Aumentano i bambini dietro le sbarre e salgono i positivi al Covid-19 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 ottobre 2020 Al 30 settembre il sovraffollamento effettivo è del 115%, i contagiati sono: 50 detenuti e 77 personale penitenziario. Il garante di Parma denuncia: “Il virus è arrivato anche qui”. Confermato il trend di ripresa del sovraffollamento e della crescita del contagio da Covid-19 nelle carceri. Secondo i dati del Dap aggiornati al 30 settembre, il tasso del sovraffollamento è del 107,3%, considerando i 50.570 posti letto conteggiati. Ma se si scalano i circa 3000 posti non agibili, il sovraffollamento effettivo è del 115%. A fine febbraio 2020 i detenuti (nelle 190 strutture carcerarie italiane) erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti con un affollamento superiore al 119,4%. Con il Decreto “Cura Italia” (8 marzo 2020) sono entrate in funzione norme provvisorie per contenere il contagio e per ridurre l’affollamento. Agendo sui detenuti colpiti da pene definitive e grazie all’utilizzo domiciliari e all’allungamento dei permessi dovuti dall’azione dei magistrati di sorveglianza, i numeri si sono sensibilmente ridotti e, a fine aprile, le persone detenute erano scese a 53.904. A fine luglio erano 53.619 con un tasso di affollamento del 106,1%. Poi però c’è stata una battuta d’arresto. Con la fine apparente dell’emergenza, il decreto cura Italia non è stato rinnovato, in più si è aggiunto il falso scandalo delle “scarcerazioni” e il governo ha ceduto all’indignazione veicolata dai mass media. La politica quindi ha scelto di assecondare l’opinione pubblica fuorviata dalla cattiva informazione e ha perso una buona occasione per riportare il tasso di affollamento delle strutture carcerarie a un livello accettabile, ma soprattutto a quel livello che permetterebbe ai penitenziari di affrontare la seconda ondata della pandemia. Sono 36 le madri detenute con 39 figli al seguito - Non solo. Cresce anche il numero dei bambini dietro le sbarre. Al 31 luglio, le madri detenute con figli al seguito erano 31 (33 bambini in totale) di cui 15 straniere e 16 italiane e risiedono (con particolari attenzioni all’interno del carcere) o negli Icam (Istituti a Custodia attenuata per Madri). Al 30 settembre, invece, risultano 36 detenute madri con 39 figli al seguito. Aumentano i contagi in carcere - Ma come siamo messi con i contagi in carcere? Basterebbe fare un paragone. I primi casi di contagio in carcere si sono registrati verso la metà di marzo, per poi arrivare a maggio con 119 detenuti positivi al virus, mentre si contavano 162 contagi tra il personale. Ora, con l’inizio della seconda ondata, i contagi si stanno propagando con lo stesso identico ritmo. All’inizio del mese scorso solo poche decine, ma secondo l’ultimo report giornaliero di lunedì scorso, siamo giunti a 50 detenuti contagiati e 77 persone appartenente al personale penitenziario. Per la prima volta il virus è entrato anche nel carcere di Parma. Addirittura, secondo il garante locale Roberto Cavalieri, si sarebbe potuto evitare. “Dopo 7 mesi di resistenza al Covid-19 - spiega il Garante - nel carcere di Parma si registrano i primi 3 casi”, e denuncia che “si tratta di detenuti trasferiti da Pesaro ed è da capire come mai non sono stato fatti i tamponi alla partenza o non si sono attesi i risultati. Il Dap dovrebbe avere il buon senso di dire qualcosa!”. In effetti i detenuti devono essere sottoposti ai tamponi prima di partire per la nuova destinazione. Da ricordare ciò che accadde durante la prima ondata. Molti detenuti provenienti dal carcere di Bologna che hanno raggiunto diverse carceri, erano poi risultati positivi al coronavirus. Resta il dato oggettivo che se oggi ci sono 8000 detenuti in più, molti possono essere raggiunti da misure alternative per poter alleggerire i penitenziari e lasciare spazio agli eventuali reclusi positivi al Covid-19. Oppure, per muoversi, bisogna attendere l’ennesima emergenza? Oggi non si possono avere scuse, perché non parliamo più di un evento che coglie tutti di sorpresa. Rita Bernardini: “Nelle carceri diritti e sentimenti negati dalla miopia della politica” di Viviana Lanza Il Riformista, 14 ottobre 2020 Affettività e carcere: il binomio è possibile? “Quando l’articolo 28 dell’ordinamento penitenziario prevede che l’amministrazione penitenziaria deve dedicare particolare cura a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie, significa che il legislatore considera gli affetti imprescindibili nel percorso di reinserimento sociale previsto dalla Costituzione. Affettività significa contatto, relazione, tempo passato assieme, assunzione di responsabilità, attenzione nei confronti dei propri familiari o di persone significative nella vita del detenuto. Significa anche sessualità. Cioè tutto ciò di cui priva il carcere nella realtà attuale. Se più che parlarne, si attuasse quel che prevedono i principi del nostro codice penitenziario, avremmo già fatto un passo avanti nella direzione giusta”. Rita Bernardini, membro del Consiglio generale del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino, spiega perché garantire il diritto agli affetti è importante non solo ai fini dei percorsi rieducativi dei detenuti ma anche per i congiunti “incolpevoli”, mogli, madri, padri, figli. “Pensiamo a quelle decine di migliaia di bambini che all’improvviso, e per anni, vengono privati del rapporto con il padre o la madre rinchiusi in carcere; molti di questi minori sovente soffrono di patologie psicologiche delle quali risentiranno per tutta la vita. Mi sono passati per le mani decine e decine di certificati medici che documentano queste vere e proprie malattie, soprattutto quando il genitore è recluso a centinaia di chilometri dal luogo di residenza della sua famiglia. E ora, con la pandemia da Covid-19, sono ben otto mesi che i colloqui di persona con i figli piccoli sono praticamente aboliti se non, ultimamente, attraverso un triste e alienante vetro divisorio”. È un terreno su cui teoria e pratica sembrano prendere direzioni assai diverse. “Una classe politica arrogante nella sua viltà ha impedito di trasformare in legge quel che erano state le risultanze degli stati generali dell’esecuzione penale volte a una seria ed efficace riforma dell’ordinamento penitenziario - osserva la leader dei Radicali - All’ultimo istante, per paura di perdere voti alle imminenti elezioni politiche, il governo Gentiloni - Orlando si rifiutò di portare a termine i decreti attuativi messi nero su bianco dalla Commissione del professor Glauco Giostra. Un lavoro straordinario gettato a mare. Partito democratico & company persero comunque le elezioni e della riforma non se ne sente più parlare nemmeno ora che il Pd è tornato al governo: la delega in bianco data a Bonafede non lo consente! L’unica conquista di questi ultimi tempi la dobbiamo al Covid-19: si tratta delle videochiamate che però hanno quasi del tutto sostituito i colloqui visivi. Mi auguro che vengano mantenute anche quando - speriamo presto - la situazione tornerà alla normalità. “Nun gode er poveraccio si nun è pè disgrazia”, è un proverbio romanesco che recitava mia madre e che mi sembra perfetto per le chiamate Skype concesse ai detenuti”. Rita Bernardini ha presieduto una Commissione che aveva previsto una serie di modifiche normative: dalle misure compensative per i detenuti assegnati in istituti lontani dal luogo dove vivono i propri familiari, alla concessione di permessi anche nei casi di “particolare rilevanza” per la famiglia del detenuto e l’introduzione di una nuova fattispecie di permesso definito “permesso di affettività”, l’introduzione del nuovo istituto giuridico della “visita”, che si distingueva dal “colloquio”, già previsto dalla normativa, poiché avrebbe garantito al detenuto incontri privi del controllo visivo e/o auditivo da parte del personale di sorveglianza. E poi proposte di modifiche normative per aumentare la durata delle telefonate e i collegamenti audiovisivi, per estendere a tutti gli istituti penitenziari la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti e le case famiglia protette per evitare la permanenza in carcere dei bambini con le loro madri detenute. E infine, maggiore possibilità di iniziativa nei rapporti dei direttori delle carceri con gli enti locali, la comunità esterna e il volontariato. Ma la realtà è ben diversa. “Mi dispiace dirlo - conclude Bernardini - ed è comportamento che con il Partito Radicale e Nessuno Tocchi Caino combattiamo, ma la classe politica attuale ha ben poco il senso delle istituzioni e del rispetto dei principi costituzionali. È convinta che con la filosofia del “buttiamo via la chiave” e “più reati, più galera” si conquisti consenso elettorale a buon mercato presso l’opinione pubblica. Ma poi i nodi vengono al pettine e questo modo superficiale di affrontare le questioni le si ritorce contro e a farne le spese sono tutti i cittadini che si ritrovano una giustizia paralizzata e iniqua e che incide in modo fenomenale anche sull’economia che, al netto del Covid, non decolla da decenni. Cittadini che sono costantemente privati del diritto alla conoscenza non possono certo essere in grado di scegliere quel che è meglio e giusto per la loro vita e quella degli altri. Su ciò occorre incidere ed è ciò che cerchiamo di fare remando controcorrente”. Carceri, il ministro incontra i Sindacati: la Cgil chiede 6mila assunzioni Il Dubbio, 14 ottobre 2020 Bonafede: “Fatti passi in avanti, ma c’è ancora molto da fare”. “Passi in avanti ne sono stati fatti ma sappiamo che c’è ancora molto da fare”. Con queste parole il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si è rivolto ai rappresentanti delle sigle sindacali della Polizia Penitenziaria che hanno partecipato ieri mattina all’incontro al ministero di via Arenula. “È fondamentale - ha aggiunto Bonafede - aver recuperato il dialogo tra le parti. Un dialogo che deve sempre proseguire con rispetto reciproco e voglia di confronto. Il confronto può essere anche duro ma deve porsi l’obiettivo di migliorare a 360 gradi le condizioni di lavoro della Polizia Penitenziaria”. In precedenza i rappresentanti sindacali intervenuti avevano esposto le principali criticità della categoria. Tra queste sono state sottolineate con maggior forza la carenza degli organici, il rinnovo del contratto nazionale, il problema delle aggressioni agli agenti, l’omogeneità rispetto al trattamento delle altre Forze di polizia, le condizioni degli istituti penitenziari, il trattamento dei detenuti con disagio psichico e il ritorno della sanità penitenziaria all’interno degli istituti. Dai rappresentanti sindacali era arrivato anche l’apprezzamento per alcuni provvedimenti fortemente voluti dal ministro Bonafede come la creazione del reato di introduzione di telefonini nelle carceri. Rispondendo alla sollecitazione sulla messa a punto di un Protocollo Covid, il Capo del Dap Bernardo Petralia ha assicurato sul tema c’è la massima disponibilità del Dipartimento in quanto “sul protocollo Covid si gioca una buona parte della serenità con cui lavorano le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria”. Nel suo intervento Gemma Tuccillo, capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, ha dichiarato che “la Polizia Penitenziaria è fondamentale non solo all’interno degli istituti penitenziari ma anche per la buona riuscita delle misure alternative alla detenzione”. “Abbiamo chiesto al Ministro della Giustizia di garantire nella prossima legge di stabilità le risorse necessarie per affrontare tre questioni che da troppo tempo impediscono ai poliziotti penitenziari di lavorare in condizioni dignitose: un piano straordinario di 6 mila nuove assunzioni, il rinnovo del contratto e la sicurezza sui luoghi di lavoro - ha commentato la Fp Cgil al termine della riunione. La pianta organica della Polizia Penitenziaria prevede 41.595 unità, ma in servizio ce ne sono solo 37.247 quindi, considerando che da qui ad un anno andranno in pensione circa 1.500 persone, dobbiamo assumere immediatamente almeno 6.000 poliziotti e per trovare le risorse necessarie Bonafede dovrà spendersi in prima persona all’interno del Consiglio dei Ministri”. Così come “si dovranno trovare le risorse per garantire un rinnovo dignitoso del contratto di lavoro, considerato che quelle previste dal Def non sono assolutamente sufficienti per questioni importanti come l’avvio della previdenza complementare e le politiche di genere, le misure di contrasto al fenomeno crescente dei suicidi e delle aggressioni subite dal personale, e per garantire maggior sicurezza sui luoghi di lavoro con la ristrutturazione delle carceri”, conclude la Fp Cgil. Le pene non finiscono mai di Denise Armerini* collettiva.it, 14 ottobre 2020 Ancora una volta si è scelto di dare risposte di facciata, che inseguono e fomentano il giustizialismo dei troppi che vogliono carcere più duro e “buttar via la chiave”, invece di avere il coraggio di affrontare seriamente i problemi. Torna ancora la prassi di inserire norme che nulla c’entrano con i decreti all’interno dei quali sono inserite, forse per evitare che se ne parli troppo o, più probabilmente, per far sì che vengano comunque approvate. All’interno del decreto che interviene sui decreti sicurezza a firma Salvini, e che ne migliora diverse previsioni, sono state inserite norme che meritano una riflessione, e che riteniamo sarebbe utile stralciare. La prima riguarda il fatto che diventa reato l’introduzione di telefoni cellulari all’interno degli istituti carcerari, con pene che prevedono la reclusione da uno a quattro anni, che diventano da due a cinque se il (nuovo) reato è commesso da un pubblico ufficiale o da un avvocato. Si prosegue, quindi, nell’ampliamento delle fattispecie di reato che prevedono la reclusione, invece di provare a ragionare su altre misure sanzionatorie, e su misure alternative alla reclusione. Nel caso specifico, dei telefoni cellulari, è ovvio che ci siano indispensabili esigenze di sicurezza, che fanno sì anche che si debba tener conto delle imprescindibili esigenze di sicurezza e prevenzione di atti criminosi, impedendo in ogni modo qualsiasi contatto con l’esterno, quando finalizzato a mantenere legami con le organizzazioni criminali. Ma sappiamo come, a seguito della pandemia, i colloqui dei detenuti con i familiari hanno subito interruzioni, poi limitazioni, e sappiamo che un detenuto ha diritto ad una sola telefonata settimanale di 10 minuti e 6 incontri al mese con i familiari di un’ora. E non possiamo dimenticare che l’ordinamento penitenziario prevede che si dedichi particolare cura a mantenere, migliorare, ristabilire le relazioni con la famiglia e che anche le persone ristrette hanno diritto all’affettività. Allora, poiché per tantissime persone il cellulare rappresenta il modo per comunicare con la famiglia, con i figli, con i genitori, non sarebbe più semplice, ma soprattutto più giusto, fare come è stato fatto in altri paesi europei, che prevedono un telefono (che può essere adeguatamente gestito dall’istituto penitenziario) in ogni cella? Si introducono, poi, sanzioni più elevate rispetto all’art. 41bis, aumentando di fatto l’isolamento delle persone sottoposte a tale regime, perché riguardano, appunto, la sanzionabilità del detenuto che comunica con altri. Giova al proposito ricordare che, a seguito di ricorsi presentati nel passato, alcune forme di comunicazione sono state riconosciute dalla Cassazione come un diritto che non inficia le esigenze di sicurezza previste da tale articolo. Ma le pulsioni securitarie e giustizialiste questo reclamano; quando le evidenze e, soprattutto, le sanzioni della Cedu ci parlano, invece, della necessità di rivedere tutto il regime detentivo previsto da questo articolo. Ancora più gravi appaiono le norme che prevedono ‘tolleranza zero’ per le risse, già ribattezzate, con operazione davvero poco dignitosa e affatto rispettosa del ragazzo morto, “decreto Willy”. Come se bastasse un Daspo anti risse a far sì che queste non si verifichino più, e non fossero invece necessari ben altri interventi, di politiche sociali, che invece non vengono assolutamente perseguiti. In più, il Daspo si applica a chiunque sia stato denunciato, è un provvedimento che limita fortemente non solo le libertà personali e di movimento, senza alcun provvedimento penale a carico della persona oggetto della sanzione, ma rappresenta un colpo allo stato di diritto, in quanto elude le garanzie del campo penale, prima fra tutte il diritto alla difesa. Non si risponde alla disgregazione sociale, all’impoverimento culturale, con l’aumento delle pene o con il divieto a frequentare alcuni luoghi: la storia ci dovrebbe insegnare che non è con l’inasprimento delle pene che si ottengono risultati. Ancora una volta si è scelto di dare risposte di facciata, che inseguono e fomentano il giustizialismo dei troppi che vogliono carcere più duro e “buttar via la chiave”, invece di avere il coraggio di affrontare seriamente i problemi che stanno alla base di tanti