In carcere, dove leggere è l’unica finestra aperta su “un pezzetto di libertà” di Alessandra Sarchi Sette del Corriere, 16 ottobre 2020 La prima volta che sono entrata nel carcere “Rocco D’amato” di Bologna, detto la Dozza, dal nome del quartiere periferico in cui si trova, era aprile avanzato ma il sole, insieme al giallo delle forsizie e delle margherite fiorite sul pratone antistante il parcheggio, è rimasto subito tagliato fuori dalla mia visuale. Superata la guardiola d’ingresso dove è d’obbligo depositare documento d’identità, cellulare e borse, è stato tutto un susseguirsi di sbarramenti, corridoi lunghi e freddi da cui s’intravedevano, attraverso finestre strette e collocate in alto, spazi rettangolari di aria, forse anche di terra non cementata circondati da mura. Il fuori da cui venivo, con il suo tepore primaverile, si è dissolto tra un cancello blindato e l’altro. Non li ho contati, ma mi sono sembrati infiniti. Quando siamo arrivati in una delle sette biblioteche del penitenziario, io e il gruppo di studenti dell’Università coordinati da una docente che anima il gruppo di lettura del carcere, ho pensato: almeno qui ci sono i libri. Come se potessero scaldarmi e proteggermi, dal freddo che m’invadeva e dalla voglia di scappare. Tanti libri ben ordinati nelle scaffalature addossate ai muri, frutto di donazioni, perlopiù, come mi dirà l’operatore culturale che lavora all’interno del carcere e che ci accoglie nella saletta. I detenuti arrivano poco dopo, sono una decina e solo uomini poiché questa è la sezione maschile e poiché le attività culturali o ricreative non prevedono, come tutto il resto, che uomini e donne si mescolino. Di età varia compresa fra i trenta e i settant’anni - è un’idea che mi faccio dall’aspetto - hanno letto il mio romanzo La notte ha la mia voce e non sembrano per nulla intimoriti dall’introduzione articolata che la docente fa come premessa all’incontro. La conoscono, perché viene qui ogni mese con un libro diverso e con gli studenti, a dire il vero con le studentesse universitarie - sono per la maggior parte ragazze - del gruppo di volontariato. È la stessa docente che fa gli esami a quelli fra di loro che in carcere si mettono a studiare per prendere una laurea, sanno cosa aspettarsi da lei: che sia una professoressa, un’autorità. Da me invece è più difficile capire cosa si aspettino. Hanno letto un mio libro, pensano di conoscere qualcosa di me. Ogni lettore costruisce il suo autore a partire da quello che legge. In questo li riconosco, nella curiosità che vedo nei loro occhi, nella prima impudente domanda: ma sua figlia come sta? Quanti anni ha adesso? Io invece non so nulla di loro, non sono tenuta a sapere i delitti che li hanno portati qui e non riesco a immaginarli, forse nemmeno voglio. Cerco di rispondere a tono, ma è come se mi sentissi dentro una schermaglia amorosa, come se la posta in gioco non fosse tanto o solo il contenuto del libro che hanno letto, ma la loro esistenza e la mia entrate in collisione. Uno di loro, che poi sarà taciturno per il seguito, mi chiede a bruciapelo: “Era mai stata in un carcere?”. Seguo con lo sguardo il gesto della mano con cui indica le tante porte e sbarre attraversate per arrivare fin lì. Loro sono entrati nel mio libro, che parla di un corpo segregato dentro sé stesso dalla paraplegia. Io devo entrare dentro le mura carcerarie che segregano i loro corpi dal resto del mondo. Provare a sentire l’aria rarefatta, il cibo insapore - è una cosa di cui si lamentano appena possono - il tempo dilatato e rarefatto anch’esso, perché anche se la maggior parte di loro sanno che ci sarà un poi, intuisco da come mi parlano delle loro giornate che è un orizzonte nebuloso; almeno fino a che non avranno fatto i conti col passato. “Per questo stiamo qui” mi dice uno dei più giovani, poi aggiunge: “Però il tempo è dalla nostra parte, perché prima o poi usciamo. Mentre lei...” e indica la mia sedia a rotelle. Lo guardo impassibile. La docente vorrebbe intervenire, ma lui tira fuori un foglio e me lo allunga “Sono mie poesie, vorrei che le leggesse”. L’operatore culturale allunga una mano sul tavolo e sottrae il foglio ricordandogli che non è possibile dare alcun documento agli ospiti in visita se prima non è stato visionato e approvato. “Ma sono le mie poesie, le ho trascritte apposta per lei!” si lamenta, mentre gli altri gli dicono: “Fai così tutte le volte, eppure lo conosci il regolamento”. La mia carriera come delatrice di pizzini va in frantumi, prima ancora di cominciare. “In fondo noi siamo liberi, a parte il fatto che non possiamo vedere le donne e gli amici”, ribadisce e mentre qualcuno corregge il suo discorso - “siamo liberi nella testa, forse” - io penso che la libertà si può dilatare e rimpicciolire quasi all’infinito: quando non ce l’hai te ne fai bastare un pezzettino, quando ce l’hai ne vorresti sempre di più. Prima di congedarci chiedo come sia cambiato il loro rapporto con la lettura e con la scrittura da quando stanno in carcere. Quasi tutti mi dicono che scrivono molto di più per tenere i contatti con amici e parenti; per alcuni lo scrivere a mano è stata una conquista, non erano quasi più capaci, per colpa di computer e telefonini. Ma è la lettura che li aiuta a mettere in ordine le idee e andare in fondo ai pensieri, su questo concordano. E cosa vi piace leggere? Li incalzo. “Di tutto” mi rispondono. Ho davanti la prova vivente che un’attività solitaria come la lettura è anche quella che può tenerti maggiormente in contatto con il mondo, fartene apprezzare la complessità. Il più anziano di loro, almeno a giudicare dall’apparenza fisica, l’uomo che all’inizio mi faceva domande su mia figlia, fa per allungarmi un paio di caramelle Rossana. Sento attivarsi lo sguardo di divieto dell’operatore culturale e scuoto la testa sorridendogli, come a dire: non posso, ma grazie. L’incontro è finito, un’ora è passata in fretta, lasciamo la sala della biblioteca e riprendiamo la lunga successione di corridoi e cancelli, per il primo tratto alcuni carcerati ci seguono, poi deviano salutandoci. Non so come, qualcosa è scivolato nella tasca della giacca che ho addosso, frugo e trovo le due caramelle Rossana che stringo fra le dita. L’appuntamento successivo è con la sezione femminile, siamo a fine gennaio, qualche giorno prima è nevicato ma si è sciolta quasi tutta. Le donne in carcere sono in quel momento meno di una sessantina. “In certi periodi”, mi dice la guardia che ci introduce all’ultimo varco “arriviamo anche a ottanta o novanta, mentre la sezione maschile ospita in media fra gli ottocento e novecento detenuti”. Mi domando se sia questa sproporzione numerica a far sì che qui non ci sia nemmeno una biblioteca: ci riuniamo in una sala che è quella adibita alle prove di teatro. Appoggio per terra le tre sacche di libri che ho portato da donare, chissà dove andranno a finire, chissà se ci sarà qualcuno che li catalogherà o renderà comunque disponibili alle detenute. La guardia, una donna con una bellissima coda di cavallo bionda, mi ha detto che più tardi vedrà di occuparsene. Stavolta a coordinare il gruppo di lettura è un docente uomo dell’università, collabora con il laboratorio teatrale e insieme al regista e al coreografo che è qui con noi. Dopo aver parlato del mio libro, faranno le prove dello spettacolo al quale stanno lavorando già da qualche mese. Si tratta di un riadattamento del Re Lear di Shakespeare da una prospettiva tutta al femminile, cioè dal punto di vista delle tre eredi: “Le figlie di re Lear”, come mi spiega il coreografo. Arrivano e sono una ventina, hanno pezze colorate di stoffa in mano che immagino serviranno per le prove e mi sembrano animate da una certa euforia. Il docente stavolta fa solo una breve presentazione e lascia subito a loro la parola. Comincia una signora in tuta da ginnastica nera e dall’aspetto curatissimo - capelli passati alla piega, unghie laccate, trucco in viso - espone un discorso elaborato, ricercato nella scelta delle parole, pare che lo stia recitando. Più tardi, assistendo alle prove, scoprirò che è lei ad avere le parti più lunghe e più difficili da memorizzare. Ora parla di libertà, e di responsabilità delle proprie azioni e delle proprie parole. Non so bene come, ma ho l’impressione che anche il suo discorso sia un modo per espiare, forse la ragione per cui si trova in carcere ha a che vedere con l’uso sbagliato delle parole, capisco che adesso le adopera in maniera molto sorvegliata. Le altre rimangono un po’ intimidite dalla sua eloquenza, faticano a prendere la parola. Sorridono però, e sorridendo scoprono bocche con molti denti mancanti, e stavolta non riesco a impedirmi di pensare a come siano finite in carcere e se ci siano finite, com’è è probabile che sia, per reati minori - furto, ricettazione, insolvenza, adescamento - e per mancanza di soldi con cui pagarsi una difesa che le scagionasse o abbreviasse la pena, dal momento che non hanno nemmeno il denaro per ripararsi i denti, e molte di loro sembrano mie coetanee. Una signora con un forte accento campano si mette a canticchiare, capisco che lo fa per attirare l’attenzione ed è il suo modo per rompere il ghiaccio: “Io nella sua condizione, mi sarei chiusa in casa” dice d’un (Iato “e quindi le volevo dire che è coraggiosa assai”. “Anche io la trovo coraggiosa, perché se fossi in carcere non credo avrei voglia di cantare”, le rispondo. Poco dopo scoprirò che cantare le libera, nello spettacolo “Le figlie di re Lear” sfoderano voci da leonesse e tenori, che mai avrei immaginato prima, quando erano sedute e composte intorno al tavolo, e ora invece in certi momenti sembra quasi di stare dentro un musical. Una signora con pronuncia straniera, lituana mi dice di essere, chiede che le firmi un fazzoletto di carta, le copie dei libri che hanno ricevuto da leggere rimangono al carcere e quindi non possono farsele autografare, le chiedo per chi vuole quella firma: per mia figlia che ha quindici anni, mi risponde. Il sole, remoto perché è gennaio e perché anche qui le finestre sono sempre in alto e strette, si allontana, si accendono i primi neon, e loro eseguono le prove, eccitate per il fatto di avere qualche spettatore in più del solito, me e le studentesse universitarie. Ci lasciamo con la promessa che andrò ad assistere al loro debutto nel teatro del carcere a giugno. Ci tengono moltissimo. Nel frattempo arriva la pandemia da Covid-19, l’8 marzo viene deciso il lockdown di tutto il Paese e qualche settimana dopo cominciano rivolte e gravi incidenti con morti e feriti in diverse carceri, fra cui la Dozza di Bologna. Il gruppo di lettura interrompe gli appuntamenti mensili. Lo spettacolo teatrale di giugno salta. Scrivo lettere alle quali non riceverò mai una risposta. Non importa. Chissà se qualcuno le ha lette ai detenuti e alle detenute che ho conosciuto. Conto corrente alle Poste anche per i detenuti stranieri senza permesso di soggiorno di Teresa Valiani redattoresociale.it, 16 ottobre 2020 Importante svolta per risolvere il problema dell’accredito dei compensi alle persone in esecuzione penale esterna o ammesse al lavoro fuori dagli istituti. Lucia Castellano: “Era una forte preclusione”. Potevano lavorare, dopo essere stati ammessi al lavoro esterno o a una misura alternativa al carcere, ma non potevano ricevere lo stipendio perché, essendo privi di permesso di soggiorno, non avevano la possibilità di aprire un conto corrente (condizione necessaria per l’accreditamento dei compensi). Per questo in molti casi tutto il meccanismo delle misure alternative rischiava di bloccarsi per buona parte degli stranieri interessati. Ora invece, grazie all’intervento del Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità e della direzione generale per l’Esecuzione penale esterna e di messa alla prova, il problema è stato superato, tanto che Poste Italiane ha aggiornato il proprio Manuale di Identificazione delle Persone Fisiche e il Manuale Conto BancoPosta predisponendo una nuova comunicazione organizzativa interna secondo la quale possono richiedere l’apertura di un conto di base i clienti maggiorenni che scontano la pena all’esterno del carcere (detenzione domiciliare, semilibertà, affidamento al servizio sociale). “In caso di apertura richiesta da cliente straniero - sottolinea Poste Italiane - è possibile procedere con l’apertura anche in assenza di permesso o attestato di soggiorno”. Per l’apertura di un conto di base è necessario produrre un documento di riconoscimento in corso di validità (nel caso di documento originale trattenuto dalle forze dell’ordine può essere acquisita una copia del documento con attestazione di validità da parte delle stesse) e il documento attestante il codice fiscale alfanumerico (16 caratteri). C’è bisogno, inoltre, della documentazione che certifichi la condizione di esecuzione penale esterna e del contratto di lavoro o documento equipollente. “La nota con cui Poste italiane ha riconosciuto agli stranieri in misura alternativa alla detenzione la possibilità di aprire un conto base, che anticipa un’analisi direttiva di ABI ai suoi associati, è un fatto di grande importanza, di cui va dato merito alla direttrice generale dell’esecuzione penale esterna, Lucia Castellano, che vi ha lavorato con celerità e determinazione - sottolinea Stefano Anastasìa, coordinatore nazionale dei garanti territoriali. Alcuni uffici di esecuzione penale esterna, e anche alcuni garanti territoriali, avevano segnalato questo paradosso, di persone ammesse a una misura alternativa, titolari di un rapporto di lavoro o di qualche piccola somma maturata lavorando in carcere, che non potevano usufruirne a causa della normativa che non consentiva loro di aprire un conto e di trasferirvi i propri soldi o di farsi accreditare lo stipendio. Il paradosso è che questo impedimento bloccava proprio i (purtroppo pochi) casi di successo del trattamento penitenziario, lasciando ancora una volta nel limbo gli stranieri meritevoli di una chance di reinserimento. Siamo fiduciosi che ora non sarà più così, in piena attuazione della finalità rieducativa della pena”. “È nostro compito lavorare sulla rimozione delle preclusioni all’esercizio dei diritti e questa era una forte preclusione - commenta Lucia Castellano, direttore generale dell’Esecuzione penale esterna e di messa alla prova -. E grazie al lavoro certosino di interpretazione e di estensione della normativa vigente portato avanti dal vice capo del Dipartimento, Claudio Scorza, siamo stati in grado di risolvere il problema. È stato un proficuo lavoro di squadra”. Il mondo di fuori visto da dentro. La tredicesima edizione del Premio Castelli per i detenuti di Francesco Ricupero L’Osservatore Romano, 16 ottobre 2020 La paura di decidere chi essere di Stefania Colombo, Quello che vedo dall’aldiquà di Elton Ziri e Il buco della serratura di Marcello Spiridigliozzi sono i tre libri vincitori del “Premio Carlo Castelli” per la solidarietà. Giunto alla sua tredicesima edizione il riconoscimento letterario si ispira alla testimonianza di Carlo Castelli (1924-1998) volontario vincenziano nelle carceri e pioniere nell’opera di recupero sociale dei detenuti. Il premio, il cui titolo è Il mondo di fuori visto da dentro è promosso dalla Società San Vincenzo dè Paoli con il patrocinio del Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Ministero della Giustizia, Università Europea di Roma e con lo speciale riconoscimento della medaglia del Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella. Media Partner il Dicastero per la Comunicazione, TV2000 e Radio InBlu. L’assegnazione dei premi verrà trasmessa venerdì prossimo in diretta su Facebook e Youtube a partire dalle ore 18 dalla sede di palazzo Maffei Marescotti, a Roma. Come ogni anno, anche per questa edizione, sono giunti elaborati da numerosi istituti di pena italiani. Ai primi tre classificati la giuria assegnerà un “doppio” premio in denaro: una parte verrà consegnata all’autore, mentre un’altra somma verrà destinata a un’opera di solidarietà. Così, anche chi ha “sbagliato” nella vita e vive l’esperienza della reclusione, avrà la possibilità di compiere una buona azione. “Riteniamo che questo - afferma Antonio Gianfico, presidente della Federazione nazionale della Società di San Vincenzo dè Paoli - sia uno stimolo per aiutare il recluso a riconciliarsi con il proprio vissuto e con la società. Questa edizione del premio ricade in un periodo di rara eccezionalità per la pandemia da Covid-19. Una situazione che sta mettendo a dura prova la nostra società, improvvisamente trovatasi a vivere come in un film di fantascienza, dove però è in gioco la nostra quotidianità, la nostra stessa vita. La San Vincenzo de Paoli - aggiunge - non si è mai fermata, il coronavirus ci ha ricordato ancora di più che ogni persona vive di relazioni ed è al tempo stesso una relazione; e così, seppur con mille problemi, abbiamo continuato a scommettere sull’umanità che ci unisce e ad offrire un servizio a chi in difficoltà ha incrociato la nostra strada”. Il presidente della San Vincenzo, inoltre, sottolinea quanto sia importante la dimensione relazionale con le comunità carcerarie “che non può essere trascurata, così come la realizzazione del concorso nazionale a premi, che porta il nome del nostro indimenticato Carlo Castelli, promosso negli istituti di pena ormai da 13 anni”. Gianfico ricorda che il Covid-19 nelle carceri italiane ha provocato morti e disagi. “Soprattutto ha impedito l’incontro fisico con i familiari e l’ingresso delle migliaia di volontari che ogni giorno svolgono attività di sostegno, scolastiche, culturali e di vario genere. Si è creato così, improvvisamente, un grande vuoto, un senso di abbandono nelle persone ristrette, perché è mancato loro quel filo diretto con il mondo esterno attraverso una persona che dona la sua vicinanza, il suo mettersi alla pari senza pregiudizio”. La pandemia ha accentuato ancora di più quel senso di vuoto e di solitudine tra i detenuti ai quali viene impedito di avere un contatto fisico con i loro cari: una carezza, una stretta di mano, anche uno sguardo ravvicinato. “La galera - sottolinea Claudio Messina, delegato nazionale carceri della Società San Vincenzo de Paoli e ideatore del premio - interrompe bruscamente una condizione di vita e ne determina un’altra piena di limitazioni e divieti, tagliando contatti esterni e causando grossi condizionamenti e una forte regressione nello sviluppo della personalità e nelle relazioni”. Dai racconti dei detenuti emerge proprio la consapevolezza di vivere in un “tempo sospeso”, l’ansia di non sapere se, una volta scontata la pena, fuori ci sarà ancora qualcuno ad attenderti, una casa, un lavoro. Ma, dagli elaborati - spiegano dalla San Vincenzo - emerge anche un altro sentimento: la paura. Tutti noi, che viviamo nel “mondo di fuori”, durante il lockdown, siamo rimasti in qualche modo “reclusi” nelle nostre abitazioni ed abbiamo sperimentato sensazioni di isolamento e clausura. Come avranno vissuto, i detenuti, la pandemia vista “da dentro”?. Puntando all’essenza della narrazione, stimolando soprattutto la spinta interiore che la persona è capace di sentire e di esprimere, il “Premio Carlo Castelli” vuole significare vicinanza a coloro che hanno intrapreso un percorso di cambiamento, o di conversione, a chi ancora non se ne sente capace, nonché provocare una riflessione in tutte le persone che non vogliono vedere e sentir parlare di carcere. Ai tre vincitori di questa tredicesima edizione vanno rispettivamente 1.000, 800 e 600 euro, con il merito di sostenere anche un progetto di solidarietà. In aggiunta ai premi, a nome di ciascuno dei tre vincitori saranno devoluti, nell’ordine: 1.000 euro per finanziare la costruzione di un’aula scolastica nel Centro Effata di Nisiporesti (Romania); 1.000 euro per un progetto formativo e di reinserimento sociale di una giovane dell’Istituto minorile di Casal del Marmo (Roma); 800 euro per l’adozione a distanza di una bambina dell’India. Protocollo di intesa per l’assistenza spirituale ai detenuti musulmani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 ottobre 2020 Firmato un importante protocollo di intesa tra la Conferenza islamica italiana e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per poter garantire l’assistenza spirituale e religiosa ai detenuti musulmani (CII). Alcuni giornali, quando è stata preannunciata l’iniziativa, hanno mosso critiche. Invece è di fondamentale importanza. C’è il problema della radicalizzazione in carcere e dell’iman “fai da te” che non può risolversi esclusivamente attraverso la repressione. L’anno scorso, la vicenda di Carlito Brigande, al secolo Vulnet Maqelara, macedone di 41 anni, passato per la guerriglia in Kosovo nelle file dell’Uck, poi la criminalità comune, e infine fuggito a Roma perché inseguito da un mandato di cattura, rilancia il tema del proselitismo islamista nelle carceri. Carlito l’avevano fermato in carabinieri nel novembre dell’anno scorso, nel corso di un ordinario controllo sul territorio. Arrestato e perquisito, in casa gli avevano trovato materiale inneggiante alla Guerra Santa. Si è scoperto successivamente che era stato indottrinato nel carcere di Velletri da un imam fai- da- te tunisino, Firas Barhoumi, che non a caso ora combatte in Iraq, e che Carlito voleva raggiungerlo per immolarsi come martire della Guerra Santa. Quindi, l’accordo stipulato tra il Dap e la CII va inquadrato in questa ottica: prevenire il proselitismo islamista in carcere. Il protocollo d’intesa stipulato con il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dal dottor Bernardo Petralia, e insieme, dalla CII e dal Centro Islamico Culturale d’Italia - Grande Moschea di Roma unico ente islamico riconosciuto dallo Stato italiano, va inquadrato nell’impegno di collaborazione assunto dalle due organizzazioni islamiche per la formazione degli imam e contro, appunto, il preoccupante fenomeno della radicalizzazione in carcere. L’accordo per poter garantire l’assistenza spirituale e religiosa ai detenuti, si inserisce nel quadro di un percorso di reinserimento nella società civile, ai sensi dell’Art. 27 della Costituzione della Repubblica, e disciplinata dalla legge n. 345 del 1975 e del Dpr n. 230 del 2000 - Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. In tema, proprio l’art. 1 dell’ordinamento penitenziario stabilisce che il “trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e credenze religiose”. “La procedura - ha spiegato il segretario generale, Abdallah Cozzolino - prevede nel dettaglio che la CII fornisca alla direzione generale dei detenuti un elenco di nominativi di imam che dovranno ricevere il nulla osta dalla Direzione Centrale degli Affari dei Culti dell’Interno. La lista dei nominativi dovrà contenere indicazioni della Moschea ove ogni imam esercita stabilmente l’attività di culto, nonché la scelta della provincia, in numero massimo di 3, nell’ambito della quale gli imam intendano prestare la propria assistenza”. Nonostante la mancanza di un’intesa con le comunità islamiche e l’assenza di una legge generale sulla libertà religiosa, l’impegno della CII è orientato nella tutela dei diritti fondamentali attraverso le opportune forme di collaborazione con le Istituzioni. “Intendo rivolgere il mio ringraziamento al Ministro Bonafede - ha detto il presidente Mustapha Hajraoui della CII - e a tutti i funzionari e dirigenti del Dap, per la fiducia che ci hanno accordato con la firma del Protocollo. Queste sono le testimonianze concrete e tangibili di come l’intero Governo sostenga il percorso di collaborazione e integrazione fra le associazioni islamiche e lo Stato”. Cosa c’è dietro il silenzio del ministro della Giustizia di Marco Fattorini linkiesta.it, 16 ottobre 2020 In molti hanno notato il profilo sempre più basso del Guardasigilli. Oggi la musica è cambiata, anche perché i progetti di