Marta Cartabia: “Riscatto per qualsiasi detenuto, ecco la dignità della pena” di Errico Novi Il Dubbio, 17 ottobre 2020 Una relazione diretta fra il pensiero cristiano “profondissimo” di Carlo Maria Martini, non solo “teologico” ma anche “civile”, non “pragmatico” ma così radicato “nell’esperienza”, e le “sentenze particolarmente audaci” della Corte costituzionale sulla pena. La traccia Marta Cartabia, presidente emerita della Consulta, nella sua monumentale lettura su “Riconoscimento e riconciliazione” di ieri mattina all’università Milano Bicocca. Nel “suo” ateneo, lì dove la prima donna presidente della Corte è tornata a portare il proprio insegnamento, ieri è ripresa la “Martini Lecture Bicocca” dedicata al magistero dell’arcivescovo che ha segnato la storia di Milano. E la lezione di ieri è un caposaldo da custodire a lungo, nel dibattito sul carcere e sulle ostatività. Sui detenuti di mafia e sul 4 bis. Cartabia ha l’umiltà di celare la propria riflessione in quella di Martini, e mette così in relazione teologia e diritto, fino al culmine di un assioma ripreso dagli insegnamenti del Cardinale: “La dignità va intesa come incomprimibile possibilità di recupero, di riscatto, qualunque cosa sia accaduta prima, qualunque fatto sia stato commesso: qui è la dignità della persona”. Da qui nasce l’idea che “la pena debba guardare sempre al futuro, volta a sostenere il cammino di cambiamento di ogni persona: è lo stesso sguardo”, ricorda la presidente emerita della Corte, “che si ritrova in tanti interventi di papa Francesco in materia di carcere. Speso il Papa sottolinea la necessità di non privare mai nessuno del diritto di ricominciare, e chiede che il carcere abbia sempre una finestra, fisica e simbolica, reale e metaforica”. Ed eccola, la finestra, cioè la speranza, il diritto alla speranza affermato dalla sentenza 253 del 2019 con cui la Consulta, il 23 ottobre dell’anno scorso, ha stabilito che anche i condannati per reati ostativi, secondo cioè le preclusioni nell’accesso ai benefici stabilite dal famigerato 4 bis dell’ordinamento penitenziario, devono poter ottenere almeno i permessi brevi senza necessariamente dover sottostare al vincolo della collaborazione. Cartabia riconnette quella pronuncia al più alto pensiero cristiano contemporaneo, Martini e Bergoglio. Non a caso, subito dopo il riferimento a Francesco, dice che “pur senza voler per forza indugiare nei riflessi tecnico giuridici del pensiero di Carlo Maria Martini”, l’idea della pena rivolta al futuro rimirato dalla finestra della speranza “è anche il cammino che negli ultimi anni ha fatto la Corte, con più di una sentenza particolarmente audace”. E in quelle pronunce, ricorda la presidente emerita, “quello che si tende a evitare è avere forme di esecuzione della pena improntate a rigidità, a fissità che non tengono conto di come il tempo della pena sia diverso per ciascun individuo”. Proprio il senso della sentenza di un anno fa, di quell’infrazione al dogma del 4 bis che vorrebbe tutti ugualmente irrecuperabili e irredimibili per il sol fatto di non iscriversi alla teoria del pentitismo. “È così che la Corte ha eliminato divieti assoluti, in modo da disegnare non regole fisse, ma un cammino che accompagna ogni uomo”, Verrebbe da dire che, dopo una lezione del genere, tentativi come quello della commissione parlamentare Antimafia di “circoscrivere per legge ordinaria” gli effetti della sentenza sui reati ostativi, e sull’ergastolo ostativo, dovranno fare i conti anche con lo spessore gigantesco del pensiero di Martini, e di Francesco. Un pensiero che d’altronde non proviene dall’astrazione teologica o accademica, ma appunto da una visione “che non si può dire pragmatica” e che pure attinge all’esperienza”. Ed è l’esperienza evangelica che assimila, nella lettura di Cartabia, Martini a un padre dell’avvocatura come Piero Calamandrei: “Se si vuole condurre una riflessione sulla realtà dei detenuti e delle pene bisogna aver visto”, scandisce all’inizio della sua lettura la costituzionalista, “proprio come osservava Calamandrei in un intervento sul carcere pubblicato nel 1949 su “Il ponte”. Anche per Carlo Maria Martini”, nota, “la riflessione sul carcere è iniziata così, con l’aver visto: il Cardinale decise di iniziare la propria attività pastorale da arcivescovo di Milano con una visita nel carcere di San Vittore”. Risuona il “famoso versetto del capitolo 25 di Matteo che tante volte Martini ha ripetuto nei propri scritti: “Ero in carcere e mi avete visitato”. E anche la Corte costituzionale, ricorda la presidente emerita, “anche noi”, ripete, “abbiamo visitato le carceri, a cominciare da quella data, il 15 ottobre 2018, in cui varcai la stessa soglia varcata da Martini”. Ecco, anche i giudici costituzionali hanno “visto”. E dopo aver visto i detenuti, “quel mondo sottosopra che dopo ti lascia con più domande e meno certezze”, hanno emesso la sentenza sul 4 bis. Forse anche chi vuole “circoscriverla per legge ordinaria”, qualunque cosa voglia dire, dovrebbe, prima, vedere. Gli affetti dei detenuti calpestati dalla politica: niente trasferimenti, visite e spazi per bambini di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 17 ottobre 2020 I sentimenti dei detenuti calpestati dalla politica: niente trasferimenti, visite e spazi per bambini. Detenuti temporaneamente assegnati alle carceri nelle regioni di provenienza, telefonate ai familiari più lunghe, colloqui in spazi riservati. E poi permessi “più generosi”, locali più accoglienti per i figli dei reclusi e mini-appartamenti per consentire ai condannati di trascorrere qualche ora di vita “normale” in compagnia dei parenti. Sapete quante di queste proposte, emerse durante gli stati generali dell’esecuzione penale del 2015, si sono tramutate in realtà? Nessuna. E così l’affettività di chi si trova nelle carceri italiane, incluse quelle campane, viene sempre più spesso mortificata. Il tavolo di lavoro chiamato a occuparsi dei sentimenti dei detenuti aveva formulato una serie di suggerimenti che avrebbero dovuto modificare l’ordinamento penitenziario definito nel 1975. Così non è stato, visto che il testo della riforma è arrivato in Parlamento alle soglie delle elezioni del 2018 ed è stato successivamente depotenziato dal governo formato da Lega e Movimento 5 Stelle. Le conseguenze di questo flop sono evidenti, anche e soprattutto in Campania. Pensiamo al tema della territorializzazione della pena. Il tavolo aveva suggerito di assegnare temporaneamente i detenuti “di fuori regione” a penitenziari sul loro territorio di origine, in modo tale da favorire gli incontri con i familiari. Esempio: un siciliano detenuto in Campania avrebbe potuto chiedere e ottenere la possibilità di trascorrere un mese in un carcere della sua regione di provenienza. Questa proposta è rimasta lettera morta con buona pace dei detenuti non campani che si trovano nella nostra regione e non sono pochi. Secondo la relazione annuale del garante campano dei detenuti, nel 2019, nelle prigioni campane si contavano almeno 377 reclusi provenienti da altre regioni, pari al 7% del totale. Tra questi 234 erano registrati a Secondigliano, 40 a Poggioreale e 31 a Nisida. Per loro, ovviamente, incontrare i familiari era ed è più complicato. “Eppure - sottolinea il garante Samuele Ciambriello - il successo dell’attività di reinserimento dipende dalle condizioni in cui viene svolta, quindi anche dalla possibilità per chi è ristretto di incontrare i propri familiari”. Ancora, il tavolo suggeriva di concedere “permessi di affettività” in casi di particolare rilevanza per i parenti del detenuto. Era proposto l’aumento dei colloqui da quattro a sei e delle telefonate da due a quattro anche per i reclusi per reati più gravi. Per questi ultimi si prevedevano non più dieci ma venti minuti di telefonate a settimana, con la possibilità di “consumarli” in più giorni, e un più largo utilizzo della posta elettronica. La vera novità era l’introduzione di colloqui intimi, cioè di incontri non sottoposti a controllo visivo e auditivo. Anzi, l’architetto Luca Zevi aveva ipotizzato persino la costruzione di mini-appartamenti, dotati di cucina e di letto, in cui i detenuti avrebbero potuto trascorrere 24 o 48 in compagnia dei familiari. “Anche questa proposta non ha avuto seguito - fa sapere Zevi - ma non demordo: con le risorse del Recovery Fund l’Italia può rifondare il sistema penitenziario che è parte integrante dello Stato sociale. È ora di mettere in campo una progettualità ambiziosa che renda le carceri luoghi di riabilitazione e non di mera afflizione”. L’ultima proposta riguardava la creazione di case famiglia protette, indispensabili per evitare la permanenza in carcere dei bambini con le loro madri detenute. Anche questo fenomeno è diffuso in Campania: attualmente sono sette le mamme recluse e nove i bambini con meno di tre anni di età che vivono dietro le sbarre tra Lauro e Salerno, dove si trovano i due penitenziari attrezzati per accogliere questo particolare tipo di ospiti. In Campania, dunque, ci sono bimbi che trascorrono in carcere i primi mesi di vita, lontani da affetti e contesti familiari, costretti a subire assurde costrizioni. Le proposte emerse durante gli stati generali dell’esecuzione penale avrebbero potuto correggere le aberrazioni del sistema penitenziario italiano. Invece, ancora una volta, nella classe politica ha trionfato quella voglia irrefrenabile di manette e carcere che procura un facile consenso a qualche partito. “Certe proposte non sono passate perché manca una cultura della pena costituzionalmente orientata - sottolinea Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane - Bisogna capire e far capire che al detenuto può essere tolta la libertà, ma non la dignità. E, in questa prospettiva, l’affettività dei reclusi va tutelata in modo continuo: solo così chi si trova in carcere può dimostrare di essere diventato una persona migliore, una volta scontata la pena”. Covid in carcere, più contagiati ma quelli a rischio sono dentro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 ottobre 2020 Cresce il numero del contagio da Covid in carcere: siamo giunti a 90 agenti della polizia penitenziaria e 54 detenuti positivi. Continua a crescere il numero del contagio da Covid in carcere, soprattutto tra il personale di polizia penitenziaria, ma tutto è ancora rimasto fermo quando a giugno è stata decretata la fine dell’emergenza. Il numero della popolazione carceraria è in continua crescita, il decreto “Cura Italia”, che ha contribuito in minima parte a sfoltire le carceri, è scaduto da un pezzo e, come se non bastasse, ancora non sono stati ratificati i protocolli per la prevenzione e la sicurezza del personale penitenziario. Il numero dei contagi - Al 10 settembre risultavano 11 poliziotti penitenziari e 10 detenuti positivi al virus. Dopo un mese, esattamente con i dati aggiornati ieri dal bollettino del Dap, siamo giunti a 90 agenti penitenziari e 54 detenuti positivi. Un balzo gigantesco nell’arco di un mese. Cosa significa? Considerando i dati del mondo “esterno”, vuol dire che la seconda ondata dovrebbe porre l’attenzione sui luoghi chiusi. Dalle Rsa (basti pensare la residenza di Avezzano, provincia de l’Aquila con 103 casi di Covid) alle carceri, dai centri di permanenza agli hotspot, il problema potrebbe nuovamente sfuggire di mano. Non solo. Attualmente ci sono dei penitenziari che ospitano diversi detenuti con gravi patologie e over70enni. A causa della polemica scientemente scatenata contro quella famosa nota circolare del Dap che ha chiesto di segnalare alle autorità giudiziaria questa tipologia di detenuti a rischio, tutto si è fermato e numerose istanze di scarcerazione sono rimaste inevase. La malattia mentale amplificata dal Covid - Se la popolazione ristretta è praticamente tutta suscettibile al Coronavirus, in questo ambito è cronicamente elevata la circolazione di altri virus, in particolare epatici come l’HCV che provoca l’epatite C. Ne consegue che in questa nuova fase dell’epidemia divenga ancora più importante l’esecuzione dei test combinati HCV/Covid nei 190 istituti penitenziari italiani. Ma cresce la popolazione penitenziaria e non si è fatto nulla nemmeno dal punto di vista sanitario attraverso test combinati a tappeto. Il famoso tracciamento che non è stato fatto quando c’era tutto il tempo. Si aggiunge anche un altro problema che vale per il mondo libero, ma che in carcere si amplifica a causa del suo meccanismo totalizzante: l’emergenza della salute mentale alimentata dal disagio della pandemia. Depressione, ansia e disturbi del sonno, durante e dopo il lockdown, hanno accompagnato e stanno riguardando un numero enorme di persone. L’ultimo rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla salute mentale rivela che oggi nel mondo quasi un miliardo di persone convive con un qualche tipo di disturbo mentale e che l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia di Covid ha provocato un significativo aumento di disturbi psichici. Le persone rinchiuse nelle carceri costituiscono soggetti particolarmente vulnerabili: secondo dati noti, circa il 50% dei detenuti era già affetto da questo tipo di disagi prima della diffusione del virus. “Il problema psichiatrico o quantomeno quello del disagio mentale è diventato una delle questioni più gravi del sistema penitenziario italiano - ha fatto sapere il Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità nei Penitenziari Luciano Lucanìa - infatti in sede congressuale abbiamo avuto un confronto su questo tema delicato con i contributi di accademici, direttori dei penitenziari, medici specialisti che lavorano alla psichiatria territoriale e operatori attivi nel sistema penitenziario stesso. È evidente come la pandemia di Covid e soprattutto i primi mesi abbiano reso queste problematiche ancora più evidenti e complesse”. Penalizzazione del detenuto, senza ripensare il carcere - Per ora il governo ha risposto con le chiusure, quindi limitazioni colloqui, isolamento obbligatorio di otto giorni (e senza usufruire dell’ora d’aria) dopo rientro da un permesso premio. Tutte misure che sono di fatto punitive, mentre non si utilizza la misura più consona per evitare assembramenti e quindi garantire distanziamenti fisici e gestione di eventuali emergenze: le scarcerazioni. Sì, perché il coronavirus poteva e può essere l’occasione per ripensare le pene detentive e la tutela della dignità dei detenuti. Arriva così il rischio di ripiombare alla situazione inziale quando fummo tutti colti alla sprovvista. Oggi non c’è la scusa del “cigno nero”, l’evento non è più considerato improbabile. Le direttive di marzo scorso parlano, in caso di contagio, di porre i detenuti in celle singole per l’isolamento sanitario. Era difficile, tuttavia, comprendere in che modo ciò possa essere organizzato, tenendo conto del fatto che c’erano circa 61.500 detenuti per un totale di 47.231 posti effettivi. E non ci sono celle vuote, semmai ce ne sono di inagibili. Ora man mano la popolazione è in crescita, quindi si potrebbe ripresentare lo stesso identico problema. Ricordiamo che a causa della chiusura senza se e senza ma, i detenuti si erano sentiti lasciati da soli e impauriti dal virus. Le criticità preesistenti erano emerse con forza e ha avuto come conseguenza violente rivolte, con tanto di morti e pestaggi come reazione. Tutto questo si può evitare. Il ritardo per garantire sicurezza al personale penitenziario - Ma il protocollo per la prevenzione e la Sicurezza nei luoghi di lavoro in ordine all’emergenza sanitaria da Covid? Per quanto riguarda i penitenziari è in estremo ritardo. Forse mercoledì prossimo si potrebbe raggiungere una condivisione tra il Dap e le organizzazioni sindacali. Per capire del perché si parla di ritardo, basterebbe leggere la nota rivolta al capo del Dap ad agosto da parte del sindacato Uilpa. “Se in quella fase (la prima ondata ndr) la portata dei contagi e l’emergenza pandemica potevano aver colto di sorpresa (anche se in verità questa Organizzazione Sindacale aveva segnalato con discreto anticipo e con ripetuta corrispondenza diretta a molteplici interlocutori istituzionali il rischio che si verificasse gran parte di ciò che poi è di fatto accaduto) - si legge nella nota -, è persino lapalissiano che nessuna attenuante vi potrebbe essere in futuro se non fosse per tempo pianificata ogni ragionevole misura idonea a prevenire sia i pericoli sanitari sia le possibili turbative all’ordine carcerario”. La Uilpa aveva denunciato il fatto che Il Dap non aveva ancora inteso condividere con i sindacati penitenziari un qualunque protocollo di misure per il contrasto e il contenimento dei rischi di contagio da Covid negli ambienti di lavoro e che l’unico confronto sul tema, tenutosi in data 14 maggio 2020, si era concluso con l’impegno assunto anche dal vice capo Tartaglia, di proseguirlo in data immediatamente successiva. Alla fine siamo arrivati alla riunione del 6 ottobre scorso dove finalmente si è parlato del protocollo. Partendo dalla bozza del ministero, il segretario generale della Uilpa Gennarino De Fazio, tra le altre cose, ha proposto che le carceri devono essere dotate (a pari della sede centrale del Dap) di termo-scanner per la rilevazione della temperatura corporea, fare continue sanificazioni degli ambienti di lavoro, automezzi compresi, previsione di una formazione specifica anche in ordine alle modalità di utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. Se ne riparla però mercoledì. “Consulenti del pm più attendili”, il paradosso della Cassazione richiede la riforma della Carta di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 17 ottobre 2020 Nella sentenza della terza sezione penale della Suprema corte si legge che la consulenza dell’Ufficio di Procura è “assistita da una sostanziale priorità” rispetto alla consulenza della difesa, “anche se costituisce il prodotto di un’indagine di parte”. L’affermazione della Cassazione ha immediatamente spinto la mente dei giuristi a recuperare il testo della legge costituzionale 23 novembre 1999, numero 2, relativa all’inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione, e con questa i lavori preparatori in seno a quella che fu la Tredicesima Legislatura. A distanza di poco tempo dalla stesura della prima bozza di proposta relativa all’inserimento della figura dell’avvocato nella Carta costituzionale, l’arresto giurisprudenziale appena ricordato ingenera non poche perplessità e lascia basiti proprio gli avvocati, se non fosse che proprio il presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio fu uno dei primi magistrati ad unirsi all’iniziativa del Cnf sull’inserimento in Costituzione della figura dell’avvocato per mettere in evidenza l’esigenza di modificare la Carta Fondamentale: come brillantemente illustrava il Presidente, la necessità di una riforma in tal senso è ricollegabile al principio dell’autonomia e dell’indipendenza della difesa, tassello irrinunciabile della professione forense. E allora rileggendo i resoconti stenografici d’aula del Senato della Repubblica della seduta numero 549 del 18 febbraio 1999 di esame al nuovo articolo 111 della Costituzione, si coglie tutta la forza e tutta la volontà di rinvenire un equilibrio tra Accusa e Difesa, quali parti processuali aventi pari dignità. La parità tra accusa e difesa è un minimo necessario, dovuto anche se non esplicitamente riconosciuto, almeno implicitamente ricavabile: uguaglianza significa uguali davanti alla legge, uguali nella possibilità di difendersi attraverso un contraddittorio tra le parti che si svolga in condizioni di parità, in ossequio al sacrosanto principio della presunzione di innocenza e della trasparenza dei processi. Mutuando ancora il pensiero filosofico, ricordo che per Locke, il grande ispiratore della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del liberalismo, l’eguaglianza era l’eguale godimento della libertà: il problema però è un altro, “il vero dibattito sul giusto processo si svolge, in realtà, al di fuori di quest’aula”, così annotava il senatore Gasperini nel corso di quell’esame parlamentare, lasciando intendere che il terreno sul quale si gioca la parità dei ruoli è quello del processo, nelle aule di giustizia. Sottomettere un principio fondamentale, riconosciuto in tutti i Paesi civili del mondo, a finalità applicative contingenti non è coerente né con l’esigenza di chiudere velocemente alcuni capitoli processuali pendenti, né con la parità tra le parti, né tantomeno con la terzietà del giudice che - preferendo una parte piuttosto che un’altra - tanto terzo non pare. Diritto alla difesa e parità con l’accusa non sono forse già sanciti come princìpi e ampiamente condivisi dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo? Dobbiamo tornare a far battaglia per una giustizia che sia degna di tale nome? Così chiudeva il suo intervento il già citato senatore Gasperini. Pare anacronistico dover tornare sul “giusto processo” a distanza di ormai 20 anni, quando il principio è ormai più che maggiorenne. Appare straordinario dover ripetere qui concetti che sono ormai nella coscienza di ogni tecnico del diritto, recepiti anche nell’ambito dell’esperienza di ogni giorno: le parti devono essere poste su un piano di parità tra loro; il giudice deve essere terzo; la prova si acquisisce in dibattimento, dove si valuta la sua attendibilità, sia che provenga dall’una sia che provenga dall’altra parte, e con questi mezzi si può raggiungere il fine del processo, che è l’accertamento della verità. E allora torniamo alle parole del presidente Canzio che appaiono ancora più condivisibili e trovano la loro ragione nel meccanismo di inserire in coda al secondo comma dell’articolo 111 le parole “salvo i casi espressamente previsti dalla legge, nel processo le parti sono assistite da uno o più avvocati, i quali, al fine di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, esercitano l’attività professionale in condizione di libertà e indipendenza”. Poche righe ma che portano il peso specifico del profilo dell’avvocato, figura divisa tra il dovere di osservare la Legge e quello di difendere - da qualsiasi accusa - l’assistito, e per questo sinonimo di libertà. La parità si apprezza ancor più nel momento di formazione della prova, determinante in quanto funzionalmente idonea a contrastare, neutralizzandola, quella mentalità retrograda, ma ancora oggi assai dura a morire, secondo cui l’istruttoria dibattimentale rappresenti non già il momento e la sede di formazione della prova sui fatti di causa addotti a carico dell’imputato, bensì una sorta di ultima spiaggia della difesa, in cui le viene garantita la possibilità di confutare la prova del fatto- reato già formatasi e perfezionatasi nel corso delle indagini, come annotava anche il senatore Mungari, sempre nei corposi lavori preparatori. E come se non bastasse a svilire il ruolo dell’avvocato, come qui già detto, arriva la riforma penale che annichilisce ogni speranza di equilibrio giuridico che si coglieva nel lontano 1999, quando il Parlamento lavorava alla parità delle armi tra Accusa e Difesa. Serve maggior confronto, serve ascolto, dell’avvocato, soprattutto. *Avvocato, Direttore Ispeg Santa Maria Capua Vetere. Per il Governo i pestaggi sono solo il “ripristino della legalità” di Nello Trocchia Il Domani, 17 ottobre 2020 Il sottosegretario alla Giustizia Ferraresi trasforma la spedizione del 6 aprile in un’azione legittima. Ma la ricostruzione ufficiale contraddice le testimonianze e le riprese video. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, non rilascia dichiarazioni alla stampa sulle violenze in carcere, ma il governo ha dovuto rispondere alla Camera sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, avvenuti il 6 aprile scorso. Il caso è stato sollevato da Riccardo Magi, deputato di +Europa-Radicali, e Manfred Schullian della Sudtiroler Volkspartei, che hanno presentato una interpellanza urgente al ministro. La risposta del sottosegretario Vittorio Ferraresi è stata che quel 6 aprile si è svolta un’azione di ripristino della legalità. Si è dimenticato di aggiungere che la legalità è stata ripristinata a colpi di manganello. “La verità è che siamo di fronte a dei fatti non solo gravissimi, ma di portata eversiva rispetto alla nostra Costituzione, se confermati. Il ministro non ha mai avuto la sensibilità istituzionale di condannare e prendere le distanze dai fatti, anche utilizzando il condizionale”, dice Riccardo Magi”. Il 6 aprile, un contingente composto da agenti della Polizia penitenziaria provenienti da vari istituti campani è entrato nel carcere Francesco Uccella e ha trasformato la perquisizione in una spedizione punitiva. I video di sorveglianza, dei quali si è scoperta l’esistenza grazie a riscontri e testimonianze, mostrano minuto per minuto l’azione fuori da ogni regola del battaglione di agenti. Gli indagati sono circa un centinaio e le immagini sono nei fascicoli della magistratura. Detenuti inginocchiati, schiacciati contro il muro, finiti con costole rotte e traumi di ogni genere. Tra i picchiati c’era anche un recluso disabile. Dopo un lungo silenzio, il governo ha dovuto prendere una posizione ed è stata chiarissima. Il sottosegretario Vittorio Ferraresi, rispondendo all’interpellanza, ha ricostruito tutti i passaggi della vicenda e ha notato che c’è una inchiesta in corso, coperta da segreto d’indagine, avviata dalla procura locale dopo le denunce dei garanti dei detenuti, dall’associazione Antigone e dai reclusi. Esaurita la premessa, il sottosegretario ha ripercorso la vicenda rimuovendo scrupolosamente quanto è stato scoperto e denunciato nelle scorse settimane in queste pagine. Ha ricordato che il 5 aprile, a seguito della notizia di alcuni casi di positività in uno dei reparti, in un padiglione si è accesa una protesta che Ferraresi definisce “violenta”. “Gli stessi, (i detenuti, ndr) attraverso la demolizione di numerose suppellettile arredi dell’amministrazione (tra cui brande, tavoli e sgabelli), e non solfi, si barricavano all’interno delle sezioni di allocazione, impedendo ogni accesso al personale penitenziario”, ha detto. Poi ha aggiunto: “Il comandante ha richiesto ausilio di risorse, avendo ricevuto minacce di ritorsione da parte dei detenuti rivoltosi qualora si fosse fatta irruzione per il doveroso ripristino dell’ordine e della sicurezza”. In merito alla perquisizione straordinaria, debordata in pestaggi e violenze, è arrivato a dire che è stata una “doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”. Nella stupefacente ricostruzione, il sottosegretario ha raccontato di detenuti che opponevano resistenza e di dodici reclusi sanzionati. Le domande senza risposta - L’ultimo passaggio preso in esame è la notifica del decreto di perquisizione a carico di 57 agenti, avvenuto l’11 giugno. Il sottosegretario ha riferito della protesta degli agenti e della tensione dovuta all’identificazione del personale civile e di polizia “alla presenza di familiari e dei passanti”. La risposta è terminata qui perché poi il sottosegretario si è occupato di fatti accaduti a metà giugno quando dopo una rivolta è intervenuto il Gom, il gruppo operativo mobile, con il trasferimento di alcuni detenuti Nessuna indagine interna è stata aperta perché, ha riferito il sottosegretario, si attende di leggere gli avvisi di garanzia richiesti alla procura e non un nulla osta che basterebbe all’apertura di una verifica interna. In questa ricostruzione manca infine un particolare cruciale. Ferraresi ha completamente rimosso la visita del magistrato di sorveglianza che, il 6 aprile, ha visitato il carcere e ha definito la situazione “sotto controllo”. Durante la visita del magistrato Marco Puglia non è accaduto nulla di grave nonostante la rivolta “violenta” avvenuta appena il giorno prima: l’ha definita così il sottosegretario. Nessuna particolare misura di tutela è stata predisposta per quella visita. Non solo. Marco Puglia, intervistato dal tg regionale della Rai, nella mattina del 6 aprile, ha detto: “Il profilo dell’ordine e della sicurezza è sotto controllo, c’è stata solo una protesta rientrata”. Il sottosegretario parla di una violenta manifestazione, di un comandante minacciato, e il giorno dopo un magistrato di sorveglianza riferisce in tv di una situazione miracolosamente sotto controllo? A questa domanda se ne aggiunge un’altra: si può definire una spedizione punitiva, con pestaggi e violenze, una doverosa azione di ripristino di legalità? Per il governo sembra di sì. Santa Maria Capua Vetere? “Ripristinata la legalità” di Angela Stella Il Riformista, 17 ottobre 2020 Ieri alla Camera la risposta all’interpellanza di Riccardo Magi (+Europa). Il sottosegretario Ferraresi: “A oggi nessuna iniziativa disciplinare, il Dap aspetta il fascicolo dalla procura”. Gli agenti coinvolti restano al proprio posto. Finalmente nella seduta di ieri mattina della Camera è arrivata la prima parziale risposta ufficiale del Governo sugli episodi di inaudita violenza che si sono verificati lo scorso 6 aprile nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere. Il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi del Movimento Cinque Stelle ha risposto infatti ad una interpellanza urgente presentata lo scorso 12 ottobre da Riccardo Magi (Radicali Italiani, +Europa). L’onorevole Magi ha interrogato il Ministro Bonadefe per sapere se fosse informato, insieme al Dap, della perquisizione che si è svolta quel giorno nel carcere campano e se siano in corso indagini interne. Secondo quanto riportato, infatti, da alcuni articoli del Domani e del Riformista, si sarebbero consumati, scrive Magi, “episodi di inaudita violenza; calci, pugni, manganellate e abusi di ogni tipo, perfino su un detenuto disabile; le testimonianze e le denunce dei detenuti sarebbero ora confermate dai video agli atti dell’inchiesta, che mostrerebbero immagini di reclusi inginocchiati, trascinati e picchiati da più poliziotti contemporaneamente; la “spedizione punitiva” seguiva le proteste per la gestione dell’emergenza Covid-19 scoppiate all’inizio di marzo 2020, contestualmente in numerosi istituti penitenziari in tutta Italia, e il 5 aprile 2020, alla notizia del primo detenuto positivo nel carcere campano, ha coinvolto circa 150 detenuti; il 6 aprile 2020 i detenuti ottengono un colloquio con il magistrato di sorveglianza Marco Puglia; il pomeriggio stesso, arriva un contingente di 300 agenti penitenziari provenienti dall’esterno per una “perquisizione straordinaria” che darà luogo agli episodi di violenza riportati sopra; molti degli agenti avevano il volto coperto dal casco, da foulard o mascherine, rendendone difficile l’identificazione dai video”. L’onorevole Ferraresi ha fornito una ricostruzione ovviamente parziale dei fatti, in quanto c’è in corso una inchiesta penale aperta dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. Diversi sono gli aspetti a nostro avviso di rilievo della risposta di Ferraresi: il primo riguarda una possibile mancanza di interlocuzione tra il Ministero e la Procura, perché il sottosegretario scrive: “Con nota dell’8 luglio, la componente direzione generale del personale e delle risorse del Dap ha chiesto alla direzione dell’istituto di acquisire presso la competente A.G. copia integrale degli avvisi di garanzia a carico del personale di polizia penitenziaria coinvolto, al fine di conoscere le contestazioni. In assenza di riscontro, con nota del 28 settembre 2020, la competente direzione generale del personale e delle risorse ha chiesto direttamente alla Procura della Repubblica copia integrale degli avvisi di garanzia, evidenziando che la richiesta costituisce elemento indispensabile ai fini di ogni determinazione da parte di questa amministrazione. Anche per tale ragione, allo stato, non risulta intrapresa alcuna iniziativa sia di natura cautelare sia disciplinare a carico del personale coinvolto”. Quindi dobbiamo aspettare la Procura affinché il Ministero e il Dap possano intraprendere un’azione ispettiva? Intanto da quello che abbiamo appreso, gli agenti coinvolti restano al loro posto. Sempre nella risposta c’è scritto che “unitamente al Capo Dipartimento anche il Ministro ha avuto cura di telefonare ad altri operatori del Corpo rimasti feriti”. Non ci risultano però messaggi di solidarietà o di vicinanza ai detenuti feriti. L’altro punto degno di attenzione è che Ferraresi scrive che il giorno seguente al 5 aprile, quando cioè “i detenuti allocati presso il reparto Nilo inscenavano una violenta manifestazione di protesta” dopo aver saputo dei contagi nel padiglione Tamigi, il 6 aprile, a “protesta rientrata” nella tarda serata del 5, “è stata disposta l’esecuzione di una perquisizione straordinaria all’interno del reparto Nilo. Si è trattato di una doverosa azione di ripristino della legalità e agibilità dell’intero reparto, alla quale ha concorso, oltre che il personale dell’istituto, anche un’aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi”. E allora sorgono altre due domande: perché nella ricostruzione ministeriale non viene citato il colloquio avuto la mattina del 6 aprile tra i detenuti e il magistrato di sorveglianza Puglia che, da quanto sappiamo, ha girato senza essere scortato, quindi in una situazione possiamo pensare di tranquillità? E poi, se la manifestazione di protesta era rientrata progressivamente nella tarda serata del 5, qual è il senso di una perquisizione con centinaia di agenti anche esterni? Raccontata così la vicenda, si rafforzano i dubbi che il ‘ripristino della legalità’ si sia davvero trasformato in una spedizione punitiva. Ma questo ce lo dirà l’eventuale processo. Firenze. “Sollicciano peggio di un pollaio: è incivile” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 17 ottobre 2020 L’attacco del Garante dei detenuti Fanfani: “Condizioni oltre ogni immaginazione”. Il neo Garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani ieri ha visitato il carcere di Sollicciano e il suo giudizio è stato impietoso: “Un pollaio è più decoroso. Sollicciano è un postribolo”. Parole dure, certo non usuali per un rappresentante istituzionale quale Fanfani, ma che l’ex componente del Consiglio Superiore della magistratura ha scelto dopo aver toccato con mano la situazione. “La struttura fa letteralmente acqua da tutte le parti – spiega. Le infiltrazioni sono tante e tali che per tentare di arginarle sono addirittura stati piazzati secchi sulle scale, mentre è usata una copertura di nylon a protezione di parti di vetrocemento esplose, e molte strutture e pareti sono infiltrate di acqua. La situazione è incompatibile con una società che si vuole definire civile”. Poi il richiamo al ministro della giustizia: “Esorto il ministro a non parlare di tre metri quadri a detenuto, ma a venire a vedere in che condizioni versa questo carcere e spieghi anche ai bambini detenuti con le madri, che ho incontrato, come sia possibile e ammissibile che la prima esperienza di vita possa essere all’interno di un carcere deprimente”. Secondo Fanfani, “le condizioni del carcere superano ogni immaginazione possibile”. Così parla di una “esperienza traumatica” soprattutto nell’incontro con due bambini molto piccoli “Unico loro conforto sono i numerosi volontari che tentano di assisterli nel migliore dei modi pur in una situazione tanto drammatica”. Poi l’annuncio di una nuova visita: “Tornerò e chiederò il permesso di scattare delle foto. Forse anche il direttore del Dap, che invito a venire, riuscirà a commuoversi”. Milano: “I detenuti siano pagati, no al lavoro gratis”: la Cgil contro il Comune Il Giorno, 17 ottobre 2020 “Sul parco di Rogoredo scelta sbagliata”. “Abbiamo appreso della volontà di attivare un progetto di manutenzione di un’area del parco di Rogoredo, dai prossimi giorni in concessione al Comune di Milano, da realizzarsi attraverso un programma di lavori di pubblica utilità svolto da detenuti della Casa di Reclusione di Milano Opera. Riteniamo questa scelta profondamente sbagliata”, a dirlo in una nota è la Cgil di Milano. “Il lavoro è principio fondante la nostra società, architrave della Costituzione che lo tutela in tutte le sue forme. Il lavoro dei detenuti è strumento fondamentale per dare piena attuazione ai dettami costituzionali e dell’ordinamento penitenziario sulla funziona rieducativa della pena. Lo è però nel momento in cui il lavoro è riconosciuto, è tutelato ed è retribuito dignitosamente. Crediamo che il lavoro di pubblica utilità non si muova in questa direzione. Al contrario lo riteniamo essere figlio di una visione e di un pensiero che deve essere superato e che vede nel lavoro penitenziario un carattere espiatorio e risarcitorio. Produce inoltre l’enorme rischio che sostituisca il lavoro che molte volte viene realizzato dalle cooperative sociali, soggetti che svolgono un ruolo fondamentale nell’inserimento lavorativo delle persone ristrette. Una “guerra” tra soggetti fragili che non è oggettivamente tollerabile. Se quindi è assolutamente positiva l’idea di coinvolgere lavoratori detenuti nella manutenzione e della pulizia di un luogo di tutti, come un parco, siamo altrettanto convinti che questo non possa che passare da un pieno rispetto dei diritti del lavoro. Da Milano pensiamo debba partire un messaggio chiaro. Un messaggio che dica a tutto il Paese che sul lavoro penitenziario è necessario investire, che è fondamentale garantire percorsi di orientamento al lavoro e di formazione a tutti i detenuti, che bisogna dare piena attuazione alla legge Smuraglia, che serve un grande lavoro culturale, che racconti di come i percorsi lavorativi che garantiscono dignità, diritti e autonomia sono un valore per la persona detenuta e hanno un valore per tutta la collettività”, conclude la Cgil. Busto Arsizio. I cesti di Natale con i prodotti realizzati nelle carceri di Lucia Landoni La Repubblica, 17 ottobre 2020 Don Riboldi: “Così si dà lavoro a cento detenuti”. L’iniziativa parte dal cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio. “Non si tratta di fare la carità, ma di offrire a queste persone l’opportunità di riscattarsi grazie al proprio lavoro”. La birra è prodotta dai detenuti di Bollate, San Vittore e Opera e la pasta arriva dall’Ucciardone di Palermo, mentre i dolci sono della Banda Biscotti del carcere di Verbania o della pasticceria Giotto del carcere di Padova. Ma ci sono anche i vini della cooperativa Il Gabbiano del carcere di Sondrio e il caffè delle detenute di Pozzuoli. Sono alcuni dei prodotti che andranno a comporre i cesti natalizi realizzati dalla cooperativa La Valle di Ezechiele, fondata da don David Maria Riboldi, cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio in provincia di Varese. “Molte persone sono restie ad aiutare i detenuti perché ritengono che chi ha sbagliato debba pagare, senza accampare pretese. Proprio per questo abbiamo deciso di ribaltare la prospettiva - spiega il sacerdote - Qui non si tratta di fare la carità, ma di offrire a queste persone l’opportunità di riscattarsi grazie al proprio lavoro”. I prodotti confluiranno a Busto Arsizio dalle carceri di tutta Italia e i volontari de La Valle di Ezechiele si occuperanno dell’assemblaggio dei cesti. Don David ha calcolato che acquistandone uno - si può scegliere tra l’opzione da 25, 50 o 75 euro - si dà lavoro a cento detenuti: “Sul catalogo dei cesti abbiamo scritto accanto a ogni prodotto il nome della cooperativa carceraria che li produce e il numero di persone che impiega - continua il cappellano - In Italia la recidiva è di circa il 70 per cento, il che significa che su 10 persone che escono dal carcere, sette vi rientrano. Se però si danno loro opportunità di lavoro, come succede per esempio a Bollate, si scende al 20 per cento”. L’invito ad acquistare i cesti è rivolto ai privati cittadini, ma anche alle aziende: “Mi rivolgo agli imprenditori, che sanno cosa vuol dire dare lavoro - conclude don David - Noi non vogliamo la carità, ma abbiamo bisogno di persone che credano, come noi e con noi, nel lavoro come strumento di resurrezione di persone arrivate al capolinea della galera”. I cesti sono prenotabili entro il 30 ottobre scrivendo a cestidinatale@lavallediezechiele.org oppure chiamando il numero 351.6654405. Siracusa. La cooperativa “l’Arcolaio”, un simbolo di libertà di Rossella Avella interris.it, 17 ottobre 2020 Un mondo di dolcezze arriva dal carcere di Siracusa. Un progetto che favorisce il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Chiara Pota presenta ad Interris.it la cooperativa dell’Arcolaio. La detenzione è una fase della vita per chi commette delitti e contravvenzioni. La durata del periodo di detenzione cambia a seconda del delitto commesso, ma ad ogni modo il carcere rimane un luogo dal quale ripartire. Dietro le sbarre si nasconde un mondo che ti prepara a riaffrontare la società, un mondo fatto di persone che aiutano i detenuti a reinserirsi nel tessuto sociale attraverso vari progetti. Tra questi c’è l’Arcolaio, una Cooperativa sociale fondata nel 2003 per favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti attraverso la gestione di un’attività produttiva all’interno del carcere di Siracusa di cui cura e avvia lo sviluppo commerciale. “Inizialmente la cooperativa produceva pane biologico, ma ha incontrato parecchie difficoltà commerciali così questa scelta fu abbandonata privilegiando la realizzazione biologica, senza glutine e solidale di paste di mandorla e di altri dolci tipici della tradizione siciliana” racconta Chiara Pota, responsabile della comunicazione della Cooperativa. “La cooperativa nasce con l’obiettivo di offrire percorsi di inserimento socio-lavorativo ai detenuti della Casa Circondariale di Siracusa, dove già esisteva un grande spazio adibito a laboratorio per la produzione di pane biologico. Dopo aver preso in gestione il panificio, ben presto la Cooperativa decise di convertire il laboratorio in biscottificio senza glutine, puntando all’utilizzo di materie prime del territorio e del commercio equo-solidale per la produzione di dolciumi tipici della tradizione siciliana. Nascono così le nostre Dolci Evasioni. Il nostro nome si ispira all’insegnamento di Gandhi, che fece dell’arcolaio un simbolo di libertà, invitando alla riscoperta dei mestieri tradizionali e all’utilizzo coerente delle ricchezze della propria terra”. La valorizzazione della diversità - “Sin dall’inizio uno dei tratti distintivi dei nostri prodotti è stato l’impiego di materia prima biologica, proveniente da reti collaborative di piccoli agricoltori locali e dal commercio equo e solidale (lo zucchero di canna, ad esempio), come segnale della dimensione planetaria della solidarietà. Ci impegniamo a prediligere ingredienti che provengono da filiere controllate che salvaguardano gli equilibri dell’ambiente e tutelano i diritti dei lavoratori. Il rispetto per la terra passa anche attraverso la valorizzazione della diversità naturale e culturale del territorio, che ci porta a prediligere la mandorla. Crediamo che le esperienze di economia sociale rappresentino un fattore evolutivo per riequilibrare i meccanismi del mercato e miriamo a sensibilizzare il pubblico verso il consumo critico e consapevole. In questo modo continuiamo a dare il nostro contributo all’evoluzione del sistema penitenziario verso una vera funzione rieducativa e decliniamo quotidianamente lo spirito di accoglienza in concreti progetti di inserimento lavorativo. L’idea di sociale - “Il nostro concetto di “sociale” va oltre i detenuti e il carcere, abbraccia la comunità intesa come abitanti del nostro pianeta, e il pianeta stesso. Le nostre Dolci Evasioni sono il frutto di un modello di sostenibilità che rispetta e valorizza la nostra terra, le tradizioni e la crescita delle persone. Questi valori si traducono in tutti i passaggi del nostro operato, dalla selezione di fornitori “etici” allo studio del nuovo packaging, dai rapporti con i dipendenti alla relazione con la comunità locale”. Cosa rappresenta Dolci Evasioni nel mondo del Made in Italy? Quali sono i vostri progetti odierni e quelli futuri? “I nostri prodotti valorizzano l’artigianalità, la qualità e le tradizioni e rappresentano un esempio di eccellenza produttiva italiana. Ma si distinguono per i valori di solidarietà di cui sono ambasciatori. Come tutti i prodotti frutto di imprese sociali, il business non è speculativo, non mira al profitto di pochi, ma al benessere di molti”. Cosa significa aderire a questo progetto? “Dare un’opportunità a chi non ce l’ha, per le tante storture del nostro sistema. Restituire dignità a chi si sente messo in un angolo. Costruire percorsi di inserimento, di riscatto, di rivincita. Contribuire alla costruzione di un nuovo sistema di welfare, alternativo, più sostenibile e inclusivo rispetto al modello di sviluppo che, nonostante i tanti proclami e le debolezze messe in evidenza dagli ultimi accadimenti, continua a imperare”. Quanto è importante essere inseriti in questa realtà per i detenuti? “I detenuti acquisiscono una professionalità e ritrovano la piena dignità di lavoratori, nel rispetto del contratto nazionale di lavoro delle cooperative sociali. Oltre a consentire loro di avere uno stipendio con il quale potersi pagare le spese legate alla detenzione, questo permette loro di sperimentarsi come “lavoratore”. Per loro nella fase iniziale dell’assunzione la difficoltà maggiore è quella di distinguere il luogo di lavoro dal carcere, ciò perché il biscottificio è interno al carcere. Quando arrivano in cooperativa vengono trattati da lavoratori (svantaggiati e con problematiche su cui lavorare, ma da lavoratori) e non da detenuti/operai. Per noi non sono il “loro reato” ma delle persone a cui dare una possibilità di riscatto e ciò per loro è molto importante e li aiuta a riappropriarsi della loro dignità e lavorare sulla loro autostima e le loro risorse. Tutto questo si traduce in una drastica riduzione del rischio che il detenuto, una volta fuori dal carcere, ritorni a delinquere, come dimostrato da diversi studi in Italia”. Storie o aneddoti particolari che si possono raccontare? “Una storia di successo che ci piace sempre raccontare è quella di Max, il nostro uomo “copertina”. Entrato in cooperativa come dipendente presso il biscottificio anni fa, ha trovato nel lavoro e nel rapporto con la cooperativa una vera chiave di volta nella sua vita. E pensare, come racconta lui, che quando iniziò a lavorare nel laboratorio non sapesse nemmeno cosa fosse il latte di mandorla, chiedendosi quale animale potesse produrre tale bevanda! Di strada ne ha fatta tanta. E L’Arcolaio è diventata la sua “famiglia”, come dice sempre. Nel progetto ha creduto così tanto da diventare socio lavoratore. Una volta passato in regime di semi-libertà, quasi due anni fa, è stato possibile offrirgli un incarico fuori dal carcere, ed essere inserito nel nostro progetto di agricoltura sociale Frutti degli Iblei. Ora Max è responsabile del laboratorio di essiccazione annesso al progetto e non perde occasione di testimoniare, con le parole e con il suo operato, l’importanza del percorso che gli è stato offerto dalla nostra cooperativa”. Verona. A Corte Molon il cavallo è simbolo di rinascita professionale per i detenuti fieracavalli.it, 17 ottobre 2020 Prosegue con successo il progetto dell’Associazione Horse Valley con il carcere di Montorio. Nato nel 2013, si rinnova e si arricchisce di anno in anno il progetto dell’Associazione Sportiva Dilettantistica Horse Valley in collaborazione con la Casa Circondariale di Montorio. Un percorso formativo in tecnico di scuderia, che ogni anno indirizza un gruppo di detenuti verso la professione. La formazione prevede: lezioni frontali teoriche e pratiche sulla gestione di una scuderia, etologia del cavallo, alimentazione e tecnica equestre e gli interventi di alcune figure professionali, quali veterinario e maniscalco. Inoltre, da alcuni anni è stato introdotto anche uno speciale corso di kundalini yoga per migliorare lo stato emotivo e la respirazione dei partecipanti, in modo che possano avvicinarsi al cavallo senza portare con loro la negatività emotiva della condizione di privazione che vivono. Il progetto, sostenuto fortemente da Fieracavalli, continua a riscuotere particolare successo all’interno del carcere e le richieste di adesione al corso sono sempre numerosissime. Alcuni detenuti, che hanno la possibilità di usufruire dell’art.21 e possono quindi svolgere attività all’esterno del penitenziario, si recano inoltre presso Corte Molon, svolgono attività di volontariato e collaborano con lo staff del maneggio nella gestione dei cavalli. Coloro invece che non possono recarsi all’esterno, si prendono cura degli animali e della scuderia all’interno della casa circondariale. Inaugurata durante Fieracavalli 2015, la scuderia all’interno del carcere ospita 3 cavalli ed è un luogo di lavoro ma soprattutto di benessere, per tutti i detenuti che possono beneficiare del contatto con gli animali e del particolare rapporto uomo-cavallo. La scuderia interna è stata preziosa anche durante il recente periodo di lockdown a causa dell’emergenza sanitaria. Quando infatti tutte le attività sono state sospese, per mantenere il benessere animale, la scuderia non si è fermata e ha dato la possibilità ad alcuni detenuti di sopportare meglio quel particolare momento. Ancona. L’umanità del carcere ai tempi del coronavirus Il Resto del Carlino, 17 ottobre 2020 È ripartito dal carcere di Montacuto di Ancona il tour del Garante regionale dei diritti Andrea Nobili per verificare la piena attuazione delle disposizioni previste per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. “Ad oggi - sottolinea in una nota Nobili - non si registrano criticità in questa direzione, ma l’attenzione deve restare alta per garantire la massima sicurezza dal punto di vista sanitario anche alla luce di un trend generale caratterizzato da un aumento significativo dei casi. Vanno attentamente monitorati i nuovi ingressi e tutte le relazioni che presuppongono un intervento esterno. Dobbiamo avere una fotografia precisa della situazione e attivare tutte le azioni possibili sul fronte della prevenzione”. Dopo Montacuto il nuovo ciclo di visite negli istituti penitenziari marchigiani del Garante, proseguirà nella casa circondariale di Villa Fastiggi di Pesaro. Nel nuovo percorso di monitoraggio Nobili affronterà anche altre criticità prevedendo colloqui con i responsabili dei diversi settori. In agenda anche quelli con i rappresentanti della Polizia penitenziaria. “La carenza cronica degli organici- conclude Nobili - è resa ancor più problematica in situazioni di sovraffollamento come nel caso di Montacuto”. La mostruosità del populismo penale di Travaglio e il Travaglio che piace di Giuliano Ferrara Il Foglio, 17 ottobre 2020 Questa è la lettera che Giuliano Ferrara ha inviato a Luigi Manconi e Federica Graziani, autori di “Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale” (Einaudi), e agli organizzatori della presentazione del libro che si è svolta ieri al Maxxi di Roma. Cari amici, per paura dell’influenza me ne sto a casa. Ne chiedo scusa a Luigi Manconi, Federica Graziani, al carissimo Mattia Feltri, all’editore e al pubblico. Su richiesta cortese, invio note sparse e brevi di consenso e di dissenso, senza mascherina. Era ora che qualcun altro, di buona cultura e di buon mestiere, attaccasse Marco Travaglio e il populismo penale. Io con pochi altri mi ero stufato, ci eravamo stufati. Il problema di Travaglio è che vede il mondo come un borghese dell’Ottocento, della razza ripudiata con orrore da Flaubert, di qui Javert, certo, grati alla maschera di Hugo, ma potevate scegliere il farmacista Homais. Per Travaglio i buoni sono buoni e i cattivi cattivi, gli onesti onesti e i disonesti disonesti. Il suo vasto programma positivista è sradicare la corruzione, è lui il vaccino. Ma sappiamo tutti che un mondo senza corruzione e senza imbrogli sarebbe sommamente noioso, privo di carattere, un mondo abbrutito da una patina di perbenismo funesta, un paesaggio senza letteratura, senza passioni, senza sane pratiche di reato, insomma censura pura e legge e ordine libidinali. Infatti anche Travaglio è un imbroglione, come mostra il saggio a lui dedicato alle voci Massimo Ciancimino o Antonio Ingroia o altre. Ma qui emerge una contraddizione di cui non sono sicuro gli Autori siano del tutto consapevoli. Il suo imbroglio vale né più né meno dei nostri, la sua capacità di manipolazione è particolarmente urtante, perché mette capo alla ripetitività e alla noia, ma non particolarmente colpevole. In quanto corsivista, poi, Travaglio sa essere brillante, e vi ricordo che anche Pietro Nenni era un famoso storpiatore di nomi degli avversari, per di più fingeva di non ricordarli, con estremo godimento. Tutti giocano, perché lui no? Quelli che non giocano, gli spettatori e guardoni del suo e del nostro gioco, sono i potentati che hanno costruito il fenomeno: la Rizzoli, il mio caro e cinico amico Paolo Mieli, la televisione del presidente del Torino calcio, derrate di imbonitori, commentatori, intervistatori, emuli, epigoni e compagni di strada del populismo penale di Marco Travaglio. Travaglio adora le manette e il carcere, si augura che nel carcere si viva e si muoia, addirittura, in nome della certezza della pena. Il libro nota come gli siano sconosciuti equilibrio, prudenza, aderenza alle regole, e misericordia. Buona parte dell’establishment italiano ha sfiorato il carcere o assaggiato le manette, si capisce che avesse bisogno di uno del mestiere per evitare ulteriori offese. La gente poi tiene alla reputazione, alla cosiddetta “mia persona” spesso evocata nei comunicati, e in questo somiglia all’opposto simmetrico del potenziale censore: lui sputtana, loro fanno la parte delle sgualdrine timorate. Bisognava sgravare partiti, politica, eletti del peso di coscienza dell’onestà, spiegare che i ladri della Repubblica la Repubblica l’hanno fatta, come accennò a suggerire Craxi nel momento della disperazione, invece è stata una corsa a dissociarsi dalla casta, tutti bravi farmacisti e notai quando è noto che in politica e nelle relazioni sociali servono come il pane anche i farabutti. Così alla fine Travaglio è venuto utile. Ho i titoli di garantista per via della mia praticaccia giornalistica. Vedo però nell’ipergarantismo, sopra tutto di questi tempi, una chiacchiera politicamente correttissima, come direbbe Luigi, che non mi assomiglia e non frequento di mio. “Lettere dal carcere”, l’attitudine dialogica di un grande classico di Guido Liguori Il Manifesto, 17 ottobre 2020 Antonio Gramsci. Una nuova edizione Einaudi a cura di Francesco Giasi. Inediti, apparati fotografici e correzioni di inesattezze grazie al rigoroso confronto con gli originali. Per definizione un “work in progress”, decine di altre missive sono state scritte dal comunista sardo negli anni 1926 - 1937. Molte non saranno mai recuperate. Come opera a sé sembravano destinate a passare in secondo piano, a fronte dei carteggi. Invece hanno una loro importanza autonoma. Le lettere di Gramsci tornano in libreria, in una nuova edizione nella collana I millenni (Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, a cura e con introduzione di Francesco Giasi, Einaudi, pp. CXIV+1257, euro 90). Una edizione pregevole per un “capolavoro della letteratura epistolare” - scrive il curatore - che i carteggi dell’autore “e l’intera sua corrispondenza non paiono destinate a eclissare”. È l’affermazione fondamentale da cui partire per comprendere l’importanza dell’evento. Sembrava, pochi lustri orsono, che le Lettere dal carcere come opera a sé fossero destinate a passare in secondo piano, a fronte dei carteggi dell’autore - di cui si era iniziata la pubblicazione con quello con la cognata Tatiana, curato da Natoli e Daniele nel 1997. Previsione fallace: perché se i carteggi rappresentano indubbiamente un passaggio fondamentale per gli studiosi di Gramsci, la raccolta delle lettere del comunista sardo dopo l’arresto, avvenuto l’8 novembre 1926, conservano, e credo conserveranno sempre, la loro autonoma importanza: quella di un grande classico del Novecento, letterario ed etico-politico a un tempo. Come è abbastanza noto, le Lettere uscirono in volume per la prima volta nel 1947 e servirono da apripista per l’affermarsi del loro autore nella cultura italiana, anche al di là delle file comuniste. A tale esito concorse l’attribuzione del Premio Viareggio, istituito dall’ex-ordinovista Leonida Rèpaci e con in giuria due intellettuali di grande prestigio, organici al Pci: Concetto Marchesi e Giacomo Debenedetti (non De Benedetti, come purtroppo si legge, con involontario omaggio all’attualità). Questa edizione, dichiaratamente una “scelta”, comprendeva 218 missive. Molte ancora non erano state ritrovate, altre non furono pubblicate per motivi di riservatezza, contenendo affermazioni delicate su familiari e conoscenti ancora in vita. Alcuni passi vennero anche omessi per opportunità politica, visto il difficile tentativo togliattiano di mettere in circuito Gramsci senza rompere immediatamente con il marxismo-leninismo sovietico, dotando però il partito comunista di una cultura politica ben diversa da quella dell’ortodossia stalinista. Dopo la prima edizione del 1947, molte altre lettere furono ritrovate e molte ragioni di prudenza umana e politica vennero meno. Nelle 2000 pagine di Gramsci, apparse nel 1964 per Il Saggiatore, fortemente volute dal direttore editoriale Debenedetti (ancora lui) e curate da Ferrata e Gallo con il supporto attivo di Togliatti, furono pubblicate 77 lettere inedite. L’anno successivo fu la volta del volume einaudiano delle Lettere curato da Caprioglio e Fubini: 428 missive, di cui 65 inedite, e con il ripristino dei passi (pochi, in realtà) in precedenza cassati. L’opera usciva l’anno dopo la morte di Togliatti, ma era stata varata (come l’edizione critica dei Quaderni, del resto) ancora vivente il segretario del Pci: non è vero dunque, come ancora capita di leggere, che solo la morte di quest’ultimo avrebbe permesso la pubblicazione di tutti i testi gramsciani. Togliatti fu il principale artefice della conoscenza e della diffusione dell’opera di Gramsci, sia pure con un occhio rivolto alla contingenza politica e pagando lo scotto dei tempi del lavoro necessario su un corpus letterario complicatissimo. Solo per limitarci alle edizioni principali, lasciando da parte le pubblicazioni su riviste e quotidiani, le raccolte a tema (lettere a Giulia, lettere ai figli, lettere a Sraffa …) e le antologie minori di missive che venivano presentate periodicamente, con sempre nuove introduzioni, sotto il titolo generico di Lettere dal carcere, va segnalata una edizione riservata ai lettori dell’Unità uscita in due volumi nel 1988, che riproduceva l’edizione Caprioglio-Fubini senza note ma con l’aggiunta di 28 lettere inedite e di altre prima pubblicate qui e là in ordine sparso. Per arrivare quindi alla bella edizione Sellerio del 1996, curata da Antonio A. Santucci: 478 lettere, cinquanta in più rispetto al ‘65. Prima di essa, l’edizione più ampia (con 17 inediti), e pregevole, era addirittura… in lingua inglese, curata da Frank Rosengarten per la Columbia University Press nel 1994. Un paradosso evidente, di cui porta colpa anche la ritrosia dell’Einaudi a mettere in cantiere il necessario, corposo aggiornamento. Negli anni ‘90 del resto Gramsci era quasi considerato un “cane morto”, in una situazione di liberalismo trionfante, anche nella sinistra italiana. A questa “pigrizia” la casa editrice torinese pone ora rimedio (sia pure a un prezzo di copertina non a tutti accessibile, purtroppo) con un’edizione destinata a durare. Non un’edizione “definitiva”, perché questo libro è per definizione un work in progress: decine di altre lettere, spiega lo stesso Giasi, sono state sicuramente scritte da Gramsci, negli anni 1926 - 1937: molte non saranno mai recuperate, ma quasi certamente altre prima o poi troveranno la strada per giungere fino a noi, per essere rese pubbliche: bisognerà approntare una nuova edizione. Intanto, però, l’attuale è destinata a rappresentare un punto fermo e costituisce, rispetto alle pur meritorie edizioni precedenti, un sicuro passo in avanti. Quali i pregi maggiori dell’edizione Giasi, a parte i nuovi inediti (nove su 489 lettere, più tre dei 22 documenti dell’Appendice, con istanze e richieste alle autorità)? La correzione di numerose inesattezze, grazie all’accurato controllo sugli originali; la datazione per la prima volta di missive scritte senza data, resa possibile incrociandole con le lettere di Tatiana ai famigliari russi. Senza dimenticare l’inserto fotografico del volume, con foto poco note, come quella della stessa Tania nel 1938 al Cimitero di Testaccio, emblematicamente in secondo piano rispetto alla tomba di Nino, sullo sfondo, come a lungo venne visto il suo ruolo, invece fondamentale: forse un addio, prima del ritorno in Urss, dove morirà di tifo nel 1943. E, ancora, l’accurata cronobiografia curata da Luisa Righi, autrice anche delle notizie preziose della sezione sui Corrispondenti e famigliari. Ma soprattutto è rilevante e in gran parte nuovo l’apparato delle note di cui ogni lettera è fornita. Rispetto alle precedenti edizioni, molto di più oggi sappiamo sulle vicende di Gramsci negli anni successivi all’arresto, grazie ai ritrovamenti effettuati negli Archivi di Mosca, allo scandaglio negli archivi italiani (con la collaborazione di Eleonora Lattanzi e Delia Miceli) e nelle carte Sraffa (con il competente ausilio di Nerio Naldi), alle molte notizie ora disponibili sulla famiglia russa e su quella sarda (per cui è valsa la consulenza di Antonio Gramsci jr. e di Luca Paulesu), all’approfondimento delle vicende interne al Pci e all’Internazionale, nonché dei tentativi di liberazione per via diplomatica, ecc. A cui si aggiunge l’uso utilissimo che Giasi fa - sempre in nota - di brani di lettere scritte a Gramsci dai suoi corrispondenti, che aiutano a comprenderne le affermazioni e le risposte. Tutto ciò, insieme all’accuratezza dell’impaginazione del testo e dell’apparato critico, rende il volume godibile per il lettore e prezioso per lo studioso. Le lettere scritte a Gramsci sono tanto più utili in quanto egli è - come amava ricordare Giorgio Baratta - un autore “dialogico”, che per sua stessa ammissione aveva bisogno di interlocutori, anche e forse soprattutto polemici. Le lettere sono per lui il surrogato del compagno, dell’amico, del familiare con cui dialogare, anche se “in remoto”, si direbbe oggi. Ma sono anche lettere spesso da decifrare, con messaggi nascosti destinati al suo partito. Non resta che tornare a leggerle, le Lettere di Gramsci, in questa nuova e pregevole edizione, con ammirazione immutata per il comunista sardo e come nuovo sprone alla conoscenza della sua storia e del suo pensiero. “Palazzo di giustizia”, vere storie di imputati e vittime in un film che emoziona di Arianna Finos La Repubblica, 17 ottobre 2020 Sarà nelle sale il 22 ottobre, dopo la presentazione a Alice nella città, il film di Chiara Bellosi con Daphne Scoccia e Andrea Lattanzi. “La frase che mi è restata dentro la ripetono i magistrati, anche più esperti: nei tribunali si applica la legge, se a volte riusciamo anche a fare un po’ di giustizia siamo felici, ma non è sempre così”. La regista Chiara Bellosi ha passato un anno dentro il Palazzo di giustizia di Milano, “l’idea era di girare un documentario alla Robert Wiseman, indagando le persone che lo abitavano nel corso di una giornata, concentrandomi sugli aspetti della vita che nel tribunale vengono condensati: casa, violenza, famiglia”. Ne è uscito Palazzo di giustizia che dopo l’esordio alla Berlinale e il passaggio alla Festa di Roma - sezione parallela Alice nella città - arriva al cinema il 22 ottobre prodotto da Tempesta, distribuito dall’Istituto Luce. Nei sei piani dell’edificio architettonicamente austero, Bellosi ha esplorato ogni stanza, corridoio, bar, cortile, scala, tabaccheria, biblioteca, “sono stata in mezzo alle storie che si muovevano intorno, sentendo che c’era un carico umano forte”. Sono sedute una di fronte all’altra, sulle panche del corridoio della Corte D’Assise dove si consuma un processo per eccesso di legittima difesa. Una, adolescente, è la figlia di un benzinaio che ha sparato alle spalle a un rapinatore in fuga, l’altra, bambina, del complice sopravvissuto. Ha trovato quella da raccontare “in uno dei posti più spaventosi, nell’atrio dove si aspetta il verdetto della Corte D’Assise. Da un lato c’era una cattedra con avvocati e magistrati, dall’altro su una sedia abbandonata una bimba rom che giocava con la giovane madre, i parenti fumavano in balcone. Ho capito che quella bambina, spettinata e in tuta di ciniglia, era lo sguardo che cercavo”. Perché: “Una bambina ha una forza primitiva e concreta che si impone su quello che c’è intorno: vuole giocare, mangiare, dormire, togliersi le scarpe che fanno male. La storia l’ho costruita attraverso i suoi occhi, sui bisogni che emergevano in quella giornata”. La mamma della bimba (Bianca Leonardi) è l’ottima Daphne Scoccia, già apprezzata in Fiore, “sento di migliorare ad ogni film, ho tanti progetti” l’ha voluta in un piccolo ruolo anche Terrence Malick nel film che ha girato in Italia. La figlia del benzinaio, l’adolescente dallo sguardo serio è Sarah Short. All’inizio, le due giovani si ignorano, poi tra loro nasce un rapporto, scambi e piccole avventure in cui coinvolgono anche il giovane tecnico che lavora in quel corridoio. “L’attesa è lunga e sfiancante, le due figlie non sanno come e se si ricomporrà la loro famiglia. Ma alla fine di questa giornata usciranno dal Palazzo più forti, cresciute”. Le immagini più potenti che la regista ha memorizzato nell’anno trascorso al Palazzo di Giustizia sono “la sala d’attesa nella sezione civile, le lotte per l’affidamento dei bambini, le cause di mobbing sul lavoro delle donne. E un’udienza per femminicidio, con un avvocato così bravo da trasformare la vittima in colpevole per non aver permesso al suo omicida di essere padre”. “Rebibbia Lockdown”: via alle riprese del docu-film di Fabio Cavalli di Marco Belli gnewsonline.it, 17 ottobre 2020 È stato dato questa mattina, nel carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso, il primo ciak al film documentario Rebibbia Lockdown del regista Fabio Cavalli. Il lungometraggio narra le paure e le inquietudini portate dalla pandemia da Covid-19 all’interno dell’universo penitenziario e l’impatto sulle persone detenute e sul personale di Polizia Penitenziaria. La pellicola nasce da un progetto sulla legalità promosso dalla Vice Presidente della Luiss Guido Carli ed ex Guardasigilli Paola Severino ed è prodotta da Clipper Media con Rai Cinema e in collaborazione con Ateneo Luiss e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. E proprio il Capo del DAP, Bernardo Petralia, e la professoressa Severino sono stati i protagonisti delle prime riprese del film: prima l’incontro, poi il percorso verso il reparto G12, l’ingresso nel reparto detentivo con il saluto agli agenti, l’incontro con i detenuti nell’aula universitaria, in sala pittura, in biblioteca e in sala telelavoro, e per finire la visita al reparto e nelle camere di alcuni detenuti attori del docu-film. Con loro, il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Lazio l’Abruzzo e il Molise, Carmelo Cantone, e la Direttrice dell’istituto romano, Rosella Santoro. “Se il destino si presentasse a me nella forma di un virus sconosciuto, sarei ancora in tempo a chiudere il cerchio della mia vita?”. È la domanda con la quale l’autore e regista Fabio Cavalli ci spiega il senso di Rebibbia Lockdown. Dopo i riconoscimenti internazionali come autore di Cesare deve morire, diretto dai fratelli Taviani, e il successo dell’ultimo docu-film Viaggio in Italia - La Corte Costituzionale nelle carceri, Cavalli rinnova con questo film il suo impegno con il mondo penitenziario con il quale collabora dal 2003. Con il virus abbiamo dovuto fare i conti tutti, in Italia e nel mondo. A maggior ragione le venti persone detenute protagoniste del film, insieme ai quattro giovani laureati della Luiss che nella vita reale sono i tutor della loro formazione universitaria: tutti sottoposti alla chiusura imposta dal virus e tutti impegnati a riflettere sui temi fondamentali dell’esistenza, raccontati in forma di diario epistolare durante i mesi del lockdown e, in piccola parte, con i tratti del graphic novel grazie ai disegni di un detenuto artista. I detenuti coinvolti sono gli attori della Compagnia del Teatro Libero di Rebibbia, già vincitori dell’Orso d’Oro a Berlino nel 2012 per l’opera dei Taviani e nel 2016 meritevoli della Menzione speciale da parte della giuria della Mostra del Cinema di Venezia e, infine, protagonisti in prima serata su RaiUno del Viaggio in Italia. Nella vicenda è centrale il ruolo del personale di Polizia Penitenziaria e dell’Amministrazione. Una decina saranno gli agenti chiamati ad interpretare se stessi nel ricordo dei momenti più difficili: dal quotidiano saluto nel lasciare la famiglia per raggiungere il luogo del loro difficile lavoro, fra mille incognite e paure, fino alle difficoltà pratiche legate alla necessità di stendere e far passare i cavi in fibra che sarebbero serviti ad assicurare ai detenuti la possibilità di continuare a incontrare, seppur in video, i loro familiari dopo la chiusura dei colloqui in presenza. Le riprese all’interno dell’istituto impegneranno per una decina di giorni lavorativi una troupe Rai molto snella di operatori, fonici e assistenti tecnici, che quotidianamente saranno sottoposti ai dovuti controlli precauzionali di carattere sanitario. Il miglior diritto crea coscienza non obbedienza di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 17 ottobre 2020 Dpcm e Covid. Il contrasto alla diffusione del virus può avvenire attraverso due strategie: la prima è fondata su regole rigide e sanzioni a protezione delle prescrizioni; la seconda è invece diretta a costruire meccanismi di immedesimazione e responsabilità. Afflitti da sindrome punitivista, da manie iper-regolatorie, da infantilismo di massa, opinionisti improvvisati ed esperti di vario tipo, a destra e manca, hanno mescolato, pericolosamente e confusamente, argomenti tra loro molto diversi - ma tendenzialmente monchi, superficiali e stereotipati - per contestare, contrastare, o addirittura ridicolizzare, alcune norme presenti nell’ultimo Dpcm del Presidente Giuseppe Conte dirette a contenere l’epidemia in corso. Mi riferisco specificatamente - ma anche paradigmaticamente - alla parte relativa a ciò che nel Dpcm si auspica non accada nei domicili privati. Si tratta delle indicazioni governative che più hanno animato i salotti televisivi. Nel Dpcm si legge testualmente: “Con riguardo alle abitazioni private, è fortemente raccomandato di evitare feste, nonché di evitare di ricevere persone non conviventi di numero non superiore a sei”. E giù commenti, risa, ironia da parte degli ospiti fissi (vista la noiosa ripetitività delle loro presenze, più che fissi, sarebbe meglio dire fissati alle sedie) della melassa radio-televisiva. Veniamo dunque alla norma tanto contestata e alla cultura punitiva di deresponsabilizzazione individuale e sociale sottesa. Il contrasto alla diffusione del virus può avvenire attraverso due strategie: la prima è fondata su regole rigide e sanzioni a protezione delle prescrizioni; la seconda è invece diretta a costruire meccanismi di immedesimazione e responsabilità. La norma del Dpcm presa ad esame è in sintonia con la seconda strategia. Una società sana, empatica, nonché solidale tra generazioni, classi sociali, e condizioni personali (comprese quelle di salute) non si costruisce imponendo azioni o inerzie, ma favorendo la spontaneità dei comportamenti. Si contesta che nella norma si scriva il numero di sei persone, che si usi il verbo raccomandare e che, infine, manchi una sanzione per renderla cogente. In primo luogo si ironizza sul numero prescelto, ossia perché sei, e non sette oppure cinque? E lì risate e finte domande: nel numero di sei dovrò contare anche gli zii, i nonni, i soli conviventi, i sub-affittuari etc etc? Il diritto, però, non può che essere un tantino manicheo. Un numero va messo per orientare chi dovrà attenersi a quella raccomandazione. In altro campo, ad esempio, la legge ha scelto che il diritto di voto spetti a diciotto anni compiuti. Chi mai direbbe che un ragazzo diventi politicamente maturo precisamente nel giorno del suo compleanno e non un giorno prima? Il diritto in alcuni casi è costretto a scegliere affinché possa funzionare quale regolatore sociale. In secondo luogo viene contestato l’uso del verbo raccomandare in alternativa a verbi quali prescrivere o dovere. Il miglior diritto, però, è proprio quello che crea coscienza e non obbedienza. È quello che alimenta culture solidali. Il miglior diritto è quello soft. La Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 è considerata una sorta di grundnorm pur avendo un valore esclusivamente politico e morale. Infine si contesta nel testo la mancanza di una sanzione, che renderebbe la norma ineseguibile. Meno male che manca la sanzione. Se ci fosse stata avremmo trasformato la nostra democrazia in uno Stato di Polizia. Viviamo in una società dove la passione per le punizioni è ossessiva, dove vi sono decine di migliaia di norme penali inconoscibili e stracolme di minacce di carcere; dove si criminalizza finanche chi decide di salire su una nave per salvare vite umane. Ben venga, dunque, una singola norma, che non si affida al mito della punizione per costruire un a società più coesa. La missione dei giuristi deve essere quella di non assecondare le pulsioni aggressive e populiste. È questo quel senso di fraternità di cui parla papa Francesco nella sua ultima Enciclica, e che ci può aiutare a riconsiderare benevolmente l’assunto kelseniano secondo cui una norma può definirsi giuridica soltanto se munita di sanzione. La solidarietà ha bisogno di empatia e non si impone con il carcere e le punizioni. Specularmente è demagogica e stereotipata, tutta quella legislazione (anche molto recente, si pensi alle norme che prevedono anni di detenzione per chi traffica cellulari nelle carceri) che devolve fideisticamente al diritto penale e alle prigioni l’obiettivo di una società migliore. La Caritas sui nuovi poveri: il 52% degli utenti è italiano Corriere della Sera, 17 ottobre 2020 Esce oggi il Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia: aumentano le richieste di aiuto delle famiglie con minori, delle donne e dei giovani. Quasi una persona su due che va in un centro di aiuto lo fa per la prima volta. Per la prima volta gli italiani sono le persone che si rivolgono in maggioranza alla Caritas: nel periodo tra maggio e settembre di quest’anno, i nuclei familiari del nostro Paese che hanno avuto bisogno di aiuto sono stati il 52 per cento, un anno prima erano il 47,9 per cento. Il sorpasso sugli stranieri emerge dal Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia pubblicato dalla Caritas Italiana oggi, in occasione della Giornata mondiale di contrasto alla povertà. Il report, intitolato “Gli anticorpi della solidarietà”, cerca di restituire una fotografia dei gravi effetti economici e sociali dell’attuale crisi sanitaria legata alla pandemia da Covid-19. Il rapporto fa luce sul fenomeno dei “nuovi poveri”, che salgono dal 31 al 45 per cento: quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas in questi mesi lo fa per la prima volta. I centri Caritas si devono fare carico di una domanda di bisogno aumentata del 12,7% rispetto all’anno scorso. Aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani. Per cercare di descrivere l’impatto economico e sociale della pandemia, Caritas ha realizzato tre monitoraggi nazionali: uno ad aprile in pieno lockdown, il secondo a giugno, dopo la riapertura dei confini regionali e il terzo a settembre dopo il periodo estivo. “I dati raccolti - si legge nel Rapporto - testimoniano due grandi fasi attraversate finora, che corrispondono in parte ai diversi step di avvio delle misure e dei provvedimenti governativi: la prima, della “dura emergenza” coincidente con il blocco totale delle attività e con i 69 giorni nei quali gli italiani sono rimasti a casa, durante la quale si è pagato il prezzo più alto in termini di vite umane, sul fronte dei contagi e dell’impatto economico. La seconda, vissuta nei mesi estivi, nella quale si è avviata una lenta ripartenza, dai contorni e confini incerti”. Caritas non ha mai smesso di prestare aiuto. Ha riaperto i centri di ascolto “in presenza”, per lo più su appuntamento o ad accesso libero e ha offerto un’attività inedita, di accompagnamento e orientamento rispetto alle misure previste dal Decreto “Cura Italia” e dal Decreto Rilancio. E ha aiutato anche sul fronte della crisi del lavoro, sperimentato da tanti piccoli commercianti e lavoratori autonomi: rispetto a questo fronte le Caritas diocesane hanno erogato sostegni economici specifici, in 136 diocesi sono stati attivati fondi dedicati, utili a sostenere le spese più urgenti (affitto degli immobili, rate del mutuo, utenze, acquisti utili alla ripartenza dell’attività). Complessivamente sono stati 2.073 i piccoli commercianti/lavoratori autonomi accompagnati in questo tempo. Caritas Italiana ha anche esaminato il funzionamento delle misure emergenziali disposte dal governo, in particolare di quelle volte a sostenere i redditi di famiglie e lavoratori, anche per individuare i difetti e le criticità da evitare in futuro. Da una rilevazione ad hoc condotta su un campione di 756 nuclei beneficiari dei servizi Caritas nei mesi di giugno-luglio 2020, il Reddito di Emergenza è risultata la misura più richiesta (26,3%) ma con un tasso di accettazione delle domande più basso (30,2%) rispetto alla indennità per lavoratori domestici (61,9%), al bonus per i lavoratori stagionali (58,3%) e al bonus per i lavoratori flessibili (53,8%). Il Rem è stato fruito prevalentemente da nuclei composti da adulti over 50, soprattutto single e mono-genitori con figli maggiorenni, con un reddito fino a 800 euro e bassi tassi di attività lavorativa. Si tratta di un profilo del tutto sovrapponibile a quello di coloro che percepiscono il Reddito di cittadinanza (32,5%) all’interno dello stesso campione intervistato: nuclei a reddito molto basso (49,7%), single (45,3%) e coppie senza figli (43,7%), prevalentemente anziani (42,2%). Questo dice che tra le due misure, rispetto alle caratteristiche dei beneficiari, vi sia sovrapposizione piuttosto che compensazione. Donna, italiana e con due figli. È l’identikit della nuova povertà di Maria Novella De Luca La Repubblica, 17 ottobre 2020 Rapporto Caritas 2020: “Così la pandemia ha messo in ginocchio i giovani e le famiglie”. Così tanti che sarà sempre più difficile contarli e aiutarli. Anzi aiutarle, perché la nuova povertà, nel nostro paese, ha oggi il volto di una donna, italiana, con 2 figli, un’età media intorno ai 40 anni. Una donna che per la prima volta, durante la pandemia, ha chiesto cibo e sostegno alla Caritas italiana per la propria famiglia. Fotografa una società che è già dentro una crisi peggiore di quella del 2008, il nuovo rapporto Caritas sulla povertà, in cui non aumentano le “grandi marginalità” ma quel mondo di famiglie italiane, già in bilico prima del Covid, poi messe in ginocchio dalla pandemia. La percentuale di “nuovi poveri” presi in carico dalla rete delle Caritas diocesane, è passato dal 31% nei mesi da maggio a settembre del 2019, al 45% dello stesso periodo del 2020. In pratica, nel 2020, su 44.858 persone accolte da circa 680 centri di ascolto (da maggio a settembre), circa ventimila si affacciavano per la prima volta in cerca di aiuto. Donne, uomini, bambini, anziani, “salvati” dalla disperazione grazie agli “Anticorpi della solidarietà”, questo il titolo del rapporto, nella Giornata mondiale di contrasto alla povertà. “Aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei italiani e delle persone in età lavorativa, cala invece la grande marginalità. Si intravede dunque l’ipotesi di una nuova fase di “normalizzazione” della povertà”. Così come accadde dopo lo shock finanziario del 2008. Tuttavia. scrivono i ricercatori del centro studi Caritas “a fare la differenza, rispetto a 12 anni fa, è il punto da cui si parte: nell’Italia pre-pandemia il numero dei poveri assoluti è il doppio rispetto al 2007, alla vigilia del crollo di Lehman Brothers”. In generale l’utenza delle Caritas diocesane è aumentato del 12% nel 2020 rispetto al 2019, dunque pre-pandemia. Al di là dei dati, comunque, è l’identikit della povertà la parte più interessante del rapporto Caritas 2020. Il numero delle donne che hanno chiesto aiuto da maggio a settembre, subito dopo il lockdown, sono state il 54,4% contro il 50,5% del 2019. Il numero dei giovani tra 18 e 34 anni è passato dal 20% al 22,7%, gli italiani sono oggi il 52% dei poveri, contro il 47,9% del 2019, hanno dunque superato gli stranieri. Il numero di famiglie impoverite con parenti a carico, poi, genitori anziani, infermi è passata dal 52,3% del 2019 al 58,3% di questi ultimi mesi. Tra i motivi principali di caduta del reddito la perdita del lavoro. Uno scenario che fa paura. La Caritas offre uno spicchio di società italiana che di certo indica la tendenza, ma, così si legge anche nel rapporto, c’è un pezzo di mondo disagiato che da questi dati resta fuori. Rispetto alle misure prese dal Governo per fronteggiare la crisi, nei mesi di giugno e luglio 2020, il Rem è risultata la misura più richiesta (26,3%), ma il numero delle domande accettate è stato più basso rispetto all’accettazione delle domande per il bonus lavoratori domestici (61,9%), all’indennità per i lavoratori stagionali (58,3%), e al bonus per i lavoratori flessibili (53,8%). Troppo difficile presentare le domande di “Rem” e infatti il numero di quelle accettate, si legge nel rapporto, aumenta per chi si è fatto aiutare a compilarle dai volontari dei centri di ascolto. Perché la solidarietà esiste. E se molte famiglie hanno potuto evitare il tracollo è stato grazie ai 196mila pasti delle mense, ai fondi diocesani che hanno aiutato 92mila nuclei singoli, ai 418mila cui sono stati consegnati mascherine e kit igienizzanti distribuiti da 62mila volontari. Una macchina potente ed efficace. Purtroppo però la seconda fase della pandemia è già iniziata e così il rischio di nuove emergenze economiche. Migranti, il disastro della “rotta” dell’Europa di Alex Zanotelli Il Manifesto, 17 ottobre 2020 Dalla “patria dei diritti” nessuna volontà politica di salvare vite umane nel Mediterraneo. È il vero volto dell’Ue: ricca, potente, ma sempre più egoista, e intenta a costruire muri. La politica migratoria dell’Unione Europea può essere espressa con una sola parola: “esternalizzare” le frontiere per bloccare sia la “rotta asiatica” che la “rotta africana”. Per bloccare la ‘rotta asiatica’(Siria, Iraq, Afghanistan), l’Unione europea ha siglato infatti un accordo con il dittatore Erdogan, regalandogli sei miliari di euro, perché trattenesse in Turchia quattro milioni di profughi in fuga dai loro paesi per guerre che noi abbiamo scatenate. Sempre in questo contesto, Bruxelles finanzia anche la Grecia perché trattenga nelle sue isole migliaia di profughi asiatici stipati in orribili campi come quello di Moria a Lesbo, spazzato via recentemente dal fuoco. Altrettanta crudeltà l’Europa la sta usando con quei migranti siriani e afghani che stanno tentando di entrare tramite la “rotta balcanica”. (Gravi anche la responsabilità del governo italiano che ributta in Slovenia i migranti che passano il nostro confine orientale) Per bloccare la “rotta africana”, la Ue esternalizza le sue frontiere, spingendole sempre più a sud tramite il processo di Rabat per l’Africa occidentale e il processo di Khartoum per l’Africa Orientale. La Ue, tramite l’Italia, continua a sostenere e a finanziare in Libia il governo di al-Serraj, uomo forte di Tripoli perché trattenga gli oltre mezzo milione di profughi africani, stipati in orribili lager dove gli uomini sono torturati e le donne stuprate (Onu e Amnesty). Tutto questo l’Italia lo sta facendo grazie al Memorandum Italia-Libia, vergognosamente rinnovato dall’attuale governo, ma soprattutto grazie alla Guardia costiera libica, composta in buona parte da criminali e trafficanti di esseri umani. La Commissione Europea afferma che per il 2020 sono stati stanziati 65 milioni per l’addestramento della Guardia costiera libica. Difatti il nostro paese tra il 2017/18 ha sostenuto la Guardia Costiera libica con 1.8 miliardi di euro. È così che la Guardia Costiera libica ha catturato e riportato nell’inferno libico migliaia e migliaia di rifugiati che hanno tentato la fuga attraverso il Mediterraneo. È stata Bruxelles a stroncare l’operazione dell’Italia, Mare Nostrum, nata per salvare vite umane (ne sono state salvate oltre centomila), ma questo l’Europa non poteva accettarlo. Infatti Mare Nostrum è stato sostituito dall’operazione Sofia ed è stata rimpiazzata dall’operazione Irini, che può operare solo nell’Egeo per bloccare le armi alla Libia, ma non può salvare vite umane. (È stata fortemente voluta così dal nostro ministro degli esteri, Luigi Di Maio insieme ai Paesi di Visegrad). Inoltre Bruxelles ha rafforzato Frontex con aerei e navi, non certo per salvare vite umane, anzi Frontex e EunavforMed cooperano con la Guardia costiera libica per segnalare i barconi dei migarnti in mare. Nessuna volontà politica di salvare vite umane nel Mediterraneo. Questo è il vero volto della nostra Europa: ricca e potente, ma sempre più egoista, chiusa su se stessa e intenta a costruire muri. Lo ha rivelato anche la discussione sulla proposta della Presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, di abrogare il Regolamento di Dublino. Ma Ursula ha dovuto arrendersi all’ideologia di Visegrad e alle destre xenofobe, rinunciando a costruire un meccanismo di condivisione dell’accoglienza. “Sono deluso, amareggiato - ha reagito il deputato europeo Pietro Bartolo, già medico di Lampedusa - così è inaccettabile”. La politica migratoria poi del nostro paese è sempre più funzionale a quella europea. Molti speravano in un cambio di passo con il governo giallorosso, dato che Zingaretti aveva promesso una “discontinuità” con il precedente governo: con l’abrogazione dei Decreti Sicurezza di Salvini. Il nuovo Decreto abolisce le clausole più odiose dei Decreti Sicurezza e prevede un nuovo sistema di accoglienza per i profughi gestito dai comuni. Ma lascia ancora le multe, dai 10 ai 50mila ero, per le navi salvavite cioè criminalizza i salvataggi di persone in mare.”Questo decreto - ha reagito Domenico “Mimmo” Lucano, già sindaco di Riace - è un palliativo, non una vera svolta. Si continua a ritenere l’immigrazione un problema di ordine pubblico e non invece una risorsa”. La vera politica migratoria di questo paese la si vede nella chiusura dei porti e nel trattenere nei porti per futili ragioni le navi delle Ong. Per esempio nel periodo dal il 15 al 24 settembre tutte le navi salva-vite erano bloccate nei porti, mentre nel Mediterraneo morivano 200 persone per i vari naufragi. Se ci sarà una vera Norimberga, i nostri paesi verranno portati davanti ai tribunali internazionali. Nella sua ultima enciclica Fratelli Tutti, papa Francesco sottolinea di nuovo come la politica migratoria europea giudica i migranti come esseri “meno umani” e come “tanti cristiani condividono questa mentalità”. E continua: “È inaccettabile che i cristiani condividano questa mentalità e questi atteggiamenti, facendo a volte prevalere certe preferenze politiche, piuttosto che le profonde convinzioni della propria fede: l’inalienabile dignità di ogni persona al di là dell’origine, del colore e della religione e la legge suprema dell’amore fraterno”. È questa la grande sfida che ha davanti a sé l’Europa, se vuole essere davvero “la patria dei diritti umani”. Venti anni fa moriva in Georgia il giornalista Antonio Russo, un mistero mai risolto di Chiara Viti Il Riformista, 17 ottobre 2020 Antonio Russo moriva esattamente vent’anni fa. Era il 16 ottobre del 2000 quando il giornalista di Radio Radicale venne assassinato e il suo cadavere rinvenuto a circa trenta chilometri da Tbilisi, in Georgia. Antonio era lì per raccontare la guerra fra Russia e Cecenia. I mandanti e gli esecutori dell’omicidio non sono mai stati individuati. Radio Radicale ha voluto ricordarlo con una programmazione speciale e alle 14 di oggi, presso la sala stampa di Montecitorio, verrà presentata l’importante opera di restauro dell’archivio della radio, realizzato proprio in occasione dell’anniversario. “Restaurare l’intero archivio con tutte le corrispondenze di Antonio (disponibile in digitale da oggi, ndr) - spiega Alessio Falconio, direttore di Radio Radicale - permetterà, a chi ne avrà voglia, di conoscerlo attraverso la sua voce. Il miglior modo per conoscere qualcuno è lasciarlo parlare, ecco noi attraverso questo progetto vogliamo lasciare che Antonio si racconti”. Ha perso la vita sul campo, in mezzo alla gente, là dove la tragedia della guerra è viva. Era stato in Bosnia, durante l’assedio finale di Sarajevo, poi era stato a Cipro nel 1996 e ancora in Africa per documentare le condizioni tragiche dei profughi dopo il genocidio in Ruanda. Verso la fine degli anni Novanta raccontò poi la guerra in Kosovo. Il suo lavoro si rivelò fondamentale e decisivo anche per l’incriminazione di Milosevic e di altri gerarchi serbi di fronte al Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia. Non a caso Marco Pannella lo definì “radicale giornalista” proprio per la passione che metteva nel suo lavoro, senza mai risparmiarsi. Costantemente dalla parte della verità, ma soprattutto dalla parte degli ultimi. Pochi giorni prima dell’attentato Antonio aveva dichiarato pubblicamente che la Cecenia avrebbe fatto uso di proiettili all’uranio impoverito, accusando direttamente il presidente Georgiano Shevarnadze di legami con il terrorismo. Antonio aveva inoltre comunicato a Olivier Dupuis, allora segretario del Partito Radicale, di avere raccolto materiale contro la Federazione Russa, ma quei documenti, trafugati da casa sua la notte del suo omicidio, non sono mai più stati rinvenuti. Antonio non c’è più, ma continua a vivere nelle sue corrispondenze dai teatri di guerra di tutto il mondo, con quel suo stile semplice e diretto. Senza mai autocompiacersi, senza mai un filo di narcisismo. Caso Shalabayeva, il capo della polizia rimuove i superpoliziotti condannati di Giuliano Santoro Il Manifesto, 17 ottobre 2020 Saranno “destinati ad altre funzioni” Renato Cortese, questore di Palermo, e Maurizio Improta, capo della polizia ferroviaria. Il capo della polizia Franco Gabrielli non manca di confidare nell’innocenza degli alti funzionari della polizia condannati per il sequestro di persona di Alma Shalabayeva ma li rimuove dai loro incarichi. Dunque, come si dice in questi casi, saranno “destinati ad altre funzioni” Renato Cortese, questore di Palermo, e Maurizio Improta, capo della polizia ferroviaria. I due mercoledì scorso figuravano tra gli agenti di polizia condannati in primo grado dal tribunale di Perugia a cinque anni e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per il sequestro e l’estradizione della moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, e di sua figlia Aula. Dalle parole di Gabrielli, si evince che si tratta di poliziotti blasonati. Nel 2013, all’epoca dei fatti contestati sui quali ancora restano zone oscure a partire dalla catena di comando che gestì l’operazione, operavano nella capitale. Maurizio Improta era il responsabile dell’ufficio immigrazione della questura di Roma. Renato Cortese sette anni fa dirigeva la Squadra mobile di Roma. Poi, dopo anni di lavoro in Calabria, aveva operato in Sicilia. Da molti è considerato il poliziotto che da agente del Servizio centrale operativo nel 2006 ha contribuito alla cattura del boss Bernardo Provenzano. Dalla quale spiccò il volo verso la questura di Palermo. “Pur ribadendo la profonda amarezza e il pieno convincimento dell’estraneità dei poliziotti ai fatti”, Gabrielli si dice fedele al principio secondo cui “la polizia, il cui motto non a caso è ‘sub lege libertas’: osserva e si attiene a quanto pronunciato dalle sentenze, quand’anche non definitive”. Dai vertici della polizia, per di più, si fa notare che la rimozione non è proprio un atto dovuto, visto che la sentenza non è definitiva. Piuttosto si parla di “questioni di opportunità”. Egitto. Nel carcere di Tora lo specchio buio del regime di Antonella Napoli Avvenire, 17 ottobre 2020 La prigione dove è rinchiuso Zaki simbolo del terrore. Nella sezione dello “scorpione” centinaia di detenuti da mesi in attesa di giudizio. E nelle celle arriva l’incubo Covid. Una grande tomba di cemento, il simbolo del terrore del regime egiziano guidato dal presidente Abdel Fattah Al-Sisi. Basta attraversare l’ingresso sorvegliato da blindati e uomini armati nelle torrette collocate lungo il perimetro del penitenziario di Tora, a soli venti miglia a sud dal Cairo, per capire che la definizione coniata dagli attivisti per i diritti umani rispecchia pienamente l’essenza della famigerata struttura carceraria. Questa immensa prigione divisa in quattro blocchi, tra cui la sezione di massima sicurezza conosciuta come “lo scorpione”, rappresenta per uomini e donne, che potrebbero non affrontare mai un processo, un campo di detenzione preventiva senza via di uscita. Ancor più oggi, con il rischio elevato di contrarre il Covid-19. Le vittime ufficiali del virus in carcere al momento sono cinque, compreso un giornalista di 65 anni, Mohamed Monir, e 160 i contagiati. Cifre, per le organizzazioni non governative che monitorano la situazione, sottostimate. Al 16 ottobre, l’Egitto aveva registrato 105.033 casi e oltre 6mila decessi ma, come ammesso dal consigliere presidenziale per la Sanità, Mohamed Awad Tag el Dein, il numero di contagi potrebbe essere molto più alto, fino a 5 volte quello rilevato. Va da sé che la situazione nelle prigioni non possa essere molto diversa. Dall’inizio della pandemia, sia gruppi per i diritti umani che istituzioni internazionali hanno rivolto appelli al governo egiziano affinché liberasse i prigionieri politici per alleviare il sovraffollamento e rallentare la diffusione della malattia. Ma nonostante l’evidente inadeguatezza del sistema sanitario carcerario, la carenza di dispositivi di protezione e di spazi per l’isolamento, il presidente Al Sisi ha concesso la grazia a soli 530 prigionieri su 65mila detenuti, a metà settembre, dopo una rinnova ondata di proteste antigovernative e contro la polizia, responsabile dell’uccisione a sangue freddo di un cittadino inerme, sono inoltre ripresi arresti di massa e repressioni sia nella capitale che in altre città importanti del Paese come Luxor. “La Commissione egiziana per i diritti e le libertà ha potuto raccogliere informazioni sul fermo, a seguito delle proteste in Egitto dal 20 settembre 2020, di 944 persone in 21 governatorati, tra cui 72 minori e 5 donne. Le cifre reali potrebbero essere ancora più alte. Rispetto all’ondata di arresti del settembre 2019, le autorità sono ancora più restie a divulgare informazioni” racconta il direttore dell’organizzazione Mohamed Lofty, che periodicamente aggiorna l’elenco dei detenuti nel Paese. Dai dati raccolti da Ecrf appare evidente che invece di svuotare le celle, AI Sisi continui a stiparle nonostante l’emergenza coronavirus. Gli ultimi rilievi hanno evidenziato un aumento dei casi di Covid-19, passando dai 104 di inizio ottobre, ai 133 della fine della seconda settimana del mese. L’organizzazione internazionale “We Record”, che opera anche in Egitto, ha documentato la diffusione del virus in due blocchi su quattro del penitenziario di Tora. Sul numero dei morti non ci sono dati attendibili perché alcuni pazienti non sono stati classificati come “affetti da coronavirus” - spiega un portavoce di We Record - Ma abbiamo raccolto evidenze indiscutibili sulla mala gestione della pandemia, come testimonia il decesso di Hassan Ziada, arrivato una settimana fa nell’ospedale pubblico Al-Mahalla di Gharbia dove è morto legato mani e piedi al letto”. Secondo gli attivisti, le autorità carcerarie non agiscono rapidamente e non mettono in atto misure preventive. “Nel penitenziario di Tora non effettuano test e non isolano i detenuti che manifestano sintomi della malattia. Il regime egiziano ha costantemente impedito ai prigionieri di accedere alle cure mediche come parte del suo abuso sistematico sui detenuti” denuncia long che dal 2013 documenta le violazioni attraverso l’interazione con vittime, attivisti e organizzazioni della società civile. La pressione attuata sul governo, sia dall’interno che da organi internazionali, avrebbe però determinato una svolta. Nei giorni scorsi è filtrata da ambienti governativi la notizia che le autorità penitenziarie starebbero trasformando una parte della quarta ala del carcere di Tora in un centro di quarantena per sospetti casi di coronavirus. “L’amministrazione carceraria finora ha cercato di mantenere segreto il progetto perché c’è preoccupazione per il fatto che il blocco in questione non sia attrezzato dal punto di vista medico per accogliere i prigionieri affetti da Covid-19. Le celle di questa ala sono ancora più antigieniche e sporche delle altre e non c’è luce solare” è la conclusione del portavoce di “We Record”. D’altronde le condizioni della prigione edificata nel 1928, che comprende un blocco riservato agli incriminati di terrorismo aperto negli anni 90, sono difficilmente migliorabili. Sin dall’ingresso e dal percorso di due chilometri che porta alla prigione, composta da 4 edifici che formano una H, è visibile il decadimento della struttura datata e maltenuta. Le uniche aree ristrutturate sono quelle riservate agli uffici amministrativi, una piccola clinica medica e due edifici per il personale che includono la sala di riposo degli ufficiali, la biblioteca, la lavanderia e la cucina centrale. Le sezioni H1 e H2, che si trovano a destra dell’accesso principale, circondate da un muro con due porte realizzate con griglie e lamiere di ferro per bloccare la visione dal cortile esterno, e le sezioni H3 e H4, a sinistra, anch’esse circondate da pareti interne e due ingressi blindati, sono pressoché invivibili. Soprattutto d’estate quando le temperature raggiungono i 50 gradi e dalle acque del Nilo, poco distante, salgono nugoli di zanzare. Ogni sezione è composta da quattro aree di 20 celle di circa tre metri per tre metri e mezzo, dove vengono stipati fino a 15/20 detenuti. Ogni locale ha un piccolo bagno, un lavabo e piani di cemento per dormire. Un incubo. Ma è il blocco 4, quello di massima sicurezza, il luogo dove le condizioni di vita diventano insostenibili e si consuma il dramma, l’orrore, delle torture più atroci: cibo infestato da insetti e distribuito in contenitori sporchi, umiliazioni e sevizie continue. “I pochi prigionieri sopravvissuti ci hanno raccontato di metodi cruenti sistematici nel carcere di Tora, in particolare nella sezione “Scorpion” - racconta Ahmed Alidaji, ricercatore di Amnesty International al Cairo fino al 2017 - Io stesso ho raccolto la denuncia di un giovane che insieme ad altri 19 compagni di prigionia è stato denudato e frustato con bastoni sulla schiena, sui piedi e sui glutei dopo che i soldati avevano trovato nella cella una radio tascabile e un orologio. Stessa sorte per un gruppo di 80 occupanti di un intero blocco quando uno di loro è stato scoperto in possesso di una penna. A chi si ribella viene riservato un trattamento anche peggiore. Gli agenti penitenziari, dopo avergli affibbiato nomi femminili, li violentano a turno come “punizione” per aver violato le regole della prigione” conclude l’attivista. Non sorprende che ai prigionieri della “Scorpion” venga negato il permesso di vedere i familiari, anche se le autorità carcerarie affermano che sia una misura necessaria per impedire ai leader di gruppi terroristici di inviare istruzioni per attacchi contro turisti, stranieri e forze di sicurezza. Ma la gran parte dei detenuti accusati di terrorismo non ha mai commesso reati o azioni che giustifichino la grave incriminazione. Come Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna imprigionato nel carcere di Tora da otto mesi e ancora in attesa di giudizio. Con la Turchia siamo al punto di non ritorno di Alberto Negri Il Manifesto, 17 ottobre 2020 Il punto di non ritorno con la Turchia di Erdogan è stato superato da un pezzo ma si fa finta di nulla sperando che sotto la minaccia di sanzioni europee Ankara faccia dei passi indietro. In realtà è difficile immaginare che l’Unione possa aspettare dicembre per reagire alle provocazioni del Sultano della Nato che manda altre navi nella zona economica esclusiva greco-cipriota disegnata secondo convenzioni che Ankara non ha mai firmato. È una contesa che va avanti da quasi un secolo, da quando, dopo il Trattato di Losanna del 1923, nacque la Turchia moderna. Fra il 1958 e il 1982 la Convenzione di Ginevra sul diritto del mare (Unclos) firmata da Atene, ma non da Ankara, ha dato vita a una stagione di tensioni pressoché continue fra i due Stati che oggi sono diventate ancora più esplosive. La Grecia ha ratificato il trattato nel 1994 e dal quel momento ha facoltà di aumentare il limite delle acque nazionali da 6 a 12 miglia marine, con la Turchia che è arrivata a minacciare una dichiarazione di guerra se Atene dovesse mettere in atto quanto deciso dall’Unclos. In realtà, la Grecia non ha mai applicato la Convenzione. Se il limite delle acque territoriali passasse realmente da 6 a 12 miglia nautiche, il 71% dell’Egeo farebbe parte delle acque nazionali greche e le acque internazionali si ridurrebbero dal 48% a meno del venti per cento. E Ankara non gradisce, soprattutto dopo che ha adottato la dottrina strategica della “Mavi Vatan”, la Patria Blu, che ha un obiettivo fondamentale e apparentemente irrinunciabile: controllare il mare per controllare le risorse energetiche e imporre la propria influenza. Scopo politico che ha un significato anche economico: sarà il mare, la “patria blu”, a sostenere i piani egemonici e di leadership di una Turchia che vuole riemergere dopo un secolo dai trattati di Sevrés e Losanna. Con la Turchia sono tutti indignati: gli europei perché Erdogan vuole il gas nel Mediterraneo orientale e ridisegnare i confini marittimi, gli americani per i missili S-400 russi schierati sul Mar Nero che possono abbattere anche i loro aerei invisibili F-35 (progetto cui partecipavano pure aziende turche). Per non parlare delle guerre di Erdogan in Siria, in Libia e adesso in Nagorno Karabakh: lì però il giudizio della “civile” comunità internazionale sul ruolo della Turchia è meno netto perché è un membro Nato che si oppone alla Russia e allo stesso tempo c’è molto da dire sull’ambiguo comportamento su questi fronti di europei e americani. Certo chi pensa di manovrare Erdogan al servizio dell’atlantismo o di interessi altrui - e ce ne sono anche qui in Italia - è decisamente fuori strada. Si avvicina il decennale dall’esplosione delle “primavere” arabe e il bilancio sono almeno quattro guerre devastanti (Siria, Iraq, Libia, Yemen), quasi il nulla sul fronte della democrazia reale, un nulla accompagnato invece dall’ossequio a dittatori come l’egiziano Al Sisi e dalla celebrazione di presunti accordi di pace mediorientali con improponibili monarchie assolute. Mentre Russia e Turchia sono diventate protagoniste delle crisi di un Mediterraneo che proprio l’Europa e gli Usa nel 2011 hanno contribuito a distruggere con le loro bombe, favorendo o cercando di favorire cambi di regime in Libia e in Siria che hanno ridotto a brandelli un’intera regione alle porte di casa. I danni alle popolazioni civili sono stati enormi, centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, anche quei tre milioni di rifugiati mantenuti dall’Unione europea in Turchia che Erdogan agita continuamente come arma di ricatto nei confronti di Bruxelles. La Turchia sa bene come far leva nell’inferno dei migranti e dei rifugiati dell’Egeo e sulle rotte balcaniche. Ankara da un pezzo non guarda più né all’approdo nell’Unione né al rispetto delle sue regole e valori, compresi democrazia, diritti umani e leggi internazionali. I politici curdi sono in carcere, gli oppositori pure, i giornalisti e gli intellettuali anche, alcuni detenuti con accuse assurde e prive di ogni fondamento scatenate dopo il fallito golpe del luglio 2016. Tutto senza che nessuno qui in Europa o in Italia dica mai una parola di condanna. La vergogna di Erdogan è anche la nostra. Del resto Francia e Germania hanno fatto di tutto nel corso del tempo per tenere Ankara fuori dal club di Bruxelles. La Turchia odierna del Sultano della Nato si muove con ambizioni da potenza neo-ottomana e da paladina dell’Islam politico, con l’obiettivo di negare ogni spazio ai curdi, dentro e fuori i suoi confini, e di diventare una piattaforma strategica per i flussi energetici dalla Russia, dall’Asia centrale e ora dai giacimenti mediterranei. Di trasformarsi essa stessa in produttrice di gas se Erdogan confermerà (come più volte annunciato) le mirabolanti scoperte di un grande giacimento nel Mar Nero. Per lui tutto questo ormai non è più un’alternativa ma una necessità per ricompattare le istanze nazionalistiche e mantenere un consenso indebolito da un’economia in recessione e dall’ondata della pandemia. Ecco perché questa Turchia, senza “miracoli” diplomatici, appare sull’orlo del punto di non ritorno. Conquistata la pace il Sudan corre veloce verso la democrazia di Antonella Napoli Il Dubbio, 17 ottobre 2020 Come ogni giorno Miryam Abdelgadir prepara le taniche da riempire con l’acqua potabile del pozzo più vicino alla sua capanna, che dista circa tre chilometri dal campo profughi di Mayo. Si carica sulle spalle l’ultima nata dei suoi cinque figli, che sta ancora allattando, e si incammina lungo la strada fangosa che parte dall’insediamento che accoglie gli sfollati scampati alle inondazioni causate dalla stagione delle piogge più devastante degli ultimi 100 anni. Oltre 300 morti e 600 mila abitazioni distrutte. Il racconto del percorso democratico del Sudan non può che cominciare da Miryam: lei come tutte le donne sudanesi rappresentano plasticamente la forza di un popolo che dopo una dittatura durata trent’anni porta avanti, tra innumerevoli inciampi, una svolta epocale. Un deciso cambio di passo che ha convinto gli Stati Uniti a riprendere le relazioni con il Paese africano, come testimonia la visita di fine agosto del segretario di Stato Usa Mike Pompeo che ha annunciato aiuti per le conseguenze delle alluvioni da parte di Washington. Impegno che ha anticipato la lettera inviata al Senato a metà settembre per chiedere di rimuovere il Sudan dalla lista dei Paesi “sponsor” del terrorismo e dare così al governo di Khartoum una chance in più nel difficile processo di transizione politica. Una decisione che passa anche per la normalizzazione dei rapporti con Israele. Dall’incontro a sorpresa in Uganda nel febbraio di quest’anno tra Benjamin Netanyahu e il generale Abdel Fattah Al Burhan, presidente del consiglio sovrano del Sudan, la Casa Bianca ha avviato un intenso pressing su Khartoum. Non mancano frizioni nella trattativa, dovute al malcontento dell’ala islamista che ancora si annida nei palazzi del potere sudanesi e che ha spinto il premier Abdalla Hamdok ad affermare che “l’eventuale rimozione dalla black-list non può essere collegata alle relazioni con gli israeliani”. Il governo transitorio guidato da Hamdok, un economista che ha alle spalle importanti esperienze internazionali, è nato il 17 agosto dello scorso anno con la firma della dichiarazione costituzionale, dopo il golpe dell’11 aprile del 2019 che destituì il presidente - dittatore Omar Hassan al-Bashir. Una transizione che si è tinta di rosa con l’abrogazione di leggi vessatorie nei confronti delle donne, come gli articoli del codice penale relativi all’abbigliamento e alle libertà personali, norme estremamente restrittive basate sulla Sharia, la legge islamica. “Nonostante le intimidazioni e le vessazioni che fin dalla nascita subivamo, siamo scese in piazza in migliaia: almeno il 70% della popolazione femminile. Chiedevamo democrazia e libertà ma anche politiche di tutela e di protezione delle donne. Oggi il governo sta portando avanti un cambiamento radicale nei confronti delle donne, che va dalla cancellazione del divieto di viaggiare senza il permesso di un maschio della famiglia, alla criminalizzazione delle mutilazioni genitali femminili” spiega Amira Abdelnabi, avvocato e attivista politica che durante le rivolte era stata arrestata e tenuta in carcere una settimana per aver partecipato a una manifestazione a Khartoum. Con l’approvazione del testo di legge che Amira stessa ha contribuito a scrivere, il governo ha trasformato in reato un’usanza arcaica. La nuova norma punisce tanto la pratica clandestina quanto gli interventi effettuati in strutture mediche. L’esecutivo ha disposto in questi mesi anche la soppressione del reato di apostasia e di sodomia, punibili con la pena di morte, e del consumo di alcol, ma quest’ultimo solo per i non musulmani che rappresentano il 3 per cento della popolazione sudanese. Hamdok, che esaurirà il suo compito con la convocazione delle elezioni previste nel 2022, ha avviato anche un piano di salvataggio economico sostenuto da un iniziale prestito della Banca Mondiale di 2 miliardi di dollari. Uno dei punti chiave del programma, presentato dal Ministero delle Finanze la scorsa primavera, la rimodulazione dei sussidi per il pane e il carburante, tra i fattori scatenanti delle rivolte che avevano portato alla caduta del regime. L’autorevole primo ministro del Sudan, che per anni ha prestato servizio nella Commissione economica delle Nazioni Unite, ha voluto trasformare gli aiuti di Stato in trasferimenti diretti di denaro alle famiglie più povere. Non senza qualche malumore e proteste. “Risollevare le sorti di un’economia in profonda crisi e con un debito spaventoso si sta rivelando impresa ardua quasi quanto porre fine a una guerra” confessa il vicepresidente del Consiglio sovrano Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come “Hemetti”, ex comandante delle Forze di Supporto Rapido, i famigerati “janjaweed”, letteralmente “diavoli a cavallo”. A lui, che ha guidato per anni la repressione violenta del dissenso in Darfur, su cui la Corte penale internazionale ha avviato un’inchiesta per “crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio”, è stato affidato il compito di portare avanti il processo di pace con i gruppi ribelli che durante i negoziati con il governo sudanese hanno chiesto e ottenuto l’abrogazione della legge che aveva istituito in Sudan l’Islam come religione di Stato. L’intesa raggiunta lo scorso 31 agosto a Juba, capitale del Sud Sudan, è stata sancita dalla firma dell’accordo definitivo di pace con i rappresentanti politici del Sudan Revolutionary Front, alleanza che riunisce una ventina di gruppi armati delle regioni del Darfur e del Sud Kordofan, il 3 ottobre. Un risultato storico, impensabile fino a qualche mese fa, che pone fine a un conflitto durato oltre 17 anni.