comportamenti. Dovremmo parlare di abbandono scolastico, di precarietà e disoccupazione, di falsi miti proposti ai giovani da una società dell’apparenza e del guadagno facile, dove vince il più forte. Ma questo è. *Responsabile Dipendenze dell’Area welfare della Cgil Dalla cella al cellulare di Mario Giordano Panorama, 14 ottobre 2020 In carcere averne uno è il segno del comando. Ai detenuti italiani ne sono stati sequestrati 1.761. E l’anno non è finito. Aprile scorso. Su Rtc, web tv della Campania, va in onda uno dei programmi più seguiti del palinsesto, Casa Bonavolta. Gli ascoltatori mandano foto e saluti in diretta. Alle 11.03 sullo schermo passa la foto di due ragazzi, allegri e sorridenti. Non ci sarebbe niente di male se i due non fossero detenuti al carcere Airola di Benevento. E la domanda sorge spontanea: non è che si stanno collegando in diretta dalla cella? Per altro i due non sono detenuti qualsiasi. Uno è Ciro Urzillo, arrestato per avere ucciso a bastonate una guardia giurata, insieme ad alcuni amici, soltanto per rubargli l’arma. L’altro è Aniello Iaquino, baby killer soprannominato “Senz’Anima” da quando, appena 16enne, ha sgozzato e fatto a pezzi due persone, insieme allo zio, per una banale questione di sigarette. Mentre la foto dei detenuti passa sul video, la conduttrice parla tranquillamente del coronavirus. E, ironia della sorte, invita tutti a seguire le regole. Ineccepibile, per carità. Ma farebbe ridere se, proprio in quel momento, ci fosse qualcuno che le regole le viola, collegandosi alla tv dalla sua cella. Per altro pare che canali simili alla web tv siano usati spesso per far passare messaggi e minacce. Non si tratterebbe, insomma, solo della vanità di due giovani che si pavoneggiano sullo schermo. Si tratterebbe del segnale di chi comanda. E che vuol far capire che comanda. Non a caso nei mesi scorsi sono circolati molti video dall’interno delle carceri, in cui i boss mostravano apertamente il loro volto. Chi conosce bene il mondo delle carceri non ha avuto difficoltà a interpretare il significato di quelle immagini: i boss, in pratica, volevano segnalare che avevano in mano la situazione. Poche settimane prima si erano scatenate le rivolte nelle carceri. Le rivolte si erano placate all’improvviso. E centinaia di boss mafiosi erano stati scarcerati, con seguenti polemiche e decreti riparatori. Ho citato questi episodi per ricordare che il telefonino nelle carceri assume un significato particolare. Non è solo un mezzo di comunicazione. È il bastone del comando. È il legame che non si spezza con la malavita che c’è fuori. È la possibilità di continuare a far sentire la propria presenza nei clan. Si può dunque sorridere di fronte alla notizia che nel corso del 2020 in carcere sono stati consegnati illegalmente ai detenuti ben 1.761 cellulari, cioè quasi cinque al giorno? Io penso di no. Certo: è divertente il modo, tutto all’italiana, con cui i cellulari vengono introdotti nelle celle, sfruttando al massimo la nostra fantasia. Qualche esempio? Ad Avellino i cellulari (ben 19) erano in fondo a una pentola. A Rebibbia (Roma) erano (due) dentro il formaggio e (quattro) dentro i salumi. A Carinola (Caserta) i cellulari (ben nove) erano addosso a un prete che stava entrando per celebrare messa. In alcuni penitenziari sono entrati con i droni, in altri lanciati dentro pietre di calcestruzzo. Alcuni li hanno nascosti dentro lo stomaco, altri dentro il deretano. Il campionario dei nascondigli è infinito, anche grazie all’inventiva criminale che nel nostro Paese è un bene destinato a non passare mai di moda. Nei fumetti di un tempo c’era sempre qualcuno che nascondeva la lima per l’evasione dentro la classica torta. Oggi di torte ce ne sono di tanti tipi e al posto della lima c’è un telefonino, che vale più dell’evasione. Vale il potere. Per questo dico che c’è poco da sorridere. Negli ultimi anni la crescita dei telefonini trovati nelle carceri è stata esponenziale: 394 nel 2018, 1.204 nel 2019, 1.761 nel 2020, che pure non è ancora finito. Un dato così preoccupante che nell’ultimo Consiglio dei ministri, il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha chiesto e ottenuto di introdurre un nuovo reato nel codice, proprio per sanzionare chi fa entrare un cellulare in carcere. La pena prevista è severa: fino a quattro anni di reclusione. La decisione non può non confortare chi, come il sottoscritto, pensa che il carcere debba essere sì un luogo di socialità e di rieducazione, ma non per questo si debba trasformare in una chat delle cosche. Dalla banda armata alla banda larga, insomma, sarebbe bene mettere in mezzo qualche paletto. Anche se ci viene un sospetto: se il Guardasigilli vuole davvero lottare contro la diffusione dei telefonini fra i detenuti, perché in aprile aveva firmato con la Tim un accordo per distribuirne loro 1.600? L’impressione è che per fare la teleselezione dalla cella, non ci sia nemmeno bisogno di passare per la fantasiosa via del formaggio, dei salumi o delle pentole. Consegna a domicilio, dietro le sbarre. Con il patrocinio del ministero. La commissione del Csm: “Davigo non può restare dopo il congedo” di Errico Novi Il Dubbio, 14 ottobre 2020 Nella valutazione preliminare, si schierano per la decadenza due togate di “Mi”, astenuto un laico indicato dai 5S. Ora tra le correnti è guerra aperta. Se non altro la materia è degna di una trasposizione cinematografica. Il plenum del Csm deciderà sulla permanenza di Piercamillo Davigo lunedì prossimo 19 ottobre, cioè nel secondo dei tre giorni in cui i magistrati voteranno per l’Anm, e nel giorno precedente a quello in cui l’ex pm di Mani pulite compirà 70 anni. Un film, davvero, di cui ieri si è proiettato il prequel: la Commissione verifica titoli del Consiglio superiore ha approvato, a maggioranza, una proposta sfavorevole alla permanenza di Davigo, che martedì 20, appunto, si congederà dalla magistratura per raggiunto limite d’età. Si sono espresse per la decadenza Paola Braggion e Loredana Micciché, entrambe togate di “Magistratura indipendente”, unico gruppo che pare chiaramente schierato per l’uscita del consigliere; si è astenuto il terzo componente della commissione, il laico Alberto Maria Benedetti. “La questione merita approfondimenti”, ha commentato il consigliere eletto su indicazione del M5S, “alle ragioni giuridiche se ne devono aggiungere altre relative al funzionamento del Csm e alla messa in sicurezza dei suoi provvedimenti. In plenum potrei decidere di esprimermi in un senso o nell’altro”. Sembra un preannuncio di voto favorevole a Davigo. Certo è in arrivo la tempesta perfetta che scatenerà una tensione ancora più violenta tra le correnti. La posizione sfavorevole a Davigo da parte di “Mi” era nota e trasparente. Erano state sempre Micciché e Braggion a decidere a maggioranza, contro il voto sfavorevole di Benedetti, per la richiesta di un parere all’Avvocatura dello Stato. Parere impietoso per l’ex pm del Pool: è inevitabile la decadenza di un consigliere magistrato che, come nel caso in questione, entri in quiescenza. Il riferimento è a una sentenza del Consiglio di Stato emessa nel 2011. L’Avvocatura ha ripreso anche il concetto esposto da Giovanni Maria Flick in un’intervista a questo giornale: se davvero i costituenti, all’articolo 104, avessero voluto riferirsi alla durata dei 4 anni per ciascun singolo componente del Csm, lo avrebbero esplicitato esattamente come avviene all’articolo 135, che riguarda i giudici costituzionali e in cui si sancisce che la durata del mandato è di 9 anni per ciascuno di essi. L’argomento di Flick è recepito dal parere dell’Avvocatura ed è fatto ora proprio dalla proposta che la Commissione verifica titoli sottoporrà lunedì al plenum. È un argomento difficilmente superabile. Poi c’è pur sempre la politica. Come riportato su queste colonne ieri, la partita non è chiusa, e anzi vede ancora Davigo lievemente in vantaggio. Intanto la decisione di calendarizzare il plenum sul caso non per oggi, come ipotizzato all’inizio, ma per lunedì ha un suo peso. Il vicepresidente David Ermini l’ha assunta dopo una consultazione all’interno del comitato di presidenza del Csm, che oltre a lui annovera i due componenti di diritto, ossia il presidente della Cassazione Pietro Curzio e il pg Giovanni Salvi. Calendarizzare ad horas il dibattito su Davigo avrebbe imposto di dichiarare la straordinarietà della questione, come prevede il regolamento del Csm. In via ordinaria, serve un preavviso di 5 giorni. Forse e per “Mi” sarebbe stato interessante presentarsi alle urne dell’Anm, che si aprono domenica e si chiudono martedì 20, con in tasca la vittoria sulla decadenza di Davigo. Ma c’è l’orientamento di Area (5 consiglieri), dato per favorevole alla permanenza del consigliere, cosi come lo sarebbe quello dei 3 togati della davighiana “Autonomia e indipendenza” (il diretto interessato non vota) e del laico Fulvio Gigliotti (indicato dal M5S). Se Benedetti sembra tendere alla permanenza, Filippo Donati sarebbe quanto meno per l’astensione. In tutto i voti abbastanza sicuri per Davigo, fra i consiglieri non di diritto (escluso Ermini che non dovrebbe votare), sarebbero 10 su 23. Incerti Nino Di Matteo, i vertici della Cassazione, che sono culturalmente vicini ad “Area”, e gli stessi due togati di Unicost, Michele Ciambellini e Conchita Grillo. Se Davigo uscisse, subentrerebbe un giudice della corrente centrista, Carmelo Celentano. Il punto è che Unicost si è trova spesso a votare con Area e “Aei”, ed è perciò nella posizione più delicata. L’acme della contraddizione si coglie se si pensa che l’Avvocatura dello Stato potrebbe trovarsi a difendere il Csm nell’eventuale ricorso di Celentano, qualora Davigo restasse e il suo potenziale subentrante impugnasse davanti al Tar la delibera del plenum. È il paradosso alla “Ritorno al futuro” che aveva spinto Benedetti a votare contro la richiesta del parere. Ora potrebbe essere un motivo in più a favore della decadenza, unica scorciatoia per evitare l’ennesimo cortocircuito istituzionale. C’è una malavita giudiziaria e la politica ha tanta paura di Iuri Maria Prado Il Riformista, 14 ottobre 2020 Il caso Palamara conferma un sistema marcio: quelle che comandano sono cosche giudiziarie armate della minaccia del carcere, con quasi tutti i giornali alleati. E i partiti non reagiscono. Si è detto giustamente che lo sapevano anche i sassi: non c’era bisogno della rivelazione delle sessantamila chat di Palamara per scoprire ciò che appunto conoscevano già tutti e cioè l’immondezzaio delle nomine, dei traffici, delle cospirazioni nel sistema di governo della magistratura corporata. Ma il fatto che quel dispositivo di potere corrotto funzionasse risaputamente in modo incensurato denuncia una responsabilità ulteriore, e se possibile anche più grave: la responsabilità della classe politica che, pur sapendo, ha taciuto. E soprattutto: che, pur potendo intervenire, nulla ha fatto per ricondurre a legalità i comportamenti della magistratura deviata. Bisogna concedere che la classe politica (non c’è destra, non c’è sinistra, non c’è centro: tutta la classe politica) potesse aver timore di denunciare e intervenire: perché quelli ti fanno a pezzi, ti sbattono in galera, mentre il giornalismo alleato (anche qui: praticamente tutto) fa il suo sporco lavoro di demolizione con tre mesi di prime pagine alla notizia dell’arresto e col trafiletto non si sa dove alla notizia dell’assoluzione. Ma una classe politica finalmente compatta nel reclamare il ripristino dello Stato di diritto, e capace di qualche convinzione sulla necessità di non sottomettersi alla prepotenza intimidatoria del mostro togato, avrebbe ben potuto almeno provare a interrompere il dominio della malavita giudiziaria. Che cosa faceva la piovra delle manette: li arrestava tutti? Anche perché se la classe politica avesse reagito come di dovere c’è da star sicuri che la parte non corrotta della magistratura, che è ampia per quanto senza voce, avrebbe condiviso quell’opera di richiamo all’ordine costituzionale. Tanti bravi magistrati sono a loro volta i soggetti passivi dello strapotere delle cosche giudiziarie, e vi si sottomettono esattamente come La proposta di avvocati e magistrati amministrativisti: “Si riparta con le udienze da remoto” di Simona Musco Il Dubbio, 14 ottobre 2020 Basta udienze in presenza: magistrati e avvocati amministrativisti chiedono di ripristinare le udienze da remoto. E lo fanno attraverso due distinte iniziative, che convergono verso un unico punto: garantire la tutela della salute in un periodo di incertezza come quello attuale, con i contagi in risalita e incertezze sulle misure future di governo e regioni per limitare la diffusione del virus. Le associazioni che rappresentano la magistratura amministrativa (Amcs, Anma e Conma) hanno scritto nei giorni scorsi una lettera al presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, per sollecitare “interventi normativi urgenti”, in grado di “continuare a garantire l’efficiente e regolare svolgimento delle udienze, alla luce dell’evoluzione della pandemia”. Una missiva che arriva dopo quella scritta dal presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, seguita da una mozione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, organo di governo autonomo della giustizia amministrativa, con la quale sono stati chiesti interventi urgenti al Governo, come la riattivazione delle udienze da remoto, su base territoriale e con decisione rimessa ai presidenti degli uffici giudiziari, fino alla fine dello stato d’emergenza nazionale. Le associazioni chiedono dunque, “per la tutela della salute di tutti”, magistrati, avvocati, personale amministrativo, di poter svolgere le udienze, fino al superamento dell’emergenza, “integralmente da remoto o con sistema misto” e in particolare in modalità telematica per singoli magistrati o avvocati impossibilitati a raggiungere la sede dell’udienza. Dal canto suo, l’Unione nazionale avvocati amministrativisti, esprimendo preoccupazione sulla reale possibilità di garantire lo svolgimento delle udienze nei prossimi mesi, ha proposto di ripristinare l’udienza da remoto fino alla scadenza dello stato di emergenza, proclamato fino al 31 gennaio prossimo. Uno strumento, quello del processo per via telematica, “che si è dimostrato utile in questo periodo” e che è rimasto in vigore solo fino al 31 luglio. Mancando la copertura normativa, allo stato attuale, è infatti impossibile continuare a richiedere di poter partecipare alle udienze da casa o dall’ufficio. Da qui la richiesta, da parte di Unaa, di un ulteriore periodo di “prova” che consenta di ricorrere all’udienza telematica in base alle concrete esigenze delle parti. Le udienze amministrative, infatti, implicano talvolta anche la partecipazione di avvocati provenienti da zone diverse e lontane da quella che ospita il singolo tribunale amministrativo, avvocati che potrebbero trovarsi, da qui a breve, impossibilitati a spostarsi, sia per via della possibilità, da parte delle Regioni, di imporre lockdown locali, sia in vista di possibili periodi di isolamento a causa di contatti con persone positive al Coronavirus. Problemi ai quali si aggiungono le normali precauzioni per i rischi legati ad età o patologie pregresse per avvocati, magistrati e personale dei vari plessi giudiziari. La proposta normativa di Unaa prevede la possibilità di ricorrere all’udienza integralmente da remoto non solo in caso venga disposta con decreti assunti dai presidenti dei singoli plessi giudiziari, ma anche su richiesta della singola parte. “È evidente che qualunque previsione difforme da tale ipotesi, come ad esempio l’imposizione che la richiesta sia formulata da tutte le parti del giudizio o che sia valutata discrezionalmente dai presidenti dei singoli plessi giudiziari - si legge in una nota - vanificherebbe il diritto di difesa nella pienezza del contraddittorio che è un principio costituzionalmente garantito anche in epoca di emergenza Covid-19”. In alternativa si potrebbe ricorrere ad un sistema misto, che consente, a chi ne ha bisogno, di partecipare a distanza, mentre le parti rimanenti potrebbero presentarsi in aula. In tal modo verrebbe assicurata in ogni caso la presenza all’udienza a tutti i difensori e a tutti i magistrati facenti parte del collegio giudicante, il tutto regolando la gestione delle udienze, sia fisiche sia da remoto, con “un protocollo firmato dal presidente del Consiglio di Stato, dal Cnf e dalle Associazioni specialistiche maggiormente rappresentative”, così come già avvenuto durante il lockdown, “al fine di garantire regole uniformi su tutto il territorio nazionale, evitando il proliferare di prassi differenziate anche presso gli stessi Uffici giudiziari, fonte di confusione per l’avvocatura e di inefficienza dell’apparato Giustizia”. L’appello al governo è quindi quello di intervenire “urgentemente” con un decreto legge, “al fine di evitare che la situazione di emergenza nazionale in atto possa incidere sul corretto svolgimento della giustizia amministrativa”. A Rossano