Interrogazione sulla circolare Dap revocata due giorni dopo dai vertici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 ottobre 2020 Arriva in Parlamento la vicenda rivelata da Il Dubbio sulla circolare sul 41 bis riguardante le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione da applicare in ambito penitenziario ai detenuti sottoposti a quel regime speciale. Una circolare, a firma del direttore generale Turrini Vita, clamorosamente revocato dopo appena due giorni dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Bernardo Petralia e dal vice-capo Roberto Tartaglia. Parliamo dell’interrogazione parlamentare rivolta al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e posta dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva, uno dei pochi parlamentari sempre attenti alla questione penitenziaria. Non a caso Giachetti è anche iscritto al Partito Radicale, ed è proprio Rita Bernardini - presidente dell’associazione radicale “Nessuno Tocchi Caino” - a esprimere grosse perplessità sulla revoca della circolare. “La circolare emanata - spiega Bernardini - è indice di buona amministrazione, mentre trovo censurabile il suo ritiro in quanto essa è volta al rispetto di principi costituzionali oggetto di sentenze delle corti superiori a cui l’amministrazione è tenuta ad uniformarsi”. Non solo, la dirigente radicale spiega a Il Dubbio che il Servizio Reclami giurisdizionali - dove appunto la circolare revocata ordinava alle direzioni di non rivolgersi per quanto riguarda le ordinanze scaturite dalla sentenza della Consulta - fa capo al direttore generale detenuti e trattamento. “Quindi non solo è lecita - sottolinea sempre Bernardini - ma teoricamente non si potrebbe nemmeno revocare a firma del capo del Dap visto che non è di sua competenza”. Roberto Giachetti, nell’interrogazione parlamentare rivolto al guardasigilli, spiega che il 10 ottobre il quotidiano Il Dubbio ha pubblicato un articolo in cui si dà notizia di questa, oramai “famigerata”, circolare del Dap sul 41bis. Emanata il 29 settembre 2020 a firma dal direttore generale detenuti e trattamento, Turrini Vita, com’è detto viene revocata dopo 2 giorni dal capo del Dap Bernardo Petralia e dal vice- capo Roberto Tartaglia. Sempre Giachetti spiega che la circolare aveva come oggetto i “reclami giurisdizionali (articolo 35- bis OP)” e comunicava l’orientamento assunto dai magistrati di sorveglianza a seguito dei rilevanti interventi della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione sul 41bis. Nel dettaglio, la circolare chiedeva ai direttori degli istituti di Sassari, Cuneo, L’Aquila, Novara, Parma, Spoleto, Terni, Tolmezzo, Viterbo, Milano Opera, Roma Rebibbia e ai provveditori relativi di conformare l’azione amministrativa ai princìpi e alle ordinanze di accoglimento dei reclami dei detenuti da parte della magistratura di sorveglianza in materia di cottura dei cibi (sentenza Corte costituzionale del 26 settembre 2018 n. 186), di eliminazione del divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità (sentenza Corte costituzionale del 5 maggio 2020 n. 97), di eliminazione delle limitazioni alla permanenza all’aria aperta ad una sola ora e di annullamento di sanzioni disciplinari inflitte per condotte consistenti in meri scambi di saluto tra detenuti come motivato da diverse sentenze della Cassazione. “Ad avviso dell’interrogante - dice Giachetti al ministro - la suddetta circolare è indice di buona amministrazione, mentre è censurabile la revoca della suddetta circolare da parte del capo e del vice- capo del Dap, in quanto essa è volta al rispetto di princìpi costituzionali oggetto di sentenze delle corti superiori a cui l’amministrazione è obbligata ad uniformarsi”. Chiede quindi a Bonafede “quali siano i motivi che hanno portato alla revoca della suddetta circolare e se ritenga di dover adottare provvedimenti in relazione al comportamento del dottor Bernardo Petralia e del dottor Roberto Tartaglia, che hanno disposto tale revoca”. E infine chiede “cosa intenda fare per uniformare l’azione dell’amministrazione penitenziaria ai princìpi richiamati in premessa oggetto di intervento della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione”. L’odissea di chi non dovrebbe stare in cella, ma in una Rems di Benedetta Piola Caselli* Il Dubbio, 15 ottobre 2020 Quando Valerio Guerrieri si è impiccato, avevamo giurato che non sarebbe successo mai più che un paziente psichiatrico restasse a morire in carcere. Il ragazzo, poco più che ventenne, in cura da anni, aspettava il trasferimento in Rems - un trasferimento già ordinato, ma mai arrivato per la mancanza dei posti in struttura. Aveva scritto su un biglietto: “non ce la faccio più, spero che un giorno ci rivedremo”. A chi la colpa? La sua vicenda pesa come un macigno, oggi più che mai, perché un caso analogo rischia di riproporsi. È un altro ragazzo, di qualche anno più vecchio, anche lui con malattia mentale importante, curata nel corso degli anni con alterni successi. Ha commesso un reato grave; lo ha ammesso, se lo ricorda, non sa spiegare perché l’ha fatto. Anche lui è in attesa di un posto in Rems. Voglio raccontarvi di questo ragazzo e i problemi che stiamo incontrando, nonostante il procedimento sia gestito da magistrati sensibili e competenti: la dottoressa Liso e la dottoressa Fazi. Per lui la malattia comincia con un trauma: il padre ammazza la madre a fucilate e poi cerca di togliersi la vita. Non ci riesce per l’intervento dei bambini. Finirà all’ergastolo. Non ci sono parenti prossimi che possano o vogliano soccorrere i piccini; interviene lo Stato, ma lo fa male: i fratelli vengono divisi e il nostro viene collocato in una grande struttura, dove viene dimenticato. D’altronde, in una situazione in cui è già difficile farsi vedere, lui non ha niente per essere notato: non è bello, non è intelligente, non è simpatico, non è intraprendente. Per alcuni piccoli arrivano gli affidamenti familiari, le figure di riferimento, le coccole, gli incoraggiamenti; per lui non arriva niente. Anzi, mi devo correggere. A un certo punto della sua storia, quando ha undici o dodici anni, una famiglia chiede di lui. Gli operatori la sconsigliano: “ha qualcosa che non va”; ma loro insistono. È proprio lui, il bambino, che rifiuta. Vuole che al suo posto vada la sorella: “lei” dice “è più debole e ne ha più bisogno”. Credo a questa storia per il modo in cui me l’ha raccontata. Ci credo anche per un’altra ragione, relativa ad un’altra vicenda, avvenuta molti anni dopo, quando ormai si trova in comunità psichiatrica. Una paziente si lancia dalla finestra e muore - un atto improvviso, inaspettato, perché sembrava ben compensata. Nella confusione, un giovane operatore rimane accanto alla finestra, in completo stato di choc. Il ragazzo va lì, lo tocca leggermente per un braccio e - considerate che in quell’epoca non parlava mai gli dice: “la vuoi una sigaretta?”; poi, trascinandolo piano piano, lo allontana dalla finestra. Questa scena - il paziente che teme per l’operatore, che si immagina chissà? Che si voglia buttare anche lui, ma che comunque ne percepisce la fragilità e interviene - mi è sempre sembrata una delle più belle prove della meraviglia dell’animo umano. Ancora oggi questo operatore è la figura di riferimento del ragazzo; l’unica persona che può avvicinarlo nei momenti di crisi; la figura parentale che non ha mai avuto. In comunità, il ragazzo era andato rifiorendo. Ben curato, indirizzato, aveva cominciato ad aiutare gli altri pazienti. Sembrava avere raggiunto un equilibrio duraturo. Poi il personale nella struttura è cambiato, e il ragazzo ha deciso di uscire e tentare una vita indipendente - d’altronde, in assenza di un provvedimento coercitivo, era normale che lo facesse. Per un po’ la cosa è andata bene, anche se è stato un percorso faticoso e altalenante. Sotto farmaci e trattamento psichiatrico, riusciva a trovare lavoro e regolarizzare la sua situazione; nel momento in cui si sentiva bene e li abbandonava, arrivava il crollo e veniva risucchiato dalla strada. Nonostante tutto e grazie al cielo, è riuscito a mantenere nel tempo delle relazioni con le persone che ha incontrato sul suo percorso. Ho in mente due scene. Una domenica a casa mia, dove era venuto per pranzo e si era presentato con una sorta di candeliere, dicendo tutto contento: “Ti ho portato un regalo! L’ho trovato nella spazzatura!”. Una notte d’inverno, tipo le 2.00 a.m., telefonata del suo operatore: lo andava a cercare sotto i ponti, perché lo credeva in preda a pensieri paranoici e aveva paura di atti autolesivi (aveva ragione). La sua situazione mentale è andata progressivamente deteriorandosi. Non ha più preso i farmaci. Il lockdown ha dato il colpo di grazia. Giudicare il disagio mentale è molto difficile. Anche assumere un atteggiamento equilibrato, lo è: in assenza di posti in strutture adatte, diventa molto complicato bilanciare le esigenze di sicurezza della collettività con la tutela della fragilità. I posti in Rems non ci sono: secondo Antigone, i detenuti incompatibili con il carcere che aspettano di essere trasferiti sono 13 solo a Regina Coeli. Il Dap, informalmente, prospetta un’attesa di oltre un anno. Che fare? Per il nostro ragazzo, le primissime settimane in carcere sono state positive, con una stabilizzazione dell’umore grazie alla corretta (e coatta) assunzione dei farmaci. Ma la situazione, che sembrava stabile, è improvvisamente peggiorata. Pochi giorni fa, a colloquio con me - sono anche io una figura semi- parentale -, non parlava, rispondeva poco agli stimoli ed era giallo come un limone. A un certo punto si è piegato in due, ha detto che stava male, ha sbattuto la testa sul tavolo. Ho dovuto chiamare i soccorsi. Il suo operatore psichiatrico, autorizzato in urgenza da Gip e Pm, ha trovato una situazione molto compromessa e una regressione psicofisica importante. È come se si fosse rotto un filo; un filo che lo teneva insieme. Siamo preoccupati: non vogliamo un secondo Valerio. In questa situazione, il carcere sembra fare ogni possibile difficoltà per impedire l’ingresso dell’operatore psichiatrico e dello psichiatra curante. Sono difficoltà che si risolvono solo dopo interminabili querelle, ed in genere basate sul nulla. Si perdono ore a cercare di capire quale è la procedura corretta per fare entrare dei supporti tecnici per un detenuto non formalmente in carico a nessuna Comunità: ogni volta viene cambiata, e non esistono regole chiare e pubbliche a cui fare riferimento. Guardate, ad esempio, cosa è successo in questo caso: 8 luglio 2020: lo psichiatra curante si reca con autorizzazione d’urgenza del giudice a Regina Coeli. Non lo fanno entrare, serve l’appuntamento. Non importa che il giudice abbia sottolineato l’urgenza, dato il possibile pericolo di atti autolesivi: ci viene risposto “non mi interessa cosa dice il giudice”. La mia collaboratrice (che ho mandato per accompagnare lo psichiatra) non riesce a parlare né con un dirigente né con la Direzione. 9,10 luglio 2020: Dopo infinite lotte per prendere l’appuntamento (in media 1 ora per attendere che qualcuno risponda e 25 minuti e 3 persone diverse per capire se serve e se possono dare l’appuntamento), la mia collaboratrice finalmente riesce a fissare la visita. 13 luglio 2020: c’è l’appuntamento, c’è l’autorizzazione. Ma lo psichiatra non può entrare. Perché? Prima perché la polizia penitenziaria afferma di non aver ricevuto l’autorizzazione dalla cancelleria; poi - dimostrato l’invio e l’arrivo in matricola - perché la polizia penitenziaria ritiene che l’autorizzazione autografa del giudice, scritta a penna sulla richiesta e trasmessa dalla cancelleria, non sia valida: la cancelleria avrebbe dovuto trasmettere con atto separato, ridigitandolo. Ancora una volta non è possibile ottenere il nome della persona con cui si parla. Mi precipito a Regina Coeli lancia in resta. La situazione si risolve: lo psichiatra può entrare. Il ragazzo gli dice di farmi gli auguri: non ci pensavo più, ma è il giorno del mio compleanno. Lui, invece, non si scorda mai una data. Il giudice aveva disposto che entrasse anche l’operatore che è il vero e unico riferimento affettivo. Non lo fanno entrare: “uno basta”. Siamo troppo stanchi dopo 2 ore di battaglia, e lasciamo perdere. 4 agosto 2020: c’è l’autorizzazione del giudice. Serve l’appuntamento. Non lo vogliono dare, perché il numero è quello dei colloqui famiglia e dicono che l’operatore psichiatrico non è un familiare (ma anche a luglio era lo stesso, e lì l’avevano dato). La collaboratrice passa mezz’ora a chiamare tutti i vertici del carcere. Ottiene di poter prendere l’appuntamento, Lo chiede per il 10 agosto (data di disponibilità del professionista). Risposta: non abbiamo l’agenda per il 10 agosto, e non possiamo farla. Deve richiamare. 7 agosto 2020: non può prendere l’appuntamento, perché questo è il numero dei colloqui famiglia. Dove deve prenderlo? “Chiami l’ufficio magistrati” (!). Ovviamente non risponde nessuno. 8 agosto 2020: devo nuovamente correre a Regina Coeli, ormai pronta allo scontro fisico. Dopo il solito balletto della cancelliera che non ha mandato l’autorizzazione (e invece c’è) l’operatore entra: “non importa, non serve alcun appuntamento ma attenzione perché le regole cambieranno”. 5 ottobre 2020: la collaboratrice chiama al centralino principale di Regina Coeli, per chiedere SE ed eventualmente a CHI deve essere chiesto l’appuntamento. Dopo 25 minuti per spiegare che l’operatore psichiatrico è esterno e che il giudice lo ha autorizzato in via d’urgenza per il deterioramento delle condizioni psicofisiche, viene risposto che l’appuntamento non serve più. 9 ottobre 2020: l’operatore psichiatrico non viene fatto entrare. La solita storia. Nuovamente, la situazione si sblocca quando mi precipito lì, pronta a fare denuncia e chiamare il Garante per i detenuti. Non è colpa del carcere se i detenuti incompatibili restano lì, in attesa del posto in Rems. Ma è gravissimo il contesto in cui è gestita questa emergenza. Le negligenze amministrative, ripetute, insanate, insensate, sono veri e propri abusi che pagano i detenuti più deboli. L’avvocato, l’operatore, lo psichiatra, la praticante al massimo perdono tempo. Il detenuto perde la salute, la speranza, la fiducia nelle istituzioni. Tre cose possono essere fatte per tamponare l’emergenza: 1) È necessario che le direzioni delle carceri favoriscano i colloqui e gli scambi dei soggetti vulnerabili con il personale autorizzato dal giudice, rendendo pubbliche, chiare e certe le regole per i colloqui. È gravissimo che questo non sia fatto, specialmente alla luce del tasso di suicidi. 2) È necessario che le istituzioni individuino i centri alternativi per la custodia dei soggetti a rischio - ad esempio le comunità terapeutiche - per la collocazione provvisoria fino alla liberazione del posto in Rems. 3) E necessario che i giudici autorizzino la custodia presso le comunità, in attesa della collocazione in Rems, se ci sia possibilità di grave pregiudizio alla salute. Queste cose impongono, certamente, uno sforzo di verifica, di organizzazione ed economico non indifferente: tuttavia, sono indispensabili per garantire la salute (e forse il recupero) dei detenuti con problemi psichiatrici. *Avvocata Imam nelle carceri, Conferenza islamica firma accordo con Ministero Giustizia ansa.it, 15 ottobre 2020 La CII firma l’accordo con il Dap-Ministero della giustizia. L’accordo firmato con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, rappresenta un ulteriore, significativo passo verso l’integrazione ed il dialogo interreligioso, riconoscendo al cittadino di fede islamica piena dignità anche in una situazione obiettivamente difficile come quella carceraria, “Siamo molto orgogliosi di questo importante accordo” afferma il Presidente, Mustapha Hajraoui “che consente alla CII articolata sull’intero territorio nazionale, di poter proporre murshidat e imam in tutti gli istituti penitenziari d’Italia”. L’accordo, che nei giorni scorsi era stato già preannunciato dal Ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, rappresenta un altro decisivo passo nel quadro dell’impegno di responsabilità e di concretezza assunto dalla CII, rivolto a migliorare l’offerta di opportunità per l’esercizio della libertà religiosa alle detenute e ai detenuti di fede islamica. Il protocollo d’intesa stipulato con il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dal dott. Bernardo Petralia, e insieme, dalla CII e dal Centro Islamico Culturale d’Italia - Grande Moschea di Roma unico ente islamico riconosciuto dallo Stato italiano, va inquadrato nell’impegno di collaborazione assunto dalle due organizzazioni islamiche per la formazione degli imam e avverso il preoccupante fenomeno del radicalismo. L’accordo per poter garantire l’assistenza spirituale e religiosa ai detenuti, si inserisce nel quadro di un percorso di reinserimento nella società civile, ai sensi dell’Art. 27 della Costituzione della Repubblica, e disciplinata dalla legge n. 345 del 1975 e del Dpr n. 230 del 2000 - Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. In tema, proprio l’art. 1 dell’ordinamento penitenziario stabilisce che il “trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e credenze religiose […]” “La procedura prevede nel dettaglio”, ha spiegato il segretario generale, Abdallah Cozzolino “che la CII fornisca alla direzione generale dei detenuti un elenco di nominativi di imam che dovranno ricevere il nulla osta dalla Direzione Centrale degli Affari dei Culti dell’Interno. La lista dei nominativi dovrà contenere indicazioni della Moschea ove ogni imam esercita stabilmente l’attività di culto, nonché la scelta della provincia, in numero massimo di 3, nell’ambito della quale gli imam intendano prestare la propria assistenza” Nonostante la mancanza di un’intesa con le comunità islamiche e l’assenza di una legge generale sulla libertà religiosa, l’impegno della CII è orientato nella tutela dei diritti fondamentali attraverso le opportune forme di collaborazione con le Istituzioni. “Intendo rivolgere il mio ringraziamento al Ministro Bonafede”, ha aggiunto il presidente “e a tutti i funzionari e dirigenti del Dap, per la fiducia che ci hanno accordato con la firma del Protocollo. Queste sono le testimonianze concrete e tangibili di come l’intero Governo sostenga il percorso di collaborazione e integrazione fra le associazioni islamiche e lo Stato”. I detenuti stranieri potranno aprire un conto corrente di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 ottobre 2020 Apparentemente un piccolo successo, ma nei fatti è di grandi dimensioni perché si è aperta la possibilità ai detenuti stranieri, privi di permesso di soggiorno, di poter aprire un conto corrente su cui accreditare la retribuzione percepita dal lavoro. Sì, perché si tratta di una criticità non da poco quella dell’impossibilità per le persone straniere in esecuzione penale esterna, prive di permesso di soggiorno, di aprire un conto corrente. Com’è noto, l’ammissione alla misura alternativa consente loro di lavorare e percepire regolare stipendio in quanto il provvedimento di esecuzione dell’autorità giudiziaria sostituisce il permesso di soggiorno. Ma tale ammissione non consente loro di essere titolari di un conto corrente che è una condizione, per legge, a cui è subordinato l’accreditamento dello stipendio da parte dei datori di lavoro. Un problema, quest’ultimo, che diventa di fatto un ostacolo agli stranieri di per potere accedere al lavoro e quindi, di conseguenza, anche alle misure alternative alla detenzione. Ma tutto si è risolto soprattutto grazie a Lucia Castellano, direttrice Generale per l’Esecuzione Penale Esterna e di messa alla prova (Uepe), in sinergia con Stefano Anastasìa, in qualità di garante dei detenuti della regione Umbria. È infatti accaduto che a quest’ultimo è arrivata una richiesta di parere da parte dell’Uepe di Terni, per superare appunto le limitazioni poste dagli enti creditizi all’apertura del conto necessario alla stipula del contratto di lavoro. Formulato il parere ben argomentato e interessata la Direzione generale dell’esecuzione penale esterna, ne è venuta una interlocuzione della direttrice Castellano con Abi e Poste italiane che ha portato al superamento di questa importante criticità. In sintesi la direttrice del Uepe è riuscita a raggiungere una intesa con entrambi. In che modo? Ad esempio l’Abi si è impegnata a predisporre una lettera circolare per gli Associati al fine di segnalare quanto esplicitato dalla Castellano. In entrambi i casi, è necessario - da parte delle direzioni dei singoli Uepe - il rilascio all’utente di un documento che attesti l’ammissione a una misura alternativa alla detenzione, permettendo così l’apertura del conto corrente bancario o postale. Tale documento dovrà essere esibito, unitamente al documento d’identità, alla filiale della banca o dell’ufficio postale, da parte dello straniero. Per le ipotesi in cui lo straniero sia sprovvisto anche del passaporto o altro documento che ne consenta l’identificazione, il dipartimento ha interessato il ministero degli interni per verificare la possibilità di rilascio del permesso di soggiorno temporaneo per motivi di giustizia. In questo modo i detenuti stranieri possono finalmente aprire un conto corrente senza problemi, al fine di poter lavorare e quindi accedere all’esecuzione penale esterna. Il solo modo per poter attuare in pieno l’articolo 27 dove dice espressamente che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Garantisce di conseguenza l’abbattimento della recidiva, ma anche la pari dignità sociale. La provocazione di Chef Rubio: “Carceri gay friendly” di Roberta Caiano Il Riformista, 15 ottobre 2020 “C’è discriminazione totale priva di qualsiasi umanità”. “La sessualità in carcere è solo la punta dell’iceberg di un sistema carcerario da riformare. Oggi il carcere è diventato un luogo volto a punire più che a rieducare”. Provocatore, senza peli sulla lingua ma soprattutto un lottatore per i diritti dell’uomo in tutte le sue forme. Chef Rubio, all’anagrafe Gabriele Rubini, è un ex rugbista, cuoco e attivista contro le ingiustizie spesso al centro delle polemiche per le sue esternazioni di sfida nei confronti degli argomenti più spinosi. L’ultima riguarda un suo messaggio su Twitter in cui ha definito il carcere un luogo “gay friendly”. Nello specifico, il suo tweet poneva sotto una lente di ingrandimento il grande problema delle carceri italiane e di come “le sfere su cui agisce la deprivazione carceraria sono l’autonomia, l’affettività, i beni materiali, la sicurezza personale e i rapporti eterosessuali. Vietati i rapporti eterosessuali e sostituiti di fatto con quelli omosessuali, si può dire che il carcere è gay friendly?”