Salviamo gli affetti dei reclusi con aree verdi e detenzione domiciliare di Samuele Ciambriello Il Riformista, 18 ottobre 2020 Carcere e affettività sembrano due parole inconciliabili perché, se c’è qualcosa che nega la confidenza e la libertà di espressione dei sentimenti, si tratta proprio del carcere. Carcere deriva etimologicamente dall’ebraico carcar che significa tumulare, quindi richiama un luogo senza tempo che nega la vita. Trattare di affetti in carcere, ancora di più, di sessualità, suscita critiche, imbarazzi, polemiche, oltre che perplessità. Si potrebbe pensare che la sessualità è un aspetto, un sottoinsieme dell’affettività. Invero, sono due concetti distinti che non necessariamente si intersecano: vi può essere affettività senza componente sessuale (si pensi a una relazione genitoriale o tra parenti in linea diretta o, ancora, a una relazione amicale) e sessualità senza affettività quale estrinsecazione della personalità e/o di un’autofilia (si pensi alla fruizione di materiale pornografico). Affettività e sessualità possono essere idealmente prefigurati come due insiemi che si intersecano (con una zona relazionale comune), ma con parti parimenti distinte. Nel carcere, luogo “senza tempo”, vanno declinate l’affettività e la sessualità. È evidente che la problematica dell’affettività (quale bisogno di dare e riceve affetto) e della sessualità (quale dimensione fisiologica e naturale) riguarda tutti i ristretti, ma assume urgenza e pregnanza maggiore per quei detenuti che hanno partner e figli. In questo senso le aree verdi in molti istituti, anche della Campania, sono state introdotte per far sì che i reclusi potessero incontrare familiari e figli e coltivare, negli sguardi e nella vicinanza, il valore della genitorialità, della protezione, della comunicazione non verbale che valorizzi sentimenti ed empatia. Ma solo qualche volta vengono utilizzati questi spazi, più come premialità che come risposte a bisogni. La moderna criminologia ha dimostrato che per vivere la genitorialità c’è necessità di incontri intimi con le persone con le quali vi è un legame affettivo. Non è l’idea dell’amore “a gettoni” o di “celle d’amore”. Fino a 15 anni fa, in Parlamento, sono state presentate diverse proposte di legge in materia, calendarizzate ma mai discusse. La maggior parte degli esperti in materia penitenziaria continua a sostenere che non si possa portare la sessualità all’interno di un luogo come il carcere, ma si debbano piuttosto portare tutti i detenuti al di fuori di esso, attraverso le tante opportunità che consentono di scontare la pena all’esterno: basterebbe ampliarne l’applicazione. Se così si ritenesse di agire (incrementando, per esempio, l’esecuzione penale presso il domicilio), la popolazione detenuta si ridurrebbe notevolmente e, mantenendo, con i dovuti controlli, il detenuto sul territorio, si faciliterebbe il suo reinserimento sociale, annullando anche gli effetti negativi del carcere. Il carcere andrebbe, poi, considerato come ultima ratio, privilegiando l’applicazione di pene socialmente utili. Si dovrebbe, cioè, ridurre la risposta del carcere a quelle situazioni in cui appare veramente indispensabile. Con questo non bisogna certo dimenticare l’altra umanità, quella danneggiata, quella delle vittime. Ciò darebbe avvio al processo di “demolizione” dell’alto muro di cinta che separa il carcere dal mondo civile. Sono enormi, dunque, le difficoltà in cui ci si imbatte nel tentativo di portare la sessualità in carcere. Probabilmente sarebbe più semplice e proficuo aumentare le possibilità di incontro tra i detenuti ed i loro familiari “al di fuori”, se veramente si volesse pensare al loro reinserimento e alla loro riabilitazione. Sarebbe auspicabile, quindi, che al soggetto venisse concessa la possibilità di uscire più spesso dall’istituto per consentirgli di perseguire, rafforzare, tutelare e sviluppare interessi personali, familiari, culturali e sociali. In fondo l’anagramma di carcere è cercare. Stefano, il Covid e le cure ai carcerati di Fabio Anselmo* Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2020 Stefano Cucchi era un detenuto senza diritti ed è morto ammazzato: ora si garantiscano cure adeguate ai carcerati. È una giornata piovosa. Triste ed angosciante. Lo sono sempre queste di ottobre. Non riusciamo a far finta di nulla. Sono gli ultimi giorni di Stefano Cucchi. Sono dentro di noi. Si stanno avvicinando gli anniversari del suo arresto e poi della sua morte. Il 1° ottobre, per giunta, è la data del suo compleanno. In ottobre inizia e termina tutto. In più c’è il Covid che sfiora le nostre vite. Un’emergenza annunciata dopo la “pausa estiva” che ci aveva dato l’illusione che la pandemia fosse già alle nostre spalle. Ha ucciso molte persone. Avevamo tanta voglia di dimenticarle ma quelle immagini terribili dei convogli militari che trasportavano i morti della Lombardia sono ancora ben vive nella nostra memoria. Sicuramente nella mia. Sono stanco. Stanco per tutto. “Il Covid aumenta il disagio psichico”. Dicono che il 63% degli italiani ha avuto disturbi psicologici durante il precedente lockdown. Il nostro Presidente della Repubblica ha detto che la salute mentale è un diritto e che “nessuno venga lasciato solo”. Come sempre, lui è avanti. Chi sostiene che la pandemia “è democratica” perché colpisce indistintamente tutti i cittadini di qualsiasi ceto sociale forse non ha presente la realtà dei fatti. Gli ultimi, i più deboli, quelli in fondo alla scala sociale, hanno mezzi di difesa che non sono paragonabili a quelli in possesso di coloro che, viceversa, hanno situazioni economiche ben differenti. Parlo del diritto alla salute e non posso non associarlo al diritto alla vita, a tutti gli altri diritti fondamentali dell’uomo. Non riesco a non pensare a tutti i detenuti che la vivono ristretti in anguste celle in violazione di ogni norma igienico-sanitaria. Che cosa avranno pensato durante l’apice dell’emergenza? Qual è il loro stato d’animo oggi? Il 6 aprile scorso un contingente di 300 poliziotti di Polizia Penitenziaria è entrato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per una perquisizione terminata con pestaggi e violenze contro i detenuti. Questa era la risposta che dovevamo attenderci dallo Stato? Sicuramente no. Non intendo in alcun modo mancare di rispetto al nostro Paese ma, viva Dio, attendiamo tutti una risposta chiara e netta. Non può essere quella del partito di Giorgia Meloni che ha addirittura proposto un encomio solenne per quegli agenti indegni di portare la loro divisa. Stefano era un detenuto senza diritti e per questo è morto ammazzato. Era un detenuto ignoto come tutti gli altri. La morte lo ha reso famoso. Facciamo sì che a tutta la popolazione carceraria, anonima e indistinta, vengano riservati, in questo “regime di pandemia”, trattamenti e cure adeguati. Degni di uno Stato che giustamente ama definirsi civile e democratico. La risposta non può essere quella dei Fratelli d’Italia. Stiamo parlano di persone che, pur avendo commesso errori, conservano la loro umanità con le loro relazioni e i loro affetti. Se a loro regaliamo cinismo e indifferenza, da loro non possiamo certo aspettarci qualcosa di diverso. Lo Stato c’è, ne sono ancora convinto ma si faccia sentire. Ne abbiamo tutti disperato bisogno. *Avvocato penalista Coronavirus: 85 poliziotti penitenziari e 54 detenuti positivi nelle carceri italiane Il Tempo, 18 ottobre 2020 Gli ultimi dati forniti dall’Amministrazione Penitenziaria ci dicono che sono positivi al virus 85 poliziotti penitenziari e 54 detenuti, quasi tutti seguiti e gestiti internamente agli istituti. 5 sono i positivi tra i “civili”, ossia appartenenti alle Funzioni centrali. Non c’è alcun allarmismo circa il “Coronavirus”, dunque, ma richiamo il Ministero della Giustizia ed in particolare il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a predisporre adeguati interventi a tutela delle donne e degli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, in servizio nella prima linea delle Sezioni detentive 24 ore giorni, e di tutti gli operatori penitenziari”. È l’auspicio di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Dalla Sardegna Luca Fais, segretario regionale Sappe della Sardegna, denuncia che “da circa 10 giorni numerosi poliziotti penitenziari si trovano in isolamento fiduciario in attesa di tampone, al fine di sapere se avrebbero contratto o meno il Covid 19, quando possono rientrare in contatto con familiari e conviventi, ma anche quando possono rientrare al lavoro. Quest’ultimo aspetto potrebbe sembrare di lieve importanza se non fosse che in pieno Covid la Polizia penitenziaria veniva considerata un servizio essenziale, invece ora no, e gli istituti penitenziari possono io essenziale, invece ora no, e gli istituti penitenziari possono restare in estrema carenza organica e fronteggiare le esigenze istituzionali con le risorse rimaste. È sicuramente giusto ed opportuno fare ogni tipo di sacrificio per scongiurare ogni tipo di rischio sulla diffusione del virus ma è inammissibile che i poliziotti penitenziari debbano attendere dieci giorni, e chissà quanti altri, prima di effettuare il tampone”. “Ci risulta”, prosegue Fais, “che il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria, il Direttore del carcere di Uta e lo stesso Dirigente Sanitario incaricato per la struttura abbiano effettuato tutti gli interventi possibili a tutela degli operatori e della struttura, laddove grazie ai dottori Siciliano e Fei, delegati dell’unità di crisi, sono stati fatti rapidamente oltre 500 tamponi ma non riusciamo a comprendere quale sia la posizione dell’ATS nei confronti dei poliziotti che stanno aspettando nelle loro abitazioni che qualcuno si accorga di loro. In altri penitenziari isolani sono stati fatti rapidamente interventi su tutto il personale per presunte esposizioni a persone infette da Coronavirus, pertanto non si spiega tale differenza. Inoltre ci risultano già pronti una notevole quantità di vaccini antinfluenzali che basterebbe assegnargli ai delegati Asl dei penitenziari così da assicurare un rapido intervento per gli interessati. Pertanto è indispensabile che tutte le figure competenti, unitamente alla ATS cagliaritana si adoperino in qualunque modo al fine di supportare i poliziotti ancora a casa in attesa, da dieci giorni, per effettuare il tampone e riprendere a svolgere le attività sociali, familiari e lavorative”. Nelle carceri della Sardegna non c’è alcun detenuto positivo mentre sono 7 i poliziotti affetti da Covid 19: 3 a Cagliari, 1 a Nuoro e 3 a Oristano, dove è risultato positivo anche un impiegato delle Funzioni centrali. Capece torna a sottolineare come “la promiscuità nelle celle può favorire la diffusione delle malattie, specie quelle infettive. Se si considera che un terzo della popolazione detenuta è straniera, autorevoli consessi impegnati nella sanità in carcere, come la Simspe, hanno constatato che con il collasso di sistemi sanitari esteri e con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale. Se in Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie ne abbiamo rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera”. E ricorda che l’Epatite C è tuttora l’infezione maggiormente presente nella popolazione detenuta in Italia. Per il Sappe, dunque, “è indispensabile monitorare costantemente la questione e predisporre ogni utile intervento a tutela dei poliziotti e degli altri operatori penitenziari”. “In smart working metà dei cancellieri? Così si chiude” di Simona Musco Il Dubbio, 18 ottobre 2020 Il presidente del tribunale di Bologna, Francesco Caruso, rompe il silenzio. “Con lo smart working al 50% il tribunale chiude”. A dirlo è il presidente del tribunale di Bologna, Francesco Caruso, che ha contestato l’accordo firmato lo scorso 14 ottobre dal ministero della Giustizia e dai sindacati. Un accordo che prevede, tra le cose più rilevanti, il co-working, l’accesso al lavoro agile per almeno il 50% del personale addetto alle attività cosiddette smartabili anche attraverso il ricorso a meccanismi di rotazione e a modalità orizzontale (prestazione in parte sul posto ed in parte da remoto nella stessa giornata) al fine di favorire il più ampio coinvolgimento del personale, l’individuazione delle attività smartabili e l’obbligo per i dirigenti di individuare ulteriori attività eseguibili da remoto tenuto conto delle peculiarità e del contesto locale, previa contrattazione con le organizzazioni sindacali, la predisposizione di una graduatoria degli interessati all’accesso alla modalità di lavoro agile con precedenza per i lavoratori cosiddetti fragili, lo svolgimento dell’attività in modalità agile anche con le dotazioni informatiche fornite dall’ufficio e la parità di trattamento tra lavoratori on site e lavoratori agili. “Tutti i presidenti di tribunale sono in grande agitazione - ha sottolineato Caruso. C’è il rischio che facciano un pronunciamento, un intervento esterno per dire che questo accordo è impraticabile”. Un accordo, dunque, che presto rischia di essere contestato anche da altri presidenti, responsabili, di fatto, dell’organizzazione degli uffici. E tra loro, stando a quanto afferma Caruso, “c’è una forte preoccupazione che potrebbe preludere ad un comunicato comune” di dissenso nei confronti dell’accordo raggiunto tra via Arenula e le sigle sindacali. Un protocollo che, comunque, lascia tutti scontenti, se è vero, com’è vero, che la Usb ha deciso di non firmare, ritenendo poco tutelati i lavoratori fragili, e che Cgil, Cisl e Uil hanno contestato il mancato inserimento dell’Unep tra le attività smartabili. Per quanto riguarda il tribunale di Bologna “la nostra organizzazione non è compatibile con lo smart working - ha aggiunto Caruso -. Abbiamo già dei problemi gravissimi di personale con una carenza enorme. Non riusciamo a dar corso a tutte le udienze. Abbiamo un 30% di personale mancante. È evidente che non possiamo consentire che ci siano ulteriori distacchi”. Sul fronte dei processi penali sono “11 mila quelli pendenti” con un aumento dovuto al fatto che “per tre mesi non abbiamo lavorato svolgendo solo le attività urgenti”. “Capisco la situazione sanitaria, noi stiamo cercando di assicurare tutte le misure di protezione, ma si verificano degli intasamenti. Dentro il palazzo si creano assembramenti e non si mantengono le distanze, anche se stiamo adottando tutte le misure e le prescrizioni richieste - ha aggiunto -. Noi in questa situazione stiamo chiedendo ai professionisti, gli avvocati lo sanno, di non stare dietro la porta dell’aula d’udienza, ma di sistemarsi nelle sale d’attesa o in cortile. I giudici quando chiamano una causa - ha concluso - se l’avvocato non risponde subito non è che nominano un altro difensore, lo andiamo a cercare, facciamo in modo che nessuno sia pregiudicato dal fatto che dobbiamo comunque stare distanti”. Al via il processo civile telematico in Cassazione di Errico Novi Il Dubbio, 18 ottobre 2020 Bonafede firma l’accordo con magistrati e avvocati. Dal 26 ottobre deposito facoltativo degli atti anche in digitale, sarà obbligatorio da aprile 2021. Il guardasigilli: “Passo nel futuro e risposta alla pandemia”. Al primo posto del Recovery plan nella giustizia, compaiono due voci: edilizia e digitale. Le strutture materiali e quelle immateriali. Il protocollo firmato ieri pomeriggio a via Arenula dal guardasigilli Alfonso Bonafede con i vertici della giustizia di legittimità e con l’avvocatura è un passo nel futuro che prescinde anche dal fondo Ue: con l’intesa infatti entra nel vivo il processo civile telematico in Cassazione. L’accordo prevede la graduale introduzione della modalità “virtuale”, a cui il ministero dedica energie già dal 2018. Primo step ravvicinato: il 26 ottobre la cosiddetta fase sperimentale non riguarderà più solo la Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati (Dgsia) ma anche gli avvocati: si potrà iniziare a depositare gli atti di parte, al fine di “testare la funzionalità del sistema”, come spiega una nota di via Arenula. Da aprile 2021 il deposito degli atti introduttivi per via telematica diventerà, anche presso la Suprema corte, obbligatorio. Modernità ma anche “resilienza” di fronte alla pandemia: sono i due principi- guida del percorso, che con Bonafede vede impegnati gli altri firmatari del protocollo: il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, il procuratore generale Giovanni Salvi, l’Avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli, la presidente del Cnf Maria Masi e il coordinatore dell’Ocf Giovanni Malinconico. L’istituzione forense è coinvolta già dalla fase del cosiddetto “Laboratorio Pct”, che a giugno 2018 ha visto completata l’analisi condivisa tra i protagonisti dell’intesa di ieri. Bonafede sa che il futuro passa anche per la smaterializzazione di tutte le fasi del processo non vincolate alla presenza fisica. Definisce l’accordo sul Pct in Cassazione “un passo fondamentale per accelerare il percorso di modernizzazione