accanimenti contro Cesare Battisti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 ottobre 2020 La denuncia dei suoi avvocati tramite l’associazione Yairaiha Onlus. Si trova in regime di isolamento dove gli hanno tolto il pc che prima, al carcere sardo di Massama dove era recluso in alta sorveglianza, poteva utilizzare per motivi di studio e lavoro. Non solo. Gli hanno bloccato tutta la corrispondenza in entrata e in uscita, ad oggi i suoi cari non hanno avuto la possibilità di effettuare un colloquio visivo e, come se non bastasse, sono stati trattenuti - quando in precedenza invece erano ammessi - diversi pacchi inviati dai familiari. Parliamo di Cesare Battisti, trasferito dal carcere sardo a quello calabrese di Rossano Calabro da una ventina di giorni. A segnalare alle autorità competente i diritti, di fatto, violati è l’associazione Yairaiha Onlus. “Abbiamo appreso - si legge nella missiva dell’associazione - dagli avvocati di Cesare Battisti (Maurizio Nucci, Davide Staccanella e Sollai) che da quando è arrivato nel carcere di Rossano, all’incirca 20 giorni fa, il detenuto è sottoposto ad una serie di misure che vanno a violare il divieto di regresso trattamentale costituzionalmente e convenzionalmente garantito”. Tali restrizioni sembrano dei veri e proprio accanimenti del tutto ingiustificati. Come mai? Eppure i magistrati di esecuzione, nel rigettare la richiesta dell’avvocato di concedere i 30 anni di reclusione, così come sottoscritto dall’Italia con il Brasile, hanno stabilito che Cesare Battisti non deve essere sottoposto a regimi speciali, ma a quello ordinario, perché i fatti risalgono al 1979. Quindi gli stessi magistrati hanno stabilito che non debba essere sottoposto ad alcun regime differenziato rispetto ai detenuti comuni. Eppure il ministero ha deciso, a suo insindacabile giudizio, che Battisti va tenuto in regime di alta sorveglianza. Oppure, in alternativa - così come è poi accaduto con il trasferimento - di mandarlo al carcere di Rossano, insieme ai terroristi islamici. A che pro? Come detto, l’associazione Yairaiha denuncia alle autorità nero su bianco che a Battisti “gli è stata revocata la possibilità di utilizzare il pc precedentemente autorizzato per motivi di studio e lavoro, inoltre gli è stata notificata la censura della posta ma, di fatto, gli è stata bloccata pressoché tutta la corrispondenza in entrata e in uscita e non tutta notificata. Dai pacchi inviati dai familiari sono stati trattenuti diversi generi, anche questi precedentemente ammessi”. Prosegue denunciando che “i familiari hanno già fatto ben 2 richieste per poter effettuare colloquio visivo, rispettivamente in data 2 e 9 ottobre ma, ad oggi, non hanno ricevuto alcuna risposta”. Anche la comunicazione con gli avvocati viene ostacolata, perché pare che la direzione non autorizzi le chiamate verso i cellulari degli avvocati. “Questo aspetto - sottolinea l’associazione - appare paradossale soprattutto in questo momento di limitazioni di movimento per tutta la popolazione e dal momento che, proprio in questi mesi, la comunicazione nelle carceri si è (finalmente) adeguata ai tempi”. Yairaiha ritiene che alcune violazioni della legge penitenziaria siano palesi e vanno a incidere negativamente sui diritti del detenuto. “Si prega pertanto - si rivolge l’associazione al Dap e al ministero della Giustizia - di voler verificare quanto rappresentato, ognuno per le proprie competenze, al fine di garantire che i diritti del sig. Battisti siano garantiti a Rossano Calabro come a Oristano o in qualsiasi altro istituto penitenziario”. Da ricordare anche che Battisti, 65enne, è affetto da varie patologie, comprese quelle polmonari. Il Covid-19, che ha fatto capolino anche al carcere calabrese, è letale per chi ha condizioni preesistenti di determinate malattie. Resta sullo sfondo la ratio della necessità di tali misure restrittive che gli stessi magistrati non hanno indicato. C’è il rischio che riprenda la lotta armata quando il suo ultimo, seppur indicibile reato è stato commesso nel lontano 1979? La difficile arte di coniugare il buon senso e la giustizia di Carlo Nordio Il Messaggero, 14 ottobre 2020 Sentenze coraggiose. Una volta tanto, ed è per noi una sorpresa gradita, la legge, la giustizia e il buon senso si sono felicemente coniugate nella decisione di un giudice. La legge è la nr. 3 del 27 gennaio 2012, chiamata, a suo tempo, “anti-suicidi”. La sentenza è del Tribunale di Prato. Il buon senso è quello espresso nella motivazione del redattore. Il fatto è semplice, e purtroppo non isolato. Un artigiano, entrato come socio nell’azienda dove lavorava, si era oberato di debiti societari, e aveva firmato una cospicua fideiussione bancaria. Non ha potuto soddisfarla, e il creditore è andato all’incasso. Il giudice, dopo una serie di accertamenti, rilevato che il poveretto aveva sempre tenuto una condotta corretta, non aveva occultato né sperperato risorse, e aveva agito solo per conservare l’azienda e il posto di lavoro, ha dichiarato il debito inesigibile. In pratica lo ha annullato. Il fondamento normativo di questa saggia pronuncia è, come dicevamo, una legge di quasi dieci anni fa. Essa consente al privato cittadino “in stato di sovra-indebitamento” di ristrutturare, e nei casi estremi addirittura di annullare il debito contratto in buona fede, quando cioè pensava di poterlo onorare. La legge, come quasi tutte le nostre, è di difficile interpretazione, contiene espressioni pompose e aggettivi improbabili, ed è già stata bollata dalla stessa Cassazione di “vuoto legislativo”. Forse anche per questo è poco conosciuta e ancor meno applicata. In effetti non è né un esempio di coerenza né un modello di efficienza, in quanto prevede scansioni temporali abbastanza singolari. Tuttavia è importante, proprio perché rimedia ad alcune situazioni “inesigibili”, dovute alla concomitanza di fattori che hanno reso impossibile al debitore di adempiere le proprie obbligazioni. Quando la Legge è stata approvata, l’Italia usciva - si fa per dire - da una crisi allora ritenuta epocale: molti imprenditori si erano suicidati, ed anche per questo le è stato appiccicato il nome sopra riferito. Nessuno poteva immaginare che a distanza di pochi anni sarebbe arrivata una catastrofe ben peggiore con l’interruzione totale, sia pur temporanea, delle attività produttive e con le durature conseguenze di cui vediamo e vedremo la gravità. È quindi presumibile che, nello sconquasso dei rapporti creditizi che si profila davanti a noi, e nella tragedia che rischia di coinvolgere migliaia di individui, avremo altre sentenze del genere. Meglio ancora sarebbe se il Parlamento aggiornasse la legge, individuandone meglio i criteri di applicazione e semplificandone le procedure. A queste considerazioni, per così dire, tecniche, vorremmo aggiungerne altre due. La prima è che il giudice di Prato si è dimostrato, appunto, coraggioso e umano. Egli infatti ha applicato la norma con un’interpretazione estensiva di grande saggezza, evitando cavillosi distinguo e andando dritto allo scopo prefissosi dal legislatore: quello di salvare un onesto poveretto da una situazione disperata e, tutto sommato, nemmeno a lui addebitabile. La seconda è che il medesimo criterio di “inesigibilità” dovrebbe essere tenuto più in considerazione in tutti provvedimenti autoritativi. Il pragmatico diritto romano è pieno di brocardi che si ispirano proprio alla necessità di adattare la norma astratta alla dura realtà delle cose. I concetti del “summum ius summa iniuria” e quello simmetrico del “fiat iustitia pereat mundus” ci ammoniscono che l’applicazione arcigna della legge si converte spesso nel suo contrario, creando paradossi e iniquità. Il principio applicato dal giudice di Prato è quello, ancora più cogente, che “ad impossibilia nemo tenetur”: a nessuno si possono chiedere prestazioni impossibili. Chiedendo scusa all’esausto lettore di questo noioso latinorum, vorremmo solo ricordare a noi stessi che alcune disposizioni che il governo minaccia di varare per tutelarci dal contagio del Covid rischiano proprio di confliggere con quest’ultimo postulato. Imporre comportamenti inesigibili perché contrastano con il buon senso - e magari con il dettato costituzionale - non è soltanto inutile, ma anche dannoso, perché la loro inevitabile e generalizzata violazione rischia di trascinar con sé quella delle altre necessarie e sacrosante cautele. Perché l’obbligazione che il cittadino si accolla verso lo Stato, nel cosiddetto contratto sociale, è un po’ come il debito dell’artigiano di Prato: oltre certi limiti, viene azzerato dalle circostanze, e alla fine anche dal giudice. Protezione internazionale, non sempre serve l’audizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2020 La Suprema corte sulla scia della pronuncia dei giudici Ue. Audizione non sempre necessaria nei giudizi sulla concessione di protezione internazionale. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza 22098 della Prima sezione civile depositata ieri. Per la Corte, in assenza della videoregistrazione del colloquio svolto davanti alla Commissione territoriale, il giudice deve fissare l’udienza di comparizione, ma non è obbligato a convocare l’interessato. L’audizione dovrà svolgersi se nel ricorso vengono dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda; quando il giudice ritiene necessario ottenere chiarimenti dopo avere rilevato incongruenze e contraddizioni nelle dichiarazioni del richiedente; in caso di richiesta diretta da parte dell’interessato, a meno che la domanda stessa venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile. Anche sulla base di queste considerazioni, la Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla difesa di un uomo che si era visto già rifiutare dal tribunale di Lecce e dalla commissione territoriale lo status di rifugiato. Per il tribunale, infatti, una nuova audizione doveva essere esclusa, anche se il colloquio davanti alla commissione non era stato documentato in video, perché le circostanze dichiarate e poi cristalizzate nel verbale di audizione dovevano essere considerate del tutto esaustive. Tanto più che a difesa non aveva poi addotto circostanze nuove sulle quali eventualmente svolgere un approfondimento istruttorio anche sentendo direttamente l’interessato. La Cassazione corrobora la sua lettura con un richiamo anche alle pronunce della Corte di giustizia europea. A partire da quella del 26 luglio 2017, Mousssa Sako, dove a fronte di una sottolineatura del fatto che l’assenza di audizione del richiedente nel corso di una procedura di impugnazione configura una restrizione dei diritti della difesa, tuttavia si affermava anche, letteralmente, che “secondo la giurisprudenza costante della Corte, i diritti fondamentali, quale il rispetto dei diritti della difesa, ivi compreso il diritto di essere ascoltato, non si configurano come prerogative assolute, ma possono soggiacere a restrizioni, a condizione che queste (...) non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza dei diritti garantiti”. La Corte di giustizia poi, che pure invitava a una valutazione complessiva del procedimento per la concessione della protezione internazionale, con l’eventuale impugnazione davanti all’autorità giudiziaria rispetto a un primo giudizio di natura amministrativa, ammetteva l’esclusione dell’audizione nel caso in cui gli elementi del fascicolo fossero considerati esaustivi dal giudice. Tentata violenza proporre incontri al minore dopo rapporti “a distanza” a sfondo sessuale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2020 L’imputato chiedeva la derubricazione nel reato di molestia perché gli incontri non si sarebbero mai verificati. Se un adulto propone incontri, mai verificatisi, a un giovane non ancora quattordicenne, dopo un intenso rapporto telematico e telefonico a sfondo sessuale, commette il reato di atti sessuali con minore, ex articolo 609 quater del Codice penale, anche se solo nella forma del tentativo. La sentenza n. 28454 depositata oggi dalla Cassazione penale ha, infatti, confermato la misura cautelare per il tentato reato di atti sessuali con minore nei confronti dell’imputato che chiedeva la derubricazione nel reato di molestia confessando che di fatto gli incontri non si sarebbero mai verificati, neanche in futuro, in quanto gliene mancava “il coraggio”. Molestie - La Corte spiega che non si può parlare di semplice molestia quando scopo dell’induzione del minore è quello di coinvolgerlo nel concreto compimento di atti sessuali. La consumazione di tali atti non vi è stata nel caso concreto, determinando l’inquadramento della responsabilità penale nella forma del tentativo. Al contrario, il mero reiterato invito al minore alla consumazione di atti sessuali non integra il tentativo di atti sessuali con minore, ma può rientrare nella fattispecie della molestia. Ma nella vicenda non è ravvisabile un “mero invito” da parte del ricorrente che oltre a proporre incontri “di persona” induce da tempo il minore, attraverso telefono o internet, a inviare foto che lo ritraggano nudo e in pose sessuali. In particolare, il fine di consumare sesso col minore emerge dalla proposta avanzata “a distanza” di realizzare concretamente il contenuto delle interlocuzioni avvenute tramite telefono o rete telematica. E nel caso specifico vi era stato ampio scambio tra i due soggetti culminato nella proposta da parte dell’imputato di ben due incontri in specifico luogo appartato col fine esplicitato di consumare atti sessuali. Per i giudici si è trattato, in sintesi, di atti inequivocabilmente diretti a compromettere la sfera sessuale della vittima non ancora quattordicenne, in particolare attraverso la concretezza delle proposte di incontro. Dacui il tentato abuso sessuale. Adescamento - La Cassazione spiega, che in un caso come questo non è configurabile neanche l’ipotesi di reato di adescamento di minori, come previsto dalla Convenzione di Lanzarote e trasfuso nell’articolo 609 undicies del Codice penale. Infatti, si tratta di adescamento quando il minore è oggetto di artifici, lusinghe o minacce predisposti a carpirne la fiducia al fine della successiva commissione di reati-fine a sfondo sessuale. Cancro, no alla condanna del chirurgo solo in base ai dati statistici di sopravvivenza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2020 Ma l’anticipazione del decesso dovuto a errori diagnostici, o a cure inadeguate, rientra nella tipicità del delitto di omicidio colposo. La prova controfattuale della responsabilità del medico nel decesso di un paziente, nel caso affetto da gravi patologie tumorali, non può basarsi unicamente su di un coefficiente di probabilità statistica ma deve sempre essere riportata al “fatto storico”. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 28294 depositata il 12 ottobre, accogliendo con rinvio il ricorso di un chirurgo condannato per omicidio colposo per non aver disposto l’esame istologico sul materiale resecato. La IV Sezione penale, però, ha anche evidenziato che, in materia di gravi malattie tumorali, “l’anticipazione del decesso - comunque inevitabile - dovuto a errori diagnostici e/o a cure inadeguate, è circostanza che rientra nella tipicità del delitto di omicidio colposo”. Anche in questo caso infatti l’evento-morte è “tutti gli effetti riconducibile alla condotta colposa del medico”, il quale “è sempre tenuto ad apprestare una terapia adeguata alla malattia, al fine di curare e mantenere in vita il paziente per tutto il tempo consentito dalla migliore scienza ed esperienza medica”. La condanna della Corte di appello di Milano è stata dunque censurata nella parte in cui è addivenuta ad un giudizio di colpevolezza rifacendosi ad indicatori generali ed astraendo dal caso concreto. Senza neppure fare i conti con l’affermazione dei periti secondo i quali non era possibile concludere che “una anticipazione della diagnosi ed una corretta strategia terapeutica avrebbero con certezza evitato il decesso del paziente o prolungato sensibilmente la sua sopravvivenza”. La Corte rammenta che è da considerarsi “causa” di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva). Non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa). Citando poi la sentenza ThissenKrupp (SU n. 38343/2014, Espenhahn), la decisione ricorda poi che “nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto”. Al contrario, prosegue la decisione, la Corte d’appello ha basato il suo giudizio controfattuale “essenzialmente su dati statistici generali di evoluzione della malattia, dando esclusivo rilievo - ipotizzando come effettuato l’esame istologico, che avrebbe consentito al medico curante di apprestare una terapia mirata e non “alla cieca” della patologia - ai coefficienti di probabilità statistica di sopravvivenza (a cinque anni) del paziente forniti dai periti, variabili dal 25% al 70% a seconda della natura muscolo- invasiva o meno della malattia all’esordio”. Elemento quest’ultimo, tra l’altro, mai accertato. La decisione spiega poi la differenza fra probabilità statistica e probabilità logica: la prima attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli eventi; la seconda attiene alla verifica ulteriore, sulla base dell’intera evidenza disponibile, circa l’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento ai fini della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale. Il concetto di probabilità logica impone dunque di tenere conto di tutte le caratteristiche del caso concreto, integrando il criterio della frequenza statistica con tutti gli elementi indiziari astrattamente idonei a modificarla. In conclusione, i giudici del rinvio dovranno stabilire - non sulla base di un mero coefficiente di probabilità statistica ma fondandosi su una valutazione avente elevato grado di credibilità razionale - se l’omissione addebitata al chirurgo sia condizione dell’evento. Con la precisazione che per evento del reato di omicidio colposo deve considerarsi anche l’anticipazione della morte determinata dalla condotta colposa del medico. In altri termini, giudici dovranno verificare se, ipotizzandosi come realizzata condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato quantomeno differito con (umana) certezza. Ristorazione, frode in commercio e profili di compliance di Mattia Miglio Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2020 Sul titolare di un esercizio commerciale grava l’obbligo di impartire ai propri dipendenti precise disposizioni di leale e scrupoloso comportamento commerciale e di vigilare sull’osservanza di tali disposizioni, sicché, in difetto, si configura il reato di cui all’art. 515 cod. pen. Con la pronuncia in commento (Corte di Cassazione, Sezione 3, Penale Sentenza 30 luglio 2020 n. 23181) la Suprema Corte offre interessanti spunti di riflessione a margine di una vicenda concernente un caso di (tentata) frode nell’esercizio del commercio nell’ambito della ristorazione. Segnatamente, nel caso che ci occupa, all’odierna imputata - quale titolare di un ristorante - veniva contestata la violazione della fattispecie ex artt. 56, 515 c.p., per aver omesso di indicare nel menu dell’esercizio commerciale lo stato fisico di congelato o di surgelato di alcuni alimenti. Avverso la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Appello, la ricorrente ricorreva evidenziando, da un lato, che la condotta oggetto di contestazione era imputabile non tanto alla titolare quanto al capo cuoco - il quale curava la redazione del menù - e, sotto altro profilo, rilevando che in ogni caso, ai clienti veniva data sempre fornita in via orale ogni informazione circa lo stato fisico, congelato o surgelato dei prodotti utilizzati per le portate indicate nella carta del ristorante. Come si può leggere nelle motivazioni, la Suprema Corte respinge entrambe le argomentazioni difensive appena menzionate. Nello specifico, la Cassazione esclude che la condotta contestata possa essere esclusivamente attribuita - come sostenuto dalla difesa - al capo cuoco, anziché alla titolare del locale, sull’assunto per cui “il reato di frode nell’esercizio del commercio, consumato o tentato, è riferibile al titolare dell’esercizio commerciale, anche quando lo stesso non sia la persona concretamente preposta alla vendita o alla consegna del bene, ed agisca accettando il rischio che dalla mancata indicazione di sue direttive di corretto comportamento ai dipendenti possa derivare la consegna di una cosa diversa da quella dichiarata”. Infatti, “sul titolare di un esercizio commerciale grava l’obbligo di impartire ai propri dipendenti precise disposizioni di leale e scrupoloso comportamento commerciale e di vigilare sull’osservanza di tali disposizioni, sicché, in difetto, si configura il reato di cui all’art. 515 cod. pen. sia allorquando alla condotta omissiva si accompagni la consapevolezza che da essa possano scaturire gli eventi tipici del reato, sia quando si sia agito accettando il rischio che tali eventi si verifichino (così Sez. 3, n. 27279 del 26/03/2004, Rosi, Rv. 229348- 01). In coerenza con questa impostazione, inoltre, si è ripetutamente affermato che, in di frode nell’esercizio del commercio, il titolare di un piccolo esercizio commerciale è responsabile per la vendita di aliud pro alio anche se non è l’autore materiale della cessione”. Accanto a ciò, per quanto concerne la configurabilità del reato di tentata frode nell’esercizio del commercio quando la natura congelata o surgelata di alimenti disponibili nella cucina di un ristorante - pur non risultando dal menu - venga rappresentata a voce ai clienti, la Corte precisa invece che “la detenzione nella cucina di un ristorante di alimenti surgelati o congelati, non indicati come tali nel menu, integra il reato di tentata frode nell’esercizio del commercio, anche quando la “politica commerciale” dell’impresa preveda l’informazione orale ai clienti circa lo stato fisico della pietanza”. A sostegno di tale conclusione, la pronuncia rileva che, in base alle risultanze dibattimentali, era emerso, da un lato, che nel menu in uso nel locale non era indicata la presenza di prodotti congelati o surgelati e che numerosi alimenti - es: calamari, tortelli di ricotta e spinaci, trancio di ricciola - erano disponibili solo come congelati o surgelati e che, sotto altro profilo, il menu oggetto di contestazione era quello comunemente in uso nel ristorante senza che fosse emerso alcun elemento idoneo a far ritenere che la “carta” venisse costantemente rielaborata o che gli operanti si fossero recati nel locale proprio il giorno in cui la stessa era stata formata. Sotto un profilo prettamente giuridico, la Suprema Corte richiama poi le indicazioni provenienti dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, ricordando che “integra il reato di tentativo di frode in commercio la mera disponibilità, nella cucina di un ristorante, di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menu, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore (cfr., tra le tantissime, Sez. 3, n. 39082 del 17/05/2017, Acampora, Rv. 270836-01, e Sez. 3, n. 30173 del 17/01/2017, Zhu, Rv. 270146-01). Questo orientamento discende dalla natura “sopraindividuale” del bene giuridico del reato di cui all’art. 515 cod. pen., il quale è previsto a presidio del corretto e leale esercizio del commercio e solo secondariamente dell’interesse del singolo consumatore [...]. Va inoltre aggiunto che alcune pronunce hanno anche espressamente precisato che la punibilità del venditore per il delitto di frode nell’esercizio del commercio non è esclusa nemmeno per il fatto che l’acquirente sia a conoscenza della diversità del prodotto rispetto a quello da lui richiesto (così, specificamente, Sez. 3, n. 49578 del 04/11/2009, Nigi, Rv. 245755-01, e Sez. 6, n. 4827 del 21/02/1986, Bagni, Rv. 172941-01). Tale conclusione, oltre che in linea con le esigenze di tutela del bene giuridico posto a fondamento del reato di frode nell’esercizio del commercio, sembra aderente anche al dato testuale dell’art. 515 cod. pen. La disposizione appena citata, infatti, sanziona, tra le altre, la condotta dell’operatore commerciale che “consegna all’acquirente [...] una cosa mobile, per [...] qualità [...], diversa da quella dichiarata o pattuita”. Nel riferito contesto linguistico, la parola “dichiarata” risulta indicativa: la stessa, essendo collegata con la congiunzione “o” alla parola “pattuita”, non può non avere un significato diverso ed ulteriore rispetto a quest’ultima, stante il principio di “utilità” e di significatività di tutte le singole locuzioni impiegate dal legislatore. Muovendo da queste indicazioni, appare ragionevole concludere che la pubblicazione dell’offerta, nel menu di un ristorante, di prodotti indicati senza alcuna menzione della loro natura congelata o surgelata costituisce “dichiarazione” affermativa di una qualità degli stessi diversa da quella reale”. Ne discende pertanto “che i prodotti erano descritti in modo non conforme al reale e che le eventuali informazioni dei camerieri ai clienti, “su richiesta” di questi, in ordine all’effettivo stato degli alimenti “non esclude l’obiettività del dato per cui nel menu l’informazione in questione non era presente” e che, di conseguenza, che “la messa a disposizione in un ristorante aperto al pubblico di un menu relativo ad alimenti dei quali non è indicata la natura di congelati o surgelati integra condotta idonea, diretta in modo non equivoco a consegnare “una cosa mobile, per [...] qualità [...], diversa da quella dichiarata”, anche se la “politica commerciale” dell’impresa preveda l’informazione orale ai clienti circa l’effettivo stato fisico della pietanza” (p. 4). Tutto ciò premesso, l’utilizzo dei termini “politica commerciale dell’impresa” ed “informazione orale ai clienti circa l’effettivo stato fisico della pietanza” porta a qualche riflessione sull’opportunità di rafforzare gli aspetti di compliance nell’ipotesi in cui l’attività di ristorazione venga svolta da una persona giuridica dotata di una certa complessità organizzativa tale da renderla un centro di imputazioni di rapporti giuridici distinto dalla persona fisica che opera materialmente. Del resto, l’art. 515 c.p. - qui oggetto di contestazione - rientra tra i reati presupposto idonei a fondare la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche (art. 25 bis1 D.Lgs. 231/2001); responsabilità che - ovviamente in linea astratta - potrebbe essere configurabile ove i soggetti in posizione apicale e/o le persone sottoposte alla loro direzione o vigilanza pongano in essere atti ex art. 515 c.p. mediante la messa in commercio di portate culinarie di qualità inferiore e/o diversa rispetto a quella dichiarata nella carta del ristorante, al fine di incrementarne le entrate. Per scongiurare tale ipotesi, anche nell’ambito della ristorazione può pertanto essere identificare e gestire preventivamente i principali rischi derivanti dall’esercizio dell’attività, rafforzando ed implementando le procedure e i protocolli di controllo delle fasi della messa in commercio dei beni, ed individuando i soggetti coinvolti e le rispettive sfere di responsabilità. In questo senso, l’ente potrà predisporre apposite misure al fine di prevenire la diffusione ai clienti - anche sui canali social - di informazioni mendaci o imprecise sull’origine e qualità dei prodotti utilizzati per la preparazione delle pietanze indicate nel menu. Accanto a ciò - sempre in via esemplificativa, senza pretese di esaustività - sembra opportuno implementare altresì le procedure di controllo sulla veridicità della data di scadenza o sulla quantità e qualità dei prodotti destinati alla composizione degli alimenti oggetto di futura messa in commercio. Campania. Si continua a morire di carcere: una discarica sociale abbandonata a sé stessa di Samuele Ciambriello* sudreporter.com, 14 ottobre 2020 Il carcere è sempre più una discarica sociale, è sempre più abbandonato a se stesso. È una risposta semplice a problemi complessi. Purtroppo si continua a morire di carcere e in carcere. Uno entra in carcere perché ha commesso un reato e rischia di uscire dal carcere dopo che ha subito un reato dallo Stato o di malagiustizia o di malasanità. La Regione Campania che quest’anno ha accolto l’assemblea annuale dei Garanti delle Persone private della libertà come è noto è una terra di contrasti, che si riverberano anche nell’ambito operativo in un contesto delicato e importante quale quello che riguarda la realtà delle persone private della libertà. La nostra regione, infatti, si contraddistingue per raccogliere al suo interno situazioni di grande emergenza, a esperienze di eccellenza e innovazione. Proviamo dunque a inquadrare la situazione aggiornata al 30 settembre 2020: Nei 15 Istituti penitenziari per Adulti 6.475 detenuti di cui 308 donne e 134 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 6.062, sono 58 i ristretti presso il Carcere Militare di Santa Maria Capua Vetere. Negli Istituti penali per i Minori a Nisida (30) e Airola (25) si accolgono complessivamente 55 ragazzi. Le persone prese in carico nel solo Ufficio di esecuzione penale esterna di Napoli (Uepe) sono circa 6.440. Per quanto riguarda i ricoverati in Rems la Campania ospita quattro strutture, con una capacità di accoglienza di circa 68 posti, di cui due definitive: quella di Calvi Risorta e quella di San Nicola Baronia, e due provvisorie collocate a Vairano Patenora e a Mondragone. In questo mare di umanità spicca l’eccellenza del Polo Universitario Penitenziario regionale per i detenuti della Campania presso il Centro Penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano, il primo polo Universitario Penitenziario del Meridione, che risulta essere il secondo dopo Bologna per numero di iscritti. Inaugurato il 19 giugno 2018, il primo anno accademico ha accolto le domande d’iscrizione di circa 50 detenuti ai corsi di laurea più svariati da scienze erboristiche a giurisprudenza; attualmente non sono state concluse le operazioni di verifica da parte del Dap, ma le istanze di immatricolazione del terzo anno del polo sono circa 54 che vanno ad aggiungersi ai 57 già iscritti dell’anno precedente. Nel corso del 2019 sono stati attivati 23 corsi di formazione professionale che hanno coinvolto circa 236 iscritti nei vari istituti della regione, promuovendo ancora il circolo virtuoso dell’investimento formativo, considerandolo uno strumento finalizzato al reinserimento sociale vero e proprio. Appare poi il lato cupo di questa realtà in chiaroscuro, su 44 suicidi nelle carceri italiane la Campania conta 8 persone che dall’inizio dell’anno ad oggi hanno deciso di togliersi la vita. Con il primato negativo riguardante il sovraffollamento, si continua a parlare da Nord a Sud della penisola, del progetto incompiuto del Carcere di Nola; un progetto scaturito da quanto pensato e stabilito dai tecnici del tavolo degli Stati generali dell’Esecuzione penale nel 2015, in grado di realizzare un edificio unico in Italia che fosse rispondente alle esigenze di gestione penitenziaria più avanzata e di grande innovazione. Allo stato, l’iter procedurale per la costruzione dell’opera è in carico al Provveditorato regionale delle opere pubbliche della Campania ed è ancora in una fase di progettazione preliminare (sono in corso accertamenti tecnici sul terreno su cui dovrebbe sorgere l’istituto).Dunque, a coloro che ritengono che la risposta alla questione della detenzione sia rappresentata dalla costruzione di nuovi carceri, e non da un maggior accesso alle pene alternative, ricordo che occorre fare i conti con la lentezza burocratica delle procedure (anche per evitare lo scandalo dei cosiddetti “carceri d’oro”). Altrimenti si scade nella retorica ad effetto o peggio nella inadeguatezza delle risposte (come ad esempio la ormai scontata e troppo spesso abusata idea che assegnerebbe alle caserme dismesse una sorta di funzione multiuso (prima ai migranti, poi ai detenuti, poi alle funzioni sociali etc..). La realtà è invece un’altra e cioè: occorre fare semplicemente quello che è possibile per rendere migliore il carcere per i detenuti e per gli operatori penitenziari. Tornando ad un quadro più operativo ancora oggi Il carcere di Poggioreale continua a essere quello più sovraffollato d’Europa. In questo luogo senza tempo, appare necessaria una riflessione sullo spazio fisico, in termini anche di edilizia, di spazi sensibili e significativi, di carenza di spazio vitale, di vuoti comunicativi e relazionali con la famiglia, di mancanza di igiene e dignità è utile e significativo. Da tempo sono stati destinati 12 milioni di euro nel silenzio generale della politica locale, nazionale, di maggioranza ed opposizione che restano ad oggi inutilizzati. Questi numeri, seppur non esaustivi riflettono in numero delle vite di coloro che quotidianamente noi Garanti incrociamo insieme all’altra metà del cielo ovvero le famiglie di queste persone, il personale che a vario titolo opera negli istituti, le relazioni istituzionali coinvolte nel mondo penale ciò che ne esce è uno scenario di grande complessità. *Garante campano delle persone private della libertà Trento. “Un carcere fatiscente e affollato” di Donatello Baldo Corriere del Trentino, 14 ottobre 2020 Il report della Garante dei detenuti sottolinea le tante criticità di Spini. La relazione della Garante dei detenuti fotografa una situazione critica. “Concentrazione preoccupante di detenuti in alcune sezioni”, “cattiva situazione manutentiva in cui versa l’edificio”, “altamente critica la situazione dell’area educativa”, “polizia penitenziaria in sofferenza di organico”. “Concentrazione preoccupante di detenuti in alcune sezioni”, “cattiva situazione manutentiva in cui versa l’edificio”, “altamente critica la situazione dell’area educativa”, “polizia penitenziaria in considerevole sofferenza di organico”. La relazione delle attività del 2019 della Garante dei detenuti fotografa una situazione interna alla Casa circondariale di Spini di Gardolo tutt’altro che positiva: “Prima ancora del principio di rieducazione del condannato - ammonisce la garante Antonia Menghini - la Costituzione