ambito di applicazione della direttiva (UE) 1371/2017 abbia causato o possa aver causato un danno inferiore a 10 mila euro. In questo ultimo caso però, l’EPPO può comunque esercitare la propria competenza qualora il reato abbia ripercussioni a livello di Istituzioni unionali che, per la loro delicatezza, richiedono che l’indagine venga appunto condotta dall’EPPO o ancora qualora i funzionari o altri agenti dell’Unione o membri delle istituzioni dell’UE potrebbero essere sospettati di aver commesso il reato. L’EPPO esercita la propria competenza avviando un’indagine o decidendo di avvalersi del proprio diritto di “avocazione”. Se l’EPPO decide di esercitare la propria competenza, le autorità nazionali competenti non esercitano la loro competenza in relazione alla stessa condotta criminale. I procuratori europei delegati esercitano l’azione penale per conto dell’EPPO nei rispettivi Stati membri e hanno gli stessi poteri dei pubblici ministeri nazionali, indossando il “doppio cappello” di magistrato requirente, ad un tempo, nazionale ed europeo. Essi sono responsabili delle indagini e dei procedimenti penali che hanno avviato, che sono stati loro assegnati o che hanno rilevato avvalendosi del diritto di “avocazione”. Sulla base del regolamento istitutivo dell’EPPO, in ciascuno Stato membro dovrebbero essere previsti due o più procuratori europei delegati e il procuratore capo europeo, dopo aver consultato e raggiunto un accordo con le autorità competenti degli Stati membri, approverà sia il numero di procuratori europei delegati che la divisione funzionale e territoriale delle competenze tra gli stessi all’interno di ogni Stato membro. I procuratori europei delegati possono anche esercitare funzioni di pubblici ministeri nazionali nella misura in cui ciò non impedisca loro di adempiere ai loro obblighi ai sensi del regolamento istitutivo dell’EPPO. Nel caso in cui il procuratore europeo delegato non sia in grado di svolgere le sue funzioni a causa dell’esercizio delle concomitanti funzioni di pubblico ministero nazionale, il procuratore europeo - componente del collegio e competente a supervisionare l’operato del procuratore delegato europeo in esame - potrà proporre alla camera permanente di riassegnare il caso a un altro procuratore europeo delegato nello stesso Stato membro o avocare a sé le indagini. In ossequio al disposto dell’art. 25, par. 6, del Regolamento (UE) 2017/1939 si desume che - in Italia - la competenza per la risoluzione dei contrasti tra l’EPPO e procure nazionali vada attribuita alla Procura Generale della Corte di Cassazione, trattandosi dell’autorità nazionale incaricata di risolvere i “conflitti di competenza” sull’esercizio dell’azione penale a livello nazionale della competenza. Conclusioni. In conformità al dettato normativo introdotto dal Trattato di Lisbona, l’EPPO sembrerebbe presentare potenzialità che esondano dall’alveo di un mero rafforzamento della tutela degli interessi finanziari dell’Unione per effetto dell’attività di un organo investigativo penale da affiancare all’OLAF (la cui operatività resterebbe confinata ad un’attività investigativa di carattere squisitamente amministrativo). Il disposto normativo di cui all’art. 86 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) sembra innescare un vero e proprio miglioramento qualitativo nel processo d’integrazione giuridica a livello europeo. In questa ottica, l’obiettivo della completa realizzazione del principio della mutua assistenza legale sembrerebbe cedere il passo a quello di una progressiva unificazione della fase preliminare del processo penale in alcuni settori pivotali, proprio attraverso l’istituzione della nuova Procura europea, la quale, allo stato, persegue i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione ma che potrebbe essere suscettibile, in chiave prospettica, di una dilatazione delle proprie competenze, tali da ricomprendere le variegate tipologie dei serious crimes a carattere transnazionale per i quali il Trattato di Lisbona ha previsto una competenza penale autonoma dell’Unione Europea. Il Regolamento (UE) 2017/1939 sembra smorzare l’entusiastica impostazione introdotta dal Trattato di Lisbona e dall’art. 86 del TFUE, introducendo una normativa “minimalista” che si fonda sull’applicazione delle regole nazionali con la previsione di una loro circolazione tra gli ordinamenti e che valorizza, ancorché in una versione “avanzata”, il principio del reciproco riconoscimento dei provvedimenti giudiziari con un ampio rinvio alle diverse regolamentazioni nazionali dell’attività di indagine. Se ad un primo livello di analisi tale modello può apparire più agevole sotto il profilo operativo - in quanto evita il gravoso onere da parte del legislatore europeo di elaborare una normativa di riferimento uniforme e consente ai procuratori europei delegati di applicare la lex loci nei diversi Stati membri - in realtà esso pone delle questioni di non residuale complessità. Infatti, è lo stesso Regolamento istitutivo dell’EPPO che impone di conformarsi non solo alle legislazioni nazionali ma anche ad una serie di diritti procedurali garantiti dalla normativa europea, alla Carta di Nizza, alle direttive europee, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ed al diritto vivente della Cedu e tutto ciò potrebbe, in astratto, accrescere l’incertezza del diritto determinando, ad esempio, dei corti circuiti nell’ambito dell’attività di giurisdizione di garanzia esercitata dal giudice per le indagini preliminari con riferimento alla valutazione della validità degli atti d’indagine. Il compito rimesso all’EPPO è molto più complesso di quanto appaia, non solo in ragione delle considerazioni anzidette, a cui si aggiunge la possibile divergenza tra la lex loci e la lex fori, ma anche in considerazione degli ambiziosi obiettivi che devono necessariamente tener conto delle non incoraggianti statistiche preoccupanti in tema di frodi perpetrate a livello europeo fornite dall’OLAF (400-600 milioni di euro all’anno) e di quelle ancor più preoccupanti indicate nell’Impact Assessment della Commissione europea (3-5 miliardi di euro all’anno), che rappresentano il 3-4% del budget annuale dell’Unione (pari a circa 140 milioni di euro). Infine, appare di fondamentale importanza la cooperazione tra EPPO, EUROJUST, EUROPOL e OLAF. In particolare, con la prima agenzia europea si dovrà necessariamente instaurare un costante coordinamento operativo e la condivisione dei servizi di supporto, non escludendo un coinvolgimento di