e digitalizzazione della giustizia”. Si tratta di rendere tutto più veloce ma anche più sicuro. “Un percorso già ben avviato, come dimostrano i numeri considerevoli registrati dallo sviluppo del processo civile telematico nel giudizio di merito”, ricorda il guardasigilli. E l’impegno appena siglato “si rende ancor più necessario nel periodo difficile che stiamo vivendo a causa della pandemia. La tecnologia a supporto del processo telematico ha consentito nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria di garantire lo svolgimento di un servizio essenziale come quello giudiziario”, tiene ancora a dire Bonafede. Il passaggio previsto a partire dal 26 ottobre è soft: il deposito degli atti, spiega la nota del ministero, sarà sperimentato con il “doppio binario”, vale a dire “per via cartacea e telematica, in cui solo il cartaceo avrà valore legale”. Un decreto che il ministro emanerà a dicembre consentirà, dal mese successivo, il deposito telematico facoltativo ma a valore legale per gli atti introduttivi. Seguirà subito dopo la possibilità di depositare telematicamente a valore legale anche per i magistrati. Naturalmente, oltre ad avvocati cassazionisti e magistrati in servizio presso la Suprema corte, il percorso coinvolge anche le cancellerie, che “con l’avvio della digitalizzazione degli atti di avvocati e magistrati, avranno modo di gestire interamente il fascicolo processuale in modalità telematica”. In tal modo “la qualità e la durata dei processi di lavoro avranno un miglioramento, come già avvenuto in primo e secondo grado”. Sempre a gennaio, col deposito facoltativo ma legalmente riconosciuto degli atti, ci sarà tra l’altro uno specifico impegno della sesta sezione civile, per la quale i ricorsi saranno consultabili digitalmente. Ad aprile, quando il deposito sarà diventato obbligatorio, ci sarà anche un’estensione del desk della Procura generale, che a propria volta avvierà un’integrazione del sistema in grado di aprire la strada all’altra innovazione, il processo penale telematico. Il presidente Curzio ha espresso “soddisfazione”: grazie all’impegno del ministero e alla “collaborazione di tutti i soggetti coinvolti”, ha detto, “sarà possibile completare la digitalizzazione del processo civile, migliorando la qualità del servizio giustizia e del lavoro di tutti e consentendo, in questo momento di emergenza sanitaria, di rafforzare i livelli di protezione e sicurezza”. Lo stesso Pg Salvi parla di “passo importante al quale la Procura generale partecipa con determinazione, augurandosi che presto si possa avviare anche il processo penale telematico”. Salvi ha tenuto a ringraziare “le strutture ministeriali per il generoso impegno profuso”. Con la Dgsia, anche il dipartimento Organizzazione giudiziaria. A riprova che nei ministeri, in silenzio, c’è chi affronta la pandemia con nuove soluzioni, anziché con la paura. Dopo lo scandalo Palamara le toghe scelgono la nuova Anm di Giulia Merlo Il Domani, 18 ottobre 2020 L’elezione che sceglierà la nuova Associazione nazionale magistrati non sarà come tutte le altre. Il voto che si apre oggi incrocia due eventi inediti: il primo è la pandemia, che costringerà per la prima volta a decidere a distanza; il secondo è che si tratta della prima rielezione dopo lo scandalo che ha coinvolto Luca Palamara. Si vota dal 18 al 20 ottobre, parteciperanno 7.100 magistrati che si sono registrati sulla piattaforma che corrispondono al 77 per cento della platea degli aventi diritto. Potranno votare fino a 5 candidati, per eleggere i 36 membri del direttivo, tra i quali si formerà poi la Giunta esecutiva. Le votazioni arrivano dopo un anno travagliato e con la giunta uscente dimissionaria dal maggio scorso: l’attuale presidente di Area, Luca Poniz ha traghettato il sindacato unico delle toghe senza più esercitare i poteri politici. La pubblicazione delle intercettazioni dal cellulare di Luca Palamara ha infatti terremotato l’Anm tanto da modificare gli equilibri nella giunta unitaria, con l’isolamento di Magistratura indipendente e le dimissioni forzate dell’allora presidente, Pasquale Grasso. All’epoca, una parte del “parlamentino” - Magistratura democratica in testa - aveva chiesto lo scioglimento dell’Anm ed elezioni anticipate nella convinzione che, alla luce dello scandalo, la parola andasse restituita agli iscritti. La maggioranza, tuttavia, aveva scelto di proseguire fino a naturale scadenza del quadriennio. Le operazioni di voto cominciano dopo la radiazione di Palamara (già espulso anche dall’Anm) ma in concomitanza di un altro passaggio complicato per la magistratura associata: il 19 e i120, infatti, il plenum del Csm deciderà sul diritto del leader di Autonomia e Indipendenza, Piercamillo Davigo, a continuare a sedere nell’organo di autogoverno della magistratura anche dopo il pensionamento. L’esito elettorale restituirà il quadro dei rapporti di forza tra le correnti. Unicost, il gruppo di cui Palamara era leader, scoprirà se ha ancora un sostegno sufficiente per continuare ad esiste: re autonomamente oppure se lo scandalo ne ha definitivamente scalfito la credibilità, e punta sulla ricandidatura del membro uscente della Giunta, Alfonso Scennino. Magistratura indipendente, invece, è alla prima prova elettorale con una lista in cui sono confluiti come indipendenti i candidati di Movimento per la Costituzione, costola che si è separata da Unicost su spinta di Antonio Sangermano e Enrico Infante, entrambi candidati. Mi, orfana del capocorrente Cosimo Ferri (ora sotto procedimento disciplinare al Csm) e messa all’angolo dalla Giunta uscente, ha l’obiettivo di insidiare l’egemonia di Area. Nelle scorse settimane era sorta anche l’ipotesi che, in caso di un risultato particolarmente positivo, le toghe moderate potessero costituire un sindacato autonomo fuori dall’Anm. Nome forte nella lista è quello del presidente del tribunale dei minorenni di Bologna, Giuseppe Spadaro. Correnti storiche e una novità Anche per Area è la prova della verità: il gruppo dei progressisti punta ad ottenere la maggioranza, ma al suo interno non mancano le tensioni con la corrente Magistratura democratica, che per ora ha scelto di non rompere l’unità. Nella lista sono candidati tre uscenti il presidente Luca Poniz e il membro della Giunta Giovanni Tedesco, ma anche la magistrata di Md, Silvia Albano, che si era dimessa dall’Anm proprio in polemica con Poniz per le mancate elezioni anticipate. Infine, anche Autonomia e Indipendenza vuole pesarsi e punta in particolare sulla candidatura dell’ex togato del Csm, Aldo Morgigni e su quella dell’uscente Cesare Bonamartini. Oltre alle quattro correnti storiche, questa elezione ha visto la presentazione di una nuova lista. Si chiama Articolo Centouno ed è formata dai magistrati che si definiscono indipendenti dalle correnti. L’iniziativa di lista è nata tra gli animatori del sito toghe.blogspot, capitanati dal giudice di Ragusa Andrea Reale, già in passato membro dell’Anm. I votanti potranno anche decidere di astenersi, non votando nessuno dei candidati in lista, oppure di annullare il loro voto, cuccando su “voto nullo”. Anche questa scelta - insieme al numero di quanti non voteranno - misurerà la credibilità che il sindacato continua ad avere per gli iscritti. Mafie. L’Onu vota la “risoluzione Falcone”. di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 18 ottobre 2020 Il metodo del giudice ispirerà la lotta alle mafie del mondo. A Vienna, nel corso della Conferenza delle Parti, approvato all’unanimità il documento italiano che pone l’eredità lasciata dal magistrato a fondamento della lotta alle mafie. È il primo atto di questo genere che valorizza il contributo di una singola personalità. Un ponte virtuale che collega Palermo a Vienna ma attraversa 190 Paesi di tutto il mondo. Non è una infrastruttura visionaria ma è ciò che oggi in Austria è stato costruito per la lotta alle mafie di tutto il mondo: nel nome di Giovanni Falcone e delle sue straordinarie intuizioni investigative. È stata infatti approvata all’unanimità la risoluzione italiana presentata nella capitale austriaca durante la quattro giorni della Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale. È il sogno che si avvera del giudice siciliano che, già negli anni Ottanta, aveva compreso il rischio che la criminalità organizzata diventasse un problema globale ma non aveva gli strumenti legislativi perché non c’era uno straccio di norma che prevedesse l’impegno corale degli Stati. La risoluzione è nota come la “Convenzione di Palermo”, ratificata nel 2000, che fu il primo strumento legislativo universale contro la criminalità organizzata transnazionale. È stato l’unico strumento legalmente vincolante a livello mondiale contro la criminalità organizzata transnazionale. Proprio Falcone aveva intuito - grazie anche al lavoro del vicequestore Boris Giuliano poi ucciso alle spalle dal boss Leoluca Bagarella - che più che le persone bisognava seguire il fiume di denaro “sporco” che generavano e il suo “follow the money” è diventata la pietra miliare di tutte le indagini in tema di malaffare nel mondo. Un “metodo” che neanche tutto il tritolo utilizzato, il 23 maggio del 1992, per ucciderlo a Capaci hanno fermato. Un attentato, voluto dalla mafia stragista del clan dei corleonesi, nel quale morirono anche la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Nel nome di Falcone - Del resto che il giudice Giovanni Falcone fosse un’icona della lotta alle mafie non solo in Italia ma in tutto il mondo lo testimoniano due fatti: poco dopo l’attentato di Capaci del 1992 il Senato americano approvò una risoluzione che definiva la morte di Falcone “una profonda perdita per l’Italia, per gli Stati Uniti, per il mondo”. Del resto il magistrato siciliano si era messo in luce con inchieste che avevano toccato nel vivo gli Usa come il processo “Rosario Spatola+119” oppure collaborando con la grande inchiesta denominata “Pizza Connection” che accertò l’immenso traffico di cocaina tra gli Stati Uniti e l’Italia e i milioni di dollari depositati. Il processo che riuscì a inchiodare a 45 anni di carcere il boss Gaetano Badalamenti fu possibile proprio grazie al “metodo Falcone” sulle inchieste economiche. C’è di più in Virginia alla Quantico Fbi Academy - la più famosa scuola al mondo per la formazione di investigatori d’eccellenza - due anni dopo fu posto nel Giardino della Memoria, adiacente all’ingresso, un busto in bronzo che raffigura il magistrato palermitano. La colonna su cui sorge è spezzata, a raccontare un lavoro interrotto, e, a terra, vi è appoggiato uno scudo che sul quale è scolpita una bilancia, simbolo della Giustizia. Chissà se oggi quel lavoro invece sarà il “motore” per alzare il velo delle mafie specialmente in Paesi che sono ancora indietro nel contrasto. Fbi che, nel 2013, ha voluto ribadire l’importanza del giudice dedicandogli la “Giovanni Falcone Gallery” nel quartier generale di Washington in cui si sottolinea come la sua “inesorabile determinazione abbia ispirato milioni di persone con la speranza che la giustizia e il rispetto della legge possano prevalere un giorno contro la criminalità e il terrorismo”. Tornando a Vienna, la risoluzione è stata approvata alla fine di una quattro giorni a cui hanno partecipato, in gran parte da remoto, rappresentanti diplomatici e Ong di 190 Stati che hanno discusso dello stato della lotta alle mafie nel mondo e di come migliorare e rendere più efficace la Convenzione di Palermo. La delegazione italiana era costituita dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dall’ambasciatore italiano Alessandro Cortese, dal consigliere giuridico Antonio Balsamo, e dal primo segretario Luigi Ripamonti. Per l’Italia sono intervenuti anche il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho, il procuratore generale di Roma Giovanni Salvi, il capo della Polizia Franco Gabrielli e il viceministro agli Esteri Marina Sereni. Al dibattito hanno partecipato anche Ong italiane, come la Fondazione Giovanni Falcone, il Centro Pio La Torre e Libera che hanno raccontato le loro esperienze in prima linea sul territorio. Nella risoluzione si rende un “omaggio speciale a tutti coloro, come il giudice Giovanni Falcone, il cui lavoro e sacrificio hanno aperto la strada all’adozione della Convenzione”, si sottolinea “che la loro eredità sopravvive attraverso il nostro impegno globale per la prevenzione e la lotta alla criminalità organizzata” e si esprime “seria preoccupazione per la penetrazione di gruppi criminali organizzati nell’economia lecita e, a questo proposito, per i crescenti rischi legati alle implicazioni socioeconomiche della pandemia del coronavirus (Covid-19)”. L’unanimità e le novità - Alla fine la risoluzione è stata approvata all’unanimità e contiene proposte che hanno messo - nero su bianco - l’importanza dell’eredità lasciata da Giovanni Falcone, pioniere della cooperazione giudiziaria nel contrasto ai clan, nella lotta alle mafie nel mondo. Un vero e proprio evento storico perché è la prima volta che in una risoluzione viene valorizzato il contributo di una singola personalità. Tra i “suggerimenti” indicati nel documento italiano agli Stati: l’adozione delle misure patrimoniali - sequestri e confische - che dal 1982 in Italia si rivelano uno strumento utilissimo nella lotta ai clan, l’uso sociale dei beni tolti alle mafie, l’invito alla costituzione di corpi investigativi comuni che facciano uso delle più moderne tecnologie (importanti soprattutto nelle inchieste sui traffici di migranti), l’estensione della Convenzione di Palermo a nuove forme di criminalità come il cybercrime e i reati ambientali ancora non disciplinati da normative universali e il potenziamento della collaborazione tra gli Stati, le banche e gli internet provider per il contrasto alla criminalità transnazionale. La Convenzione inoltre, per la prima volta, dà una definizione di criminalità organizzata applicabile alle mafie di tutto il mondo, parla di assistenza giudiziaria reciproca e promuove la cooperazione tra le forze dell’ordine, prevede una serie di impegni per gli Stati firmatari. “Seguire il denaro” - Nel documento, inoltre, si invitano gli Stati a condurre indagini economiche, a “seguire il denaro” con strumenti di indagine finanziaria e a identificare e interrompere qualsiasi legame tra criminalità organizzata transnazionale, corruzione, riciclaggio e finanziamento del terrorismo e a utilizzare la Convenzione di Palermo come base giuridica per un’efficace cooperazione internazionale finalizzata al sequestro, alla confisca dei guadagni illeciti indipendentemente dalla condanna penale. Il celeberrimo “Follow the money” nacque anche grazie alle straordinarie qualità investigative del capo della mobile di Palermo, Boris Giuliano. Nel 1978, trovò diversi assegni nelle tasche di Giuseppe Di Cristina: erano tutti del medesimo importo ed erano intestati a dei prestanome. Poi si scoprì che lo erano di diverse cosche mafiose. Quindi, l’anno dopo, inizia a indagare su un altro fatto “singolare”: nello scalo palermitano di Punta Raisi viene dimenticata sul nastro dei bagagli una valigia con oltre mezzo milione di dollari. Qualcosa inizia a non quadrare e iniziò a indagare sulla famiglia dei corleonesi che sino ad allora erano considerati “viddani”, cioè gente di campagna. Nulla a che vedere con i modi più “felpati” di Stefano Bontade, “il principe di Villagrazia”. Il messinese Giuliano era uno “sbirro da strada” fiutava prima di chiunque i criminali e i loro sporchi affari ed era anche “moderno” perché capiva che bisognava specializzarsi. Non a caso aveva frequentato un master dell’Fbi. Per Riina stava diventando un vero ostacolo e, nel 1979, gli fece sparare alle spalle mentre pagava un caffè al bar. Per freddarlo diede l’incarico direttamente a suo il cognato Leoluca Bagarella, un killer spietato. Palermo ben presto divenne un campo da battaglia per i corleonesi che fecero piazza pulita non solo della “vecchia mafia” del capoluogo siciliano ma di chiunque potesse intralciare la loro ascesa. Poco importava se fossero poliziotti, carabinieri, prefetti, magistrati o giornalisti come Mario Francese. Falcone capisce che gli assegni o la valigia su cui indagò Guliano non erano casi isolati ma che proprio dai soldi bisognava partire per inchiodarli. Nel 1980, istruì il procedimento penale contro Rosario Spatola, sino ad allora un danaroso costruttore con oltre 400 dipendenti, accusandolo di essere al centro di un grosso traffico di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove cinque “famiglie” avevano il monopolio di armi e droga. Nacque in quegli anni la grande collaborazione con la magistratura statunitense, la Dea e l’Fbi e, ora dopo ora, Falcone capì la potenza economica della mafia che aveva superato i confini della Sicilia e dell’Italia. Capì che indagare solo a Palermo era molto limitante perché bisognava colpire i capitali riciclati, ripuliti e detenuti nei “forzieri” di banche di tutto il mondo. Il giudice