riforma incontrano difficoltà a non finire, e l’amministrazione ha accusato il colpo dopo le dimissioni di capo di Gabinetto e capo del Dap. Che fine ha fatto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede? Sembrano passati secoli dai tempi delle manette e dei daspo ai corrotti. La pandemia ha terremotato tutto, anche dalle parti di Via Arenula, e le accuse di giustizialismo hanno lasciato il passo a grane più complesse. Sei mesi da incubo, quelli del Covid, con le proteste violente nelle carceri e i domiciliari concessi ai boss mafiosi. Ma anche le mozioni di sfiducia in Parlamento e la paralisi dei tribunali. Senza dimenticare la clamorosa guerra con il pubblico ministero antimafia Nino Di Matteo, paladino dei Cinque Stelle e principale artefice dell’eclissi di Alfonso Bonafede. Oggi il Guardasigilli continua a lavorare senza clamori in un ministero che negli ultimi mesi, tra scandali e polemiche, ha visto decapitati quasi tutti i suoi vertici. Super dirigenti e collaboratori scelti proprio da Bonafede. A maggio si era dimesso il capo del Dap - Dipartimento dell’amministrazione finanziaria - Francesco Basentini dopo i disordini nei penitenziari e il caos scarcerazioni. Pochi giorni dopo è toccato a Michele Baldi, capo di Gabinetto del ministro, che ha lasciato l’ufficio a causa di alcune intercettazioni con l’ex magistrato Luca Palamara. Solo qualche mese prima, a dicembre, il capo degli Ispettori del ministero Antonio Nocera aveva rimesso l’incarico dopo aver appreso di essere indagato per corruzione dalla Procura di Napoli. “Quando il ministro si insediò e nominò questi collaboratori, che anche per gli addetti ai lavori erano perfetti sconosciuti, si vantò di aver scelto dei puri, dei soggetti che non erano mai stati contaminati dalla politica. Evidentemente quella scelta non fu felice”, annota il deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin, già consigliere del Csm, il Consiglio Superiore della Magistratura. Dopo gli scivoloni è arrivato il silenzio. In molti hanno notato il profilo sempre più basso dell’ex Fofò Dj, questo il soprannome di Bonafede quando da ragazzo organizzava le serate nelle discoteche di Mazara del Vallo. Oggi la musica è cambiata. “Si è tappato la bocca”, assicura chi lo conosce bene: “Ormai frequenta solo quelli del cerchio magico”. Ha annunciato la digitalizzazione del processo civile entro la fine del 2020 e ha ricominciato le visite a sorpresa nei tribunali. Ma soprattutto rilascia interviste felpate e dichiarazioni da equilibrista. Ha parlato di “risultato storico” a proposito del referendum per il taglio dei parlamentari, mentre sulla crisi del Movimento 5 Stelle minimizza la débâcle alle regionali e auspica “una discussione sui contenuti, una nuova governance e il rilancio dei territori”. Avvocato classe 1976, siciliano di nascita e toscano d’adozione, Bonafede è il capo delegazione del Movimento 5 Stelle nell’esecutivo. Conosce il premier Giuseppe Conte dai tempi dell’università a Firenze dove fu suo assistente, prima di diventare uno dei suoi principali sponsor per lo sbarco a Palazzo Chigi. Un “ministro reclutatore”, lo aveva soprannominato il Corriere della Sera, dopo che suggerì alla sindaca di Roma Virginia Raggi il nome di Luca Lanzalone, poi diventato presidente di Acea, la potente multiutility del Campidoglio da cui dovette dimettersi dopo essere finito a processo sul caso dello stadio della Roma. Molto vicino al presidente del Consiglio, ma non solo. Bonafede è sempre stato uno dei governisti più convinti, fedelissimo di Luigi Di Maio. Con il ministro degli Esteri e gli altri big dei 5 stelle si è riunito a cena per fare il punto sulla guerra interna al Movimento. Alcuni summit sono stati convocati anche a Via Arenula. In questa fase Bonafede si è tenuto a debita distanza dal dissidente numero uno, Alessandro Di Battista, auspicando una leadership collegiale “che rappresenti le varie sensibilità del Movimento”. Ha blindato anche l’alleanza col Partito Democratico: “È positiva, non c’è paragone rispetto a quella fatta con la Lega, con il Pd ci si siede a un tavolo e si cercano soluzioni con serietà”. Ma i problemi sono soprattutto fuori dalla galassia pentastellata. E assediano il ministero che Bonafede guida dai tempi del contratto di governo con Matteo Salvini. La giustizia è sempre stata una bandiera del Movimento. La riforma della prescrizione e la legge spazza-corrotti le armi orgogliosamente esibite agli elettori, ma anche quelle più criticate dal mondo del diritto. Peccato che il contrappasso più forte sia arrivato proprio sul tema delle galere. Quasi uno scherzo del destino. Il Guardasigilli, accusato di fare riforme forcaiole, etichettato come manettaro dagli avversari, è salito sul banco degli imputati per la concessione degli arresti domiciliari ad alcuni boss durante la pandemia. “Nessun ministro sarebbe sopravvissuto alla crisi che c’è stata dopo le scarcerazioni dei mafiosi”. Mario Michele Giarrusso, avvocato e senatore, è un attivista Cinque Stelle della prima ora, espulso dal Movimento lo scorso aprile. Al telefono con Linkiesta non ha dubbi: “Bonafede, che oggi è un ministro indebolito, ha retto perché fa parte di quel “cerchio tragico” dei Cinque Stelle al governo che è intoccabile. Abbiamo perso gli elettori, ma la squadra che perde resta al comando. L’ala governista di cui fa parte Bonafede si è staccata dai parlamentari e dal resto del Movimento. Almeno governassero, invece occupano il potere e dividono incarichi, soldi e prebende”. Il senatore, siciliano come Bonafede, non si capacita del trattamento riservato a Nino Di Matteo, il pm più scortato e divisivo d’Italia, “uno dei simboli della nostra campagna elettorale”. Del resto, i fatti sono noti e risalgono a fine giugno 2018. Il ministro propose al magistrato antimafia di diventare capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ma il giorno dopo fece marcia indietro. Disse che preferiva mandarlo alla direzione degli Affari Penali. Di Matteo declinò: “Bonafede mi disse “ci sto rimanendo male perché per quest’altro incarico non ci saranno dinieghi, o mancati gradimenti che tengano”. Io non mi sono mai sognato di chiedere a Bonafede cosa fosse avvenuto in quelle 22 ore, chi gli avesse prospettato un diniego o che volesse dire con mancati gradimenti”. La nomina ai vertici dell’istituzione penitenziaria, ha spiegato ancora Di Matteo, era stata oggetto del dibattito in carcere e delle proteste di diversi detenuti al 41bis. Un terremoto dai risvolti imbarazzanti per il Movimento, che a luglio ha registrato un’altra scossa. Il boss mafioso Filippo Graviano, condannato per le stragi del 1992 e del 1993, è stato intercettato in carcere mentre parlava così: “Quell’uomo… di Giletti e quel… di Di Matteo stanno scassando la minchia. Il ministro fa il suo lavoro e loro rompono i…”. Una sorta di endorsement a Bonafede, secondo il giornalista Massimo Giletti. Accolto non senza imbarazzi nel governo. Tutto questo, dopo che a marzo una cinquantina di penitenziari italiani erano stati devastati nel corso di rivolte violente scoppiate contro il blocco dei colloqui e il rischio contagi. In realtà, secondo le indagini della Procura Antimafia, dietro le sommosse ci sarebbe l’ombra dei boss. Un bilancio pesantissimo, con oltre diecimila detenuti coinvolti e 13 morti, oltre a un’evasione record a Foggia con 72 fuggitivi. Le immagini hanno fatto il giro del mondo, con annesso putiferio politico. Passata la tempesta, oggi i Cinque Stelle esultano per l’arrivo alla Camera della riforma del Csm. “Ma il governo l’aveva annunciata il 7 agosto e siamo riusciti a vedere il testo solo una settimana fa”, spiega a Linkiesta Pierantonio Zanettin, membro della Commissione Giustizia di Montecitorio ed ex consigliere del Csm. Il punto è un altro, secondo Zanettin. “Quando abbiamo discusso dell’abolizione della prescrizione c’era ancora il governo gialloverde. L’accordo prevedeva che sarebbe entrata in vigore il primo gennaio 2020 e prima di quella data si sarebbe dovuta fare la riforma epocale della giustizia, di cui si sono perse le tracce. La verità è che i provvedimenti annunciati da Bonafede sono fermi. Le leggi delega per il processo penale e civile sono indietro. Sono alla fase delle audizioni, dove peraltro hanno ricevuto critiche da tutti. In più, essendo leggi delega, avranno bisogno dei decreti attuativi. Parliamo di una prospettiva di anni”. Dal canto suo il Guardasigilli è riuscito a inserire nel decreto sicurezza il “daspo anti-risse”, sull’onda dell’omicidio del giovane Willy a Colleferro. L’ennesima norma mediatica? Chissà. Il vero risultato che rivendica il Movimento, però, è un altro. Bonafede ha inventato il reato per chi introduce telefoni cellulari in carcere e per chi, dietro le sbarre, li possiede. Se prima era previsto solo un illecito disciplinare sanzionato all’interno delle carceri, ora è un reato: da uno a quattro anni. L’urgenza del provvedimento è giustificata da numeri impressionanti. Solo nel 2020 ne sono stati scoperti 1761 dentro gli istituti penitenziari. Confusi nel cibo, sistemati negli indumenti intimi, collocati nel fondo delle pentole, inseriti dentro un pallone per poi essere lanciati. Intanto, con l’aumento vertiginoso dei contagi torna la paura che nelle prigioni la situazione possa nuovamente sfuggire di mano. Massimo De Pascalis è l’ex vicecapo del Dap, con “quarant’anni di esperienza stupendi” nella giustizia. A Linkiesta confida: “Parlando con la polizia penitenziaria colgo molta preoccupazione. Chi lavora in carcere teme che il virus torni a diffondersi in quegli ambienti. Dio ce ne scampi, ma mi domando se l’amministrazione abbia preparato un piano di emergenza, sia dal punto di vista sanitario che sulla sicurezza. Anche per evitare quanto successo nei mesi scorsi”. Dalle prigioni ai tribunali, adesso che succederà? “Posso solo constatare che il tema giustizia è congelato. Non sappiamo più nulla dell’attività parlamentare, non incontriamo il ministro da luglio. Questo silenziamento coincide con le polemiche violente, e in larga parte gratuite, legate alla scarcerazione dei boss. Da quel momento non abbiamo più segnali di iniziative politiche del Guardasigilli”, spiega a Linkiesta Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali. Dopo la paralisi dei processi causa Covid, le udienze sono riprese tra mille ostacoli e senza indicazioni univoche da parte della politica. Il rappresentante dei penalisti italiani racconta: “Non ci sono regole comuni, tutto è affidato ai singoli uffici giudiziari che hanno pochi mezzi. L’accesso degli avvocati e dei cittadini ai tribunali continua a essere difficilissimo. Non possiamo depositare atti da remoto, nemmeno con la pec, perché manca una norma che lo autorizzi. Così, a Roma, per consegnare un’impugnazione c’è un solo sportello con una fila di cinquanta persone e relativi assembramenti. Se fate un giro per gli uffici giudiziari d’Italia, troverete cartelli con scritto “vietato” o “prenotarsi solo il martedì”. Questo è un danno in primis per i cittadini a cui non viene garantito il diritto di difesa”. La situazione diventa ancora più preoccupante, se si considera la seconda ondata di contagi e il rischio di nuove chiusure. La riflessione di Caiazza è amara: “Noi siamo vicini al default di un sistema che era già sconclusionato prima del Covid, poi lo stop dei processi ha fatto sì che si accumulasse un ritardo mostruoso, peraltro nell’epoca della prescrizione bonafediana. Oggi non mi aspetto nulla di buono, la giustizia non è all’ordine del giorno di questo governo”. Giustizia formato Covid. Molto smart working e caos nelle cancellerie di Giulia Merlo Il Domani, 16 ottobre 2020 Il personale avrà accesso alla rete del ministero e arriveranno nuovi pc. Gli avvocati: “Monitoreremo”. Rimane il problema del deposito di atti. Smart working è diventata la parola chiave degli uffici pubblici in tempo di Covid-19. Per i dipendenti del ministero della Giustizia, tuttavia, la questione del lavoro agile è stata terreno di scontro da ogni lato: sul fronte del dipartimento dell’Amministrazione giudiziaria e su quello dell’utenza, avvocati in particolare. La ragione è chiara a chiunque sia entrato in un tribunale italiano. Dal punto di vista della gestione interna agli uffici, il tema centrale è l’accesso alla piattaforma intranet. Il ministero della Giustizia ha una sorta di rete riservata sulla quale finiscono gli atti giudiziari e sono attivi i registri, come per esempio quello delle notizie di reato nel settore penale. Si tratta di dati sensibili e riservati, il cui accesso deve essere gestito in modo sicuro. Dal punto di vista degli operatori del mondo della giustizia, invece, la questione riguarda la gestione delle cancellerie: il deposito di atti sia civili che penali, la richiesta delle copie, la presa visione dei contenuti dei fascicoli continuano ad avvenire prevalentemente via carta, dunque con la necessità che l’avvocato si rechi fisicamente nel palazzo di giustizia. Senza affrontare questi due aspetti problematici, lo smart-working è solo formale, perché il personale amministrativo non ha concretamente modo di svolgere la propria mansione al di fuori delle mura degli uffici. Eppure, il decreto legge 125/2020 ha prorogato lo stato di emergenza al 31 gennaio 2021 e confermato fino al 31 dicembre 2020 le udienze da remoto e la trattazione scritta dei procedimenti civili. Il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria di via Arenula ha provato a risolvere almeno una parte del problema. Dopo due mesi di contrattazione, è stato firmato con i sindacati di categoria l’accordo sullo smart working. Il testo sottoscritto prevede che i dipendenti che lavoreranno da casa - che corrispondono al cinquanta per cento del personale impiegato nelle attività che possono essere svolte da remoto - avranno accesso alla cosiddetta “consolle” delle cancellerie, che permette di svolgere gran parte delle mansioni possibili dalla postazione nell’ufficio: ricevere e gestire gli atti attraverso gli applicativi, di gestire il contributo unificato, pubblicare i provvedimenti civili, notificare gli atti penali con il sistema Snt (sistema delle notifiche telematiche) predisporre gli atti e i provvedimenti, procedere all’istruttoria procedimentale e alla gestione dei fascicoli e alla protocollazione digitale degli atti amministrativi. Inoltre, il ministero ha annunciato che “Sono stati acquistati oltre 12.000 pc portatili, 3.000 dei quali saranno distribuiti nelle prossime settimane. Ulteriori dispositivi, per raggiungere un numero complessivo di circa 20.000 unita-per il personale amministrativo giudiziario, saranno acquistati con ulteriori disponibilità- di bilancio”. I dipendenti che lavoreranno da remoto, dunque, avranno in dotazione un pc portatile aziendale e un monitor per creare una postazione di lavoro in casa e accedere alla rete ministeriale in modo sicuro. “L’attività possibile da remoto nel settore giustizia è stata fino a oggi molto limitata per i problemi di accesso da parte dei cancellieri ai registri”, ha detto la presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi. “Ora prendiamo atto del protocollo e monitoreremo che venga implementato nel migliore dei modi: la nostra prima preoccupazione è che l’attività di difesa non venga compromessa o subisca ulteriori inaccettabili limitazioni”. Sempre nell’ottica di implementare i serviti telematici, ieri il ministero ha sottoscritto insieme a magistratura e avvocatura il protocollo per il processo civile telematico in Cassazione, già attivo per i processi di merito. Il 26 ottobre partirà la fase di sperimentazione del deposito degli atti, sia per via cartacea che telematica, in cui tuttavia solo il cartaceo avrà valore legale; poi il deposito telematico sarà facoltativo ma a valore legale. Infine arriverà la possibilità di depositare telematicamente a valore legale anche per i magistrati. L’incognita cancellerie L’accesso alla rete interna per i cancellieri, tuttavia, è solo parte della soluzione: rimane aperta la questione dell’accesso degli avvocati agli uffici giudiziari. “Continua a mancare la copertura normativa che consenta di depositare gli atti giudiziari da remoto con la posta elettronica certificata”, dice Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali italiane. “Il ministero vuole fare il “videogioco” del processo penale”, aggiunge riferendosi al fatto che oggi i processi penali si celebrano via webcam, “ma noi continuiamo a dover andare in tribunale per poter depositare gli atti o chiedere copie”. E accedere alle cancellerie è un’impresa. Non esistono prassi concordate: la materiale organizzazione delle aperture degli sportelli, poi, non è omogenea sul territorio nazionale ma demandata ai vertici dei singoli uffici giudiziari. “Nei tribunali è tornata l’Italia dei granducati: ognuno a modo suo. Noi avvocati siamo percepiti nel migliore dei casi come intrusi, nel peggiore come untori”, spiega Caiazza. A Roma c’è solo un ufficio centralizzato per chiedere le copia e ogni giorno si forma una lunga coda. I depositi vengono accettati solo a ridosso delle scadenze e con prenotazione via mail. A Bari si accede alle cancellerie solo con appuntamento preso via mail, anche se è permessa una certa elasticità nel caso di depositi urgenti. A Torino l’accesso avviene in base alla lettera del cognome, con turni settimanali, mentre tutti i depositi avvengono nel foyer dell’aula magna, trasformata in uno sportello unico. A Napoli, invece, è stata predisposta una modulistica da inviare per ottenere appuntamento per tutte le attività che non possono essere eseguite da remoto. Inoltre, la mancata presenza fisica di molti dipendenti ha rallentato ulteriormente il lavoro. Gli uffici erano già sotto-organico, nonostante la nuova tornata di assunzioni prevista dal ministero, e si sono trovati a dover gestire tutte le attività burocratiche, che si sommano a quelle di sportello, con il personale ulteriormente ridotto. Processo civile telematico, ora tocca alla Cassazione: intesa a via Arenula di Errico Novi Il Dubbio, 16 ottobre 2020 Dal 26 ottobre deposito facoltativo degli atti anche in digitale, sarà obbligatorio da aprile 2021. Il guardasigilli: “Passo nel futuro e risposta alla pandemia”. Al primo posto del Recovery plan nella giustizia, compaiono due voci: edilizia e digitale. Le strutture materiali e quelle immateriali. Il protocollo firmato ieri pomeriggio a via Arenula dal guardasigilli Alfonso Bonafede con i vertici della giustizia di legittimità e con l’avvocatura è un passo nel futuro che prescinde anche dal fondo Ue: con l’intesa infatti entra nel vivo il processo civile telematico in Cassazione. L’accordo prevede la graduale introduzione della modalità “virtuale”, a cui il ministero dedica energie già dal 2018. Primo step ravvicinato: il 26 ottobre la cosiddetta fase sperimentale non riguarderà più solo la Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati (Dgsia) ma anche gli avvocati: si potrà iniziare a depositare gli atti di parte, al fine di “testare la funzionalità del sistema”, come spiega una nota di via Arenula. Da aprile 2021 il deposito degli atti introduttivi per via telematica diventerà, anche presso la Suprema corte, obbligatorio. Modernità ma anche “resilienza” di fronte alla pandemia: sono i due principi- guida del percorso, che con Bonafede vede impegnati gli altri firmatari del protocollo: il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, il procuratore generale Giovanni Salvi, l’Avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli, la presidente del Cnf Maria Masi e il coordinatore dell’Ocf Giovanni Malinconico. L’istituzione forense è coinvolta già dalla fase del cosiddetto “Laboratorio Pct”, che a giugno 2018 ha visto completata l’analisi condivisa tra i protagonisti dell’intesa di ieri. Bonafede sa che il futuro passa anche per la smaterializzazione di tutte le fasi del processo non vincolate alla presenza fisica. Definisce l’accordo sul Pct in Cassazione “un passo fondamentale per accelerare il percorso di modernizzazione e digitalizzazione della giustizia”. Si tratta di rendere tutto più veloce ma anche più sicuro. “Un percorso già ben avviato, come dimostrano i numeri considerevoli registrati dallo sviluppo del processo civile telematico nel giudizio di merito”, ricorda il guardasigilli. E l’impegno appena siglato “si rende ancor più necessario nel periodo difficile che stiamo vivendo a causa della pandemia. La tecnologia a supporto del processo telematico ha consentito nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria di garantire lo svolgimento di un servizio essenziale come quello giudiziario”, tiene ancora a dire Bonafede. Il passaggio previsto a partire dal 26 ottobre è soft: il deposito degli atti, spiega la nota del ministero, sarà sperimentato con il “doppio binario”, vale a dire “per via cartacea e telematica, in cui solo il cartaceo avrà valore legale”. Un decreto che il ministro emanerà a dicembre consentirà, dal mese successivo, il deposito telematico facoltativo ma a valore legale per gli atti introduttivi. Seguirà subito dopo la possibilità di depositare telematicamente a valore legale anche per i magistrati. Naturalmente, oltre ad avvocati cassazionisti e magistrati in servizio presso la Suprema corte, il percorso coinvolge anche le cancellerie, che “con l’avvio della digitalizzazione degli atti di avvocati e magistrati, avranno modo di gestire interamente il fascicolo processuale in modalità telematica”. In tal modo “la qualità e la durata dei processi di lavoro avranno un miglioramento, come già avvenuto in primo e secondo grado”. Sempre a gennaio, col deposito facoltativo ma legalmente riconosciuto degli atti, ci sarà tra l’altro uno specifico impegno della sesta sezione civile, per la quale i ricorsi saranno consultabili digitalmente. Ad aprile, quando il deposito sarà diventato obbligatorio, ci sarà anche un’estensione del desk della Procura generale, che a propria volta avvierà un’integrazione del sistema in grado di aprire la strada all’altra innovazione, il processo penale telematico. Il presidente Curzio ha espresso “soddisfazione”: grazie all’impegno del ministero e alla “collaborazione di tutti i soggetti coinvolti”, ha detto, “sarà possibile completare la digitalizzazione del processo civile, migliorando la qualità del servizio giustizia e del lavoro di tutti e consentendo, in questo momento di emergenza sanitaria, di rafforzare i livelli di protezione e sicurezza”. Lo stesso pg Salvi parla di “passo importante al quale la Procura generale partecipa con determinazione, augurandosi che presto si possa avviare anche il processo penale telematico”. Salvi ha tenuto a ringraziare “le strutture ministeriali per il generoso impegno profuso”. Con la Dgsia, anche il dipartimento Organizzazione giudiziaria. A riprova che nei ministeri, in silenzio, c’è chi affronta la pandemia con nuove soluzioni, anziché con la paura. Tra i cancellieri dei tribunali cova la rivolta: “Serve più smart working” di Simona Musco Il Dubbio, 16 ottobre 2020 Firmato l’accordo con il ministero. L’Usb: “trattati come schiavi”. Tra i cancellieri cova la rivolta. Contro un accordo sullo smart working ritenuto insufficiente, se non ridicolo - al punto che l’Usb ha deciso di non firmarlo - e contro una svalutazione della figura professionale a causa dei “diktat” della magistratura. “Si tratta dell’ennesimo accordo a perdere per i lavoratori della giustizia”, contesta Pina Todisco, della Direzione nazionale dell’Usb. Secondo cui l’accordo lascerebbe allo sbando anche e soprattutto le categorie fragili. Tra le previsioni più rilevanti ci sono l’accesso al lavoro agile per almeno il 50% del personale addetto alle attività smartabili, anche attraverso il ricorso a prestazioni in parte in ufficio ed in parte da remoto nella stessa giornata e la parità di