EUROJUST sulle questioni afferenti alla giurisdizione. EUROPOL viene menzionata nell’art. 86 del TFUE: appare necessario che detta agenzia fornisca ad EPPO ogni utile informazione su altri casi o su gruppi criminali, nonché le analisi contenute negli analytical work files che potrebbero contenere utili elementi informativi in merito a reati PIF, senza contare un possibile diretto coinvolgimento di EUROPOL nelle indagini. L’OLAF continuerà a svolgere un ruolo essenziale nello sviluppo di indagini amministrative che ben potranno integrare le attività d’indagine dell’EPPO; al riguardo, si auspica che l’OLAF possa disporre di tutti gli strumenti investigativi necessari per garantire l’efficacia delle indagini a carattere amministrativo, come ad esempio l’accesso a specifiche banche dati che, a livello nazionale, sono nella disponibilità delle competenti agenzie di law enforcement (anagrafe dei conti correnti bancari, sistema informativo valutario, anagrafe tributaria, etc.). *Avvocato e Dottore Commercialista. Esperto della Commissione Europea e del Consiglio d’Europa “Spazza-corrotti” irrilevante sul finanziamento ai partiti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2020 L’equiparazione con le fondazioni non ha effetti di espansione della norma penale. Una fondazione non può essere equiparata a un partito politico. Non per quanto riguarda il reato di finanziamento illecito. Se è vero che la legge “spazza-corrotti” ha provveduto a un’assimilazione, questa vale solo per le materie espressamente previste dalla legge stessa, non per altre. Per la Cassazione, quindi, va annullato il sequestro di documenti e pc nell’ambito dell’indagine penale sulla Fondazione Open. Accolto quindi il ricorso di Marco Carrai, imprenditore legato al leader di Italia Viva Matteo Renzi. Di diverso avviso era stato il tribunale del riesame di Firenze, per il quale la Fondazione rappresentava l’articolazione di un partito e che, in questa veste, aveva provveduto a finanziare il partito stesso e alcuni sui parlamentari. L’errore - Ora la Cassazione, con la sentenza n. 28796, della Sesta sezione, depositata il 16 ottobre, ha invece ritenuto che, nel caso esaminato, non si è verificata la trasgressione della norme del 1974, l’articolo 7 della legge n. 195, che sanziona il finanziamento illecito ai partiti. I giudici del riesame hanno cioè eluso questo tema centrale sul piano giuridico, che pure la difesa aveva sollevato, valorizzando invece alcuni elementi probatori come la messa a disposizione di bancomat e carte di credito per alcuni parlamentari, traendone la conclusione che la Fondazione Open potesse essere considerata il braccio operativo di una forza politica. L’equiparazione - La Cassazione ripercorre invece il tema dell’equiparazione tra partiti e fondazioni e lo fa ricordando innanzitutto che la legge n. 13 del 2014 ha proceduto a una prima sommaria assimilazione, quanto a trasparenza, ma è solo con la legge n. 3 del 2019 che è stata introdotta una più marcata parificazione, quanto in particolare a tutta una serie di disposizioni espressamente previste dalla medesima “spazza-corrotti”, in adesione tra l’altro, ricorda la Cassazione alle richieste del Greco (il Gruppo europeo di lotta alla corruzione). Gli effetti - In realtà, però, sottolinea la sentenza, da una parte “l’equiparazione non implica un’identità ontologica” e dall’altra, soprattutto, “ciò ha rilievo agli effetti delle specifiche norme per le quali è stabilita l’equiparazione. Correlativamente, non può dirsi che l’equiparazione abbia un’immediata e automatica ricaduta agli effetti dell’applicazione dell’articolo 7 della legge n. 195 del 1974”. E quanto ai rapporti tra fondazioni e partiti, il giudizio della Cassazione è che non basta una semplice coincidenza di finalità politiche, ma occorre anche “una concreta simbiosi operativa” che faccia ritenere inserita la fondazione nel partito in maniera tale che finanziamenti destinata alla fondazione possano essere considerati indirizzati anche al partito. Sui rumori molesti l’altolà del giudice o la condanna penale di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2020 La giurisprudenza ha chiarito sia i confini della tollerabilità oltre la quale scatta il rimedio civile sia il perimetro del reato. Musica martellante, vociare dei clienti, cani che abbaiano, pallonate: spesso i vicini di casa possono provocare rumori molto fastidiosi. Dai quali, però, ci si può difendere. I rumori molesti possono infatti dar luogo a immissioni intollerabili che il giudice può inibire in base all’articolo 844 del Codice civile. Oppure possono sfociare nel reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (articolo 659 del Codice penale) che sanziona chi, con schiamazzi o rumori, abusando di strumenti sonori o segnalazioni acustiche o suscitando o non impedendo strepiti di animali, leda il diritto alla tranquillità dei vicini. La giurisprudenza ha chiarito sia i confini della tollerabilità oltre la quale scatta il rimedio civile, sia il perimetro del reato. Vediamo in che modo. I casi - Superano la sopportabilità e vanno inibite le attività di mercato che disturbino i residenti per il baccano della clientela (Tribunale di Como, 312/2019). Intollerabili anche le attività ricreative e ludiche dell’oratorio che, a causa di trombette e pallonate, pregiudichino il quieto vivere (Tribunale di Palermo, 5 dicembre 2019). I giudici fermano anche i rumori del pub che compromettono la salute psicofisica dei vicini (Tribunale di Catania, 1581/2019) e gli schiamazzi del bar notturno, che ha preso gli accorgimenti per contenere i rumori nei limiti permessi, ma faccia usare ai clienti gli spazi esterni dopo mezzanotte (Cassazione, 2757/2020). E se i rumori delle attività produttive superiori ai limiti di accettabilità sono comunque illeciti (Tribunale di Termini Imerese, 368/2020), rispettarli non sempre salva da sanzioni se le caratteristiche dei luoghi o altri fattori li rendano insopportabili per l’uomo medio (Cassazione 28201/2018). I giudici riducono poi gli orari del car-wash aperto nei dintorni di alloggi destinati alla villeggiatura (Tribunale di Lecce, 1567/2020). E scatta il risarcimento del danno non patrimoniale per il meccanico che ripari le auto a portoni aperti o fuori dall’officina, compromettendo il pacifico svolgersi delle abitudini quotidiane dei vicini (Tribunale di Lecce, 1249/2019). Ma ci sono situazioni più gravi che, danneggiando persone non specificate, sforano nel penale ed espongono i titolari delle attività