siciliano spesso diceva che se il traffico di droga non lascia quasi tracce, il denaro ottenuto non può non lasciare dietro di sé delle tracce fra chi fornisce gli stupefacenti e chi li acquista. Nacque così il “metodo Falcone” con accurate e mirate indagini bancarie che partono dalla Sicilia e si triangolano con Stati Uniti, Canada e istituti di credito che, a quei tempi, disponevano del segreto bancario considerato inviolabile. Il “pool” e l’eredità - Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano certamente le punte di diamante del “pool antimafia” fortemente voluto da un altro grande magistrato siciliano: Nino Caponnetto. Un’intuizione - la sua - tanto semplice quanto geniale: un nucleo di magistrati che non si occupavano più di singoli procedimenti ma che condividevano tutte le informazioni perché se la mafia si muoveva sul territorio con un progetto unitario e verticistico, la risposta dello Stato non poteva essere parcellizzata. Da questa scambio incessante di informazioni nacque un capolavoro giudiziario assoluto come il maxiprocesso di Palermo che portò alla condanna di 346 persone. “L’idea di cooperazione nasce proprio da quel “pool” - spiega Giuseppe Antoci, presidente onorario della Fondazione Caponnetto ed ex presidente del Parco dei Nebrodi, scampato ad un attentato mafioso nel maggio 2016 - se funzionava a Palermo, poteva essere replicato su vasta scala mondiale. Era proprio il sogno di Giovanni Falcone quello di investire sulla cooperazione internazionale per la lotta alle mafie. Era anzi uno dei punti essenziali, secondo il giudice, che avrebbe consentito di attuare tutti gli accorgimenti necessari per un’operazione a più ampio raggio contro le mafie nel mondo. Adesso avanti con la cooperazione internazionale sulla lotta alle mafie che può rappresentare quel salto di qualità per consentirci di affrontare il tema come problema globale, così come di fatto sono ormai diventate le mafie”. Le reazioni - “Giovanni Falcone credeva fermamente nella necessità di creare un fronte comune, una mobilitazione mondiale contro le mafie”, spiega la sorella Maria che presiede la Fondazione intitolata al magistrato. “Al centro della sua visione c’è sempre stata la necessità di investire sulla cooperazione internazionale nel contrasto al crimine organizzato - aggiunge. Nella risoluzione approvata a Vienna, frutto del prezioso lavoro del nostro Paese, sono recepite molte delle sue idee: dalla necessità di colpire i patrimoni illegali e di seguire i flussi di denaro, al potenziamento della cooperazione giudiziaria internazionale, alla costituzione di pool investigativi comuni a più Stati che potrebbero essere decisivi nella lotta alle organizzazioni transnazionali di trafficanti di uomini. Quello raggiunto alla Conferenza delle Parti è un traguardo di cui essere orgogliosi”. Grande soddisfazione l’ha espressa anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Quale capo della delegazione italiana l’approvazione della risoluzione non può che essere per me motivo di grande orgoglio”. “La lungimirante visione di Falcone - ha concluso il ministro - ha gettato le basi per questo straordinario risultato: oggi 190 Paesi del mondo hanno unito le forze e combattono insieme, in modo sempre più efficace, le mafie”. Perché per combattere le mafie - per dirla come un altro grande magistrato come Gian Carlo Caselli - non basta arrestare la struttura “militare” ma anche le cosiddette “relazioni esterne”: i pezzi collusi di politica, economia e Istituzioni. Combattere davvero la mafia significa intervenire sull’uno e sull’altro versante anche perché le “relazioni esterne” sono la vera spina dorsale e, contemporaneamente, la corazza protettiva dell’organizzazione criminale. La ‘ndrangheta trentina e le cene con i magistrati di Giovanni Tizian Il Domani, 18 ottobre 2020 I clan originari della Calabria hanno conquistato le valli alpine fin dagli anni Ottanta, nel silenzio generale. Tra affari nelle cave di Porfido, complicità imprenditoriali e politiche, agganci in tribunali e procure. Poche case, le Alpi che circondano la valle dove sorge un lago, il lago Lases. Lona Lases è un paese di nemmeno 900 abitanti nella Val di Cembra, una ventina di chilometri a nord est di Trento. È in questa pianura incastonata tra le montagne al confine con l’Alto Adige che si è radicata la ‘ndrangheta calabrese, che qui ha perso la connotazione territoriale per diventare una ‘ndrangheta trentina. La stessa mutazione avvenuta in Lombardia, Emilia, Piemonte, Liguria, Germania. La mafia calabrese è maestra in questo genere di trasformazioni genetiche. Una mafia capace di attrarre imprenditori di primissimo piano, generali, cavalieri del lavoro, politici e persino magistrati con ruoli di vertice negli uffici giudiziari di Trento. Andiamo con ordine e partiamo dai soldi, che alimenta relazioni e mercanzia di favori. La ‘ndrangheta in Trentino si è insediata “negli anni Ottanta”, scrive il giudice per le indagini preliminari che ha firmato l’ordinanza di arresto per 19 persone, coinvolte nella recente inchiesta condotta dalla procura antimafia di Reggio Calabria, dal Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri guidato da Pasquale Angelosanto e dalla guardia di finanza. Tra gli indagati anche ex primi cittadini ed ex parlamentari. L’affare delle cave. Il capo del clan trentino è un calabrese: si chiama Innocenzo Macheda, detto “Cecio”, espressione del potente clan Serraino, che domina in un paese di nome Cardeto a pochi chilometri da Reggio Calabria. Serraino è una famiglia che ha segnato la storia criminale della ‘ndrangheta soprattutto tra gli anni Settanta e Novanta. Erano nell’olimpo dell’organizzazione e potevano contare su agganci politici e massonici. Macheda, dunque, porta con sé nelle valli trentine una storia di tutto rispetto. “Era inevitabile che nel mirino” dei boss finisse una delle risorse più pregiate del territorio: le cave di porfido della Val di Cembra, una pietra pregiata definita oro rosso. E in effetti, sottolineano i detective dei carabinieri del Ros, “gli inquisiti hanno acquisito il monopolio locale nei settori dell’estrazione e lavorazione del porfido”. E quando si entra nel giro giusto si aprono anche le porte delle istituzioni: “Sono riusciti a conseguire cariche istituzionali sia nell’ambito amministrativo che in quello della politica locale, ricoprendo ruoli strategici nei consigli comunali condizionando elezioni e scelte delle amministrazioni”. La ‘ndrangheta nelle valli alpine si è imposta non con la forza delle armi, ma realizzando “una rete di attività relazionali con esponenti delle istituzioni locali, anche di elevato livello e ha costituito un’associazione - “Magna Grecia” - destinata a darle una veste di autorevolezza e rispettabilità nel tessuto sociale”. Dalla Lombardia all’Emilia la strategia dei padrini non cambia: si presentano come imprenditori, finanziando iniziative, organizzando eventi culturali e sociali. E sono in molti a credere, per convenienza, a questa identità pulita, depurata dai crimini del passato. Porfido e voti Il sindaco di Lona Lases è stato eletto nel 2018 per una manciata di voti, appena sei, raccolti per lui dal clan, sostengono i magistrati. Voti decisivi: alle elezioni del 2018 correva solo la sua lista e se non si fosse raggiunto il quorum non sarebbe stato eletto. In consiglio comunale è entrato anche Pietro Battaglia, uomo della cosca, che oltre a gestire le entrate delle aziende attive nelle cave di Porfido, “procacciava voti per le elezioni comunali di Lona Lases del 2018, riuscendo nell’intento di far eleggere Roberto Dalmonego a sindaco”. Il primo cittadino di Lona Lases è un cinquantenne, dipendente della federazione trentina allevatori, già sindaco da11995 al 2002 e a capo dell’Asuc di Lases. Le Asuc trentine sono nate nel’87 con l’obiettivo di rappresentare gli associati “davanti alle Autorità costituzionali ed amministrative dello Stato, della Regione, della Provincia e degli altri Enti”. Oltre e Dalmonego è indagato Mauro Ottobre, del partito autonomista trentino, deputato fino al 2018: “A novembre vota ottobre”, era il suo slogan elettorale. I clan gli avrebbero promesso un pacchetto di voti per le elezioni provinciali del 2018. “Sono sereno e tranquillo e confido nel lavoro della magistratura”, ha commentato. Sotto inchiesta è finito anche l’ex sindaco di Frassilongo Bruno Groff. Con gli uomini della cosca avrebbe organizzato una cena per ottenere voti. Cavalieri e magistrati Magistrati, prefetti, primari. Per interloquire con questi mondi è necessaria una cerniera che saldi due mondi, quello istituzionale e quello criminale. Secondo i carabinieri del Ros questa cerniere corrisponde al nome di Giulio Carini, imprenditore, nominato cavaliere della Repubblica due anni fa e personaggio molto noto nella provincia di Trento. “L’associazione mafiosa calabro-trentina provvede a darsi anche una facciata di rispettabilità. Allo scopo lavorano non solo l’Associazione Magna Grecia, ma anche Giulio Carini, vero e proprio faccendiere in grado, anche per livello professionale e culturale, di attrarre nella sua ragnatela personaggi di spicco, che possono tornare utili”. Il cavalier Carini frequenta l’ex prefetto di Trento, ufficiali, politici, medici e magistrati di alto rango. Con loro imbastisce pranzi e cene a base di capra, piatto tipico della provincia di Reggio Calabria. Per dirne una: le intercettazioni rivelano che con il presidente del tribunale di Trento, Guglielmo Avolio, si chiamano “compari”. Con Amelio e con un sostituto della procura generale, Giuseppe De Benedetto (prima alla procura di Trento), organizzano una cena al ristorante Clandestino. Secondo gli inquirenti, “scopo di Carini nell’imbastire il convivio è verosimilmente quello di cercare di attingere notizie, in relazione all’avviso di proroga indagini per il reato di associazione mafiosa che gli è stato erroneamente notificato”. Il giudice Avolio però non è in contatto soltanto con Carini. Un altro indagato, Domenico Morello, racconta di un secondo incontro conviviale, durante il quale avrebbe voluto chiedere al presidente alcune questioni importanti su una vicenda giudiziaria. “Verso il 20 sarà a cena col presidente del Tribunale, con diversi amici, lo porterà da parte, e intimandogli di porre fine a questa vicenda, in quanto si è rotto i coglioni”, scrivono i detective dell’Arma. Storie di un Trentino oscuro e sconosciuto. Pittelli torna a casa, dopo 10 mesi di carcere duro cadono tutte le accuse di Gratteri di Piero Sansonetti Il Riformista, 18 ottobre 2020 L’avvocato Giancarlo Pittelli è stato scarcerato. Torna a casa, ai domiciliari, col braccialetto. Dopo dieci mesi nei quali era stato messo alla tortura, nella prigione di Nuoro in regime di carcere duro. Le accuse, una dopo l’altra, si erano sgretolate. Era rimasta solo quella, vaga come sempre, di concorso esterno in associazione mafiosa. Però erano spariti i reati che questa associazione avrebbe commesso. Si può - a rigor di logica - partecipare, seppure esternamente, ad una associazione a delinquere che non commette né progetta delitti di alcun tipo? E la logica può o deve avere a che fare con il diritto e la legge? Sono domande difficili. Finora nessuno ha risposto. Siamo a Catanzaro, procura di Catanzaro, regno di Gratteri, potere di Gratteri, logica e diritto di Gratteri. Non cercate di capire, è impossibile… Ieri comunque il tribunale del riesame ha preso in considerazione l’ennesimo ricorso degli avvocati di Pittelli e ha ordinato che fosse liberato dai ceppi. Comunque è una notizia molto positiva, soprattutto perché Pittelli stava parecchio male, era allo stremo. Il nostro giornale nei mesi scorsi ne ha parlato spesso, senza riuscire a farsi ascoltare da nessuno, però. Giancarlo Pittelli è un ex parlamentare di centrodestra e un avvocato molto conosciuto in Calabria. È stato arrestato pochi giorni prima dello scorso Natale nell’ambito della famosa inchiesta Rinascita Scott. Insieme ad altre centinaia di persone. Fu una delle retate più massicce della storia della Repubblica. E il Procuratore di Catanzaro se ne vantò a lungo, accennò a un paragone tra se stesso a Falcone. È ragionevole questo paragone? Beh, lasciamo stare i giudizi soggettivi, proviamo a guardare qualche dato di fatto: Falcone in una decina d’anni di lavoro diede a Cosa Nostra dei colpi micidiali. Cosa nostra all’inizio degli anni 80 era l’organizzazione criminale più potente del mondo, e dominava la politica italiana. Quando Falcone morì, nel 1992, Cosa Nostra era alle corde, sfibrata dal lavoro giudiziario di Falcone, e negli anni successivi fu definitivamente annientata. Gratteri invece ha iniziato a lavorare in Calabria quando la ‘ndrangheta era un gruppo di piccole bande che vivevano nelle campagne del reggino. Oggi la ‘ndrangheta, dopo una quindicina d’anni di lavoro faticoso delle Procure con le quali era impegnato Gratteri, è diventata l’organizzazione criminale più potente del mondo. Però l’avvocato Pittelli è stato sbattuto in galera. La ‘ndrangheta spadroneggia, sì, ma almeno adesso c’è un avvocato fuorigioco. Pittelli è stato accusato di tre reati. Il primo è rivelazioni di segreti. Avrebbe informato un suo assistito di una interdittiva in arrivo, notizia ottenuta da un colonnello dei carabinieri. La Cassazione però ha accertato - abbastanza agevolmente - che la notizia di quella interdittiva era pubblica. Niente segreto: il reato è caduto. Secondo reato: abuso d’ufficio. Pittelli avrebbe convinto sempre il solito colonnello a “lasciare decantare” un provvedimento a carico di nuovo del suo assistito. C’è una intercettazione che è la base dell’accusa. Il provvedimento fu insabbiato? No, eseguito a tempo di record sei giorni dopo la telefonata. Ma la Procura non lo sapeva. La Cassazione ha fatto decadere anche questo reato. Resta il reato per tutte le stagioni: concorso esterno. Perché? Perché in una intercettazione risulta che Pittelli conosceva una frase pronunciata da un mafioso nel suo interrogatorio. Chi gliela aveva detta? La mafia? No: era uscita sui giornali…Ci sarebbe il reato di concorso esterno in lettura dei giornali… Comunque dieci mesi in cella di massima sicurezza li ha fatti. Credo che abbia pensato al suicidio. È stato abbandonato quasi da tutti, tranne che da Sgarbi. Ora è libero. Molto probabilmente verrà assolto anche in primo grado. Auguri. E auguri a tutti noi perché non ci capiti qualcosa di simile. I pm hanno il potere per far passare a chiunque i guai che ha passato Pittelli. C’è da aver paura? Direi di sì. Ne sa qualcosa l’ex procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, che espresse qualche dubbio sulla retata di Gratteri e nel giro di poche settimane fu degradato sul campo e spedito in punizione a 1.000 chilometri da casa sua a Torino. Venezia. Cooperativa Rio Terà dei Pensieri, per progettare una nuova vita di Rossella Avella interris.it, 18 ottobre 2020 Liri Longo, presidente della Cooperativa Rio Terà dei Pensieri, racconta il tempo della detenzione. Come ridare dignità alle persone che vivono dietro le sbarre, con un occhio al futuro, per uscire sempre uomini e donne migliori. La detenzione non è solo quel periodo della vita in cui bisogna scontare la pena per un reato compiuto. I detenuti trascorrono periodi più o meno lunghi dietro le sbarre per prepararsi ad una nuova vita. Il carcere non è esclusione, il carcere deve fare da ponte tra la vita che si svolge all’interno dell’istituto e la vita fuori. Per questo anche a Venezia, come in tante altre carceri italiane dal 2009 all’interno del carcere maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia è attiva Rio Terà dei Pensieri. Una cooperativa che con i suoi progetti coinvolge alcuni detenuti coordinati da un educatore, in un percorso lavorativo che può portare alla loro assunzione una volta terminato il periodo di detenzione. Nel 2013, come sviluppo di questa attività e per dare continuità all’inserimento lavorativo dei detenuti, è nato anche un laboratorio di riciclo PVC esterno al carcere. Le Malefatte di Venezia di Liri Longo - Interris.it ne ha parlato con la presidente della Cooperativa Rio Terà dei Pensieri Liri Longo: “Le malefatte è un progetto di una cooperativa sociale che si chiama Rio Terà dei pensieri, nata appunto 26 anni fa e che ha dato vita alle attività nel carcere maschile e femminile di Venezia. La scelta che è stata fatta da subito è stata quella di legarsi al territorio in cui si trova. Per questo sin da subito siamo andati a riprendere delle aree abbandonate per rivalutarle. Tra queste abbiamo scelto la zona verde intorno ad un ex convento situato sull’ isola della Giudecca di Venezia che era stata abbandonata da quando era diventato carcere. La cooperativa ha rilevato la zona e l’ha trasformata in un orto ed oggi funziona come sede lavorativa per le nostre detenute”. La storia di Rio Terà dei Pensieri - La Cooperativa Sociale Rio Terà dei Pensieri è stata costituita nel 1994 e annovera tra i