trattamento tra lavoratori on site e lavoratori agili. “Durante il lockdown abbiamo vissuto dei momenti drammatici in tantissimi uffici giudiziari, perché tanti dirigenti, pur di non assumersi responsabilità hanno costretto i lavoratori a stare in ufficio - spiega Todisco. Quello sottoscritto mercoledì è un accordo fumoso, senza alcun obbligo, per i dirigenti, di concedere lo smart working. E ciò vuol dire che è come se non lo avessimo fatto per niente”. A pesare anche le “gravi carenze” ministeriali, ovvero un’arretratezza tecnologica che, di fatto, rende smartabile ben poca parte del lavoro. E ciò “nonostante le ingenti somme spese per la digitalizzazione degli uffici”, continua la sindacalista. Durante gli incontri al Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria l’Usb aveva chiesto maggiori garanzie per i lavoratori fragili, a prescindere dal ruolo, garantendo loro l’accesso a prescindere allo smart working. “Ma l’amministrazione è prona alle lamentele degli avvocati - contesta Todisco. Noi non abbiamo potere contrattuale e siamo in balia delle onde. Il tutto mentre ogni giorno ci sono casi di chiusura degli uffici, sanificazioni, quarantene”. L’accordo sarebbe, dunque, “solo un’operazione di facciata”, pieno di incongruenze, come l’obbligo, per i lavoratori, di presentare richiesta entro cinque giorni dalla firma di tale documento, mentre gli uffici ne hanno a disposizione 10 per individuare i lavori eseguibili da remoto. E ciò mentre non vengono riconosciuti, ai lavoratori fuori dagli uffici, i buoni pasto o risarcimenti per le spese di connessione. “Un fritto misto tra smart working e telelavoro” in un contesto di sofferenza: su un fabbisogno di 44mila dipendenti, l’amministrazione ne conta infatti attualmente solo 32mila. Ma non solo, l’altro problema è la catena di comando: “Siamo ostaggio della magistratura - accusa Todisco - ogni provvedimento viene calato sulle loro esigenze. L’organizzazione del lavoro dipende da loro, che firmano i nostri contratti dentro al ministero. E così facciamo da schiavi, lasciando sguarniti gli uffici per fare le loro ricerche o esaudire altre richieste. Poi ci si chiede perché sentenze e provvedimenti dei giudici rimangono fermi”. A firmare l’accordo, ma con riserva, sono stati Cgil, Cisl e Uil, che lamentano la “deliberata ed immotivata” esclusione dalle attività smartabili quelle degli ufficiali giudiziari e degli uffici Nep (notificazioni, esecuzioni e protesti). “Tale circostanza, oltre ad esporre oltremisura questi lavoratori al rischio di contagio - si legge in una nota delle tre sigle - conferma la volontà dell’amministrazione di mortificare questo importante settore dell’amministrazione giudiziaria come dimostra la mancata attuazione dell’articolo 492 bis cpc (ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare, ndr) e la mancata realizzazione del progetto tablet con la esclusione degli uffici Nep dal processo di digitalizzazione degli uffici giudiziari”. L’inasprimento delle pene per rissa e l’estensione del Daspo urbano in nome di Willy di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2020 Il conferimento della medaglia d’oro a Willy Monteiro da parte del Presidente Mattarella suggella, ancor prima che il processo giunga a conclusione, la gravità di quell’aggressione e la ferocia di quel gesto di sopraffazione contro un giovane ragazzo praticamente inerme. L’intervento d’urgenza messo in campo dal Governo con l’inasprimento delle pene per il delitto di rissa e con l’ampliamento dei casi di Daspo urbano segna, per altro verso, la cifra dell’attenzione che quel delitto ha suscitato nella pubblica opinione. Una risposta ad hoc come altre, verrebbe da dire. Perché anche in altri casi (si pensi alla tanto attesa legge sul cosiddetto codice rosso) è la cronaca, nella sua dirompente teoria di vittime e soprusi, a sollecitare il legislatore a por mano, quasi sempre sul versante penale, alla sanzione delle condotte più riprovevoli. Resta sempre sullo sfondo il tema della prevenzione. Scarsità di risorse, norme di mero principio, cataloghi ideali di obiettivi e di intenzioni rendono il crinale della prevenzione sempre invalicabile e inefficace. L’intervento dell’articolo 588 del Cp - Questa volta, tuttavia, occorre dato atto che la contestuale modifica delle disposizioni relative al Daspo e l’inasprimento sanzionatorio del reato di cui all’articolo 588 Cp segna una più razionale e completa risposta al fenomeno della violenza giovanile che, alla fine, è ciò che è stato messo in esergo dalla morte di Willy Monteiro. In questa cornice, come detto, l’iniziativa del Quirinale caratterizza in modo ancora più evidente il segnale che si intende trasmettere alle fasce giovanili del Paese, troppe volte coinvolte in episodi di violenza collettiva, rabbiosa quanto dettata da futili motivi. “Sono due luminosi esempi anche per le giovani generazioni” ha detto il Capo dello Stato, riferendosi anche alla morte di don Roberto Malgesini, il prete degli ultimi, assassinato a Como il 14 settembre da un clochard. L’upgrading edittale dell’art.588 Cp ha riguardato sia la pena pecuniaria (passata da 309 euro a 2.000) che quella detentiva sia nel minimo che nel massimo: le parole “da tre mesi a cinque anni” sono sostituite dalle seguenti: “da sei mesi a sei anni”. Un raddoppio della pena minima certamente più performante l’applicazione della norma rispetto all’inasprimento della pena massima, poiché evidenzia alla giurisprudenza la necessità di un contegno decisorio più severo nell’esame dei casi. Inutile negare che gli scontri tra gruppi di giovani, in prossimità di locali e discoteche, sono una devianza risalente nel tempo e, non certo, un fenomeno di breve esistenza. Tuttavia alla violenza politica e a quella sportiva (realizzate, spesso, in forma sistematica e preordinata), si è sostituito un ricorso alla violenza più improvviso e imprevedibile. Alla citata futilità delle ragioni dello scontro e della sopraffazione si accompagna la difficoltà di prevenire le risse e di contenerne gli effetti. La diffusione incontrollata di armi da taglio tra i ragazzi è il vero profilo di novità di questa nuova degenerazione della convivenza giovanile, cui si associa una riprovevole tendenza all’aggressione di gruppo nei confronti di vittime isolate e numericamente inferiori. La definizione di rissa - È recente il pronunciamento della Corte di legittimità che ha avuto cura di precisare che “il reato di rissa richiede la condotta di due gruppi contrapposti che agiscano con la vicendevole volontà di attentare all’altrui incolumità, presupposto che non è integrato qualora un gruppo di persone assalga altri soggetti che fuggano dall’azione violenta posta in essere ai loro danni”. Correttamente i Giudici di piazza Cavour hanno precisato che il reato di cui all’articolo 588 Cp richiede la partecipazione di almeno tre persone, in quanto rileva anche la contrapposizione tra due soggetti contro una sola persona (così Cassazione sez. 6, n. 12200 del 15 aprile 2020). Da questo punto di vista quanto, tragicamente, occorso al giovane Willy, è una rissa in senso stretto e non una “semplice” aggressione, con tutte le note conseguenze che ne derivano sulla responsabilità per la morte della vittima. Il coordinamento con il Daspo urbano - Si è detto della modifica apportata alla disciplina del Daspo urbano introdotta dal decreto legge n.14 del 2017 e che oggi abbraccia, nei suoi cospicui divieti, tutte le persone che abbiano riportato una o più denunzie o siano state condannate, anche con sentenza non definitiva, nel corso degli ultimi tre anni per la vendita o la cessione di sostanze stupefacenti per fatti commessi all’interno o nelle immediate vicinanze di scuole, plessi scolastici, sedi universitarie, locali pubblici o aperti al pubblico, ovvero in un pubblico esercizio. La correlazione con la disposizione precedente (articolo 8), riguardante la rissa, non è solo “topografica”, ma evidenzia come - troppe volte - la violenza di gruppo sia innescata dal consumo incontrollato di sostanze stupefacenti, soprattutto in prossimità di locali pubblici. L’allontanamento di questi soggetti dovrebbe pur costituire un risultato propizio per la prevenzione delle degenerazioni violente giovanili. Cutolo è in fin di vita. Il Tribunale: deve morire in galera di Angela Stella Il Riformista, 16 ottobre 2020 “Dicono che finché non sarà un vegetale e in coma come Provenzano dovrà restare al carcere duro”, accusa l’avvocato. “È la conferma che il nostro sistema giuridico e penitenziario è indecente”. Raffaele Cutolo deve restare in carcere, deve soffrire in carcere, deve morire in carcere. Perché è un camorrista e non merita niente. Il Tribunale di sorveglianza di Roma ha deciso così: vendetta, tremenda vendetta. Vi ricordate quei cortei un po’ lugubri di una quarantina d’anni fa, come gridavano? Magari - beati voi - siete giovani e non li ricordate. Ve lo dico io: “Pagherete caro, pagherete tutto”. È su questo slogan assassino che si spense la grande carica libertaria del sessantotto. Ora questo slogan lo ripetono, tronfi, i giornali, le Tv, i leader politici, i tribunali. È stato così per Cesare Battisti è così oggi per Cutolo. Sì, è vero, è stato il capo della camorra. Da giovane, negli anni Ottanta. La sua organizzazione, appunto, non esiste più da 40 anni. I suoi complici tutti morti o in galera. Lui si muove a stento, ha quasi perso la memoria breve, ha forti disturbi cognitivi, diabete, malattie circolatorie. C’è una sola persona ragionevole al mondo che può considerarlo pericoloso? Ha scontato quasi sessant’anni in prigione, battendo tutti i record, da quasi 30 anni è rinchiuso al 41bis, al carcere duro. I suoi avvocati hanno chiesto i domiciliari, o almeno la fine del 41bis. Macché, ha risposto il tribunale. Morte. Perché lo ha fatto? Per ferocia? No, per paura. Paura dei giornali, dei Salvini, delle Tv, dei social, dei forcaioli di sinistra e di destra, tutti convinti che se gridi “a morte” prendi qualche voto in più. Che tristezza. Una volta questo era un paese civile. O forse non lo è mai stato... Raffaele Cutolo resta al 41bis: lo ha deciso ieri il Tribunale di Sorveglianza di Roma. L’udienza di reclamo per la revoca del carcere duro si era tenuta lo scorso 2 ottobre, ad un anno esatto dal reclamo dall’avvocato Gaetano Aufiero. Proprio il legale di Cutolo commenta così al Riformista questa decisione: “Questo provvedimento dimostra che il nostro sistema giuridico, e penitenziario in particolare, è indecente. Sono senza parole: come si può pensare che un uomo di 80 anni con uno stato patologico conclamato e una grave disabilità mentale possa continuare a mantenere indisturbato i contatti con l’esterno? Non mi resta che dire che siamo in presenza della stessa inciviltà giuridica di quando si condannava alla pena di morte un disabile mentale che aveva commesso un reato senza rendersene conto”. A proposito delle condizioni di salute, l’uomo è ricoverato presso l’Ospedale Maggiore di Parma dal 30 luglio e la relazione del perito di parte parla di “condizioni psicofisiche particolarmente scadute, di memoria a breve termine particolarmente compromessa, e di disturbo neuro-cognitivo maggiore”. Nonostante questo, il Collegio del Tribunale di Sorveglianza sostiene che nella stessa perizia si scrive che il detenuto è “lucido”: è un termine - ci dice sempre l’avvocato Aufiero - “che il Tribunale estrapola strumentalmente. Lucido vuole dire che ha gli occhi aperti se gli parli e ti risponde “Raffaele” se gli chiedi come si chiama. Ma se i magistrati avessero letto - loro - con maggiore lucidità la relazione avrebbero visto che Cutolo è completamente decontestualizzato, non sa nemmeno in che città si trova e che giorno è oggi. Non riconosce me che sono suo avvocato da 25 anni né sua moglie. Come può mantenere i contatti con l’esterno in queste condizioni?”. Tuttavia la parte del provvedimento che più lo scandalizza è quella in cui si fa il paragone con Bernardo Provenzano: “si dice che Cutolo non è nelle stesse condizioni dell’ex boss di Cosa Nostra. Ricordo che lo stesso Tribunale di Sorveglianza di Roma ha determinato la condanna dell’Italia da parte della Cedu proprio perché Provenzano era stato mantenuto al 41bis nonostante fosse in uno stato neurovegetativo. Il richiamo a Provenzano è offensivo, perché si dice chiaramente che fin quando Cutolo non sarà in coma e un vegetale come Provenzano dovrà rimanere al carcere duro”. Le altre due motivazioni addotte dal Collegio per mantenere al carcere duro l’uomo, detenuto dal 25 marzo 1971 e in 41bis dal 20 luglio 1992, è che esistono “congrui elementi a sostegno della permanenza della capacità del condannato di mantenere contatti con la criminalità organizzata” e che è ancora elemento di “spiccatissima pericolosità sociale”. Questo passaggio non meraviglia particolarmente l’avvocato Aufiero: “In sostanza si colpisce una mera astratta potenzialità perché in realtà non c’è un solo elemento per dire che lui abbia mantenuto i contatti con l’esterno. Sulla spiccata pericolosità sociale si rifanno sempre a quello che è successo 40 anni fa. Il Procuratore Generale in udienza è venuto addirittura a ricordarci le estorsioni che Cutolo faceva imponendo i prezzi ai contrabbandieri a Napoli negli anni 70. Ma di che parliamo? Invece non si spende una parola sul fatto che sia isolato da 40 anni. Non mi sorprende questo passaggio. Figuriamoci se il Tribunale di Sorveglianza di Roma, in questo clima politico, poteva dire che Cutolo non è pericoloso”. A ciò, ci dice Aufiero, bisogna aggiungere che “sia il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia sia il Tribunale di Sorveglianza di Bologna non si sono mai degnati, nonostante mia formale richiesta, di accertare le condizioni mentali di Cutolo mediante una perizia terza”. Se l’avvocato non l’ha richiesta invece ora al Collegio del Tribunale di Sorveglianza di Roma è perché ci sarebbero voluti altri mesi per istruirla e alla fine sarebbe terminato il biennio di proroga del 41bis disposto con decreto ministeriale. Un ultimo punto che i magistrati contestano è la condotta intramuraria non partecipativa di Cutolo: “Cosa c’entra con il 41bis? Cosa volevano, che Cutolo a 80 anni iniziasse ad avere una condotta partecipativa con l’assistente sociale? Essendo lui un fine pena mai è consapevole che non potrà ottenere nulla sotto il profilo delle misure alternative alla pena detentiva”. Caso Cutolo, giudici terrorizzati da stampa e tv di Piero Sansonetti Il Riformista, 16 ottobre 2020 Sta molto male. Ha forti disturbi cognitivi. 80 anni, dei quali quasi 60 passati in cella. Come può essere pericoloso un uomo così? Possibile tanta ferocia in una sentenza? Non è ferocia, è paura dei mass media forcaioli. Il tribunale di sorveglianza di Roma ha deciso che Raffaele Cutolo, ex boss della camorra, deve andare a morte. La sua vita deve finire nella brandina di una cella in regime di carcere duro. Siamo nel 2020, sembra il medioevo. Raffaele Cutolo è un signore di 80 anni, in pessime condizioni di salute e con fortissimi problemi cognitivi, ha passato in prigione 57 anni della propria esistenza (e poco più di venti ne ha trascorsi in libertà, tra i quali i primi 18, quelli della scuola) ed è stato il fondatore di un’associazione camorristica che non esiste più da circa 40 anni. Si muove con gran difficoltà, ha notevoli problemi di attenzione e la memoria corta sta svanendo. Di questo i magistrati hanno preso atto, e sulla loro ordinanza, nella quale rigettano la richiesta degli avvocati quantomeno di sospendere il 41bis, hanno copiato il parere drammatico del medico che ha svolto la perizia su Cutolo. Poi hanno concluso: no, Cutolo forse ha problemi fisici e intellettivi ma qualcosa capisce e dunque, se interrompessimo il regime di isolamento e il carcere duro, c’è il rischio che lui riesca a mettersi in contatto coi suoi vecchi compagni d’arme (quasi tutti, o forse tutti, morti o in carcere da anni) e a riorganizzare il gruppo camorristico. Potrebbe mettere su una banda, magari piccolina, composta da quattro o cinque ultranovantenni, un po’ rincoglioniti ma molto esperti. Questo disegno va fermato, hanno pensato i giudici. Quindi, istanza rigettata e 41bis, cioè carcere duro, confermato. I magistrati romani hanno anche preso in considerazione la sentenza della Corte europea che condannò l’Italia per aver tenuto in prigione, moribondo, il capo della mafia Bernardo Provenzano, ma hanno ragionato sul fatto che Provenzano era in coma e Cutolo no. E dunque le condizioni di Provenzano non possono essere accostate a quelle di Cutolo e la sentenza della Corte europea non può valere per lui. Il tribunale che ha preso questa decisione precisa, nell’ordinanza, di non essere chiamato a decidere sulle condizioni di salute del detenuto, e dunque sulla compatibilità tra le sue condizioni e il carcere. Questa è una valutazione che spetta al tribunale di sorveglianza della città dove Cutolo oggi è in carcere (quindi Parma). Il tribunale di sorveglianza di Roma deve solo stabilire se Cutolo è ancora pericoloso o no. E ha stabilito che un vecchio traballante, praticamente privo di memoria breve, con forti problemi cognitivi, con quello che i medici definiscono “un disturbo neuro-cognitivo maggiore”, affetto da diverse malattie cardiocircolatorie, dal diabete e da altri disturbi, ha tutte le carte in regola per uscire di prigione, o almeno per uscire dal regime di isolamento nel quale vive, murato vivo, dal 1992, e mettere a ferro e fuoco Napoli, o forse tutta la Campania. Come può succedere che dei magistrati scrivano una ordinanza di questo genere? Le spiegazioni possibili sono solo due. La prima si riassume in una parola: Burocrazia. Del resto è impossibile non notare che nella prima pagina dell’ordinanza, è stampata la seguente scheda: “Detenuto: Raffaele Cutolo, pena da espiare: Ergastolo/scadenza della pena: Mai (concessi giorni 1035 di anticipazione anticipata)”. C’è scritto esattamente così. Cioè, alla lettera, Cutolo dovrà essere liberato 1.035 giorni prima della propria morte, però non si sa ancora chi potrà stabilire con almeno tre anni di anticipo la data della sua morte. La seconda spiegazione sta nel clima di forca che si è creato ormai da molto tempo nel paese. La furiosa campagna di stampa condotta dai giornali contro i tribunali di sorveglianza che mesi fa liberarono alcuni detenuti in cattive condizioni di salute, ha avuto il suo effetto. Oggi i tribunali di sorveglianza sono terrorizzati e non si azzardano a prendere provvedimenti che rientrino nell’ambito della civiltà giuridica. Uno Stato vendicatore contro Battisti di Renata Polverini Il Riformista, 16 ottobre 2020 Si dirà: ma è un assassino ed è giusto che paghi. E infatti deve pagare le sue colpe ma se lo Stato si mette sullo stesso piano di chi commette un delitto abdica al proprio ruolo e tradisce la Costituzione. La finalità rieducativa della pena e le garanzie poste dalla Costituzione e dall’ordinamento carcerario alla sua esecuzione, rappresentano la linea di confine tra lo Stato autoritario e quello liberale. In Italia, “culla del Diritto”, si preferisce lasciare agli addetti ai lavori - avvocati e magistrati - il compito, che spetterebbe ad una politica meno timida e intimidita, di discutere sulla condizione delle carceri e dei carcerati e di trovare una soluzione al sovraffollamento ed alla gestione delle misure alternative alla detenzione. In questa cornice fatta di rinvii e furbizie burocratiche (vedi il calcolo dei metri quadri a disposizione dei detenuti) spicca una “macchia” che facciamo sempre più fatica a nascondere nelle pieghe della cronaca dei giornali e che riguarda Cesare Battisti. Apro l’ombrello come fa chiunque provi ad affrontare il tema: considero l’ex primula rossa dei PAC, proletari armati per il comunismo, un misero assassino che finalmente risponde delle proprie malefatte. Ha subito innumerevoli processi e, benché mai interrogato in quanto latitante, non è in discussione né la sua colpevolezza, né il fatto che quegli omicidi siano stati efferati e persino privi di quelle assurde “motivazioni” ideologiche che caratterizzavano il terrorismo degli anni settanta. Battisti era un delinquente comune “radicalizzato” in carcere alla lotta armata per il comunismo, in nome del quale uccise o partecipò all’uccisione di almeno quattro persone. Quando evase, rifugiandosi prima in Messico, poi in Francia ed infine in Brasile, definì la prigione un “lager di Stato” e questo bastò per armargli la mano contro una delle sue vittime, Antonio Santoro, maresciallo della Polizia Penitenziaria di Udine. Probabilmente non avrebbe mai immaginato di risentire l’eco di quelle sue parole, quarant’anni dopo, nel carcere di Rossano. Qui infatti è finito, dopo alcuni mesi trascorsi ad Oristano (un altro carcere in condizioni a dir poco fatiscenti), in compagnia per lo più di terroristi jihadisti e, soprattutto, sottoposto ad un regime carcerario di “alta sicurezza” che si traduce in una serie di misure accessorie della pena totalmente ingiustificate. Quando fu arrestato in Bolivia (altro contrappasso, visto che si era rifugiato in uno degli ultimi paradisi del comunismo) e, successivamente, “regalato” (vedi tweet di Bolsonaro jr) all’Italia, Battisti arrivò a Ciampino accolto da ben due ministri: uno, Bonafede, ministro di Grazia (?) e Giustizia, lo filmò, contro l’ordinamento carcerario ed il buon senso, diffondendo via Facebook le immagini; l’altro, Salvini, ministro dell’Interno, gli promise che lo avrebbe fatto “marcire in galera”. Sembrava il Colosseo e, invece, era un aeroporto dove lo Stato aveva messo in piedi, senza accorgersene, la rappresentazione del proprio fallimento anzi, del tradimento dei diritti e della dignità di ogni cittadino, anche del peggiore, tanto che ancora risuonano le parole di una poliziotta, Cristina Villa, che contribuì alla cattura del latitante: “non brinderò mai alla tristezza altrui”. Adesso a Battisti viene negata la visita dei familiari e la posta, è stato tolto il computer e qualsiasi possibilità di svolgere una pur minima attività; in carcere può solo “marcire”, appunto, cosa che non si esclude considerate le condizioni di salute. Si dirà: ma è un assassino ed è giusto che paghi. Ed infatti deve pagare le sue colpe ma se lo Stato si mette sullo stesso piano di chi commette un delitto abdica al proprio ruolo e tradisce la Costituzione. “La vendetta è una specie di giustizia selvaggia”, diceva Francesco Bacone che però, a Via Arenula, oggi come oggi considerano ancor meno di Rousseau. Omicidio Rocchelli, 24 anni al colpevole “perfetto” ma con prove improbabili di Iuri Maria Prado Il Riformista, 16 ottobre 2020 Quando lo hanno condannato a ventiquattro anni di prigione, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, che era costituita parte civile, ha dichiarato: “Prendiamo atto con soddisfazione che la Corte d’Assiste di Pavia ha riconosciuto che Andrea Rocchelli e Andrej Mironov sono stati uccisi mentre tentavano di ‘illuminarè una guerra cancellata”. Ma il processo a carico di Vitaly Markiv non doveva accertare che i due fossero stati uccisi, né i motivi per cui qualcuno li ha uccisi: doveva accertare se davvero uno dei due, il giornalista Rocchelli, fosse veramente stato ucciso dall’imputato. Né tanto meno quel processo aveva il compito di accertare “come, attraverso il loro assassinio, siano stati colpiti anche l’articolo 21 della Costituzione e il diritto dei cittadini a essere informati” (era ancora il sindacato dei giornalisti a reclamare questo strano ruolo della giustizia penale in un caso di omicidio). All’epoca dei fatti (2014) Markiv era un soldato di basso rango impegnato nel conflitto tra i separatisti filo-russi e l’esercito regolare ucraino. Titolare di doppia cittadinanza - ucraina e italiana - Markiv militava dalla parte ucraina. In posizione eminente nel