rumorose al rischio di vedersi comminare l’arresto fino a tre mesi o l’ammenda fino a 309 euro. Le sanzioni penali - Sono stati condannati per il reato previsto dall’articolo 659 del Codice penale, ad esempio, il gestore di un bar che non teneva a bada il fracasso dei clienti in sosta davanti all’ingresso, infrangendo le norme a tutela dell’ordine pubblico (Cassazione, 14750/2020) e quello che diffondeva musica assillante fino all’alba (Tribunale di Pescara 167/2020). Punito il venditore di bevande al minuto che non sappia contenere il chiassoso via vai dei suoi avventori (Cassazione 13915/2020). È reato anche amplificare l’impianto di un hotel, con tanto di serate karaoke o show d’intrattenimento, guastando il riposo di chi dimora nei dintorni (Tribunale di Ascoli Piceno, 479/2019). Ancora, i giudici hanno riconosciuto la responsabilità penale di un uomo, condannato a 20 giorni di arresto, che lasciando galli e galline liberi di gironzolare nel proprio palazzo, disturbava i condòmini (Cassazione, 41601/2019). Il continuo abbaiare di cani è invece costato 300 euro di ammenda ai proprietari, colpevoli di non aver fatto di tutto per sedare il latrare degli animali (Cassazione, 38901/2018). Per la condanna non è necessaria - come è accaduto al legale rappresentante di un’associazione culturale rumorosa - né la vastità dell’area interessata dai rumori né il disturbo di un numero rilevante di persone (Cassazione, 18521/2018), essendo sufficienti fastidi idonei a danneggiare un gruppo indeterminato di persone anche se conviventi in spazi ristretti come i condomìni. Non sfuggono a ripercussioni penali neanche l’iracondo che, urlando e rompendo vetri e oggetti, attiri l’attenzione dei passanti in strada (Cassazione, 9361/2018) o il responsabile di una palestra che animi gli allenamenti con musica ad alto volume (Cassazione, 17124/2018). Violazione degli obblighi di assistenza familiare, tra presupposti e oneri probatori di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2020 Impossibilità di versare il mantenimento deve essere assoluta. Minore età del figlio è in sé stato di bisogno. Reciprocità governa separazione. Con tre sentenze odierne la Cassazione penale, in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, ha fatto alcune importanti affermazioni ai fini dell’imputazione per il reato ex articolo 570 del Codice penale: 1) l’incapacità economica di versare il mantenimento ai figli va provata come “assoluta” e viene smentita da scelte che dimostrano capacità economica verso il figlio avuto da una nuova relazione. Non è esimente, infatti, il saltuario versamento, di gran lunga inferiore al dovuto, verso i figli nati dalla precedente relazione; 2) la minore età del figlio, per il quale non si versa il mantenimento, costituisce “in re ipsa” quella condizione soggettiva che integra lo stato di bisogno; 3) il giudice deve accertare lo stato di bisogno del coniuge separato che non riceve più il mantenimento inizialmente stabilito per poter contestare all’obbligato inadempiente il reato. Il giudice dovendo valutare in un’ottica di reciprocità le condizioni economiche dei due separati non può non dare rilievo alla sentenza civile che ha revocato l’assegno all’altro coniuge dopo aver accertato l’incapienza economica dell’obbligato, a fronte del rispetto dell’obbligo di mantenimento verso il figlio minore. Il padre che paga saltuariamente - Con la sentenza n. 28778 la Cassazione ha respinto il ricorso di un padre che, a fronte del prolungato modo con cui versava la somma stabilita a favore di due figli minori, solo saltuariamente e in maniera parziale, pretendeva l’applicazione della causa di non punibilità per tenuità del fatto. Ma la permanenza della condotta del genitore che non adempie esattamente l’obbligo di mantenimento dei figli esclude l’applicazione dell’articolo 131 bis del Codice. Il ricorso è stato respinto per assenza di prova anche sul punto del mantenimento diretto, in quanto il padre sosteneva di aver commisurato i versamenti ai periodi di frequentazione dei propri figli, ma senza circostanziare i fatti cui voleva dare rilevanza. Infine, la Cassazione respinge anche la lamentela del ricorrente contro il verdetto di merito che non gli aveva riconosciuto la giustificazione della sopravvenuta propria incapienza economica. Per la Cassazione il ricorrente non ha adempiuto all’onere della controprova contro il ragionamento del giudice di merito, che aveva escluso l’impossibilità economica di adempiere a fronte del fatto che avesse preso in affitto un alloggio dal costo esoso per poterci vivere con altro figlio avuto da una successiva relazione. Una scelta arbitrariamente dannosa verso la prole nata dalla precedente relazione, in assenza della dimostrazione che non aveva altra scelta. Lo stato di bisogno - La Cassazione, con la sentenza n. 28764, precisa che la minore età del figlio per il quale si omette di versare il mantenimento integra proprio lo stato di bisogno della vittima del reato. La decisione respinge il ricorso del padre che pretendeva di giustificare il mancato versamento a causa della prolungata inattività lavorativa dell’ex moglie per invalidità e dell’aiuto economico e pratico che lei e il figlio ricevevano dalla famiglia materna. Circostanze che, al contrario, confermano la privazione dei mezzi di sussistenza per mano dell’imputato. Inoltre, la sentenza conferma la provvisionale di 3mila euro per la liquidazione del danno morale, ma solo verso la madre che aveva mancato di dare procura speciale per agire anche nell’interesse del figlio minore. Rilevanza del giudizio di separazione - Con la sentenza n. 28774 la Cassazione accoglie, invece, il ricorso del padre che non versava il mantenimento alla moglie separata, la quale contestava l’incapacità economica affermando la sua volontà di sottrarsi all’obbligo assistenziale. Il ricorrente ritiene che andasse valutata appunto l’esistenza di una sua specifica volontà di venir meno alla dovuta assistenza. Ma soprattutto fa rilevare che in sede civile era stata accertata la sua difficoltà al mantenimento dell’ex moglie di fronte al corretto adempimento verso il figlio. In sintesi la Cassazione ricorda che gli obblighi in sede di separazione vanno valutati in un’ottica di reciprocità tenendo in considerazione eventi che, anche in pendenza del matrimonio, possono modificare le condizioni economiche delle parti. E non poteva il giudice ignorare il venir meno dell’obbligo di mantenimento della moglie. Campania. “Diamo la possibilità di studiare