prescrive che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Un’umanità spesso “ristretta”, così come sono “ristretti” entro le mura di Spini di Gardolo 303 detenuti, di cui 20 donne, solo 202 con sentenza definitiva mentre gli altri sono in attesa di giudizio. Di questi, una percentuale alta, più alta della media nazionale, è composta da cittadini stranieri (quasi il 60%): “Tecnicamente non è possibile parlare di sovraffollamento”, anche se negli anni il numero dei detenuti è arrivato a punte massime di 350 unità: “La capienza originaria della struttura, definita dall’Accordo di programma quadro del 202 siglato da Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Provincia di Trento e Comune di Trento, era stata definita in 240 persone. Ma è stata più di recente rideterminata dal Dap in 419 persone”. Le piante organiche però, sia della polizia penitenziaria che degli educatori, “è tarata sulle originarie 240 presenze”, ed è comunque sottodimensionata. Da qui, segnala la garante, “la sofferenza di organico e la situazione altamente critica dell’area educativa”. Se il sovraffollamento non c’è “tecnicamente”, c’è invece una “alta concentrazione in due sezioni su nove”: “Si tratta delle sezioni dei protetti, detenuti che soprattutto hanno subito condanne per reati sessuali. Ieri - ha sottolineato Antonia Menghini - erano 101. E qui la concentrazione è davvero preoccupante”. Se nelle altre sezioni i detenuti sono in media due per cella, nelle due sezioni segnalate dalla garante i detenuti arriverebbero a 3, in alcuni casi 4 per cella. Altro tema quello delle condizioni strutturali dell’edificio: “Soltanto entrando dal cancello si notano transenne per il rischio di distacco dei pannelli esterni. Questa struttura ha soli 10 anni e la scarsa manutenzione rischia di vanificare l’intervento della Provincia che ha messo i soldi per la sua costruzione”. Altro tema ancora, quello della discontinuità di comando: “In dieci anni otto diversi direttori”, osserva Menghini. L’attenzione della garante, dopo la rivolta del 2018, è anche sul tema del suicidio. Nel 2018 le proteste dei detenuti - “un evento che ha segnato la storia della Casa circondariale” - erano state innescate dai due suicidi avvenuti all’interno della struttura: “Nel 2019 non ci sono stati altri casi (così come non ci sono stati, fin qui, nel 2020, ndr) - spiega Menghini - ma c’è stato un aumento dei casi di autolesionismo e di tentato suicidio”. Su questo, l’Ufficio del Garante spinge per “fare quanto più possibile”, e a tal fine è stato predisposto e approvato il Piano locale di prevenzione delle condotte suicidiarie. Un tema collegato è quello del disagio psichico in carcere: “Il detenuto con disagio psichico che si trova in carcere non ha al momento una sua collocazione”, è infatti posto in infermeria, con l’impossibilità di accedere ai percorsi educativi: “Si auspica che possa essere finalmente realizzato il Centro diurno per il disturbo psichico”. Nessun problema segnalato sul fronte Covid: “Dopo i contagi della primavera - assicura la garante - nessun altro caso”. E dopo la sospensione delle visite dei parenti e della scuola, la ripresa delle attività: “Dall’estate tutto è stato ripristinato, seppur con alcune limitazioni”. Sassari. Il Garante dei detenuti: “A Bancali mancano i servizi psico-sanitari” La Nuova Sardegna, 14 ottobre 2020 “Un carcere come quello di Bancali, dove gravitano detenuti da tutta la provincia di Sassari, dev’essere al più presto dotato di strutture sanitarie e di sicurezza a tutela degli “ospiti” e di chi ci lavora”. È l’appello lanciato ai politici del territorio da Antonello Unida, Garante delle persone private della libertà personale presso la casa circondariale di Sassari, cioè colui che da tempo si batte affinché nella struttura carceraria siano attivati il Sai (Servizio assistenza intensificata) e la Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). “Ciò che voglio evidenziare - spiega Unida - è legato alla recrudescenza dei reati da parte dei giovani di tutto il Nord Sardegna, anche tenuto conto che nel penitenziario di Bancali, essendo l’unica casa circondariale del territorio, passano tutte le persone che hanno commesso un reato o sono in attesa di giudizio, mentre le strutture di Nuchis o e Alghero sono destinate a detenuti con pene definitive”. Un dettaglio non da poco, questo, secondo il garante dei detenuti. “Significa che c’è una popolazione carceraria molto giovane, spesso alla prima esperienza in un penitenziario e molto spesso con problemi di tossicodipendenza, con il risultato che si assiste a vere e proprie crisi da parte di persone che danno in escandescenze. Nonostante il personale addetto, sempre sotto organico, faccia i salti mortali con grande professionalità, non si riesce a far fronte a questo problema”. Unida si appella in primis al deputato sassarese dei Cinque Stelle Mario Perantoni, che a Montecitorio è presidente della Commissione Giustizia, ma anche ai consiglieri regionali, al direttore dell’istituto di pena, agli educatori e al personale dell’area sanitaria. “Ci si guardi in faccia - dice - e si lavori all’unisono per il bene comune e tenendo a mente la Costituzione. Per realizzare il Sai e il Rems a Bancali si possono tranquillamente intercettare i fondi della Comunità europea legati alla sanità penitenziaria, perché non farlo? Considerato che il carcere di Uta, nel Cagliaritano, può contare su questi servizi, si dimostrerebbe che il Nord non è come sempre penalizzato”. Napoli. Detenuto tenta il suicidio, salvato dai medici del Cardarelli di Viviana Lanza Il Riformista, 14 ottobre 2020 Qualche notte fa ha ingerito due batterie e una lametta, un gesto disperato con cui ha voluto manifestare il proprio dramma e urlare il proprio disagio e le proprie paure, soprattutto quella di tornare nel carcere di Vibo Valentia dove sostiene di aver subìto pestaggi. La storia di Gabriele De Biase, 31 anni, arrestato a Scampia per spaccio di droga e recluso temporaneamente nel carcere di Secondigliano in occasione dell’udienza del processo, e raccontata dal Riformista.it, rischia di diventare un altro caso giudiziario. I familiari dell’uomo temono altri gesti di autolesionismo, e hanno chiesto l’intervento dei garanti dei detenuti di Campania e Calabria. Quale piega prenderà questa vicenda è ancora presto per dirlo. Intanto è una storia che riaccende il dibattito sulle difficoltà di vita in carcere per i reclusi, sulle criticità affrontate anche da chi lavora all’interno delle prigioni, sulle tensioni che possono generarsi tra reclusi e agenti della penitenziaria, su aggressioni ed episodi di violenza che non possono essere tollerati. I numeri sul sovraffollamento degli istituti di pena sono una delle spie di una situazione spinta ai limiti, la carenza di mezzi e risorse sono tra le cause di tante criticità e le misure per limitare i contagi da Covid hanno messo un carico di restrizioni e tensioni che ha fatto il resto. Ma torniamo alla storia di Gabriele De Biase. La notte del 3 ottobre scorso viene salvato dai medici dell’ospedale Cardarelli che riescono a estrarre gli oggetti che ha ingerito e stabilizzare le sue condizioni, tanto che dopo una notte in ospedale De Biase viene dimesso. “Dimissione volontaria”, si legge sul referto. Si chiude la parentesi sanitaria, ma resta aperta quella collegata alla detenzione. De Biase decide di mettere nero su bianco e in una lettera inviata al Dap di Roma denuncia di essere stato picchiato nel carcere calabrese dove chiede di non essere riportato. Ripercorre, scrivendo di proprio pugno, dettagli dei pestaggi su cui scatteranno le verifiche come da prassi e su cui, se confermate, il silenzio non dovrebbe calare: “Mi hanno fatto spogliare e mi hanno insultato e picchiato”. Le botte, a sentire De Biase, sarebbero state il benvenuto ricevuto nel carcere calabrese dove era stato trasferito dopo le rivolte avvenute, durante il lockdown, nel carcere di Fuorni: “Mi dissero che mi trattavano così perché venivo da una rivolta e che poi, man mano, si sarebbero calmati”. Milano. I carabinieri derubano lo spacciatore: spariscono 11.000 euro durante la perquisizione di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 14 ottobre 2020 Agli arresti domiciliari due militari. Per i pm si sono appropriati dei soldi e poi hanno cancellato un’intercettazione quando hanno iniziato a temere di essere sospettati. Prima si sarebbero tenuti 11.000 euro perquisendo casa di uno spacciatore arrestato, e poi, quando hanno iniziato a temere di essere scoperti, sarebbero tornati a casa per rimetterceli, di certo entrando nel sistema informatico delle intercettazioni per cancellare due frasi che potevano comprometterli: un vice brigadiere e un appuntato scelto dei carabinieri in servizio nel 2017 a Rho sono stati posti agli arresti domiciliari con le accuse non solo di appropriazione indebita, falso ideologico e accesso abusivo a sistema informatico, ma anche di frode in processo penale e depistaggio. Storia che sarebbe potuta emergere già nel 2018 da una colorita segnalazione, contro colleghi “tutti sporcaccioni” che avevano voluto “insabbiare”, firmata da un altro militare: che però ne aveva ricavato un processo disciplinare, una denuncia alla Procura militare di Verona per insubordinazione (assolto), e un trasferimento. Alla fine di un movimentato inseguimento a Stezzano, in provincia di Bergamo, il 18 settembre 2017 i carabinieri di Rho sequestrano 250 chili di marijuana e arrestano un cittadino marocchino in una grossa inchiesta antidroga del pm milanese Loredana Bartolucci, ma attestano di non aver trovato nulla nella perquisizione a casa, a Dalmine. Quando la moglie dell’arrestato telefona in caserma e dice che non trova più 11.000 euro, i due carabinieri le dicono che si sbaglia di sicuro. Ma restano spiazzati alle 21.10 del 19 settembre quando l’arrestato, chissà come con un cellulare, dal carcere telefona alla moglie intercettata e discute dei soldi spariti nella perquisizione: “Hai visto che ladri che sono?”, “Adesso hai visto che hanno portato via 11”. I due carabinieri inventano quindi una sopravvenuta esigenza investigativa per chiedere il 20 settembre l’ok a una nuova perquisizione, che la pm Bartolucci (pur senza poter immaginare che vogliano farla per poter rimettere in casa gli 11.000 euro) comunque nega; e allora ripiegano sul tornare lo stesso a casa, attestando d’aver reincontrato per caso la donna, di esserne stati invitati a salire a casa, e lì di averla aiutata a cercare meglio i soldi e (guarda caso) a ritrovarli. Ma siccome resterebbe l’intercettazione, uno dei due carabinieri, che per servizio avevano legittimo accesso al sistema di intercettazione Mcr della società privata Area, alle 12.13 di quel 20 settembre modifica la trascrizione e cancella le due frasi sui soldi portati via. Cancellazioni che i file di log sono in grado di tracciare a ritroso, sempre però che ci sia un motivo di sospetto per andare a verificare. E qui l’indagine della pm milanese Cristiana Roveda con i carabinieri di Monza ha avuto tre inneschi: l’interprete marocchino accortosi della discrepanza tra audio e trascrizione; un esposto anonimo del 12 febbraio 2019; e il ripescaggio appunto della relazione del 2018 del carabiniere tartassato. “Sono accuse fondate solo su deduzioni”, ribatte Francesca Lisbona, che difende i due militari avvalsisi della facoltà di non rispondere alla gip Alessandra Clemente, la quale in un primo tempo aveva ravvisato a Bergamo la competenza territoriale, poi radicata di nuovo a Milano dalla Cassazione. “Giuseppe Grande ha 22 anni di impeccabile servizio, Luigi Marcone addirittura 31 anni - rimarca l’avvocato - sono carabinieri che fanno onore all’Arma e mai hanno avuto contestazioni, anzi le loro note caratteristiche sono eccellenti”. Gli arresti risalgono a quasi un mese fa, tanto che nel frattempo la gip li ha sostituiti con l’obbligo di firma dopo che l’Arma ha sospeso i due dal servizio, ma né i vertici dell’Arma né quelli della Procura, entrambi solitamente non avari di comunicati, ne hanno mai dato notizia. Milano. A Bollate il primo bilancio partecipativo in carcere di Roberta Rampini Il Giorno, 14 ottobre 2020 Assemblee tra detenuti per decidere come spendere i 30mila euro a disposizione: ecco i risultati. I numeri: 30.000 euro da spendere, 18 assemblee nei reparti, 670 partecipanti alla fase di selezione delle proposte su 1278 aventi diritto (52,4%), 58 proposte raccolte (vai), 7 progetti al voto, 510 votanti su 1093 aventi diritto (46,6%). Gli obiettivi raggiunti: socialità, condivisione, partecipazione e discussione. Sono i risultati del primo Bilancio Partecipativo all’interno di un carcere in Italia, o meglio del carcere di Bollate, presentati alla commissione consigliare carceri di Palazzo Marino a Milano. L’idea è stata di Giorgio Pittella e Stefano Stortone, il progetto è stato nominato Idee in fuga e si è concluso nel mese di settembre con le votazioni. “Non era scontato tornare in carcere per concludere la fase di voto di #ideeinfuga dopo i mesi scorsi, il distanziamento sociale, le carceri chiuse - spiegano gli organizzatori - grazie alla collaborazione del direttore, della Polizia Penitenziaria e delle educatrici ed educatori del carcere di Bollate è stato possibile far votare 510 detenuti che hanno indicato i progetti vincitori del primo bilancio partecipativo in una casa di reclusione”. Nel reparto femminile ha vinto il progetto del bar nell’area colloqui che permetterà alle detenute di sentirsi più vicine ai loro famigliari, in quello maschile sono due i progetti arrivati a pari merito: Job center e Ponte dentro e fuori entrambi sul tema del lavoro e della formazione. Ora verrà avviata una campagna nazionale di crowd-funding sulla piattaforma www.produzionidalbasso.com per raccogliere i fondi necessari per finanziare i progetti scelti dai detenuti. Ferrara. Confagricoltura in visita al “Galeorto” estense.com, 14 ottobre 2020 L’associazione ha visto da vicino il lavoro svolto dal 2016 da alcuni detenuti che gestiscono vari orti in collaborazione con l’associazione Viale K. Lunedì 12 ottobre una delegazione di Confagricoltura Ferrara si è recata presso la Casa Circondariale di Ferrara per vedere da vicino il lavoro svolto dal 2016 da alcuni detenuti che gestiscono vari orti in collaborazione con l’associazione Viale K di Ferrara. Dopo i saluti di Maria Nicoletta Toscani, direttrice della struttura carceraria, è spettato a Don Bedin insieme al comandante facente funzione, l’ispettore Nino Colagiovanni, e a due funzionarie giuridiche pedagogiche, Mariangela Siconolfi e Teresa Cupo, accompagnare il gruppo di Confagricoltura, che ha potuto così toccare con mano questa realtà. Il progetto “Galeorto” nasce dallo stimolo fornito dalla legge sull’agricoltura sociale e dall’enciclica di Papa Francesco “Laudato Si” che coniuga la custodia del creato con il lavoro dei poveri e la loro promozione. Da cinque anni viene coltivato dai detenuti un orto interno alla cinta muraria e un appezzamento di circa 3 ha che circonda il carcere, detto “Intercinta”, messo a disposizione sempre dall’amministrazione carceraria. Le attività lavorative vengono svolte da detenuti attraverso progetti d’inserimento lavorativo. Nei terreni si producono pomodori, zucche, cavoli, cime di rapa, fragole e altre colture. Questo lavoro, oltre a rifornire di prodotti orticoli le mense della Casa Circondariale, favorisce l’acquisizione di competenze lavorative e opportunità positive di socializzazione. Si tratta di un’attività che ha una valenza trattamentale e rieducativa per i detenuti, in ambito di legislazione carceraria, cioè tale da contribuire ad un percorso di reinserimento di persone, attualmente detenute, che hanno dimostrato interesse per questa opportunità. I risultati, anche educativi, che discendono da questa iniziativa, hanno soddisfatto ampiamente le aspettative: le richieste di farmaci depressivi e gli atti autolesivi, sono totalmente scomparsi nei partecipanti ai progetti. Diversi associati a Confagricoltura Ferrara offrono la loro collaborazione al progetto Galeorto. Giustizia in forma di armonia di Marta Cartabia Corriere della Sera, 14 ottobre 2020 Esce oggi per Bompiani il volume “Un’altra storia inizia qui”, di Marta Cartabia, già presidente della Corte costituzionale, e Adolfo Ceretti. L’insegnamento del cardinal Martini: prima riconoscere la colpa, poi riconciliarsi. Per comprendere la realtà dei delitti e delle pene “bisogna aver visto”. È ciò che osservava Piero Calamandrei in un celebre intervento sulla situazione del carcere pubblicato sulla rivista “Il Ponte” nel 1949. Anche per Carlo Maria Martini è iniziato così, dall’aver visto. Anzi: dall’aver visitato. Martini inizia la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio il carcere di San Vittore, per il risuonare in lui di quel versetto del capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo che tante volte ha ripetuto nei suoi scritti e nei suoi interventi: “Ero in carcere e mi avete visitato”. L’azione del visitare