processo italiano non erano tuttavia i comportamenti di Markiv connessi ai fatti di causa, cioè la morte dei due giornalisti sotto il fuoco non si sa bene di chi, ma il “personaggio” di Markiv: cioè un giovane cui, fondatamente o no, si imputavano propensioni ultranazionaliste e simpatie naziste identificate nella detenzione di qualche fotografia con svastiche e roba simile, nonché in non meglio documentate manifestazioni di solidarietà a lui rivolte da formazioni di destra. Tutte cose buone alla confezione di un ritratto da impallinare nel facile consenso di dichiarazioni come quelle dei sindacalisti della stampa, ma decisamente insufficienti, e anzi completamente irrilevanti, per provare i fatti attribuiti alla responsabilità di Markiv: cioè, da soldato semplice, di aver sparato o di aver ordinato il fuoco contro quei giornalisti, dopo averli identificati come tali a più di un chilometro e mezzo di distanza. Il tutto senza che sia mai stato disposto un sopralluogo nella zona in cui il fatto è avvenuto, senza che sia stato accertato se il fuoco fosse di provenienza ucraina (le testimonianze in punto sono risultate confuse e contraddittorie), senza, appunto, che si sia verificato come Markiv potesse aver identificato da quella distanza i giornalisti, senza che fosse provata in qualsiasi modo la partecipazione attiva di Markiv alla regia del fuoco e senza che fosse spiegato in modo appagante come essa potesse essere assunta da chi, come Markiv, occupava una posizione gerarchica subordinata. Queste sono solo alcune delle tante incongruenze (è un eufemismo) che emergono dalla lettura della sentenza pavese, che ora è rimessa all’esame della Corte di Assise di Appello di Milano. Che il processo fosse - e speriamo non sia più - un modo per trovare il colpevole adatto è una sensazione difficile da allontanare davanti alla scena di imputazioni che impiccano quel militare alle sue presunte predilezioni ideologiche, tanto più quando si pretende che la vittima non sia un poveretto che ha perso la vita ma, abbastanza oscenamente, il diritto all’informazione dei cittadini fatto valere dalla stampa federata. Il puro fatto che sia Raffaele Della Valle, che difese Enzo Tortora, a rappresentare le ragioni dell’imputato, non è sufficiente a dir nulla contro la bontà della sentenza di primo grado, così come non basta il buon nome di Giuliano Pisapia, che assiste la burocrazia sindacale giornalistica, a riabilitare le dichiarazioni della parte civile, francamente inopportune, che abbiamo riportato sopra. È certo tuttavia che il caso di una tragedia indubitabilmente avvenuta in un lontano scenario di guerra, in condizioni di confusione e promiscuità nei movimenti militari, in un contesto di rischio e fortuità imparagonabile a quello di una normale realtà sociale, è precipitato qui da noi in un processo con prove improbabili e pesantemente condizionato da sociologismi e vagheggiamenti di giustizia sociale decisamente incompatibili con il principio per cui non si condanna nessuno se non c’è una responsabilità accertata oltre ogni ragionevole dubbio. E la responsabilità non può risiedere né nel possesso di un cimelio nazista, che peraltro l’imputato giustifica, né nella militanza presso una parte che non piace al giudice e a chi si compiace del suo verdetto. Se ci vuole un processo, deve essere diverso rispetto a quello che c’è stato. Sentenza Shalabayeva: chi ha dato gli ordini non ha pagato di Astolfo Di Amato Il Riformista, 16 ottobre 2020 Nel momento in cui è emerso che gli imputati non avessero un interesse personale ad allontanare la donna e la figlia, e che l’intero ministero dell’Interno difendeva l’accaduto, è inevitabile chiedersi se non abbiano obbedito agli ordini. Caro Direttore, mi chiedi di dare conto della sentenza del Tribunale di Perugia, che ha condannato per sequestro di persona alcuni alti funzionari di Polizia, nella prospettiva della parte offesa, Alma Shalabayeva, che ho assistito quale difensore di parte civile. Ricorderai certamente l’enfasi con cui l’allora ministro Alfano lesse in Senato, il 21 luglio 2013, la relazione che era stata redatta dal Capo della Polizia, Pansa. Il succo era che la espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia Alua e la loro consegna ai rappresentanti del Kazakistan era avvenuta nel più rigoroso rispetto delle regole. Quando, richiesto dai familiari di Alma di occuparmi della vicenda, ho preso visione del testo della relazione e degli allegati, su cui si fondava, sono restato molto sorpreso. Il cuore della affermata piena legittimità dell’accaduto stava nel rilievo che tutto si era verificato nell’ambito della ordinarietà burocratica, che non aveva permesso di cogliere la particolarità della vicenda. Si gabellavano, dunque, per ordinarietà burocratica le circostanze che nessuno si fosse accorto che il marito di Alma fosse un dissidente politico perseguitato nel suo paese (come reso evidente da centinaia di migliaia di fonti aperte consultabili su interni); che nell’arco di meno di 70 ore una donna e la sua bambina fossero state consegnate alle autorità del Kazakistan; che per affrettare la consegna fosse stato addirittura noleggiato un aereo; che per ottenere la consegna vi fosse stata una assidua presenza dei diplomatici kazaki presso gli Uffici della Polizia; che nell’arco di poche ore, nel pomeriggio in cui era avvenuta la consegna, era stato addirittura ottenuto il visto del Procuratore Capo di Roma, Pignatone, che certamente non si occupa abitualmente di immigrati illegali. Ecco perché, e la circostanza merita attenzione, la denuncia da me redatta, e ritenuta subito meritevole di approfondimenti da parte della Procura di Perugia, recava come allegati gli stessi documenti, sulla base dei quali il ministro Alfano aveva, con tono deciso, affermato la piena legittimità di quanto accaduto. Questa piena legittimità è stata, poi, sostenuta durante tutto il processo dagli imputati, talvolta in aperto contrasto anche con l’evidenza. E qui interviene l’interrogativo con cui ieri chiudeva il pezzo del Riformista sulla vicenda. Nel momento in cui è emerso con chiarezza che nessuno degli imputati aveva un interesse personale e che l’intero ministero difendeva quanto accaduto, diventa inevitabile chiedersi se tutto questo non si spieghi con la circostanza che gli imputati abbiano obbedito a degli ordini. Ed allora, chi ha dato gli ordini, pur essendo il maggiore colpevole, l’ha fatta franca! Un’altra riflessione, ancora più importante sul piano delle istituzioni. Questo processo ha reso manifesto, ancora una volta, che il valore dell’indipendenza del Giudice non è negoziabile in una democrazia e che tale valore non ha, di per sé, nulla di corporativo, ma è posto a garanzia dei cittadini. Le considerazioni svolte in precedenza danno conto della circostanza che il processo ha finito con il coinvolgere, nel momento in cui ne ha smentito le conclusioni anche del vertice, una frazione importante del potere statuale. Ciononostante, il processo è andato avanti e si è concluso con una decisione certamente libera da condizionamenti di questo tipo. Questo significa che il dibattito, sacrosanto, sulla responsabilità dei giudici non deve mai dimenticare l’esigenza della tutela dell’indipendenza. Così come il tema della divisione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, da un lato, deve essere sviluppato salvaguardando l’indipendenza anche di questi ultimi e, dall’altro, deve essere visto nella prospettiva di accentuare l’indipendenza del giudice. Ingiusta detenzione: esclusa la responsabilità se il legale non ha avuto la procura speciale di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2020 Con l’ordinanza 22310 del 15 ottobre la Cassazione sottolinea che il ricorrente non ha dimostrato l’esistenza di un contratto. Non si ravvede la responsabilità professionale del difensore che non è stato investito con procura speciale della richiesta di indennizzo per ingiusta detenzione. Lo chiarisce la Cassazione civile con l’ordinanza n. 22310/2020. La vicenda. Un cliente aveva chiesto la condanna dell’avvocato al risarcimento dei danni sofferti dall’attore a seguito della mancata attivazione da parte del professionista del procedimento per il conseguimento dell’indennità per l’ingiusta detenzione. Le motivazioni della Suprema corte. In relazione alla questione, la Suprema corte ricorda che il ricorrente non ha dimostrato di aver dato la procura all’avvocato. Di conseguenza, secondo i giudici, c’è “la mancata acquisizione della prova della conclusione del contratto d’opera professionale in relazione al quale l’odierno ricorrente ancora invoca il riconoscimento del relativo inadempimento”. Se il padre violenta la figlia la madre succube non ha diritto ad attenuanti di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2020 Decisiva la considerazione che la donna non ha fatto nulla per proteggere la bambina. A fronte della sudditanza della moglie verso il marito violento, va comunque data preminenza alla mancata difesa attiva della figlia, per condannare - senza attenuanti - la madre che non la protegge dalle violenze sessuali del padre-padrone. Secondo la sentenza n. 28675 depositata il 15 ottobre dalla Cassazione, preminente è infatti proprio il bene dell’integrità psico-fisica di una bambina di sei anni messa a repentaglio dalle regolari violenze subite nella sua casa per mano di suo padre. E senza essere protetta dalla propria mamma. Ciò rappresenta quel dato negativo che giustifica il diniego del giudice di riconoscere alla madre sottomessa le attenuanti generiche per il reato cui ha di fatto concorso con la sua omissione. Attenuanti generiche e sottomissione come giustificazione - La donna ricorrente, oltre al marito, era stata condannata pesantemente per maltrattamenti in famiglia e concorso nelle violenze sessuali aggravate contro la figlia. Ma in Cassazione chiedeva le fossero riconosciute le attenuanti generiche per la valutazione positiva, che derivava dalla sua evidente sottomissione al marito in un quadro familiare di disagio e violenza. La Cassazione ha invece confermato il ragionamento del giudice di merito che non ha compiutamente argomentato sulla condizione della donna, ma ha dato rilievo alla mancanza di una positiva condotta della dona al fine di proteggere la figlia. La decisione di legittimità precisa, infatti, che le attenuanti invocate vengono concesse non sulla base di rilevati comportamenti positivi dell’imputato, ma sull’assenza di comportamenti negativi. E tale negatività è stata rilevata nell’omessa protezione della propria bambina. Lazio. Oss nelle carceri finché dura lo stato di emergenza Covid garantedetenutilazio.it, 16 ottobre 2020 “Gli operatori socio-sanitari messi a disposizione dei servizi sanitari penitenziari da parte della Protezione civile, per far fronte all’emergenza Covid, hanno risposto a un’urgenza di personale e di mansioni, dal pre-triage dei nuovi ingressi al supporto del lavoro di infermeria, e hanno fatto emergere un bisogno, di ampliamento e di differenziazione delle figure professionali impegnate nei servizi sanitari penitenziari”. È quanto ha dichiarato il Garante del Lazio, Anastasìa, dopo aver appreso che in ragione del prolungarsi dell’emergenza Covid fino al 31 gennaio 2021, il Dipartimento della protezione civile ha stabilito di consentire alle regioni di avvalersi ancora degli operatori socio-sanitari di supporto ai servizi sanitari in carcere e nelle Rsa. Il capo del Dipartimento, Angelo Borrelli, in una missiva del 14 ottobre scorso, ha comunicato ai soggetti attuatori regionali che potranno continuare a utilizzare gli operatori socio-sanitari attualmente in servizio, “qualora ne ritengano ancora attuale la necessità e comunque non oltre la predetta scadenza”. “Siamo quindi molto contenti - ha proseguito Anastasìa - della decisione della Protezione civile di prorogarne il loro impiego fino al termine dell’emergenza e speriamo che questa esperienza spinga le Regioni e le Asl a investire di più nei servizi sanitari penitenziari, non solo incentivando e stabilizzando il personale già assegnato (medici e infermieri), ma arricchendolo di altre professionalità, come gli OSS e il personale amministrativo necessario alla gestione di uffici complessi nel raccordo tra prestazioni interne ed esterne al carcere, di base, diagnostiche e specialistiche”. Marche. Progetto “Oltre le Mura”, l’arte del cinema tra i detenuti cinquecolonne.it, 16 ottobre 2020 “Corto Dorico” continua a varcare le mura dei luoghi di reclusione, portando l’arte del cinema tra i detenuti. Quest’anno il progetto Oltre le Mura vedrà coinvolti tutti gli istituti penitenziari delle Marche, in un viaggio che ancora una volta scandirà un momento di riflessione sulla libertà espressiva del cinema con la proiezione, in anteprima, dei corti finalisti. Il progetto, che vede il patrocinio del Garante dei Diritti della Persona - Regione Marche, culminerà nella consegna del Premio Ristretti Oltre le mura assegnato dai detenuti che avranno il compito di premiare il miglior cortometraggio. Le proiezioni inizieranno presso la Casa Circondariale Villa Fastiggi di Pesaro e alle 14.00 presso la Casa di Reclusione di Fossombrone alla presenza del co-direttore artistico del festival, il regista Daniele Ciprì, e del Garante dei Diritti della Persona, Andrea Nobili. Nuovo appuntamento presso la Casa di Reclusione Barcaglione e alle 14.00 presso la Casa Circondariale Montacuto entrambe ad Ancona. Venerdì 6 dicembre alle 10.30 ultima tappa presso la Casa di Reclusione di Fermo e alle 14.00 presso la Casa Circondariale di Ascoli Piceno. Venerdì 6 dicembre alle 17.00 “Oltre le Mura” terminerà i suoi appuntamenti con la proiezione del film di Fabio Cavalli “Viaggio in Italia: la Corte Costituzionale nelle Carceri” presso l’Auditorium della Mole Vanvitelliana di Ancona. Ne discuteranno il regista Fabio Cavalli, fondatore del Teatro Libero di Rebibbia, il Garante regionale dei diritti alla persona - Regione Marche Andrea Nobili, alla presenza dei direttori artistici di Corto Dorico Daniele Ciprì e Luca Caprara. Nel film di Cavalli, sette giudici della Corte Costituzionale incontrano i detenuti di sette Istituti penitenziari italiani: Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano, il carcere minorile di Nisida a Napoli, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, le Case Circondariali di Terni e di Lecce sezione femminile. Ad accompagnarli, l’agente di Polizia penitenziaria Sandro Pepe. Per la prima volta dalla sua nascita, nel 1956, la Corte costituzionale decide di entrare in Carcere. Il film è il racconto dell’incontro tra due umanità, entrambe “chiuse” dietro un muro e apparentemente agli antipodi: da un lato la legalità costituzionale, dall’altro lato l’illegalità, ma anche la marginalità sociale. Attraverso la fisicità, l’ascolto, il dialogo, il viaggio diventa occasione di uno scambio reciproco di conoscenze, esperienze e talvolta di emozioni. Ma è anche la metafora di un linguaggio che non conosce muri, e che anzi li attraversa, perché è il linguaggio della Costituzione, soprattutto di chi è più vulnerabile. “Corto Dorico”, diretto da Daniele Ciprì e Luca Caprara, alla sua XVI edizione si svolgerà ad Ancona dal 30 novembre all’8 dicembre. Il Festival è co-organizzato dall’associazione Nie Wiem e dal Comune di Ancona. Le torture di Santa Maria Capua Vetere: la faccia feroce del carcere di Luigi Manconi La Repubblica, 16 ottobre 2020 Nella prigione campana avrebbero agito circa 300 agenti in una spedizione punitiva puntualmente programmata e realizzata. Tutto il contrario di una reazione occasionale. Emerge, piuttosto, un disegno che non può non aver coinvolto i livelli superiori dell’amministrazione. La scena ha una sua cupa classicità e richiama gesti ritmi sequenze di una procedura di sopraffazione che si ripete uguale nel tempo: uomini dal volto coperto si dispongono su due file, così da formare un corridoio lungo il quale sono obbligati a passare altri uomini inermi, sottoposti a ogni genere di percosse a mani nude, con i manganelli e con armi improprie. Molti vengono denudati, fatti inginocchiare, forzati a posizioni umilianti. Ma il catalogo delle torture è vasto: prigionieri costretti a percorrere sulle ginocchia lunghi tratti, sevizie e sadismo. Tutto ciò nel carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020. Vari esposti presentati da familiari, dal Garante regionale dei detenuti e dall’Associazione Antigone, denunciano i fatti; e così, 1’11 giugno, vengono effettuate perquisizioni a carico di 57 poliziotti penitenziari. Nel frattempo, i media locali e, in particolare, Luigi Romano sul sito di Napoli Monitor, ricostruiscono la vicenda, le sue premesse (il panico tra i detenuti per il virus) e le sue conseguenze (la protesta e la repressione). Poi, nei giorni scorsi, un’inchiesta di Nello Trocchia sul quotidiano Domani. Ribadito che la presunzione di innocenza vale, eccome, per gli appartenenti alle forze di polizia, quanto finora appreso è davvero inquietante. Tanto più se si considera che in appena 18 mesi sono emersi episodi di violenze a danno di reclusi, oltre che a S. M. Capua Vetere, negli istituti di San Gimignano, Monza, Torino, Palermo, Milano Opera, Melfi, Pavia e Viterbo; e almeno nei primi quattro l’ipotesi di reato è la tortura. Insomma, che cosa sta succedendo nelle carceri italiane? Una sequenza di vicende efferate, che sembrano tracciare una mappa e diagnosticare un’ordinaria patologia della violenza istituzionale. Basti ricordare gli abusi nel carcere di Monza e quanto hanno rivelato le indagini della Procura di Torino nei confronti di 21 agenti della penitenziaria, del Comandante e del Direttore dell’istituto di quella città. Ma ciò che è accaduto a S. M. Capua Vetere è altra cosa. Se le circostanze venissero confermate, lì è avvenuto qualcosa di simile a un atto di rappresaglia preordinato e condotto come un’operazione militare. Nel carcere campano avrebbero operato circa 300 agenti in una spedizione punitiva puntualmente programmata e realizzata. Tutto il contrario, cioè, di una reazione occasionale da parte di poliziotti esasperati e frustrati. Emerge, piuttosto, un disegno che non può non aver coinvolto i livelli superiori dell’amministrazione, a partire dal Provveditorato regionale, responsabile di tutti gli istituti della Campania. E sembra che, lo stesso Provveditore, abbia lasciato intendere come, dell’operazione, fossero stati avvertiti i vertici centrali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Viene in mente quanto accadde vent’anni fa nel vecchio carcere di Sassari: stessa tecnica, analoga modalità di azione, altrettante vittime. Il relativo processo vide un esiguo numero di condanne e, tra esse, quella a carico del Provveditore regionale della Sardegna. E anche allora ci si chiese se non vi fossero responsabilità ancora più alte all’interno degli uffici centrali dell’amministrazione. Da qualche mese il Dap è retto da un nuovo gruppo dirigente, che si presenta come ispirato dai valori del rigore e della serietà. C’è da augurarsi che tali benemerite virtù non assumano solo la fisionomia della faccia feroce del controllo e della repressione, ma anche quella mite e sollecita di chi tutela i diritti dei cittadini, che tali restano pur se privati della libertà. Infine, il Capo della Polizia Franco Gabrielli e il Comandante generale dei Carabinieri Giovanni Nistri hanno trovato - di fronte a vicende altrettanto scandalose - opportune parole di critica e di autocritica. Nel caso che i fatti di S. M. Capua Vetere venissero confermati, ascolteremo parole altrettanto nette magari prima della sentenza della Cassazione - da parte dei magistrati che guidano il Dap? E il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, intende dire qualcosa, almeno sul piano politico, o pensa, anch’egli, di attendere la sentenza definitiva e, nel frattempo, continuare a tacere? Siracusa. Alfredo Liotta poteva essere salvato: condannati cinque medici per omicidio colposo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2020 Si è chiuso con cinque condanne per omicidio colposo il processo per la morte in carcere di Alfredo Liotta. Antigone, con il nostro avvocato Simona Filippi, si era costituita parte civile nel procedimento. Il processo è durato otto lunghi anni. Era infatti il 9 marzo del 2013 quando la sorella dell’uomo deceduto il 26 luglio dell’anno precedente nel letto della sua cella nel carcere Cavadonna di Siracusa scriveva ad Antigone: “Chiedo un vostro intervento nella difesa del caso di Alfredo Liotta il quale è stato lasciato morire senza alcun soccorso. L’ultima volta che io l’ho visto è stato ad aprile 2012, era già molto deperito, pesava non più di 55 kg e poi da aprile a luglio c’è stato il decadimento psicofisico che lo ha portato alla morte”. Il quarantenne Alfredo Liotta soffriva di una forte depressione e di una grave forma di anoressia. Il 5 luglio 2012, pochi giorni prima della morte, l’avvocato aveva chiesto che il suo assistito potesse essere curato al di fuori del carcere. Era arrivato a pesare 40 chili. Ma il perito della Corte d’Appello di Catania davanti alla quale Liotta era a processo, incaricato di visitarlo, pur trovandosi di fronte un uomo orami vicino al decesso, lo indica come un simulatore e parla del suo comportamento come di quello artefatto di chi sta recitando. La perizia da lui depositata il 13 luglio 2012, ovvero 13 giorni prima della morte di Liotta, impedisce a questi di accedere a cure esterne. Nessuno dei medici e degli psichiatri del carcere che Liotta ha attorno si fa carico di quel che tuttavia è evidente: l’uomo sta malissimo. Il 6 giugno 2013, dopo tre mesi di lavoro, Antigone deposita un esposto alla Procura di Siracusa chiedendo che vengano individuati i responsabili della morte di Alfredo Liotta. Alla fine di novembre la Procura informa che dieci persone sono state iscritte nel registro degli indagati. Si tratta del direttore dell’istituto e di nove fra medici e psichiatri che avevano visitato l’uomo, tra i quali il direttore sanitario dell’istituto e il perito di cui sopra (risultato poi assolto: capiremo dalle motivazioni della sentenza in che modo il nesso causale tra il suo comportamento e la morte di Liotta è risultato non comprovato). Nel giugno del 2014 viene depositata una consulenza tecnica collegiale che censura duramente il comportamento dei medici nei giorni immediatamente antecedenti la morte di Liotta. Vi si legge che l’uomo è deceduto nel suo letto per collasso cardiocircolatorio “dovuto a rettorragia da verosimile lesione emorroidaria che con alto grado di probabilità non avrebbe determinato l’exitus se non si fosse innestata nel contesto dello stato anoressico/cachettico legato ad una condizione psicopatologica depressiva grave”. Nel dicembre del 2016 il pubblico ministero ha chiesto l’emissione del decreto che dispone il giudizio per omicidio colposo nei confronti dei nove medici indagati. Viene stralciata la posizione del direttore del carcere. Alla conclusione dell’udienza preliminare nel maggio 2018, i medici vengono rinviati a giudizio. La prima udienza del dibattimento è fissata per il maggio successivo, a un anno di distanza. Comincia così l’ultima parte di quel lungo percorso che ha portato alla conclusione delle scorse ore: cinque medici condannati per omicidio colposo per aver lasciato che accadesse quel che invece poteva essere evitato. Il dibattimento ha fatto emergere che i medici, poi condannati, non hanno fatto nulla per curare Liotta. Non gli hanno misurato la pressione, non lo hanno mai pesato e soprattutto non hanno mai neanche parlato con lui per convincerlo a nutrirsi o a farsi fare una flebo. Fino al giorno prima del decesso si sono limitati a prendere atto che l’uomo non si alimentava. Non si trattava di mettere in atto interventi complessi o valutare