a ci sta in carcere” di Viviana Lanza Il Riformista, 19 ottobre 2020 L’istituzione di un polo universitario penitenziario regionale, per aumentare il numero di opportunità di studio per i detenuti della Campania, è uno dei progetti che si potrebbero realizzare nel più breve termine. “Ma a patto di avere spazi adeguati. Non si può fare il polo universitario tanto per farlo, la condizione essenziale è che si seguano la logica e il modello di Secondigliano”, chiarisce Marella Santangelo, architetto, docente alla Federico II di Napoli, responsabile scientifico dell’accordo di ricerca tra il Dap della Campania e l’università, componente del direttivo della Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari e fra i membri del tavolo 1 degli stati generali dell’esecuzione penale. Un tavolo concluso anni fa con decine di proposte, nessuna attuata. Perché? “Perché, in Italia, del carcere non importa a nessuno, non si è mai deciso di investire seriamente sulla qualità dello spazio. Eppure il carcere è l’unico edificio pubblico abitato perché il detenuto, nel tempo che trascorre in carcere, abita quel luogo - osserva la docente - I pochi spazi a disposizione sono spazi per lo più ricavati, non essendoci un progetto nella stragrande maggioranza degli istituti penitenziari, costruiti tra gli anni 70 e 90, tutti uguali e con un layout funzionale che tristemente viene ancora usato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, senza la volontà di usare lo spazio per rendere il tempo del recluso un tempo di dignità e non di disperazione”. “Questo è lo scenario generale - prosegue Santangelo - poi ogni istituto è una realtà a sé e i casi vanno valutati singolarmente. Ci sono strutture dove i direttori fanno i salti mortali, dove si compiono grandi sforzi per ricavare un giardinetto o un angolo per i colloqui dei detenuti con i bambini”. Ma sono iniziative sporadiche, servirebbe una progettualità di insieme. “Lo spazio per i colloqui con i bambini, per esempio, andrebbe ripensato completamente, studiando bene come creare spazi per l’attesa e spazi per poter stare con i genitori una volta dentro il carcere”, chiarisce Santangelo. “In altri Paesi europei - racconta - ci sono alloggi dove i detenuti hanno il permesso di stare alcune ore o una giornata intera con i familiari. In Norvegia ci sono addirittura spazi per garantire ai detenuti quel diritto alla sessualità che nella nostra Italia non si può nemmeno pronunciare ed è un diritto negato”. Per non parlare degli sprechi nelle strutture carcerarie. “Ci sono sprechi di tutto - sottolinea Santangelo - Di acqua che scorre, di luci sempre accese. Eppure si potrebbe lavorare sulla pelle di questi edifici e fare un retrofit tecnologico conservando le strutture. Perché io sono per svuotare le carceri, non per farne di nuove”. Come? “Si potrebbe cominciare con dei lavori di manutenzione, vedere cosa si può fare più rapidamente e semplicemente senza enorme esborso di denaro, e poi, piano piano, valutare e progettare anche investimenti più grandi. Ci sono grandissimi passi in avanti che si possono fare con costi contenuti”. I corridoi allestiti con librerie e spazi per la lettura, alcuni anni fa, nel padiglione Genova del carcere di Poggioreale ne sono un esempio: “Fu un progetto voluto dall’allora direttore e oggi provveditore Antonio Fullone. Studenti di Architettura e detenuti lavorarono assieme, fu un’impresa straordinaria e spero che si possa presto ripetere anche in altri reparti”, si augura la prof. I progetti a cui lavora sono tanti: “Tra gli obiettivi c’è quello di creare case dell’affettività a Secondigliano”. Marche. Covid e carceri: “Garantire la massima sicurezza in ambito sanitario” cronacheancona.it, 19 ottobre 2020 È ripartito da Montacuto il nuovo percorso di monitoraggio degli istituti penitenziari marchigiani, messo in atto periodicamente dal Garante Andrea Nobili. In primo piano la verifica della situazione, soprattutto per quanto riguarda la piena attuazione delle disposizioni messe in atto per affrontare l’emergenza epidemiologica da Covid-19. “Ad oggi - sottolinea Nobili - non si registrano criticità in questa direzione, ma è ovvio che l’attenzione deve restare alta per garantire la massima sicurezza dal punto di vista sanitario, anche alla luce di un trend generale caratterizzato da un aumento significativo dei casi, sia nella nostra regione che nell’intero Paese. Vanno attentamente monitorati i nuovi ingressi e tutte le relazioni che presuppongono un intervento esterno. Dobbiamo avere una fotografia precisa della situazione, ma contemporaneamente attivare tutte le azioni possibili sul fronte della prevenzione”. Un lavoro questo che il Garante sta portando avanti già dallo scorso mese di marzo e che non si è fermato neanche durante il periodo del lockdown, quando ha mantenuto contatti periodici per via telematica con i vertici degli istituti penitenziari e con gli stessi detenuti. Nel nuovo percorso di monitoraggio Nobili affronterà anche altre criticità presenti negli istituti penitenziari, prevedendo colloqui con i responsabili dei diversi settori. In agenda anche quelli con i rappresentanti della polizia penitenziaria. “La carenza cronica degli organici - fa presente il Garante - è resa ancor più problematica in situazioni di sovraffollamento, come nel caso di Montacuto. In questa direzione c’è l’esigenza di rilanciare un appello generalizzato perché le istituzioni pongano mano al problema in modo concreto”. Dopo Ancona, la prossima visita interesserà il carcere di Villa Fastiggi a Pesaro e a seguire tutti gli altri istituti penitenziari marchigiani. Parma. ‘Ndrangheta: l’ex boss Nino Cerra muore nel carcere di via Burla parmatoday.it, 19 ottobre 2020 È morto all’età di 72 anni nel carcere di Parma il boss della Piana Nino Cerra, detto “il vecchio” e “u zu Ninu”. Si trovava nel regime 41 bis dopo le condanne ricevute nell’ambito delle operazioni “Chimera” e “Dioniso”. Alla luce di diverse inchieste antimafia, era considerato una delle figure principali della criminalità lametina e calabrese, con collegamenti diretti con le famiglie mafiose più potenti della locride. Cerra fu accusato e incarcerato per diversi reati di stampo mafioso e per un periodo visse in Lombardia. Dopo un periodo di detenzione fu scarcerato nel 2005 per poi ritornare in carcere in seguito all’operazione Chimera, nelle cui carte fu indicato come il capo della cosca “Cerra-Torcasio-Gualtieri” egemone nel territorio di Nicastro. Secondo le ricostruzioni dell’autorità