. Apriti cielo. È bastato l’accostamento tra carcere, discriminazioni e omosessualità per sollevare un polverone mediatico. Anche se è esattamente ciò che Rubio voleva, come spiega al Riformista. Dopo il tuo messaggio in cui definito il carcere come un luogo “gay friendly”, hai ricevuto molte critiche e molti attacchi soprattutto dalla comunità Lgbt. La tua provocazione quindi è arrivata… C’è stata una reazione isterica al mio tweet. La definizione di ‘gay friendly’ dovrebbe essere inteso anche come un luogo, in questo caso specifico il carcere, che accoglie i gay. Ho posto la questione in maniera provocatoria di proposito, altrimenti non avrei ricevuto il polverone che poi si è effettivamente alzato perché non è il primo tweet che faccio sulla situazione carceraria e a favore dei detenuti. L’ho usata volutamente in maniera parziale affinché si potesse porre l’attenzione su un problema che non riguarda solo la sessualità ma lo schifo della situazione carceraria italiana e mondiale. Dire che il carcere non accoglie le relazioni omosessuali è sbagliato, come lo è dire che non le discrimina. Se avessero letto con attenzione, le persone che si sono scatenate solo su una parte del messaggio avrebbero colto che il punto che cercavo di centrare era riferito alle sfere su cui agisce la deprivazione carceraria quali l’autonomia, l’affettività, i beni materiali, la sicurezza personale e i rapporti eterosessuali. E invece si sono attaccati alla parola “gay friendly”. Insomma, ne stiamo parlando della cosa quindi mi sembra che il tweet sia andato a buon segno altrimenti non ci sarebbero state delle isteriche risposte da parte di persone “arcobalenate” che sono spuntate come funghi solo in questa occasione. Mi chiedo dove fossero quando non toccavo il nervo scoperto dell’omosessualità. Nel mio tweet le persone omosessuali non c’entravano nulla, se non l’utilizzo dell’argomento per porre l’attenzione su un problema che è molto più ampio. Le analisi fatte dalle persone omosessuali che si sono sentite toccate nel profondo sono state quanto più sbagliate, leggere, egoriferite e poco solidali alla causa carceraria. Come faccio con tutte le esternazioni che mi contestano essere troppo forti, sono semplicemente dei trabocchetti dove voglio far cadere le persone. Anche in questo caso, sono riuscito con un discorso più largo a tirare dentro delle persone le quali, andando a spulciare nei loro profili, non avevano mai menzionato nulla al di fuori della loro battaglia, giustissima, contro le discriminazioni Lgbt. Ma vorrei che questi utenti si facessero un esame di coscienza perché io, al contrario di molti di loro, lotto e combatto per tutte le ingiustizie. Quindi questo mini-scandalo sulla mia esternazione lascia il tempo che trova. Il tweet ha senza dubbio colpito nel segno. Infatti sei stato definito omofobo per questa tua esternazione… Capirai, sono anni che me ne dicono di ogni anche su questo argomento. Nichi Vendola, ad esempio, non fa altro che mettere like ad ogni mio tweet. Insomma, le cose sono due: o è poco gay lui o sono poco omofobo io. In carcere, finché non mi è stato impedito l’accesso, ci sono entrato decine e decine di volte. Sono stato nel carcere romano di Rebibbia, a Torino, a Bologna e in tante altre carceri italiane e mondiali, come il carcere di Al Tiba a Gaza. Sfido queste persone che digitano istericamente ad avere una loro certa risposta all’interno delle carceri non da detenuti, non da parenti ma da persone che entrano a fare dei percorsi. Io ci sono entrato e ci rientrerò quando mi ridaranno il permesso. Il tema delle carceri lo conosco molto bene non solo perché ho vissuto quegli ambienti, ma perché ci studio, ci lavoro. Sono diversi i libri e i toni accademici che ho letto, che leggo e che consiglio con molto piacere. Tra tutti consiglierei Punire, Farsi la galera, Correvo pensando ad Anna, Fine pena ora, I duri, La casa del nulla e sono soltanto alcuni. Le persone prima di criticare dovrebbero studiare ed entrare nelle carceri invece di scrivere su Twitter e basta. Leggere dei testi su questo argomento permette di uscire da questa sorta di voluta provocazione perché all’interno di queste opere letterarie, che io considero dei capolavori, c’è scritto che il problema principale all’interno delle carceri è l’impedimento di qualsiasi tipo di approccio amoroso con l’esterno. Non dico delle eresie se affermo che un detenuto o una detenuta non può fare sesso con il proprio o la propria compagna, perché non c’è questa possibilità. Non si può fare neanche del sesso mercenario, che sarebbe la cosa più sana del mondo. Ci sono delle realtà in altre carceri del mondo in cui è possibile avere delle operatrici o operatori sessuali. In Spagna, ad esempio, come mi hanno raccontato molti ragazzi che ho conosciuto a Rebibbia quando ho organizzato dei progetti formativi e inclusivi nel carcere, c’è l’opportunità di avere a disposizione delle “love room”, ovvero degli spazi per la cura degli affetti dove si possono appunto consumare dei rapporti sessuali. Ti porto un esempio: se sei eterosessuale, in caso di lunghe condanne, nel corso degli anni dove non puoi praticare attività sessuali che non siano l’autoerotismo, automaticamente si entra in una deprivazione più totale della tua vita, del tuo passato e ti reinventi. Questo è testimoniato da sociologi, antropologi, attivisti detenuti. Non lo dico io, ma mi sono attenuto a ciò che ho studiato e ho lanciato volutamente il sasso perché sapevo che se non avessi tirato in ballo la componente omosessuale il mio messaggio sarebbe rimasto lì, con i pochi like che raccoglie un tema scottante come il carcere. Il tuo intento era metterli insieme forse anche come banco di prova per vedere quali dei due temi spinosi avrebbe attirato più attenzione… Sul tema carcere di questi paladini dell’omosessualità non ho visto nessun tweet a favore dei 13 morti ammazzati dallo Stato nelle rivolte delle carceri a marzo. Io sono in contatto con i parenti, aiuto come posso, e questo significa che le persone fanno le crociate solo per quello che gli pare e quando gli pare. E non si deve sentenziare come si espone un problema, perché è una strategia mia fare da eco in questo modo. Se gli utenti che incappano in un mio messaggio notano qualcosa di strano, invece di aggredire dovrebbero chiedermi per quale motivo scrivo determinate cose e avrebbero ricevuto delle risposte piuttosto che concentrarsi sulla parola “gay friendly”, usata come esca e sono tutti caduti come pere. Per me la cosa grave è che il sistema carcerario in generale è sbagliato. Che poi all’interno delle carceri le persone omosessuali siano discriminate sì, ma anche no. Perché non è automatico che se sei omosessuale sei ovunque ghettizzato. Non mi concentrerei su un fattore di orientamento sessuale quando si tratta di umani. Il fatto che nessuno sappia e che neanche loro sapevano che una persona facendosi lunghi anni di carcere e non potendo avere rapporti con la propria compagna o con una prostituta o con un’operatrice del sesso, con qualunque sostantivo la vogliamo chiamare, alla fine cede ad assecondare le proprie esigenze con gli altri detenuti. Credo sia un problema che vale la pena evidenziare e non vedo perché non parlarne. Non è detto che da persona eterosessuale il detenuto ne esca poi omosessuale, è uno stigma. E se diventa tale, si è più bigotti di quelli che si cerca di combattere. Le persone che mi hanno accusato dopo i miei tweet andassero a rivedere ciò che ho scritto sull’omosessualità e sulla sessualità in generale, l’argomento centrale infatti è anche l’eterosessualità. Che non fagocitino le parole solo perché le problematiche all’esterno del carcere sono ovviamente più predominanti su una criticità dei diritti dell’omosessualità, dei trans, delle lesbiche che rispetto e che supporto. Non banalizziamo tutto in questa maniera, altrimenti non arriveremo mai al vero problema se si concentra tutto sul termine “gay friendly”. In quest’ottica il libro “Sesso nelle carceri italiane” riporta dei dati precisi secondo cui il 70-80% dei detenuti si presterebbe a pratiche omosessuali e soltanto il 10 % rinuncerebbe per scrupoli morali e sentimentali Ovvio, non bisogna neanche stupirsi. Se poi sei omosessuale e ti stranisci che io dica che all’interno delle carceri per ovvie ragioni prima o poi ci si presta a pratiche omosessuali, chiediti come farebbero a dare adito alle loro esigenze sessuali. Nelle carceri fanno entrare psicofarmaci di nascosto, entra la droga e non entra l’amore? Non può entrare la cosa più sana del mondo come il sesso? Anche in questo l’Italia si conferma come uno dei Paesi più bigotti. Ancora si grida allo scandalo se in altri paesi i detenuti hanno del tempo dedicato per avere anche rapporti coniugali, gente riesce a fare figli nelle carceri e noi che facciamo entrare di tutto non permettiamo di concedere beni affettivi. Sfido chiunque, compreso il più macho del mondo a farsi 10 anni di carcere e a non assecondare questa esigenza. Fare l’amore è come mangiare, dormire, è un’esigenza naturale. La gente parla senza sapere, senza studiare, senza fare. Bisogna fare nella vita. Andassero nelle carceri che c’è tanto bisogno di umanità e di rendere più dignitosa un’esistenza vergognosa fatta di privazioni. L’omosessualità non è una problematica ma lo è la privazione della natura sessuale con cui uno si trova a proprio agio. Hanno gli stessi diritti. Pensa te, i detenuti si fanno andare bene anche l’omosessualità senza discriminazione pur essendo eterosessuali. Quindi non c’è una discriminazione di genere e di orientamento sessuale, ma una discriminazione totale privo di qualsiasi fondamento di umanità. Quindi in questo senso il carcere “gay friendly” è inteso come uno spazio che accoglie senza distinzione, ma discrimina chiunque a partire proprio dalla sfera della sessualità? Esatto. Il carcere è un luogo che accoglie omosessuali, ma la discriminazione avviene per gli omosessuali tanto quanto per gli eterosessuali, gli arabi, le persone del Sud se sono recluse nelle carceri del Nord. Insomma, le discriminazioni non hanno genere all’interno delle carceri. Questa è la dimostrazione di quanto siamo poveri e ci rifugiamo in fazioni: chi lotta per la donna è solo per la donna, chi lotta per gli omosessuali è solo per gli omosessuali. Non c’è mai una coesione: sono poche le volte in cui ho notato una coesione nelle lotte alle ingiustizie. È un dato di fatto ciò che ho sollecitato. Ho riportato delle dichiarazioni e degli studi di accademici e studiosi che hanno studiato il tema delle carceri per e da almeno 30 anni. Personalmente nelle carceri ho creato dei progetti inclusivi in cui è stato persino vietato alle persone transessuali di poter accedere ai miei corsi e ai miei incontri. All’interno del carcere di Rebibbia, infatti, ci sono delle persone transessuali e purtroppo per la giustizia italiana vengono discriminati e non possono prendere parte ai progetti. Vivono in una sezione separata, non sono insieme agli altri detenuti e fanno poche attività sempre monitorate. Nei miei corsi, ad esempio, non ho potuto avere due ragazze trans che avevo visto passare nei corridoi mentre tenevo un incontro. Ho richiesto che facessero lezione con me, ne avrei avuto piacere, ma le guardie carcerarie hanno detto che loro non potevano partecipare, senza una reale giustificazione. Era ovvio che di fondo c’era una discriminazione. Anche se, il punto nevralgico, è che le discriminazioni non riguardano solo le persone omosessuali ma tutti, indistintamente. Dal carcere Dozza di Bologna passando a La Spezia fino al carcere Vallette di Torino, hai sempre messo a disposizione la tua arte e la tua sensibilità come persona. I tuoi progetti hanno avuto un seguito? Abbiamo parlato di ciò che succede dentro ma ciò che succede fuori, appena i detenuti escono dal carcere, è ancora peggio se così si può dire. I miei progetti, ad esempio, sono stati percorsi a ostacoli. In quelli di cucina non potevano entrare gli ingredienti che chiedevo e non potevamo usare la strumentazione perché ritenuta pericolosa. A volte c’erano ostracismi da parte dei direttori delle varie carceri in cui sono stato, ai quali non interessavano a fondo le proposte che provenivano dall’esterno ed era svilente. Sono rimasto deluso dall’approccio al lavoro e al rispetto soprattutto nei confronti dei ragazzi. La percezione della gente, la percezione delle reali opportunità che sono fatte di abbandono sono mancanze gravissime da parte dello Stato. La sessualità è quindi solo la punta dell’iceberg di un sistema carcerario sbagliato che va riformato. Magari non è il problema principale, ma è sicuramente quello che renderebbe il detenuto una persona meno sola, più attiva, meno incline all’autolesionismo, più partecipe. Non tutti i detenuti possono lavorare, ma solo i raccomandati o chi fa un favore ad un altro carcerato o entra nelle grazie del responsabile. Anche se il vero lavoro deve avvenire una volta fuori dal carcere. Tra le mura della prigione è come se lavorassero in un limbo, ma in realtà hanno fatto parte solo di una catena di montaggio e non sanno come ci si rapporta una volta liberi. È un lavoro che va fatto sia dentro che fuori. I progetti sono illusori perché li mettono nella condizione di sognare, ma basta una nota di demerito e li cancellano dalle varie attività. Privano il detenuto dei corsi, dei progetti ed è estremamente devastante a livello psicologico la labilità con cui entrano ed escono in situazioni che non fanno il bene della persona che si ritrova così a vivere nell’incertezza ogni giorno. Se si innamora di qualcosa, sa che il giorno successivo possono negargliela o, come è successo nel mio caso a Rebibbia, non mi hanno più trovato di punto in bianco. A cosa ti riferisci? L’avventura più bella che mi hanno tolto da un giorno all’altro è stato il progetto Numb-Herz a Rebibbia, i cui corsi erano incentrati sulla lettura di classici greci con interpretazione dei personaggi e ne discutevamo facendo dei parallelismi con il presente. Fortunatamente riesco a stare in contatto con i ragazzi ma per loro è stata una mazzata devastante, si era creato un rapporto meraviglioso. La vicenda risale ad ottobre dello scorso anno, quando ho criticato il sistema per aver messo in pericolo la vita dei due poliziotti uccisi nel corso di una sparatoria in una questura a Trieste. Qualcuno dall’alto ha deciso che non potevo più entrare in carcere e mi hanno sospeso da qualsiasi tipo di attività senza alcuna motivazione ufficiale. Come mai ti batti così tanto per le carceri? Non ho studiato sociologia, antropologia o sociologia, ma posso affermare di aver studiato tanto quanto una persona che ha fatto un percorso di studi accademici. Mi interessa l’uomo a 360 gradi, che si tratti di cucina, fotografia, documentaristica, di carcere. Insomma, mi interesso dei diritti dell’uomo e non sopporto le ingiustizie. Non ho nessun carico pendente, ho la fedina penale pulita, non ho mai fatto atti criminosi eppure ho sentito che dovevo entrare all’interno delle carceri per comprendere per quale motivo tante cose non mi tornavano. Non sono un genio, non sono un santo. Semplicemente mi sono messo in discussione e sentivo che avrei trovato più umanità dentro un carcere che fuori. E così è stato. Il 99% delle volte i carcerati sono delle persone veramente sensibili, vittime di un sistema sociale e la colpa è nostra che non facciamo più lotta di classe e lotta sociale. Il sistema siamo noi. Si riduce il carcerato ad una figura mitologica e non ad un essere vivente. L’idea dei media e dei politici è di demonizzare, criminalizzare, stigmatizzare la figura del carcerato così che si giustifichi anche una lunga detenzione. Quanti ragazzi o ragazze sono in carcere in attesa di giudizio magari per una banalità. Si sta andando sempre di più verso una carcerazione facile, una pena più lunga figlia di una cultura giustizialista. Si dovrebbero educare le persone e i ragazzi partendo dalla scuola. Dalle medie ai licei, bisognerebbe che i ragazzi entrassero all’interno delle carceri per capire come funzionano, cosa accade tra quelle quattro mura e cercare di umanizzarli. È più facile criminalizzare e quindi allontanare piuttosto che unire e comprendere. Le persone non spenderanno mai del tempo a favore di un potenziale sé stesso o un potenziale parente che per un errore potrebbe finire tra le sbarre. Finché una situazione non si tocca da vicino, difficilmente le persone si mettono in discussione. Ma partire dai ragazzi e dall’educazione verso il prossimo e dalla lotta contro le ingiustizie sarebbe un primo importante passo. A proposito di diritti dell’uomo, conosci Ilaria Cucchi? Cosa pensi di lei? Conosco Ilaria Cucchi, è una guerriera. Ho solo parole di elogio e affetto nei suoi confronti. Se ci sono delle ingiustizie, se di deve sopportare la gogna cameratesca e fascista delle sfere alte che cercano di allontanare e tacitare le forze dell’ordine dal popolo piuttosto che avvicinarle, dovrebbero battersi tutti come lei. Ilaria ha fatto grandi cose insieme a Fabio Anselmi (suo avvocato e compagno, ndr) e ha avuto anche noi, che come attivisti e sostenitori le abbiamo dato una grande mano nel combattere prima ancora che il caso Cucchi avesse una risonanza mediatica. Purtroppo il percorso non può dirsi concluso perché non c’è mai fine alle manomissioni, agli occultamenti e ai sabotaggi. Però ha fatto bene, sta facendo bene e sono sicuro continuerà a fare bene. Chi si è battuto molto per i diritti dei detenuti è Marco Pannella, i cui scioperi della fame per il miglioramento delle condizioni delle carceri sono ormai diventati un caposaldo. Tu lo hai conosciuto, che ricordo hai di lui? Ho conosciuto Pannella nel 2012. Abbiamo fatto diverse chiacchierate, interviste, avevamo anche una serie di progetti ma poi è venuto a mancare poco tempo dopo. Quando l’ho conosciuto era ormai stanco, ma nutro un rispetto e un affetto per l’uomo che vanno oltre il dispiacere degli ultimi tempi per le sue prese di posizione. Negli anni è diventato filo-sionista quindi potrebbe non piacermi questa cosa di lui, ma se lo inquadro in un’ottica generale non posso permettermi nemmeno di sentenziare su quello che ha fatto