difficili patologie. Sarebbe probabilmente bastato poco - prima di tutto il dialogo - per salvare quella vita. Alfredo Liotta poteva essere curato. Se fosse stato condotto per tempo in ospedale oggi sarebbe vivo. Ci sono voluti otto lunghi anni per un primo tassello di giustizia. In questo caso la responsabilità è di chi avrebbe dovuto curarlo, prenderlo in carico, e non lo ha fatto. Il ruolo del medico in carcere è essenziale. Nelle sue mani è la vita delle persone, ancor più che fuori dove vi è libertà di movimento e di scelta. Sono tante le segnalazioni che arrivano ad Antigone sulla questione della salute. La salute in carcere è tutto e i medici non devono mai girare la testa dall’altra parte. Il diritto alla salute è un diritto universale che non può dipendere dalla condizione di persona libera o detenuta. Le vite in carcere non possono valere meno che fuori. Il sistema deve sapere e volere farsi carico di intercettare le patologie di ogni persona detenuta che lo necessiti. Il segnale arrivato da Siracusa lo ha detto con nettezza. *Coordinatrice associazione Antigone Napoli. La psicologa: “In cella poco spazio e troppo tempo sprecato, così si impazzisce” di Viviana Lanza Il Riformista, 16 ottobre 2020 “Da diversi anni si parla di spazi di vivibilità e affettività, il che è indicativo del fatto che è tanto tempo che si individuano delle criticità ma non si riesce a trovare un rimedio e a pensare diversamente il sistema penitenziario”. Francesca Nasti lavora come psicologa nel carcere di Secondigliano. Le misure per arginare i contagi in questo periodo di pandemia hanno sacrificato ulteriormente la sfera degli affetti per chi è dietro le sbarre, vietando qualunque contatto durante i colloqui e aumentando le distanze. “Se ci atteniamo alla regolarità del tempo pre-Covid e a quello che sarà il futuro, i colloqui sono un momento di grande caos e di assoluta deprivazione di intimità”. A comprimere i diritti si aggiungono anche gli spazi. “Qui - spiega la dottoressa Nasti - si apre un’altra questione piuttosto drammatica perché non ci sono spazi a sufficienza, in carcere c’è una dimensione di ozio forzato che obbliga il detenuto a restare in cella per tanto tempo. Una cella non è abitabile, non prevede distinzione degli ambienti per cui si mangia nello stesso spazio dove si dorme e talvolta anche dove si fanno i bisogni. Per chi ha invalidità la condizione è ancora più drammatica. Tutto questo - aggiunge - crea un vissuto profondo di mortificazione e frustrazione che non fa altro che alimentare il circuito della rabbia, dell’ingiustizia percepita, e ciò nonostante ci sia molto spesso il riconoscimento di aver commesso un errore di cui bisogna rispondere”. Carcere come luogo di sofferenza più che di recupero. “Per il modo in cui è organizzato e strutturato il carcere è un luogo di sofferenza che genera sofferenza per cui anche persone sane, quelle che non hanno sperimentato nella loro vita da liberi alcun disagio mentale, in carcere affrontano condizioni di ansia, depressione”. È una grande falla del sistema. “Si è molto lontani da un sistema che assicuri un percorso rieducativo che dovrebbe essere anche di reintegro, di istruzione di possibilità alternative, di progetti fattivi sul territorio. Servirebbe un lavoro in rete, di collegamento, invece il carcere ha le sbarre e non solo simbolicamente. È praticamente disconnesso dal resto della società”. La distanza tra il mondo fuori e quello dentro andrebbe colmata. Ci sono proposte: maggiore sinergia tra i due mondi, dentro e fuori, meno la burocrazia, più relazioni, più investimenti per educatori, formatori e psicologi per guidare i detenuti, tutti, verso percorsi positivi di cambiamento. Oggi ai corsi di istruzione e formazione accedono in pochi, questione di mezzi e risorse a disposizione: pochi come sempre. Ma a partire da una premessa, che è poi il pilastro su cui si dovrebbe reggere tutto: “Intanto bisognerebbe garantire i diritti minimi - sottolinea la psicologa Nasti - che stanno nel rispetto di uno spazio, di un luogo che consenta di espiare la pena non improntandola sulla deprivazione grave”. Poi il secondo step: “Istruzione e formazione sono l’unica arma di emancipazione che abbiamo”. Dovrebbero diventare l’opportunità offerta in carcere per invertire la tendenza di una società che tende più facilmente a recludere che a includere, a considerare il lavoro più una concessione che un diritto. “Gli educatori, gli psicologi, gli agenti di polizia penitenziaria, tutta l’equipe che conosce le persone in carcere fa fatica a ragionare su progetti individualizzati perché le risorse sono scarsissime anche per lavorare in carcere. È una battaglia - dice Nasti - è difficile, si resta in attesa per tanto tempo e si lavora per poco tempo. Il lavoro sembra una concessione, specchio anche della società esterna che di fronte a delinquenza, emarginazione, disagio pensa che la soluzione sia nel marginalizzare piuttosto che integrare”. Napoli. Punito per aver salutato la mamma, detenuto da mesi senza videochiamate di Viviana Lanza Il Riformista, 16 ottobre 2020 Sei mesi in attesa di una risposta da parte del Dap. Sei mesi in attesa di una risposta che non arriva ma è destinata a incidere sulla sua vita in carcere, sulla sfera più umana e personale, su quel diritto all’affettività di cui tanto si parla nella teoria ma che poco viene applicato nella pratica. La storia di questa attesa arriva dal carcere di Secondigliano. È la storia di un ergastolano siciliano a cui da aprile sono vietate le videochiamate a causa di una leggerezza commessa durante un collegamento, non da lui ma da suo fratello. E per un detenuto con la famiglia in Sicilia, recluso in una regione che come la Campania è tra quelle più penalizzate dall’emergenza sanitaria, senza la speranza di una scarcerazione perché condannato all’ergastolo, le telefonate con i familiari sono l’unico ponte con il mondo, con la vita fuori. “Vi chiedo di ripristinare il mio diritto alle videochiamate”, scrive in una lettera inviata al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e a cui si è aggiunta anche l’istanza del suo avvocato difensore e quella dell’associazione Yairaiha, la Onlus in difesa dei diritti dei detenuti che si sta interessando a questo caso. Tutto ha avuto inizio ad aprile, quando l’emergenza Covid era nel pieno e i timori di tutti, compresi i detenuti, erano massimi. Nel carcere di Secondigliano, il 47enne siciliano era al telefono con il fratello in una di quelle videochiamate autorizzate durante la pandemia come misura alternativa ai colloqui che erano stati sospesi per ragioni di sicurezza e per ridurre i rischi di contagio. “Non ho alcuna cognizione di come funzionano questi apparecchi elettronici visto che sono recluso da 26 anni”, scrive. E nelle sue parole emerge tutta la distanza che c’è tra lo spazio e il tempo in carcere e lo spazio e il tempo fuori, tutta la differenza tra i due mondi. Il detenuto si è trovato a maneggiare un cellulare per la prima volta durante il lockdown. “Ai miei tempi si usavano i telefoni a gettoni”, aggiunge. “Il giorno in questione l’agente di servizio mi attivò la videochiamata con mio fratello al quale esternai la mia preoccupazione per il fatto che questo maledetto virus mi teneva costantemente terrorizzato sia per l’età avanzata di mia madre sia per il fatto che io stesso sono cardiopatico e potrei morire in carcere. A quel punto - racconta il detenuto nella sua lettera al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - mio fratello mi disse: stai sereno, ora ti faccio vedere mamma e nostra sorella. E un attimo dopo mi sono apparse sullo schermo del videotelefono”. Il regolamento, però, non lo prevedeva. “Ma io, non sapendo come funzionano questi videotelefoni, non avevo capito che mia sorella era con il suo videotelefono e mia madre con un altro telefono, ognuna a casa propria per via del lockdown”. A ogni modo tanto è bastato per far scattare il divieto e negare il diritto alle videochiamate. “Ma mio fratello ha agito in buona fede non conoscendo il regolamento penitenziario e non pensando di arrecarmi un danno - chiarisce il detenuto - Quando l’ispettrice posizionata davanti alla sala videochiamate mi chiese con chi stessi parlando io spontaneamente e con tutta tranquillità le mostrai il videotelefono, certo di non aver fatto nulla di male”. La realtà, però, era diversa. “L’ispettrice mi rimproverò perché mio fratello aveva attivato la connessione con persone non autorizzate e mi sospese la videochiamata”. Frosinone. A processo con l’accusa di aver strangolato 2 reclusi Il Dubbio, 16 ottobre 2020 Entra nel vivo il processo contro Daniele Cestra, accusato di aver strangolato due detenuti nel carcere di Frosinone. Una vicenda inquietante, un vero e proprio giallo dietro le sbarre. Cestra, 42enne, sta attualmente scontando in carcere 18 anni di reclusione per l’omicidio dell’82enne Anna Vastola, avvenuto a San Felice Circeo durante una rapina. La vicenda risale a quattro anni fa quando la Procura, a seguito del secondo decesso avvenuto con le stesse modalità del precedente, cominciò ad indagare. Inizialmente il decesso del compagno di cella era stato archiviato come suicidio, ma qualcosa non quadrava per cui sono state richieste indagini più approfondite. Il pm aveva disposto la riesumazione della prima salma. In quel periodo l’imputato - ricordiamo - era ristretto a Frosinone per espiare la condanna definitiva a 18 anni per l’omicidio commesso durante una rapina. Successivamente era stata disposta un’integrazione delle operazioni peritali per valutare se vi sia stata l’asfissia meccanica ipotizzata dalla procura o se si sia trattato di un suicidio. Per l’accusa per il delitto di Mari sarebbero stati utilizzati dei ‘ mezzi soffici’ per ostruire le vie respiratorie della vittima. Oltre a ciò, si ipotizza l’utilizzo di corpi contundenti. Il medico legale ha riscontrato la frattura dell’osso ioide e la rottura del timpano. L’altro detenuto invece, sarebbe stato immobilizzato (riscontrata la sub- lussazione di due vertebre) e successivamente impiccato. La vittima, con problemi di deambulazione, venne ritrovata impiccata in cella nell’agosto del 2016 proprio da Daniele Cestra che aveva ricevuto il compito di assisterlo nelle attività quotidiane. Una morte subito apparsa sospetta perché sul corpo dell’uomo, così come è stato notato dai primi soccorritori, vennero trovati diversi lividi. Durante la fase dell’udienza preliminare la difesa aveva chiesto il rito abbreviato condizionato a una perizia psichiatrica e a una medico legale sulle vittime. Richiesta, alla quale si era opposto il pubblico ministero, che il Gup aveva respinto. A quel punto si è arrivati al rinvio a giudizio e all’apertura del processo davanti alla Corte d’assise, la quale ha sciolto la riserva ammettendo la partecipazione del ministero della Giustizia come responsabile civile. L’avvocatura dello Stato, infatti, ne aveva chiesto l’estromissione dalla causa. La difesa di Daniele Cestra, rappresentata dagli avvocati Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone, ha avanzato alla Corte due richieste: un’ispezione all’interno della casa circondariale per verificare lo stato dei luoghi e un esperimento giudiziale in modo da simulare l’evento e sciogliere ogni dubbio circa la possibilità che l’evento possa esser riconducibile alla mano di un uomo e, in questo caso, come sostiene l’accusa a quella dell’imputato. Sulle istanze, il presidente della Corte si è riservato all’esito di quanto emergerà dall’istruttoria. Istruttoria che si aprirà a novembre con l’escussione dei primi cinque testi del pubblico ministero. Modena. Morti in carcere: sentite le croniste sulle rivelazioni dei due detenuti Gazzetta di Modena, 16 ottobre 2020 Rivolta e morti in carcere: procedono le indagini dei pm Francesca Graziano e Lucia De Santis sui filoni di reati commessi durante l’insurrezione a Sant’Anna dell’8 marzo e per i decessi di nove carcerati. Proprio a proposito di uno di questi decessi, quello di Sasà Piscitelli (il detenuto tossicodipendente e attore teatrale morto il 10 marzo in circostanze da chiarire ad Ascoli dopo il trasferimento), la Procura ha dato mandato di ascoltare due giornaliste, Manuela D’Alessandro dell’agenzia stampa Agi e Lorenza Plauteri del blog giustiziami.it, che hanno ricevuto le lettere di due detenuti che sostengono di avere notizie di prima mano sulla sua morte. Ad ascoltarle come persone informate sui fatti è stato il capo della Squadra Mobile della Questura, dottor Mario Paternoster. Sono state poste domande sulle circostanze che hanno portato alla consegna delle due lettere. È stato spiegato che sono state spedite da detenuti trasferiti anche loro da Modena subito dopo la rivolta. Due detenuti che hanno riferito di presunte violenze e pestaggi immotivati da parte della polizia penitenziaria contro elementi non facinorosi. E soprattutto sul trattamento riservato a Sasà Piscitelli. Il detenuto-attore (secondo chi lo conosceva un vero talento del palcoscenico) era già in condizioni fisiche pessime al momento della presa in carico. Era probabilmente vicino alla overdose di metadone come tanti altri, dopo l’assalto all’infermeria. Secondo i racconti dei due detenuti - due versioni indipendenti ma concordanti su quasi tutto, considerando che non possono averla discussa tra di loro al momento della scrittura - Piscitelli è stato portato fuori dal carcere di Modena senza la visita medica obbligatoria (un aspetto controverso che riguarderebbe anche numerosi altri detenuti). Durante il trasferimento è stato picchiato. All’arrivo al carcere di Ascoli, è stato gettato in cella “come un sacco di patate”, scrive un detenuto. Le sue condizioni erano critiche. Ed è morto poco dopo in ospedale. Racconti da verificare a fondo, come sta facendo la Procura. Scrive uno dei due detenuti alla giornalista: “Allora per la storia di Salvatore, lui era con me. Nel carcere di Modena abbiamo fatto il viaggio sullo stesso autobus. Lui stava malissimo, lo hanno anche picchiato sull’autobus. Quando siamo arrivati qua lui non riusciva a camminare, pero lui non è morto durante il trasporto”. Entrambe le giornaliste non hanno voluto fornire l’identità dei due autori delle lettere. Il motivo è che non volevano esporli a ritorsioni. In attesa di conoscere l’autopsia da Ascoli sul corpo di Piscitelli, l’indagine prosegue con l’ipotesi di omicidio colposo. Firenze. Sollicciano, il ministro promette: il nuovo direttore resterà 3 anni di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 16 ottobre 2020 Il caso dei cambi continui al vertice del carcere. Bonafede: presto l’iter per la nomina. Su Sollicciano Firenze chiama Roma. Dopo l’addio dell’ultimo direttore Fabio Prestopino - quinto avvicendamento alla guida del carcere in cinque anni - si chiede maggior stabilità per un penitenziario che presenta problemi strutturali irrisolti ormai da molti anni. “Mi auguro che il Ministero della giustizia - afferma l’assessore alle politiche sociali Andrea Vannucci - inserisca ai primi posti della sua agenda il tema di Sollicciano mettendo in condizione il nostro carcere di avere un futuro non soltanto nel breve periodo ma anche nel lungo periodo, al fine di programmare il futuro dei detenuti e degli agenti penitenziari con più certezze e maggiore stabilità. Ci auguriamo - aggiunge - che la prossima direzione sarà stabile e duratura nel tempo”. La risposta arriva dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede che, fanno sapere da Roma, segue da vicino, anche per i suoi trascorsi fiorentini, la vicenda di Sollicciano. “È imminente - ha detto il ministro al Corriere Fiorentino - l’avvio della procedura per individuare il nuovo direttore titolare, con un incarico che avrà durata triennale”. Stop insomma alle nomine provvisorie, o almeno questo sarebbe l’intento. L’attuale direttore Prestopino, dopo tre anni, lascerà ufficialmente Sollicciano tra fine ottobre e inizio novembre per andare a dirigere il carcere di Palermo. Per tre mesi come direttrice provvisoria dovrebbe arrivare Antonella Tuoni, attuale direttrice dell’adiacente carcere di Solliccianino ed ex direttrice dell’Opg di Montelupo. Nel frattempo, oggi arriverà a Sollicciano anche il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani, secondo cui “è necessaria una maggiore stabilità ai vertici del carcere” perché “il rapporto territoriale è fondamentale e questo si consolida soltanto con il tempo”. E poi anche lui si appella al ministero della giustizia affinché “nei confronti del carcere di Sollicciano ci sia una cura particolare”. Fanfani, nel corso della sua visita odierna nel penitenziario fiorentino, incontrerà il direttore uscente Prestopino e si informerà sulle misure di contrasto al Coronavirus all’interno del carcere. Prestopino è rimasto alla guida del penitenziario fiorentino per tre anni. Tre anni difficili ma contrassegnati, spiega il direttore, da molte soddisfazioni, tra cui l’istituzione del consiglio dei detenuti, un organo consultivo formato da 34 reclusi, e dalla realizzazione della seconda cucina, una battaglia portata avanti per anni da tante persone, tra cui l’ex garante dei detenuti Franco Corleone e il cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo. Milano. “Le ginestre”: relazioni prigioniere, dibattito?spettacolo sul teatro in carcere mentelocale.it, 16 ottobre 2020 Domenica 18 ottobre 2020 alle ore 18.00 La Tela di Rescaldina (Milano), l’osteria sociale che ha fatto degli spazi confiscati alla ‘ndrangheta un ristorante e un centro di aggregazione e di promozione sociale, culturale e civile, ospita l’evento Le ginestre: relazioni prigioniere, un dibattito-spettacolo sul teatro in carcere, nato da una serie di laboratori teatrali che si sono tenuti all’interno del carcere di Busto Arsizio per detenuti e cittadini liberi. “Le ginestre” si ispira ai temi trattati dal libro Essere esseri umani della psicoterapeuta Marta Zighetti. Pone l’attenzione sul tema delle relazioni e dell’empatia fra esseri umani, che deve essere alla base di un nuovo e necessario stile di vita individuale e sociale che favorisca la cooperazione piuttosto che la competizione. Lo spettacolo, nella sua versione di monologo, è seguito dalla discussione/chiacchierata con un operatore di teatro in carcere e un attore ex-detenuto della compagnia Oblò Liberi Dentro: ci si interroga sulla pena detentiva e sulle possibilità dell’esperienza artistica che supera i confini del carcere per riconnetterlo al territorio. Protagonisti dello spettacolo sono Andrea Corradi, Elisa Carnelli e un attore ex detenuto della compagnia l’Oblò. L’ingresso è gratuito, con prenotazione obbligatoria. Per info 033197604. In nome del popolo del rancore, alle radici della sfida giustizialista di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 ottobre 2020 “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” di Luigi Manconi e Federica Graziani, per Einaudi Stile Libero. Dalla “tv giudicante” di Funari e Santoro, alla retorica della “tolleranza zero”, via Travaglio. Alla domanda “siete garantisti o giustizialisti?” nulla di più facile, in tempi come questi, che la risposta prenda una scorciatoia: “io sto con il popolo”. Una trappola non solo dell’area grillina, leghista o perfino di certa sinistra: la questione è che se da un lato, ormai da quasi tre decenni, in Italia la lotta di classe è evaporata lasciando il posto all’invidia di classe, per altri versi, con uno slittamento che in parte è semantico e in parte è logico, le garanzie e lo Stato di diritto rischiano spesso l’etichetta di “lussi da élite”, contrapposte ai bisogni “della gente comune, degli onesti, degli innocenti, del popolo, appunto”. Mentre il populismo penale - che viene da lontano, e più che a Pontida nasce negli studi tv di certi giornalisti d’inchiesta - ormai sembra essere diventata “l’ideologia che domina nel presente”, quasi lo “spirito del tempo”. La risposta perciò è tutt’altro che scontata, ed è per questo che Luigi Manconi e Federica Graziani la pongono ai lettori mettendoli alla prova con casi concreti, in un libro scritto “con una chiave paraletteraria, più vicina alla novellistica che alla saggistica”. Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale (Einaudi Stile libero, pp.260, euro 17,50), è sicuramente uno di quei testi da non perdere se si cerca una bussola tra slogan demagogici, facili etichette - anche quella abusata di “populismo” - e falsi miti. Rifuggendo comunque “lo scontro stantio e astratto sul politicamente corretto”. Anche perché, come avvertono gli stessi autori citando i casi di Berlusconi e Salvini, “il garantismo è una disciplina estremamente faticosa che può risultare incompatibile con le esigenze della lotta politica”. Chiunque si dichiari contro il giustizialismo morale non può non cominciare con lo studiare il fenomeno Marco Travaglio, one man band del tintinnar di manette, “visionario del reale”, surfista spregiudicato dell’attuale fase emotiva collettiva, quella del “rancore” con tutte le sindromi connesse, artista assoluto della “mitologia della cronaca” che porta il “lettore consenziente” a trasformarsi in “élite giudicante”. Manconi e Graziani però vanno ancora più a fondo, tornando agli esordi mediatici italiani del populismo penale, agli anni ‘80, con le sperimentazioni di Gianfranco Funari e Michele Santoro che introducono “il giudizio popolare, l’emozione collettiva” come ago della bilancia su “due tematiche essenziali: la sicurezza-criminalità, la politica-corruzione”. Solo più tardi, nei primi anni ‘90, la politica dell’antimafia si aprì un varco di consapevolezza nella coscienza civile collettiva, visse un’impennata di consensi, dando però anche risalto a “umori regressivi” e smanie di protagonismo che posero le basi alla cultura giustizialista. Travaglio si inserisce in tale contesto, quando si andava stringendo il rapporto “di dipendenza, fino alla promiscuità” tra la magistratura inquirente “e gran parte del giornalismo italiano, specie quello addetto alla cronaca nera”. Da qui alle teorie cospirazioniste che affondano le radici in “quel sentimento di accesso esclusivo a informazioni che proverebbero una macchinazione orchestrata minuziosamente dai “poteri forti”, il passo è breve. Immigrati, legittima difesa, vaccini e quant’altro: tutto rientra in un magma indistinto dove a fare da reagente è l’incompatibilità tra statistiche reali e angosce collettive. La sfiducia nei politici diventa presto (complice il web) sfiducia nei corpi intermedi, nei giornalisti, nella medicina, nella scienza. L’”uno vale uno” è lo slogan dello scetticismo nei confronti degli “esperti” assunto a principio, del disprezzo per ogni verità scientifica che viene sostituita da credenze strampalate, dietrologie, sospetti continui, di cui - per riprendere un esempio dal libro - il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia è un ottimo promoter. Un “principio di irrealtà” che fa il paio con “l’ideologia dell’immediatismo” (propria del M5s, in cui “passato presente e futuro si fondono in un’indistinta attualità”) e che “trasforma immediatamente l’errore in reato e il peccato in crimine”. È il populismo penale: quello del proibizionismo, della retorica delle “pene certe”, della “tolleranza zero”, delle carceri sovraffollate e dimenticate. L’attuale pandemia ha portato al pettine altri nodi nascosti, facendoci trovare a tu per tu con la serpe negazionista e cospirazionista. Citano anche Il Manifesto, Manconi e Graziani, prendendo alcuni interventi (Agamben) ospitati da questo giornale ad esempio di un certo “ribellismo populista” che riduce “ogni misura governativa alla poltiglia indistinta della dittatura più nera”, e in nome della democrazia e di una libertà “altrettanto totalizzante” insegue posizioni astratte senza sfumature né mediazioni, che sono invece “alla base della nostra civiltà giuridica”. Glielo concediamo perché, come concludono gli stessi autori, “mentre in tanti ripetono che dopo questa pandemia “nulla sarà più come prima”, è più facile che tutti noi “saremo più poveri, ma stronzi uguale”. Luigi Manconi, pagine contro il giustizialismo di Natalia Distefano Corriere della Sera, 16 ottobre 2020 Titolo d’effetto, “Per il tuo bene ti mozzerò la testa”, e sottotitolo illuminante che rivela le ragioni dell’ultimo libro di Luigi Manconi e Federica Graziani: “Contro il giustizialismo morale” (Enaudi). “Ossia contro quell’orientamento culturale e politico che persegue un concetto assoluto di giustizia, che non ammette alternative alle proprie convinzioni e pensa di affidarne la realizzazione alla spada dei tribunali - spiega Manconi - chiedendo pene sempre più esemplari, prescindendo dai diritti individuali e dal rispetto delle garanzie processuali. Un orientamento che si nutre di rancore collettivo, del diffuso sentimento di rivalsa sociale e di un’idea di giustizia che ha i tratti della vendetta. Alimentata sul fronte mediatico da personalità d’ogni sorta che brandiscono la morale come un’arma”. Alla presentazione romana del volume, oggi alle 19 al Maxxi (via Guido Reni 4, su prenotazione a www.maxxi.art/ events/), gli autori ne discutono con Mattia Feltri e Giuliano Ferrara, coordinati da Giuliano Giubilei. “A Milano invece - annuncia Manconi - il 28 ottobre saremo con Sandro Veronesi e Gherardo Colombo. Abbiamo coinvolto quattro relatori che rappresentano le molte facce, che grazie a dio esistono, di una cultura garantista di cui il libro vuole essere il manifesto. Una posizione per ora di minoranza, che va affermata a partire dalla tutela delle garanzie individuali, sancita dallo stato di diritto e dalla Costituzione, con un linguaggio che ribalti quello dei moderni inquisitori, fatto di parole violente, pregiudizi e disprezzo dell’altro in un meccanismo dove non esistono avversari ma nemici”. Tra questi Manconi indica Marco Travaglio, a suo giudizio “l’uomo-immagine del giustizialismo morale, il frontman di feroci battaglie giudiziarie, l’incarnazione di una visione punitiva, del desiderio di puntare il dito e farsi spettatori di una giustizia implacabile e, soprattutto, pubblica”. Il libro parte proprio dalla sua descrizione come “eroe popolare della caccia all’uomo”, per poi procedere con l’analisi del “populismo penale”, dell’identità del Movimento 5 Stelle, fino a condurre una verifica del garantismo con undici test al lettore su vicende e questioni della cronaca recente: dal suicidio assistito, al processo Berlusconi, alle mutilazioni genitali femminili. “Proprio dalle mancate o malandate risposte alle questioni che si sollevano intorno alle garanzie individuali discende lo stato infelice del garantismo in Italia - conclude Manconi - che risulta infine quanto mai evidente nelle drammatiche condizioni delle nostre carceri”. Il carcere visto dal Direttore. Un libro di Luigi Pagano ripercorre 40 anni di storia di Titti Arena lombardiaquotidiano.com, 16 ottobre 2020 Pianosa, Asinara, Bollate ed infine Milano, passando per Nuoro, Alghero, Piacenza, Brescia e Taranto. Non si tratta di un giro turistico nella nostra penisola, bensì le tappe della lunga esperienza lavorativa nelle carceri italiane di Luigi Pagano. Una esperienza professionale, ma soprattutto umana, che lui stesso, da pochi mesi in pensione, racconta nel libro “Il Direttore. 