giudiziaria, Cerra ha iniziato a delinquere sin dagli anni 70 fino a divenire protagonista di sequestri di persona e omicidi. Nel 1984 dopo un periodo di latitanza fu arrestato poiché accusato di due sequestri di persona (quello di Fabrizio Mariotti, figlio di un industriale del marmo di Bagni di Tivoli e di Tullia Cauten, figlia di un ricco imprenditore di Milano). Nel 2018, in seguito all’operazione Alesia, ai Cerra - Nino e alla sorella Teresina, considerata co-reggente della cosca - furono sequestrati una serie di beni: appartamenti, suv, arredi di lusso e soprattutto il palazzo all’interno del quale sono avvenute riunioni di mafia fra i Cerra e gli esponenti delle altre famiglie della ‘ndrangheta calabrese. Roma. Lavoro e inclusione: al via nuovo progetto socio-professionale per detenuti pressmoliselazio.it, 19 ottobre 2020 È partito il nuovo percorso di reinserimento socio-professionale che impegna soggetti in espiazione di pena ed ex detenuti in tirocini presso associazioni e cooperative convenzionate. Alcuni saranno impiegati in attività di manutenzione del verde, piccoli lavori edili, pulizie, artigianato e pelletteria. Altri, produrranno marmellate, conserve e succhi di frutta presso il laboratorio alimentare “Papa Francesco” gestito da Isola Solidale all’interno del Centro Agroalimentare di Roma. Parte dei beni alimentari sarà devoluta in beneficenza. “I percorsi di riabilitazione professionale sono una risposta alle difficoltà di inclusione incontrate da chi sconta una pena detentiva. Restituire una prospettiva esistenziale attraverso il lavoro, aiuta a reinserire in società persone motivate a crescere e migliorare, sottraendole a criminalità ed emarginazione. Miglioramento e possibilità di riscatto per i singoli, quindi, ma anche attività benefiche e utili all’intera città”, dichiara la Sindaca Virginia Raggi. Si parte con i primi 17 destinatari del progetto - curato dal Dipartimento Turismo, Formazione e Lavoro attraverso i Centri di Orientamento al Lavoro - cui se ne aggiungeranno altri individuati dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà di Roma Capitale. A questo scopo, sono stati infatti destinati 100.000 euro, utili al finanziamento di tirocini trimestrali che prevedono 30 ore di lavoro settimanale, cui far corrispondere una retribuzione di 600 euro mensili. Il tutto, nell’ambito dei protocolli d’intesa fra Roma Capitale e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, diretti alla riabilitazione e inclusione sociale dei detenuti. “La crescita individuale passa anche per l’occupazione: questo è ancor più vero per quanti sono stati privati della libertà personale. Formazione professionale e inclusione sono le parole d’ordine dei tirocini curati da Roma Capitale in collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. All’interno della struttura del C.A.R. - importante società partecipata da Roma Capitale - prende il via una importante esperienza che consente a chi la vive di riscoprire la dignità del lavoro e l’orgoglio di fare qualcosa di utile per il prossimo, coniugando virtuosamente produzione e beneficenza”, dichiara l’Assessore allo Sviluppo economico, Turismo e Lavoro Carlo Cafarotti. “Dal 2017, quando abbiamo iniziato in fase sperimentale il percorso teso a favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso il progetto di lavori di Pubblica Utilità, sino ad oggi, sono stati complessivamente interessati 130 detenuti, tra attività di manutenzione del verde pubblico e piccola manutenzione stradale. Altri 35 detenuti al Nuovo Complesso del Carcere di Rebibbia stanno per iniziare un nuovo corso di formazione e andranno a breve a rafforzare la squadra di operatori giardinieri. Sono numeri importanti che testimoniano quanto l’iniziativa, svolta in stretta collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dap e il Dipartimento Tutela Ambientale di Roma Capitale che ringrazio sentitamente, si dimostri valida non solo per la diminuzione del rischio di recidiva del detenuto ma anche per il servizio prestato a beneficio della collettività. La ripresa del progetto legato al percorso di reinserimento socio-professionale con la novità costituita dai tirocini retribuiti va a rafforzare l’aspetto di riscatto del debito nei confronti della comunità e rappresenta una rinascita capace di donare nuova speranza e nuove prospettive di vita una volta espiata la pena” dichiara l’Assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Daniele Frongia. Crotone. Il Garante: "Servono mediatori culturali-linguistici per i detenuti" Ristretti Orizzonti, 19 ottobre 2020 Al termine della visita effettuata dal Garante comunale dei detenuti Federico Ferraro, presso la Casa circondariale di Crotone, lo scorso 13 ottobre, insieme al presidente f.f. della provincia di Crotone Simone Saporito sono emerse alcune esigenze legate più o meno indirettamente al mondo carcere. La prima esigenza riguarda il problema della carenza di mediatori linguistici-culturali che potrebbero agevolare il relazionarsi tra detenuti stranieri e quelli italiani, nonché le comunicazioni tra il personale in servizio e la popolazione detenuta di origine non italiana. Desidero dunque fare appello alle Associazioni del terzo settore e di volontariato, operanti nella nostra realtà territoriale, a che si adoperino per reperire alcuni operatori addetti alla mediazione linguistica preferibilmente nelle lingue mediorientali, africane quali arabo, siriano. Altra questione segnalata dalla direzione al garante comunale riguarda la massiccia presenza di gatti randagi negli spazi aperti, adiacenti la struttura penitenziaria, pertanto desidero anche in questo caso far appello alla cittadinanza, in particolar modo a qualche cittadino amante degli animali che possa interessarsi al fine di prendersi cura di loro. Rispettare i gatti non è un gesto soltanto d’amore, ma un obbligo giuridico in quanto cittadini, considerato che il codice penale integrato dalla legge n. 281 del 1991 e del 2004 prescrive specifici comportamenti in tutela degli animali “randagi”. In ogni caso, nell’ambito dell’attenzione e monitoraggio che sta riguardano il mondo carcere in questi ultimi anni, è doveroso da parte come autorità amministrativa di garanzia sottoporre all’attenzione della collettività questi aspetti non secondari per assicurare una pacifica e serena convivenza di tutti. Le associazioni interessate al servizio di mediazione linguistica come i cittadini che volessero interessanti a prendersi cura dei gatti randagi possono scrivere mail all’indirizzo garantedetenutikr@comune.crotone.it. Pavia. Operaio ex detenuto “Datemi una speranza e lasciatemi lavorare” di Oliviero Maggi La Provincia Pavese, 19 ottobre 2020 La storia di Gianfranco Sorrentino che ha perso l’impiego: “Dovevo scontare un mese, non mi hanno più ripreso”. “Sono un ex detenuto, voglio riprendere il mio lavoro per essere reinserito nella società”. È l’appello che lancia Gianfranco Sorrentino, 49 anni, operaio alla logistica H&M di Stradella che si sta battendo per essere riammesso nel magazzino dopo un mese di stop in cui ha dovuto finire di scontare una pena in carcere. Sorrentino, poi, negli ultimi giorni sta organizzando un sit-in davanti all’ingresso dello stabilimento chiedendo alla cooperativa che lo ha assunto di aiutarlo a ripartire con il lavoro, almeno fino alla fine del contratto il 15 dicembre. Con un contratto attivo, ma senza poter lavorare, infatti, il 49enne non può accedere nemmeno ai sussidi del Comune, che finora comunque lo ha aiutato con i buoni pasto dell’emergenza Covid. “Il 6 maggio sono stato assunto in regime di detenzione domiciliare con un contratto a tempo determinato, che mi è stato rinnovato due volte ed è in scadenza il 15 dicembre - racconta. Il 30 luglio sono stato riportato in carcere per un mese e sono stato rimesso in libertà il 5 settembre scorso. Dal primo agosto ad oggi, però, non ho mai ricevuto nessuna comunicazione di richiamo o licenziamento per giusta causa, anzi il 6 settembre sono venuto a sapere dai colleghi di essere ancora segnato nel tabellone dei turni”. Rifiutato al lavoro - Il giorno dopo, così, Sorrentino si presenta al lavoro ma i responsabili non lo accettano non avendo avuto direttive. “In quel momento inizia la mia odissea - aggiunge il 49enne. Ogni volta mi viene detto che non è stata ancora presa nessuna decisione. A fine settembre mi sono rivolto anche al sindacato, ma sto ancora aspettando una risposta. In tutto questo tempo avrei potuto accedere alla Naspi o comunque al reddito di emergenza. Invece non posso lavorare e non so che ne sarà del mio futuro”. Nei giorni scorsi il 49enne ha rifiutato una risoluzione del contratto proposta dall’azienda ed è determinato a essere riassunto. Tra l’altro, non potendo lavorare, sta affrontando seri problemi economici: “Voglio continuare a lavorare perché ne sono all’altezza - conclude. Ho voglia di mettermi ancora in discussione, di riconquistarmi la mia dignità con il lavoro ed essere utile per la comunità insieme alla mia famiglia”. Napoli. Ottocento giorni in carcere per un omicidio mai commesso: maxi risarcimento di Verdiana Sasso napoli.occhionotizie.it, 19 ottobre 2020 Napoli, trascorre ottocento giorni in carcere per un omicidio mai commesso: scatta il maxi risarcimento per un imprenditore vesuviano, finito in cella come presunto assassino, condannato in primo grado a trent’anni di reclusione, per poi essere assolto in Corte di Assise d’appello. Cadute le accuse nel corso del processo di secondo grado, l’imprenditore ha ottenuto anche un risarcimento per ingiusta detenzione. È stata la ottava sezione di Corte di appello del Tribunale di Napoli, presidente Maurizio Stanziola, a disporre il pagamento di 188.656 euro per il periodo di tempo trascorso in cella, per il contraccolpo psicologico subito da arresti non dovuti, per i danni inevitabili sotto il profilo privato e professionale. La vicenda - Tutto ha avuto inizio dopo l’omicidio di stampo camorristico di Luigi Borzacchiello, consumato ad Afragola il 9 dicembre del 2006. Sei anni dopo, siamo nel 2012, scattano le manette per i presunti concorrenti: tra questi c’è un imprenditore che vive in un comune vesuviano. Ha legami di parentela con alcuni soggetti ritenuti coinvolti con il delitto, finisce al centro delle indagini sulla scorta di due potenziali fonti di prova: le parole del collaboratore di giustizia Pasquale Di Fiore, che inquadra il delitto, mette a fuoco lo scenario nel quale si consuma; e una intercettazione ambientale, che consente di ricostruire il dialogo a più voci tra i presunti responsabili dell’agguato. Parole che si sovrappongono tra gli uomini che stanno organizzando la spedizione di morte, che decidono chi e in che modo dovrà premere il grilletto, come dovrà avvenire l’appostamento e la fuga. Parole che vengono analizzate dal giudice per le indagini preliminari che non ha alcun dubbio, nell’accogliere la richiesta di arresto dei pm: anno 2012, tra i nomi che finiscono in cella c’è anche un parente dei principali indiziati del delitto. È ritenuto un concorrente. In aula arrivano le condanne per i presunti killer, ma anche per un imprenditore che - come si dimostrerà in seguito - non aveva alcuna responsabilità in questa storia. Primo grado, arriva la condanna a trent’anni di reclusione, con tanto di risarcimento alla Provincia per i danni all’immagine arrecati dall’episodio criminale. Poi si va in appello, si apre il confronto su atti e elementi di prova. A questo punto diventa decisivo il lavoro della penalista Marianna Febbraio, che riesce a scardinare la prova centrale, quella perizia fonica decisiva nella condanna di primo grado, oltre a mettere in risalto le contraddizioni dei pentiti. Si riapre così il processo. Da una nuova valutazione dell’ambientale agli atti, emerge la confusione delle voci e la impossibilità di ricondurre anche solo una frase intercettata all’imprenditore condannato per omicidio. Cade il castello accusatorio, mentre le dichiarazioni di accusa dei pentiti si annullano in modo vicendevole. Cambia il quadro, si arriva all’assoluzione che diventa definitiva. Fine dell’incubo, con gli stessi giudici che - in motivazione - diradano ogni dubbio sulla condotta dell’imputato scagionato. Covid, serve trasparenza con informazioni non con i numeri di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 19 ottobre 2020 È di oggi (ieri per chi legge) la notizia del raggiunto accordo tra Ministro di Giustizia e sindacati del comparto sulla organizzazione di uno smart working finalmente lontano dalla versione caricaturale fino ad oggi praticata in fase lockdown ed oltre. Come è noto, cancellieri e personale distaccato a casa non erano facoltizzati ad accedere ai registri ordinariamente accessibili dall’ufficio. Uno smart working all’amatriciana, insomma. Ora sembrerebbero in consegna migliaia di computer portatili, con connessa licenza di accesso ai dati riservati agli uffici. Bene, era ora; se funziona, potrà costituire senz’altro una opzione anche fuori dalla fase emergenziale. Nessuna notizia, invece, sul corrispondente accesso smaterializzato degli avvocati agli uffici giudiziari. Senza copertura normativa che autorizzi l’uso della pec per depositare gli atti difensivi, ci tocca andare in Tribunale, facendo lo slalom tra divieti, file in assembramento, prenotazione di accessi concessi con fastidio, come se fossimo venditori di Bibbie che bussano a casa altrui all’ora di pranzo. Comprendiamo che il deposito telematico di atti presupponga una riorganizzazione della fase ricettiva degli stessi, ma cosa si aspetta ad affrontare e risolvere un problema così banale? Tutti sono quindi in grado di comprendere quali siano le priorità di chi ci governa, tra diritti sindacali pur legittimi e diritto di difesa dei cittadini. Tanto più che questo attivismo per ora a senso unico è evidentemente sollecitato dalla previsione della possibile ricaduta del Paese in condizioni di grave emergenza sanitaria. A proposito della quale credo sia giunto il momento di porre, con forza, un tema che a mio parere è una emergenza nell’emergenza. Mi riferisco al diritto di tutti noi ad una informazione finalmente univoca, chiara e trasparente sui dati reali del fenomeno epidemico, dalla cui dimensione dipenderanno scelte cruciali nelle prossime settimane (tra le quali, dunque, anche quelle relative allo svolgimento dell’attività giudiziaria). Sono lontano anni luce da ogni forma idiota di negazionismo; ed avendo avuto la fortuna di vivere da molto vicino le più straordinarie battaglie libertarie di questo paese (divorzio, aborto, obiezione di coscienza, anti-proibizionismo sulle droghe, etc.), trovo grottesche queste resistenze pseudo-libertarie alle regole di distanziamento sociale. Mettetevi questa cavolo di mascherina e smettetela di frignare idiozie. Ma non si può più negare il dato di una torbidità della informazione sulla epidemia. Anche un analfabeta in matematica quale io sono, comprende la totale arbitrarietà della comunicazione di numeri dei contagi in valore assoluto, accompagnati a mezza bocca dalla variabile (in più o in meno) dei tamponi effettuati, come se fosse una accidentale informazione di contorno. È il denominatore della operazione di calcolo. Per sapere se la epidemia avanza, arretra o è stabile, ed in quale misura, ci serve solo un dato, ufficiale, semplice, chiaro: percentuale degli infetti sui tamponi effettuati. Ebbene, per quanto incredibile possa sembrare, dobbiamo calcolarcelo da soli. E i media, ancor più incredibilmente, assecondano questa inspiegabile assurdità (“Aumentano ancora i contagi / Ma è record di tamponi”). Allo stesso modo, si indicano Regioni come al riparo dalla recrudescenza, per poi scoprire che sono quelle in cui si fanno tamponi dieci volte di meno. Si equipara il valore odierno dei contagiati a quelli di marzo, quando poi si stima pacificamente un tasso odierno di infetti sui tamponi intorno al 5%, a fronte del 25% di marzo aprile scorso. A chi giova tutto questo? Perché si insiste nella sistematica (e dunque intenzionale) diffusione di dati privi del benché minimo rigore statistico? Le informazioni di rilevanza pubblica non sono un patrimonio che il Governo di un Paese democratico possa amministrare in modo inspiegabilmente arbitrario, oscuro, nebuloso. Dobbiamo tutti dare responsabilmente seguito alle indicazioni sanitarie che vengono e verranno impartite. Ma se, per tornare al tema che più mi compete, dovremo accettare di veder di nuovo sospesa o ridotta o contingentata l’attività giudiziaria e la nostra attività professionale, questo dovrà accadere - come d’altronde per ogni altra attività economica e sociale del Paese - sulla base di nozioni certe e di univoco significato. Insomma, dateci informazioni, invece di dare i numeri. Quel prof francese che non aveva paura di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 19 ottobre 2020 Samuel Paty, ora sgozzato e decapitato, senza voler essere un eroe riteneva che la libertà d’espressione fosse ancora un valore per cui valesse la pena battersi. Il terrorismo islamista ha come obiettivo quello di tagliare la lingua a chi ancora pretende di parlare, di esercitare il diritto alla libertà culturale, alla libertà d’espressione, alla possibilità di avere opinioni diverse, di onorare divinità diverse o non onorarne nessuna, il diritto di prendere in giro, il diritto all’ironia, al sarcasmo, all’eresia. Samuel Paty, un professore francese che per insegnare ai suoi studenti il significato della libertà d’espressione ha fatto vedere le vignette di Charlie Hebdo dopo aver avvertito gli allievi musulmani che (ancora questo vizio della libertà) avrebbero potuto disertare la lezione se si fossero sentiti offesi, ha sfidato la legge del terrore: e invece della lingua gli hanno tagliato la testa dopo averlo sgozzato. Non nel mattatoio dell’Isis, ma nel cuore della Francia, con un presidente coraggioso come Macron che non vuole cedere a uno dei principi essenziali della convivenza in un Paese libero e democratico. Dovremmo erigere un monumento a Samuel Paty che non ha avuto paura di svolgere al meglio il suo ruolo di insegnante e di difensore della libertà d’espressione, mentre noi, qui in Italia, con un governo che fa la corte a ogni genere di dittature, siamo talmente paralizzati dalla paura che in alcuni tg la notizia della decapitazione di un professore è stata trattata con una oticina breve e svogliata. Ci dicevano: imparate a convivere con il virus. Non ci siamo riusciti, in compenso abbiamo imparato a convivere, in forme di desolante subalternità, con il terrore, una convivenza che è diventata assuefazione, indifferenza, fastidio anche per quei pochi, come il professor Paty, ora sgozzato e decapitato, che senza voler essere eroi ritenevano che la libertà d’espressione fosse ancora un valore per cui valesse la pena battersi. Eroi gentili, miti, che vogliono solo fare il loro lavoro senza atteggiarsi a profeti e profetesse tonitruanti, come quelli che ora tacciono di fronte allo spettacolo di un insegnante a cui hanno mozzato la testa. Silenziosi per paura, perché quelli del terrore sono forti, feroci, vendicativi. Come il padre di un allievo di Samuel Paty che, facendo il delatore, ha consegnato l’insegnante ai suoi carnefici. Tagliatori di lingue. Tagliatori di teste. Stati Uniti. Lisa Montgomery, la prima donna messa a morte in 67 anni di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 19 ottobre 2020 Lisa Montgomery sarà sottoposta all’iniezione letale l’8 dicembre. Nel 2004 ha ucciso una signora incinta e ha rapito il neonato. Dal 14 luglio l’amministrazione Trump ha ripreso le esecuzioni federali. L’8 dicembre Lisa Montgomery, 52 anni, entrerà nella sala delle esecuzioni del carcere di Terre Haute, in Indiana, per subire l’inezione letale. L’ultima donna a essere messa a morte negli Stati Uniti era stata Bonnie Heady che fu uccisa nella camera a gas di Stato nel Missouri nel 1953. Montgomery è stata condannata per un crimine particolarmente efferato: nel dicembre del 2004 si recò a casa di Bobbie Jo Stinnett, in Missouri, con la scusa di voler adottare un cucciolo di cane. “Una volta dentro l’abitazione - si legge in un comunicato stampa del dipartimento di Giustizia - Montgomery attaccò la signora che era incinta di otto mesi e la strangolò fino a farle perdere conoscenza. Poi prese un coltello da cucina per tagliarle l’addome ma Stinnett reagì, le due donne lottarono e Montgomery ebbe la meglio, riuscì a prelevare il neonato e a scappare”. Nel 2007 una giuria la condannò a morte. La difesa sostiene che la detenuta merita di vivere perché è malata di mente e ha subito abusi da piccola. “Lisa Montgomery si è dichiarata colpevole e non lascerà mai la prigione in cui è rinchiusa - ha detto il suo legale Kelley Henry - ma ucciderla è una profonda ingiustizia dato il suo passato”. Ma tutti gli appelli della donna sono stati respinti. Il 14 luglio l’amministrazione Trump aveva ripreso le esecuzioni federali dopo una moratoria de facto da 17 anni. Da luglio ad oggi sei detenuti sono stati uccisi. Ed oltre quella di Montgomery il dipartimento di Giustizia ha annunciato anche quella di Brandon Bernard condannato per l’uccisione nel 1999 di due giovani pastori in Texas. La sua esecuzione è fissata per il 10 dicembre. Un’altra esecuzione è prevista per il 10 dicembre e riguarda Brandon Bernard, condannato per l’uccisione nel 1999 in Texas di due giovani religiosi. Nel 2019 il Dipartimento carcerario aveva annunciato l’utilizzo di una nuova singola sostanza per le iniezioni letali per evitare nuovi ricorsi legali contro i tre farmaci usati precedentemente. Le associazioni che si battono contro la pena di morte sostengono che il presidente Trump sta spingendo l’acceleratore sulle esecuzioni durante la campagna elettorale per vendersi come il leader che garantisce la legge e l’ordine. Prima del 14 luglio le autorità federali avevano messo a morte solo 3 persone in 56 anni. Gran Bretagna. Il detenuto che fermò una strage è stato graziato dalla Regina agi.it, 19 ottobre 2020 Si tratta di Steven Gallant che in precedenza aveva ucciso un vigile del fuoco davanti a un pub di Londra e per questo scontava una lunga condanna. Steven Gallant scontava una lunga condanna per aver ucciso un vigile del fuoco davanti a un pub di Londra. Dodici anni dopo il delitto il caso aveva voluto che diventasse un eroe: il 29 novembre del 2019 era stato lui a fermare un fondamentalista islamico che aveva deciso di compiere una strage alla Fishmongers’ Hall vicino al London Bridge. Le immagini di Gallant che, armato di una zanna di narvalo, si lanciava all’inseguimento del terrorista e riusciva a fermarlo, avevano fatto il giro del mondo e avevano colpito - tra gli altri - anche la regina Elisabetta che aveva deciso che quell’uomo andava premiato. E l’unico modo per riconoscere la capacità di un uomo di cambiare è dargli una nuova opportunità, così Sua Maestà ha deciso di fare ricorso a una delle prerogative reali per concedere la grazia a Gallant, che aveva già scontato 12 dei 17 anni della sua condanna per omicidio, Gallant, che ha 42 anni, vedrà la sua pena ridotta di 10 mesi e potrebbe uscire il prossimo giugno. La stessa famiglia del pompiere ucciso da Gallant, Barrie Jackson, appoggia la decisione di liberarlo in anticipo. “Ho emozioni contrastanti, ma quello che è successo al London Bridge dimostra la realtà che le persone possono cambiare”, ha detto il figlio di Jackson, Jack, uno studente di 21 anni. Il governo ha spiegato che alla regina è stato consigliato di concedere la grazia in virtù delle “azioni eccezionalmente coraggiose” compiute da Gallant “che hanno contribuito a salvare la vita di tante persone nonostante l’enorme rischio per la sua”. Il 29 novembre dell’anno scorso, Gallant era al suo primo giorno fuori dal carcere e partecipava alla conferenza ‘Learning Together’ organizzata proprio per aiutare i detenuti al reinserimento nella società. All’evento, alla Fishmongers Hall vicino al London Bridge, era stato invitato anche Usman Khan, un 28enne cittadino britannico, in libertà vigilata, nonostante nel 2012 fosse stato arrestato per aver pianificato di mettere una bomba alla Borsa di Londra. Tra gli organizzatori dell’evento c’era Jack Merritt, da pochissimo laureato a Cambridge, coordinatore del programma di reinserimento legato all’istituto di criminologia dell’Università. Khan scelse male il suo obiettivo: in quel momento nella Fishmongers’ Hall (un posto iconico nella cultura imprenditoriale londinese, perché dal 1300 vi si ritrovava la comunità di pescatori) c’erano non solo studiosi, ma anche (e soprattutto) gente con un passato criminale: si presentò con due coltelli da cucina assicurati con il nastro adesivo alle mani e cominciò a colpire a caso; ma invece di affrontare cittadini inermi, si ritrovò circondato da gente che non esitò a reagire. Tra questi, Gallant appunto, il quale imbracciato uno dei cimeli marinareschi esposti nella sala, una zanna di narvalo lunga quasi due metri, si lanciò all’inseguimento dell’aggressore. Khan fuggì lungo il ponte di Londra, dove in tre lo raggiunsero: un uomo con un estintore che gli spruzzò contro la schiuma, uno chef polacco e Gallant “armato” della zanna. Quando arrivarono i poliziotti, scesi da un’auto civetta, Khan era già a terra, sopraffatto, ma gli agenti, vedendo un giubbotto esplosivo, rivelatosi poi finto, aprirono comunque il fuoco. Fu ucciso, ma aveva già seminato la morte, uccidendo due persone e ferendone altre tre. A chiudere il cerchio delle straordinarie circostanze di questa storia di delitto, perdizione e lieto fine il fatto che Gallant conoscesse bene Jack Merritt, il giovane di belle speranze che fu una delle due vittime nell’attentato. Proprio Merritt aveva guidato Gallant nel suo percorso di riabilitazione. “Steve sente un debito di gratitudine verso tutti coloro che lo hanno aiutato a ottenere la grazia. Non vede l’ora di usare le sue conoscenze ed esperienze per aiutare gli altri a evitare il crimine”, ha detto il suo avvocato alla stampa britannica.