nel pensiero di Carlo Maria Martini ha una valenza umana e religiosa profondissima: più e più volte ricorre nei suoi scritti il richiamo al citato versetto evangelico dove il visitare - lungi dalla formalità dell’atto di cortesia che talvolta il linguaggio comune evoca - significa implicarsi in un rapporto coinvolgente, come quello biblico di Dio che visita il suo popolo. È dal vedere che sorge l’idea. Idea viene dal greco idéin, che pure significa vedere. Quando ci si lascia coinvolgere dall’esperienza di ciò “che abbiamo udito, veduto, contemplato e toccato”, sorgono le grandi domande. Sono soprattutto le “esperienze paradossali” di un “mondo sottosopra” a destare le domande e “le idee vengono quando ci si mette in ricerca, si fanno le domande”. Di qui la potenza creativa e innovativa del conoscere visitando. Ciò che si scopre visitando il carcere è la consapevolezza che dietro le mura vive un mondo paradossale, un mondo sottosopra; dove, per fermare la violenza, si deve compiere un atto di forza; dove, per tutelare i diritti, si debbono limitare i diritti; dove, per assicurare la libertà, si deve restringere la libertà; dove, per proteggere i deboli e gli indifesi, si devono rendere deboli e indifesi gli aggressori e i violenti. Il carcere è un luogo dove accade che a ogni visita le domande che si destano sono assai più numerose e complesse delle risposte che si possono offrire. In questo senso il carcere è una di quelle realtà che attende di essere visitata, per quella inspiegabile potenza dei rapporti che ivi si instaurano, che costringono a parlarsi con verità. La genesi dei “pensieri alti”, coraggiosi e lungimiranti di Martini - per attingere alcune felici espressioni dell’amico Adolfo Ceretti che offre al lettore di questo volume una riflessione di bruciante attualità - si radicano dunque nella sua azione, oltre che nel suo pensiero. Il problema “giustizia” non può essere affrontato solo in chiave teorico-speculativa: Martini lo afferma chiaramente in un dialogo con Gustavo Zagrebelsky. Ogni tentativo di accostarsi al tema sul piano meramente speculativo è infecondo e destinato a fallire, perché la giustizia non è tanto un’idea che si colloca fuori di noi, ma “un’esigenza che postula un’esperienza personale: l’esperienza, per l’appunto, della giustizia o, meglio, dell’aspirazione alla giustizia che nasce dall’esperienza dell’ingiustizia e dal dolore che ne deriva”. Un suggerimento metodologico di cui far tesoro dalla rilettura delle opere di Martini in materia di giustizia è, dunque, l’ascolto dell’esperienza vissuta, degli accadimenti della vita personale e sociale, dei fatti che intessono le storie personali e di popolo che connota il suo magistero, il suo pensiero e la sua azione. Questa attenzione alla realtà, pur necessaria, tuttavia non basta. I fatti di per sé possono essere fraintesi, passare inosservati, non lasciare traccia, smarrirsi nel frastuono, nella trascuratezza o nella dimenticanza. Come osserva Martini, gli avvenimenti “di per sé, sono muti, o almeno ambigui (possono dire una cosa e anche il suo contrario): sono ciò che capita, che ci piomba addosso, ma che non ha necessariamente dentro di sé il suo senso”. È solo nel paragone con un ideale che quegli avvenimenti iniziano a parlare, a suggerire un significato, una via da percorrere. Quell’ideale nel pensiero di Martini è indubbiamente la parola biblica, così ricca di spunti, di episodi e di riflessioni sulla giustizia e sul bisogno di liberazione che contraddistingue tutta la condizione umana. Due, mi pare, sono i capisaldi su cui si articola la riflessione di Martini: la dignità della persona, come incomprimibile possibilità di recupero e cambiamento, qualunque errore sia stato commesso; e la costruzione di un sistema veramente efficace dal punto di vista della tutela della sicurezza e dell’incolumità dei cittadini, o meglio del ripristino dell’armonia dei rapporti sociali. Tra i molti spunti che si possono cogliere fra le righe nel pensiero di Martini in materia di giustizia penale non si può concludere senza accennare alla sua grande intuizione circa la necessità di sperimentare forme, per usare parole del linguaggio odierno, di giustizia riparativa. Martini dalla Bibbia trae l’idea di una giustizia umana intesa come armonia dei rapporti personali e sociali in cui si radica l’idea della giustizia come riconoscimento e riconciliazione. Riconoscimento, perché senza una presa di coscienza del male compiuto, senza una sincera autocritica non può iniziare alcun cammino di ricostruzione. Riconciliazione: perché lo scopo ultimo del diritto penale non può essere prima di tutto quello di far pagare il male commesso, quanto quello di ricostruire i legami spezzati dall’azione malvagia e riparare al male commesso. Come direbbe Papa Francesco, si “tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”. Da questa idea scaturisce una concezione davvero nuova della giustizia penale che guarda al futuro piuttosto che pietrificarsi su fatti passati che pure sono incancellabili. È una giustizia che riapre una dinamica, una possibilità di cammino, di uno sviluppo futuro senza inchiodare il soggetto - reo e vittima - alla fissità di un passato, ma proietta il vissuto, che non si può dimenticare, nel futuro. Quando guerre, dittature e orrori diventano invisibili di Gianni Riotta La Stampa, 14 ottobre 2020 “Testimoni del nulla”: nel libro di Domenico Quirico l’Occidente che ha smarrito la propria coscienza. Il Premio Nobel per la Pace 2019 è andato, non al presidente Trump come la destra repubblicana Usa sperava, ma al World Food Program, organizzazione umanitaria che sfama 97 milioni di esseri umani, sugli 800 milioni che soffrono la fame. Presente in 88 paesi il benemerito Wfp distribuisce 15 milioni di vitali razioni con 5.600 Tir, 30 navi, 100 aerei. Eppure, nell’apprendere la notizia del meritato premio tanti, nel nostro Paese, hanno appreso con stupore che il World Food Program ha sede a Roma, in Italia. Che dalla capitale si irraggi una rete globale di solidarietà è sfuggito a media narcisisti e a un’opinione pubblica ripiegata sotto la pandemia. “Testimoni del nulla”, Laterza, nuovo saggio di Domenico Quirico, firma di questo giornale, si interroga, con malinconico disappunto, su questo smarrimento, questa alienazione pertinace delle coscienze: “Mi chiedo: perché da questa parte del mondo, la nostra, non riusciamo più a provare compassione verso quell’altra parte di noi, i sofferenti, i vinti, tutti gli uomini che scomodamente ci troviamo di fronte sui giornali, in televisione, su Internet?”, esordisce l’autore e la risposta, amarissima, segue di getto: “Come se avessimo nello stesso corpo due sangui diversi. I giovani non si commuovono perché ignari, i vecchi non si commuovono più perché inferociti, rabbiosi, immemori. Resta escluso il dolore che è una parte del mistero umano, una parte del nostro segreto… Dobbiamo capire di quale carne corruttibile è fatta questa nostra Indifferenza planetaria, questo raggelante inverno degli spiriti”. Quirico accompagna il lettore in una Via Crucis che segue le stazioni dell’Ebola in Africa, epidemia crudele, della guerra civile in Siria, dove i “geopolitici” degli istituti perbene trovano prove non del terrorismo di stato di Mosca e Damasco, ma della maestria strategica di Vladimir Putin, in Etiopia, Paese legato all’Italia da troppa storia e senza pace, in Liberia. Presenta una galleria di anime nobili, medici, missionari, Ngo, giornalisti, che si prodigano per alleviare le pene di tanti, poi, severo, deve dar conto del professionista che alla stazione di Milano considera gli emigranti zavorra criminale, della signora che, in una libreria centrale, lo apostrofa “Mi hanno rubato tutto… i suoi amici migranti, prima nella villa in campagna poi in città... tutto... anche le fotografie dei bambini per prendere le cornici... saranno selvaggi ma hanno capito che erano antiche, in radica che così non fanno più! Se penso che le foto dei miei bambini l’avranno buttate in qualche cassonetto...”. Il Quirico inviato nei Paesi di carestia, epidemie, guerre a bassa intensità, dittatura, non riesce a raccapezzarsi con il Quirico editorialista che torna a casa, Torino, Italia. Lamenta, inquieto, “l’indifferenza assoluta, spessa, lussuriosa verso la sorte dei poveri” e, a una signora di buona volontà che, memore degli slanci del 1968 e delle ingenue pulsioni terzomondiste, vorrebbe organizzare una marcia contro la crudele guerra in Yemen, importata da astuti interessi petroliferi e di setta religiosa, obietta brusco: “Pietosa untorella, come ti illudi: una marcia di studenti per lo Yemen! Soltanto perché gli aerei con i contrassegni dell’Arabia Saudita bombardano allegramente ospedali e scuole! Da un anno! Vuoi mobilitare le piazze giovanili perché un ben oliato assedio di sauditi e di loro alleati petroliodotati, gli Emirati, non lascia passare un etto di farina o un tubetto di medicine. Così nello Yemen ribelle ma colpevole soprattutto di esser eretico sciita e filoiraniano si muore di fame e di banali malattie infantili... Ma ti sei accorta che i cattivi sono i nostri migliori alleati in quella zona del mondo?”. Negli anni in cui ho lavorato alla redazione de La Stampa ho imparato ad apprezzare lo slancio giansenista di Quirico, il suo pessimismo radicale che in queste pagine ritorna, chiamando i lettori a un indispensabile scatto etico. Domenico sa che non lo condivido, non perché non ne colga le radici, figuriamoci poi in questo 2020 di pandemia, crisi economica e necrosi delle democrazie. Ma perché, vedi Wfp, non posso non percepire, accanto e oltre la squallida omertà che Testimoni del nulla depreca, la gigantesca forza che il bene, la tolleranza, la scienza, la civiltà, le fedi religiose, la cultura riescono a dispiegare contro intolleranza e miseria. Il mercato globale, che da noi ha aperto sacche di difficoltà per operai e ceto medio con automazione e robotica, ha affrancato, in appena una generazione, oltre un miliardo di esseri umani dalla fame: il salto di benessere maggiore della storia, dalle caverne all’Intelligenza Artificiale. E del resto, malgrado lo scetticismo astigiano Doc, lo stesso Quirico sa bene di essere non testimone del nulla, ma del bene. E chi sa guardare la Storia, perfino in questo fosco 2020, confida che “We shall overcome”, prevarremo, secondo l’inno di un altro Nobel per la pace, il reverendo King. Un libro dunque da leggere, per andare avanti. Covid. Così la seconda ondata sta mutando la nostra psicologia di Paolo Giordano Corriere della Sera, 14 ottobre 2020 Le verità parziali sul coronavirus portano al negazionismo strisciante. Il punto di non ritorno è più vicino di quanto il nostro istinto ci porta a supporre. “Dovrebbero smettere tutti di parlare di questa malattia”, mi ha detto un tassista di Milano alcuni giorni fa. Mi raccontava degli alberghi del centro ancora spopolati, della difficoltà di chi opera in un settore come il suo. Ho obiettato che il virus non sarebbe scomparso anche se avessimo smesso di parlarne, e lui ha ribattuto sicuro: “Ormai si è capito che non è davvero pericoloso. Lo è al massimo per qualche anziano già malato”. Siamo inclini a pensare che là fuori esistano i negazionisti, persone irrazionali e fanatiche, mosse da rancori profondi, e che qui esistiamo noi, ben informati e prudenti. Ma io dubito che il tassista con cui ho discusso fosse un negazionista. Era una persona preoccupata, esasperata e un po’ confusa. Quello che chiamiamo “negazionismo” non è una condizione univoca, semmai un continuum di atteggiamenti e mezze idee, uno spettro di tonalità nel quale ci collochiamo tutti. Dopo mesi di vita a singhiozzo, abbiamo maturato ognuno la propria resistenza personale all’ipotesi del contagio. Per alcuni si traduce nella convinzione che il Covid-19 sia una minaccia solo per una fascia ristretta della popolazione; per altri si tratta di interpretare i numeri con maggiore obiettività e accorgersi che il rischio non è alto quanto vogliono farci credere (è quel che diciamo ogni volta che ci sentiamo di puntualizzare che le terapie intensive sono ancora “mezze vuote”); per altri ancora è semplice stanchezza. Le verità parziali, gonfiate dal desiderio di fare le cose della vita di prima come le facevamo prima, diventano facilmente scetticismo e sottovalutazione: negazionismo, se proprio vogliamo chiamarlo così, ma di un tipo più “debole”, strisciante. Forse, il segreto delle seconde ondate è proprio questo: non la stagione fredda e nemmeno una mutazione del virus, ma una mutazione della nostra psicologia. D’altra parte, se a febbraio conoscevamo a malapena il significato di espressioni come “test molecolare”, “lockdown” e “super-diffusore”, oggi siamo un po’ tutti epidemiologi. Basta scorrere certi post, tweet e articoli molto commentati in rete per accorgersene. È allora il momento di aggiungere al nostro vocabolario minimo pandemico un nuovo lemma: il “tipping point”. Il tipping point, o “punto di non ritorno”, è la soglia che separa il regime di linearità dell’epidemia da quello di non-linearità. Se prima della soglia il contagio evolve in maniera graduale e abbastanza ordinata, come succedeva quest’estate, oltrepassato il tipping point la situazione si aggrava a dismisura e molto rapidamente. In una parola: esplode. Il tipping point è il momento a partire dal quale le cose precipitano. Nello specifico attuale potrebbe manifestarsi in modi diversi: il monitoraggio sotto stress che inizia a perdere troppe linee di trasmissione, gli ospedali che non riescono a far fronte al flusso dei ricoveri, i tamponi che diventano troppo lenti rispetto alle richieste, i medici di famiglia sovraccarichi che non rispondono più agli assistiti, oppure la somma dei nuovi positivi che d’un tratto si trasforma in un numero ingestibile di malati. Ci sono una miriade di soglie in questa epidemia e ognuna è come un argine. Finché tutti reggono, le cose vanno “abbastanza bene”, ma se l’acqua rompe in un tratto qualsiasi il resto viene allagato in un istante. Il problema principale nel rapportarsi con una dinamica a rischio di rottura della linearità è il fatto che nessuno sa in anticipo dove si trovi il tipping point, a quanti focolai, a quante ospedalizzazioni, a quanti nuovi contagi giornalieri. Nemmeno il monitoraggio più attento è in grado di prevederlo. Il punto di non ritorno è riconoscibile solo una volta che è stato superato, ovvero quando è troppo tardi. A febbraio lo abbiamo attraversato senza nemmeno accorgercene, ben prima di renderci conto della presenza del virus fra di noi. Sappiamo cosa è stato necessario, dopo, per frenare la caduta. Adesso il tipping point ci sta di fronte, molto vicino oppure un po’ più distante, nessuno è in grado di dirlo con certezza. Chi guarda al rapporto fra nuovi positivi e tamponi effettuati sente di averne un’idea, ma si tratta di un’indicazione sufficientemente vaga. Chi insiste nel confronto con i numeri di marzo e aprile, come se ci stessimo muovendo all’indietro nel tempo, fa paragoni inappropriati. E chi dice “sì, ci sono i nuovi contagi, ma i ricoverati sono ancora pochi” sbaglia nella direzione opposta. Ciò che conta sapere è che il punto di non ritorno non si trova al 100% di occupazione dei posti in ospedale, né all’80% né, probabilmente, al 50%. Un ospedale che abbia la metà dei suoi letti occupati da malati Covid è un ospedale che sta già operando in sofferenza, è un ospedale a cui manca organico, che si trova costretto a curare peggio, a trascurare altri malati e a rimandare interventi necessari. La nostra sanità non è strutturata per funzionare in sovraccarico, è stata pensata per lavorare in un regime di normalità, molto lontano dalle soglie che ora vogliamo schivare. Il tipping point è più vicino di quanto il nostro istinto ci porta a supporre. Il governo decide quindi di varare una serie di misure restrittive, sebbene, ancora una volta, in ritardo (ventiquattro ore in più di indugi a ottobre equivalgono a parecchi giorni persi un mese fa, quando la ripresa era già evidente, per i soliti effetti non lineari). Quanto alle norme stesse, che singolarmente hanno un loro senso, nel complesso sembrano ancora ispirate al paradigma della prima ondata (“sta per esplodere, blocchiamo il più possibile dappertutto”), un paradigma che speravamo di aver superato. Si tratta, infatti, di misure indiscriminate rispetto al territorio, che rischiano di dimostrarsi insufficienti laddove servono davvero ed eccessive altrove. Questa epidemia la si fronteggia innanzitutto con la percezione che i cittadini ne hanno. In questo momento avremmo bisogno di sentire la struttura territoriale, quella immediatamente circostante, solida e funzionale, non così fragile da richiedere un’altra azione muscolare dall’alto. Se il procedere delle regioni in ordine sparso era deprecabile ad aprile, oggi sarebbe un segno di affidabilità. I danni che questa distinzione mancata può comportare sono perfino più ampi della scarsa efficacia: si rischia di rafforzare ulteriormente gli atteggiamenti di resistenza