come persona. A netto del dispiacere che ho avuto quando ha cominciato a spendere parole di elogio per Israele, nel complesso per quello che riguarda il suo essere uomo e il suo schieramento dalla parte dei giusti non è sindacabile e neanche da mettere in discussione. Se tutti quanti facessero un decimo della vita che ha fatto Pannella forse vivremmo in un mondo migliore. Anche se, per quanto fosse diventato un simbolo per la lotta a favore dei diritti dei detenuti con i suoi digiuni, credo che purtroppo nessuno sia riuscito a fare abbastanza per le carceri. Penso, ad esempio, al libro Correvo pensando ad Anna, in cui si descrive la realtà carceraria degli anni 70’-80’ e mi rendo conto che c’era lo stesso schifo di oggi, anche se in una maniera diversa. Cosa ne pensi del ministro della giustizia Alfonso Bonafede? Non conosco Bonafede personalmente, ma credo che lui come tanti altri dovrebbe fare altri percorsi. Il ministro dovrebbe entrare in carcere e non far vedere solo le aree o i bracci che hanno riverniciato appositamente per dimostrare le condizioni in cui versavano le carceri italiane. Sarebbe giusto e utile se entrasse nelle prigioni con il cartellino due volte a settimana per sentire i racconti dei detenuti. Non ha la benché minima idea di come sia un carcere, di come le persone all’interno del carcere vengano trattate e dovrebbe spenderci del tempo da visitatore, partecipante e ascoltatore e non come entità dello Stato. Dei 13 morti durante l’emergenza Covid non se n’è più parlato, né lui si è mai degnato di porre l’accento su questo problema. Anche se a dirla tutta, quando mai un politico proferisce parola su qualcosa di sconveniente. Se si schiera contro le forze dell’ordine, il sistema giudiziario e il sistema carcerario è finito. Nessun politico lo farà mai. Non è lui la causa del male, Bonafede è solo una pedina. La dura vita nei tribunali nell’era post lockdown di Simona Musco Il Dubbio, 15 ottobre 2020 Cancellerie ingolfate, tecnologia sottoutilizzata, lunghe file e caos assembramenti: la ripresa vista dagli avvocati. File interminabili. Strumenti telematici che non funzionano o che non sono in grado di risolvere i problemi. Cancellerie non operative al 100% e regole incerte. La fase di ripresa post lockdown nei tribunali è un rompicapo. Con una situazione certamente migliore rispetto al periodo di blocco imposto dall’emergenza Covid, ma tale da non consentire un’effettiva ripartenza della macchina della Giustizia. I tribunali di Milano, Roma e Napoli ne sono un esempio: la difficoltà principale, a sentire i presidenti dei rispettivi Coa, hanno a che fare proprio con l’attività di cancelleria, che necessariamente blocca e condiziona tutto il lavoro degli avvocati. E anche se “la situazione è quasi normale”, come spiega Giuseppe Belcastro, responsabile dell’Osservatorio dati Ucpi, “i ritmi non sono quelli di prima”. Le udienze, bene o male, sono riprese. Ma alle cancellerie “si accede ancora tramite e-mail - spiega Belcastro, che sta raccogliendo le segnalazioni dalle Camere penali di tutta Italia. Il nostro lavoro non è sempre programmabile: a volte devi controllare un fascicolo e scappare a fare altro, cose che attualmente sono una chimera. Per farlo, ora, bisogna mandare una pec, prendere un appuntamento, o fare la fila sperando che ci sia il tempo per arrivare in udienza. C’è una distanza tra fascicolo e avvocato che prima non c’era”. A Roma c’è ancora il punto unico deposito atti, che genera un’unica lunga fila, in barba alle norme di distanziamento e anche se le udienze sono scaglionate, l’emergenza comporta l’impossibilità di stare tutti insieme contemporaneamente in aula. E quindi l’assembramento si sposta semplicemente nei corridoi, dove le distanze sono quasi annullate. Una situazione, sostiene Belcastro, sostanzialmente conforme sul territorio. Le possibilità di migliorare ci sono, ricorrendo, ad esempio, al telematico per materie semplici, come il deposito atti o i fascicoli online, che consentirebbero di evitare inutili file in cancelleria. Cose attualmente impossibili, mentre il rischio di ripristinare il processo penale da remoto continua a “minacciare” i sogni degli avvocati. “Ma il processo penale non è un orpello”, contesta Belcastro. A Roma, spiega il presidente del Coa Antonino Galletti, il problema principale è la carente copertura telematica dei servizi. E così nonostante il Covid e nonostante si possa fare ormai praticamente tutto da casa con un click, “gli avvocati sono costretti ad andare in cancelleria per fare la stragrande maggioranza degli adempimenti”, spiega Galletti. Secondo cui il primo problema è la mancata fornitura, da parte del ministero, di tutti i dispositivi necessari alle cancellerie per lavorare da remoto, cosa fatta solo in maniera molto parziale. Il secondo problema riguarda la delega ai capi degli uffici giudiziari a disporre le misure organizzative, che soprattutto in tribunali e corti d’appello complessi come quelli di Roma “ha determinato un moltiplicarsi di centri decisionali, rendendo veramente complicato il lavoro degli avvocati e soprattutto la tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini”. Così le regole da seguire per una sezione non sono uguali a quelle di un’altra e la collaborazione tra uffici e avvocati varia a seconda della sensibilità del singolo capo. Se nei settori in cui il processo telematico funziona i numeri delle udienze sono in netto miglioramento, spiega Galletti, laddove il telematico non è ancora utilizzato a dovere “siamo all’anno zero: se il magistrato non prende materialmente il fascicolo cartaceo non può studiarlo, così come se l’avvocato non deposita la memoria materialmente non può farlo altrimenti”. E ciò nonostante la tecnologia non manchi: “Al Tar e al Consiglio di Stato già da due anni il processo amministrativo è telematico. Se un modello funziona, perché non lo si utilizza?”. Anche a Milano, spiega il presidente Vinicio Nardo, il problema principale è rappresentato dalle cancellerie. Alcune con poco personale, altre costrette a chiudere per quarantene familiari, il tutto in assenza di linee guida. “I rimedi che sono stati assunti in precedenza non ci sono più sottolinea - e chi non ha abbastanza buon senso si adagia sulla cortina burocratica della procedura”. Le udienze, invece, registrano ancora problemi di assembramento, risolti, anche in questo caso, sulla base di accordi affidati alla buona volontà del singolo magistrato. “Abbiamo ottenuto, grazie alla disponibilità di alcuni giudici, di avere il giorno prima un elenco delle udienze scaglionate in base all’orario di chiamata - spiega Nardo. Ma ci sono situazioni incresciose, come processi celebrati con gli avvocati addirittura fuori dalle aule”. Il numero di processi, anche qui, è molto diminuito e mancano sistemi di contraddittorio alternativo, come la videoconferenza e il processo cartolare. “C’è, da un lato, la paura che si possa approfittare del processo da remoto, ma c’è anche la volontà, data la difficoltà a stare in tribunale, a celebrare con metodi alternative tutte quelle udienze che non presuppongono una partecipazione attiva. È questa una fase di normalità delle norme in una situazione di anormalità. Non rimpiangiamo il proliferare di linee guida - conclude Nardo - però ci manca un punto di riferimento. Ed è tutto molto indecoroso, perché il ministero continua a dire: “arrangiatevi”. L’ascia di guerra tra cancellieri e avvocati, a Napoli, non è del tutto sotterrata, ma la situazione è di certo migliorata, spiega il presidente Antonio Tafuri. E se con il civile la trattazione scritta ha consentito lo svuotamento del tribunale, nel penale le udienze stanno andando avanti con una certa regolarità, seppure generalmente a porte chiuse. Proprio ieri, però, tutte le regole anticovid sono saltate nel corso del processo “Concorsopoli”, che conta più di 150 imputati, con maxi assembramento nei corridoi. “Il giudice non ha adottato nessuna misura organizzativa particolare - sottolinea Tafuri - quindi si è creato un grosso caos”. Le cancellerie funzionano ancora soltanto su prenotazione obbligatoria, “anche se il clima di collaborazione con il personale è stato recuperato”. Le udienze sono state organizzate suddividendole in fasce orarie e “questo consente di evitare che si affollino tutte le chiamate contemporaneamente. Talvolta questo non succede, ma dipende dal singolo magistrato o dalla singola cancelleria. Il sistema - conclude - ci sta consentendo di fare i processi sia civili che penali. È chiaro, però, che sul civile non aspettiamo altro che la fine di questa trattazione scritta: ci sono dei momenti in cui le nostre possibilità difensive sono mortificate - conclude. Tiriamo avanti, in attesa di tornare quanto prima alla normalità”. Se la difesa vale meno dell’accusa. L’ultimo attacco della giurisprudenza al giusto processo di Nicola Galati extremaratioassociazione.it, 15 ottobre 2020 Le conclusioni del consulente del P.M. sarebbero a priori preferibili a quelle del consulente della difesa, proprio perché il primo è nominato dal pubblico ministero, che è (o almeno dovrebbe essere) “l’unica delle parti tenuta alla verità e ad un’indagine completa”. Il disegno di questa corsia preferenziale comprime il principio del contraddittorio nella formazione della prova, di cui all’art. 111 della Costituzione, in quanto si riconosce una priorità intrinseca agli elementi provenienti da una sola parte. Inoltre, viene tradito il principio costituzionale della parità delle parti. Sul fondo, sembra ancora stagliarsi il cascame del maldigerito passaggio al processo accusatorio. Lo stato di salute del processo accusatorio, a trent’anni dall’entrata in vigore dell’attuale codice di procedura penale, non è dei migliori. Significativa è una recente pronuncia della Corte di Cassazione (la sentenza n. 16458 del 18 febbraio 2020 della Terza Sezione), che mette in discussione il principio della parità delle parti. Nel caso di specie, l’imputata aveva proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione lamentando che nella sentenza impugnata non fosse stata prestata alcuna attenzione alla consulenza di parte, cui era stato apoditticamente preferito l’elaborato del consulente tecnico del pubblico ministero. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile. Infatti, secondo i supremi giudici “la sola generica conclusione del consulente della difesa non è certamente sufficiente a superare le avverse conclusioni di altra indagine, occorrendo invece che, alle argomentazioni specifiche del perito o del consulente tecnico del pubblico ministero […], vengano contrapposte specifiche contro-argomentazioni tecniche o scientifiche”. L’iter argomentativo non si ferma qui, come pure sarebbe stato sufficiente, ma prosegue affermando che “le conclusioni tratte dal consulente PM, pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa”. Tale veste privilegiata per le conclusioni del consulente del P.M. deriverebbe dal “ruolo precipuo rivestito dall’organo dell’accusa e dal suo diritto/dovere di ricercare anche le prove a favore dell’indagato” (ex art. 358 c.p.p.): “Gli esiti degli accertamenti e delle valutazioni del consulente nominato ai sensi dell’art. 359 cod. proc. pen. rivestono perciò, proprio in ragione della funzione ricoperta dal Pubblico Ministero che, sia pur nell’ambito della dialettica processuale, non è portatore di interessi di parte, una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio”. Non si tratta di una pronuncia isolata, richiamando la stessa un precedente del 2014 (Sentenza n. 42937 della Seconda Seziona) secondo cui “se è vero che il consulente viene nominato ed opera sulla base di una scelta sostanzialmente insindacabile del pubblico ministero, in assenza di “contraddittorio” e soprattutto in assenza di “terzietà”, è tuttavia altrettanto vero che il pubblico ministero ha per proprio obiettivo quello della ricerca della verità - concretamente raggiungibile attraverso una indagine completa in fatto e corredata da indicazioni tecnico scientifiche espressive di competenza e imparzialità - dovendosi necessariamente ritenere che il consulente dallo stesso nominato operi in sintonia con tali indicazioni”. Ne deriva che “l’operato dei consulenti tecnici del pubblico ministero (pubblici ufficiali), chiamati ad “affiancare” quest’ultimo come soggetti condizionati solo dalla ricerca della verità “in scienza e coscienza”, non corrisponde appieno a quello del consulente tecnico della parte privata”. Impossibile non cogliere l’aperto contrasto con i principi del giusto processo e le conseguenze potenzialmente nefaste di tale indirizzo. Innanzitutto, vi è una netta compressione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, di cui all’art. 111 della Costituzione, in quanto si riconosce una priorità intrinseca agli elementi provenienti da una sola parte. Inoltre, viene tradito il principio costituzionale della parità delle parti. Le conclusioni del consulente del P.M. sarebbero a priori preferibili a quelle del consulente della difesa, proprio perché il primo è nominato dal pubblico ministero. Da tale affermazione, si deve trarre la logica conseguenza della posizione di ontologica supremazia dell’organo dell’accusa rispetto alla difesa dell’imputato. Le motivazioni di tale squilibrio sarebbero da rinvenire nell’essere il P.M. un pubblico ufficiale che ricerca la verità, a differenza della difesa che è parte privata svincolata da un obbligo di verità. Tale diffidenza nei confronti dei consulenti della difesa si è manifestata anche verso i risultati delle indagini difensive, ed è frutto di un pregiudizio inquisitorio inestirpabile. Su tali premesse, è impossibile ventilare una presunta condizione di parità tra le parti. Inoltre, secondo la sentenza n. 42937 del 2014, il pubblico ministero ha per proprio obiettivo quello della ricerca della verità, che è “concretamente raggiungibile attraverso una indagine completa in fatto e corredata da indicazioni tecnico scientifiche espressive di competenza e imparzialità”. Ne conseguirebbe, portando alle estreme conseguenze tale indirizzo, l’inutilità dell’approfondimento dibattimentale e del contraddittorio nella formazione della prova, pletorici formalismi dinanzi ad una verità già accertabile dal P.M. in sede di indagine. L’equivoco di fondo alla base di tale indirizzo verte sull’interpretazione dell’art. 358 c.p.p., in base al quale il pubblico ministero “svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Norma che ha sempre generato discussioni e dubbi, sia sulla sua concreta attuazione che sulla compatibilità con il nuovo processo accusatorio, ma che va ricondotta alla fase delle indagini preliminari e che va letta insieme all’art. 125 disp. att. c.p.p. secondo cui “il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere accusa in giudizio”. Questo deve essere l’obiettivo perseguito dal pubblico ministero ed a questo fine vanno ricondotti gli accertamenti su fatti e circostanze favorevoli all’indagato. Di certo, la norma non può essere strumentalizzata per sovvertire, in sede dibattimentale, la parità tra le parti ed il contraddittorio nella formazione della prova. Che la figura del pubblico ministero, all’interno del nostro sistema processuale, sia anomala è innegabile e ciò è il frutto inevitabile della natura ibrida del sistema stesso. La separazione delle carriere sarebbe un passo indispensabile ma non sufficiente per garantire la parità delle parti e delineare una nuova figura del pubblico ministero scevra dai retaggi del passato. Il passaggio, con il codice di procedura del 1989, dal processo inquisitorio al sistema accusatorio non è stato mai pienamente accettato ed assimilato, nonostante la riforma dell’art. 111 della Costituzione. Le prospettive non sono rosee se si considerano i numerosi interventi legislativi ma anche giurisprudenziali (quali quello in commento) che tendono a minare ulteriormente i principi del giusto processo. Vi è un ultimo aspetto problematico che emerge dalla lettura di questa decisione: la concezione autoritaria del rapporto tra il cittadino ed il potere pubblico. Nello squilibrio tra la posizione del pubblico ministero e quella della difesa dell’imputato, si replica la condizione di subordinazione del cittadino nei confronti dell’autorità statale. Un nuovo diritto penale liberale dovrebbe partire proprio dalla necessità di tutelare i diritti dell’individuo, anche nel processo penale. “L’accusa conta più della difesa”. La sentenza della Cassazione indigna i penalisti di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 ottobre 2020 Nell’Italia forcaiola e spazza Stato di diritto, desiderata e realizzata dai grillini, può capitare anche questo, cioè che la Cassazione stabilisca esplicitamente un principio tanto semplice quanto aberrante: l’accusa conta più della difesa. Non accenna a placarsi l’indignazione dell’Avvocatura italiana nei confronti di una recente sentenza con cui la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato un principio che ha dell’incredibile: nel processo, la perizia del consulente del pubblico ministero vale più di quella della difesa, alla faccia del principio della parità delle parti e del giusto processo. Con la sentenza (n. 16458/2020), gli ermellini hanno respinto il ricorso di una signora barese condannata in appello per avere demolito e poi ricostruito un fabbricato in una zona con vincolo paesaggistico. Gli avvocati della donna avevano presentato ricorso sostenendo, sulla base di una consulenza di parte, che l’opera rientrava nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria o, al più, di restauro e risanamento conservativo. Secondo la difesa, nel condannare la donna i giudici non avevano prestato alcuna attenzione alla consulenza di parte, preferendo apoditticamente la perizia disposta dal pm. La Corte ha però dichiarato inammissibile il ricorso affermando che le conclusioni tratte dal consulente del pm, “pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa”. Secondo gli ermellini, infatti, il pm, “pur nell’ambito della dialettica processuale, non è portatore di interessi di parte”, come gli avvocati, e dunque le valutazioni del proprio consulente “rivestono una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio”. Ciò sarebbe confermato dall’obbligo del pm di ricercare anche le prove a favore dell’indagato, stabilito dall’articolo 358 del Codice di procedura penale, e dal fatto quindi che la pubblica accusa avrebbe “per proprio obiettivo quello della ricerca della verità”. Chiunque abbia una conoscenza minima di come funzioni la macchina giudiziaria sa bene che la norma che impone al pm di svolgere accertamenti a favore della persona indagata è da sempre lettera morta, che il pm mira non a “ricercare la verità”, ma piuttosto a cercare conferme per le proprie tesi accusatorie, e che nel processo penale all’italiana (quello formalmente accusatorio, ma nella sostanza segnato da profondi residui inquisitori) l’accusa continua a rivestire una posizione di superiorità rispetto alla difesa, a dispetto del principio di parità delle parti. La sentenza della terza sezione penale della Cassazione, quindi, non dovrebbe sorprendere più di tanto gli operatori della giustizia e gli osservatori più attenti. A colpire, però, è la tranquillità con cui la Cassazione ha voluto mettere nero su bianco un principio in evidente contrasto con la nostra Costituzione. “C’è un piccolo particolare - ha notato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali - e cioè che la parità delle parti (pm e imputato) davanti al giudice terzo è il comando inequivoco dettato dall’art. 111 della Costituzione. E questa sentenza, e il principio che essa afferma, letteralmente si fa beffe, e anzi sovverte, quanto preteso senza equivoci dalla nostra Costituzione”. “Non si comprende - ha aggiunto il presidente dei penalisti - per quale misterioso motivo il parere dell’esperto balistico o chimico o tanatologico nominato dal pm dovrebbe avere valore e attendibilità scientifiche superiori a quelle dei suoi colleghi nominati dalla difesa. Al contrario, nel proprio sforzo confutativo della tesi accusatoria è assai frequente che l’imputato, soprattutto se è in grado di sostenerne le spese, nomini consulenti più qualificati, e spesso di gran lunga più qualificati, di quelli nominati dall’ufficio di procura”. La verità, come notato sempre da Caiazza, è che assegnare un vantaggio all’accusa e un pesante handicap alla difesa “la dice lunga sulla idea che i giudici nutrono, nel nostro paese, del processo accusatorio”: “La magistratura italiana è, davvero con rarissime eccezioni, irrimediabilmente ostile al sistema processuale accusatorio, all’idea del processo delle parti, alla formazione della prova in dibattimento in un contraddittorio paritario”. La strada di Davigo al Csm diventa in salita di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 15 ottobre 2020 Il giudice va in pensione e potrebbe decadere. Pareri giuridici contrastanti, conflitti tra correnti, rivalità personali. Ma la questione diventa istituzionale. Ecco tutti gli scenari. Ormai non passa giorno senza che il Consiglio superiore della magistratura si occupi del suo componente più famoso, Piercamillo Davigo. Ieri il plenum ha deliberato su una questione che lo riguarda e risale al 2018, quando il Csm aveva nominato presidente aggiunto della Cassazione Domenico Carcano, preferendolo a larghissima maggioranza proprio a Davigo. Il quale non si era dato per vinto e, mentre si faceva trionfalmente eleggere al Csm, aveva presentato ricorso al Tar. Sconfitto, aveva insistito rivolgendosi al Consiglio di Stato, che infine gli ha dato ragione, stabilendo che la nomina gli spettava, perché a differenza di Carcano vantava un’esperienza nelle sezioni unite della Cassazione, il gotha della giurisprudenza italiana. In casi del genere, i magistrati che ottengono ragione dal Consiglio di Stato per una nomina negata possono bussare al Csm per ottenere un posto analogo. Ma Davigo è in una condizione speciale: tra meno di una settimana andrà in pensione, ogni nuovo incarico gli è precluso. Tuttavia non si accontenta di una vittoria morale, che suonerebbe come una beffa. E si è rivolto al Csm chiedendo una esecuzione della sentenza favorevole sotto diversi profili: conferimento, comunque, dell’incarico di presidente aggiunto della Corte di Cassazione “con ogni effetto di legge”, o in ogni caso riconoscimento retroattivo del titolo dì presidente aggiunto “ai fini dell’attribuzione dei relativi incrementi retributivi, nonché agli ulteriori emolumenti accessori, anche sotto forma di risarcimento del danno per perdita di chance”. Ma quel posto di procuratore aggiunto non c’è più: Carcano (che andrebbe spodestato) è nel frattempo andato in pensione e Margherita Cassano, che l’ha sostituito con una nuova e legittima selezione, ha diritto a conservare l’incarico. Per cui il Csm ha negato a Davigo l’attribuzione dell’incarico “ora per allora” e anche il riconoscimento del titolo di presidente aggiunto (trattasi di incarico funzionale, non di onorificenza), limitandosi all’inserimento, nel fascicolo personale, dell’annotazione “vincitore del contenzioso per la nomina quale presidente aggiunto della Corte di Cassazione”. In forza di questa frase, Davigo potrà proporre un’altra causa per ottenere la maggiorazione retributiva non incassata dal 2018, il ricalcolo al rialzo della pensione e l’eventuale risarcimento dei danni per “perdita di chance”, consistente negli ulteriori incarichi (presidente di Cassazione?) a cui avrebbe potuto concorrere. La questione sarebbe derubricata a curiosità (un consigliere del Csm che fa causa al Csm) se non fosse il frizzante aperitivo del sardanapalesco plenum straordinario convocato per lunedì prossimo. Il menu prevede il caso Davigo, ma quello vero, serio e grave. Al punto da coinvolgere i più alti livelli istituzionali. Dopo 42 anni in toga, Davigo va in pensione il 20 ottobre, quando compie 70 anni. Può rimanere nel Csm, dov’è stato eletto due anni fa per rappresentare i magistrati, o deve automaticamente decadere? La domanda non si è mai posta perché mai si è verificato un caso simile. Al netto di arzigogoli e fumisterie giuridiche, la questione è riassumibile con poche parole, comprensibili a tutti. Perché la questione riguarda tutti i cittadini, e non solo i magistrati, come sempre quando sono in gioco le istituzioni. Davigo è convinto di avere diritto a rimanere consigliere del Csm. Per due ragioni. Primo: l’articolo 104 della Costituzione dice che “i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni” e lui ne ha fatti solo due. Secondo: le cause di decadenza dei consiglieri espressamente previste dalla legge non contemplano il pensionamento, e vanno interpretate come tassative. Sono due forti argomenti letterali. Chi pensa che Davigo debba lasciare il Csm controbatte con due motivazioni. Prima: la durata quadriennale riguarda l’organo, non i singoli componenti, tanto è vero che chi subentra successivamente alle elezioni cessa dall’incarico insieme con gli altri, prima di quattro anni. Secondo: la Costituzione disegna un Csm con membri togati (magistrati eletti dagli altri magistrati) e laici (docenti e avvocati eletti dal Parlamento), mentre un magistrato che va in pensione a metà mandato costituirebbe un’anomalia, in quanto non rappresentativo degli ex colleghi e per di più sottratto alla responsabilità disciplinare. Questo è un forte argomento sistematico. Che, sia pure in termini paradossali, interpella la possibilità di un Csm composto per due terzi da magistrati in pensione. Sarebbe conforme al disegno costituzionale che prevede un organo di governo autonomo della magistratura a maggioranza di magistrati, come garanzia dell’indipendenza di ciascuno di essi dal potere politico? Da quando Davigo ha posto formalmente (e correttamente) la questione che lo riguarda, su questo discutono giuristi di vaglia. Per esempio ha sostenuto la tesi della decadenza Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale. Pro Davigo, invece, Maria Agostina Cabiddu, docente di diritto pubblico al Politecnico di Milano. Davigo ha molti avversari, fuori (politici, avvocati) e dentro la magistratura. Per la sua storia e per le sue posizioni su diversi ambiti di politica giudiziaria: lotta alla corruzione, concezione del processo penale, carcere. Rappresenta al livello più alto e nobile la destra giudiziaria o, come si dice con formula di grande successo anche se semanticamente discutibile, il “giustizialismo”. Dopo i fasti di Mani Pulite, Davigo era andato in Cassazione. Stakanovista e implacabile falcidiatore di ricorsi di imputati condannati, da presidente di sezione si portava dietro (compiacendosene) la leggenda che sul muro del suo ufficio ci fosse una grande scritta: “L’inammissibilità è uguale per tutti”. Cinque anni fa, con Marcello Maddalena, uscì dalla corrente Magistratura Indipendente, in polemica con il leader Cosimo Ferri trasmigrato in politica, fondando una corrente-non-corrente, Autonomia & Indipendenza, con cui è stato eletto prima presidente dell’Anm, poi membro del Csm. Sempre con record di preferenze. Ora la sua sorte è appesa a una votazione del plenum del Csm, su cui convergeranno valutazioni giuridiche, personali, politiche e istituzionali. Nella commissione titoli che ha istruito il suo caso, a votare per la decadenza sono state due consigliere di Magistratura Indipendente, Loredana Micciché e Paola Braggion. Se Davigo fosse dichiarato decaduto, gli subentrerebbe Carmelo Celentano, della corrente Unicost (due anni fa era favorito per il seggio in Cassazione, fu trombato dalla sua corrente… ma questa è un’altra storia). Al contrario, dopo il caso Palamara, Davigo è stato l’architrave di un nuovo equilibro nel Csm in accordo con la corrente progressista Area e contro Magistratura Indipendente. Dunque qualunque posizione potrà essere letta come un regolamento di conti tra correnti. O giudicata frutto di convenienza di parte. O motivata da opportunismo politico. Per questo, nelle ultime ore, ai piani personale, giuridico e politico (pur importanti) se ne è sovrapposto un altro, più importante di tutti. Il piano istituzionale. Perché ci sono quattro membri del Csm che sono diversi dagli altri. In primis il capo dello Stato, che è presidente di diritto del Csm anche se non partecipa ai lavori e non vota. Poi i due capi della Cassazione (presidente e procuratore generale), che sono membri di diritto e rappresentano il vertice della giurisdizione. Infine il vicepresidente del Csm, che è un membro laico ma dopo l’elezione assurge a un ruolo di garanzia, perché diventa la longa manus del Quirinale. Generalmente, il vicepresidente non partecipa alle votazioni, proprio per preservare la sua terzietà. Anche i vertici della Cassazione sono molto prudenti nell’esporsi su questioni divisive. Ma nel momento in cui il Csm rischia di dilaniarsi e autodelegittimarsi affidandosi a una conta tra correnti (e sottocorrenti), il caso diventa istituzionale. Non riguarda più una persona, ma l’istituzione stessa. E chi la rappresenta al più alto livello, assumendosi quando necessario la responsabilità di tutelarla. Direttamente o indirettamente. Per questo il vicepresidente David Ermini, il presidente della Cassazione Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi hanno preso in mano il caso. Per cominciare, hanno rinviato il plenum a lunedì prossimo, per evitare che l’ordalia sul caso Davigo coincida con il rush finale delle elezioni dell’Anm, il sindacato dei magistrati. Il secondo passo sarà la garanzia di un dibattito serio e di una deliberazione trasparente, non inquinata da sospetti, veleni e doppi giochi inevitabili in caso di voto segreto (contro cui si batte per esempio Nino Di Matteo, non a caso l’unico membro togato fuori dalle correnti). Il terzo passo sarà una presa di posizione di rango istituzionale per dirimere la questione, facendo appello sia ai più alti principi costituzionali, sia a motivazioni istituzionali e di sistema, che garantiscano la “leale collaborazione” tra organi dello Stato. Nessun orientamento è stato formalizzato. Al di là dei convincimenti personali, ci sono tre valutazioni istituzionali che rendono più difficile la permanenza di Davigo al Csm. Primo: l’Avvocatura dello Stato si è espressa, con un parere chiesto dallo stesso Csm e firmato dal suo vertice, Gabriella Palmieri Sandulli, per la decadenza di Davigo. Il parere non è vincolante e suscita qualche perplessità per come è argomentato. Ma queste sono opinioni, pur legittime, che non cancellano un dato istituzionale: una decisione in senso contrario determinerebbe un corto circuito. Come potrebbe la stessa Avvocatura, in un successivo e inevitabile contenzioso, difendere una decisione del Csm presa contro un suo parere? Secondo: i sostenitori della decadenza di Davigo, e la stessa Avvocatura, valorizzano una sentenza del Consiglio di Stato del 2011, su un caso diverso. In un passaggio di quella sentenza, i magistrati amministrativi argomentano in modo assertivo perché un pensionato non può essere membro del Csm. Anche quella sentenza non è vincolante, ma discostarsene produrrebbe un doppio corto circuito. Perché suonerebbe come una sfida al Consiglio di Stato, che peraltro sarebbe chiamato a pronunciarsi sul caso Davigo, con inevitabili imbarazzi. Terzo: Davigo è membro della sezione disciplinare del Csm. Una sua controversa e fragile permanenza, sub judice, metterebbe a rischio di legalità di tutte le sentenze disciplinari (e tante ce ne saranno, con i cascami del caso Palamara). Certo, almeno il terzo argomento potrebbe essere superato se Davigo rinunciasse alla sezione disciplinare. Ma questa mossa avrebbe avuto senso un mese fa. E poi chiedere a Davigo di rinunciare a essere giudice disciplinare nel Csm (di questi tempi, per giunta) sarebbe come chiedere a Cristiano Ronaldo di non giocare una finale di Champions League. Il concorso beffa? Parlate col Tar, Bonafede si dichiara incompetente di Paolo Comi Il Riformista, 15 ottobre 2020 Promossi candidati che avevano fatto compiti sgrammaticati e segni di riconoscimento, ma il Guardasigilli liquida il question time in 120 secondi. Anche se l’alta vigilanza sulle prove è affidata a lui. Rivolgetevi al Tar. Lo “scandalo” del concorso in magistratura si conclude dunque così, con l’invito rivolto ai bocciati da parte del ministro della Giustizia affinché presentino ricorso al giudice amministrativo. L’incredibile risposta è arrivata ieri pomeriggio durante il question time a Montecitorio. Era stato il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera, Pierantonio Zanettin, a sollecitare il Guardasigilli sulle “particolari” modalità con cui erano stati corretti gli scritti dell’ultimo concorso da 330 posti per magistrato ordinario. La correzione dei temi era terminata lo scorso giugno. Sui 13mila concorrenti, coloro che avevano portato a termine le prove erano stati circa 3mila. E solo 300 quelli giudicati idonei. Alcuni bocciati, come spesso capita, avevano fatto accesso agli atti e avevano scoperto che diversi temi erano stati valutati positivamente nonostante fossero pieni di strafalcioni in diritto e segni di riconoscimento assortiti. “La lettura di quei temi - dichiarò Zanettin - ha evidenziato un sofisticato e truffaldino sistema per consentire di individuarne l’autore: chiederò al ministro cosa abbia intenzione di fare”. La risposta è arrivata ieri: nulla. In poco di 120 secondi Alfonso Bonafede ha messo una pietra tombale su questa vicenda. “I commissari sono nominati con decreto del ministro su conforme delibera del Csm che designa i componenti della Commissione”, ha esordito il ministro grillino lasciando intendere che sulla scelta dei commissari del concorso via Arenula non ha toccato palla. La Commissione, presieduta dal consigliere di Cassazione Lorenzo Orilia, è composta da ventotto componenti. Venti sono magistrati, otto gli avvocati e professori universitari. Il Ministero, ha puntualizzato Bonafede, fornisce solo un non meglio specificato “supporto tecnico”. Per quanto invece riguarda le decisioni della Commissione, trattandosi di “provvedimenti amministrativi” sono sindacabili esclusivamente dal giudice amministrativo. L’alta vigilanza affidata al ministro sul concorso in magistratura consiste quindi nel verificare “la regolarità” del rispetto delle procedure, “non potendo entrare nel merito delle decisioni” della Commissione, ha tenuto a sottolineare Bonafede Fatta questa cornice normativa, ecco allora l’invito ai bocciati a presentare ricorso al Tar. Il ricorso al giudice amministrativo, se accolto, avrebbe però l’unico effetto di consentire che il tema venga corretto una seconda volta. Chi è stato giudicato idoneo pur avendo scritto strafalcioni non subirebbe alcuna conseguenza. Senza considerare, poi, che i termini per la presentazione dei ricorsi sono ormai tutti scaduti. Grande delusione di Zanettin per la risposta “burocratica” di Bonafede. “Ha letto gli appunti che gli hanno predisposto a via Arenula”, ha attaccato l’ex laico del Csm durante lo spazio destinato alle repliche. La legge prevede che il ministro eserciti “l’alta vigilanza” e non faccia come “lo struzzo”. Risarcite subito le vittime dei “processi circensi” di Fiammetta Modena Il Riformista, 15 ottobre 2020 Oramai può capitare a tutti di finire in pasto all’opinione pubblica, prima della sentenza, con indagini, intercettazioni e dichiarazioni della polizia giudiziaria. Visto che si parla di riforma della Giustizia, Governo e Parlamento intervengano. Ragionando di riforma della Giustizia e del processo penale, è necessario normare e regolamentare il fenomeno molto grave che vede instaurarsi, in un binario parallelo a quello del processo, un vero e proprio “processo circense”. Preferisco la definizione di processo circense a quella più comune di “processo mediatico”, perché è lo spettacolo “solenne” che in epoca romana si dava al circo. Di questo infatti si tratta: si dà in pasto alla pubblica opinione un nome, con la solennità di pezzi di indagini, di intercettazioni, di conferenze stampa della polizia giudiziaria. Un circo, appunto, “solenne”. Il “processo circense” avviene fuori dal perimetro delle aule giudiziarie, dai suoi princìpi e dalle sue regole: si delinea la figura del colpevole e si consegna l’accertamento delle responsabilità all’opinione pubblica. In tal modo la società emette giudizi che prescindono dal processo reale, una sentenza senza appello, senza difesa, indelebile nella memoria collettiva e nei motori di ricerca della rete. Le “sentenze circensi” sono inscalfibili, irreversibili e incontrovertibili, per lo più quando in sede giudiziaria emerge poi con evidenza l’innocenza di chi viene processato. Chi è innocente e viene coinvolto nel processo subisce due forme di vittimizzazione: una legata alla sofferenza dovuta alla vicenda processuale, l’altra causata dal processo circense. Chi è colpevole subisce una doppia pena, quella inflitta dallo Stato e quella del processo circense e con lui i familiari, gli amici che restano (pochi). È tempo che le vittime del processo circense siano risarcite con forme di compensazione, siano esse riconosciute innocenti o colpevoli in sede di giudizio. Va riconosciuta la sofferenza da processo. A tale scopo la comunità giuridica e il Parlamento, in sede di riforma del processo penale, devono individuare una definizione di processo circense ampia e articolata, comprendente la rappresentazione della realtà che opera un parallelo accertamento delle responsabilità fuori dalla sede naturale del processo, coinvolgendo il giudizio dell’opinione pubblica e arrecando un irreversibile pregiudizio al soggetto del suddetto processo. Come emerge con chiarezza dal “Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale”, a cura dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali, “quando il processo giunge al dibattimento, le paginate di notizie scompaiono e l’informazione sulla singola vicenda giudiziaria si immerge nel silenzio (sospeso solo saltuariamente se viene ascoltato qualche teste eccellente, possibilmente a sostegno dell’accusa)”. Tutta la comunità giuridica conosce il ragionamento propositivo svolto dal professor Vittorio Manes in un articolo pubblicato sulla rivista Diritto Penale Contemporaneo, dal titolo La vittima del processo mediatico: misure di carattere rimediale. Quando vengono violati diritti fondamentali come il rispetto della vita privata e familiare (articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo), o la presunzione di innocenza e il diritto all’equo processo (articolo 6), lo Stato deve agire da garante non solo predisponendo meccanismi volti a limitare le fughe di notizie e le violazioni del segreto istruttorio, ma anche attuando misure che permettano un’adeguata forma di riparazione delle vittime. Lo Stato deve pertanto farsi garante di queste istanze poiché la Convenzione europea dei diritti dell’uomo lo obbliga a garantire diritti e libertà fondamentali con tutti i mezzi. Alla luce di tutto ciò, trovare dei rimedi alla “sentenza circense”, fatta di sensazionalismo, colpevolizzazione preventiva, non è più procrastinabile. I rimedi possono essere, come suggerito da Manes, la possibilità per il giudice, in sede di determinazione della pena, e su istanza di parte, di considerare la sottoposizione a processo mediatico circostanza attenuante generica e la previsione di un rimedio a carattere indennitario, sul modello della “Pinto”. I danni del processo mediatico devono essere altresì valutati quando coinvolgono una intera comunità, che deve essere legittimata a chiedere una riparazione. L’esempio più recente è quello della mia città, Perugia, e delle sue università che hanno ricevuto un danno irreversibile, a livello internazionale, dalla notizia del calciatore Suarez e del suo esame. Un danno non comparabile alla gravità dei reati ipotizzati, tale da far titolare a Repubblica La caduta a precipizio. Chi risarcirà coloro che vivono della presenza degli studenti, stranieri e non, in una città che vive di questo come gli affittuari, i negozi, i ristoranti, le attività turistiche, scientifiche, culturali? Le proposte del Governo sulle riforme oggi all’esame del Parlamento sono una risposta debole, insufficiente anche nelle previsioni della responsabilità disciplinare, inadeguata alla gravità del processo circense e delle sue conseguenze sui singoli. Se non si vuole rispettare la Costituzione, quanto meno si tenga conto della Corte europea dei diritti umani e si metta fine allo scempio della vita privata e familiare di chi “capita sotto la ruota”. Perché può capitare a tutti. Caso Shalabayeva, poliziotti condannati per sequestro di persona. “Ma chi diede l’ordine?” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 15 ottobre 2020 “Nessuno degli imputati aveva un interesse personale nella vicenda. Se hanno agito in quel modo, l’unica spiegazione è che hanno obbedito a quegli ordini. E chi ha dato quegli ordini l’ha fatta franca”. Sono passati pochi minuti dalla lettura della sentenza che condanna a cinque anni di reclusione l’ex capo della Squadra mobile di Roma e attuale questore di Palermo, Renato Cortese, e l’ex dirigente dell’Ufficio immigrazione, Maurizio Improta, per il sequestro di Alma Shalabayeva e della figlia di sei anni Aula, e Astolfo Di Amato, avvocato della donna, commenta così al telefono l’esito del processo di primo grado. Per il legale di Alma, a cui “non fa comunque mai piacere quando qualcuno viene condannato”, quella del Tribunale di Perugia è una sentenza monca, che lascia aperti troppi interrogativi: Chi, nel maggio del 2013 diede l’ordine di prelevare la figlia e la moglie di un dissidente kazako, in possesso di un regolare passaporto diplomatico, e consegnarle arbitrariamente alle autorità di Astana? E perché gli imputati hanno negato tutti i reati loro addebitati ma senza parlare della catena di comando? Perché, secondo la sentenza, gli agenti della Mobile ingannarono di loro iniziativa falsificando persino documenti - i colleghi dell’Ufficio immigrazione, la Procura di Roma (guidata da Giuseppe Pignatone) e quella per i Minorenni che poi firmarono i decreti di espulsione. Una ricostruzione, che per l’avvocato Di Amato regge poco. L’unica certezza in questa storia sono le condanne. Pesantissime. Molto più severe di quelle richieste dalla Procura, che per Cortese e Improta aveva chiesto, rispettivamente, due anni e quattro mesi e due anni e due mesi di reclusione: meno della metà della pena poi comminata. Cinque anni anche per i funzionari della Squadra mobile Luca Armeni e Francesco Stampacchia. Per tutti decisa anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Stefano Leoni e Vincenzo Tramma, agenti in servizio all’Ufficio immigrazione sono stati invece condannati rispettivamente a tre anni e sei mesi e a quattro anni. Due anni e sei mesi, infine, per la giudice di pace Stefania Lavore, che all’epoca convalidò l’espulsione di Shalabayeva: è l’unica condanna in cui non viene contestato il sequestro di persona. “C’era una donna, moglie di un dissidente e con una bambina piccola, che supplicava di essere ascoltata ma tutti facevano finta di non sentire. Sicuramente questo aspetto avrà avuto un peso determinante su un giudizio così severo”, spiega l’avvocato Di Amato. Ma per capire la sentenza di ieri bisogna fare un salto indietro di sette anni e ripercorrere un caso internazionale che fece rischiare la poltrona ad Angelino Alfano, allora ministro dell’Interno e costò le dimissioni a Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto al Viminale. Nella notte tra il 28 e il 29 maggio del 2013, la polizia fa irruzione in un appartamento di Casal Palocco a Roma. Cercano Mukhtar Ablyazov, dissidente kazako ricercato dalle autorità di Astana. Ma in quell’abitazione vive solo la sua famiglia. “Fui svegliata da un forte rumore. C’era gente che bussava alle finestre e alle porte. Mia sorella, mio cognato e io ci precipitammo verso la porta d’ingresso”, racconterà la stessa Alma Shalabayeva nel diario in cui ricostruisce ora per ora quei momenti concitati. “Quando aprii la porta tentai di chiedere in inglese chi fossero. Mi diedero una spinta e circa 30- 35 persone entrarono in casa. Un’altra ventina rimase fuori. Erano vestiti di nero e armati”, ricorda la moglie del dissidente. “Puttana russa”, mi disse uno di loro. Un italiano con una grossa catena al collo e l’aspetto da mafioso cominciò a urlare indicando la pistola”. Shalabayeva è terrorizzata e per ore resiste alle richieste di quegli uomini, nega di essere kazaka e dice di non conoscere Ablyazov. Mostra solo un regolare passaporto diplomatico della Repubblica Centrafricana, ma per gli agenti che hanno fanno irruzione nel suo appartamento è falso. È la scusa per trasferirla al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria senza poter comunicare all’esterno. Da quel momento inizia un calvario, fatto di tentativi disperati di chiedere asilo politico e bloccare la procedura d’espulsione già avviate dalle autorità italiane che non verranno ascoltati. Alma e Alua verranno rispedite in Kazakistan, dietro le insistenti richieste delle autorità di Astana che mette a disposizione l’aereo privato per il rimpatrio. Sette anni dopo, per il Tribunale di Perugia, si trattò di un sequestro di persona. Le Organizzazioni Non Governative (Ong) nell’attuale dispositivo di contrasto al riciclaggio di Marco Letizi* Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2020 Con l’Action Plan del 7 maggio scorso, la Commissione europea ha dichiarato guerra, su scala globale, al riciclaggio internazionale e al finanziamento del terrorismo, lanciando non solo una strategia di contrasto che travalica i confini politici dell’Unione, ma rivendicando, altresì, il proprio ruolo di policy maker nello specifico settore insieme al Gafi. Nonostante gli ormai noti elevati livelli di rischio di riciclaggio di denaro e finanziamento del terrorismo correlati alle attività delle Ong - in quanto entità che potrebbero schermare la raccolta e il trasferimento di fondi di provenienza illecita operati dalle organizzazioni terroristiche e che, operando nell’economia legale, potrebbero supportare indirettamente le finalità di dette organizzazioni - la Commissione, nella risposta del 17 settembre 2019 all’interrogazione scritta E-002805/2019 formulata dal Parlamento europeo, ha dichiarato che detti livelli di rischio e la vulnerabilità delle ONG sono considerati meno significativi (“less significant”). Peraltro, giova ricordare come dette organizzazioni siano state escluse dal novero dei soggetti obbligati introdotto dalla direttiva (UE) 2018/843, come è stato sottolineato dal Parlamento europeo nella proposta di Risoluzione dello scorso 1 luglio a seguito di dichiarazioni del Consiglio europeo e della Commissione, “su una politica integrata dell’Unione in materia di prevenzione del riciclaggio di denaro e del finanziamento del terrorismo - piano d’azione della Commissione e altri sviluppi recenti”. Nella richiamata proposta di Risoluzione, il Parlamento europeo ha espresso la propria preoccupazione per la posizione recentemente assunta dalla Commissione rispetto alle ONG in tema di antiriciclaggio, ritenuta non sufficientemente incisiva e che, in assenza di uno specifico e adeguato regime antiriciclaggio, potrebbe consentire alle stesse di godere di un trattamento preferenziale da parte delle autorità di regolamentazione e di vigilanza. Le perplessità evidenziate dal Parlamento europeo non solo sono legittime ma inducono ad ulteriori riflessioni. In particolare, il fatto che le ONG non siano state annoverate nella V direttiva antiriciclaggio quali soggetti obbligati e che non esistano specifiche raccomandazioni del GAFI in materia di ONG - ad eccezione della raccomandazione n. 8 del giugno 2015, sulla lotta al ricorso illecito alle organizzazioni non a scopo di lucro, in base alla quale i “Paesi dovrebbero anche applicare misure, in linea con l’approccio basato sul rischio, per proteggere le organizzazioni senza scopo di lucro da abusi di finanziamento del terrorismo, incluso quando la distrazione occulta di fondi a beneficio di organizzazioni terroristiche coinvolge le valute virtuali”- rappresenta senza dubbio un’anomalia nel dispositivo internazionale antiriciclaggio soprattutto se si considera che dette organizzazioni sono spesso clienti di banche, intermediari finanziari, avvocati e dottori commercialisti che, in quanto soggetti obbligati, monitorano le transazioni effettuate con dette organizzazioni, peraltro soggette ad adeguata verifica della clientela. Un’ulteriore anomalia è rappresentata dal fatto che sia la IV che la V direttiva antiriciclaggio dettano specifiche disposizioni in materia di individuazione del titolare effettivo, tra l’altro, anche nei confronti delle fondazioni, dei trust e di altri tipi di istituti giuridici senza però fare alcun cenno alle ONG. Eppure, nella prima relazione sulla valutazione dei rischi sovranazionali (Supranational Risk Assessment Report - Snra), pubblicata nel giugno 2017 come previsto dalla IV direttiva antiriciclaggio, la Commissione ha evidenziato come le ONG possono essere esposte al rischio di essere utilizzate in modo improprio per finalità di riciclaggio e finanziamento del terrorismo e ammette che l’analisi della vulnerabilità dello specifico settore si è rivelata piuttosto impegnativa, proprio in ragione della varietà di strutture e attività che presentano diversi gradi di esposizione al rischio e consapevolezza del rischio, nonché dei divergenti quadri giuridici dei Paesi nei quali operano le ONG a livello internazionale. Nello stesso report, la Commissione opera una distinzione estremamente interessante, distinguendo le “expressive NPO” - ONG preminentemente attive nella gestione di programmi incentrati su eventi sportivi, ricreativi, artistici, culturali e di patrocinio - che possono presentare alcune vulnerabilità, in quanto possono essere infiltrate da organizzazioni criminali o terroristiche che possono schermare la titolarità effettiva, rendendo in tal guisa ardua la tracciabilità della raccolta dei fondi, dalle “service NPO” - ONG particolarmente attive nei programmi di edilizia pubblica a sostegno delle fasce di popolazione più deboli, servizi sociali, educazione e salute - che appaiono più direttamente esposte al rischio, in quanto ricevono la maggior parte dei fondi dell’UE quali “attori responsabili dell’attuazione” e realizzano programmi e progetti per conto della Commissione (ad esempio, nel periodo 2014-2016, le sovvenzioni per azioni “action grants” hanno rappresentato il 95% dei fondi del bilancio dell’UE impegnati contrattualmente con ONG (6,3 miliardi di euro su un totale di 6,6 miliardi di euro). Nella seconda relazione di valutazione del rischio sovranazionale, pubblicata nel luglio 2019, che tiene conto anche delle disposizioni contenute nella direttiva (UE) 2018/843 (VI direttiva anti-ricilaggio), la Commissione ha identificato ulteriori prodotti e servizi potenzialmente vulnerabili ai rischi di riciclaggio e/o finanziamento del terrorismo rispetto a quelli già individuati nella prima relazione del 2017, includendo anche il crowdfunding e le organizzazioni senza scopo di lucro. La definizione funzionale utilizzata dalla Commissione è la stessa adottata nella raccomandazione n. 8 del Gafi che identifica una ONG in “una persona giuridica, un’organizzazione o un accordo legale preminentemente impegnato nella raccolta o erogazione di fondi per scopi caritatevoli, religiosi, culturali, educativi, sociali”. In detta relazione la Commissione dedica un paragrafo alla “Raccolta e trasferimento di fondi tramite organizzazioni senza scopo di lucro” nel quale evidenzia come lo scenario di rischio descritto sia principalmente collegato alla raccolta e al trasferimento di fondi da/verso organizzazioni senza scopo di lucro da/verso Paesi UE o terzi. Nel documento si legge che l’analisi dei rischi dal punto di vista delle minacce è estremamente complicata non solo perché non esiste una definizione giuridica comune nell’Unione di ONG e le loro forme e definizioni variano significativamente a livello nazionale, ma anche perché le normative adottate nei vari Paesi europei in materia di ONG - si pensi, ad esempio, agli obblighi di redazione e dichiarazione dei bilanci - appaiono ancora fortemente carenti. La Commissione nella relazione del 2019 si sofferma sulle ONG istituite per scopi umanitari, evidenziando come la maggior parte degli aiuti umanitari viene fornita in favore delle aree di conflitto fortemente permeate dalla presenza di organizzazioni terroristiche. Un ulteriore segnale di allarme viene lanciato anche dalla Corte dei Conti europea che nella Relazione speciale n. 35/2018, intitolata “La trasparenza dei finanziamenti UE la cui esecuzione è demandata alle ONG: è necessario compiere maggiori sforzi”, ha osservato che l’identificazione, da parte della Commissione, di un’entità come ONG non è stata sempre affidabile. Infatti, nella maggior parte dei casi, l’ammissibilità al finanziamento dell’UE non è dipesa dallo status di ONG, atteso che dette organizzazioni hanno presentato alla Commissione richieste di finanziamento allo stesso modo di altre organizzazioni che attuano fondi UE gestiti dalla Commissione e ciò in quanto il regolamento finanziario applicabile al bilancio dell’UE non distingue i beneficiari aventi status di ONG dagli altri beneficiari. Inoltre, è emerso che la Commissione ha effettuato limitati controlli sulle entità che si sono auto-dichiarate ONG all’atto della registrazione nel proprio sistema contabile. Peraltro, non esiste ancora un sistema comune di registrazione per i richiedenti. La Corte dei Conti europea ha, altresì, rilevato che la Commissione non sempre ha verificato l’esattezza delle dichiarazioni relative ad esperienze pregresse, poiché i suoi sistemi informativi di gestione non contengono tutte le informazioni afferenti ai finanziamenti ricevuti e alle attività svolte dalle ONG. Pertanto, l’utilizzo di tali informazioni ai fini della selezione è apparso piuttosto limitato. Ancora, la Corte ha riscontrato che la Commissione ha accettato dichiarazioni erronee relative a pregresse esperienze all’atto della selezione di alcuni progetti e non sempre ha raccolto e verificato in modo adeguato le informazioni sui fondi UE attuati da ONG e ciò ha determinato un’incapacità da parte della stessa Commissione di poter esaustivamente controllare le spese dichiarate dalle ONG. Con particolare riferimento alle azioni esterne, la Corte ha rilevato che in diversi progetti la Commissione non ha avuto nella propria disponibilità informazioni complete su tutte le ONG sostenute: in tal senso, sia in regime di gestione diretta che in regime di gestione indiretta, la Commissione ha avuto a disposizione informazioni incorrette sui diversi attori che hanno attuato l’azione finanziata principalmente nell’ambito delle reti di ONG internazionali. È evidente che in seno alla strategia globale di contrasto al riciclaggio internazionale e al finanziamento al terrorismo, la Commissione debba necessariamente considerare come prioritario il coinvolgimento degli attori della società civile, in ragione del ruolo che gli stessi possono svolgere, anche al fine di mettere definitivamente ordine in un settore a tutt’oggi ancora non sufficientemente regolamentato. Il contrasto al finanziamento di organizzazioni terroristiche e di gruppi criminali tramite ONG rappresenta una sfida, a tutt’oggi, aperta e di primaria importanza. In tema di azioni esterne e di rapporti dell’Unione con i Paesi terzi, ancorché lo scopo delle ONG sia quello di contribuire a sostenere i Paesi in via di sviluppo, le stesse potrebbero essere utilizzate come canale per finanziare e sviluppare attività di proselitismo, nonché essere possibili veicoli di “cellule dormienti” di gruppi terroristici da infiltrare in determinati Paesi. Inoltre, la capillare diffusione delle ONG sul territorio facilita anche i contatti con i locali gruppi criminali che le possono utilizzare sia come strumenti di riciclaggio che quali veicoli di interposizione utili a evitare le misure di congelamento dei beni. Quali iniziative dovrebbero quindi essere intraprese dalla Commissione nel prossimo futuro? La Commissione dovrebbe anzitutto presentare una definizione formale di ONG, strumentale ad una efficace regolamentazione della trasparenza e rendicontabilità finanziaria e attivarsi per includere dette organizzazioni nel novero dei soggetti obbligati alla normativa antiriciclaggio, obbligandole, nel contempo, a seguire le raccomandazioni del Gafi sulla prevenzione delle attività di finanziamento del terrorismo. In secondo luogo, sarebbe auspicabile l’applicazione di un codice etico universalmente riconosciuto che assicuri maggiore trasparenza all’intero settore. Ancora, agli Stati membri dovrebbe essere imposto di rivedere l’adeguatezza delle loro leggi e regolamenti riguardanti le entità suscettibili di essere oggetto di abusi per scopi di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo. La Commissione dovrebbe, inoltre, promuovere l’utilizzo delle indagini finanziarie nei confronti delle NGO, al fine di tracciare e individuare i flussi finanziari di origine criminale, nonché sviluppare progettualità per attività di capacity building in favore delle ONG, allo scopo di innalzare il loro livello di consapevolezza del rischio e del fondamentale ruolo che possono assumere nel dispositivo internazionale di contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. *Avvocato e Dottore Commercialista. Esperto della Commissione Europea e del Consiglio d’Europa Libertà vigilata illegittima se non ci si può mai allontanare di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2020 La misura di sicurezza non può essere applicata se prevede un divieto assoluto di lasciare la struttura sanitaria. La libertà vigilata non si può convertire in una misura detentiva. Per questo non è legittima la misura di sicurezza con obbligo di dimora disposta a carico di un uomo accusato di stalking nei confronti di moglie e figlia se accompagnata da un divieto assoluto di allontanamento dalla comunità terapeutica senza l’autorizzazione del giudice o dei sanitari. In questo senso si è pronunciata la Cassazione con la sentenza n. 28575 della Quinta sezione penale, depositata il 14 ottobre. Le condizioni - La Corte puntualizza da una parte che è legittima l’applicazione provvisoria della prescrizione della residenza temporanea in una struttura di recupero, accompagnata da un obbligo di residenza temporanea, ma le modalità di esecuzione non devono essere tali da snaturare la natura della misura di sicurezza, assimilandola nei fatti a un provvedimento detentivo. In passato, sentenza n. 5083 del 2019, la Cassazione ha ritenuto di non dovere contestare la libertà vigilata provvisoriamente applicata nei confronti di un malato psichico ricoverato in una struttura sanitaria con divieto di allontanamento in determinate fasce orarie. Ma lo ha fatto, osserva ora la Corte, perché i vincoli di presenza erano funzionali al programma di cura. Il vincolo - Nel caso esaminato, invece, la misura di sicurezza provvisoria della libertà vigilata con obbligo di dimora e di svolgimento di un programma di recupero è stata accompagnata da un divieto assoluto di allontanamento dalla struttura in assenza del via libera dei responsabili. Troppo, per la sentenza, che ritiene in questo modo eccessivamente compressa la libertà personale della persona interessata. Sconfessato da questa conclusione anche il tribunale del riesame che invece aveva evitato di pronunciarsi sui profili detentivi dell’applicazione della misura, limitandosi ad affermare in maniera troppo assertiva che “l’indagato non è soggetto ad alcuna limitazione assoluta della sua libertà di movimento, potendo uscire dalla comunità stessa”. Napoli. Sovraffollamento, Poggioreale scoppia di nuovo: 10 persone per cella di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 15 ottobre 2020 Circa 550 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare: i numeri fotografano alla perfezione l’allarmante sovraffollamento che caratterizza il carcere di Poggioreale. A certificarlo sono i dati pubblicati sul sito del Ministero della Giustizia e aggiornati a ieri. I reclusi nella casa circondariale più grande d’Europa sono attualmente 2.124 a fronte di soli 1.571 posti disponibili. E il trend è in aumento visto che, rispetto al 30 settembre scorso, il numero degli ospiti di Poggioreale è aumentato di 29 unità. Paradossalmente, l’emergenza sanitaria scatenata dal Covid-19 sembrava aver prodotto effetti positivi sulle carceri campane. La diminuzione dei reati, determinata dal lockdown, e la possibilità di scontare la pena a casa, concessa a 910 detenuti, aveva contribuito a rendere la vita dietro le sbarre meno esasperante. Col tempo, però, le attività hanno ripreso il loro corso e, di conseguenza, sono tornati ad aumentare i reati e gli arresti. In più, i provvedimenti adottati dal governo per decongestionare le celle ed evitare che queste si trasformassero in pericolosi focolai di Covid-19 hanno esaurito i loro effetti. “A questo - spiega Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania - si aggiunge l’eccessivo ricorso alla custodia cautelare in carcere al quale corrisponde un troppo timido utilizzo delle misure alternative alla detenzione”. Come se non bastasse, in strutture come quella di Poggioreale si contano numerosi detenuti provenienti da Calabria e Sicilia. “Questa prassi - prosegue Ciambriello - non solo contribuisce ad affollare le celle, ma viola il principio di territorialità della pena”. Le conseguenze sono molteplici: gli avvocati dei detenuti che si trovano lontano da casa incontrano difficoltà nell’espletare il loro mandato; i familiari non riescono a fare visita con regolarità ai loro congiunti in prigione; per gli stessi reclusi il reinserimento diventa più complicato visto che, una volta scontata la pena, sono chiamati a muoversi in un contesto sociale ed economico sconosciuto. Tutto ciò fa sì che in padiglioni come Livorno, Avellino e Milano ci siano tra i sei e i dieci detenuti per cella. “È paradossale - continua Ciambriello - che, all’interno delle prigioni, i detenuti siano ammassati mentre all’esterno si predica la necessità di rispettare il distanziamento sociale così da scongiurare il contagio da Covid-19”. La situazione potrebbe migliorare nel giro di qualche mese, quando dovrebbero finalmente prendere il via i lavori di ristrutturazione di alcuni padiglioni di Poggioreale per i quali risultano già stanziati 12 milioni di euro. Il sovraffollamento, però, è solo una delle mille sfaccettature di un tema più generale: quello relativo alla qualità della vita nei penitenziari italiani. Per migliorarla il garante regionale dei reclusi sta per avviare un’importante iniziativa proprio nel carcere di Poggioreale: “A breve - fa sapere Ciambriello - i detenuti ludopatici ospitati nel padiglione Roma potranno prendere parte a un percorso finalizzato ad allontanarli dal gioco d’azzardo. Si tratta di un’iniziativa promossa dal mio ufficio con un chiaro obiettivo: fare in modo che, una volta scontata la pena, i reclusi non si debbano confrontare con i problemi e con la realtà complicata che li ha condotti sulla via dell’illegalità”. Siracusa. Digiunò e morì in carcere, condannati i medici per omicidio colposo di Giacomo Andreoli Il Riformista, 15 ottobre 2020 Alfredo Liotta, detenuto per mafia, aveva quattro patologie. Smise di mangiare e bere, ma nessuno lo aiutò. Ora la prima sentenza dopo l’intervento di Antigone. “Alfredo soffriva di epilessia, anoressia, depressione ed emorroidi. Per venti giorni non aveva più bevuto né mangiato e questo, assieme a una perdita di sangue, lo portò a morire. Ma i medici del carcere non sono intervenuti in alcun modo”. L’avvocato dell’associazione Antigone, Simona Filippi, è soddisfatta, anche se la sua battaglia è solo alla tappa numero uno. Ieri cinque medici dell’istituto penitenziario Cavadonna di Siracusa sono stati condannati in primo grado per omicidio colposo: secondo la giudice che ha emesso la sentenza quel 26 luglio 2012 Alfredo Liotta si è spento, a 41 anni, per la passività di chi si doveva occupare della sua salute. Gli imputati erano otto e il processo, con il secondo grado ancora da celebrare, è ancora aperto. Intanto, però, il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, sottolinea che si tratta di una “vicenda che pone il caso di quanto sia lungo e complesso avere giustizia quando si è detenuti. Una giustizia che serve alla famiglia e che speriamo aiuti a costruire un mondo più solidale e attento alle fragilità”. Liotta, originario di Adrano, era stato riconosciuto colpevole di associazione mafiosa e omicidio aggravato: quando è morto era in attesa dell’udienza davanti alla Corte di Cassazione, dopo la richiesta di annullamento della sentenza che prevedeva l’ergastolo. Sette anni fa è la moglie di Liotta a rivolgersi all’associazione che si occupa dei diritti degli incarcerati. La sorella scrive loro un messaggio: “Chiedo un vostro intervento nella difesa del caso di Alfredo, lasciato morire senza alcun soccorso. L’ultima volta che l’ho visto è stato ad aprile 2012, era già molto deperito, pesava non più di 55 kg e poi da aprile a luglio c’è stato il decadimento psicofisico che lo ha portato alla fine”. Antigone fa subito un esposto alla Procura di Siracusa nel quale, come spiega Filippi, “si sottolineava come il personale medico e infermieristico che si occupava del detenuto non avesse saputo individuare e comprendere né sintomi né il decorso clinico di Alfredo e che tali carenze conoscitive ne avessero determinato il decesso”. La stessa associazione viene a sapere, tra l’altro, che il 5 luglio 2012, poco prima della morte del detenuto, il suo avvocato aveva chiesto che venisse curato fuori del carcere. Il perito della Corte d’Appello di Catania aveva detto però che l’uomo stava fingendo, impedendogli di uscire dall’istituto. Nessun medico o psichiatra aveva avuto nulla da obiettare. La Procura cittadina, dopo l’intervento di Antigone, indaga nove di loro e anche il direttore del carcere, ma la sua posizione tre anni dopo viene stralciata. Rimangono i medici: dal dibattimento emerge che non avrebbero né misurato la pressione, né pesato, né tanto meno parlato con Liotta per convincerlo a nutrirsi o a farsi fare una flebo, limitandosi ad annotare che non toccava cibo. “La salute in carcere è un bene supremo da tutelare - ricorda oggi Gonnella - la morte di questa persona fu un vero e proprio caso di abbandono terapeutico”. Poi il ringraziamento alla giudice del processo: “Ha permesso di evitare la prescrizione dei reati”. Firenze. Sollicciano, via il quinto direttore in 5 anni. “Troppi problemi e nessuno rimane” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 15 ottobre 2020 Prestopino va a Palermo: ancora incertezza sul sostituto. Sollicciano cambia ancora direttore. Negli ultimi cinque anni, sono stati cinque i direttori che sono cambiati del grande e sovraffollato carcere fiorentino. L’ultima lunga direzione è stata quella di Oreste Cacurri, arrivato nel luglio 2003 e rimasto oltre dieci anni, poi tanti cambiamenti. E così Fabio Prestopino, ai vertici del penitenziario fiorentino da tre anni, lascia Firenze e trasloca a Palermo per l’Ucciardone. Ora di cerca un direttore “provvisorio” per almeno tre mesi. “Qui nessuno vuole venire o restare, i problemi così resteranno per sempre”, afferma don Vincenzo Russo, cappellano del carcere. Sollicciano cambia ancora direttore. Fabio Prestopino, ai vertici del penitenziario fiorentino da tre anni, lascia Firenze e trasloca a Palermo, dove dirigerà il carcere dell’Ucciardone. Una notizia che non viene presa positivamente da buona parte dei reclusi, ancora una volta costretti a fare i conti con un cambio alla direzione. Un carcere, quello di Sollicciano, che non sembra trovare pace visti i continui avvicendamenti al vertice. Negli ultimi cinque anni, sono stati cinque i direttori che sono cambiati. E se per qualcuno il cambiamento è un segnale salutare per imprimere nuova linfa vitale e nuove idee, per tanti altri il cambiamento così repentino è sinonimo di malagestione e difficoltà organizzative nel lungo periodo. In molti penitenziari italiani gli avvicendamenti alla direzione sono frequenti, ma raramente così repentini come è successo a Sollicciano. Una lunga direzione - l’ultima - fu quella di Oreste Cacurri, arrivato nel luglio 2003 e rimasto oltre dieci anni. Dopo di lui arrivò Marta Costantino, che però lasciò la direzione dopo soli nove mesi tornando a ricoprire un ruolo a Roma. Fu poi la volta di Loredana Stefanelli, ma anche lei durò pochi mesi. Nel 2017 ha varcato la direzione di Sollicciano il direttore Carlo Berdini, ma anche lui è rimasto pochi mesi e veniva a Firenze soltanto un paio di volte alla settimana visto il suo impegno come direttore del carcere di Parma. Poi è stata la volta di Prestopino. E adesso? Per tre mesi come direttrice provvisoria dovrebbe arrivare Antonella Tuoni, attuale direttrice dell’adiacente carcere di Solliccianino ed ex direttrice dell’Opg di Montelupo. E dopo? Ancora nessuna certezza. Un problema, quello della direzione ballerina, confermato anche dallo stesso Prestopino, che lascerà ufficialmente il carcere tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre: “È vero che il cambio continuo può essere un problema, ritengo però che un avvicendamento, magari non così veloce, possa essere salutare affinché al carcere si possa dare un contributo diverso”. Sono tante le partite aperte e i problemi ancora irrisolti nel carcere, primi fra tutti quelli del sovraffollamento e quelli dell’obsolescenza della struttura. Lo dice anche il direttore che sta per andarsene: “Il problema strutturale è quello principale, seguito dalla necessità di un rafforzamento del team di dirigenti e funzionari attualmente carente”. Ma Prestopino si lascia alle spalle anche risultati positivi, come la recente realizzazione della seconda cucina e l’istituzione, unica in Italia, del consiglio dei detenuti, un organo consultivo formato da 34 reclusi che dialoga costantemente con la direzione. Prestopino ha guidato il carcere nel momento del lockdown e della pandemia, e certo non è stato semplice, soprattutto quando andò in scena, la scorsa estate, una violenta protesta dei detenuti che appiccarono il fuoco nei corridoi bruciando e spaccando quello che trovavano a portata di mano. La rivolta fu domata e fortunatamente rientrò. “Sono felice di andare in un penitenziario prestigioso come quello di Palermo - ha detto infine Prestopino - ma sono allo stesso tempo dispiaciuto di lasciare Sollicciano, dove sono costretto a salutare validi operatori e un ottimo comandante”. Firenze. “Qui nessuno vuole venire o restare, ora il Ministero faccia un concorso” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 15 ottobre 2020 Il cappellano: c’è bisogno di una progettualità seria e a lunga scadenza. Il nostro carcere adesso ha bisogno di essere riorganizzato da un punto di vista strutturale e gestionale. “Non è normale che un carcere cambi cinque direttori in cinque anni. Senza un direttore di lungo periodo i problemi strutturali di Sollicciano resteranno per sempre. Un penitenziario come il nostro richiede una presenza continuativa e non temporanea. Speravamo che il dottor Prestopino potesse essere l’uomo giusto, e invece ancora una volta siamo rimasti delusi. Servono anche vicedirettori, al momento assenti, capaci di assecondare la direzione e lavorare fianco a fianco”. Il cappellano di Sollicciano, don Vincenzo Russo, è dispiaciuto per il nuovo cambio al vertice dell’istituto penitenziario. Don Russo, Sollicciano è un caso nazionale? “Nei penitenziari italiani sono frequenti i cambi al vertice perché da più di vent’anni non c’è un concorso per direttori e succede che ad ogni dirigente vengano assegnati più istituti, con pochi direttori su più incarichi che spesso sono ballerini. Ma sicuramente possiamo dire che Sollicciano, con 5 direttori in 5 anni, è un caso nazionale ancor più lampante”. Perché avvengono questi cambi così frequenti? “È una domanda a cui può rispondere solo il ministero”. Ma i direttori se ne vanno per scelta loro o per scelta del ministero? “Eccetto il dottor Cacurri e il dottor Prestopino, tutti i direttori che si sono succeduti erano a Firenze in modalità provvisoria, erano direttori che tappavano una falla laddove non c’era stata assegnazione effettiva”. Quindi le colpe sono del Ministero? “Visti i gravi problemi strutturali, Sollicciano non è certo una meta ambita per gli aspiranti direttori, non c’è la corsa per venire ad amministrare il carcere di Firenze e questo è un problema per cui il ministero sembra aver fatto poco”. Quali conseguenze negative possono avere cambi di direzione così frequenti? “Quando manca la continuità vengono a mancare l’organizzazione, i punti di riferimento… e tutto rischia di stravolgersi”. Non vede, al contrario, la possibilità di una maggiore vitalità con direttori sempre nuovi? “Assolutamente no, c’è bisogno di una progettualità seria e a lunga scadenza”. Questa instabilità ai vertici quali problemi ha creato a Sollicciano? “Ha facilitato l’aggravamento delle condizioni del carcere da un punto di vista strutturale e organizzativo-gestionale”. Quali sono i problemi irrisolti più urgenti? “Mancano spazi per la formazione e per il lavoro, così com’è adesso, Sollicciano è soltanto un luogo di pura pena incapace di rieducare. La struttura del carcere è fatiscente e vecchia, d’inverno è freddissimo, d’estate è caldissimo. E poi manca una politica d’integrazione per le oltre 40 etnie presenti nelle celle”. E adesso cosa si aspetta? “Spero in un intervento tempestivo del garante regionale dei detenuti, aspettiamo sue iniziative concrete per portare il problema a Roma”. Catanzaro. “La didattica per… Ri-dare un sorriso” reportageonline.it, 15 ottobre 2020 La scuola Petrucci-Ferraris-Maresca e l’Asp insieme a favore dei detenuti. Firmato il protocollo d’intesa relativo al progetto “La didattica per… Ri-dare un sorriso”, un’iniziativa portata avanti dall’Istituto superiore “Petrucci - Ferraris - Maresca”, dalla Casa Circondariale Ugo Caridi di Catanzaro e dall’Asp di Catanzaro. Il progetto prevede la realizzazione da parte degli studenti delle protesi dentarie per i pazienti indigenti detenuti e si svolgerà in collaborazione con l’Asp di Catanzaro. I ragazzi delle quarte e quinte del corso di odontotecnica vivranno perciò un’esperienza importante di alternanza scuola-lavoro ma anche di particolare valore sociale. Il progetto di protesi sociale “La didattica … per ridare un sorriso”, deliberato a dicembre dal collegio dei docenti dell’Istituto e inserito nella banca dati dei fabbricanti di dispositivi medici del ministero della Salute, si prefigge due scopi: realizzare e fornire ai pazienti indigenti le protesi dentarie di cui hanno bisogno, una volta che ne siano accertati le necessità e le impossibilità economiche, e fornire agli allievi la possibilità di svolgere l’attività di Alternanza scuola-lavoro acquisendo sul campo competenze e abilità. È un progetto che guarda al territorio e che si realizzerà insieme ai Comuni aderenti e alle associazioni di volontariato che vi operano e che segnaleranno agli odontoiatri partecipanti i casi di reale necessità secondo gli usuali indicatori Isee, nella fattispecie compresi tra i 6000 e gli 8000 euro annui. Del territorio fa parte anche la Casa circondariale, da qui scaturisce la firma del protocollo, e tra i medici aderenti ci sono i due odontoiatri che svolgono l’attività assistenziale tra le sue mura. Come ha riportato la direttrice Paravati, tra i circa seicento detenuti, cinque o sei hanno necessità assoluta di protesi dentarie e non hanno i mezzi economici per accedere alla prestazione che non fa parte dei Livelli minimi di assistenza e pertanto è a pagamento. “In un momento in cui arrivano soprattutto brutte notizie anche dal mondo del carcere”, ha detto la direttrice Angela Paravati, “è importante sottolineare l’aspetto solidale dell’iniziativa che va incontro ai bisogni di detenuti particolari, realmente bisognosi, che anche in ragione della dipendenza da sostanze si ritrovano in giovanissima età a non poter neanche più masticare”. “È un’azione d’insieme, che non avrebbe potuto realizzarsi se non con l’apporto di tutti i soggetti coinvolti e che sono qui rappresentati, ciascuno con il suo ambito d’intervento e con la sua competenza”, ha detto la dirigente dell’Istituto di istruzione superiore Elisabetta Zaccone, “e personalmente sono particolarmente contenta per l’avvio delle attività di progetto, che unisce la finalità didattica all’utilità sociale. Secondo Maria Teresa di Calcutta ciò che noi facciamo è solo una goccia nell’Oceano, ma senza quella goccia l’Oceano sarebbe più piccolo. Ecco, il nostro progetto è quella goccia”. Roma. Premio Castelli, domani la premiazione dei detenuti-scrittori di Simone Baroncia korazym.org, 15 ottobre 2020 Si svolgerà venerdì 16 ottobre 2020 a Roma, presso la sede di Palazzo Maffei Marescotti in via della Pigna 13/A, la cerimonia di premiazione del XIII Premio Carlo Castelli per la solidarietà. Il concorso letterario riservato ai detenuti delle carceri italiane è promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli, con il patrocinio del Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Ministero della Giustizia e Università Europea di Roma e con lo speciale riconoscimento della medaglia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Media Partner: Pontificio Dicastero per la Comunicazione (Radio Vaticana, Vatican Media e Osservatore Romano), TV2000 e Radio InBlu. L’evento verrà trasmesso in diretta su Facebook e Youtube dalle ore 18.00. Come ogni anno, anche per questa edizione sono giunti elaborati da numerosi istituti di pena di tutta Italia. Ai primi tre classificati la giuria assegnerà un doppio premio in denaro: una parte verrà consegnata all’autore, mentre un’altra somma verrà destinata ad un’opera di solidarietà. Così, anche chi ha ‘sbagliato’ nella vita e vive l’esperienza della reclusione, avrà la possibilità di compiere una buona azione, come ha sottolineato Antonio Gianfico, presidente della Federazione nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli: “Riteniamo che questo sia uno stimolo per aiutare il recluso a riconciliarsi con il proprio vissuto e con la società”. Il tema della tredicesima edizione è: ‘Il mondo di fuori visto da dentro’. Dai racconti dei detenuti emerge proprio la consapevolezza di vivere in un ‘tempo sospeso’, l’ansia di non sapere se, una volta scontata la pena, fuori ci sarà ancora qualcuno ad attenderti, una casa, un lavoro. Ma, dagli elaborati emerge anche un altro sentimento: la paura. Puntando all’essenza della narrazione, stimolando soprattutto la spinta interiore che la persona è capace di sentire e di esprimere, il Premio Castelli vuole significare vicinanza a coloro che hanno intrapreso un percorso di cambiamento, o di conversione, a chi ancora non se ne sente capace, nonché provocare una riflessione in tutte le persone che non vogliono vedere e sentir parlare di carcere, come ha evidenziato Claudio Messina, delegato nazionale carceri della Società di San Vincenzo De Paoli ed ideatore del Premio Carlo Castelli: “Viene da chiedersi come possa una persona ristretta in carcere percepire la realtà esterna… La galera interrompe bruscamente una condizione di vita e ne determina un’altra piena di limitazioni e divieti, tagliando contatti esterni e causando grossi condizionamenti ed una forte regressione nello sviluppo della personalità e nelle relazioni”. Il responsabile di “Vatican News Service”, Davide Dionisi, ha sottolineato che la scrittura è una terapia: “Scrivere diventa così una terapia che, attraverso il racconto autobiografico, consente di ritrovare agganci con un mondo separato. Con uno stile personale, vengono ripercorsi gli anni passati e la prospettiva “dall’interno” ci offre un punto di vista privilegiato sui detenuti e sulla realtà del carcere, un luogo che segue regole complesse, molte volte crudeli. Tanto più in tempo di pandemia, quando l’ospite è due volte isolato, per aver violato le regole e per essersi, inconsapevolmente, ritrovato a fare fronte ad un nemico invisibile. Il virus, appunto”. Il presidente della giuria, Luigi Accattoli, ha fatto un’analisi degli scritti pervenuti: “I tre mesi dell’impatto maggiore di questa emergenza, da marzo a maggio, sono coincisi con il trimestre di elaborazione e di invio dei lavori da parte dei concorrenti e in tale coincidenza è da cercare la prima ragione del ridotto numero di lavori pervenuti, che sono stati in totale 45, nonostante il nostro tentativo di rimediare prolungando al 30 giugno il tempo di invio. Uno sguardo alle edizioni recenti ci segnala che i partecipanti di quest’anno sono stati meno numerosi rispetto a ogni altro anno e inferiori di oltre la metà rispetto per esempio a quelli del 2019, quando erano stati 101 e anche in quel caso si era trattato di un anno con bassa partecipazione. Prendendo l’anno recente più affollato, il 2017, che ebbe 196 partecipanti, quest’anno ne abbiamo avuti meno di un quarto. Il clima di incertezza indotto dall’emergenza sanitaria, che nelle carceri è stata percepita con forza raddoppiata; le restrizioni delle comunicazioni con l’esterno, in particolare quelle riguardanti i colloqui; la sospensione delle attività lavorative, scolastiche e dell’intera area educativa hanno comprensibilmente inciso su questa ridotta attenzione al nostro bando. Dell’influenza psicologica e pratica del tempo sospeso della pandemia sulla partecipazione al concorso danno conto, negli elaborati, una metà dei concorrenti. Per l’esattezza: 23 su 45. Si va da accenni marginali a trattazioni piene”. Ai tre vincitori di questa edizione vanno rispettivamente 1.000, 800 e 600 euro, con il merito di finanziare anche un progetto di solidarietà. In aggiunta ai premi, a nome di ciascuno dei tre vincitori saranno devoluti, nell’ordine: 1.000 euro per finanziare la costruzione di un’aula scolastica nel Centro Effata di Nisiporesti (Romania); 1.000 euro per un progetto formativo e di reinserimento sociale di una giovane dell’Istituto minorile di Casal del Marmo (Roma); 800 euro per l’adozione a distanza di una bambina dell’India. Queste le opere premiate: La paura di decidere chi essere - Colombo Stefania (C.R. Milano Bollate); Quello che vedo dall’aldiquà - Ziri Elton (C.R. Vigevano - PV); Il buco della serratura - Spiridigliozzi Marcello (C.R. Roma Rebibbia). Inoltre, la Giuria del Premio Carlo Castelli ha conferito dieci segnalazioni di merito ai migliori elaborati pervenuti da vari istituti penitenziari. Le opere finaliste sono raccolte e pubblicate in un volumetto intitolato “Spazi vicini. Vite distanti” edito da Anthology Digital Publishing. “Il giustizialismo oggi è diventato nevrosi politica” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 ottobre 2020 “Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale” è il titolo del nuovo libro del sociologo dei fenomeni politici Luigi Manconi e della studiosa di filosofia e letteratura Federica Graziani, edito da Einaudi. È la rappresentazione di un Paese in cui l’emotività e la paura hanno il sopravvento sull’analisi dei fatti, l’angoscia collettiva reclama pene sempre più severe nonostante i crimini siano in calo, e dove processi pubblici e gogne mediatiche hanno perfettamente preso il posto delle tricoteuses settecentesche. Con questa intervista doppia vi diamo un assaggio del libro che termina con un test per i lettori: 11 casi esemplari per capire se siamo giustizialisti o garantisti. Scrivete che oggi “lo scontro tra il populismo penale e una concezione garantista del diritto e della pena è in pieno svolgimento. E l’esito è del tutt’altro che scontato”. Sarò pessimista ma a me sembra che almeno a livello di dibattito pubblico stiamo in minoranza. Secondo lei come si delineerà questa battaglia in un futuro prossimo? Luigi Manconi (LM) - Sappiamo che è una battaglia cruciale e destinata a durare a lungo e a condizionare non i prossimi mesi, bensì i prossimi decenni. Se la consideriamo dentro questa lunga prospettiva, innanzitutto dobbiamo osservare che la situazione è molto migliorata rispetto a trent’anni fa: oggi la minoranza seriamente garantista è assai più ampia di quanto lo fosse all’epoca. Si può immaginare, di conseguenza, che crescerà e si allargherà e che le prossime controversie potrebbero avere anche risultati positivi e comunque favorire un cambiamento nei rapporti di forza. Non tutto è perduto. Nel libro condividete anche una serie di dati importanti per smontare, ad esempio, la narrazione distorta che soprattutto in passato ha fatto Matteo Salvini del fenomeno migratorio. Perché l’evidenza dei dati non ha alcuna efficacia nella formazione dell’opinione pubblica? Federica Graziani (FG) - I dati sono univocamente a favore delle nostre tesi e non solo per quanto riguarda l’immigrazione, che non costituisce l’invasione di cui blaterano i sovranisti. I dati smontano anche, e impietosamente, il paradigma della sicurezza. Nei primi anni 90 si commettevano ogni giorno più di cinque omicidi volontari, nel 2019 gli omicidi volontari sono stati assai meno di uno al giorno. Ma perché questi dati risultano inefficaci al fine di contenere l’ansia collettiva e ridimensionare l’allarme per la sicurezza? La ragione potrebbe consistere nel fatto che la società italiana, e non solo quella, oggi è immersa in una condizione di insicurezza assai grave, profonda e diffusa. Ed è un’insicurezza materiale, concreta e dovuta alla crisi economico- sociale, che inquieta rispetto al futuro proprio e dei propri cari e provoca un generale smarrimento. È da questo stato che discende la paura rispetto alla minaccia della criminalità e che si tende a identificare, sempre e comunque, l’autore del reato nello sconosciuto, nell’ignoto, nello straniero. Personalmente su questo giornale ho seguito molto il caso di Marco Vannini di cui scrivete per evidenziare le criticità e le conseguenze di quel giustizialismo televisivo come una sorta di “populismo sputtanante” È solo uno dei tanti casi di quella che chiamate “glamourizzazione” dei crimini prendendo in prestito John Pratt. E mi ha fatto molto sorridere la caricatura che avete fatto di Giulio Golia delle Iene, “proiezione grottesca della maschera di Antonio Di Pietro”. Come possiamo invertire la rotta? È il Tribunale del Popolo che chiede questo spettacolo o sono gli editori, i mass media che lo alimentano? Ci vorrebbe un intervento dell’Ordine dei giornalisti? LM - Pensiamo che qualsiasi intervento “esterno”, come quello dell’Ordine dei giornalisti ma anche qualunque codice di autoregolamentazione - e già ci sono, non avrebbe alcuna efficacia. Il corto circuito tra opinione pubblica e informazione brucia ormai da moltissimi anni e non è reversibile. D’altra parte, l’ennesima e moralistica lamentazione contro i mass media ci sembra vana, anche per una ragione troppo spesso sottovalutata. Pure nel caso in questione, l’eterna domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina ci sembra futile. Siamo in presenza, appunto, di un circuito chiuso dove quello che lei chiama il Tribunale del Popolo alimenta il sistema dell’informazione, e quest’ultimo incentiva gli umori e i rancori del Tribunale del Popolo. L’uno giustifica l’altro. Il primo asseconda e accende, eccita e rinfocola il secondo, e ne viene, a sua volta, stimolato e blandito. Senza sottovalutare nemmeno per un attimo le responsabilità dei media, non si deve dimenticare che una domanda di giustizia sommaria e di rivalsa sociale cova nel profondo dell’animo umano. E si alimenta di relazioni private e scambi domestici, di frustrazioni personali e di sentimenti familiari persino prima di entrare in rapporto con il sistema dell’informazione. Mi ha molto colpita l’analisi del termine “giustizialista” nell’accezione tedesca: “qualcosa di simile alla nevrosi tale da trasformare l’amore per la giustizia in ingiustizia”. Ormai difendere la tutela delle garanzie individuali è diventato difficilissimo, soprattutto quando si parla di carcere. Come sanare questa situazione? FG - Rispetto al carcere, siamo immersi in una fitta nebbia di equivoci. Equivoci che sono diventati prima luogo comune, poi emozione dominante - sono diverse le balle che reclamano attenzione pubblica - e infine si sono consolidati come modello di interpretazione egemonico. Il più diffuso è forse quello che riconosce l’esistenza nel nostro Paese di una sostanziale impunità dei criminali: sono pochi i delinquenti che vengono scoperti e inquisiti, ancora meno quelli che sono condannati e, per quei rarissimi che in carcere ci finiscono davvero, ci sono mille trucchi e mille inganni tutti strapaesani per uscirne e compiere nuovi reati. E c’è una lunga serie di efferate vicende di cronaca che sta lì a testimoniarlo. Ecco la distorsione. Non solo in Italia le pene detentive sono più lunghe rispetto alla media europea, si rimane insomma in carcere di più che negli altri Paesi, ma le misure grazie a cui le persone recluse, a vario titolo, escono di cella finiscono con una revoca perché si commette un nuovo reato nello 0,63 per cento dei casi. Esiste quindi più del 99 per cento di vicende in cui ciò non accade, ma chi mai ha visto un servizio televisivo o un articolo di prima pagina su questo? Nell’analizzare il Movimento 5 Stelle dite tre cose a parer mio significative. Sono segnati da una matrice antiscientifica, non inseguono l’onestà quanto piuttosto la punizione della disonestà, sono connotati da un profondo nichilismo: “Per essere, l’altro deve redimersi”, come ha reclamato Di Maio nei confronti del Pd prima dell’accordo per il governo “giallo-rosso”. Molti sostengono, anche all’interno del Pd stesso, che ad esempio sulla questione immigrazione il Pd si sia snaturato. Ma non solo. Lei come giudica questa alleanza e fin quando durerà? LM - Si può dire che il Partito Democratico e i 5 Stelle siano costretti all’alleanza e, probabilmente, a una coalizione di lungo periodo. Nello spazio politico italiano, la recente polarizzazione impone un’intesa non solo occasionale tra i due partiti (diciamo due partiti perché 5 Stelle adotta, pressoché da sempre, la forma partito secondo tutti i crismi della politologia). D’altra parte, è inevitabile che l’alleanza finisca con lo snaturare entrambi: e come questo vada a vantaggio o a svantaggio dell’uno o dell’altro dipende e dipenderà dai rapporti di forza. Dopo un primo anno in cui ha prevalso la povera cultura politica dei 5 Stelle, con il voto del 20 settembre le cose sono andate modificandosi e la riforma dei decreti sicurezza ne è stato il primo e concreto risultato. Ma siamo soltanto all’inizio. Quello che è certo è che le distanze, per così dire ideologiche, tra i due partiti sono davvero ampie e solo un radicale processo di rinnovamento culturale e politico potrà portare a un programma che non sia semplicemente una sommatoria di obiettivi disparati e di omissioni sui punti controversi, ma una vera prospettiva comune. Il mio scetticismo sull’esito di questa prospettiva nasce esattamente da quell’analisi profondamente critica, che lei riporta, sui 5 Stelle come soggetto anti- politico, giustizialista e nichilista, che tanti danni ha fatto alla mentalità collettiva del nostro paese. Ultima questione: Marco Travaglio, desiderato da Beppe Grillo come Ministro della Giustizia, è alla guida del partito giustizialista. A contrapporsi alla sua linea - scrivete - Il Dubbio, Il Foglio, Il Manifesto, Il Riformista. Come mai la scelta di dedicargli un’analisi così approfondita? FG - Abbiamo scelto Marco Travaglio come figura paradigmatica della mentalità giustizialista innanzitutto perché gli è capitato di essere tra i front- man più aggressivi, sgraziati e onnipresenti di tutte le battaglie più furiose in campo giudiziario. E poi perché incarna in modo puntuale quella sorta di ideologia per cui la società è dominata dal male e dalla corruzione. Non si può dunque che guardare dall’alto ai fatti del mondo, da un presidio di virtù e di intransigenza che perde il contatto con la realtà e si ritrova a descriverla in tinte sempre forti e ben marcate. Ricordate il titolo del Fatto sull’Italia “a delinquere” o il nomignolo inventato per il sindaco di Bergamo, la città più colpita dalla pandemia: Giorgio Covid? Ecco, se l’intera rappresentazione sociale, i suoi attori, le reti di relazioni e le forme di comunicazione sono sempre immerse in iperboli, se le sole virtù apprezzate si basano sulla forza e sulla repressione del crimine, se i fatti sono interrogati solo perché svelino contraddizioni e raggiri, che tipo di giustizia ne viene fuori? “No a nuovi penitenziari, puntiamo su depenalizzazione”, la proposta di Nicola Graziano di Viviana Lanza Il Riformista, 15 ottobre 2020 I luoghi condizionano le persone. Quanto vale per chi è in carcere? “Sono pianamente d’accordo con la riflessione posta a base della domanda. Nel carcere ci sono regole e condizioni che incidono profondamente sulla personalità del detenuto, chiamato a vivere in base a regole imposte dall’ambiente carcerario che, lungi dall’avere un effetto positivo, può creare disagio psicologico e angoscia”, spiega il magistrato Nicola Graziano, giudice presso il Tribunale di Napoli e autore del libro “Matricola zero zero uno”, un viaggio nel mondo dietro le sbarre scritto dopo aver trascorso, da infiltrato, 72 ore nell’ospedale psichiatrico-giudiziario di Aversa. Parliamo di edilizia penitenziaria: secondo lei, andrebbe riformata? “Il problema dell’edilizia carceraria è principalmente quello del sovraffollamento e, quindi, della mancanza di spazi minimi sufficienti a una convivenza carceraria dignitosa. La soluzione potrebbe essere ricercata nel creare nuovi istituti in un’ottica più moderna, ma temo che questo non sia del tutto sufficiente se non si attua, da una parte, una depenalizzazione degli illeciti e, dall’altra, una cosiddetta decarcerizzazione. Credo che, in uno Stato di diritto maturo come quello italiano, non ci sia più possibilità di rinviare questa riforma strutturale del sistema penale e carcerario”. Da anni si parla di diritto all’affettività dei detenuti: perché è importante e come lo si può coniugare con la certezza della pena? “È un tema centrale. L’affettività dei detenuti è troppo spesso negata e questo contrasta con il principio della rieducazione della pena perché non è certamente educativo, nel senso penale, negare sistematicamente i diritti fondamentali della persona. E non alludo solo a quello della sessualità, ma anche quello delle relazioni affettive che, in chiave rieducativa, appaiono di fondamentale importanza. Si potrebbe seguire la scia dell’esperienza francese delle unitès de vie familiale o dei parloirs familiaux”. Nel nostro Paese quella del carcere è un’emergenza perenne, perché? “Come ho detto prima, troppo spesso, e a volte inutilmente, si ricorre all’applicazione di una sanzione penale per rispondere a fatti che non assumono rilevanza tale da dover essere considerati idonei a offendere un bene giuridico degno di una risposta penale. Si tratta di avviare un serio e non più rinviabile processo di depenalizzazione accanto al quale immaginare che si può scontare una pena anche “oltre le mura”, ricorrendo a sistemi alternativi dei quali credo che sempre più spesso si debba fare uso. Ovviamente non si può affatto generalizzare, ci sono reati gravissimi e odiosissimi davanti ai quali lo Stato è chiamato a una risposta certa, forte e non mediabile per nessun motivo”. Dal carcere, per come sono oggi le strutture penitenziarie nel nostro territorio, si può davvero uscire migliori? “Non si può generalizzare. Ogni vicenda ha una sua storia particolare e quindi non credo si possa essere pregiudizievoli verso questo o quel carcere. Sono certo, però, che il tentativo è quello di andare nella direzione di una umanizzazione della pena e quindi di tentare di rendere effettivo il principio costituzionale della rieducazione della pena. Non mi contraddico con la prima risposta. Voglio dire che non si può imputare nulla ad addetti ai lavori, quindi appare più giusto cercare di cambiare il sistema in sé al fine di evitare i risvolti negativi della detenzione carceraria”. In Matricola zero zero uno racconta le 72 ore da “infiltrato” nell’ospedale di Aversa. Cosa ha rappresentato per lei quella esperienza? Cosa le ha lasciato? “Quell’esperienza è unica nel suo genere, anche perché si trattava di un Opg che oggi è stato superato da una riforma attuata in tempi rapidi e di fondamentale importanza per il nostro Stato di diritto. Nel libro è rappresentata la mia esperienza nella sua forza e nella sua drammaticità ma anche nel suo profondo realismo. È stata un’esperienza senza ritorno che mi ha reso per sempre testimone di un sistema che per fortuna non c’è più e, nel contempo, sentinella in guardia contro tentativi di un ritorno al passato che sarebbe a dir poco imperdonabile. E per questa domanda le sono grato proprio perché mi dà la possibilità di ricordare che nulla dovrà essere più come prima in relazione alla risposta di uno Stato democratico nel caso di fatti delittuosi posti in essere da persone incapaci di intendere e volere”. “Scritti dal carcere”. Poesie e prose di Bobby Sands recensione di Mario Bonanno sololibri.net, 15 ottobre 2020 Gli “Scritti dal carcere” (in buona parte inediti) di Bobby Sands appaiono tradotti in italiano per la prima volta con prefazione di Gerry Adams. Parafrasando Luigi Tenco, nel suo lapidario biglietto di addio: mi auguro che la loro lettura serva a qualcuno. Un testo salvifico, dalla potenza civile inarrivabile, che arriva in libreria a cura di Riccardo Michelucci e Enrico Terrinoni. Provo a evitare la retorica, sul taglio di denuncia non mi sento di promettere: detesto l’informazione paludata e rivendico il diritto di fare giornalismo militante se il libro merita, come nella fattispecie. Se questa premessa già non vi piace, smettete a questo punto e non leggetemi più. Il dissenso civile (se e quando ci vuole, e quasi sempre ci vuole) è viatico di una partecipazione vigile, vissuta a occhi e mente aperti. Un po’ come scrivere. Per sé stessi e per gli altri, soprattutto se hai una fede da consegnare alla storia. Bobby Sands la fede ce l’aveva, ed era una fede doppia: religiosa e politica. Nel fiore degli anni e per come ha potuto ha scritto tantissimo per sé e per gli altri. Repubblicani dell’IRA come lui. Fuori e dentro il Blocco H. dello stato britannico, monarchia e democrazia che convivono insieme in un sistema pluripartitico. L’ho detto prima: casso la tentazione retorica ma l’indignazione no, ed ecco quello che credo: credo che il concetto di democrazia (per come si è svilito, ed era già svilito all’epoca di Bobby Sands) si presta a una mistificazione di fondo, se è vero che i governi, sotto qualsiasi latitudine del mondo, finiscono con l’essere quasi sempre gestiti da incapaci egopatici. O peggio da burocrati genuflessi agli oligarchi-detentori del potere economico che edulcorano lo sfruttamento delle masse dietro il paravento di libertà indotte (obbligatorie, per dirla con l’ossimoro di Giorgio Gaber). Il capitale ha fatto del mondo una vasta prigione, una prigione senza celle apparenti, le gabbie ideali in cui siamo rinchiusi senza neanche accorgercene. È così che per me stanno le cose, e ci stanno, lo ripeto, da ancora prima dei tempi di Bobby Sands, morto prigioniero, a seguito di uno sciopero della fame protratto troppo a lungo. Non voleva che la sua lotta politica venisse ridotta ad espressione di criminalità comune. La lunga citazione che segue è estratta da Scritti dal carcere. Poesie e prose, che l’editrice PaginaUno manda in libreria, a cura di Riccardo Michelucci e Enrico Terrinoni. Leggete e studiate questo libro, fatelo vostro, imparatelo a memoria, perché si tratta di un testo salvifico, dalla potenza civile inarrivabile: “Nessuna dannata menzogna ben congegnata o scusa contrita cancellerà mai la cicatrice incisa così a fondo nel cuore di mia madre, che ha visto cosa mi hanno fatto e continuano a farmi. Certo, ci sono i servizi igienici a disposizione di ciascun blanketman, ci sono anche docce, strutture sanitarie e un’ampia scelta di altri servizi - ma a quale prezzo sono stati ottenuti? Sempre alle loro condizioni, condizioni imposte da un branco di fanatici bigotti, la colonna portante di uno stato settario. “Svuota il tuo bugliolo se vuoi,” dicono, “ma solo nel modo in cui decidiamo noi!”. “Va’ in giro nudo oppure indossa l’uniforme carceraria.” Conosciamo quell’atteggiamento. È lo stesso delle medesime autorità all’esterno: “Comprate un appartamento simile a una tomba a Divis Flats oppure vivete in strada,” dicono, “Lavorate per pochi spiccioli oppure non lavorate per niente e morite di fame.” E ancora, “Potete votare ogni quattro anni, e se non vi va bene peggio per voi, “questo è quello che dicono! Per fare reclamo nel Blocco H, dicono i secondini, “Scrivete il vostro nome per parlare con il direttore del carcere.” All’esterno è più o meno lo stesso, ovvero: “Andate a parlare con un membro del Parlamento”. Il risultato è analogo in entrambi i casi, poiché le condizioni abitative e la qualità della vita sono chiaramente visibili a Belfast e altrove, come all’interno del Blocco H. se fai un passo falso ti sbatto nei Blocchi H dove, se ti ribelli e ti rifiuti di essere criminalizzato, ti torturano per cercare ancora una volta di piegarti e di sottometterti”. Se si considera che brani come questo il giovane Bobby Sands li scrive sui fogli improvvisati della carta igienica o delle cartine dei pacchetti di sigarette (più resistenti), il contenuto si connota di concetti assoluti. Lucidi. Dissidenti. Disalienanti. Con il valore aggiunto del pathos sottotraccia, dato che Sands scrive quanto scrive tra una sevizia carceraria e l’altra. Da martire annunciato, da oltraggiato, spesso da nudo, seppure al contempo da irriducibile. Presago della morte imminente e anche che la lotta per l’Irlanda repubblicana sarebbe proseguita dopo di lui. Più o meno alla stessa età in cui i giovani figli della globalizzazione (i giovani contemporanei della fine del mondo libero) progettano selfie e aperitivi, Bobby Sands si arruola nell’IRA. Un amore smisurato per la patria e la giustizia sociale costituiscono il movente della scelta radicale. I suoi Scritti dal carcere ce lo rivelano rivoluzionario dalla schiena dritta. Un umanista acuto, poetico ma inflessibile, dotato di quella coerenza ideale senza deroghe, che lo accompagna fino alla morte. “Immaginate come ci si può sentire nudi, rinchiusi per ventiquattro ore al giorno in una cella di isolamento, sottoposti alla totale privazione non solo delle cose ordinarie di tutti i giorni, ma delle fondamentali necessità umane come i vestiti, l’aria fresca, l’esercizio fisico, la compagnia di altri esseri umani. In altre parole. Immaginate di essere sepolti, nudi e solo per un giorno intero. Come sarebbe per venti strazianti mesi”. Pagina dopo pagina, verso dopo verso, la parabola incontro alla morte di Bobby Sands si delinea con il passo di una via crucis, assecondando quasi una teleologia cristologica, non fosse che per il messaggio politico che non recede fino alla fine (ma, a guardar bene, anche Gesù viene ucciso per il messaggio politico di cui si fa portatore). Bobby Sands muore giovane il 5 maggio 1981 nel carcere britannico di The Maze, a Belfast. L’aspetto che più colpisce della sua storia è che è una storia ignobile dell’altro ieri. Le vessazioni subite in carcere non riferiscono a un tempo lontano. Gli anni a cui riferiscono sono gli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso: ciò dimostra la recidività di un Potere che si libera dei suoi figli ribelli con metodi identici a quelli dei poteri di ogni tempo. I metodi detentivi attraverso cui Bobby Sands viene indotto alla morte (“lo Stato non tratta con un terrorista, meno che mai se irriducibile”) non sono cioè prerogativa delle prigioni inglesi: si guardi alla storia carceraria degli anni di piombo, italiani e tedeschi (per esempio), per rendersene conto. Don Roberto Sardelli, il prete degli ultimi che amò solo i diseredati di Eraldo Affinati Il Riformista, 15 ottobre 2020 Cinquant’anni fa poteva accadere a Roma che un ragazzino finisse ucciso mentre giocava lungo i binari della ferrovia, come oggi capita nelle periferie delle metropoli asiatiche o africane. Dentro le povere abitazioni cresciute alla maniera di piante rampicanti sui ruderi antichi dell’Acquedotto Felice non c’era energia elettrica, né impianti idraulici. Quando pioveva si gettava un’incerata sul tetto in eternit, senza sapere che fosse cancerogeno, nella speranza che tenesse. Le persone che vivevano in quelle condizioni erano migranti italiani, in maggioranza provenienti da Villavallelonga, un comune in provincia dell’Aquila, ma anche da Calabria e Sardegna. Quando Mohamed e Lucinda eravamo noi. Proprio accanto all’insediamento, che venne smantellato nel 1973, nel momento in cui gli abitanti furono “deportati” a Nuova Ostia, sorge ancora oggi la grande Chiesa di San Policarpo (all’epoca soprannominata “il panettone”, e “la centrale nucleare”). Fu dalla terrazza dell’edificio religioso che don Roberto Sardelli, giovane prete appena nominato vice parroco, vide per la prima volta lo scempio posto accanto ai fascinosi pini della Via Appia, con le reggie abusive dei nuovi palazzinari. Era un ex funzionario di banca che, dopo aver preso i voti, aveva girato un po’ in Europa, forse perché i suoi superiori credevano potesse intraprendere una carriera ecclesiastica nei ranghi vaticani e avesse quindi bisogno di imparare le lingue. In Francia gli capitò di incontrare in una colonia estiva alcuni ragazzi di Barbiana, i quali lo invitarono a conoscere il priore, loro maestro. Don Roberto si appassionò allo stile educativo di don Lorenzo Milani, superando in un battibaleno certe sue asprezze caratteriali. Al ritorno nella capitale venne assegnato in una parrocchia di Vitinia, non distante dal mare, ma presto egli comprese di non trovarsi a suo agio nelle vesti canoniche che gli proponevano: limitarsi ad amministrare battesimi e cresime non faceva per lui. E così, dopo una forte crisi interiore, somatizzata con varie conseguenze fisiche, era stato mandato a San Policarpo dove tuttavia rischiava la medesima sorte. Fu la baraccopoli a salvarlo. Perché don Sardelli non si limitò a frequentarla dall’esterno. Alla maniera di Pietro, quando vede Gesù risorto sul lago di Tiberiade (Giovanni, 21, 1-14), ci si buttò dentro a corpo morto, andando ad abitare nella baracca 725. Gliela cedette a pochi soldi Rita, una prostituta, che continuò a praticare la sua attività pochi metri più in là. Cosicché all’inizio, quando i clienti bussavano alla porta e, invece della donna, vedevano un uomo barbuto, restavano di sasso. Chi voglia sapere come andò a finire tutta la storia dovrebbe leggere Dalla parte degli ultimi (Donzelli, pp. 197, 25 euro, prefazione e significativo contributo di Alessandro Portelli), un libro che raccoglie alcune interviste che Massimiliano Fiorucci, pedagogista da sempre attento alle sperimentazioni sociali più avanzate, riuscì a fare a don Roberto prima della sua scomparsa avvenuta a Pontecorvo, in provincia di Frosinone, paese natale, il 18 febbraio 2019. Qui riportiamo l’essenziale: la famosa baracca 725 diventò una scuola per i ragazzini cresciuti lì attorno, pochi metri quadri di vulcanica attività didattica e non solo. In quel piccolo ambiente vennero composte, secondo il metodo della scrittura collettiva elaborato a Barbiana, “La lettera al Sindaco” e “La lettera ai cristiani di Roma” che, pubblicate sui giornali, Paese Sera in primo luogo, provocarono una serie di conseguenze a catena, sia all’interno della Chiesa, sia nelle istituzioni pubbliche. Don Sardelli, come disse lui stesso, non era “interclassista”, il che significa che prendeva consapevolmente le parti dei più svantaggiati contro chi stava meglio, senza curare, diciamo così, gli equilibri. Non aveva peli sulla lingua. Non esitò a polemizzare coi salesiani, ai quali rimproverava una contiguità troppo stretta coi poteri forti, Giuseppe Dossetti, che gli aveva chiesto quando facesse catechismo, Tullio De Mauro, il quale avrebbe voluto che i suoi scolari continuassero ad esprimersi in dialetto, e anche coi Papi, compreso Bergoglio, a suo avviso troppo diplomatico durante la trasferta brasiliana. Perfino Madre Teresa di Calcutta, vedendolo così battagliero, se ne ritrasse quasi intimorita. Insomma una personalità tagliente, eppure amatissima dal suo popolo: “Mi volevano bene. Ma anche se mi avessero voluto male, io non faccio la scuola perché mi vogliano bene, questo lo può fare un mercante, ma non un educatore. Un educatore deve anche essere duro e procurarsi il male che gli vogliono i ragazzini”. Ai quali non si era limitato a togliere il calcio spingendoli alla lettura critica dei quotidiani. Abitando insieme alle famiglie, era diventato uno di loro. La sera andava da Upim a comprarsi il pesce surgelato che consumava bollito con un filo d’olio e del prezzemolo. Tutti lo vedevano. E capivano che non poteva esserci “vacanza”, né “ricreazione”, perché la scuola era la vita. Don Milani docet. Dal 1968 al 1973 furono cinque anni terribili e meravigliosi. Quando morì Clelia, non c’erano soldi per la cerimonia funebre. Allora Rita, la vecchia prostituta, le portò il suo vestito più bello. E don Sardelli celebrò il funerale davanti a tutto il quartiere. Aveva innescato così in quei poveri diseredati la consapevolezza del bene comune. Forse intendeva questo quando disse: “Io non faccio assistenza, ma creo coscienza”. La riforma dei decreti sicurezza è un bicchiere mezzo vuoto di Riccardo Noury* Il Domani, 15 ottobre 2020 Quasi due anni dopo l’entrata in vigore del primo decreto sicurezza sotto il Conte 1, il governo Conte 2 ha finalmente approvato una serie di modifiche a quelle pessime norme passate alla storia come “decreti Salvini”. In termini generali, sebbene con così tanto ritardo e con un evidente ricorso a una mediazione che mal si concilia con la natura assoluta dei diritti umani, è apprezzabile il fatto che si sia proceduto alla revisione di norme che in molti casi erano state smentite dalla stessa magistratura, come nel caso del divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo, e che si siano voluti superare i rilievi minimi espressi a suo tempo dal presidente della Repubblica. Il passo avanti più importante è il ripristino, sotto la denominazione di “protezione sociale”, di quella protezione umanitaria la cui cancellazione, in nome di chissà quale “sicurezza”, aveva dato luogo a una vera e propria bomba sociale riducendo all’invisibilità decine di migliaia di persone: ottantamila, secondo il sociologo Marco Omizzolo, autore della ricerca “I sommersi dell’accoglienza”, realizzata all’inizio del 2020 per Amnesty International. Ora si tratterà di capire, magari con una decretazione a parte, come rimediare a quella invisibilità che ha significato perdita di diritti e infragilimento delle vite, in un periodo già reso complicato dalla pandemia. Bene il ritorno del sistema di accoglienza Sprar da cui erano stati espulsi i richiedenti asilo. Potranno nuovamente iscriversi all’anagrafe e saranno dotati di una sorta di carta di identità, riconosciuta dallo stato italiano, valida per tre anni. La sfida ora è tutta per i comuni, cui passa la competenza in materia: riusciranno a provvedere ai servizi per l’inclusione sociale, come ad esempio l’insegnamento della lingua italiana? Importante è anche la garanzia, per le persone detenute nei Centri di permanenza per il rimpatrio, di potersi rivolgere al garante nazionale o regionale per le persone private della libertà personale. En passant, sull’onda dell’indignazione per il feroce omicidio di Willy Monteiro Duarte, sono state inasprite le norme sul reato di rissa e quelle sul Daspo urbano: il segnale dato, e che si vorrebbe percepito, che “lo stato c’è”. Ma siamo al solito punto: innalzare le pene di per sé non è male, ma non basta: quando si investirà sulla promozione dei valori del rispetto e della non discriminazione (magari grazie anche al ripristino dell’educazione civica nelle scuole), potrà andare meglio. Non va tutto bene. Fine del bicchiere mezzo pieno. La riformulazione della norma relativa alle sanzioni è difficile da digerire. L’idea che si debba rispettare il requisito della non violazione del codice della navigazione per non incorrere in multe e carcere continua a essere figlia della narrativa sorta della primavera ed estate del 2017, prima colpevolizzante (Di Maio e i “taxi del mare”), poi disciplinante (Minniti e il suo codice di condotta) e infine criminalizzante (Salvini e la sua decretazione) nei confronti delle organizzazioni non governative di ricerca e soccorso in mare. Certo, le sanzioni ora sono previste in un’ipotesi che viene definita residuale: quella di un intervento di una nave di soccorso in aree di competenza italiana che non rispettasse le disposizioni impartite, ad esempio forzando per necessità un blocco navale. Come fece Carola Rackete al timone della Sea Watch 4. Allora, forse, del tutto “residuale” quell’ipotesi non è. Si dica dunque una volta per tutte e in modo chiaro: salvare vite umane è un’attività nobile, preziosa e soprattutto legittima o è un reato? A conferma che non tutto è risolto, per una tragica coincidenza, alla notizia dell’avvenuta approvazione delle modifiche ai decreti sicurezza si è sovrapposta quella sulla morte di Abou, un minorenne ivoriano salvato dalla nave Open Arms e trasferito sulla nave-quarantena Allegra nonostante mostrasse evidenti segni di denutrizione e di tortura. Eh, sulla Allegra, le sue condizioni di salute sono precipitate fino alla morte, avvenuta in un ospedale di Palermo. Quella coincidenza ci ricorda che abbiamo ancora un problema. Per usare un’espressione tornata di moda in queste settimane, la “morte nera” degli accordi, tuttora in piedi, conia Libia in tema d’immigrazione. Accordi che sono l’esempio più atroce della ostinazione, ormai pluridecennale, da parte dei nostri amministratori e dell’Europa, a voler “tener fuori il problema” come se fosse un’emergenza temporanea anziché un fenomeno fisiologico, permanente e da governare. Investire sull’accoglienza e sui diritti è l’unica strada virtuosa e possibile. *Portavoce di Amnesty International Italia Il trafficante di esseri umani Bija arrestato in Libia di Fabio Albanese La Stampa, 15 ottobre 2020 È considerato dall’Onu e dalla Corte internazionale dell’Aja uno dei maggiori organizzatori del traffico di migranti. Uno dei trafficanti di uomini più pericolosi e feroci, e finora impuniti, è stato arrestato oggi in Libia: Abd al-Rahman al-Milad, noto come Bija, è stato bloccato da una milizia del governo di Tripoli poco fuori la capitale. Lo hanno annunciato alcuni media libici e la notizia è stata poi confermata da altre fonti indipendenti. Bija, o anche Bidja, è considerato dall’Onu e dalla Corte internazionale dell’Aja uno dei maggiori organizzatori del traffico di migranti, prima ridotti in schiavitù in Libia e poi ammassati su fatiscenti imbarcazioni per far loro attraversare la rotta del Mediterraneo centrale. O per farli annegare durante la traversata Per questo, è accusato di crimini contro i diritti umani ma finora aveva continuato, indisturbato, a svolgere la sua lucrosa e spregiudicata attività, in un primo momento addirittura come ufficiale di una delle sezioni locali della cosiddetta Guardia costiera libica. Il trafficante, secondo l’Onu che aveva spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti, per anni ha potuto gestire e decidere vita, e anche morte, di migliaia di migranti detenuti nelle terribili connection house libiche, soprattutto della zona di Zawiya, a ovest di Tripoli, uno dei principali “porti” libici da cui partono i migranti. Lo scorso anno il quotidiano Avvenire aveva svelato un incontro in Italia di una delegazione libica, organizzato dall’Oim (l’Organizzazione per le migrazioni delle Nazioni Unite) e finanziato dall’Unione europea, al quale aveva partecipato pure Bija. Era il 2017, la visita partì dal Cara di Mineo, poi la delegazione si spostò a Roma, alla Guardia costiera, alla Croce Rossa, al ministero della Giustizia e perfino a quello dell’Interno, stando a quanto poi raccontato dallo stesso Bija. C’è chi sostiene che questo fosse avvenuto sotto falso nome ma la reale identità del trafficante libico era nota a molti e a quanto pare non solo alla delegazione libica che veniva in Italia per apprendere nozioni e tecniche di assistenza ai migranti. Bija si fece poi “sentire” direttamente con l’autore dell’articolo, e con altri giornalisti italiani che da anni si occupavano di lui, con alcuni minacciosi messaggi di morte sui social. Secondo le poche informazioni disponibili al momento, Abd al-Rahman al-Milad è stato arrestato questo pomeriggio a Janzour, poco fuori Tripoli, su richiesta del ministero dell’Interno libico. Difficile dire se questo arresto cambierà ora la situazione del traffico di esseri umani nel martoriato paese nordafricano, ma certamente l’arresto di Bija può considerarsi un punto di svolta. Quanto decisivo, lo dirà il tempo. Filippine. L’attivista Reina Mae Nasino è in carcere. Le tolgono la figlia. Che muore di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 15 ottobre 2020 La bambina aveva tre mesi ed era stata allontanata alla nascita A nulla sono serviti gli appelli: l’ha stroncata una polmonite. Le Filippine sono scosse da un avvenimento che sta provocando rabbia nell’opinione pubblica e sollevando feroci polemiche per come sono trattate le detenute madri. È la triste vicenda che riguarda Reina Mae Nasino, un attivista per i diritti umani, che lavorava per il gruppo contro la povertà urbana Kadamay. Arrestata nel novembre 2019 insieme a due compagni, è stata accusata di possesso illegale di armi da fuoco ed esplosivi, reati che tutti e tre hanno sempre negato attribuendoli alla campagna di persecuzione contro gli attivisti di sinistra da parte del regime del discusso presidente Duterte. Reina, che ha 23 anni, ha scoperto di essere incinta solo dopo la sua incarcerazione nel corso di una visita medica. Il 1 luglio di quest’anno è nata la sua bambina, River. Il peso della neonata era basso ma nonostante ciò madre e figlia sono tornate nel carcere di Manila dove sono rimasti in una stanza riservata, allestita in fretta e furia. Secondo la legge filippina un bambino nato in custodia può rimanere con la madre solo per il primo mese di vita, anche se si possono fare eccezioni. Una situazione ben diversa rispetto ad altri paesi dove è possibile per le detenute rimanere con i figli molto più a lungo. Inoltre la Convenzione di Bangkok dell’Onu prevede che a prevalere debba essere l’interesse del bambino. È iniziata dunque una campagna di protesta per fare in modo che madre e neonata fossero liberate per farle stare insieme. Lo stesso ospedale di Manila dove era avvenuto il parto aveva raccomandato che non avvenisse la separazione per ragioni di allattamento. Tutte le richieste sono state però respinte dalla direzione della prigione con varie motivazioni, alcune poco plausibili. Neanche quando si è assistito ad una crescita dei contagi da Covid in carcere la donna è stata liberata, e invano il National Union of Peoples Lawyers, un gruppo di assistenza legale che rappresenta la sig.ra Nasino, ha presentato una serie di mozioni chiedendo il suo rilascio. A questo punto è stato chiesto al Tribunale di consentire che almeno la bambina potesse rimanere insieme alla madre sebbene in una cella. Niente da fare in presenza con i detenuti, gli avvocati sono stati in grado di tenersi in contatto con la signora Nasino solo per telefono. La salute della neonata è però rapidamente peggiorata, le richieste per la scarcerazione sono aumentate senza alcuna possibilità di successo, il 24 settembre River è stata ricoverata ma la settimana scorsa è morta a causa di una polmonite. Martedì scorso il tribunale ha concesso alla detenuta una licenza di tre giorni per partecipare alla veglia e al funerale. Ma la ferocia dei funzionari della prigione ha mostrato ancora una volta il suo volto e il rilascio è stato ridotto a sole tre ore per venerdì, il giorno della sepoltura di River. Tailandia. Arresti e scontri in vista del raduno contro il governo e la monarchia di Raimondo Bultrini La Repubblica, 15 ottobre 2020 La polizia ha fermato 21 attivisti durante una manifestazione a Bangkok, alla vigilia della grande protesta di domani in cui il movimento ribadirà le sue richieste per lo scioglimento del Parlamento, la caduta del governo di Prayuth Chan-Ocha e una nuova Costituzione. Almeno una ventina di persone sono state arrestate stasera dalla polizia thailandese che ha interrotto una piccola manifestazione organizzata in preparazione della più ampia protesta antigovernativa prevista per domani. La polizia è giunta al raduno di fronte al Monumento alla Democrazia su Ratchadamnoen Avenue mentre parlava al microfono l’attivista Jatupat “Pai” Boonpattararaksa, un’ora prima del passaggio di un corteo reale lungo la stessa strada. C’è stata una colluttazione tra i manifestanti e gli agenti, che hanno lanciato vernice blu prima di arrestare Jatupat e gli altri attivisti. Da qui la decisione del movimento degli studenti, ribattezzato recentemente Partito del Popolo, di protestare davanti alla stazione centrale di polizia per chiedere il rilascio dei loro compagni e alcune centinaia di persone sono rimaste in strada sotto la pioggia scrosciante a gridare slogan. A guidarli c’è un altro leader delle proteste, Parit Chiwarak detto Pinguino. Secondo il portavoce della polizia Kissana Phattanacharoen i detenuti hanno violato la legge sulle assemblee pubbliche non avendo informato le autorità delle loro intenzioni. “Non importa dove si svolge un raduno, la polizia ha il dovere di fornire sicurezza e ordine”, ha detto il colonnello. “Se qualcuno intende fare qualcosa di illegale, gli altri dovrebbero scoraggiarlo”. Gli incidenti potrebbero influenzare gli eventi di domani se gli scontri dovessero ripetersi con i giovani ribelli che hanno previsto di concentrarsi in massa nelle stesse strade a non troppa distanza dal palazzo reale dove si svolse la protesta del 19 settembre con 100 mila partecipanti. Un numero che domani potrebbe moltiplicarsi secondo gli organizzatori, che da mesi chiedono lo scioglimento del Parlamento, la fine degli abusi governativi contro i dissidenti e una nuova Costituzione che comprenda anche sostanziali riforme della stessa monarchia.