propri soci sia detenuti che persone libere. Le attività sono iniziate per offrire alle persone detenute un’alternativa alla cella, in un’ottica prevalente di risocializzazione e attingendo alle risorse del volontariato. L’obiettivo della Cooperativa è proprio quello della formazione professionale e del lavoro, considerandoli gli strumenti principali per avviare percorsi di responsabilizzazione ed inclusione sociale. I detenuti e le detenute quindi, anch’essi soci lavoratori della cooperativa, coadiuvati da docenti, collaboratori e volontari, producono oggi articoli serigrafati, borse e accessori in PVC riciclato, creano linee di cosmetici e coltivano ortaggi biologici. Il loro lavoro viene commercializzato sia attraverso la vendita al dettaglio che commissioni pubbliche e private. Una vita oltre le sbarre - “Il nostro laboratorio è aperto a chiunque voglia condividere il nostro impegno sociale. Collaboriamo con il settore pubblico e privato, aziende, associazioni, in eventi e manifestazioni. Per la post detenzione abbiamo alcune opportunità. Tra queste un laboratorio di produzione di borse. Investiamo molto nella voglia di riscatto delle persone, perché ognuno merita una seconda possibilità per ricominciare”. Un percorso di “riabilitazione” alla vita - “Il percorso di rinascita deve partire dalle persone, bisogna cercare di fare di questo tempo un periodo che faccia cambiare tutti, uscendo diversi. In questo senso trovare durante la detenzione, un interlocutore come la cooperativa offre un’opportunità per queste persone per credere anche in questo cambiamento che si concretizza nel rispetto delle regole. Inoltre si acquisisce fiducia in sé stessi e poi si comincia a percepire del reddito che aiuta a riacquistare la dignità di uomini e donne. In ultimo, ma non per ultimo, forniamo assistenza sempre in quanto operatori che possiamo offrire occasione di scambio sui vari aspetti della vita”. Roma. Oggi la maratona dei runner dei diritti: “In marcia per Stefano Cucchi” di Marino Bisso La Repubblica, 18 ottobre 2020 Ad aprire la staffetta saranno i volontari di Baobab con la tappa dedicata all’accoglienza. Dal Parco degli Acquedotti fino a piazza Montecitorio si alterneranno tanti attivisti delle associazioni promotrici del Memorial: da Amensty e Emergenzy alla Uisp ad Antigone alla Fiom e a molte altre. Ad aprire la staffetta dei diritti saranno i volontari di Baobab con la tappa dedicata all’accoglienza. Tra i runner anche Zerocalcare che coprirà ben tre tappe e correrà nel nome delle garanzie costituzionali, con Fabio Anselmo, e poi a difesa dei diritti umani e della salute. Ma ad alternarsi nella maratona, dal parco degli Acquedotti fino a piazza Montecitorio, ci saranno tanti attivisti delle associazioni promotrici del Memorial Stefano Cucchi: da Amnesty e Emergenzy alla Uisp ad Antigone alla Fiom. Ognuna con addosso le magliette rosse distribuite in questi giorni a Casetta Rossa nuovamente a rischio sfratto. Ognuna impegnata a difendere un diritto irrinunciabile: da quello alla salute, all’ambiente fino a quello al lavoro. Così domenica 18 ottobre il 6° Memorial Stefano Cucchi culmina con la Staffetta dei Diritti. “Sono 11 tappe a rappresentare 11 diritti negati, 11 battaglie di civiltà. Una passeggiata non competitiva di 31 km. Quest’anno il Memorial Stefano Cucchi è diffuso con diversi eventi che hanno al centro i diritti negati e i diritti civili e sociali da rivendicare per tutti e tutte” spiegano il Comitato Promotore Memorial Stefano Cucchi e l’Associazione Stefano Cucchi. La partenza della staffetta è alle ore 15 in viale Appio Claudio (ingresso Parco degli Acquedotti). A dare il via ci saranno la famiglia Cucchi, Fabio Anselmo e le associazioni e i comitati che hanno aderito all’iniziativa, la Banda Fanfaroma e Carlo Picozza per la Rete NoBavaglio. La staffetta farà tappa a via Lemonia - via Serafini (Giardino Stefano Cucchi) a rappresentare il tema dell’Accoglienza con i runner di Baobab, Coop Diversamente, Accademia Popolare dell’Antimafia e dei Diritti per poi arrivare a Largo Petazzoni, passando per Piazza Don Bosco, Piazza dei Consoli, Piazza dei Tribuni, e attraversando il Quadraro vecchio su Via dei Quintili con il tema Libertà di essere (Diritti Lgbtq) con l’Associazione culturale Colibrì. La tappa successiva sarà il Parco delle Energie che simbolicamente si rifà al tema del Reddito universale con gli sportivi della Uisp Roma, passando dentro Tor Pignattara e facendo via Filarete, piazza Malatesta e spuntando da via Gattamelata. Le altre tappe sono piazzale del Verano con il tema Ambiente con gli staffettisti di Liberi Nantes, Piazza Indipendenza con al centro il tema contro la Violenza di genere e il patriarcato con Collettivo UnaVoltaPerTutte, via XX Settembre con la Casa e Diritti sociali. Da lì sarà la volta dei Diritti dei detenuti con gli attivisti di Antigone Lazio, passando per piazza Barberini, via Sistina e tutta la passeggiata del Pincio fino al Pincio, per poi scendere in Piazza del Popolo e da lì attraversare il Tevere e andare verso via Fornovo, dove si parlerà del Diritto al lavoro e dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici con i runner di Fiom Roma e Lazio e di Libera Municipio VII. La staffetta continuerà per piazza Cavour per raggiungere via Arenula con il tema delle Garanzie costituzionali e correre ci saranno Fabio Anselmo, i volontari di ACAD e Michele Zerocalcare. Al tema dei Diritti umani farà da cornice l’Isola Tiberina con gli staffettisti di Amnesty International, ACAD e Michele Zerocalcare. Il tema del Diritto alla salute è la penultima tappa con Emergency, ACAD, Michele Zerocalcare e Matemù. Dal Fatebenefratelli passando davanti Bocca della Verità - Teatro Marcello - Piazza Venezia - via del Corso si arriverà a piazza Montecitorio, nei pressi del Parlamento, alle ore 17.30 per la conclusione della staffetta con gli interventi di Ilaria e della famiglia Cucchi, di Fabio Anselmo e delle associazioni e dei comitati”. “La staffetta toccherà alcune tappe di forte valenza simbolica in relazione al percorso di sofferenza che ha portato Stefano verso la morte - spiegano i promotori - Se ogni settore dello Stato coinvolto avesse svolto il compito assegnatogli dalla Costituzione, Stefano non solo non sarebbe stato ucciso, ma avrebbe avuto diritto al suo riscatto umano e civile, avrebbe avuto il diritto ad una vita giusta”. Le associazioni che hanno aderito finora sono: Amnesty International, Fiom Roma e Lazio, ACAD, Associazione Stefano Cucchi Onlus, Associazione culturale Comunitaria, A buon diritto, Articolo 21 Associazione Via Libera, Rete NoBavaglio, Emergency Gruppo Appio Tuscolano, Emergency Gruppo Eur Casetta Rossa Spa, Antigone Lazio, Comune-Info, UnaVoltaPerTutte, PID Onlus, UISP Roma, CSOA Spartaco, Associazione Culturale Colibrì, Libera Presidio Roma VII, Runner Trainer Roma, Quadraro Gym, Baobab Experience, Liberi Nantes, Centro Giovani e Scuola d’Arte MaTeMù di CIES Onlus,Cittadinanzattiva, Villetta Social Lab, CSOA La Strada, Terra! Onlus, Coop Diversamente, CinemUp, DaSud, Folias Cooperativa, Angelo Mai, Scomodo, Giufà Libreria Caffè, Banda Fanfaroma, Ass. Culturale Controchiave Beng!Band: brass band di Scomodo & MaTeMú. Pandemia sociale: i poveri “post Covid” sono 450 mila in più di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 18 ottobre 2020 Secondo il rapporto Caritas 2020 la pandemia ha messo in ginocchio in Italia i giovani e le famiglie senza più lavoro. Boom di richieste, prese in carico oltre 450mila persone, una su due ha chiesto aiuto per la prima volta. Ecco l’identikit della nuova povertà: colpisce donne, minori, partite Iva e precari. La denuncia il caos del Welfare nell’emergenza: il “paradosso” dei bonus categoriali che moltiplicano gli esclusi. Il “reddito di cittadinanza” va riformato in senso universalistico e senza condizioni. La quarantena generalizzata tra l’11 marzo e il 18 maggio 2020 ha prodotto 445 mila nuovi poveri assoluti in più che si aggiungono agli oltre 4 milioni e 600 mila del 2019. Il primo effetto emerso della crisi sociale innescata dal “lockdown” per bloccare la prima ondata dei contagi del Covid ha colpito in particolare le donne escluse da un’occupazione stabile; i giovani precari tra i 18 e i 34 anni; i minori penalizzati dalla povertà materiale delle famiglie, dalla chiusura delle scuole e dal conseguente contraccolpo relazionale e cognitivo; le partite Iva che hanno subito un calo del reddito e, per più di un terzo, hanno perduto la metà del reddito familiare. Una caratteristica comune ai nuovi poveri è non avere risorse finanziarie liquide sufficienti per fare sopravvivere più di tre mesi la propria famiglia. La quota ha superato il 50% tra i disoccupati e i lavoratori dipendenti con contratto a termine. Tra le categorie più colpite c’è anche il ceto medio già impoverito nel piccolo commercio, nelle professioni e nei servizi alle persone. Il primo censimento sugli effetti sociali della pandemia è stato realizzato sulle persone che si sono rivolte ai centri di ascolto diocesani e parrocchiali della Caritas. I risultati sono stati raccolta nel rapporto 2020 sulla povertà in Italia “Gli anticorpi della solidarietà” pubblicato ieri dalla Caritas in occasione della giornata mondiale della lotta contro la povertà. In prospettiva, i “nuovi poveri” della società virale aumenteranno a causa della perdita del lavoro e della chiusura delle attività che seguirà al blocco dei licenziamenti e alla cessazione dei contratti a termine che rappresentano l’unica forma di lavoro contrattuale in crescita anche grazie al Jobs Act di Renzi e del Pd. La proletarizzazione oggi sta aggredendo ancora di più le partite Iva, i precari e gli intermittenti che non beneficiano più di una protezione sociale voluta dal governo ma durata appena tre mesi. Da molte parti è stato chiesto di includerli in un’annunciata riforma degli ammortizzatori sociali su base universalistica. In questa direzione vanno anche le richieste di un’estensione del cosiddetto “reddito di cittadinanza” senza vincoli né condizionalità. Giunti al settimo mese della pandemia, mentre si profila una crisi sociale pluriennale, l’esecutivo mantiene le carte coperte. L’unica intenzione emersa sembra quella di condizionare il “reddito di cittadinanza” alle politiche “attive” di un lavoro che non c’è e, se c’è, è povero. Lo prevede anche l’ambigua e pericolosa legge del 2018 che ingabbia i poveri in un vero dilemma del prigioniero. Nei mesi successivi alla prima emergenza, si legge nel rapporto, si è aggravato il “lavoro povero” osservato nell’ultimo decennio. È cresciuta l’oscillazione tra il “dentro” (la cittadella del lavoro precario subordinato) e il “fuori” (la terra di nessuno senza tutele sociali). In un’economia dei bassi salari e della crescita senza occupazione fissa basata sulla precarietà di massa abitativa, sanitaria e relazionale l’impatto sociale della nuova crisi sta rafforzando la trappola della precarietà in cui si entra ma da cui non si esce più. Le critiche del rapporto Caritas al Welfare emergenziale durante il primo “lockdown” sono calzanti. L’esecutivo ha creato il “paradosso di misure emergenziali che generano esclusione e favoriscono gli “affiliati” al sistema di protezione e assistenza sociale, invece di coinvolgere nella maniera più ampia e inclusiva i destinatari dei sostegni”. Un simile paradosso è l’effetto della moltiplicazione dei sussidi (i bonus per le partite Iva iscritte all’Inps e ad altre categorie di lavoratori indipendenti e intermittenti) e dei sussidi (il “reddito di emergenza” che ha duplicato temporaneamente il cosiddetto “reddito di cittadinanza”). Insieme, questi elementi, hanno rafforzato una politica tradizionale in Italia, quella della segmentazione della povertà in categorie create per governare i poveri e respingere nell’invisibilità milioni di altri. Solo a Roma, la Caritas sostiene che sono stati forse il 20% dei lavoratori, in particolare gli stranieri e nel sommerso, ad essere stati estromessi da tutto. Non si contano coloro che hanno rinunciato a fare richiesta di un sussidio occasionale perché intimoriti, scoraggiati e esclusi dalla burocrazia emersa anche nella sconcertante macchinosità con la quale l’Inps ha pagato le casse integrazioni straordinarie. Il record di richieste di aiuto alla Caritas, accompagnato da un aumento dei volontari under 34, è stato causato proprio dalla programmatica volontà politica di non fare riforme universalistiche e disperdere miliardi di euro, per di più abusando della retorica sul “nessuno resterà indietro”. In questo quadro la solidarietà interpersonale è stata usata dalla politica istituzionale per rimediare all’assenza della giustizia sociale. Caporalato. Sfruttamento per 200mila “schiavi” in agricoltura di Antonio Maria Mira Avvenire, 18 ottobre 2020 Presentato il quinto rapporto “Agromafie e caporalato” realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil. Gli irregolari sono 400mila. Sono circa 200mila i “vulnerabili” in agricoltura, gli “schiavi” della terra in mano a caporali e imprenditori sfruttatori. E più di 400mila gli irregolari. Immigrati e italiani. Numeri in crescita. Basti pensare che i “vulnerabili” erano 140mila nel 2017 e 160mila nel 2018. Gli attuali 200mila sono la somma tra 136.400 unità occupate completamente al nero e circa 60mila lavoratori che, seppur registrati dall’Inps, risultano avere un contratto informale e una retribuzione inferiore a quella prevista dalle normative correnti. Al Nord come al Sud. Più della metà delle inchieste aperte grazie alla legge 199 del 2016 e, per l’esattezza, 143, non riguardano le regioni meridionali. Tra le Regioni più colpite, oltre alla Sicilia, alla Calabria e alla Puglia, vi sono il Veneto e la Lombardia: le Procure di Mantova e Brescia stanno seguendo, ciascuna, ben 10 procedimenti per sfruttamento lavorativo. Allarmante anche la situazione dell’Emilia Romagna, in cui lo sfruttamento è diffuso in tutte le province; del Lazio e, in particolare, della provincia di Latina; e della Toscana, dove il maggior numero di procedimenti è incardinato presso il Tribunale di Prato. Sono alcuni dei numeri scandalosi che emergono dal quinto rapporto “Agromafie e caporalato” realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil e presentato oggi a Roma. Quasi cinquecento pagine di illegalità e irregolarità, di drammi, storia, impegno. Con cinque approfondimenti su Veneto, Campania (in particolare la Piana del Sele in provincia di Salerno, con alcune citazioni del reportage di Avvenire), Puglia e Sicilia. I numeri forniti sono decisamente preoccupanti. In Veneto il lavoro irregolare nel settore agricolo raggiunge le 16.500 unità, ma potrebbe arrivare addirittura ad arrivare quasi a 22mila. In Toscana (qui il focus è il territorio di Livorno), secondo il rapporto, “è plausibile che il contingente di lavoratori fragili precari (dal punto di vista occupazionale) e pertanto soggetto a sfruttamento ammonti a circa 11.360 unità complessive”. In Campania “l’irregolarità dei rapporti di lavoro agricoli raggiunge anche il 35,0%”, portando l’intero ammontare a quasi 11.800 lavoratori. In Puglia (l’approfondimento è su Brindisi e Taranto), “i gruppi che possiamo definire vulnerabili (4.700) e quelli che sono occupati in modo irregolare (e quindi oltre che vulnerabili sono da considerarsi anche altamente sfruttati) raggiungono la cifra di 47.140 unità (il 36,2% in più della cifra stimata dall’Istat un decennio addietro)”. In Sicilia (focus su Agrigento e Trapani), “i lavoratori agricoli (con contratto informale e con retribuzioni non standard, uguali a 15.678) costituiscono la componente bracciantile che seppur registrata all’Inps è da considerarsi vulnerabile e pertanto precaria e strumentalmente assoggettabile a pratiche occupazionali indecenti. A questo gruppo, occorre aggiungere quello stimato dai sindacalisti e da alcuni degli operatori sociali intervistati - sulla base del dato Istat sul lavoro non osservato (il 23,8% per il 2017 a livello nazionale), ipotizzando che sia uguale a quello regionale) - ovvero 13.096 unità. Cosicché le componenti di lavoratori stranieri giuridicamente e socialmente più fragili ammonterebbero a circa 28.774 unità”. Un intero capitolo del rapporto è poi dedicato allo sfruttamento delle donne migranti. C’è in primo luogo una forte differenza salariale. Infatti “le operaie agricole, in particolare le lavoratrici migranti, percepiscano una paga inferiore - fino alla metà - rispetto a quella dei loro colleghi uomini”. C’è poi lo sfruttamento sessuale che “non è solo un fenomeno che si aggiunge allo sfruttamento lavorativo”. Infatti “come diverse inchieste e testimonianze rivelano, molte donne migranti vengono sfruttate come prostitute nelle campagne e nei ghetti”. Migranti. Il Garante per l’infanzia di Palermo: “Far sbarcare i minori dalle navi quarantena” di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 ottobre 2020 L’appello al governo di Pasquale