40 anni di lavoro in carcere” (edito da Zolfo, in uscita il 15 ottobre). Laurea in Giurisprudenza, sposato, due figli, 66 anni, napoletano, Pagano è stato direttore di molti istituti, tra cui San Vittore per oltre 15 anni, poi vice capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria nazionale e, infine, a guidare il Dap della Lombardia. Una carriera che per oltre 40 anni lo ha visto assistere, da un punto di vista particolare - in un certo senso “dietro le sbarre” -, alle più note e spinose vicende giudiziarie italiane. Spenti i riflettori dei grandi processi di Mafia, Brigate Rosse, Tangentopoli è stato lui ad accompagnare la quotidianità “ristretta” di nomi noti della cronaca nera: assiste alla cruenta morte nel carcere di Nuoro di Francis Turatello, boss della mala milanese; incontra il leader della Nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo all’Asinara; poi incrocia il crac del Banco Ambrosiano a Piacenza dove è detenuto Bruno Tassan Din, prima della lunga stagione di Tangentopoli che affollò il carcere milanese di San Vittore di manager, politici e “colletti bianchi”. “La società civile - ci spiega - tende a rimuovere il carcere dal proprio universo mentale. Purtroppo, però, tanto più il carcere diventa impermeabile rispetto alla vita normale, tanto più è difficile che possa assolvere al meglio la sua funzione di reinserimento sociale delle persone, come sancito dalla riforma del 1975”. E proprio grazie a lui si devono le prime iniziative “aperte” negli istituti penitenziari: dal Costanzo show registrato nel carcere di Brescia, alla visita del cardinal Martini a San Vittore, ad attività culturali e ricreative. “Il carcere dovrebbe essere davvero l’extrema ratio dell’esecuzione penale - puntualizza Pagano -: rieducazione e reinserimento potrebbero essere perseguiti implementando le misure alternative, che costano di meno e rendono di più in termini di abbattimento della recidiva”. Una convinzione che lo sprona, adesso che è in pensione, nell’attività di consulente del Garante dei detenuti di Regione Lombardia. E anche durante l’emergenza Covid l’attività dell’ufficio del Garante dei detenuti non si è mai fermata. Iniziando dalla convocazione, il 19 marzo scorso, del Tavolo tecnico sulla situazione carceraria, che ha visto riuniti oltre al Difensore regionale, Carlo Lio in qualità di ombudsman delle persone ristrette, i principali esponenti istituzionali del mondo carcerario tra i quali i direttori di istituti carcerari, rappresentanti dei Tribunali di sorveglianza, degli enti del Terzo settore e della Curia. Da allora diverse sono state le visite effettuate nei singoli penitenziari, oltre a 60 video colloqui svolti negli ultimi tre mesi. “Anche nel periodo del lockdown non abbiamo mai smesso di manifestare la vicinanza dell’istituzione, cercando mediazioni durante i momenti di tensione e cogliendo aspetti positivi che venivano promossi dai detenuti - ha dichiarato Carlo Lio -. Inoltre, in accordo con le direzioni penitenziarie, abbiamo agevolato il reperimento di donazioni che con grande generosità ed altruismo venivano offerte de associazioni del Terzo settore per dare risposte alle richieste che provenivano dagli istituti penitenziari”. nsomma, il carcere appare ancora un mondo duro e sfaccettato. Dove, per dirla con le parole di Giacinto Siciliano, attuale direttore di San Vittore, portare il senso dello Stato è una questione “Di cuore e di coraggio”: come recita il titolo del libro di memorie da lui stesso scritto (Rizzoli, maggio 2020 Il coraggio da ritrovare di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 16 ottobre 2020 Il grado di responsabilità di noi cittadini, altissimo nei primi mesi, adesso fatica a raggiungere il livello necessario per fronteggiare la caparbietà di un virus che sta mettendo in ginocchio il mondo. Le nuove misure del governo sono già vecchie. Il grado di responsabilità di noi cittadini, altissimo nei primi mesi della pandemia, adesso fatica a raggiungere, nonostante gli auspici del presidente del Consiglio, il livello necessario per fronteggiare la caparbietà di un virus che sta mettendo in ginocchio il mondo. Soffre l’Europa intera, e la nostra fragile Italia, dopo una pausa nell’assedio che molti, troppi, avevano scambiato per una ritirata. Ha ragione Angela Merkel, uno dei pochi statisti di cui dispone l’Occidente, quando dice che siamo davanti a una sfida secolare, gigantesca, che impone di interrogarci su che cosa ne sarà del nostro modo di vivere e soprattutto della nostra gioventù. Ha torto chiunque si affidi a un’insensata speranza che bastino pochi e blandi correttivi di rotta per scansare l’iceberg che è tornato a profilarsi davanti alla nostra prua. Se davvero, a Palazzo Chigi e dintorni, qualcuno si augura che vietare il calcetto amatoriale o limitare i baccanali notturni, ci salverà dall’incubo in cui stiamo riprecipitando, con la mascherina svogliatamente indossata, sarà il caso di rivedere il piano di contenimento e agire di conseguenza, il più in fretta possibile. Il nemico non è alle porte. Il nemico è già rientrato nella nostra fortezza di burro e per la seconda volta promette di farci molto male. Se all’inizio di agosto i nuovi contagi erano 159 al giorno e adesso sfiorano quota 9 mila, con una progressione così impetuosa da gettare nello sconforto anche gli esperti più prudenti, significa che non abbiamo fatto le cose che dovevamo fare, mentre abbiamo lasciato il via libera alle cose che non dovevamo fare. Avevamo il tempo, un’estate intera, per prepararci meglio al ritorno rabbioso del male. Potenziare gli ospedali anche per i malati non Covid (in molte regioni, tornata l’emergenza, non prendono neanche le prenotazioni per esami fondamentali), dotarsi di abbondanti scorte di vaccini anti influenzali, calcolare che l’indispensabile ritorno a scuola avrebbe comportato dei rischi calcolabili, e quindi riducibili. Ma questo tempo, come ricordava ieri Gian Antonio Stella, lo abbiamo sprecato a cantare e ballare, come la cicala di Esopo. Il conto cominciamo a pagarlo adesso, ed è un conto che purtroppo non ci possiamo neanche permettere. Da un lato del precipizio, c’è una crisi economica che diventerà emergenza sociale quando, da inizio 2021, verrà sospeso il blocco dei licenziamenti, con la Cgil che paventa una perdita secca di un milione di posti di lavoro e Assolombarda che dichiara impensabile l’ipotesi di mantenere gli organici di prima. Un altro lockdown totale troncherebbe i germogli di ripartenza, accelerando una deriva già in atto, dove staremo tutti un po’ peggio, ma il peggio di molti, i più deboli e i meno tutelati, metterà a dura prova la nostra stessa convivenza civile. Dall’altro lato del burrone, c’è un virus diabolico che adesso attacca anche i giovani, che lo passeranno ai più anziani, che torneranno ad affollare ospedali e terapie intensive, in un film dell’orrore già visto e che minaccia una replica devastante. Mentre stiamo crudelmente rimontando posizioni nella classifica dei Paesi europei più colpiti (al momento, Regno Unito, Austria, Francia, Spagna, Repubblica Ceca), aspettare anche soltanto una settimana per imporre una strategia di contenimento adeguata sarebbe un peccato civile imperdonabile. E porterebbe, inevitabilmente, all’ipotesi più estrema e più letale, quella della chiusura totale. Non a Natale, come è stato da qualcuno immaginato: molto prima. Il coronavirus circola più che mai, lo dicono gli scienziati coscienziosi, lo confermano i numeri. Per ogni nuovo contagiato, andrebbero identificate tra le 15 e le 20 persone con cui ha avuto una qualche vicinanza. A oggi, significherebbe poter mettere in isolamento 140 mila individui (nelle ultime ventiquattrore, sono invece finiti in quarantena appena in 1.300), in attesa di tamponi e di reagenti che ancora non ci sono in numero nemmeno lontanamente sufficiente, con inguardabili code di ore per poterne fare uno gratis. Va preso atto di un’evidenza: la nostra prima linea difensiva, cioè l’individuazione dei “positivi”, non sta reggendo, anzi è stata travolta. La Lombardia torna ad angosciare come nei tempi brutti. La Campania sta conoscendo incrementi che aveva scongiurato nella prima ondata. Riprendono a farsi più rosse sulla mappa di guerra Piemonte e Veneto, Toscana e Lazio. Non è più il caso che ogni ministro rivendichi la propria autonomia di decisione. Se il problema numero uno sono i contatti umani, su quelli è indispensabile intervenire subito e drasticamente. Ha senso, in questo quadro, mantenere l’affollamento dei mezzi pubblici all’80 per cento, come quando ci sentivamo quasi in salvo? Ha senso difendere l’orario di ingresso a scuola uguale per tutti, quando scaglionandolo si otterrebbe un decongestionamento del traffico nelle ore più esposte al contatto, e quindi al contagio? Ha senso incartarsi sul numero delle persone presenti a una festa privata (sei), quando non c’è alcuna possibilità di controllo né di sanzione? Ha senso, più in generale, limitarsi agli appelli generici alla prudenza e alla responsabilità, piuttosto che operare con azioni rapide e mirate nei territori dove il Coronavirus sta interrando in profondità le mine dei propri focolai? Proprio in queste ore, a fronte dell’enormità degli ultimi dati, alcuni presidenti di Regione e alcuni sindaci si stanno già muovendo in proprio, ma in ordine sparso. Qualcosa non ha funzionato nella cabina di regia, e nemmeno nella catena di comando. Non abbiamo riempito i nostri arsenali medici degli strumenti necessari ad affrontare questo malaugurato secondo tempo di pandemia. Non abbiamo rafforzato la sanità di base, scegliendo di investire risorse altrove, come i bonus su bici e monopattini, utilissimi per lo spirito, un po’ meno quando torna a infuriare la battaglia. Stiamo ancora discettando sui fondi del Mes, come se disponessimo di un patrimonio inesauribile da spendere per riportare sotto controllo l’impennata di febbre della pandemia. Avere difeso molto meglio di altri la nostra comunità quando il virus venuto dalla Cina scelse proprio l’Italia come primo Paese di sbarco è un titolo di merito e una credenziale importantissima. Sprecarla adesso, con scelte inadatte (e persone non all’altezza) rispetto alla rinnovata voracità del morbo, non cancellerebbe il buono dell’altro ieri ma ipotecherebbe il futuro a breve di una nazione che sta camminando, non del tutto consapevole, su un ponticello sospeso tra due abissi. Obesità, inquinamento, disuguaglianze, Covid-19: il cocktail per una “tempesta mortale” di Laura Zangarini Corriere della Sera, 16 ottobre 2020 Per la rivista “The Lancet”, il mondo sta affrontando non solo una pandemia, ma una “sindemia”, vale a dire la congiunzione di diverse emergenze sanitarie. Cattiva alimentazione, inquinamento e altre fonti di malattie croniche in aumento da 30 anni, a cui si aggiunge un nuovo virus: si sono verificate le condizioni di una “tempesta mortale” per provocare il milione di morti per coronavirus, deplora un rapporto pubblicato venerdì 16 ottobre dalla rivista “The Lancet”. “L’interazione del Covid-19 con l’aumento globale continuo, negli ultimi trenta anni, delle malattie croniche e dei loro fattori di rischio, tra cui obesità, iperglicemia (alti livelli di zucchero nel sangue, ndr) e dell’inquinamento atmosferico, ha creato le condizioni per una tempesta, alimentando il bilancio delle vittime del Covid-19”, giudica la prestigiosa rivista medica britannica in un comunicato stampa. “Le malattie non trasmissibili hanno finora svolto un ruolo fondamentale nel milione di decessi causati dal Covid-19, e continueranno a determinare lo stato generale di salute in ogni Paese anche quando la pandemia si sarà placata”, ha commentato il redattore capo di “The Lancet”, Richard Horton. La pubblicazione mette regolarmente in guardia sul flagello delle malattie non trasmissibili legate alle condizioni di vita (obesità, diabete, tabacco, alcol, ecc.). In questo nuovo rapporto, la revisione fa il collegamento con Covid-19. Per la prestigiosa rivista medica il mondo sta affrontando non solo una pandemia, ma una “sindemia”, cioè la congiunzione di diverse emergenze sanitarie. “Molti fattori di rischio e malattie non trasmissibili studiati in questo rapporto sono associati a un aumento del rischio di forme gravi di Covid-19, o addirittura di morte”, giudica “The Lancet”. È necessaria, prosegue, “un’azione urgente per affrontare la sindemia di malattie croniche, disuguaglianze sociali e Covid-19, vale a dire l’interazione di diverse epidemie che esacerbano il carico sanitario delle popolazioni già colpite, e le rendono ancora più vulnerabili”, avverte la rivista. In Europa, secondo “The Lancet”, l’aspettativa di vita in buona salute è aumentata costantemente negli ultimi 30 anni, ma meno che l’aspettativa di vita alla nascita, il che significa che le persone vivono più a lungo in cattive condizioni di salute. Secondo il rapporto, nel Vecchio Continente le malattie non trasmissibili sono responsabili di “più dell’80%” delle morti premature e del peggioramento dello stato di salute (misurato in numero di anni persi). Nel 2019, i principali fattori di rischio in Europa sono stati ipertensione (collegata a circa 787.000 decessi), tabacco (697.000), cattiva alimentazione (546.000), glicemia alta (540.000) e obesità (406.000). “The Lancet” chiede “sforzi significativi” per ridurre questi rischi attraverso politiche proattive di salute pubblica, prendendo l’esempio di quelle condotte contro il tabacco. “L’esposizione al tabacco è diminuita di quasi il 10% in tutto il mondo dal 2010, anche se rimane la principale causa di morte in molti Paesi ricchi”, afferma la rivista. Covid, la strage silenziosa dei bambini nelle aree di conflitto di Giacomo Galeazzi La Stampa, 16 ottobre 2020 Il Rapporto di “Save the children” fotografa una realtà devastante per i più piccoli nelle aree di conflitto. La pandemia agisce come un acceleratore sulla vulnerabilità. Il Rapporto di “Save the children” fotografa il devastante impatto dell’emergenza Covid sulla malnutrizione infantile. La pandemia agisce come un acceleratore delle vulnerabilità esistenti, facendo pressione sui sistemi sanitari già deboli che sono costretti ad interrompere i servizi sanitari di routine, con un aumento della mortalità infantile a causa di malattie invece prevenibili e curabili. I bambini nelle aree di conflitto e quelli che vivono negli insediamenti di rifugiati o sfollati, compresi quelli colpiti dalle peggiori conseguenze dei cambiamenti climatici, sono ancora più esposti a malnutrizione, abusi o malattie. Storie di Ubah e Irene - Ubah, una madre somala di sei figli, aveva perso per la siccità del 2017 le sue 80 capre che erano tutto. Non si era data per vinta e al mercato locale trovava di volta in volta lavori saltuari per riuscire a dar da mangiare ai suoi bambini. Lavare il bucato, fare le pulizie domestiche, fare il facchino o la portinaia. Il coronavirus ha cancellato tutto in un colpo, e Ubah ha dovuto chiedere un prestito ai conoscenti per poter raggiungere con i bambini un campo rifugiati nel Puntland, unica speranza di sopravvivenza. “Conosciamo questa storia perché l’abbiamo incontrata e aiutata lì, al campo. Ubah ha potuto restituire i suoi debiti e dar da mangiare ai suoi figli”, si legge nel Rapporto di “Save the children”. Quattromila e settecento chilometri più a nord, a Palermo, nello stesso momento, Irene riusciva a mantenere se stessa, suo marito, che aveva appena perso il lavoro, e il loro bimbo di un anno e mezzo grazie a lavori saltuari, come dare lezioni private ai bambini e ai ragazzi del quartiere. Ma il coronavirus ha avuto lo stesso effetto anche per loro, azzerando in poche settimane le entrate e i piccoli risparmi disponibili. Anche questa storia Save the Children la conosce perché ha uno “Spazio Mamme” in quel quartiere. Qui Irene e la sua famiglia hanno ricevuto sostegno e ritrovato fiducia, come migliaia di famiglie e bambini in tante altre città italiane dove siamo presenti con i nostri progetti nelle zone più deprivate, dove la crisi rischia di scavare i solchi più profondi. Senza distinzioni - “In questo momento così difficile e sfidante, ci interroghiamo sulle conseguenze che questa crisi globale comporterà per lo sviluppo, la sopravvivenza e la vita delle nostre comunità, a qualunque latitudine del pianeta- afferma Daniela Fatarella, direttrice generale di “Save the children Italia”. Per la prima volta, senza distinzioni tra nord e sud, est o ovest, la pandemia di Covid-19 ha posto ogni popolazione e ogni governo di fronte alla necessità immediata di fronteggiare una stessa emergenza sanitaria come priorità assoluta, concentrando inizialmente ogni sforzo, politico, sociale ed economico su questo obiettivo”. Primo scoglio - Ma l’emergenza sanitaria è “purtroppo solo il primo scoglio, che verrà probabilmente superato unicamente con una disponibilità universale del vaccino”, sottolinea Fatarella. I dati della malnutrizione infantile prodotta dalla pandemia sono sconvolgenti. Gli effetti a catena della crisi “stanno già colpendo duramente i Paesi e le persone più vulnerabili, in particolare i bambini e le bambine”. Oggi milioni di bambini stanno perdendo il loro diritto all’educazione, con il rischio, per alcuni, di non tornare mai più a scuola. Come un motore che gira al contrario, la crisi acuisce le disuguaglianze legate alla povertà o al genere, in particolare per i bambini, e può intrappolare interi Paesi in una spirale di crescita rallentata, aumento della povertà e perdita di opportunità per il futuro. “La preoccupazione più grave però, che deve scuotere tutti, è quella che il nostro pianeta possa trovarsi a breve di fronte alla peggiore crisi alimentare di sempre - evidenza Fatarella. Gli operatori di “Save the Children” sul campo stanno incontrando in questi mesi un numero sempre maggiore di bambini che raggiungono i nostri centri per la malnutrizione. Sono piccoli in condizioni ormai al limite, come nel caso dell’Africa subsahariana, dove le misure di contenimento del coronavirus hanno decimato le fonti minime di sussistenza delle famiglie, la produzione di cibo è crollata e il suo prezzo è salito alle stelle. C’è pochissimo o niente da mangiare sulla mensa dei bambini”. Collaborazione - “Oggi più che mai crediamo nella collaborazione tra le organizzazioni umanitarie, come Save the Children, le associazioni sul campo, le agenzie delle Nazioni Unite, come la Fao, e i governi, come quello Italiano - sostiene Fatarella. Questa è infatti l’unica strada per non lasciare indietro nessun bambino del mondo, poiché spinge ad un’azione urgente su larga scala necessaria per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg). Per questo siamo impegnati insieme, per la prima volta, con il Maeci e la Fao, nell’iniziativa #Insieme per gli obiettivi di sviluppo sostenibile, sensibilizzando e mobilitando i bambini e i ragazzi in Italia per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2020, perché siamo convinti che la conoscenza e la consapevolezza di come possiamo agire per costruire un futuro sostenibile sia una risorsa indispensabile, e il migliore punto di partenza”. E conclude: “Solo se agiamo tutti insieme ora, possiamo proteggere il futuro del maggior numero possibile di bambini, garantendo la loro nutrizione, la loro salute e la loro educazione. E soprattutto vogliamo e dobbiamo raggiungere i bambini più vulnerabili, nelle zone più remote e nei contesti più avversi”. Migranti. La flotta della vergogna: sulle navi-quarantena sofferenza e contagio di Riccardo Magi Il Riformista, 16 ottobre 2020 Rubattino, Moby Zazà, Rapsody, Allegra, Aurelia, Azzurra, Adriatico: traghetti da turismo che a molti evocheranno bei ricordi, momenti di svago e vacanza. E invece quelle elencate sono diventate le navi che compongono la flotta italiana della vergogna, allestita a partire dal mese di aprile affinché a bordo di queste imbarcazioni si svolgesse il periodo di sorveglianza sanitaria per i migranti soccorsi in mare o arrivati autonomamente sulle nostre coste. Questa misura, disposta con provvedimento del Capo della Protezione civile Borrelli, aveva presentato sin da subito problemi sotto il profilo giuridico e dei costi, eppure il trasferimento dei naufraghi su queste navi con una adeguata assistenza sembrò una iniziativa persino migliorativa rispetto allo stallo che li teneva per giorni e settimane bloccati sulle imbarcazioni che li avevano soccorsi. Già a maggio avevo presentato un’interpellanza al governo per fare luce su queste criticità, ma senza ricevere risposta. Il disagio e la sofferenza causati da questa nuova misura and Covid per soli stranieri si sono rivelati nel modo più tragico in quello stesso mese, con la morte di un ragazzo tunisino di 28 anni che si è gettato dalla Moby Zazà nel mare forza 5 davanti Porto Empedocle. Un esito imprevedibile? Una disgrazia? No, perché, se ce ne fosse bisogno, è documentato nel dettaglio anche dalle relazioni frutto dei sopralluoghi dei Procuratori di Agrigento quale sia la situazione di esasperazione, di prostrazione e di malessere psichico e fisico che vivono i naufraghi che hanno attraversato il Mediterraneo Centrale fuggendo dalla Libia. Ma questa tragedia non è stata sufficiente a indurre il nostro governo a un ripensamento sulle navi quarantena. Passano i mesi e altre centinaia di persone vengono portate su quelle navi e altre navi si aggiungono a questa flotta. Tra questa la “Allegra” che - a dispetto del nome - accoglie il dolore, la solitudine e l’agonia di Abou, quindicenne della Costa D’Avorio, salvato in mare dalla Ong Open Arms, tenuto sulla nave quarantena per due settimane di “sorveglianza sanitaria” talmente efficace da non riuscire a evitargli la morte, per cause ancora tutte da accertare. Nel frattempo l’estate è trascorsa e la misura della quarantena a bordo delle navi degenera: non viene più disposta solo nei confronti di chi viene soccorso in mare o arriva autonomamente sulle coste italiane (come previsto dal decreto del Capo della Protezione Civile di aprile), bensì anche nei confronti di cittadini stranieri regolarmente soggiornanti e ospitati in centri di accoglienza. Come denunciato e documentato da Arci e Asgi, alcuni stranieri risultati positivi al test Covid vengono trasferiti con viaggi di centinaia di chilometri, contro la propria volontà e senza fornire loro alcuna informazione, per essere rinchiusi su queste navi della disperazione, senza ricevere assistenza medica né supporto di alcun tipo. La degenerazione di questa prassi in vera e propria illegalità è così completata sotto la spinta della paura del virus che si somma alla paura dello straniero (portatore del virus), in una miscela esplosiva per lo stato di diritto. Le navi quarantena si stanno trasformando in veri e propri hotspot galleggianti - proprio quello che si temeva e che andava evitato - e da luoghi di sorveglianza sanitaria finalizzata alla prevenzione della diffusione del virus in luoghi in cui il virus viene portato. Vengono ristrette in spazi spesso privi di finestre, e notoriamente favorevoli alla diffusione dei contagi, persone che devono solo trascorrere un periodo di osservazione insieme a persone positive. Cioè, ci si mette dentro il Covid, letteralmente, e poi si butta la chiave. Illustri virologi hanno lanciato l’allarme sull’enorme errore che si sta facendo, ricordando la vicenda della nave da crociera “Diamond Princess”. In quel caso il capitano Arma gestì con controllo e saggezza una situazione difficile e improvvisa, ricevendo il ringraziamento del Presidente Mattarella e il titolo di Commendatore. Quale onorificenza meritano gli esponenti del governo e della Protezione Civile responsabili dello scempio delle navi quarantena? Migranti. Navi quarantena, per i tunisini sono l’anticamera dei rimpatri di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 ottobre 2020 La sorveglianza sanitaria usata per limitare o negare il diritto di chiedere asilo. Un altro tassello del puzzle di violazioni collegate alle quarantene galleggianti. Lo schema è consolidato e fa più o meno così: sbarco, hotspot di Lampedusa, quarantena su una nave, centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), espulsione. Se sei un cittadino tunisino rischi di trovarti su un aereo che ti riporta a casa in cinque mosse, in meno di un mese. Soprattutto, rischi di non avere possibilità di chiedere asilo. E questo non è un segno di efficienza della macchina dei rimpatri forzati costruita dallo Stato, ma una violazione della Convenzione di Ginevra secondo cui la richiesta di protezione internazionale è un diritto individuale, che non può essere negato in base alla nazionalità. In questi giorni sulle quarantene galleggianti, che iniziano con il decreto della protezione civile del 12 aprile 2020 e contano ormai su cinque navi, si è alzato un polverone. È venuto fuori che, oltre ai migranti appena sbarcati, a bordo erano stati trasferiti anche alcuni richiedenti asilo positivi al Covid-19 prelevati nottetempo dai centri di accoglienza sulla terraferma (il deputato di LeU Erasmo Palazzotto ha presentato un’interrogazione parlamentare). Le espulsioni accelerate dei cittadini tunisini aggiungono un nuovo tassello al puzzle di violazioni che ruotano attorno a questo tipo di sorveglianza sanitaria. “Siamo entrati in contatto con una cinquantina di persone che appena scese dalla nave quarantena hanno ricevuto un provvedimento di espulsione o respingimento differito e sono finite nei Cpr di Roma, Milano, Gradisca o Bari. Circa il 90% sono già state espulse. Erano tutte di nazionalità tunisina”, afferma Annapaola Ammirati, operatrice sociale del progetto In limine-Asgi. “Nell’hotspot di Lampedusa c’è una pre-identificazione attraverso il cosiddetto “foglio notizie” - spiega Sami Aidoudi, mediatore culturale - Firmano senza sapere di che si tratta, senza avere informazioni sul diritto di chiedere asilo e finiscono per essere considerati automaticamente migranti economici”. Se presentare domanda di protezione internazionale all’interno dell’hotspot è difficile, una volta saliti sulla nave quarantena è impossibile: l’ufficio immigrazione non c’è. Così mentre i tunisini sono a bordo, le questure a terra preparano i decreti di espulsione che aprono le porte dei Cpr (se c’è spazio). Una volta in detenzione i migranti, se ci riescono, possono chiedere asilo: ma l’iter è di tipo speciale e offre molte meno garanzie. Da un lato il tribunale può ritenere la domanda strumentale a impedire trattenimento ed espulsione. Dall’altro la procedura è accelerata: sette giorni per l’audizione e due per la decisione. In caso di rigetto si può fare ricorso ma la sospensione del rimpatrio non è automatica, come avviene di norma. Anzi, se entro cinque giorni il giudice non si esprime è possibile procedere con l’espulsione. Ai casi in cui l’accesso all’asilo è ostacolato e ristretto si sommano quelli in cui è impedito de facto. “Mi è capitato due volte in meno di una settimana: persone provenienti da navi quarantena, trasferite nel Cpr di Milano e rimpatriate in pochi giorni - dice Nicola Datena, avvocato del foro milanese - Funziona così: all’ingresso nel Cpr vengono tolti i cellulari; i trattenuti possono fare un’unica telefonata; chiamano i familiari che cercano un legale; l’avvocato non ha la procura e non può contattare l’assistito; quando la ottiene va al Cpr ma la persona è già stata espulsa. Sembra un meccanismo rodato”. Il 17 agosto 2020 Italia e Tunisia hanno raggiunto una nuova intesa sul contrasto dei movimenti migratori. I contenuti non sono stati pubblicati integralmente, ma si sa che ha permesso di raddoppiare i rimpatri verso il paese nordafricano: due voli settimanali da 40 persone. È anche in questo meccanismo che vanno inserite le navi quarantena: almeno per i tunisini la funzione non è soltanto sanitaria, ma di controllo ed espulsione. “Funzionano come hotspot galleggianti con l’aggravante che non permettono di chiedere asilo nemmeno a livello teorico - afferma Salvatore Fachile, avvocato di Asgi - Il sistema va oltre le procedure accelerate che l’Ue, con il nuovo patto sulle migrazioni, vuole incrementare lungo le frontiere esterne”. Secondo Yasmine Accardo, della campagna LasciateCIEntrare: “Per i tunisini la quarantena sulle navi si è trasformata in una forma di detenzione illegittima in attesa del rimpatrio”. Cannabis terapeutica, il ministero della Salute vieta le spedizioni dalle farmacie ai pazienti di Nadia Ferrigo La Stampa, 16 ottobre 2020 Le scorte scarseggiano e sono appena una ventina i laboratori galenici che preparano i farmaci. Le associazioni a tutela dei malati: “Speranza risponda”. Non tutte le farmacie hanno un laboratorio galenico, meno ancora lavorano la cannabis medica. Sono una ventina, non di più, prese d’assalto da migliaia di pazienti che potevano sceglierne anche distante centinaia di chilometri: una volta pronto il farmaco, bastava inviare un corriere per il ritiro e per la consegna a domicilio. Bisogna usare il passato, perché dopo una controversa circolare del ministero della Salute guidato da Roberto Speranza non si può più. Con una comunicazione datata inizio ottobre, il Ministero ha comunicato che “la dispensazione del medicinale, ai sensi dell’articolo 45 del Dpr 309/90, deve essere effettuata in farmacia, dietro prestazione di ricetta medica, direttamente al paziente o a persona delegata”. Per i pazienti che devono seguire una terapia che prevede la cannabis, un altro inconcepibile ostacolo che si somma alla cronica difficoltà di reperire il medicinale: nonostante gli annunci e le promesse, le scorte italiane di cannabis terapeutica prodotte dall’Istituto farmaceutico di Firenze non bastano. Così ancora una volta il Ministero della Salute ha dovuto acquistarne un carico da 600 chili dall’Olanda, come accaduto lo scorso anno. Anche se la ratio della norma è quella di incentivare la produzione dei farmaci a base di cannabis da parte di una platea più ampia di farmacie, l’unico effetto al momento ottenuto è quello di creare insormontabili difficoltà ai malati. “Questa vicenda sta assumendo, sempre più, caratteristiche kafkiane e riguarda Il Ministero della Salute che ha deciso di esprimersi anche sulle modalità di spedizione della cannabis medica al paziente. O meglio, ha deciso di esprimersi sulle modalità per impedire la spedizione della cannabis medica al paziente - commenta Paolo Poli, presidente Sirca, Società Italiana Ricerca Cannabis e pioniere nell’uso della cannabis nelle terapie del dolore. Cosa accade se la farmacia Galenica si trova a 200 km di distanza? Se il paziente, per problemi di salute, non può ritirarla? Se il delegato dal paziente non può permettersi di prendere un giorno di permesso per andare a ritirare il farmaco? Quando il Ministero della Salute ha deciso, tra le tante cose importantissime alle quali pensare, di esprimersi in tal senso, ha pensato alle ricadute nella vita reale? Colui o Coloro che hanno normato, si sono messi, anche solo per pochi minuti minuti, nei panni dei nostri pazienti, dei parenti, della famiglia?”. Forum Droghe, Associazione Luca Coscioni, Società della Ragione, Cgil, Cnca, Lila, Meglio Legale, Fatti Segreti, La Casa di Canapa, Radicali Italiani hanno scritto una lettera aperta al ministro Speranza, per denunciare inoltre il passaggio della circolare firmata dal nuovo direttore generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico Achille Iachino, nel passaggio in cui sono “consentite solo le forme farmaceutico del decotto e della vaporizzazione e esplicitamente negare la possibilità di prescrivere resine e oli”. “Alla vigilia del voto sulla raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che chiede il riconoscimento formale, all’interno delle Convenzioni internazionali, dell’uso terapeutico della cannabis riteniamo che l’Italia non possa fare passi indietro rispetto a quanto conquistato dal 2007 - si legge nella nota. Anche alla luce del Commento Generale sulla Scienza adottato dalla Nazioni Unite a maggio scorso, saremmo felici di poterLe presentare di persona ulteriori argomenti a bilanciamento delle gravi limitazioni sopra ricordate che, se confermate, comporterebbero un attacco al pieno godimento del diritto alla salute nel nostro paese”. Libia. Marketing e mitra, il ricco business dei boss della tratta di Sarita Fratini Il Manifesto, 16 ottobre 2020 Violenze ed estorsioni sui migranti disperati ma anche “buona pubblicità”: così crescono gli affari degli scafisti libici. I rifugiati raccontano del sistema della “lotteria”: il trafficante arriva con i biglietti da estrarre. Sono le ricevute dei trasferimenti di 1.500 dollari arrivati al suo conto. Chi ha pagato parte. Agosto 2020, mar Mediterraneo, 30 miglia a nord di Zuwara. Una piccola imbarcazione gremita all’inverosimile viene avvicinata da un motoscafo libico. A bordo uomini armati. Negli occhi dei rifugiati, l’amara consapevolezza: “Sono poliziotti. Ci cattureranno”. Accade il peggio: gli uomini misteriosi sparano sulla gente terrorizzata e sulle taniche di carburante. Almeno 40 i morti, tantissimi gli ustionati. La chiamano “la strage di Ferragosto”. Non è la prima volta che forze dell’ordine libiche non ben identificate sparano sui migranti in fuga, ma questo episodio impatta in modo significativo sulla competizione di mercato tra i vari scafisti della costa. Anche perché la barca attaccata pare essere del “boss di Zuwara”, l’uomo che negli ultimi mesi ha acquisito una incontrastata posizione dominante sulla concorrenza. All’indomani della strage, lo stesso boss diffonde un suo comunicato tra i migranti: è costernato per l’incidente e bloccherà tutte le sue barche a tempo indeterminato, gli attacchi armati potrebbero ripetersi e lui ci tiene alla sicurezza. Uno scafista etico? “No - sostengono i rifugiati - Non esistono scafisti buoni. Il suo è solo marketing”. Il marketing è fondamentale nel business delle organizzazioni criminali. In tutto il mondo, da Casal di Principe a Ciudad Juarez, i criminali lo sanno. La fortuna del boss di Zuwara deriva dall’immagine di successo da lui propagandata e da un dato statistico: sei viaggi riusciti su sei. Musa (nome di fantasia) dal nord Europa oggi racconta i mesi trascorsi nelle case dello scafista di Zuwara. Ricorda soprattutto il buio. “Non potevamo accendere luci né parlare a voce alta. Vivevamo stipati, anche in duecento, il bagno era uno, il cibo poco e certi giorni non arrivava. Aspettavamo”. Un trattamento non dissimile da quello subito in lager libici come il terribile Triq al Sikka (finanziato dall’Italia) da dove molti rifugiati provenivano. “Vi sentivate clienti?”, chiedo. Musa scuote la testa, con un sorriso amaro. Con il suo numero identificativo Unhcr sempre in tasca, ha atteso l’evacuazione per tre anni sul pavimento di diversi lager libici. Ma non è mai arrivata. Così ha deciso di pagare un riscatto alle guardie libiche e di affidarsi agli scafisti. “Ero un prigioniero a tutti gli effetti - spiega - e la cosa più terribile è che lo avevo deciso io”. La differenza tra lager e scafisti è la speranza. Il boss lo sa bene e per tenerla sempre viva usa il sistema della “lotteria”. Accade di sera: entra nel buio di una delle sue case e reca biglietti da estrarre. Sono le ricevute dei trasferimenti bancari di 1.500 dollari arrivati al suo conto bancario. È un momento drammatico. I prescelti non esultano, salutano in fretta gli amici, consci della possibilità di non rivederli mai più, e vengono trasferiti in un luogo privo di connessione internet, da dove è impossibile consultare un qualsivoglia bollettino meteo. Si parte al buio, in tutti i sensi. “È possibile tirarsi indietro all’ultimo momento?”. Ci sono molti racconti di scafisti che caricano a forza migranti sui gommoni. A Zuwara non è così, mi racconta Musa. Una volta un’amica di un rifugiato è riuscita ad avvisarlo che era in arrivo una tempesta. Il ragazzo ha rifiutato di imbarcarsi e ha convinto tutti gli altri a restare a terra. Il boss si è adirato, ma non ha costretto nessuno. Però il giorno dopo ha fatto sparire la barca e sentenziato che avevano perso la loro occasione. Sono passati mesi prima che si ripresentasse in quella casa. Ha anche minacciato di “sciogliere lì il contratto”: i 1.500 dollari li avrebbe trattenuti per vitto e alloggio. Poi, in qualche modo, la situazione si è risolta. La lucrosa ditta, forte dei suoi successi, si espande nei primi mesi dell’estate 2020. Entra in un grosso affare: aerei di linea dal Bangladesh e dal Pakistan scaricano in Libia centinaia di migranti che hanno acquistato dalle organizzazioni criminali un pacchetto volo + visto libico + barca per l’Italia (ci si chiede se il Governo libico sia coinvolto nel rilascio dei visti). Costo del pacchetto: diecimila euro. Imbarco prioritario a Zuwara, senza lotteria. Questo, ormai, è l’unico flusso migratorio attivo che passa per la Libia. Nel 2019 la guerra ha invece interrotto bruscamente gli arrivi dei migranti africani. La florida azienda di Zuara apre anche una succursale che vende intere barche, in genere gommoni. I rifugiati che li acquistano possono decidere quante persone far salire. Ma il boss ci tiene a escludere questi viaggi dalle statistiche, perché sono viaggi faidate, privi della sua pianificazione e assistenza. Eppure qualcuno va a buon fine lo stesso. “Cosa intende per assistenza?”. Durante la traversata il boss è in contatto costante con il telefono Thuraya della barca. I suoi gregari trasmettono continui bollettini ai rifugiati rimasti a terra: “Sono arrivati in Sar libica, tengono la velocità di 7 nodi…”. Ci tengono a sbandierare competenze che non hanno. “E le ong?”. Il boss di Zuwara le ignora. Le sue barche sono in grado di compiere la traversata in autonomia. Ma troppe volte, per imbarcare più persone, il boss non carica acqua a sufficienza. Ciò che conta per lui è il risultato e se qualcuno muore di sete e non affogato, va bene. Le foto e i video dei migranti esausti e disidratati sbarcati su territorio europeo sono la migliore pubblicità. E non mancano gli emulatori. Come l’uomo di Khoms. Il successo di Zuwara svuota gli altri porti, soprattutto quello di Khoms, che ha già dei problemi. Nonostante la guerra e il diradarsi - fino a zero - dell’evacuazione dell’Unhcr, le partenze da Khoms sono già al minimo, perché i gommoni che partono da lì si afflosciano poche miglia a largo della costa. “L’uomo di Khoms” è uno dei tanti scafisti della zona. Tenta di risolvere la crisi abbassando i prezzi. Ma non funziona, perché nel frattempo uno dei suoi gommoni è rimasto cinque giorni in mare poco a largo di Khoms e una bambina di quattro anni è morta di sete. Così ricorre alla pubblicità ingannevole. Solomon (nome di fantasia) ha trascorso alcune settimane presso “l’uomo di Khoms”. Oggi è in Europa, ma non grazie a lui. Ricorda gli annunci trionfanti dello scafista: “Il gommone che abbiamo mandato ieri è ora a Malta. Ce l’hanno fatta”. Poi gli applausi di tutti. Non c’è invidia tra i rifugiati, il successo di uno dimostra che c’è una speranza per tutti. Pochi giorni dopo, un altro gommone e un nuovo annuncio: “Sono a Malta!”, con lettura ad alta voce di sms di ringraziamento in stile feedback di Tripadvisor. Gli affari si riprendono un po’, i rifugiati riacquistano la speranza, i prezzi salgono. Ma tutto ciò dura poco perché… non è vero. I due gommoni non sono mai arrivati a Malta e gli sms sono falsi. L’inganno si scopre quando tornano alcuni dei passeggeri, con segni di torture sul corpo e 400 dollari in meno, pagati alle guardie del lager di Khoms (finanziato dall’Italia) in cambio della scarcerazione. Tornano anche i gommoni, perché la cosiddetta guardia costiera libica li ha prontamente rivenduti proprio all’uomo di Khoms. I più disperati ripartono con lo stesso gommone della prima volta. Solomon se ne va a Zuwara. Il nuovo scafista di Zuwara è un poliziotto. Guardia costiera, polizia e milizie libiche sono coinvolti da sempre nel business degli imbarchi dalla Libia verso le coste europee. Mercoledì Bija, ufficiale della cosiddetta Guardia costiera libica e noto trafficante di esseri umani, è stato arrestato dalla Rada Special Forces, milizia attualmente accusata di riduzione in schiavitù di migranti catturati in mare. Nessuno si stupisce troppo quando, all’inizio dell’estate, un poliziotto di Zara avvia il suo business. Applica gli stessi prezzi del boss di Zuwara. Ma i suoi gommoni sono sgonfi e pericolosi. Se ci fosse un Tripadvisor degli scafisti, otterrebbero zero pallini. Via Whatsapp, i rifugiati fanno circolare appelli a evitarlo. Gli affari vanno male. Poi avviene la strage di Ferragosto. I cinque misteriosi uomini armati. Gli spari. I morti. Gli ustionati. Il boss di Zuwara che ferma i suoi viaggi. La paura. L’incertezza. Come in ogni business gestito da organizzazioni criminali, la posizione dominante si conquista con il kalashnikov, con la paura. Se sia stato o meno il poliziotto di Zuwara a organizzare l’attacco, non lo sapremo mai. Ma, di certo, il marketing della paura funziona. Il messaggio passa: per uscire dalla Libia bisogna rivolgersi a uomini delle forze dell’ordine libiche. “Come fermare il business criminale degli scafisti?”. Secondo Musa, i migranti salgono sui gommoni perché l’Onuli ha abbandonati in Libia. I corridoi umanitari, sicuri e legali, possono annientare in un lampo un traffico illegale che provoca migliaia di morti l’anno e che arricchisce i criminali da due lati: quello illegale del pizzo pagato dai gommoni alle guardie costiere libiche e quello legale dei finanziamenti europei. I pescatori italiani fermati in Libia, un’arma per Haftar di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 16 ottobre 2020 L’atteggiamento dell’”ex uomo forte della Cirenaica” rende ancora più complesso il lavoro del governo italiano impegnato a cercare di liberare i 18 marinai (di cui 10 italiani) fermati il primo settembre a circa 40 miglia dalla costa di Bengasi. Non è un mistero che Khalifa Haftar stia strumentalizzando il sequestro dei due pescherecci italiani per motivi di politica interna. L’ex “uomo forte della Cirenaica” naviga da tempo in acque tempestose. Tanti libici lo vedono ormai come un perdente, che non è riuscito a impadronirsi manu militari della Tripolitania, infliggendo gravi sofferenze ai suoi sostenitori nel Paese. E la sua fragilità è aumentata dal fatto che anche i vecchi alleati militari russi ed egiziani mirano a marginalizzarlo. Ma tutto ciò rende ancora più complesso il lavoro del governo italiano impegnato a cercare di liberare i 18 marinai (di cui 10 italiani) fermati il primo settembre a circa 40 miglia dalla costa di Bengasi mentre pescavano il raro, quanto pregiato, “gambero rosso”. Haftar replica a muso duro. Si rilancia come garante della sovranità libica. E guadagna facili consensi tra la sua gente pretendendo (anche se ancora non c’è alcun passo formale) che l’Italia rilasci 4 giovani calciatori libici, condannati nel 2016 a 30 anni di carcere con l’accusa di lavorare per gli scafisti e di aver causato l’annegamento di 48 migranti. L’opinione pubblica libica li considera però vittime innocenti del risentimento dei migranti. Il contenzioso è antico. Sin dai tempi di Gheddafi il braccio sull’estensione unilaterale libica delle acque territoriali ha spesso visto il sequestro dei pescherecci italiani. Adesso, tuttavia, non è affatto un caso che Haftar abbia mandato i suoi guardiacoste a bloccare gli italiani soltanto poche ore dopo l’incontro tra Luigi Di Maio e Aguila Saleh. Era la prima volta che un ministro degli Esteri italiano andava a parlare con il presidente della Camera dei Rappresentanti a Tobruk (di fatto il parlamento della Cirenaica) ignorando Haftar. Presto Saleh potrebbe diventare capo del prossimo governo unificato. Così, l’odissea dei marinai s’ingolfa nei meandri della politica interna libica. Un puzzle levantino, davvero complicato. L’odissea dei pescatori spariti in Libia. I familiari: “Abbandonati dallo Stato” di Niccolò Zancan La Stampa, 16 ottobre 2020 L’odissea dei pescatori spariti in Libia. I familiari: “Abbandonati dallo Stato”. I parenti dei 18 marittimi sequestrati dal generale Haftar occupano il Comune di Mazara del Vallo: “Qualcuno ci aiuti”. Sono figli perduti: “Fabio ha trent’anni e una bambina appena nata, si chiama Aurora, l’ha vista solo quattro giorni prima di imbarcarsi come motorista sull’Antartide”. Sono gesti di coraggio che nessuno conosce: “Bernardo era a bordo del Natalino quando i libici hanno chiesto ai capitani di scendere sulla loro motovedetta con i documenti, ma visto che il suo comandante non stava bene si è fatto avanti lui”. Sono marinai senza più barca né mare, pescatori di gamberoni rossi rinchiusi da 45 giorni una caserma di Bengasi. Da quella sera, erano le 21 del primo di settembre, nulla è cambiato tranne una cosa: nessuno crede più alla versione ufficiale. “Questo non è la detenzione di 18 marinai italiani per il presunto sconfinamento nelle acque territoriali libiche, ma una partita molto più grande in cui i poveri pescatori di Mazara del Vallo sono usati come delle pedine”, dice il sindaco Salvatore Quinci. “È un sequestro, non ci sono altri modi per chiamarlo. Il generale Khalifa Haftar sta usando i nostri pescatori per rimettersi al centro della scena politica internazionale, li usa per trattare, per chiedere soldi e soprattutto per tornare a contare. Ma l’Italia in Libia non c’è più, non esiste. Non abbiamo notizie. E neppure i russi e i turchi, che potrebbero aiutarci, si stanno muovendo. Così siamo rimasti soli. Noi di Mazara del Vallo. I pescatori e le loro mogli, le loro madri piene di dignità e di coraggio. Siamo soli. E questa attesa sta diventando molto frustrante: ho paura che possa sfociare in gesti di rabbia”. La sala del Consiglio comunale di Mazara del Vallo ha sedie rosse come quelle di un cinema. È lì che li trovi, ogni mattina e ogni pomeriggio, sempre. I parenti dei pescatori hanno occupato l’aula, mentre altri famigliari da 25 giorni dormono a Roma dentro una tenda piazzata davanti a Palazzo Chigi. Ma per quanto cerchino di rendersi visibili, nessuno li vede. “Non dormo più. Sono angosciata. Sono troppo nervosa, tesa, scatto per niente”, dice la madre del motorista Fabio Giacalone. “Anche mia nuora è molto giù, piange. La bambina non vede il padre, noi non abbiamo notizie e non sappiamo cosa pensare. Fabio ha preso il mestiere di marittimo per passione, se n’è proprio innamorato. Ha iniziato a 16 anni, lasciando la scuola da geometra anche se era bravissimo. Ama tanto il mare, ma adesso il mare ci separa”. Hanno striscioni preparati a casa e bottiglie d’acqua, hanno una diretta sul sito web del giornale “Prima Pagina Mazara”. Sperano in qualche novità. Perché fino ad adesso l’unica telefonata dalla Libia è arrivata il 16 settembre. Era la voce di Piero Marrone, il capitano della Medinea. “Ma per quanto si sforzasse, si capiva che non era sereno anche se cercava di rassicurare tutti”, dice Ignazio Bonomo, il fratello di un pescatore prigioniero. “Sì, ci serve un video o una fotografia, un’immagine in cui si capisca che stanno tutti bene, almeno questo”, aggiunge Gaspare Salvo anche lui sulle sedie rosse ad aspettare. “Non sapere niente è la cosa peggiore”, concordano tutti. Forse ci sarà un processo nei prossimi giorni, ma nessuno lo sa con certezza. A rassicurarli prova il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio: “Sono in buone condizioni, non sono in carcere, stanno bene, lavoriamo per riportarli a casa”, dice. Ecco la diretta. C’è un collegamento con la tenda di Roma. I parenti si salutano, senza buone notizie. L’armatore della motobarca Antartide si chiama Leonardo Gancitano, è stato il primo a chiamare i soccorsi quella sera: “Dal centro di coordinamento di Roma mi avevano rassicurato sul fatto che stavano mandando un elicottero in zona. Ma non è andato nessuno e le nostre imbarcazioni sono state prese, con tutte quelle persone. L’Italia ci ha abbandonati, ecco la verità. Dopo le rassicurazioni iniziali del ministro Di Maio e del premier Conte, è calato il silenzio. Eppure noi abbiamo fonti attendibili in Libia, che ci dicono chiaramente che se solo il nostro ministro degli Esteri tornasse per parlare con Haftar, i pescatori verrebbero rilasciati immediatamente”. A nessuno è sfuggita la coincidenza opposta. E cioè: che il sequestro dei marittimi è avvenuto poche ore dopo il viaggio del ministro degli Esteri Di Maio per incontrare Fayez al-Serraj, il leader libico riconosciuto dall’Onu. Ecco qual è la partita più grande. E adesso, i pescatori sono usati come armi di ricatto, così come lo sono sempre stati i migranti. Al molo Garibaldi i marinai dicono che verso Sud non si naviga più. Non è sicuro. “Noi punteremo al tratto di pesca fra la Tunisia e la Sardegna”, dice Michele Cangitano, capitano della “Gemma Prima”. Delle duecento imbarcazioni della flotta di Mazara di vent’anni fa, ne sono rimaste ottanta. Il pescatore è un mestiere duro. Si sta fuori anche trenta giorni consecutivamente. Solo le barche grandi con almeno 7 persone a bordo possono andare in alto mare. La pezzatura più pregiata del gambero rosso vale 42 euro al chilo. Sull’Antartica, al momento del sequestro, c’erano a bordo 70 mila euro di pescato. I diciotto marinai sono stati spogliati di tutto, dei telefoni e dei loro diritti. Leggere in sequenza i loro nomi svela, ancora una volta, che ogni equipaggio è sempre un piccolo pezzo di mondo: Michele Trinca, Fabio Giacalone, Indra Gunawan, Vito Barraco, Farhat Jemmali, Giovanni Bonomo, Mohammed Karoui, Baveiux Daffe. “Riportateli a casa! Ci siamo appellati a tutti, non ci resta che appellarci a Dio”, dice l’armatore Gancitano. A Mazara tira vento di scirocco, mare forza 5. Tutti i pescherecci sono in porto, e la Libia non è mai stata più lontana di così. Regno Unito. Settimana ecumenica di preghiera per gli uomini e le donne del carcere di Riccardo Burigana L’Osservatore Romano, 16 ottobre 2020 Non sei solo: queste parole guidano l’annuale Settimana di preghiera per coloro che sono in carcere. Si tratta di un’iniziativa ecumenica che raccoglie Chiese e organizzazioni cristiane della Gran Bretagna impegnate direttamente nell’assistenza dei carcerati e delle loro famiglie. Da oltre 40 anni questo appuntamento costituisce un momento particolarmente forte dell’attenzione verso gli ultimi da parte di tanti cristiani che hanno scoperto nella testimonianza in carcere una profonda unità al di là delle appartenenze confessionali. La dimensione ecumenica della Settimana è stata rafforzata quando l’organismo “Churches Together in England”, che raccoglie il maggior numero di Chiese in Inghilterra, ha deciso di partecipare e di sostenere questa iniziativa. È un’occasione per i volontari per condividere le loro storie, che nascono dal desiderio di dare tempo al “mondo del carcere”, mostrando le ricchezze spirituali di queste esperienze tanto più quando si realizzano in una dimensione ecumenica, aiutando così a scoprire l’universalità del messaggio evangelico, che va oltre i confini ecclesiali, coinvolgendo anche i carcerati di altre religioni. L’evento che, per una tradizione ormai consolidata, inizia con la seconda domenica di ottobre e si concluderà sabato prossimo, coinvolge migliaia di cristiani, non solo coloro che, anche saltuariamente, operano negli istituti di pena. Secondo uno schema preparato ecumenicamente vengono indicati testi per la preghiera quotidiana, senza che questo sia vincolante, anche se, come viene sempre ricordato, la stessa preparazione del sussidio aiuta ad approfondire la comunione tra i cristiani guidandoli in questo tempo specifico di preghiera per il “mondo del carcere”, che va ben oltre coloro che sono stati condannati. Per questo durante la Settimana le preghiere quotidiane, che sono profondamente radicate sulle Sacre Scritture, aprendosi con la recita del Padre Nostro, sono rivolte ai carcerati, alle loro vittime, alle loro famiglie, alle comunità, a quanti lavorano in carcere e a coloro che vi svolgono un servizio di volontariato e, infine, al sistema giudiziario per far comprendere a tutti il “mondo del carcere”. Accanto al momento della preghiera ne sono previsti altri di approfondimento sulla condizione dei carcerati, con una particolare attenzione al reinserimento nella società e alla condizione della “famiglia” del carcerato tanto più se questo è un migrante che aggiunge solitudine a solitudine. In alcuni casi sono state pensate anche iniziative per raccogliere aiuti materiali per i carcerati e loro famiglie. In sede di presentazione è stato detto che quest’anno la Settimana assume un valore particolare a causa della pandemia che, non solo nel Regno Unito, ha determinato nuove regole per le visite nelle carceri, limitando fortemente l’attività dei volontari e, di fatto, alzando ancora di più il muro tra chi è dentro e chi è fuori, con delle conseguenze anche per l’assistenza sanitaria dei carcerati. Per “Churches Together of England” la Settimana è un tempo privilegiato per rinnovare la richiesta al Signore a vivere misericordia e riconciliazione ogni giorno con la convinzione che i cristiani, se vivono questo tempo insieme, possono rendere più efficace la loro testimonianza nell’accoglienza di chi è nella sofferenza. Povertà e corruzione nel Libano sfiancato dalle fazioni di Davide Frattini Corriere della Sera, 16 ottobre 2020 Prima della devastante esplosione al porto, dei duecento morti, dell’epidemia di Covid-19, il Libano sta già sprofondando. La lira, la moneta locale, ha perso il 60 per cento del valore e la maggior parte delle famiglie non riesce più a comprare quel che serve perché i prezzi sono aumentati del 367 per cento in un anno, ormai quasi un quarto dei libanesi sopravvive in estrema povertà, sotto quella soglia di un dollaro e 90 centesimi al giorno fissata dalla burocrazia della disperazione. Per mesi i manifestanti sono scesi in strada a protestare contro la corruzione, la crisi politica senza fine, le disparità economiche (il 10 per cento delle famiglie più facoltose possiede il 70 per cento della ricchezza), il sistema di spartizione dei poteri che ha cercato di chiudere le ferite dei 15 anni di guerra civile distribuendo punti di sutura tra maroniti, sciiti, sunniti. Emmanuel Macron, il presidente francese, ha proposto un piano perché il Libano provi a uscire dall’emergenza, ma un primo tentativo di formare un nuovo governo è saltato per le pressioni di Hezbollah e degli altri gruppi sciiti. L’organizzazione ha ribadito di non essere pronta a trasformarsi solo in forza politica e a rinunciare agli armamenti: “Servono per combattere Israele”, ribadisce la propaganda del movimento, eppure i gruppi paramilitari fanno anche da deterrente contro le proteste interne. Così i libanesi ancora una volta restano in mezzo alle lotte tra le fazioni (da cui spesso dipendono per ottenere un lavoro e aiuti), alle sfide tra potenze (gli Stati Uniti alzano la pressione sull’Iran che a sua volta mobilita Hezbollah), alle intromissioni straniere (l’intervento francese nei territori che ha amministrato per oltre 40 anni). Il risveglio dei ragazzi thailandesi: “Re e dittatura non ci fermano più” di Alessandro Ursic La Stampa, 16 ottobre 2020 Il “Paese dei sorrisi” è spaccato: da una parte i giovani in piazza, dall’altra genitori cresciuti nel mito della monarchia. I manifestanti hanno sfilato nonostante i divieti e hanno contestato il corteo del re: scena simbolo della fine di un’epoca. Zainetto, grembiule, e fiocco nei capelli raccolti come ci si aspetta dalle docili studentesse thailandesi, Ying e Noey sono venute dritte da scuola per l’unico compito che conta ora: insultare il primo ministro e pure il re che dovrebbero adorare, e rifare la Thailandia daccapo. Il “Paese dei sorrisi” è spaccato: figli pro-democrazia contro genitori e nonni cresciuti col mito della monarchia. E semi piantati da anni stanno sbocciando ora tutti assieme, creando una minaccia esistenziale per un sistema di potere incapace di rinnovarsi. “Non abbiamo paura. Questo è il nostro momento”, dice Ying, 16 anni, riunita ieri sera con altre migliaia di giovani di fronte al centro commerciale Central World. In un sabato qualsiasi sarebbe lì a fare shopping e postare selfie su Instagram, ma ora rischia l’arresto sfidando lo stato di emergenza proclamato dal governo del generale Prayuch Chan-ocha dieci ore prima. Decapitando la protesta con l’arresto di 20 leader ieri mattina, il regime contava di aver spento il rogo anti-governativo divampato negli ultimi mesi. Ma i ragazzi non hanno recepito il messaggio, e continuano a gridare “Abbasso la dittatura!”. In Thailandia tira un vento rivoluzionario senza precedenti. Dagli anni Settanta, di sollevamenti popolari contro governi militari a Bangkok ce ne sono stati diversi. Ma nessuno aveva tra le proposte quella che c’è ora: togliere poteri al re, controllare le sue spese, recidere il legame tra la monarchia e un esercito che si vanta di essere il suo primo difensore. Per la Thailandia è un muro che crolla, uno choc che manda in cortocircuito la stessa identità nazionale, che la propaganda statale ha sovrapposto per decenni all’adorazione incondizionata del sovrano. La scena simbolo della fine di un’epoca è il passaggio della limousine di re Vajiralongkorn tra i manifestanti vicino alla sede del governo, due giorni fa. La folla si stringe attorno all’auto, da dietro il finestrino la regina Suthida sorride e saluta timidamente. Poi parte il coro, ripetuto: “Le nostre fottute tasse!”. Il grido di giovani che per la retorica monarchica sono fieri di essere “polvere sotto i piedi” di un sovrano discendente del Buddha, ma che invece vedono solo un uomo di 68 anni giunto al quarto matrimonio, che passa undici mesi all’anno nel suo auto-esilio dorato in Germania, anche ora che l’economia del Paese è in ginocchio per il coronavirus. Tra due visioni di Thailandia così inconciliabili, non ci può essere dialogo. E qualsiasi speranza che ci fosse è morta lo scorso febbraio, quando la magistratura ha sciolto il partito “Nuovo Futuro”, quello che votavano i giovani. Uno schiaffo per gli oltre sei milioni che l’avevano votato: la prova che il sistema è pronto a tutto per difendere l’indifendibile. Tra i manifestanti gira una maglietta con la scritta “Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere”. Sono andati a scuola di rivoluzione assorbendo referenze pop dell’ultimo decennio: le tre dita alzate contro la dittatura in “The Hunger Games”, il mantra “Che i bastardi non ti schiaccino” de Il racconto dell’ancella. Sui social media, sfidando la legge sui reati informatici, pullulano hashtag anti-militari e anti-monarchia sempre più baldanzosi. È in sostanza un risveglio delle coscienze senza precedenti, anche per la sua rapidità. Per decenni, in una Bangkok dove regna il consumismo, i giovani erano apatici. Essere interessati alla politica era un biglietto diretto verso l’emarginazione sociale; in un paio d’anni è diventato “cool”. E non è solo la richiesta di tornare al voto con una nuova Costituzione. È l’intera organizzazione gerarchica dalla società thailandese a essere sotto accusa, a partire da un sistema educativo che insegna obbedienza e omologazione, spegnendo i cervelli invece di accendere la curiosità. Non a caso, il collettivo che vuole una scuola nuova si chiama “Bad Student”. Ormai, all’inno nazionale prima delle lezioni, persino i quindicenni alzano le tre dita simbolo della protesta. In questo clima da “se non ora, quando?”, la coscienza politica e storica si sta diffondendo in fretta. Con le proteste di Hong Kong c’è una sorta di gemellaggio anti-dittatura. Ma ancora più destabilizzante per il regime è il parallelo con il “Partito del popolo” che nel 1932 costrinse l’allora re a porre fine alla monarchia assoluta. Le magliette con la targa commemorativa di quella rivoluzione, simbolo di un tempo di speranza poi tradito, sono tra le più vendute. Impossibile capire ora come finirà questo spirito rivoluzionario. Gli ostacoli politici, istituzionali ed economici sono enormi. Il sistema di militari e grandi famiglie che comandano il Paese, lucidando le loro credenziali di monarchici modello, ha troppo da perdere. Nessuno adora Vajiralongkorn come venerava il padre Bhumibol, il “re dei re” che ha guidato la Thailandia per sette decenni; ma rimane il sovrano a capo di una piramide da cui discendono cascate di potere di cui beneficiano in tanti, e per questo i conservatori lo difendono come se si trattasse della loro sopravvivenza. E vedendo le immagini degli insulti al re, gli sale la rabbia. Il regime finora ha tollerato con le buone, ma già i 41 arrestati in neanche 48 ore fanno capire che la pazienza si sta esaurendo. Altri giovani leader, agli albori di questa ondata di dissenso, sono stati picchiati da scagnozzi in pieno giorno e da allora sono rimasti defilati: trovare balordi a pagamento che diano una lezione a chi insulta il re non è difficile. La storia thailandese è piena di ex attivisti pro-democrazia che alla fine emigrano sconfitti, umanamente a pezzi, a volte uccisi all’estero. Ma a lungo termine, c’è aria di inizio della fine. Da una parte un re senza rapporto con la popolazione e un governo di impresentabili dinosauri. Dall’altra, una generazione di giovani che sognano una nuova Thailandia: democratica, tollerante, moderna. E che non credono più alla favola che hanno raccontato alle generazioni precedenti. Per Ying, Noey e i loro figli, chiudere gli occhi e tornare a essere sudditi obbedienti non sarà più possibile. Tra arresti e post sui social, i manifestanti thailandesi conquistano il cuore di Bangkok di Raimondo Bultrini La Repubblica, 16 ottobre 2020 Nel centro commerciale della capitale la polizia è stata circondata e costretta di nuovo ad andarsene, lasciando in mano ad almeno 20 mila persone l’incrocio più trafficato della metropoli. Ma si teme che arrivi l’ordine di risolvere la situazione prima che degeneri. Dopo la giornata del trionfo che mercoledì ha portato 100mila studenti e attivisti davanti alle porte del Palazzo governativo, travolgendo blocchi e pullman della polizia thailandese, oggi la sfida al primo ministro Prayut Chan Ocha e al re è stata rilanciata nel cuore commerciale della capitale Bangkok. La nuova vittoria - ancora una volta più o meno pacifica - ha reso nulle le leggi dello stato d’emergenza che vietavano raduni con più di 4 persone dall’alba. La polizia è stata perfino circondata e costretta di nuovo ad andarsene, lasciando in mano ad almeno 20 mila persone, tra ragazzi e gente comune, le strade e l’incrocio più trafficato della metropoli, tra Sukhumvit e Ratchaprasong. Come il giorno prima era successo tra il Monumento alla Democrazia e Phitsanulok. Unica sconfitta i quasi quaranta arresti di leader e manifestanti avvenuti negli ultimi tre giorni. Ne è stata chiesta la liberazione a squarciagola, e ben pochi tra gli irriducibili della “Gioventù libera” - che comprende universitari e ragazzi delle scuole secondarie - smetteranno di farlo presto. Anche a costo di finire a loro volta in cella. Il tam tam di un movimento che si snoda con tempismo e mobilità incredibili attraverso la metropoli passa dai vari social, aggiornati quasi 24 ore su 24 sull’andamento delle proteste. La frequenza dei messaggi e degli hashtag con parole chiave spesso offensive verso i “nemici della democrazia - il governo e sempre più apertamente il potente monarca - è così elevata che sono risultate inefficaci anche le norme dell’emergenza che vietano informazioni che “potrebbero creare paura” o “incidere sulla sicurezza nazionale” online. Ovvero potenzialmente gran parte dei messaggini e delle dirette web in cui, da palchi improvvisati, gli oratori invitano ad abbattere un intero sistema di privilegi. A partire da quelli della famiglia reale fino a burocrati, parlamentari e ministri, i tycoon e tutti i corrotti. Per questi giovani la nuova democrazia comincia anche dalle università, dove impera il bullismo dei “senior”, e dai banchi di scuola tra cui si insegna che la storia ruota attorno agli antichi sovrani del Siam, si indossano uniformi e non sono ammesse acconciature stravaganti. C’è inoltre l’obbligo di prostrarsi di fronte al corpo insegnante durante le numerose cerimonie - e talvolta anche in giorni normali. A tenere sotto estrema pressione il premier Prayut Chan Ocha, del quale sono state chieste le dimissioni fin dal primo giorno delle proteste a luglio, è la difficoltà di intervenire con la forza contro ragazzi e ragazze che hanno l’età delle sue figlie. Ma anche la sua delicata posizione di difensore allo stesso tempo della “Nazione” e dell’autorità suprema della Monarchia - i due dei pilastri della Thailandia, assieme alla religione. Ieri Prayut è stato costretto addirittura a ricevere il ministro degli esteri cinese nella sede del ministero della Difesa invece che nel suo ufficio, assediato. Voci non verificabili riferiscono delle pressioni che dal Palazzo reale giungono all’ex generale per trovare una soluzione prima che la situazione possa degenerare. A creare seria irritazione a corte è stato uno dei rari anche se significativi incidenti che si sono verificati durante il grande corteo di mercoledì, quando la Regina Sudhita, quarta moglie di Rama X, si è trovata letteralmente - e forse per un errore già costato il posto a tre capi della polizia - in mezzo a un’ala di dimostranti che le mostravano le tre dita, simbolo della ribellione nella serie Hunger Games. Costringendola a far finta di niente e rispondere salutando con la mano da dietro ai vetri. Per giunta al suo fianco era seduto il principe 15enne Dipangkorn, unico riconosciuto di cinque figli maschi e potenziale erede al trono. Evidentemente le immagini dell’“incidente” trasmesse ovunque non hanno fatto piacere a una famiglia protetta da ogni offesa con la severa legge di lesa maestà. Se finora questa non era stata mai applicata nonostante i numerosi riferimenti agli eccessivi privilegi dei reali, ieri due leader della protesta che si trovavano tra la folla attorno all’auto dorata della Regina sono stati arrestati e denunciati per questo reato, che prevede fino a 15 anni di carcere. O, nei casi più gravi, l’ergastolo. Anche uno dei principali capi del movimento, un ex studente oggi celebre avvocato dei diritti umani di nome Anom Nampa, potrebbe ricevere le stesse imputazioni dopo essere stato trasferito in elicottero da Bangkok alle carceri di Chiang Mai - città dove ha tenuto un mese fa il discorso più duro contro la monarchia, considerata “la radice di tutti i problemi della Thailandia”. Gli altri 37 circa sono per ora accusati di “sedizione”, di aver violato le norme dell’ordine pubblico e - nell’ultima retata dell’alba - la legge d’emergenza contro i raduni. Due degli arrestati sono dei personaggi ormai popolarissimi per aver letto ad agosto i celebri 10 punti con i quali si chiede la riforma dello Stato e della monarchia: Parit Chiwarak, detto Pinguino, entrato e uscito 4 volte dal carcere, e Panusaya Sithijirawattanakul, nota come Rung, al suo primo arresto. Difficile immaginare che i loro compagni lasceranno le strade senza gridare ancora “Liberate i nostri amici”, come hanno fatto ieri fino a tarda notte gli occupanti del centro di Bangkok - svuotato dei turisti per via del Covid ma non dai cittadini, che affollano le immense shopping mall di Ratchaprasong o il popolare tempietto di Erawan. Sono luoghi di svago, ma serbano anche ricordi inquietanti: l’altare dedicato alla divinità Brahma venne colpito nel 2015 da un attacco suicida che fece strage di visitatori e pellegrini, soprattutto cinesi. Il grande magazzino fu dato invece completamente alle fiamme nel 2010 durante la ritirata delle “Camicie rosse” fedeli all’ex premier esule Thaksin Shinawatra, che occuparono per settimane Ratchaprasong prima dell’intervento militare che li sgomberò. Molti tra i giovani che affollano la stessa strada non hanno certamente memoria dei fatti passati. Ma con la determinazione dimostrata finora mettono in conto anche la possibilità che, come temono i loro genitori, l’attuale patto di tolleranza possa interrompersi.