psicologica già presenti in tutti noi, di spingerci ancora di più verso le innumerevoli forme di negazionismo debole, rendendoci un po’ più scettici, un po’ più esasperati, un po’ meno collaborativi. La fiducia nel contesto viene incrinata dalle continue contraddizioni in cui ci ritroviamo, alcune facilmente risolvibili (“Perché non posso rischiare giocando a calcetto e devo rischiare mandando mio figlio a scuola? Perché la scuola è prioritaria, punto”), altre molto più difficili da accettare (“Perché dovrei rispettare un limite di inviti a casa, se per tornare in quella stessa casa mi tocca viaggiare ogni giorno su un mezzo di trasporto affollato?”). Ecco, arrivati a ottobre ci aspettavamo che il contagio fosse maneggiato un po’ meglio, ma le nuove misure, pur inevitabili a questo stadio, non rispecchiano veramente quel meglio. Perfino noi, epidemiologi dell’ultima ora su Facebook e Twitter, ce ne rendiamo conto. Per una Carta europea della libertà d’informazione di Vincenzo Vita Il Manifesto, 14 ottobre 2020 Lo scorso venerdì 9 ottobre, presso la sala dei Notari di Perugia, l’associazione Articolo21, insieme alla federazione nazionale della stampa, all’associazione della stampa e all’ordine dei giornalisti dell’Umbria e al sindacato di categoria della Rai, ha promosso un’iniziativa davvero importante. Vale a dire la definizione dell’ambiziosa ipotesi di una Carta europea della libertà di informazione (terzo atto dopo la Carta di Assisi del 2017 e il dialogo interreligioso aperto alla fine di febbraio presso la sede della storica rivista Civiltà cattolica) da portare alle autorità di Bruxelles, nella speranza che si alzi la soglia della vigilanza su ciò che sta avvenendo contro il diritto dei diritti. Chiaro al riguardo è stato il richiamo del segretario europeo dei giornalisti Ricardo Gutiérrez. Troppi focolai di autoritarismo e di repressione, persino violenta: dalla Bielorussia, all’Ungheria, a Malta, alla Slovacchia, all’Ucraina, all’Azerbaigian, alla Turchia, all’Egitto, alla Bulgaria, alla Russia. Solo in quest’annata 28 assassini, 231 arresti e 115 incarcerazioni di operatori dell’informazione. Per non dire dell’incredibile vicenda di Julian Assange, che rischia di essere estradato negli Stati Uniti e condannato a 170 anni di prigione. C’è da augurarsi che Biden vinca le imminenti elezioni e conceda la grazia a chi ha svelato orribili segreti delle guerre in Afghanistan e in Irak, i cui promotori - come ha ricordato Giuseppe Giulietti, infaticabile ispiratore della giornata e del percorso che l’ha preparata- vanno in giro per il mondo a tenere conferenze ben remunerate. La Carta sarà intitolata ad Antonio Megalizzi, il giovane reporter finito nel 2018 sotto il fuoco dei terroristi a Strasburgo. Già nel 2016 il consiglio d’Europa si era espresso in materia. Ma ora serve un atto impegnativo, che risponda all’esigenza di ricostruire il discorso in un ambiente comunicativo integrato, nel quale l’universo della rete ha dilatato antropologicamente la funzione del racconto giornalistico. Dopo padre Enzo Fortunato, protagonista della sessione di Assisi, è stato il direttore del periodico dei gesuiti don Antonio Spadaro a tratteggiare con rara sapienza spirituale (e mediologica) luoghi e territori dove corre il Male delle menzogne, delle fake new o delle querele ricattatorie a danno dei cronisti coraggiosi. E un impegno non formale sul tema è stato ribadito dal deputato Walter Verini. A tirare le fila del percorso Roberto Natale, oggi dirigente della Rai, ma da sempre impegnato nell’associazionismo sociale e civile dopo tanti anni di responsabilità sindacali. Non solo in Europa o nel mondo (a partire dall’Africa seguita con passione da Antonella Napoli. O dall’Iran con Tiziana Ciavardini) la libertà è a rischio: in Campania, nel Lazio, in Emilia (le minacce a Donato Ungaro) - come ha ricordato Graziella Di Mambro, attivissima nell’opaca zona di Latina. Tra l’altro, il 20 ottobre riprenderanno le udienze del processo contro le minacce a Federica Angeli. Moltissimi interventi: da Nello Scavo, a Claudio Silvestri, a Giovanni Parapini, a Fabiana Pacella, ai dirigenti degli ordini Guido D’Ubaldo e Poala Spadari, al segretario della federazione della stampa Raffaele Lorusso, che ha ripreso gli spunti ufficializzandoli come piattaforma di una moderna soggettività negoziale. L’assemblea è stata un capitolo di una tre giorni dedicata alla pace e confluita nella catena umana di domenica, sostitutiva - nell’età della pandemia- della gloriosa marcia Perugia-Assisi promossa dalla tavola presieduta da Flavio Lotti. A fare da collante tra i diversi momenti la portavoce di Articolo21 Elisa Marincola, con Paolo Borrometi e Stefano Corradino. Laici o credenti che si sia, va riconosciuto che il testo di riferimento era ed è la nuova enciclica Fratelli tutti del Papa di Roma, che è un manifesto chiaro e convincente di e per un’altra via di sviluppo di un’umanità segnata dalle guerre, dalle ingiustizie e dal disprezzo per l’ecosistema. Cattolici e non solo. Assente per altri impegni il presidente della comunità ebraica di Firenze Levi, ha parlato con grande senso di unità l’Iman Izzedin Elzir. “Gli immigrati versano allo Stato più di quanto ricevono” di Riccardo Chiari Il Manifesto, 14 ottobre 2020 Economia dell’immigrazione. Il decimo Rapporto della Fondazione Leone Moressa registra che i lavoratori stranieri producono 147 miliardi di ricchezza, il 9,5% del Pil italiano. E visto che il costo totale dei servizi erogati ai residenti con cittadinanza straniera è pari a 26,1 miliardi, circa il 3% della spesa pubblica, a fronte di un gettito fiscale più contributi e imposte di ogni tipo che ammontano a 26,6 miliardi, il saldo attivo tra quanto le casse pubbliche ricevono e ciò che erogano è pari a 500 milioni l’anno. Grazie al decimo Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione ad opera della Fondazione Leone Moressa, piccola bibbia dell’universo migratorio in Italia, si scopre che i lavoratori stranieri versano tasse e contributi per un totale di 18 miliardi di euro, producendo una ricchezza che vale 147 miliardi, il 9,5% del Prodotto interno lordo italiano. E visto che il costo totale dei servizi erogati ai residenti con cittadinanza straniera è pari a 26,1 miliardi, circa il 3% della spesa pubblica, a fronte di un gettito fiscale più contributi e imposte di ogni tipo che ammontano a 26,6 miliardi, il saldo attivo tra quanto le casse pubbliche ricevono e ciò che erogano è pari a 500 milioni l’anno. Nello studio, redatto con il contribuito della Cgia di Mestre e il patrocinio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), dei ministeri degli Esteri e dell’Economia, e dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, non sono conteggiati, né considerati nel loro impatto sulla spesa pubblica, i cosiddetti “irregolari”. E questo aspetto, va da sé, ha subito inflazionato i social media di prese di posizione “sovraniste”, molto critiche sul Rapporto. Che sembra rispondere in anticipo, rilevando che dal 2011, cioè da nove lunghi anni, l’Italia ha di fatto chiuso la porta agli immigrati extra-comunitari in cerca di lavoro, che per entrare nella penisola hanno potuto usare solo i ricongiungimenti familiari o le richieste di asilo. Di qui l’osservazione che quel 9,5% del Pil italiano prodotto dai lavoratori stranieri potrebbe essere ancora più corposo. Ma il potenziale è frenato dalla presenza irregolare sul territorio, e dal lavoro nero che naturalmente ne consegue, oltre che dalla poca mobilità sociale. Un po’ di numeri. Oggi gli occupati stranieri in Italia sono 2,5 milioni e dal 2010 sono aumentati di 600 mila unità (+31%). È un’occupazione concentrata prevalentemente nelle professioni meno qualificate. I lavoratori stranieri sono in maggioranza uomini (56,3%) e sette su dieci hanno tra i 35 e i 54 anni. Oltre la metà ha come titolo di studio la licenza media, mentre il 12% è laureato. Altro aspetto sottolineato nel Rapporto è che gli stranieri sono in aumento, ma gli ingressi per lavoro sono in drastico calo. Dal 2010 ad oggi gli stranieri residenti in Italia sono passati da 3,65 a 5,26 milioni (+44%), arrivando a rappresentare l’8,7% della popolazione, e superando il 10% in molte Regioni. Tuttavia i nuovi permessi di soggiorno sono complessivamente diminuiti del 70%, a causa di una riduzione di quelli per lavoro addirittura del 97%. In definitiva gli stranieri extra-comunitari oggi arrivano in genere per ricongiungimento familiare o motivi umanitari. Una situazione analoga a quella vissuta da molti migranti prima di loro, che poi nel tempo - grazie al loro lavoro - sono diventati donne e uomini che contribuiscono alla ricchezza nazionale. Ricevendo dallo Stato meno di quanto non diano. Nel rapporto un capitolo è dedicato all’espansione delle imprese straniere. Nell’ultimo decennio l’imprenditoria straniera è stata infatti un fenomeno più che significativo: gli imprenditori nati in Italia sono diminuiti (-9,4%), mentre i nati all’estero sono aumentati (+32,7%). Le nazionalità più numerose sono Cina, Romania, Marocco e Albania, e la crescita più significativa si registra tra gli imprenditori del Bangladesh e del Pakistan. Il 95% delle imprese a conduzione straniera è di esclusiva proprietà, senza soci italiani. Le imprese straniere producono un valore aggiunto di 125,9 miliardi, pari all’8% del totale, e l’incidenza maggiore si registra nell’edilizia (18,4% del valore aggiunto del settore). Infine, per quanto riguarda l’impatto fiscale, per l’Italia ci sono appunto più benefici che costi per complessivi 500 milioni, visto che gli stranieri sono giovani e incidono poco su pensioni e sanità, principali voci della spesa pubblica. Cannabis legale, i dati confermano la scelta di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 14 ottobre 2020 Mai come oggi possiamo valutare le politiche sulle droghe, incardinate da 60 anni sull’ideologia proibizionista, confrontandole con alternative verificabili nella realtà. In particolare per quel che riguarda la regolamentazione legale della cannabis, che l’associazione Transform ha analizzato in due report dedicati al Canada e agli Usa. In Canada, gli obiettivi prioritari della riforma erano stati esplicitati dal Presidente Trudeau: promozione della salute pubblica, protezione dei più giovani e riduzione della criminalità. Su questi punti sono stati predisposti “solidi sistemi di analisi dei dati” in modo da poter misurare l’efficacia delle politiche. Se la domanda di cannabis si rivolge ancora in buona parte al mercato nero e grigio (anche se nell’ultimo quadrimestre il mercato legale ha superato quello illegale) questo è dovuto ad una politica di prezzi che ha privilegiato la salute pubblica, evitando sovra disponibilità di sostanza, rispetto all’aggressione del mercato illegale. Anche la diffusione della rete di vendita al dettaglio, e le problematiche legate alle competenze locali, ha influito sull’incidenza del mercato legale sull’offerta complessiva di cannabis. Le ricerche sui consumi dei più giovani hanno rilevato un crollo del consumo dei minori, sostanzialmente dimezzato. Se è presto per fare una analisi rispetto alla criminalità generale, è scontato che la decriminalizzazione delle condotte legate alla cannabis, ha determinato una diminuzione dei reati per droghe. Mancava, fra gli obiettivi della riforma canadese, il ripristino della giustizia e dell’equità sociale. Le procedure per la rimozione dei precedenti penali dai casellari giudiziari sono state introdotte in ritardo, risultando inadeguate. Nulla è stato fatto per promuovere un equo accesso al mercato, che è stato preso in mano dalle grandi corporation. Con relativa bolla finanziaria, peraltro scoppiata rapidamente. Negli Stati Uniti invece l’expungement (cancellazione, ndr) o i provvedimenti di grazia, perdono e rimozione, hanno funzionato laddove sono stati resi automatici e non su richiesta, più o meno onerosa, da parte dei singoli. Stiamo parlando di milioni di persone che hanno subito condanne con relativo stigma che hanno inciso sulle loro opportunità di vita. Negli Stati che hanno legalizzato più recentemente, e che hanno potuto calibrare le proprie scelte sulle esperienze pregresse, le autorità regolatrici hanno scelto di promuovere l’accesso al mercato a coloro che erano stati colpiti in modo sproporzionato dal proibizionismo. Come sottolinea Transform, “il momento opportuno per promuovere la “diversity” (ovvero le politiche che garantiscono la presenza di tutti i gruppi sociali o etnici, ndr) nel settore è all’avvio del processo” essendo impossibile garantirla a licenze già distribuite. Un tema delicato è come garantire l’accesso al mercato ai piccoli produttori locali. Ciò che è successo in Canada e Usa è problematico e replica il modello di alcol e tabacco, che non ha sempre dato buoni risultati in termini di salute pubblica. Ma è anche un tema internazionale, laddove le grandi corporation hanno la meglio sui produttori tradizionali. Non è un caso che in Messico la proposta di legalizzazione preveda la possibilità di concorrere per un solo tipo di licenza (produzione, trasformazione, vendita e controllo) in modo da evitare processi di integrazione verticale, che inevitabilmente portano all’acquisizione o all’emarginazione dei piccoli soggetti locali. Tutti spunti utili, anche per prepararci ad un mese di referendum sulla cannabis. Il 17 ottobre infatti si vota in Nuova Zelanda, mentre insieme al voto sul Presidente degli Stati Uniti il 3 novembre i cittadini di Arizona, Montana, New Jersey, Mississippi e South Dakota decideranno su quattro quesiti per legalizzare l’uso di cannabis per gli adulti e due sull’uso terapeutico. I sommari in italiano dei rapporti “Altered States” e “Capturing the market” su www.fuoriluogo.it/oltre-la-carta/ Le conseguenze della crisi libica, lo scontro tra le potenze e il ruolo futuro dell’Europa di Ciro Sbailò* Il Dubbio, 14 ottobre 2020 a crisi libica non potrà restare irrisolta a lungo. Le ragioni sono molteplici. L’Africa del Nord è uno snodo decisivo sotto più profili: geopolitico, economico ed energetico, per citarne alcuni. L’instabilità libica è un problema innanzitutto per i Paesi confinanti, ovvero Egitto e Tunisia. Ma è anche un problema globale. La Libia, infatti, è diventato il laboratorio per gli scenari geopolitici degli anni Venti del ventunesimo secolo. In quella regione si sta giocando un’importante battaglia interna alla guerra civile scoppiata a ridosso della nascita del califfato nero di Bagdad. Schematizzando, abbiamo uno scontro ideologico e militare tra la linea “saudita” e la linea “turco-qatarina”. L’Arabia Saudita punta a una stabilizzazione della regione sotto il patronato di Riad, di cui si rivendica anche l’egemonia sul mondo sunnita, in una fase che, per varie ragioni (ad esempio, il presunto o vero declino occidentale), appare favorevole a un’espansione culturale e religiosa dell’Islam. I sauditi possono contare sulla fedeltà degli Emirati e l’appoggio dell’Egitto di Al Sisi, ferocemente nemico dell’altro fronte, quello dell’Islam popolare, guidato dalla Turchia di Erdogan, che è diventata la patria di riferimento della Fratellanza musulmana (duramente repressa in Egitto, appunto). Quest’altro fronte può contare sul Qatar, dove peraltro ha sede il più importante network del mondo islamico, al Jazeera, e ha un buon rapporto con una parte del mondo sciita (ad esempio gli Hezbollah) e con il regime di Teheran, oltre ad essere popolare nell’Islam d’Occidente, soprattutto tra i giovani. La durezza dello scontro s’è misurata con le reazioni nel mondo islamico ai recenti accordi “Abramo” (tra parentesi, un successo strepitoso dell’amministrazione Trump, che in questo modo sta portando gli Stati Uniti fuori dal teatro mediterraneo, assicurandosi però interlocutori affidabili e duraturi). Erdogan e Teheran sono stati durissimi, dicendo che in questo modo si sacrificavano i Palestinesi sull’altare dell’accordo tra i Sauditi e Israele. Questa partita ha anche dei risvolti energetici ed economici, ovviamente. La posta in gioco è il controllo sulle rotte e sulle risorse naturali del Mediterraneo: anche in questo caso, Israele, Egitto e Sauditi sono da una parte, in appoggio di un Paese Ue come la Grecia, e la Turchia, con il sostegno di Tripoli, dall’altro. Intorno a questo conflitto intrasunnita, si muovono poi le grandi potenze. La Russia spinge come sempre verso sud ovest, per garantirsi una forte presenza nel Mediterraneo, trovando un alleato nella Francia e un sicuro sostegno nell’Egitto di al Sisi. La Francia a sua volta è interessata a rafforzare la sua posizione nel Sahel, dove peraltro vige un sistema monetario parallelo che fa capo a Parigi. Mentre la Cina continua a coltivare con successo la propria politica espansiva economica in Africa, compreso il Nord Africa, cercando di mantenersi, per quanto possibile, politicamente neutrale (mentre sta costruendo le infrastrutture, fisiche e virtuali, del Continente e ha persino avviato una propria politica educativa dei giovani