D’Andrea e delle organizzazioni riunite dopo la tragica vicenda di Abou Diakite. Il 15enne ivoriano è arrivato troppo tardi all’ospedale del capoluogo siciliano. Stava trascorrendo il periodo di quarantena sulla Gnv Allegra, dopo essere stato salvato da Open Arms. Diakite Abou aveva 15 anni: partito dalla Costa d’Avorio, arrivato in Libia, ha attraversato il Mediterraneo. È stato salvato da Open Arms e poi imbarcato sulla “nave quarantena” Allegra. Il 29 settembre è finito d’urgenza all’ospedale Cervello di Palermo, ma era già troppo tardi: ha perso la vita. “Il medico legale si è riservato 90 giorni per consegnare la perizia. Per ora ha detto solo che c’era una setticemia molto avanzata”, dice Alessandra Puccio, nominata tutrice del ragazzo dal tribunale dei minori del capoluogo siciliano. Dopo questo drammatico episodio Pasquale D’Andrea, Garante per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza di Palermo con un’esperienza ultra quarantennale nel sostegno ai minori, ha convocato associazioni e cittadini denunciando la situazione di forte illegalità vissuta dai ragazzi sulle navi quarantena e chiedendone lo sbarco immediato. Otto organizzazioni hanno sottoscritto un appello rivolto al governo affinché nessun minore sia costretto a trascorrere in mare il periodo di sorveglianza sanitaria. “La nave è un castigo ulteriore inflitto a soggetti fragili e provati dal viaggio”, dice al manifesto. Quanti sono i minori non accompagnati sulle navi quarantena? Allo stato attuale non abbiamo un numero preciso, non ci viene comunicato. Secondo le nostre stime dovrebbero essere almeno un centinaio, ma i numeri sono fluttuanti. Quali problematiche specifiche affrontano? Dopo tanti anni grazie alla legge Zampa è stato fissato l’obbligo per lo Stato di assegnare un tutore ai minori stranieri fuori famiglia entro tre giorni dall’arrivo in Italia, mentre prima avveniva dopo il passaggio dalla prima alla seconda accoglienza (che poteva richiedere mesi o anni). L’emergenza Covid-19 sta mettendo in discussione il meccanismo di assegnazione rapida. Adesso ragazze e ragazzi sono obbligati ad andare in quarantena e c’è un periodo in cui non hanno una destinazione e di conseguenza non possono avere un tutore: perché i tutori sono collegati ai territori. Cosa contestate? Che i ragazzi debbano “passare la quarantena” su una nave. Le condizioni non sono buone e non hanno assistenza, ma soprattutto non hanno una tutela che possa accoglierli, rappresentare loro diritti e doveri, presentare le tappe da affrontare per l’inserimento e l’integrazione nel nostro paese. Bisogna farli sbarcare. Perché è così importante che il tutore sia assegnato subito? La legge dice che fino ai 18 anni un ragazzo non può compiere assunzioni di responsabilità. Di conseguenza ha bisogno di un adulto di riferimento. L’aspetto più importante, comunque, non è legale, ma relazionale. Mettiamoci dalla parte di questi ragazzi: hanno affrontato un viaggio che dura un anno, un anno e mezzo, durante il quale hanno subito violenze e abusi. Parliamo di ragazzi di 13, 14, 15 anni. Se li rapportiamo ai nostri adolescenti capiamo ancora di più il sacrificio che hanno affrontato. Questi ragazzi hanno l’esigenza di ristabilire un nuovo patto generazionale, di avere un adulto capace di riattivare sensibilità e fiducia verso il mondo. Il tutore diventa un punto di riferimento a cui aggrapparsi. Appena acquisiscono fiducia, i ragazzi ricominciano a vivere, progettare un futuro, tirare fuori i desideri, acquisire competenze, stabilire progetti con la scuole e il territorio. Sulla nave invece? La nave è un castigo ulteriore inflitto ai ragazzi che sono riusciti ad arrivare in Italia e si ritrovano senza assistenza o cure e senza possibilità di creare quell’elemento di fiducia necessario. Il Covid-19 può giustificare delle deroghe alla legge nazionale che tutela i minorenni? No. Ovviamente non nego l’esigenza di applicare norme per contrastare l’emergenza sanitaria, ma ne metto in discussione le modalità. Dovremmo avere dei luoghi a terra dove i ragazzi possano sostare in quarantena con la dovuta assistenza. In questa situazione possiamo anche pensare di non assegnare immediatamente un tutore, ma deve comunque essere trovata una figura di garanzia: un mediatore, un operatore, un educatore. Qualcuno che accompagni il ragazzo durante la quarantena. È necessario perché parliamo di soggetti fragili. Il drammatico caso di Abou ci ha fatto riflettere molto e ci ha portato a mettere in discussione tutto quello che sta avvenendo. La storia di Abou Diakite - Dopo la tragica scomparsa del 15enne ivoriano la tutrice nominata dal tribunale dei minori di Palermo, Alessandra Puccio, si è messa in contatto con il fratello che si trova nel paese d’origine. Ha ricevuto il numero dalla Croce Rossa (Cri) a cui a sua volta lo aveva dato il ragazzino. La tutrice non è riuscita, invece, ad avere i testi del colloquio che la Cri ha avuto con un compagno di viaggio del ragazzo scomparso. Il fratello ha raccontato che Abou era partito dalla città natale di Daloa a 13 anni, insieme a un gruppo di amici. Era il 2017 e a quel tempo i genitori erano già morti. Dopo l’Algeria è entrato in Libia. “Qui ha avuto grossi problemi: è stato in un centro di detenzione dove ha subito torture e abusi”, racconta Puccio. Dopo il centro è riuscito ad attraversare il Mediterraneo, è stato salvato da Open Arms e trasferito per la quarantena sulla nave Allegra. Poi il tragico epilogo. Droghe. Il Cbd diventa uno stupefacente, negozi di cannabis light a rischio chiusura di Giacomo Andreoli Il Riformista, 18 ottobre 2020 Italia modello per l’Oms? Forse per il Covid-19, ma sicuramente non per la cannabis. Ieri un decreto del ministero della Salute guidato da Roberto Speranza ha inserito tra i medicinali con sostanze stupefacenti “le composizioni per somministrazione ad uso orale di cannabidiolo ottenuto da estratti di cannabis”. Sono i liquidi a base di Cbd, il principio attivo riconosciuto dalla medicina e dall’Organizzazione mondiale della sanità come non psicotropo. Per dirla in modo semplice: non procura alcun tipo di “sballo” e tantomeno dà assuefazione, nonostante quello che risulta scritto sul decreto. L’Oms aveva raccomandato all’Italia una riforma per riconoscere le proprietà mediche della cannabis e aveva specificato di non inserire i prodotti a base Cbd in nessuna tabella di medicinali con stupefacenti. Il cannabidiolo è la seconda sostanza più abbondante nella cannabis dopo il Thc e possiede evidenti capacità rilassanti, antinfiammatorie e antidolorifiche. Proprio per questo è utilizzato per il trattamento di diverse patologie. Nella premessa del decreto si parla del fatto che sta per essere messo in commercio l’Epidiolex, un farmaco a base di Cbd, prodotto dalla Gw Pharmaceuticals. “Il medicinale - si legge - è controllato attraverso un programma di uso compassionevole, notificato all’Aifa, per i pazienti in trattamento con sindrome di Dravet e sindrome di Lennox-Gastaut”. Viene quindi spiegato che “nella tabella sono indicati i medicinali a base di sostanze attive stupefacenti ivi incluse le sostanze attive ad uso farmaceutico”. Uno dei motivi della decisione sarebbe allora l’arrivo del medicinale. Ora, però, si crea più di un problema per i negozi di cannabis light. Se i liquidi a base di Cbd sono stupefacenti, allora gli oli con cannabidiolo non potranno più essere venduti liberamente negli esercizi commerciali. Il rischio, poi, è che possano essere ritenute illegali anche le infiorescenze e quindi i non estratti, che contengono lo stesso principio attivo. Tutto un mercato, quindi, rischia di andare in crisi. Non solo: l’altro ieri il direttore generale dell’Agenzia delle Dogane, Marcello Minenna ha vietato ai titolari di rivendite di sigarette elettroniche di commerciare prodotti derivati dalla canapa sativa. Insomma: le infiorescenze, i liquidi con Cbd, gli aromi estratti dalla pianta e, seguendo la norma alla lettera, anche le creme, la pasta e i deodoranti all’essenza di canapa. Tutte cose che i negozi specializzati vendono legalmente. “Quella del ministero è una scelta illogica che penalizza gravemente tutto il settore della coltivazione della canapa, lasciando così campo aperto ai soli colossi farmaceutici” dicono in una nota gli oltre 70 parlamentari dell’intergruppo per la cannabis legale, che unisce parlamentari di Pd, M5S, Radicali, Italia Viva e lo stesso LeU del ministro Speranza. “La decisione - aggiungono deputati e senatori - è in evidente contrasto con quanto promosso dal Ministero dell’Agricoltura che ha recentemente inserito i prodotti della cannabis tra le varietà officinali, dando il via alle filiere estrattive dei principi di questa nobile pianta”. Poi l’affondo al governo: “Mentre nel resto del mondo si supera il proibizionismo, in Italia si ha l’impressione di una tendenza alla criminalizzazione della natura, in contrasto con le politiche di lotta alle mafie, sviluppo sostenibile e potenziamento del settore agricolo in funzione della salvaguardia dell’ambiente e degli ecosistemi”. “Per me - dice il senatore del Movimento 5 Stelle Matteo Mantero a Il Riformista - la misura è colma, non siamo più disposti a subire scelte assurde, il Ministero e il governo sono avvisati. Questo provvedimento, non si sa voluto da chi, rischia di distruggere una filiera nascente di 3000 aziende, che dà lavoro a 12mila persone. Va ritirato immediatamente”. L’associazione Meglio Legale denuncia poi che la decisione “avrà delle conseguenze disastrose nel rendere ancora più incerto e confuso l’iter per i pazienti che fanno uso di cannabis medica (con Thc)”. Una cosa è evidente: il ministro Speranza è sì impegnato e “distratto” dalla durissima battaglia contro il coronavirus, ma è comunque responsabile del decreto del suo ministero. Il suo non è mai stato il profilo di un proibizionista, anzi, e questo fa pensare a una disattenzione. Ma è pur vero che a vincolarlo non c’è nessun programma elettorale. Tra le “promesse” di Liberi e Uguali prima del voto del 2018 la questione cannabis non è menzionata. Resta il fatto che un esponente importante della formazione di sinistra, Daniele Farina, è relatore di una proposta di legalizzazione e si è speso in campagne pubblicitarie ad hoc con il logo di LeU. Qualcosa, quindi, non torna. Libia. Quei pescatori di Mazara del Vallo finiti nella rete dei ricatti di Haftar di Marta Bellingreri L’Espresso, 18 ottobre 2020 Diciotto lavoratori del mare prelevati in acque internazionali e ora in ostaggio del generale. Che vuole in cambio la liberazione di quattro calciatori condannati in Italia come scafisti. E la diplomazia non riesce a risolvere il caso. L’aula Consiliare di Mazara del Vallo da due settimane è occupata. I lavori dell’assemblea cittadina interrotti. Nel frattempo anche a Roma, davanti al Parlamento, c’è un presidio permanente. “Non ce ne andremo da qua finché i nostri padri, fratelli, mariti e amici non torneranno a casa”, dice Naoires Ben Haddad da piazza Montecitorio. Così come afferma contemporaneamente Marica Calandrino dall’aula occupata del Comune di Mazara. A fare questa pressione sulle istituzioni e provare a tenere alta l’attenzione sono le famiglie dei pescatori di Mazara del Vallo arrestati in acque internazionali e portati in carcere a Bengasi, in Libia, lo scorso primo settembre. Diciotto tra pescatori ed equipaggio: 10 italiani, 6 tunisini e 2 indonesiani sulle navi Artemide e Medinea, oggi sotto il controllo delle milizie del generale Khalifa Haftar della Libyan National Army (LNA). “Non abbiamo notizie dei nostri familiari”, continua Naoires, “abbiamo sentito soltanto il capitano Pietro Marrone una volta a metà settembre. Ha chiamato la mamma Rosetta. Accanto a lui si sentiva una voce, molto probabilmente di una guardia libica, che diceva di dire che stavano bene. In quella telefonata abbiamo percepito solo un grido di aiuto, una richiesta di soccorso”. Ed è così che i familiari non hanno più voluto perdere un giorno. Naoires ha 22 anni e lavora con il Servizio Civile in una casa famiglia per minori stranieri. Alcuni dei ragazzi sono tunisini come lei, altri provengono da diversi paesi dell’Africa occidentale. Dal primo settembre però l’arresto del padre ha cambiato la sua routine. Adesso Naoires fa avanti e indietro da Mazara del Vallo alla capitale, viaggiando in pullman di notte insieme ad altri componenti delle famiglie e all’armatore dei due pescherecci sequestrati, Marco Marrone. “Erano partiti il 20 agosto e sarebbero dovuti tornare in questi giorni, i primi di ottobre. Mio papà si chiama Mhamed Ben Haddad, ha 59 anni, vive a Mazara da 43 anni e da 22 fa il marinaio. In pratica, da quando sono nata io”, prosegue Naoires. “Anche la mamma del capitano, Rosetta, nonostante i suoi 73 anni, è venuta con noi a Roma”. Marica invece si definisce “una giovane moglie” ed è la prima volta nella sua vita che non ha nessun contatto col suo compagno, Giacomo Giacalone, capitano della nave Anna Madre, che è riuscita a fuggire dall’arresto. “Mio marito in quanto capitano è stato preso dalle motovedette libiche ma il suo peschereccio è riuscito a fuggire e tornare a Mazara, insieme a un secondo”, racconta sconfortata. Marica, 27 anni, ha una bimba di un anno e due mesi che spesso in questi giorni rimane con la nonna mentre lei fa i turni insieme alle altre famiglie perché ci sia sempre qualcuno in aula consiliare. “Mio marito ha 32 anni e va in mare a pescare da quando ne aveva 12, rinunciando alle estati di divertimento, ha iniziato a fare il pescatore. È la mia famiglia: e io e mia figlia siamo la sua famiglia. Non lo sento dal giorno del sequestro. È il periodo più lungo della mia vita, questo silenzio mi sta uccidendo, ci sta uccidendo. Spero che almeno lui senta la forza del nostro amore da lontano”. La storia dei pescatori della flotta di Mazara del Vallo e dei sequestri a largo della Libia ha però più anni di Naoires e Marica. Era ancora al potere il colonnello Muammar Gheddafi quando Mimmo Asaro con il suo peschereccio Osiride si trovava in acque internazionale, cinquanta miglia nautiche a est di Misurata. Era la mattina del 22 marzo 1996. “Verso le sette si avvicina un mezzo militare. Per la paura abbiamo provato a scappare. L’inseguimento è durato quattro-cinque ore con colpi di mitragliatrice dietro di noi. La pancia della nave dove si proteggevano gli altri marinai era tutta bucata. Una scheggia mi ha sfiorato la testa. Ci siamo dovuti fermare. Sono saliti a bordo dicendo di voler fare solo un controllo. Ma poi siamo rimasti in carcere per sei mesi”. In una stanza insieme ad altri 150 carcerati con un solo bagno, Mimmo Asaro non ha perso solo 22 chili in Libia. È tornato in Italia ricevendo la grazia del colonnello Gheddafi “per buona condotta” ma senza il peschereccio costruito dal padre nel 1974. “Da noi i pescherecci sono come i figli. Fonte di lavoro, di vita. Per mio padre è stato un duro colpo, è caduto in depressione. Io sono diventato diabetico”. Ma la famiglia non si è arresa. Mimmo ha venduto la casa per comprare un altro peschereccio dopo qualche anno. La storia si ripete nel 2010 con un inseguimento, uno speronamento e l’equipaggio molto spaventato. “Ma quella volta siamo riusciti ad arrivare a 74 miglia a nord della Libia e ci hanno lasciato andare”. Secondo una decisione unilaterale nel 2005 la Libia ha dichiarato diritti esclusivi di pesca fino a 74 miglia dalle proprie coste, estese dalle 12 riconosciute dal diritto internazionale. Questo porta a considerare illegali le attività di pesca di pescherecci stranieri, come quelli della flotta di Mazara. Ma già prima del 2005 Gheddafi voleva far valere la sua legge. Negli ultimi 25 anni oltre 50 sequestri, 5 morti, milioni di euro di multe e la perdita di pescherecci non lasciano dubbi a Mimmo Asaro: “Questa è una guerra del Mediterraneo: è la guerra del pesce. Fino a che il governo italiano e l’Unione europea non si renderanno conto della partita in gioco, continueranno ad avvenire sequestri in acque internazionali e ci saranno i nostri fratelli marinai in prigione in Libia. Nessun governo ha capito a fondo il dramma di Mazara”. L’ultimo episodio in cui è stato coinvolto col suo peschereccio ed il suo equipaggio risale al 2012. Sono rimasti a Bengasi 56 giorni. Secondo la sentenza del Tribunale Militare che li ha giudicati il peschereccio poteva liberamente tornare a Mazara, dopo aver pagato una multa. “Ma le milizie al porto di Bengasi hanno portato via tutta l’attrezzatura. Ci hanno lasciato solo il motore”, conclude Mimmo. Il loro sconforto è grande tanto quanto i decenni di storia di pesca nel Mediterraneo che li precedono. E che rischia di morire, per la paura dei sequestri e le grosse perdite economiche. Questa volta però le cose sono più complicate del previsto. Il generale Haftar avrebbe chiesto in cambio della liberazione dei pescatori la libertà per quattro cittadini libici, calciatori di professione nelle squadre principali di Bengasi. Almeno fino all’agosto 2015, quando insieme ad oltre 350 rifugiati si sono messi in mare verso l’Italia cercando di proseguire la carriera calcistica lontano dalla guerra civile. Durante il viaggio, 49 delle persone a bordo, stipati nella stiva dell’imbarcazione di legno, sono morti asfissiati. Secondo alcuni testimoni, i giovani libici erano posti a controllo della stiva e insieme a due cittadini marocchini sono stati arrestati e condannati dai 20 ai 30 anni di carcere per traffico di essere umani. Per i familiari si tratta di un errore giudiziario: “I nostri figli e nipoti hanno pagato il viaggio come gli altri. Purtroppo alcune delle persone a bordo sono morte. Ma non ne sono responsabili i nostri calciatori. Volevano raggiungere la Germania perché in Libia non potevano più allenarsi e giocare con le loro squadre con cui avevano dei contratti regolari. Abbiamo rispetto per la magistratura italiana, ma vorremmo che il caso venisse rivisto”, dichiara da Bengasi la dottoressa Ibtisam Faraj, la zia di uno dei quattro calciatori, Abdelkarim Hamad Faraj. Anche uno dei suoi fratelli, Saif, afferma di essere sconvolto dalla storia di suo fratello: “Non riesco a credere che mio fratello sia in carcere in Italia da cinque anni. Abbiamo fatto diverse manifestazioni al porto di Bengasi per non farli dimenticare”. La difesa ricorrerà in Cassazione. Per l’armatore dei pescherecci, Marco Marrone, “le due vicende non hanno alcun legame. I nostri pescatori sono vittime di un sequestro in acque internazionale come succede da troppi anni, ma questa volta non so perché sta diventando un caso diplomatico”. Il governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite, presieduto da Serraj, sembrerebbe rimanere fuori dalla vicenda. Mentre Haftar, suo nemico nella Libia orientale, potrebbe usare il caso per fare pressione sull’Italia. Se i pescatori verranno giudicati da un tribunale militare a Bengasi i tempi per il ritorno a casa potrebbero dilatarsi ulteriormente. Suor Alessandra dell’associazione Casa Speranza di Mazara ha tra i suoi ragazzi tanti dei figli dei marinai che fanno il doposcuola. “La situazione è molto tesa, diversi familiari sono stati male e sono finiti in ospedale. Queste giovani donne sono forti, sostengono le mamme, si occupano dei figli, ma ora sono molto stanche”, conclude. Marica è più angosciata che stanca: “Andare a mare non è una passeggiata, è un sacrificio. Abbiamo un nostro rito ogni volta che parte per il mare. Io lo accompagno e gli dico: Ja’, il vero marinaio si vede nelle lunghe tempeste. Poi ci diamo un bacino e se ne va”. Questa volta però non è ancora tornato dalla lunga tempesta. Libia. Cosa significa l’arresto di Bija e come cambiano ora gli scenari di Francesca Mannocchi L’Espresso, 18 ottobre 2020 L’uomo, accusato di essere un trafficante di esseri umani dalle Nazioni Unite, è stato al centro del dibattito per una sua visita ufficiale in Italia. La sua cattura ha dei profondi significati politici e spiega gli attuali equilibri nel paese africano. La notizia dell’arresto di Abdul Raman al Milad, Bija, cominciano a circolare nel pomeriggio di mercoledì. Mentre scriviamo sono passate poche ore. Molte cose restano ancora oscure, molte altre - velocemente e nell’ombra, come spesso accade in Libia - si stanno già muovendo. Questi i fatti: siti di informazione libici nel primo pomeriggio del 14 ottobre danno notizia che Bija sarebbe stato arrestato dalle forze speciali di sicurezza Rada nei pressi di Janzour. Bija era tornato agli onori delle cronache lo scorso anno dopo la pubblicazione, da parte del quotidiano Avvenire, delle foto di Abdul Raman Milad/Bija durante una riunione nel Cara di Mineo di Catania, riunione in cui le autorità italiane e quelle libiche avrebbero discusso di politiche migratorie e sistemi di accoglienza. La riunione faceva parte di un progetto finanziato dalla Comunità europea che prevedeva una serie di visite studio in Italia da parte di una delegazione, i cui componenti erano stabiliti dagli stessi libici. Solo un anno dopo questo incontro, precisamente il 7 giugno 2018, le Nazioni Unite hanno inserito Bija nella lista delle persone coinvolte nel traffico di uomini e pertanto sanzionate. Bija è accusato dall’Onu e dalla Corte internazionale dell’Aja di crimini contro l’umanità per essere uno degli organizzatori del traffico di migranti della zona, e aver ridotto in schiavitù migranti in Libia. Le Nazioni Unite lo considerano “uno dei più efferati trafficanti di uomini in Libia, padrone della vita e della morte nei campi di prigionia, autore di sparatorie in mare, sospettato di aver fatto affogare decine di persone, ritenuto a capo di una vera cupola mafiosa ramificata in ogni settore politico ed economico dell’area di Zawyah”. Come abbiamo raccontato in questi anni, Bija è però solo uno dei tasselli di una rete assai più potente, gestita dai suoi cugini, i Koshlaf, che controllano nella parte occidentale della Libia il traffico di carburante, il traffico di uomini e il centro di detenzione per migranti della zona. Bija ha sempre rigettato le accuse dell’Onu, sostenendo che le Nazioni Unite non avessero prove per dimostrare i capi di imputazione. Lo scorso anno, dopo la pubblicazione delle foto da parte di Avvenire, L’Espresso è stato in grado di raggiungere Bija a Zawhia, in Libia, per un incontro riservato e successivamente in un incontro ufficiale nella sede della Marina della capitale Tripoli. Incontro al quale Bija arrivò in uniforme ufficiale, nonostante fosse stato sollevato mesi prima dall’incarico di capo della Guardia Costiera di Zawhia che aveva ricoperto per anni. Fu proprio in virtù del ruolo che ricopriva come capo della Guardia Costiera di Zawhia che Bija fu invitato dall’OIM, Organizzazione Mondiale delle Migrazioni, al Cara di Mineo, invito ufficiale che L’Espresso è stato in grado di ottenere e pubblicare. Bija atterrò dunque in Italia con un invito delle Nazioni Unite, con documenti ufficiali e un visto regolare ottenuto nella sede consolare italiana di Tripoli, non come fu inizialmente ipotizzato cioè presentandosi in ambasciata e poi in aeroporto con documenti contraffatti. L’Espresso ha pubblicato il visto di Bija e il suo passaporto. Dopo essere stato sanzionato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, Bija è stato estromesso (almeno formalmente) dal suo ruolo. Nel corso dell’incontro a Zawhia dello scorso anno L’Espresso ha potuto inoltre visionare un documento ufficiale della Marina Libica datato ottobre 2019 che autorizzava Bija a tornare al proprio ruolo di capo della Guardia Costiera di Zawhia. L’incontro di Francesca Mannocchi con “Bija”, uno dei capi della guardia costiera libica, accusato di essere un trafficante di esseri umani e invitato in Italia nel 2017. A seguito della pubblicazione dell’intervista, in cui Bija vestita la divisa ufficiale del corpo della Guardia Costiera, nella sede della Marina - che aveva formalizzato l’incontro e autorizzato l’intervista - tuttavia, il Ministro dell’Interno Bashaga, spinto dal forte imbarazzo suscitato dalle sue dichiarazioni, sollevò dall’incarico l’allora portavoce della Marina e emanò un comunicato ricordando che da sei mesi pendesse sulla testa di Bija un mandato d’arresto. Mandato che, però, non si era mai concretizzato. Quando L’Espresso ha raggiunto Bija, a Tripoli la guerra era in corso da cinque mesi, dopo che il generale Haftar aveva lanciato un’offensiva per conquistare la capitale. Le milizie di Zawhia avevano supportato le truppe del governo di Sarraj, allora in difficoltà, e la resa dei conti tra il ministro dell’Interno Bashaga e i potentati locali era stata temporaneamente congelata. Bija tuttavia non ha smesso di far sentire la propria voce. In un video pubblicato lo scorso giugno, l’ex guardia coste coinvolto nel traffico di uomini, aveva apertamente ringraziato la Turchia di Erdogan per il supporto logistico dato alle truppe di Tripoli e aveva accusato le mafie e i potentati di Misurata, città con la quale le milizie di Zawhia sono in conflitto. Ed è proprio in queste frasi che va ricercata la radice dell’arresto di oggi. “Due settimane fa Bija mi ha chiamato, voleva che andassi a Zawhia da lui, mi ha convocato perché sosteneva di dovermi raccontare delle cose sul passato che aveva tenuto per sé per paura e sul presente. Voglio denunciare, è giunto il momento per me di parlare - rivela a L’Espresso una fonte locale vicina a Bija, raggiunta al telefono immediatamente dopo il suo arresto - mi aveva annunciato del suo arresto dicendo: ‘quando sentirai la notizia che Bija è stato arrestato non allarmarti. So già tutto, anzi non parleranno di arresto, diranno che Bija si è consegnato, ma non temerè”. Queste parole, riportate dalla fonte tripolina, gettano sull’arresto di Bija il sospetto di trattative finite male. Ma tra chi? E perché? Proviamo a fare ordine. Nell’ultimo mese ci sono stati ripetuti incontri tra gli anziani notabili di Misurata e di Zawhia per il controllo della Compagnia di Elettricità. Le tribù di Misurata volevano mantenere la compagnia elettrica sotto il loro controllo, estromettendo quelle di Zawhia, e gestire così l’enorme flusso di denaro che la Compagnia sviluppa. Per evitare problemi a lungo termine le due fazioni hanno cercato un accordo, gli anziani delle due città si sono riuniti per spartire le sfere di influenze e una delle condizioni messe sul tavolo nel tentativo di sanare i conflitti era, appunto, la consegna di Bija alle milizie Rada, le potenti forze di deterrenza del Governo Sarraj, a capo delle quali c’è il salafita Abdul Raman Kara. Lo scontro tra Misurata e Zawhia non riguarda, però, solo la Compagnia di Elettricità, ma anche la direzione delle forze di polizia. Poche settimane fa, infatti, il ministro dell’Interno Fathi Bashaga aveva ordinato di sostituire il capo della polizia di Zawhia, emanazione delle tribù e dunque degli affari locali, cooptato dalle milizie di zona, con un uomo di sua fiducia. Decisione che era stata mal digerita dalle tribù di Zawhia. Questo lo scenario su cui si inserisce l’arresto di Bija, sullo sfondo, inoltre, le dimissioni annunciate del Primo Ministro Fayez al Sarraj che certamente aprono la strada della lotta per la successione al governo. Le reazioni delle milizie all’arresto di Bija sono state immediate. Poche ore dopo la notizia della cattura, le milizie di Zawhia stavano già organizzando le azioni di protesta. In poche ore hanno bloccato le strade intorno alla città, una strada presso Gharian, chiuso il ponte 27 di Warshafana che porta a Zawhia e minacciato su tutti i siti e i gruppi social che si sarebbero diretti a Tripoli, verso l’aeroporto, se non avessero ricevuto in tempi rapidi notizie certe sulle sorti di Bija. “Se non lo lasciano andare attaccheremo” hanno minacciato, descrivendolo una volta ancora come il loro eroe. Le dichiarazioni del ministro dell’Interno Bashaga non si sono fatte attendere. Alle nove della sera di mercoledì 14, poche ore dopo l’arresto, il sito del Ministero pubblicava una dichiarazione in cui si legge “sulla base delle indagini condotto dall’Ufficio del Procuratore Generale, abbiamo emanato l’ordine di cattura di Abdul Raman Milad noto come Bija, su richiesta del Comitato Penale del Consiglio di Sicurezza”. Bija, si legge nella dichiarazione, è accusato di traffico di esseri umani e contrabbando di carburante. Una missiva protocollata da un’agenzia Onu. Destinatario: il consolato italiano a Tunisi. E il “comandante Bija”, considerato un potente boss degli scafisti, è venuto nel nostro Paese per incontri istituzionali Ancor più interessante, poche righe dopo, l’annuncio che la giustizia libica “si sta muovendo per catturare tutti i ricercati”. Significa che Bija non è il primo - nei mesi scorsi altri potenti trafficanti di Zawhia erano stati catturati - e non sarà però nemmeno l’ultimo. Il risultato è che nel giro di poche ore le milizie di Zawhia si sono ricompattate contro un nemico comune e avvicinate al confine occidentale di Tripoli per inviare un messaggio minaccioso al Ministero dell’Interno del GNA. Il senso di coesione della tribù di Bija, Awlad Buhmeira, è stato immediato. Forte e solido. Per gli effetti a catena è necessario aspettare. Quello che possiamo facilmente prevedere è che dietro il tardivo arresto di Bija ci sia una guerra intestina per il posto da Premier nel prossimo governo e che chi ne uscirà vincitore determinerà il percorso del processo di pace e delle relazioni internazionali. I rapporti con l’Europa, dunque, e i rapporti con la Turchia, sempre più potente militarmente e economicamente. Quello che possiamo ipotizzare, poi, è che Bija avesse dei segreti e delle informazioni. I tanti non detti dell’intervista dello scorso anno. I segreti di Bija. Segreti che a molti conviene restino tali. Turchia. “Fincen Files”, la censura di Erdogan: ecco le notizie proibite dal regime di Paolo Biondani L’Espresso, 18 ottobre 2020 Vietati a Istanbul gli articoli sul grande riciclatore protetto dal presidente. Una storia di miliardi sporchi e complicità di Stato che l’Espresso pubblica integralmente con i consorzi Icij e Occrp. Il regime di Erdogan ha censurato i Finces Files, l’inchiesta giornalistica internazionale sulle centrali del riciclaggio di denaro sporco, che ha coinvolto anche un uomo d’affari molto vicino al presidente turco. La storia di Reza Zarrab, il mercante d’oro che da Istanbul ha trasferito più di 13 miliardi di dollari all’Iran violando l’embargo, è stata raccontata dall’Espresso e da decine di testate straniere a partire dal 20 settembre scorso, quando più di 400 giornalisti in 88 nazioni hanno cominciato a pubblicare i risultati dell’inchiesta. In Turchia, però, gli articoli sono stati messi al bando. Il divieto è l’effetto di un “ordine restrittivo”, convalidato da una corte fedele al regime, che proibisce a tutti i media turchi di pubblicare le notizie dei Fincen Files che riguardano Zarrab e documentano i suoi legami con Erdogan e il suo governo. Lo stop è scattato dopo la diffusione dei primi articoli del network internazionale Occrp, ma per i giornalisti turchi funziona come una censura preventiva: nessuno può scrivere niente, né ora né mai. Per ricordare al regime turco che invece, nei paesi democratici, “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, come stabilisce la Costituzione italiana, r iproponiamo il testo dell’inchiesta pubblicata dalla nostra testata con un link all’articolo in lingua inglese di Occrp. Il caso Zarrab è uno dei tanti capitoli dell’inchiesta Fincen Files, fondata su documenti riservati dell’agenzia americana anti-riciclaggio, ottenuti da BuzzFeed News e condivisi con il consorzio Icij, famoso per i Panama papers, di cui fa parte il nostro settimanale in esclusiva per l’Italia. Ecco la storia di Zarab raccontata dall’Espresso. I Fincen Files svelano anche un intrigo di portata mondiale, che ha un nome in codice: gold for gas. Un miliardario turco, Reza Zarrab, ha aiutato per anni l’Iran ad aggirare le sanzioni internazionali decise per fermare le sue velleità atomiche. Un sistema fondato su un doppio contrabbando: l’Iran vende gas in cambio di oro e preziosi, con triangolazioni per miliardi manovrate da Zarrab. Prima dello scandalo, in Turchia lui era una celebrità, con fortissimi agganci nel governo e nella famiglia presidenziale. “Gold for gas” esplode a sorpresa nel dicembre 2013: il re Mida di Istanbul viene arrestato. E quattro ministri si dimettono. I giornali d’opposizione rivelano che la procura turca ha intercettato anche telefonate compromettenti di Erdogan in persona. Il presidente islamista grida al complotto, parla di “intercettazioni false”, di “golpe giudiziario” ordito dal suo ex alleato Fetullah Gülen. A quel punto gli inquirenti diventano inquisiti: centinaia di procuratori, giudici e poliziotti finiscono in carcere. L’inchiesta si ferma. E Zarrab torna libero già nel febbraio 2014. Nel 2016, però, viene riarrestato negli Stati Uniti. Dove pochi mesi dopo confessa non solo di aver orchestrato davvero lo scandalo dell’oro all’Iran, ma anche corrotto diversi funzionari e quattro ministri turchi. E ammette di aver aiutato Teheran a incamerare, in totale, 13 miliardi di dollari. Dopo l’elezione di Trump, il vento cambia anche negli Usa. Rudolph Giuliani, l’avvocato del presidente, difende anche Zarrab. E il Washington Post rivela che l’ex procuratore ha chiesto all’allora segretario di Stato, Rex Tillerson, di fare pressioni per chiudere l’istruttoria sul mega-riciclatore. Ma l’inchiesta continua. E nel 2019 coinvolge anche la banca turca Halkbank. Nel suo libro, l’ex ministro repubblicano John Bolton scrive che Erdogan sarebbe intervenuto personalmente su Trump, in difesa della banca. E il presidente americano gli avrebbe promesso di interessarsi, avvertendolo però che il caso, purtroppo, era seguito da procuratori legati a Obama. Le carte di BuzzFeed News scoperchiano molti altri retroscena di questo intrigo. Come i soldi incassati dall’ex ministro Flynn e dall’avvocato Michael Cohen, il legale di Trump che pagava le pornostar, ora in rotta col presidente: milioni di dollari per fare lobby a favore del governo turco. Ma è lo stesso Zarrab che sembra ancora custodire segreti inconfessabili. I giornalisti di Occrp hanno identificato una serie di offshore che hanno incassato centinaia di milioni mai dichiarati nei suoi interrogatori. E con la stessa rete di “gold for gas” avrebbero ripulito soldi anche società russe: un’accusa che Zarrab aveva smentito. E che potrebbe aprire un nuovo capitolo del Russiagate. I giornalisti del consorzio hanno contattato tutti gli interessati, dal governo turco alle banche, dalle società russe agli uomini di Trump, che negano qualsiasi ipotesi di reato. Secondo i Fincen Files, però, al caso Zarrab sarebbero legate altre operazioni finora sconosciute: tesori offshore ancora misteriosi. Americani che coprono scandali iraniani, russi che usano le stesse riciclerie dei turchi: benvenuti a Launderland, il magico mondo del riciclaggio, dove il denaro è la misura di tutte le cose. Ecco l’articolo di Occrp, firmato da Tom Stocks, Daniela Castro e Kelly Bloss, che ha scatenato la censura turca: www.occrp.org/en/the-fincen-files/the-government-is-in-on-it-an-insiders-account-of-the-reza-zarrab-conspiracy Spagna. Oriol Junqueras: “La mia Catalogna sarà libera” di Donatela Di Cesare L’Espresso, 18 ottobre 2020 “Il nostro cammino è irreversibile. E riguarda tutta Europa, minacciata dalle destre sovraniste”. Una filosofa incontra il leader indipendentista in carcere da tre anni. Che dice: “Vi mentono quando vi dicono che siamo come Salvini e la Lega. È il contrario: siamo di sinistra e anti autoritari”. Oriol Junqueras, 51 anni, presidente del partito Esquerra Republicana de Catalunya, già vicepresidente della Generalitat de Catalunya, è in prigione dal 2 novembre 2017 con una condanna a 13 anni per aver contribuito a proclamare il referendum sull’indipendenza della Catalogna. Ed è da lì, nel carcere di Lledoners, un’ora di auto da Barcellona, che ha concesso questa intervista esclusiva all’Espresso. Signor Junqueras, vorrei cominciare dalla prigione in cui lei è recluso ormai da anni. Di recente le sono stati negati persino alcuni normali permessi. Lei è insomma un prigioniero politico condannato al carcere duro, uno dei sette del “procés”, quelli che in catalano vengono chiamati ovunque i “presos políticos”. Come sta vivendo questa privazione completa di libertà? “Può forse immaginare che cosa significhi subire il carcere duro, essere privati della libertà, della possibilità di incontrare altre persone. Mi mancano soprattutto i miei figli, che posso vedere 40 minuti a settimana, solo attraverso un vetro. Questa è la risposta vendicativa dello Stato spagnolo a quei politici rei di aver commesso un unico delitto: permettere democraticamente un referendum”. Nell’opinione pubblica italiana è rimasto indelebile il ricordo dei giorni del referendum in Catalogna: quelle scene inammissibili in un paese democratico europeo, quando la Guardia civil ha cercato di fermare con la violenza le cittadine e i cittadini che andavano a votare. Poi è arrivata la proclamazione della Repubblica catalana il 27 ottobre 2017 - durata poche settimane. Madrid ha quindi sciolto il parlamento catalano; alcuni membri del governo della Generalitat sono andati in esilio, altri come lei, sono stati arrestati. Infine, si è svolto il processo ed è arrivata la durissima condanna per “sedizione”… “Mi fa piacere sapere che quegli avvenimenti restino indelebili nell’opinione pubblica italiana. Per me è importante. Soprattutto per l’amore che ho per l’Italia, un paese a cui sono profondamente legato. Ho studiato alla scuola italiana di Barcellona! Tornando al referendum, la cui legittimità è stato tanto dibattuta, per noi si è trattato di una scelta democratica. È impossibile dimenticare l’entusiasmo, la mobilitazione e il coinvolgimento della gente. Tutti i cittadini catalani - la minoranza che ha votato contro, come la maggioranza che ha votato a favore - si sono comportati pacificamente. Purtroppo, però, sono arrivate le manganellate dello Stato, e poi la repressione, la prigione, l’esilio. Quel giorno ha segnato comunque una grande vittoria della democrazia. E oggi pensiamo che il cammino dell’indipendenza è certo più lungo e difficile di quel che pensavamo, ma è irreversibile”. Dopo la prima ondata emotiva, la stampa e i media italiani non sono stati vicini alla causa catalana. E hanno dato spazio quasi esclusivamente a voci anti-indipendentiste. Si è affermata la narrazione del “tradimento” verso il governo centrale, si è lasciato trapelare lo spettro delle piccole patrie, si è avallato un singolare cortocircuito che ha avvicinato gli indipendentisti ai leghisti. Ma lei guida il partito di maggioranza Esquerra Republicana, cioè Sinistra Repubblicana di Catalogna. Non ci sono dubbi sulla parte in cui voi siete schierati - semmai avete contro una destra aggressiva come quella di Vox. “Sa che Vox aveva chiesto 74 anni di prigione per me? Siamo un partito di sinistra e un movimento caratterizzato dalla lotta antifascista - oggi e in tutta la nostra storia. Lottiamo per la democrazia, contro qualsiasi tipo di fascismo e di populismo. I democratici europei devono sapere che i nemici degli indipendentisti, cioè l’estrema destra rappresentata da Vox, sono anche i nemici dell’Europa. E sono Salvini, Orbán, Le Pen e Abascal, il leader di Vox. Difendere la democrazia in Catalogna significa difendere l’Europa e la sua sopravvivenza. Non sprechiamo questa opportunità”. Ma in che modo lei vede nella lotta per l’indipendenza una chance per minare l’egemonia delle forze conservatrici? La concepisce anche come uno scontro tra una monarchia nazionalista e una repubblica democratica? “Noi crediamo che l’indipendenza sia l’unico modo per costruire un paese migliore, più giusto, più libero. E repubblicano. Mi piace guardare all’indipendentismo come un movimento che cerca di sommare e di includere, senza distinzioni di origine, di etnia, di lingua. Credo che anche per questo si sia andato affermando negli ultimi anni, in particolare fra le nuove generazioni. Buona parte dell’area socialista è ora indipendentista e sostiene Esquerra Republicana. Ha certo influito l’immobilismo dello Stato spagnolo che, se per un verso ha avuto mano pesante con i propri cittadini, per l’altro si è mostrato permissivo con la monarchia corrotta”. A proposito di monarchia, anche al netto degli ultimi scandali, com’è possibile, dopo tutto quel che è avvenuto, accettare ancora una monarchia borbonica di derivazione franchista? “È davvero paradossale! Non c’è dubbio che sia una monarchia corrotta e per di più, come lei dice, di derivazione franchista. Ciò dimostra quanto retrograde siano le politiche dello Stato spagnolo che, alla fin fine, non è riformabile. Non stupisce che ci lascino in carcere. A dominare lo Stato è un élite erede del franchismo che impedirà sempre qualsiasi cambiamento. Anche per questo siamo indipendentisti e repubblicani. Molti cittadini hanno smesso di credere e di fidarsi dello Stato e vedono nell’indipendenza anche una possibilità per costruire un paese libero dalla corruzione e dal clientelismo”. Non basta togliere i resti del Caudillo dalla Valle de los caídos, se poi il suo fantasma ispira un nazionalismo aggressivo, come quello che portò al golpe del 1936 e all’odio contro baschi e catalani. Non sono servite due dittature per imporre un’unica nazione. È difficile capire perché lo Stato spagnolo non si riconosca plurinazionale… “Togliere il dittatore dalla Valle era necessario - anche se dopo molti anni! Più importante sarebbe, però, eliminare il franchismo dalle istituzioni, dal modo di agire di questo Stato. E riscattare così la memoria di coloro che furono assassinati da una dittatura criminale. Lo Stato ha cercato di voltare pagina come se niente fosse, mentre c’è ancora chi non sa neppure dove siano finiti i propri cari. La strada è ancora molto lunga”. Credo che l’Europa non sia rimasta a guardare, ma abbia scelto di difendere lo Stato-nazione. Ma era nata per superare gli Stati in una forma politica postnazionale e sovranazionale. È questo, in fondo, il dilemma contenuto nella questione catalana. “L’Europa è un club di Stati che si proteggono tra loro. Sapevamo che si sarebbero comportati così; e tuttavia è un peccato. Noi siamo europeisti, ma allo stesso tempo vorremmo un’Europa più sociale, più giusta, democratica e di sinistra. Penso che non meritavamo il carcere! Questa detenzione arbitraria (come ha ricordato di recente anche l’Onu) è una grande vergogna per lo Stato spagnolo”. Come vede oggi la situazione, che sembra quella di un difficile stallo? Ha ancora fiducia nel dialogo? Soprattutto ha ancora una speranza? Quali sono le prospettive? “Crediamo nel dialogo. Io ci ho sempre creduto - ora più che mai. Anche alla violenza dei manganelli o dei tribunali è giusto rispondere con più democrazia e più dialogo. Non ha senso lo scontro sterile. La pazienza, però, non è infinita. Di recente il Tribunale Supremo ha confermato la sentenza che interdice per 18 mesi Quim Torra dalla sua carica di Presidente della Generalitat. Il suo reato sarebbe quello di non aver rimosso gli striscioni che per le strade e nelle piazze chiedevano la libertà per i prigionieri politici. Questo vorrà dire, fra l’altro, che ci saranno nuove elezioni in Catalogna a febbraio. Resta una tensione molto forte. Lo Stato spagnolo continua sulla via giudiziaria anziché affrontare politicamente la questione. È un grave errore”. Lei ha scritto per i suoi figli un libro di favole, che peraltro ha avuto molto successo ed è stato tradotto in diverse lingue. Perché questa scelta? Sta scrivendo ancora? “Quel libro è stato un modo di rimanere in contatto con loro. Prima di entrare in prigione raccontavo ai miei figli storie, favole, curiosità. Ho voluto scriverle perché le ascoltassero dalla voce della madre. Quel che mi pesa di più in prigione è la separazione dai miei figli; sono loro le vere vittime di tutto questo. Quasi ogni giorno mi dedico alla scrittura. Recentemente ho pubblicato un libro con Marta Rovira in cui delineiamo il progetto di Esquerra Republicana per i prossimi anni”. Malta. Omicidio di Daphne Caruana Galizia: gli intoccabili, la bomba e i legami con la mafia di Cecilia Anesi La Repubblica, 18 ottobre 2020 C’è un gruppo di criminali a Malta, i Maksar, che gestisce i traffici più redditizi e può vantare contatti con Cosa Nostra. Sono lo stesso gruppo citato nell’indagine per l’omicidio della giornalista come coloro i quali hanno fornito la bomba. A tre anni dall’assassinio restano a piede libero. Il 21 luglio scorso Malta si è svegliata nel timore che il testimone chiave del caso Daphne Caruana Galizia finisse in silenzio per sempre. Melvin Theuma era in una pozza di sangue con la gola tagliata. Ricoverato d’urgenza, due settimane più tardi dal letto d’ospedale ha dichiarato di avere tentato il suicidio per via del rimorso. A novembre aveva ammesso di essere l’intermediario nell’omicidio, il cardine tra i mandanti e gli esecutori. Theuma, un tassista con un oscuro giro di amicizie, ha deciso di collaborare con la giustizia dopo l’arresto e ha rivelato come il più ricco uomo d’affari di Malta, Yorgen Fenech, sarebbe stato il mandante dell’omicidio. E, nonostante abbia ricevuto la grazia dall’allora primo ministro Joseph Muscat, il tassista teme che la sua testimonianza non sia presa seriamente a processo. È per questo che, dal letto d’ospedale, ha scritto “qed jidhku bija”. Ridono di me. D’altronde puntare il dito contro Yorgen Fenech non è uno scherzo. Nato nel 1981 nella principale famiglia d’imprenditori di Malta, da ragazzo sognava di diventare come Silvio Berlusconi: ricco, potente, e abbastanza carismatico da farla franca contro quasi qualunque accusa. Oggi Fenech ha connessioni ovunque sull’isola: dalle alte sfere ai bassifondi, dalla Castille (il palazzo del governo) alle baracche sui moli dove prosperano i trafficanti. Ma è anche l’uomo su cui pesa l’accusa più pesante di un processo la cui posta sembra essere diventata l’anima stessa dell’isola. È formalmente accusato di essere il mandante dell’omicidio di Daphne con il supporto dell’entourage dell’ex primo ministro Joseph Muscat. L’accusa si basa sulla testimonianza di Theuma: ha dichiarato sia stato Fenech a dargli istruzioni per assoldare i killer Vince Muscat, Alfred e George Degiorgio. “Yorgen mi ha coinvolto in tutto questo”, ha scritto su un foglio di carta dal letto d’ospedale, quando ancora non era in grado di esprimersi a parole. Mentre a valutare le prove ci penseranno i giudici, quello che certamente è emerso finora dalle udienze è una preoccupante amicizia tra politici di spicco, imprenditori influenti e il “mondo di sotto” della criminalità organizzata maltese. Fenech può anche avere desiderato silenziare Daphne per sempre, ma questo non sarebbe potuto avvenire senza il supporto di criminali professionisti, i fratelli Degiorgio. I Degiorgio erano considerati degli esperti, molto affidabili in quel tipo di lavoro e con una lunga esperienza con le autobombe, usate spesso da una rete criminale che gestisce i principali traffici loschi dell’isola. Al comando di questo gruppo ci sarebbero due fratelli, Adrian e Robert Agius, conosciuti con il soprannome del padre, Maksar. Gli “intoccabili” hanno conquistato una posizione di comando dopo che quasi dieci anni di faide tra i gruppi criminali dell’isola avevano spazzato via i principali boss. Gli Agius sono stati astuti e sono riusciti a sfruttare la situazione a loro vantaggio guadagnando un posto d’onore nei traffici del Mediterraneo e il rispetto di mafie straniere, compresa Cosa Nostra di Catania. I Degiorgio lavoravano per loro, ecco perché anche gli Agius sono diventati persone d’interesse nel caso Daphne. Ma c’è di più. “Porta il messaggio a Maksar che lui (Vince Muscat, il socio dei fratelli Degiorgio ora in carcere, ndr) ha già detto che la bomba è stata assemblata nel loro garage a Zebbug, cittadina dell’entroterra maltes]”, scrive Fenech a Theuma in un messaggio. Un messaggio che suggerisce come Maksar, leggasi gli Agius, abbiano qualcosa a che fare con la bomba che ha ucciso Daphne, o quantomeno che Fenech si preoccupava di proteggerli. Il 4 dicembre 2017 Robert e Adrian Agius vengono arrestati a Marsa, l’insenatura del porto di Valletta dove avviene la maggior parte dei traffici, come Daphne Project ha già raccontato. Vengono sorpresi al molo Tal-Pont, presso il cosiddetto “potato shed” (un ex scarico merci per le patate), una baracca usata dai fratelli Degiorgio come base operativa. È un freddo giorno invernale, due mesi dopo la deflagrazione, e la polizia porta via in manette i Degiorgio, Vince Muscat, gli Agius, Jamie Vella e altri quattro soci. Il giorno seguente saranno tutti rilasciati su cauzione, tranne i Degiorgio e Muscat. Nella perquisizione, la polizia sequestra delle schede Sim, telefoni cellulari e altro materiale probatorio. La speranza, riportavano i media maltesi all’indomani dell’operazione, è che quei dispositivi potessero aiutare a risolvere anche cinque casi irrisolti di autobombe esplose negli anni precedenti, di cui anche Daphne aveva scritto. Vince Muscat, Alfred Degiorgio e George Degiorgio presto vengono formalmente accusati di avere ucciso Daphne Caruana Galizia installando una bomba sotto il sedile della sua auto. Le indagini sveleranno che l’ordigno era stato messo insieme con varie componenti. E il montaggio, scoprono gli inquirenti, è stato portato a termine in un garage a Zebbug. Le perquisizioni portano alla luce vari pezzi di ferro che vengono confrontati con quelli ritrovati all’interno dell’auto esplosa. È sempre in questo garage che sarebbero state attivate le schede Sim usate per detonare la bomba. Comprese le schede usate da George Degiorgio durante l’esplosione. La conferma che il garage sia stato il luogo dove è stato costruito l’ordigno e il fatto che lo stesso fosse nella disponibilità dei fratelli Agius e del loro socio Jamie Vella, uno del gruppo dei primi arrestati, arriva anche dalle udienze del processo. Melvin Theuma, l’intermediario che ha ammesso di essere la connessione tra i killer e il presunto mandante, Yorgen Fenech, ha dichiarato in Tribunale che la bomba è stata fornita dagli Agius. Maksar è stato nominato varie volte durante l’incidente probatorio nei confronti di Yorgen Fenech. Non solo il messaggio in cui Fenech avverte Theuma che Vincent Muscat ha già cantato sugli Agius: il 5 febbraio 2020 in aula viene fatta ascoltare la registrazione di una conversazione avvenuta tra Theuma e Fenech. L’audio prova come i Maksar abbiano giocato una parte e come Fenech ritenga vadano allertati del fatto che Vince Muscat stava rivelando che la bomba fosse stata preparata presso il loro garage. “Lui lo ha mandato a mettere sotto pressione quelli di Zebbug (intendendo i proprietari del garage dove è stata prodotta la bomba, cioè la banda degli Agius, ndr)”, dice Fenech a Theuma. Theuma a processo fornisce un’interpretazione di questo messaggio: dichiara che Fenech intendesse che il capo di Gabinetto del governo, Keith Schembri, avesse mandato la guardia del corpo del primo ministro, Kenneth Camilleri, ad avvertire gli Agius. Perché, spiega, “Yorgen e Keith sono la stessa cosa”. E gli Agius? Fino ad ora non sono stati incriminati e non risultano iscritti nel registro degli indagati. Eppure a gennaio 2020 c’è un’altra testimonianza che li inchioda. Vince Muscat confessa alla polizia durante un interrogatorio per ottenere la grazia (poi negata), che Robert Agius e Jamie Vella abbiano importato la bomba e gli abbiano mostrato come usarla. Inizialmente - racconta sempre Muscat - gli avevano fornito tre fucili d’assalto con mirino telescopico per sparare a Daphne dalla finestra del suo studio. Muscat aveva indicato Alfred Degiorgio come la persona con l’esperienza giusta per maneggiare queste armi. Due dei tre fucili però “non funzionavano bene - Muscat ha dichiarato alla polizia - uno era arrugginito”. Si era quindi scelta la via dell’autobomba. Stando alle dichiarazioni dell’avvocato di Muscat, Marc Sant, gli Agius e Vella avrebbero anche provato a comprare il suo silenzio quando - a fine 2019 - avevano offerto alla sua famiglia 1500 euro al mese in cambio dell’omertà sull’omicidio di Daphne e su altri crimini. La polizia sarebbe stata informata a gennaio ma, ha dichiarato Sant, ha mostrato poco interesse rispetto al tentativo di silenziare Muscat. Fonti qualificate sostengono che la polizia non abbia dedicato molte risorse a scoprire chi abbia fornito la bomba, poiché concentrata sui mandanti. La polizia maltese, dal canto suo, ha richiesto il supporto delle sue controparti europee per cercare di rintracciare i fornitori dell’esplosivo che ha ucciso Daphne Caruana Galizia. La richiesta è stata fatta a Europol nel 2019, nella speranza di raccogliere sufficienti prove per inchiodare i colpevoli. Il Daphne Project ha rilevato che i fratelli Agius sono ritenuti dalla polizia maltese a capo della criminalità locale e li ritiene “obiettivi di primo piano”. In risposta alle domande del consorzio, la polizia maltese ha dichiarato che le indagini sull’omicidio Caruana Galizia sono ancora in corso: “Non possiamo smentire né confermare certe informazioni, ma vogliamo essere chiari sul fatto che le indagini non si sono mai fermate e che vi sono dedicate tutte le risorse possibili”. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, un commissario di lunga esperienza, in piccolo bar di Balzan, nell’entroterra dell’isola, ci mette qualche bicchiere prima di sciogliersi e cominciare a parlare degli Agius e della loro rete: “Hanno contatti ovunque, con la politica, i magistrati, i giudizi, la polizia”. “Potrebbero farmi uccidere se sapessero che sto parlando con voi giornalisti. Non scherzo”, conclude la fonte guardando dritto negli occhi il giornalista di Times of Malta. Ma non è sempre stato così. Nonostante anni trascorsi sul lato sbagliato della giustizia, i fratelli Agius hanno dovuto attendere l’omicidio di loro padre, nel 2008, per emergere nel mondo criminale. Raymond Agius, padre di Robert e Adrian, era un noto contrabbandiere di sigarette chiamato Maksar. Si dice potesse contare su un proprio impianto di fabbricazione di sigarette ma come copertura investiva nel settore edilizio e nella rivendita di automobili. Dopo la sua morte, i figli hanno preso il posto di comando nel business familiare ma, ambiziosi di farsi un nome di spicco nell’ambiente, passano dalle sigarette al traffico di droga. A fine 2011 a Malta scoppia un conflitto tra gang che finisce per creare un vuoto di potere offrendo un’occasione per l’ascesa ai vertici degli Agius. Tutto comincia con un furto: tre uomini in passamontagna e armati fino ai denti, irrompono in un magazzino di Zebbug, di proprietà di un importante narcotrafficante. Senza sparare nemmeno un colpo, i ladri se ne vanno con un carico di cocaina che gli investigatori ritengono potesse avere un valore al dettaglio di 1,4 milioni di euro. Il furto della droga è ritenuta la goccia che farà traboccare il vaso. Da quel momento, inizieranno una serie di violenti omicidi che scuoteranno profondamente l’isola. Raymond Caruana, il primo proprietario della cocaina sottratta, sospetta del furto tre dei suoi uomini: Paul Degabriele, ex soldato dell’esercito conosciuto come “is-Suldat”, il Soldato; Joseph Cutajar, noto come “il-Lion” il Leone e Alfred Degiorgio, il-Fulu, il Topo. Degiorgio, è lo stesso che oggi è accusato di aver azionato l’autobomba che ha ucciso Daphne Caruana Galizia. È così che è iniziata una vera e propria faida, in cui hanno perso la vita is-Suldat (sopravvisuto a un’autobomba è stato poi freddato con un colpo di arma da fuoco), due suoi rivali e lo stesso Caruana. E qui entrano in gioco gli Agius. Fonti di intelligence spiegano come i fratelli abbiano capitalizzato sulla faida. Quando questi hanno cominciato a tramare per uccidersi gli uni con gli altri, gli Agius avrebbero approcciato il-Fulu, Degiorgio, offrendogli protezione. Sarebbe dunque questo l’inizio della relazione tra i fratelli Maksar e i fratelli Degiorgio. Da quel momento, gli Agius avrebbero usufruito dei servizi dei Degiorgio per far fuori gruppi rivali. Ad esempio, nel 2016 un’autobomba ha ucciso Josef Cassar, un trafficante di gasolio. Un alleato degli Agius, ma che a causa di un dissidio finisce condannato a morte. Fonti di polizia spiegano come l’attentato “più truculento” a mano Degiorgio e ordinato dagli Agius sia avvenuto nel 2017. Entrambe le gambe di Romeo Bone sono saltate in aria quando una bomba è esplosa sotto il sedile della sua auto. In quel caso, gli Agius avrebbero ricevuto una soffiata da un ispettore di polizia che Bone, un vecchio amico di famiglia, fosse il centauro con casco che aveva sparato a loro padre nove anni prima, uccidendolo. Come in un romanzo noir, uno dei fratelli Agius è andato a fare visita a Bone durante il ricovero in ospedale. “Nella stanza c’erano nascoste delle cimici. Quando Maksar è entrato (da Bone) non è stata detta una parola. La registrazione è muta. Agius deve averlo solo guardato negli occhi, come a dire “sono stato io e so cosa hai fatto”“, spiega il poliziotto che ha seguito le indagini sull’attentato. Dal 2014 c’è un leitmotiv a Malta: la vendetta si serve via autobomba, specialmente tra trafficanti di gasolio. L’aveva notato anche Daphne Caruana Galizia, quando raccontava di questo mondo. La prima autobomba a uccidere un presunto trafficante di gasolio esplode nel 2014 e toglie la vita a Darren Degabriele, proprietario del ristorante Gente di Mare a Marsaxlokk e attivo nel mondo del commercio di carburante. Gli inquirenti lo ritenevano un associato di Paul Degabriele alias is-Suldat, un altro membro del gruppo criminale di Zebbug. La famiglia di Darren ha negato però alcuna relazione tra i due. Il picco degli attentati con autobomba si ha tra il 2016 e il 2017. Prima tocca a Josef Cassar, 35 anni, che perde entrambe le gambe. La sua Ford Transit esplode mentre guida lungo un’arteria del porto di Valletta. È il 26 settembre, alle 18. La bomba, posizionata sotto al sedile di guida, era riempita di viti e pezzi di metallo che lasceranno vari fori sul vetro del furgone. Le autorità non hanno dubbi che la bomba - fatta esplodere tramite un cellulare - sia stata assemblata con l’intenzione di creare il “massimo danno possibile”, o morte o mutilazione. Cassar è l’unico azionista di un’azienda di facchinaggio nel porto di Marsa, ma si ritiene partecipi al traffico di gasolio e all’organizzazione criminale dei Maksar. Daphne Caruana Galizia lo legava al pescatore Pierre Darmanin perché i due possedevano assieme la barca MV Silver King, al centro di vari casi di contrabbando. Fino al 2013 il proprietario della Silver King era Martin Cachia, anche lui vittima di un’autobomba nel gennaio 2016. Anche lui era un trafficante di gasolio, attivo tra Malta e Egitto. A gennaio 2017 è la volta di Victor Calleja, ic-Chippy, fatto saltare in aria nella sua Opel Astra a Marsa. Fonti del sottobosco criminale indicano che a eseguire l’omicidio siano stati i Degiorgio, soliti frequentare il bar del figlio di Chippy a Marsa, ma non per questo pronti a fermarsi davanti ad un lavoro sporco. Il gruppo criminale degli Agius è potente a Malta anche grazie alle connessioni internazionali sulle quali può contare. Informazioni confidenziali ottenute dal Daphne Project indicano come la cellula degli Agius sia attiva nel traffico di droga, armi e gasolio, con legami che portano a criminalità italiana, libica, romena e albanese. Sia gli Agius che i loro soci Alfred e George Degiorgio e Jamie Vella hanno diversi contatti che portano in Sicilia, in particolare a Catania, la città dove lo spietato clan Santapaola comanda sulle principali attività criminali (compreso il traffico di gasolio via Malta, come già documentato dal Daphne Project). Infatti i Degiorgio e Vella viaggiano molte volte a Catania e dintorni, almeno dal 2012, a dimostrazione di una storia di relazioni che i soci dei Maksar coltivano in zone conosciute per essere sotto il controllo e l’influenza delle mafie. Tra il 2016 e il 2018 Giuseppe Verderame, 66 anni, è stato monitorato più volte in compagnia di Jamie Vella, il socio degli Agius arrestato con a loro al porto di Marsa, nel dicembre 2017, nell’ambito dell’indagine Daphne. Nel 2017 Vella ha viaggiato spesso a Catania, il 10 aprile e poi a maggio, giugno, agosto e settembre. Nello stesso periodo, Verderame era indagato dalla Mobile di Catania nell’ambito dell’operazione “Zeta” per associazione mafiosa, estorsione e possesso di marijuana. Negli anni Novanta è stato indagato anche per omicidio e detenzione di materiale esplosivo. Che genere di affari ha condotto Vella insieme a lui quando è venuto a Catania nel 2017? Una domanda che potrebbe restare per sempre senza risposta. C’è un altro uomo collegato al clan catanese Santapaola, che ha varie attività imprenditoriali a Malta e che gli investigatori maltesi ritengono collabori con gli Agius nel narcotraffico. Dietro la facciata pulita di consulente fiscale, manager dei rifiuti e provider di servizi per pagamenti online, Rosario Militello ha condotto a Malta, che per lui è casa dal 2014, anche altri business. Infatti, nel 2014 è stato arrestato per possesso di tre chili di marijuana, mentre un anno più tardi è stato il terminale di un traffico di armi che dalla Slovacchia poteva arrivare al Nord Africa, passando per Catania e Malta. Nonostante parentele e collegamenti con gruppi mafiosi, la polizia maltese lo ha rilasciato senza indagare più a fondo sul suo conto. È stato sufficiente dichiarare di non avere nulla a che fare con la scatola piena di armi pervenuta al suo indirizzo. Andiamo con ordine. È il 2015 quando i Carabinieri di Catania ricevono una chiamata da un corriere Tnt: “Abbiamo trovato un pacco con armi all’interno”. La maggior parte dei carichi viaggia su ruote, senza controlli, ma quella volta i corrieri non riescono a rispettare i tempi di consegna e così, come a volte accade, trasportano il carico via aereo e il pacco viene scannerizzato ai raggi X. Il mittente del carico conduce i Carabinieri a Picanello, uno dei quartieri di Catania a più alta presenza mafiosa. E qui emerge che un certo Carmelo Piacente è colui il quale spedisce, a volta tramite prestanome, carichi di armi a Malta. Piacente non è un criminale di bassa lega: porta il cognome di una delle famiglie più potenti di Catania (il loro alias è Ceusi) alleato ai Santapaola, che adesso si sono espansi a tutta la Sicilia, dopo il declino dei corleonesi. Piacente acquista fucili d’assalto “disattivati” dalla azienda slovacca AFG Security. A causa di un vuoto normativo, le armi erano legalmente spedite con la classificazione di “armi disattivate” dato che AFG le bloccava con una traversina di ferro, che impediva la possibilità di sparare. Il blocco, però, era rimovibile e le armi potevano sparare. Piacente le “riattivava” rimuovendo manualmente la traversina in una bottega del quartiere Picanello. A questo punto, spediva il tutto a Malta tramite corrieri Tnt o Bartolini. In totale ha spedito circa 60 pacchi, 161 armi. Non molto tempo dopo il primo avviso di Tnt, un altro pacco viene fermato a Marsiglia, punto di raccolta dei carichi Bartolini. La polizia francese, in coordinamento con i Carabinieri, organizza una consegna controllata chiedendo ai colleghi maltesi di arrestare e identificare il destinatario a Malta. Il 30 giugno 2015 all’indirizzo di consegna si presentano due italiani, uno dei quali è Rosario Militello. Il siciliano però dichiara di non essere a conoscenza del contenuto del pacco e viene rilasciato. A Catania mancano elementi per incriminarlo, e Militello resta intoccato a Malta. Dalle indagini emerge però chiaramente come l’uomo abbia gestito un hub logistico, dal quale queste armi potevano viaggiare ancora. D’altronde Militello non è uno sconosciuto per il trafficante d’armi Piacente, i due sono parenti, cresciuti entrambi nelle alte sfere di Cosa Nostra etnea. Militello infatti è imparentato ai Piacenti dal lato di madre - così anche ai Santapaola - mentre dal lato di padre, attraverso la nonna, al clan Laudani. In più, è anche il nipote di Orazio Militello arrestato nel 2016 nel corso dell’operazione Viceré contro il clan Laudani, per il quale aveva un ruolo di primo piano. Un biglietto da visita di tutto rispetto, quello di Rosario, che sull’isola dei pirati di Malta può significare molto. Stati Uniti. Corsa all’acquisto di pistole e fucili: gli americani temono la vittoria di Biden di Sandra Riccio La Stampa, 18 ottobre 2020 Gli analisti: molti temono che il successo alle urne del candidato democratico porti al caos nel Paese. E i principali titoli di industrie di armi volano. Joe Biden, il candidato democratico alla Casa Bianca, è da settimane in vantaggio nei sondaggi sulle elezioni presidenziali in Usa. Di questo trend stanno approfittando i titoli dei produttori americani di armi “da banco”. Molte azioni del comparto sono in forte crescita nelle ultime settimane. E per gli analisti, l’andamento potrebbe proseguire ancora. Il timore che il risultato delle urne possa portare al caos nel Paese sta spingendo molti cittadini Usa ad acquistare pistole e fucili. Didier Saint-Georges, membro del comitato strategico di investimento Carmignac, ricordava qualche mese fa che “i più attenti osservatori della scena politica statunitense temono che il presidente in carica potrebbe essere molto riluttante ad accettare la sconfitta (e che questo potrebbe accadere con un certo ritardo), creando così un clima di incertezza e caos a ridosso delle elezioni. Anche per questo, gli esperti ritengono che i titoli di aziende come “Smith & Wesson” o “Sturm Ruger” saliranno ulteriormente in Borsa. La corsa al rialzo è già iniziata da un mese abbondante. Mentre l’S&P 500, l’indice più importante della Borsa di New York, è in risalita del 3,6% dal primo di ottobre, le azioni di Smith & Wesson hanno già messo a segno un guadagno dell’8,1%. Sturm Ruger è salita addirittura del 9,5%. Da gennaio la performance è anche più impressionante: l’S&P è aumentato del 7,8% mentre Smith & Wesson del 135,4% e Storm Ruger del 51,1%. Molti americani hanno fatto “rifornimento” di armi negli ultimi mesi per paura della pandemia di Coronavirus, dei disordini sociali in seguito alla morte violenta dell’afroamericano George Floyd e per il timore che il risultato delle elezioni presidenziali possa portare al caos. L’industria delle armi, intanto, sta facendo furore: il mese scorso il numero uno di Smith & Wesson ha dichiarato che la sua azienda stava faticando a soddisfare tutta la richiesta di armi che arrivava dai negozi specializzati. Il paradosso è che Joe Biden e la sua candidata alla vicepresidenza, Kamala Harris, vogliono leggi più severe sul possesso delle armi in Usa. Nel breve termine, questa convinzione, porterà secondo gli analisti a una corsa agli acquisti di fucili, pistole, munizioni e quant’altro. I numeri dal passato - Per prevedere il trend del comparto, gli analisti hanno osservato quello che è stato l’andamento dei titoli delle armi dopo la vittoria del democratico Barack Obama. Anche Obama sosteneva una maggiore regolamentazione del possesso delle armi. Ebbene, dall’elezione di Obama a Presidente nel 2008 a quella di Donald Trump nel 2016, le azioni di Sturm Ruger sono aumentate di quasi il 900%, contro un +113% dell’S&P. Biden propone il divieto di vendita delle armi da fuoco rapide, sulla linea delle norme in vigore fino al 2004 negli Usa. Chi possiede già una pistola di questo tipo dovrebbe consegnarla allo Stato o, per lo meno denunciarla. I repubblicani, invece, sono stati tradizionalmente sempre molto vicini alla potente lobby americana delle armi. Questo aspetto potrebbe portare voti in più all’area di Trump.