africani). Insomma, sono troppi gli attori internazionali interessati a non far esplodere la situazione libica. Infatti, in questi giorni al Cairo si registrano passi significativi nel dialogo tra le autorità di Tripoli e di Tobruk, in vista della conferenza di Tunisi di novembre, che potrebbe segnare un punto di svolta. L’Italia, che è il Paese più esposto alle ricadute geopolitiche ed economiche della crisi libica (i flussi migratori e non solo: il sequestro dei pescatori di Mazara del Vallo è un episodio drammaticamente emblematico) è collocata ai margini di questo passaggio epocale nella storia del Mediterraneo. Ma si noterà soprattutto l’assenza dell’Europa, che, attraverso l’Italia, è essa stessa esposta a quella crisi. L’Europa però non è uno Stato. Non è neanche una federazione di Stati. Non ha una politica estera e non ha ancora un esercito, anche se si stanno facendo passi avanti in questo senso. Forse questo processo potrebbe essere accelerato dall’evolversi della crisi libica (così come il covid sta accelerando, pur tra inevitabili complicazioni e resistenze, l’integrazione sul fronte del welfare e della cooperazione in ambito sanitario). L’essere semplici spettatori, in questo caso, significherebbe precludersi, per il futuro, la possibilità di avere un ruolo da protagonisti nell’area mediterranea e rassegnarsi a interloquire, in posizione di debolezza, con i big players di cui sopra (Turchia, Russia e non solo). Oggi, all’Università degli Studi internazionali di Roma - Unint cercheremo di fare il punto sulla questione insieme a Marco Minniti, già ministro dell’Interno e massimo esperto dello scenario libico, a Vincenzo Nigro di Repubblica e ai colleghi Giampiero Di Plinio, dell’Università di Chieti- Pescara, e Paolo Passaglia, dell’Università di Pisa. Sarà un’occasione soprattutto per i nostri studenti dei corsi di laurea sulla sicurezza per toccare con mano un tema che riguarda il futuro dell’Europa, ovvero il loro futuro. *Preside Scienze Politiche-Unit Libia. Mediazione degli Emirati con Haftar per il rilascio dei pescatori siciliani La Repubblica, 14 ottobre 2020 Le autorità della Cirenaica hanno chiesto in cambio il rilascio di 4 cittadini libici condannati in Italia in via definitiva per traffico di esseri umani. Fra i vari contatti che il governo italiano ha attivato per il rilascio dei pescatori siciliani bloccati il 1° settembre al largo di Bengasi ci sarebbe anche il governo degli Emirati Arabi Uniti. Secondo una fonte dell’Agenzia Nova, gli Emirati starebbero portando avanti una mediazione con il cosiddetto “Esercito nazionale libico” (Lna) del generale Khalifa Haftar per liberare gli otto marittimi italiani. Con loro viaggiavano 6 marittimi tunisini, 2 del Senegal e 2 indonesiani. Le autorità della Cirenaica hanno chiesto in cambio il rilascio di 4 cittadini libici condannati in Italia in via definitiva per traffico di esseri umani. I 4 sono giovani che nell’agosto del 2015 avevano attraversato il Canale di Sicialia con una imbarcazione carica di migranti: durante la traversata avevano percosso alcuni migranti per tenerli sottocoperta. La nave era affondata in prossimità della costa siciliana, e molti migranti erano rimasti uccisi nell’incidente. Una fonte libica ha detto all’agenzia Nova che “i funzionari degli Emirati hanno effettuato una lunga telefonata con uno dei leader dell’Esercito nazionale per coordinare i dettagli del negoziato e per discutere le modalità per liberare i detenuti di ciascuna parte con soddisfazione di ambo le parti”. La telefonata, ha aggiunto la fonte, ha avuto luogo “in un clima positivo che fa sperare in una possibile svolta nella crisi”. Stati Uniti. HomeWav leak, a rischio la privacy dei detenuti punto-informatico.it, 14 ottobre 2020 Esposte le conversazioni e le relative trascrizioni: a rischio la privacy dei detenuti così come quella dei loro familiari e avvocati. La società statunitense HomeWav realizza e offre un servizio destinato alle strutture detentive che consente ai prigionieri di comunicare con le loro famiglie e con i loro legali. È stato oggetto di un leak che stando a quanto svelato nel fine settimana ha reso accessibili pubblicamente le trascrizioni di migliaia di chiamate. Una enorme potenziale violazione della privacy. Conversazioni e trascrizioni dei detenuti accessibili da tutti - A scoprirlo e renderlo noto attraverso le pagine del sito TechCrunch è stato il ricercatore Bob Diachenko, lo stesso che a inizio 2019 ha individuato un database contenente 200 milioni di CV cinesi e più di recente un altro archivio con dettagli appartenenti a 235 milioni di account social. Non appena venuta a conoscenza dell’incidente, HomeWav è intervenuta per porvi rimedio, attribuendo la responsabilità a un gestore di terze parti che avrebbe inavvertitamente rimosso la password posta a protezione del server. Avviata la procedura per avvisare dell’accaduto i diretti interessati: detenuti, familiari e avvocati. Quanto accaduto solleva dubbi in merito al trattamento riservato alle conversazioni in questione: sebbene per molte prigioni sia una prassi registrarle, la legge ne impedisce il monitoraggio. La presenza di log e trascrizioni lascia intendere una possibile violazione. Considerando come l’ultimo periodo sia stato martoriato dalla crisi sanitaria, i carcerati hanno impiegato sempre più spesso strumenti di questo tipo per rimanere in contatto con il mondo esterno. Secondo Diachenko non si tratta di un caso isolato: in agosto anche il servizio TelMate destinato ai penitenziari è stato interessato da un leak, finendo con l’esporre milioni di messaggi inviati o ricevuti attraverso la piattaforma. In Sudafrica torna la protesta dei rifugiati: “Buttati in una discarica” di Francesco Malgaroli La Repubblica, 14 ottobre 2020 Nel Paese cresce il razzismo e sempre più migranti vogliono andare via. Ad un anno di distanza non è cambiato nulla: li hanno messi in due baracche ex militari alle porte di Bellville e non si sono più interessati di loro. E così i profughi, venuti principalmente da Congo e Burundi, e da mesi in Sudafrica sono tornati davanti alla sede Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati) a Città del Capo per protestare. Nello stesso luogo dove un anno fa si erano radunati per un sit-in durato giorni. Al posto delle manifestazioni, hanno messo in scena spettacolo di danza, reading, e letture. Aline Bukuru è stata la portavoce anche di suo marito, Jean-Pierre Balous, leader congolese per profughi, in carcere da otto mesi. “L’Unhcr deve intervenire per aiutarci a tornare nei nostri Paesi d’origine”, dice Bukuru. “In Sudafrica il razzismo sta prendendo piede”. I profughi scappano da guerre non dichiarate e persecuzioni: credono, come dice Aline Bukuru, che il Sudafrica abbia una Costituzione che protegge anche i profughi, ma poi si trovano in un Paese ben diverso. L’Unhcr è con loro: “Sono stati buttati in una discarica”, dice, puntando il dito contro il governo. Che promette una soluzione entro il 15 ottobre, ma per ora non ha ancora piani reali. Questo anche a causa della pressione del movimento anti-immigrati ‘Put South Africa First’, che si sta facendo più potente e violento: 12 i morti in episodi xenofobi solo a settembre. Nagorno-Karabakh, la vera storia del un conflitto lungo un secolo di Aldo Ferrari* La Repubblica, 14 ottobre 2020 Gli scontri tra armeni e azeri sono riesplosi nei giorni scorsi. Ma il braccio di ferro su questa parte di Caucaso va avanti dall’inizio del ‘900 e ora vede in campo Russia e Turchia. I violenti scontri scoppiati il 27 settembre nell’Alto Karabakh sono l’esito ultimo di un conflitto che ha origini lontane. Senza prendere in considerazione le sue fasi più antiche, legate a dinamiche pre-moderne, si deve partire almeno dalla cosiddetta guerra armeno-tatara del 1905-1907. In quegli anni gli armeni e i tatari, come erano allora chiamati gli odierni azerbaigiani, si combatterono in molte zone del Caucaso meridionale, che faceva parte dell’impero russo. Benché gli armeni fossero cristiani e i tatari/azerbaigiani musulmani (di lingua turca), le ragioni di quel conflitto erano socio-economiche ancor più che religiose. Se ne accorse lucidamente anche il giornalista italo-inglese Luigi Villari, autore di un importantissimo libro - Fire and Sword in the Caucasus (1906) - che rimane utilissimo per comprendere le radici storiche del conflitto odierno. Anche gli anni seguiti al crollo dell’impero russo e alla nascita delle effimere repubbliche indipendenti di Armenia e Azerbaigian (1918-1920) videro violenti scontri tra questi Paesi per il controllo di tre regioni etnicamente miste: Zangezur, Nakhichevan e Alto Karabakh. Dopo la sovietizzazione delle due repubbliche caucasiche, Mosca decise che la prima di queste regioni sarebbe spettata all’Armenia, le altre due all’Azerbaigian. Soprattutto la scelta riguardante l’Alto Karabakh, che per quattro quinti era abitato da armeni, ha avuto conseguenze decisive, che giungono sino ad oggi. L’insoddisfazione degli armeni dell’Alto Karabakh per l’inserimento nell’Azerbaigian, sia pure con lo status di regione autonoma, si manifestò con forza già negli ultimi anni sovietici, ma esplose in guerra aperta con il crollo dell’Urss nel 1991. Al termine di un sanguinoso conflitto, che ha provocato circa 30.000 morti e centinaia di migliaia di sfollati, gli armeni dell’Alto Karabakh - sostenuti anche da quelli della repubblica d’Armenia e della diaspora - riuscirono non solo a prendere il controllo di quasi tutto il territorio della regione contesa, ma anche ad occupare sette distretti circostanti in precedenza abitati pressoché solo da azerbaigiani. In seguito a questa vittoria, tuttavia, l’Alto Karabakh non si unì alla repubblica d’Armenia, ma si rese indipendente, non venendo peraltro riconosciuto da nessun Paese della comunità internazionale. Questo stato de facto ha da allora assunto l’antica denominazione armena di Artsakh. Dal punto di vista giuridico il confitto tra armeni e azerbaigiani per l’Alto Karabakh vede contrapporsi due principi del diritto internazionale. Uno è quello dell’integrità territoriale degli Stati, favorevole all’Azerbaigian, l’altra è quello del diritto dei popoli all’autodeterminazione, favorevole agli armeni. Per trovare una soluzione diplomatica al conflitto lavora sin dal 1992 - dal 1995 sotto l’egida dell’Osce - il Gruppo di Minsk, guidato da una copresidenza composta da Francia, Russia e Stati Uniti. Ne fanno inoltre parte, oltre ai rappresentanti di Armenia e Azerbaigian (l’Alto Karabakh ne è invece escluso), quelli di Bielorussia, Finlandia, Germania, Italia, Olanda, Portogallo, Turchia e Svezia. Il risultato più notevole della sua mediazione, sinora decisamente poco efficace, è costituito sinora dai cosiddetti “Principi di Madrid”, stabiliti nel 2007, ma mai sottoscritti dalle parti in causa. Questi principi, infatti, prevedono un processo operativo che dovrebbe svilupparsi per tappe successive, ma che non riesce a soddisfare le aspirazioni delle due parti, in particolare per quel quanto riguarda la questione cruciale dello status definitivo dell’Alto Karabakh. In tutti questi anni la situazione creatasi sul campo nel 1994 ha retto nonostante uno stillicidio di scontri alla frontiera tra il l’Alto Karabakh e l’Azerbaigian, che nell’aprile del 2016 avevano toccato un livello molto intenso. La crisi odierna è però apparsa sin dall’inizio molto più grave. Anche se, come di consueto, le parti in causa si sono reciprocamente accusate di aver dato inizio agli scontri, la recente recrudescenza del conflitto è da attribuirsi principalmente a Baku. Gli armeni, molto più deboli sia numericamente che economicamente, detengono già il controllo dei territori contesi e non hanno quindi alcun desiderio di pregiudicare lo status quo. In effetti è solo Baku che ha interesse a riprendere il conflitto per recuperare i territori perduti. Frustrato dal pluridecennale stallo delle trattative diplomatiche e forte di un notevole rafforzamento economico e quindi militare, l’Azerbaigian appare ormai deciso a riprendere con le armi l’Alto Karabakh e gli altri territori occupati dagli armeni tra il 1991 e il 1994. In questi due decenni e mezzo l’Azerbaigian è molto cresciuto economicamente grazie alle sue ricchezze energetiche e ha sviluppato una notevole rete di collaborazioni internazionali. Tra l’altro, proprio l’Italia è suo il principale partner commerciale, sulla base di un interscambio basato sinora in primo luogo sull’importazione di petrolio ma che nei prossimi mesi, con l’avvio del TAP, vedrà anche un abbondante flusso di gas. L’Azerbaigian investe buona parte dei proventi energetici in armamenti e anche nella ricerca di una credibilità internazionale non così scontata, almeno in Occidente, alla luce della natura autoritaria e “ereditaria” del Paese, il cui presidente è figlio del precedente presidente, che era stato anche segretario del Partito comunista in epoca sovietica. Un aspetto che sarebbe bene tenere a mente quando si valuta la questione dell’Alto Karabakh. In ogni caso, il rafforzamento degli ultimi anni ha come conseguenza diretta una rivendicazione sempre più assertiva da parte di Baku della piena sovranità sull’Alto Karabakh e sugli altri territori occupati dagli armeni. I quali, d’altra parte, non sembrano disposti a rinunciare all’indipendenza dell’Alto Karabakh neppure sotto la guida di Nikol Pashinyan, che pure ha portato molti cambiamenti politici a Erevan con la cosiddetta “rivoluzione di velluto” del 2018. A differenza dei due precedenti leader armeni, i presidenti Kocharian e Sargsyan, Pashinyan non è originario della regione contesa, ma la sua posizione al riguardo è rimasta altrettanto ferma. Alla luce di questa situazione, la ripresa delle ostilità è stata tutt’altro che sorprendente. Una ripresa iniziata già dai violenti scontri del 12-14 luglio di quest’anno, avvenuti tra l’altro non nella regione contesa, ma in quella di Tavush, lungo il confine internazionale tra Armenia e Azerbaigian Ciò avrebbe potuto in teoria determinare l’intervento della Csto, l’alleanza militare guidata dalla Russia a favore dell’Armenia che ne fa parte. E, parallelamente, quello della Turchia a fianco dell’Azerbaigian, al quale è legata da una solida alleanza. Un’ulteriore segnale dell’aggravarsi della situazione è da considerare anche la manifestazione, almeno in parte non preordinata dalle autorità dell’Azerbaigian, che ha avuto luogo a Baku il 15 luglio chiedendo la ripresa delle ostilità contro gli armeni. Inoltre, nei giorni successivi si sono verificati disordini tra azeri e armeni residenti in diversi paesi del mondo, dalla Russia sino agli Stati Uniti, ampliando quindi la dimensione internazionale della crisi. Nel corso dell’estate le autorità di Baku hanno notevolmente rafforzato la propaganda revanscista con il pieno sostegno del presidente turco Erdogan. La Turchia, erede diretta dello stato che nel 1915 ha compiuto un genocidio ai danni degli armeni, e senza mai riconoscerlo, ha in effetti una grandissima responsabilità nella crisi attuale, anche per l’indiretto ma sostanzioso sostegno militare fornito all’Azerbaigian. Si tratta di una situazione quanto mai delicata, che rischia seriamente di innescare un ampliamento del conflitto potenzialmente molto rischioso a livello internazionale, soprattutto per il posizionamento opposto di Ankara e Mosca. La prima, che fa parte della Nato, sostiene l’Azerbaigian e sin dal 1993 ha chiuso unilateralmente le frontiere con l’Armenia. La seconda, come si è detto, è invece alleata dell’Armenia, che fa parte della Csto. Occorre però ricordare che l’appoggio di Mosca riguarda solo l’Armenia e non il Nagorno-Karabakh. Il contrasto nel Caucaso tra Turchia e Russia è quindi quanto mai pericoloso, anche se i due paesi sono sinora stati capaci di gestire altre situazioni in cui si trovano su fronti opposti, dalla Siria alla Libia. Di fronte ad una escalation così forte del conflitto tra Armenia e Azerbaigian, lo stallo negoziale tra le parti e la sostanziale inazione della comunità internazionale accrescono il rischio concreto di una guerra su larga scala. Il semplice mantenimento dello status quo, che a lungo è sembrato a molti attori della scena politica internazionale l’opzione preferibile, pur se non certo ideale, appare ormai sempre più difficile da perseguire. In questa situazione la responsabilità principale ricade ancora una volta sul Gruppo di Minsk, ma per uscire da questa impasse, geopolitica oltre che giuridica, è assolutamente necessario un cambio di marcia nelle trattative diplomatiche. La comunità internazionale è chiamata ad affrontare con maggior impegno e idee nuove un problema che sta assumendo dimensioni sempre più preoccupanti. Anche le parti in causa, peraltro, dovrebbero abbandonare il massimalismo delle loro posizioni, accettando un compromesso che inevitabilmente le costringerà a rinunciare a parte di quanto rivendicano. *Professore di Storia del Caucaso e dell’Asia Centrale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia