Perché dare quei benefici ai mafiosi di Giuseppe Pignatone* La Stampa, 13 ottobre 2020 Quasi ogni giorno gli organi di informazione riferiscono di fatti di violenza - a volte culminati in un omicidio a volte con esiti meno gravi, ma sempre preoccupanti - e delle reazioni esacerbate che tali fatti suscitano. Reazioni di riprovazione e di condanna, ma anche di consenso e di esaltazione delle azioni criminose, in nome di pretesi ideali di razza, di clan o anche solo di pura affermazione individuale. La combinazione di questi fattori, amplificati dai social media, porta a una dilatazione dell’allarme sociale. Né basta a tranquillizzare l’opinione pubblica il richiamo alle statistiche che dimostrano come questi episodi di violenza, gli omicidi in primo luogo, sono molto meno numerosi e gravi di 10 o 20 anni fa. Cosa si può e si deve fare, sul piano del diritto, per rispondere alla domanda di giustizia che questi avvenimenti suscitano nelle vittime, nelle loro famiglie e nella società intera, al di là degli slogan solo apparentemente risolutivi come quello di “sbattere i colpevoli in galera e buttare la chiave”? Un’autentica esigenza di giustizia può essere soddisfatta solo da un processo che sia giusto, che corrisponda cioè alle regole e ai tempi dettati dalla legge, in cui tutti, a cominciare dall’imputato e dalla parte offesa, possano fare valere le loro ragioni e che si concluda - se ce ne sono le condizioni - con una condanna “seria”: ovvero una condanna che infligga una pena coerente con le specificità del caso concreto; che non può essere parametrata sul dolore delle vittime dato che la vita umana non ha prezzo; che non sia eccessiva per risultare esemplare agli occhi di una società turbata ed emotiva, ma nemmeno svuotata di efficacia da eccessi di indulgenza, magari frutto di una visione distorta dall’ideologia, in cui le responsabilità dell’individuo vengono diluite se non annullate da motivazioni sociali, familiari, economiche, o di altro genere. In questo senso, e con questi limiti, il cittadino ha tutto il diritto di chiedere anche la certezza della pena. Ma “certezza” non significa che la pena fissata dalla sentenza (definitiva) debba essere interamente espiata in carcere. L’articolo 27 della Costituzione impone che, qualunque sia il crimine commesso, il condannato conservi - come ha detto uno dei nostri maggiori studiosi, Mario Chiavario - “la prospettiva di un riscatto e di un reinserimento nella vita sociale”. Da questo intento imprescindibile discende il sistema di benefici previsti dall’ordinamento penitenziario (permessi, lavoro all’esterno, semilibertà), tutti subordinati al positivo comportamento del condannato. Certo, c’è ancora moltissimo da fare per migliorare le condizioni del carcere che dev’essere sempre più l’extrema ratio. Ma va detto che alla data del 30 giugno scorso, quasi 60mila persone stavano scontando la pena all’esterno mentre in carcere erano detenute circa 36mila persone (cui vanno aggiunte altre 17mila non ancora condannate con sentenza definitiva): una situazione inimmaginabile 20 o 30 anni fa. E va sempre ricordato che il carcere non ha come unica funzione quella di rieducare la persona - come sostengono alcune utopie che, infatti, tali restano - ma anche, e forse prima ancora, quella di garantire la sicurezza dei cittadini quando non vi siano altri mezzi per farlo. In questo contesto si colloca il tema delle norme che vietano la concessione dei benefici per una serie di reati di mafia. Con la sentenza numero 253 del 23 ottobre 2019, la Corte Costituzionale ha iniziato a modificare questo sistema ammettendo che, a determinate condizioni, il giudice di sorveglianza può concedere permessi brevi anche a queste categorie di detenuti. È facile prevedere che la linea adottata dalla Corte verrà presto a incidere anche su altri, più significativi, benefici penitenziari. Com’era inevitabile, la posizione della Consulta ha suscitato aspre polemiche; è quindi opportuno chiarire, in modo necessariamente sintetico, i termini del problema. La disciplina più rigorosa applicata ai condannati per reati di mafia nasce dalla considerazione, avvalorata dall’esperienza e dalle risultanze processuali, che non solo durante la detenzione il mafioso mantiene i contatti con l’organizzazione, che aiuta economicamente lui e la sua famiglia e a cui è legato da un giuramento che non può tradire, ma che, non appena fuori dal carcere, egli riprende in pieno il suo posto nel clan e la sua attività criminosa. Da questi presupposti obiettivi la legge ha ricavato la presunzione, fino a oggi assoluta, della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata e quindi di pericolosità sociale ostativa alla concessione dei benefici. Non è senza significato che il nucleo fondamentale di tali norme - come ricorda la stessa Consulta - sia stato introdotto subito dopo la strage di Capaci e che esso abbia già in passato superato il giudizio di legittimità costituzionale. Oggi, a seguito dell’evoluzione della giurisprudenza italiana e comunitaria (nonché dei mutamenti nella sensibilità sociale a quasi trent’anni dalle stragi mafiose del 1992/1993), i giudici costituzionali hanno cambiato orientamento sul divieto di accedere ai benefici, il cui effetto, in caso di condanna all’ergastolo, è spesso sintetizzato nella drammatica espressione “fine pena: mai”. La stessa Corte si è preoccupata, però, di sottolineare la cautela con cui il giudice di sorveglianza - prima di concedere il permesso - è tenuto a verificare il comportamento del detenuto in carcere, la sua partecipazione seria ed effettiva al percorso rieducativo, l’assenza di collegamenti con l’organizzazione mafiosa di appartenenza e l’attenzione con cui deve, infine, valutare il pericolo che tali collegamenti possano essere ripristinati. Circostanza decisiva, quest’ultima, ma anche molto difficile da accertare al di fuori di una indagine specifica, condotta con gli strumenti del processo penale. In tal senso rischia di non essere sufficiente neanche la necessaria acquisizione, introdotta dal legislatore a seguito della pronuncia della Corte, di un parere preventivo della Direzione distrettuale antimafia che ha istruito il processo terminato con la condanna e, in alcuni casi, anche della Procura nazionale antimafia. Sulla magistratura di sorveglianza ricade così un compito molto difficile e gravoso, ma indispensabile per assicurare oggi, nella fase peculiare dell’esecuzione della pena, il delicato equilibrio tra le opposte esigenze della irrinunciabile tutela della collettività e del diritto della persona detenuta a mantenere viva la speranza del suo reinserimento nella vita sociale. *Presidente del Tribunale dello Stato Vaticano ed ex procuratore capo di Roma Pignatone si scaglia contro il Dap: “anche i mafiosi hanno diritti” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 13 ottobre 2020 Difesa della Consulta e schiaffo al Dap. Un po’ a denti stretti e con mille presupposti e cautele Giuseppe Pignatone, ex procuratore capo di Roma e oggi presidente del Tribunale Vaticano oltre che editorialista della Stampa, lo ammette: persino ai mafiosi detenuti vanno riconosciuti dei diritti. Uno schiaffo, timido ma mirato, ai vertici del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), il capo Petralia e il vicecapo Tartaglia, quelli voluti (o subìti) dal ministro Bonafede dopo la campagna scandalistica sui “boss scarcerati” e la cacciata di Basentini. I due magistrati si sono dimostrati capaci di ignorare le sentenze della Consulta, oltre che i principi della costituzione. Sul banco degli imputati ci sono ancora giudici e tribunali di sorveglianza. I quali però hanno ormai le spalle coperte da una serie di decisioni assunte non solo dalla Cassazione ma anche dalla Corte costituzionale. E, sullo sfondo, spicca per autorevolezza la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). La svolta della Consulta porta il numero 253 e la data del 23 ottobre 2019, una sentenza che mette in discussione il concetto di “pericolosità sociale” come dato assoluto e irreversibile, stabilendo che anche ai condannati all’ergastolo ostativo possono essere concessi permessi-premio, quelli che fino a quel giorno erano consentiti solo ai “pentiti”. Il giudice Pignatone non è giovanissimo, e ha memoria di quei mesi della primavera-estate del 1992 e delle feroci stragi di mafia cui seguirono le altrettanto feroci leggi emergenziali che il codice penale si trascina ancor oggi. Fu proprio dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta che un Parlamento intimorito e deprivato della propria autonomia, approvò le leggi del “fine pena mai”, palesemente incostituzionali, ma mai prima di un anno fa corrette dalla Consulta. E ancora oggi, quando le stragi di mafia non ci sono più, lo stesso Pignatone antepone il problema della sicurezza a quello dei diritti e persino della salute. Ogni mafioso, si dice, lo è per sempre. Chi ha sparato e ucciso una volta, si insiste, lo farà per sempre. È questo il concetto di “pericolosità sociale”, un vestito che ti viene cucito addosso per tutta la vita. Che ti rimane appiccicato in ogni angolo di vita quotidiana, anche la più banale. Anche se in carcere hai svolto con documentato successo la strada di reinserimento nella legalità di una vita “normale”. Ma il percorso della Corte Costituzionale, una volta aperta la strada con la rottura del principio dell’ergastolo ostativo, non si è fermato. L’aveva intuito il più sospettoso dei pubblici ministeri italiani, quel Nino Di Matteo che annusa nell’aria trattative e cedimenti, il quale aveva avvertito: “Si apre un varco pericoloso, ponendo fine all’automatismo che caratterizza l’ergastolo ostativo”. Gli avevano fatto eco Luigi Di Maio il quale (non si offenda) di giustizia non sa nulla, ma invoca sempre e comunque manette per tutti: “Chi è in galera con il carcere duro, deve restarci”. Punto. E sentite il “mite” Zingaretti, il quale usa un aggettivo caro a Massimo D’Alema (che però era più garantista): “Sentenza stravagante, non mi sento in sintonia con quanto stabilito”. Si può solo sperare che non abbia capito di che cosa si trattasse. Ma Di Matteo l’aveva azzeccata, il varco era ormai aperto. E il giro delle carceri fatto dalle donne e dagli uomini della Corte Costituzionale aveva sicuramente aiutato. Soprattutto nella quotidianità delle piccole cose, che per chi è recluso sono spesso montagne invalicabili. E sono quelle che però non piacciono al personale penitenziario e su cui sono intervenuti di recente con particolare ferocia i vertici del Dap. È accaduto che, dopo una serie di mugugni e resistenze da parte di direzioni e personale di alcune carceri, il direttore generale del Dap Riccardo Turrini Vita (di cui speriamo non inizi a occuparsi, per chiederne le dimissioni, Massimo Giletti) aveva inviato una circolare a tutte le direzioni, ordinando di applicare le decisioni della Consulta e della Cassazione. Ma nel giro di due giorni la circolare era stata stracciata dai capi Petralia e Tartaglia. Contrordine compagni. Eppure si trattava delle famose “piccole cose”. Due ore d’aria giornaliere invece che una anche per i detenuti al 41bis, dice la Cassazione. E ancora: niente sanzioni disciplinari se due carcerati che appartengono a diversi gruppi di socialità ma per caso si incrociano, si dicono “buongiorno” o “buonasera”. È l’ossessione di quel vestito cucito addosso, dei misteriosi e allusivi messaggi che si possono inviare all’esterno del carcere con un banale cenno di saluto, all’origine delle mille vessazioni quotidiane che si aggiungono alla privazione della libertà e all’isolamento. La Corte Costituzionale si è occupata anche di cottura dei cibi e di scambio di oggetti personali. Ci piacerebbe sapere se non solo Di Maio, ma anche Zingaretti conoscono queste delizie cui vengono sottoposti i prigionieri in un Paese che non ha Guantanamo e le divise arancione, ma conosce bene le piccole torture da infliggere ai detenuti nella vita quotidiana. Che cosa succederà ora? Il giudice Pignatone ha tirato le orecchie al Dap. Ha fatto duecento premesse e precisazioni, ha parlato di “delicato equilibrio” cui sono chiamati i giudici di sorveglianza. Non ha dissertato di cibi cotti o di ore d’aria. Ma il messaggio è chiaro e autorevole: un varco è aperto. Se ne facciamo una ragione i vari Di Matteo, Petralia e Tartaglia, ovunque annidati. Rafforzare le competenze dei detenuti nelle carceri europee epale.ec.europa.eu, 13 ottobre 2020 Un live webinar in occasione della Giornata Internazionale dell’Educazione in Carcere per riflettere su cosa abbiamo imparato dalla pandemia Covid-19 e quali sono le prospettive future. Qual è stato l’impatto del Covid-19 all’interno e all’esterno delle carceri europee e quali sono le prospettive future dei programmi per il rafforzamento delle competenze dei detenuti in epoca post Covid? Sono questi i temi su cui si confronteranno martedì 13 ottobre, in occasione della Giornata Internazionale dell’Educazione in Carcere, esperti internazionali e provenienti dagli stati partner del progetto Cup - Convicts Upskilling Pathways. Un progetto che poggia su una partnership internazionale coordinata dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, co-finanziato del programma europeo Erasmus+ e a cui partecipano quattro stati europei (Cipro, Grecia, Italia e Paesi Bassi). Obiettivo di Cup è proporre un modello sperimentale di apprendimento volto a disegnare moduli formativi innovativi e strumenti di valutazione e monitoraggio finalizzati a rafforzare le competenze di donne, uomini e giovani adulti detenuti in sei carceri europee, promuovendo il reinserimento socio-economico di queste persone. In continuità dunque con l’impegno della Fondazione che, allineandosi all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, mette al centro del suo impegno le persone, il progetto vuole contribuire a migliorare la vita di chi si trova in difficoltà ed è a rischio di fragilità, attraverso percorsi che rendano donne e uomini più autonomi e protagonisti del proprio futuro. Tra i più fragili ci sono proprio i detenuti, di cui, attraverso CUP, la Fondazione promuove il reinserimento sociale e lavorativo, in linea con la sua Missione “Favorire il lavoro dignitoso”. La pandemia Covid-19, in particolare, ha duramente colpito le istituzioni penitenziarie di ogni Paese, comportando l’interruzione di molte attività quotidiane e imponendo l’adozione di misure restrittive senza precedenti. L’esigenza di aumentare sicurezza e protezione internamente alle carceri ha richiesto alle amministrazioni penitenziarie di trovare soluzioni innovative per evitare ai detenuti di essere in condizioni di inattività e di isolamento totale dal mondo esterno. In alcuni casi, la tecnologia digitale ha consentito ai detenuti sia di mantenere relazioni virtuali con le famiglie, sia di proseguire le attività di istruzione e formazione in carcere grazie alle opportunità offerte dalla didattica a distanza. Ciononostante, permangono ancora sfide importanti da affrontare rispetto al pieno accesso ai diritti da parte dei detenuti, reso ancora più arduo dal contesto pandemico. L’appuntamento per il webinar è il 13 ottobre 2020 dalle 11.00 alle 12.30. Sarà possibile seguire la diretta sui nostri Gruppi Facebook #LavoroCSP e #ComunitàCSP, e sulla pagina Facebook di Human Rights 360. Ne discuteranno: Silvia Pirro, Fondazione Compagnia di San Paolo (Italia); Alessio Scandurra, Osservatorio Europeo Carceri European Prison Observatory; Perla Allegri, Antigone (Italia); Sotiria Kalbeni, Epanodos/ Funzionario giuridico pedagogico nel carcere di Volos Prison (Grecia); Athena Dimitriou, Vice Direttore del carcere di Cipro (Cipro); Theo Van de veerdonk, Tirantes (Paesi Bassi). Vivere e lavorare in carcere: si può #StareBeneDentro? di Martina Bortolotti collettiva.it, 13 ottobre 2020 I primi provvedimenti alla prova dell’emergenza carceri. La Fp Cgil lancia una campagna per gli uomini e le donne della polizia penitenziaria. Una serie di proposte consegnate alla politica: dai casi di suicidio al problema della genitorialità, fino al divario tra uomini e donne, ecco i principali punti da cambiare. Il carcere, una realtà tra le più complesse, per chi vi “risiede” e per chi ci lavora trascorrendo diverse ore al giorno. Un ambiente spesso aggressivo, trascurato e ai limiti della sicurezza. Non è un caso che aumenti progressivamente, anno dopo anno, il numero dei suicidi di agenti di polizia penitenziaria insieme al numero di aggressioni. Basti pensare che nel solo 2020 siamo già arrivati a sei casi di suicidio. Un fenomeno in spaventosa crescita. Ma cos’è che non funziona nel carcere oggi? Cosa rende difficile la permanenza e le ore di lavoro negli istituti penitenziari? La Fp Cgil lo ha chiesto agli uomini e alle donne della polizia penitenziaria di tutta Italia, ha visitato carceri, ha ascoltato esperienze dirette e testimonianze. E ha ricostruito tutto quello che manca nel sistema, o almeno una parte. Oggi nelle carceri alcuni diritti basilari, che si direbbero acquisiti, al contrario mancano completamente. Non concessioni, ma veri e propri elementi di civiltà. Per questo la Funzione pubblica lancia la campagna #StareBeneDentro, una campagna fatta di proposte per migliorare la realtà delle carceri. Proposte consegnate a Bernardo Petralia, capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. “È arrivato il momento di chiedere alla politica una risposta, che sia chiara, che sia netta. È un fenomeno che non può più essere ignorato o messo in secondo piano”, commenta il sindacato. Ma cosa manca nel carcere? Cosa rende le condizioni di lavoro del personale di polizia penitenziaria così difficile? Ecco una carrellata di alcuni punti. Sapevate che negli istituti penitenziari mancano i servizi igienici divisi tra uomini e donne? Ebbene sì, nella maggior parte delle carceri italiane ancora oggi mancano servizi igienici (docce, bagni, spogliatoi, stanze per il pernottamento e armadietti) suddivisi tra uomini e donne. Il risultato è che le colleghe donne devono rinunciare a usufruirne, oppure attendere che i servizi siano vuoti o spogliarsi e indossare l’uniforme in sgabuzzini di fortuna. Una situazione inaccettabile. I casi di suicidio aumentano, così anche le aggressioni. Ma per gli agenti di polizia penitenziaria non è prevista alcuna assistenza psicologica. Ancora oggi, troppo spesso, l’assistenza psicologica è considerata un tabù, nella migliore delle ipotesi un optional irrilevante. Eppure in ambienti come quello del carcere, così duri e complessi, una buona assistenza psicologica può fare la differenza. “Noi crediamo - spiega la Fp - che a tutto il personale di polizia penitenziaria che lavora negli istituti debba essere garantita un’assistenza psicologica completamente gratuita”. Essere genitori non può essere un handicap, bisogna tutelare la genitorialità con turni ed orari di lavoro flessibili. Nel mondo del lavoro, si sa, essere genitori è spesso visto come un limite. Nel carcere mamme e papà sono spesso lasciati soli a gestire con estrema difficoltà la conciliazione tra lavoro e vita privata. “È il caso di tutelare i genitori di bambini piccoli dando loro la possibilità di organizzarsi su turni ed orari flessibili, in base alle esigenze familiari”. Sapevate che le donne sono quasi completamente escluse dalla possibilità di fare carriera? Questo è reso possibile dal fatto che nei concorsi per i ruoli di ispettore e di sovrintendente (ruoli che non prevedono il contatto diretto con il detenuto e che quindi non spiegano l’esclusione femminile) viene riservato alle donne solo il 9% circa di posti a concorso. Solo 9 donne, contro 91 uomini, possono provare a fare carriera. Un dato sconcertante per il quale non si riesce a trovare una motivazione, nemmeno apparente. Formazione per il personale, sensibilizzazione e contrasto alle molestie sessuali sono due percorsi da attivare all’interno del carcere. “Immaginiamo un percorso di formazione del personale e di sensibilizzazione al tema delle pari opportunità che coinvolga tutti: dipendenti e dirigenti. Parallelamente sarebbe opportuno attivare all’interno delle carceri un processo di monitoraggio e di contrasto alle molestie sessuali. Questo per evitare che il tema di genere sia sentito solo dalle donne, quando al contrario si tratta di una battaglia di civiltà che ci riguarda tutti, nessuno escluso”. Va da sé che, in un ambiente così delicato, la mancanza di questi diritti non fa altro che rendere ancora più rovinosa la permanenza lì dentro. In un contesto, già di per sé difficile, in un equilibrio precario tra il garantire sicurezza da una parte, e attivare un percorso di rieducazione dall’altra. Questi sono solo alcuni dei punti da cui si può partire per provare a rendere la permanenza nel carcere più serena. “Crediamo possano realmente offrire un miglioramento alla vita e al lavoro nel carcere. Tanto è il lavoro da fare e non possiamo farlo da soli, non possiamo farlo senza l’aiuto dei protagonisti di questa esperienza: i lavoratori”. È per questo che il sindacato lancia, parallelamente alla campagna #StareBeneDentro, un questionario rivolto a tutti gli agenti di polizia penitenziaria che lavorano nelle carceri. Un aiuto essenziale per raccogliere informazioni e comprendere, con gli occhi di chi lo vive, cosa sia realmente la vita nel carcere. Giudici di Pace: “Smaltiamo il 50% del carico civile per 700 euro al mese e senza tutele” di Giacomo Andreoli e Chiara Viti Il Riformista, 13 ottobre 2020 “I giudici di pace pronunciano sentenze in nome del popolo italiano e non possono essere trattati come lavoratori a cottimo come se fossimo nell’Ottocento”. È categorico Sergio Nicchi, vicepresidente dell’Associazione nazionale dei giudici di pace. Inizia oggi l’astensione, che si protrarrà fino alla fine della settimana, dalle udienze civili e penali indetta dai giudici onorari e giudici di pace, proclamata dalla Consulta della Magistratura Onoraria. Con lo stop di questa settimana si chiede dunque revisione della legge Orlando che - dice Nicchi - “ci precarizza ancora di più”. “Gran parte della magistratura onoraria non avrà la pensione o quei pochi fortunati avranno il minimo pensionistico” chiosa invece il giudice e membro dell’Associazione Gabriele Di Girolamo. Fallite le mediazioni negli ultimi mesi del 2019, i giudici di pace continuano la protesta per ottenere tutele e garanzie di indipendenza, il diritto alla previdenza e all’assistenza sociale, la revisione delle regole sui trasferimenti e sui criteri di attribuzione del compenso. La magistratura onoraria da tempo chiede un trattamento dignitoso e legittimo, anche in virtù della sentenza 16 luglio 2020 della Corte di Giustizia Europea che ha riconosciuto ai magistrati onorari italiani lo status di “lavoratore” secondo i principi europei con il conseguente riconoscimento delle tutele giuslavoristiche ed economiche. Si insiste dunque nella richiesta di adeguamento ai principi sanciti dalla Corte di Giustizia Europea da un lato e il rispetto del vincolo dei fondi del Recovery Fund dall’altro, sufficienti a valorizzare le professionalità dei magistrati onorari garantendo al tempo stesso l’indipendenza e l’imparzialità di metà della giurisdizione italiana. “Lavoriamo senza diritti, sono qui, insieme ai miei colleghi per chiedere tutele. Gli uffici del giudice di pace smaltiscono il 50% del carico civile di primo grado”, insiste Nicchi. La magistratura onoraria ha da sempre denunciato la “situazione di caporalato di Stato” in cui è costretta a vivere, essendo priva di tutele previdenziali ed assistenziali. “Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che l’astice non poteva essere messo vivo nel ghiaccio perché, poverino, soffriva. Ecco l’animale ha più diritti di un giudice di pace che lavora per il popolo” tuona Di Girolamo. Verso il sì all’overtime di Davigo ma ora al Csm sale la tensione di Errico Novi Il Dubbio, 13 ottobre 2020 Il presidente di “Md”, De Vito: “Non si può restare consiglieri dopo il congedo”. La maggioranza dei togati non la pensa così. Forse si doveva proprio attendere la sentenza Palamara, perché potesse sbrogliarsi la “matassa politica” all’interno del Csm. Così sembra se si pensa che solo domenica scorsa, dopo la radiazione dell’ex presidente Anm, hanno cominciato a diventare meno indecifrabili le diverse posizioni, a Palazzo dei Marescialli, su due delicatissimi dossier: la permanenza di Piercamillo Davigo nella carica di consigliere dopo che, il 20 ottobre, si sarà congedato dalla magistratura e il subentro di Pasquale Grasso nel “seggio” lasciato libero in plenum da Marco Mancinetti, il togato di Unicost dimessosi il 20 settembre. Due questioni che nelle settimane del turboprocesso Palamara sono rimaste sotto traccia. D’improvviso, rimosso il rischio che si incrociassero con la vicenda disciplinare, sono arrivati domenica scorsa comunicati o interventi da tre gruppi della magistratura associata. Uno della progressista “Area” che chiede, su Davigo e Grasso, “voto palese” e discussioni separate, affinché non siano “influenzate da argomenti di tipo personalistico, da logiche di schieramento o da calcoli strategici”. Secondo “Area”, “la decisione dell’un caso” non deve essere “contraltare dell’altro”. Nelle stesse ore è apparso sulla rivista Questione giustizia un intervento del presidente di “Magistratura democratica” Riccardo De Vito, il solo ad assumere una posizione esplicita sull’ex pm di Mani pulite. La sua eventuale permanenza a Palazzo dei Marescialli è giudicata, da De Vito, un percolo per la “rappresentatività democratica del Consiglio”. Infine un comunicato di “Magistratura indipendente”, la corrente contrapposta ai gruppi progressisti (sono due, anche se “Md” è in realtà una componente della stessa “Area”, seppur con una propria vivace soggettività): in quest’ultimo documento non c’è un’indicazione rispetto alla scelta che il gruppo moderato compirà su Davigo, in compenso c’è una forte presa di posizione a favore di un avvicendamento tra Mancinetti e Grasso. Tre posizioni molto diverse per impostazione, ma anche dal punto di vista strategico. “Mi” ricorda che “1983 colleghi” si sono espressi a favore di Grasso, arrivato secondo alle “elezioni suppletive dell’8 e 9 dicembre 2019 per funzioni giudicanti di merito”, vinte da Elisabetta Chinaglia”. Quei quasi duemila magistrati “attendono da oltre un mese la convocazione di Pasquale Grasso, avendo democraticamente espresso il proprio voto, e si chiedono per quale ragione il loro voto non sia rispettato”. Neppure il gruppo moderato, come “Area”, esprime in modo diretto la propria intenzione sulla permanenza di Davigo. De Vito è appunto l’unico a schierarsi e lo fa con argomentazioni che riprendono l’intervento del direttore di Questione giustizia Nello Rossi pubblicato a fine luglio. In particolare il presidente di “Md” cita la pronuncia del Consiglio di Stato relativa a un caso analogo ma dalla valenza generale, secondo cui “se per autogoverno deve intendersi un sistema in virtù del quale la gestione e l’amministrazione dell’istituzione è affidata ai suoi stessi esponenti, nella specie attraverso un organo costituito in base al principio di rappresentatività democratica, ne discende che la qualità di appartenente all’istituzione medesima costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano”. Secondo De Vito, Davigo non può dunque restare a Palazzo dei Marescialli a meno di voler “gettare a mare” quella “rappresentatività”. Una simile incrinatura, conclude il presidente di “Md”, rischia di essere un assist alla politica, “impegnata nel tentativo di riforma dell’ordinamento giudiziario: l’auspicio è che” il legislatore “non fiuti” la dissoluzione, insieme col principio di rappresentatività, anche di quello della “autonomia”. Si dirà: se un esponente autorevole della “sinistra togata” qual è De Vito si schiera contro la permanenza di Davigo, vorrà dire che alla fine i voti di “Area” andranno in quella direzione. Ma non è detto, intanto perché dei 5 attuali consiglieri del rassemblement progressista - di cui “Md fa pur sempre parte - nessuno è ormai organicamente allineato alle posizioni della storica componente “di sinistra”. A cominciare dal capogruppo Giuseppe Cascini, che di “Magistratura democratica” ha addirittura disdetto la tessera. Non si può dunque escludere che alla richiesta di votare separatamente, da ogni punto di vista, su Davigo e Grasso, si associ una propensione di “Area” alla permanenza di Davigo in plenum. E anzi le indiscrezioni danno tale scelta per maggioritaria tra i togati del Csm: a essere perplessi sarebbero sì alcuni consiglieri di varia provenienza, ma se, come sembra, prevarrà la richiesta per il voto palese, avanzata da “Area”, difficilmente il drappello dei contrari al’ex pm di Mani pulite resterebbe numeroso. Sarebbero per il no una parte dei laici, non tutti: quelli indicati da FI (Cerabona e Lanzi), dalla Lega (Basile e Cavanna) e forse uno dei consiglieri proposti dai 5 Stelle, Donati. Benedetti e Gigliotti voterebbero a favore di Davigo. Tra i togati che sono 16, il doppio dei laici neppure l’intera delegazione di “Mi” sarebbe per la decadenza. Sull’ex pm del Pool, insomma, il quadro è delineato: oggi la Commissione verifica titoli deciderà se presentare già domani al plenum la propria relazione, con il parere dell’Avvocatura dello Stato sfavorevole al consigliere prossimo al congedo. Certo è che l’improvviso surriscaldarsi del clima conferma l’impressione che lo sprint su Palamara sia stato favorito dalla volontà di liquidarlo prima che altri nodi del plenum arrivassero al pettine. Schiaffo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo alla nostra Cassazione di Tiziana Maiolo Il Riformista, 13 ottobre 2020 Nuovo provvedimento della Corte europea dei diritti dell’uomo. Si aprono spiragli, forse porte e portoni per Marcello Dell’Utri e i tanti che come lui sono stati condannati sulla base del reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa. Quello inventato dalla giurisprudenza, ma che non ha mai conquistato la dignità di esistere nel codice penale come reato autonomo, invece che come cucitura arbitraria di due norme ben distinte tra loro, il concorso e l’associazione mafiosa. Dopo Bruno Contrada, anche l’ex senatore democristiano di Palermo Vincenzo Inzerillo ha avuto il suo primo riconoscimento dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha ritenuto ricevibile il ricorso presentato dal suo legale, l’avvocato Stefano Giordano, lo stesso che aveva già portato a casa non solo la sentenza Cedu su Contrada ma anche il suo risarcimento per ingiusta detenzione da parte della corte d’appello di Palermo. La decisione sull’ammissibilità del ricorso del senatore Inzerillo (cui seguirà una prevedibile sentenza favorevole) da parte della Cedu è particolarmente importante perché sconfessa una decisione discriminatoria assunta dalla corte di cassazione a sezioni riunite del 24 ottobre 2019, che considerava quello di Contrada non come sentenza-pilota, ma come (disdicevole) caso unico, non applicabile a nessun altro. Nel respingere ogni altro ricorso, la cassazione italiana stabiliva un paradosso. E cioè che, se con la condanna di Contrada si era violato l’articolo 7 della Commissione europea dei diritti dell’uomo, ciò non riguardava tutte le altre condanne, anche se relative a fatti precedenti il 1994, cioè l’anno in cui la giurisprudenza creò dal nulla il reato che non c’è. In tutti gli altri casi non si era violato alcun principio, quindi erano state sentenze giuste. Un pezzetto per volta la Cedu sta pareggiando i conti, spezzando la discriminazione tra casi di serie A e casi di serie B. Saranno in parecchi a vestire a lutto in questi giorni, oltre agli imbarazzati giudici che, nell’affermare che ogni condannato è un caso a sé, non avevano previsto che la Cedu, sentenziando su ciascuno di loro, avrebbe nei fatti attribuito alla sentenza Contrada il valore di pronunciamento erga omnes. Aspettiamo a breve (magari anche oggi stesso) che il Fatto quotidiano replichi l’articolo dell’11aprile scorso che, sotto il titolo “La verità dei fatti nello strano caso di Bruno Contrada”, portava due firme prestigiose, quelle di Giancarlo Caselli e di Antonio Ingroia. Era accaduto proprio in quei giorni che l’ex capo della squadra mobile di Palermo avesse ricevuto la liquidazione di 667.000 euro dalla corte d’appello di Palermo per ingiusta detenzione. Una piccola tardiva soddisfazione, dopo ventitré anni di torture, con l’arresto infamante nella notte di natale del 1992, mentre era al culmine di una brillante carriere, e poi il carcere militare e infine il rincorrersi di opposte sentenze, condanna assoluzione condanna. Poi, ormai in età avanzata, il primo riconoscimento, ma non da un tribunale italiano, dalla Corte europea che ha detto a chiare lettere che lui non doveva essere condannato. E infine, ma questo arriva sempre dopo purtroppo, il risarcimento per l’ingiusta detenzione. Caselli e Ingroia erano furibondi, quel giorno, e scrissero senza pudore che il caso Contrada era come l’araba fenice, che risorgeva sempre, nel senso che loro non riuscivano a liberarsene mai, a seppellire una volta per tutte la storia infame di un’ingiustizia. Contestavano apertamente la decisione della Cedu. Secondo loro il reato di concorso esterno in associazione mafiosa esiste eccome, nel codice penale. Non è solo prodotto di giurisprudenza. Infatti basta mettere insieme l’articolo 110 (concorso) e il 416 bis e il gioco è fatto: prendi due e paghi uno. E poiché, ragionano i due ex magistrati, quei due reati esistevano da ben prima che Contrada tenesse i comportamenti che loro ritengono illegali (l’art. 110 fin dal 1930, codice Rocco, l’altro dal 1982, dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa), il gioco è fatto. Il reato che non c’è diventa improvvisamente il reato che c’è. Giornata luttuosa per chi preferisce arrampicarsi sui vetri piuttosto che accettare una sconfitta di politica giudiziaria. Sì, proprio politica giudiziaria, anche se a certi magistrati non piace sentirselo dire. Prima di tutto perché il caso Contrada è stato in quegli anni al centro di vere battaglie sulla politica antimafia, e la sua uccisione professionale con l’arresto ha aperto la strada ad altre brillanti carriere e a una diversa gestione dei “pentiti”, preferiti agli informatori, di cui lui preferiva fare uso. E anche perché l’invenzione del reato che non c’era, applicato a persone che rivestivano ruoli istituzionali, ha consentito di colpire, attraverso le incriminazioni e gli arresti, in chiave politica il famoso terzo livello nel quale per esempio Giovanni Falcone non aveva mai creduto. La decisione della Cedu di considerare ricevibile il ricorso del senatore Inzerillo è un altro colpo di piccone alla politica antimafia degli anni novanta e a qualche nostalgico dei “bei tempi”. Raffaele Sollecito: “Sono stato assolto, ma questo Stato continua a condannarmi” di Angela Stella Il Riformista, 13 ottobre 2020 Nel 2017 gli è stato negato il risarcimento per ingiusta detenzione perché sarebbe stato lui a indurre in errore gli investigatori. Ha poi deciso di fare causa ad alcuni magistrati che lo hanno indagato e condannato, richiesta respinta: “Seguono la credenza popolare che se sei accusato, qualcosa hai fatto”. Raffaele Sollecito aveva 23 anni quando per lui si sono aperte le porte del carcere: era il 6 novembre 2007 e vi è rimasto fino al 3 ottobre 2011. Mancava una settimana alla laurea e invece la sua vita fu stravolta in un attimo: sbattuto in prima pagina insieme alla sua fidanzatina dell’epoca, Amanda Knox, venne dipinto come il mostro che aveva sgozzato la studentessa inglese Meredith Kercher per un gioco erotico finito male. Sei mesi di isolamento, quattro anni di carcere, cinque gradi di giudizio per determinare la sua completa estraneità ai fatti. Il 27 marzo 2015 la Corte di Cassazione lo assolve definitivamente “per non aver commesso il fatto”. Nonostante questo molti lo credono ancora colpevole e su di lui si è posato uno stigma sociale che fa fatica a scomparire. Persino tra noi giornalisti l’assoluzione non è bastata a riabilitare Raffaele: basti leggere l’articolo di Marco Travaglio, pubblicato il 29 marzo 2015, che continuava a sostenere che la “verità sostanziale” non è quella “processuale”. Nel 2017, incredibilmente, a Sollecito è stato negato il risarcimento per ingiusta detenzione perché secondo i giudici sarebbe stato lui ad indurre in errore gli investigatori; successivamente ha deciso di fare causa ad alcuni magistrati che lo hanno accusato e condannato chiedendo oltre tre milioni di euro in virtù della legge sulla responsabilità civile dei togati che prevede cause “per dolo o colpa grave”. Anche questa richiesta è stata respinta qualche settimana fa dal Tribunale di Genova. Raffaele ancora una volta lo Stato le ha voltato le spalle... Gli avvocati che mi seguono in questo procedimento, Antonio e Valerio Ciccariello, faranno appello contro questa decisione del Tribunale di Genova. Lo Stato sta semplicemente seguendo la scia della credenza popolare: nella nostra cultura c’è purtroppo sempre l’idea che se vieni accusato qualcosa sicuramente hai fatto, anche se poi vieni assolto. Se non trovano le prove è solo perché sei stato bravo a nasconderle. Questo pregiudizio è alimentato sicuramente dai media che pubblicizzano le prove dell’accusa in maniera tendenziosa a favore di chi sta conducendo le indagini. Però spero che alla fine vengano fuori le responsabilità di chi si è macchiato di gravissime colpe come quella di aver distrutto per sempre la mia vita. Io non cerco vendetta, vorrei soltanto che le persone che hanno sbagliato si assumano le proprie responsabilità pubblicamente per onore della verità. Vuole condividere con noi qualche punto che avete evidenziato nella vostra richiesta? Ce ne sono tantissimi, ma faccio qualche esempio in riferimento alla fase preliminare: dal momento in cui entrai in Questura mi fu impedito, da persona indagata del reato, di usare il cellulare per chiamare mio padre o un avvocato. Vi fu una errata interpretazione dei miei tabulati telefonici, così come dell’impronta della mia scarpa Nike che una errata perizia aveva dichiarato compatibile con una impronta trovata sulla scena del delitto; uno dei due computer che mi furono sequestrati e che avrebbe consentito una puntuale verifica del mio alibi fu, come dice la Cassazione, “incredibilmente bruciato da improvvide manovre degli inquirenti che ne causarono shock elettrico”. Inoltre la mia difesa non ebbe a disposizione, al momento della conclusione delle indagini preliminari, tutti gli atti investigativi come previsto dalla legge, e ciò si protrasse almeno per tutta la fase dell’udienza preliminare; le modalità con cui furono analizzati il gancetto del reggiseno e il coltello da cucina, come anche sul punto stigmatizzato dalla Corte di Cassazione, rappresentarono totale e palese “violazione delle regole consacrate dai protocolli internazionali”. E questo sarebbe un modo serio di condurre una indagine? Negli ultimi giorni alcuni giornali, a partire da “Repubblica”, hanno sollevato la polemica relativa alle esose parcelle degli avvocati, Bongiorno e Maori, che la hanno assistito nei processi precedenti... La parcella era chiara, gli avvocati mi hanno seguito per moltissimi anni e si sono spesi molto per me. Il problema non è il quantum della parcella, ma semmai il fatto che io non mi sono andato a cercare tutto il danno che ho subito. In questo lo Stato è stato totalmente assente. La Cassazione quando vi ha assolti ha scritto che ci si è trovati davanti ad “un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose défaillance o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine”. Nonostante questo il vostro grande accusatore Giuliano Mignini, in un documentario Netflix, ha detto che “se Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono colpevoli e la giustizia terrena non li ha raggiunti” riconoscano “le proprie colpe perché da credente so che la vita finisce in un processo senza appelli, ricorsi per Cassazione né revisioni”. Come risponde? La giustizia divina farà il suo corso anche per lui. È lui quello convinto di essere al di sopra degli esseri umani e che crede di giudicare persone senza conoscerle. Si fa in questo caso portavoce del padre eterno e ciò lo trovo esagerato se non ridicolo. Ricordo che il Csm lo sanzionò con la censura per come mi aveva negato di parlare con il mio avvocato, oralmente e non per iscritto come previsto dalla norma. Lo Stato le ha anche negato il risarcimento per ingiusta detenzione perché in fondo è anche un po’ colpa sua se è finito in carcere, poteva difendersi meglio e non tentennare durante i primi interrogatori... Si tratta di un altro paradosso assurdo delle nostre leggi. Addirittura sul risarcimento per ingiusta detenzione viene chiamata a decidere la stessa Corte di Appello, anche se una sezione diversa, che mi aveva precedentemente condannato. Quei giudici tra le righe arrivano a dire che io non sarei dovuto essere assolto. Tutto questo non ha senso. Non è possibile che in questo Paese non importi a nessuno se alcuni giudici sbagliano e ti rovinano l’esistenza sbattendoti in carcere per quattro lunghi anni da innocente. Raffaele, come è trascorsa la sua vita dopo la sentenza della Cassazione? Oggi (ieri, ndr) parlando con dei miei amici dicevo proprio questo: in Italia si discriminano gli immigrati, gli omosessuali, quelli dell’Europa dell’Est senza alcuna giustificazione, ma a causa del pregiudizio e delle generalizzazioni. Nella loro sfortuna queste persone possono però aggregarsi e combattere l’ingiustizia che stanno subendo. Io invece sono stato discriminato in perfetta solitudine e in silenzio. Due aziende mi hanno fatto firmare un contratto di assunzione salvo poi mandarmi via dicendomi di non poter gestire l’esposizione mediatica e di non poter associare il nome della società alla mia persona. Io non mi sono abbattuto e alla fine una azienda milanese che si occupa di welfare mi ha assunto. Ma la discriminazione è anche a livello sociale: sa quante persone alzano un muro verso di me per diffidenza o per non avere problemi collaterali a causa della mia vicinanza? E sa perché tutto questo? Mi dica.. Perché lo Stato italiano prima mi ha assolto ma poi ha detto “alla fine te la sei andata un po’ a cercare” e ha lasciato dei dubbi sulla mia persona che poi, amplificati dai media, hanno fatto presa nell’opinione pubblica. Io questo non lo posso accettare perché io non mi sono andato a cercare proprio nulla: è una scusa che trovano per continuare ad umiliarmi come hanno fatto in questi anni, quasi una rivalsa, una ultima parola sulla mia vita. Forse sono antipatico a qualcuno o mi ritengono un personaggio scomodo. Qualcuno ancora pensa che sull’assoluzione ha pesato la pressione degli Stati Uniti... Ricordiamoci che dopo l’assoluzione di secondo grado Amanda è tornata negli Usa: quindi quale pressione avrebbero dovuto fare sulla Cassazione visto che la loro concittadina ormai era su suolo americano? E poi queste pressioni sono provate da qualcuno? Il fatto è che gli Usa hanno difeso Amanda perché avevano capito che non c’erano prove contro di lei, al contrario lo Stato italiano continua a punirmi. Anche la vita dei suoi familiari è stata profondamente stravolta da questa vicenda... Purtroppo è così. Mia sorella Vanessa, quando fui arrestato, era un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri e stava aspettando il passaggio automatico al servizio permanente. Dopo il mio arresto, intorno a lei si creò un clima strano, fu stigmatizzata e alla fine congedata. Dopo tanti anni ancora non riesce a trovare un lavoro. Spero che qualcuno possa darle una possibilità, così come è stata data a me. Piemonte. “Restituire alle carceri le professionalità mancanti” torinoggi.it, 13 ottobre 2020 La denuncia del Garante regionale dei detenuti Mellano: “Occorrerebbe sollecitare l’Amministrazione penitenziaria centrale a prevedere concorsi o chiamate di personale su base territoriale, se non regionale”. “Sono solo 7 i direttori operativi dei 14 Istituti penitenziari piemontesi e diversi di loro sono responsabili di due carceri. A ciò, si aggiunga la carenza strutturale dei ruoli intermedi della Polizia penitenziaria e la cronica mancanza di educatori. Urgono soluzioni che restituiscano al sistema penitenziario le professionalità necessarie”. Lo denuncia il garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano all’indomani della Conferenza nazionale svoltasi a Napoli. “L’ultimo concorso per dirigenti - ricorda Mellano - risale al 1997, mentre quello indetto lo scorso anno per 45 posti da direttore è stato rinviato al prossimo gennaio per l’elevato numero di candidati e si prevede che i tempi per reclutare i nuovi direttori si allunghino di almeno due anni. Una situazione obiettivamente insostenibile, che ho sottoposto ancora ieri al capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia, e che si va cronicizzando sempre più”. I problemi non sono solo di vertice. Per quanto riguarda la Polizia, sottolinea Mellano, “oltre alla cronica carenza di comandanti, entro marzo 2021 dovrebbero concludersi i tre scaglioni del corso-concorso interno per sovrintendenti e solo allora, forse, ogni Istituto piemontese avrà nuovi sottoufficiali con esperienza e formazione specifiche”. Su base nazionale, poi, alcune sedi penitenziarie saranno coinvolte dallo scorrimento della graduatoria per 80 posti di vicecomandante. A tal proposito il dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria ha deciso, soddisfatte le assegnazioni previste, di attingere da tale graduatoria per coprire le necessità di altri 11 Istituti, tra cui quelli di Saluzzo, Ivrea, Alessandria San Michele, Alessandria don Soria, Biella e Cuneo. “A tali iniziative - aggiunge Mellano - se ne affiancano altre, quali i concorsi per 18 dirigenti per l’esecuzione penale esterna e per 95 educatori. Rimedi necessari ma non sufficienti”. A questo proposito, conclude, “occorrerebbe sollecitare l’Amministrazione penitenziaria centrale a prevedere concorsi o chiamate di personale su base territoriale, se non regionale almeno distrettuale, e vincolare l’assunzione a un periodo di servizio significativo ed effettivo nella sede per cui si è presentata la candidatura per evitare inconvenienti come la cronica difficoltà del nostro territorio a reperire le professionalità necessarie”. Lazio. Coronavirus, trasferiti nel carcere di Rieti tutti i detenuti in quarantena di Giacomo Cavoli Il Messaggero, 13 ottobre 2020 L’arrivo di nuovi reclusi è già iniziato da diversi giorni, testimoniato dal continuo via vai di pattuglie di tutte le forze dell’ordine che a via Maestri del lavoro trasferiscono nella casa circondariale di Vazia detenuti appena arrestati e assegnati in altre carceri laziali. Ma se la loro destinazione sono le Case circondariali del resto della Regione, cosa c’entra Rieti? Semplice, perché al terzo piano, nel braccio G1, il 6 ottobre scorso è stato inaugurato (con un giorno d’anticipo rispetto alla data ufficiale del 7) l’ampliamento della sezione destinato alla quarantena Covid, cioè uno spazio dove far confluire tutti i nuovi detenuti provenienti dall’intero bacino laziale e che a Rieti (come in altre sezioni inaugurate nelle carceri nazionali) effettueranno i 14 giorni di isolamento precauzionale, prima di tornare al carcere originariamente loro assegnato. Una scelta che però, dopo anche la rivolta e le devastazioni del 9 marzo scorso (che causò il decesso di quattro detenuti) si è rivelata la goccia che ha fatto traboccare la pazienza degli agenti penitenziari i quali, dopo marzo, continuano a denunciare anche il rischio di contagio in altri settori della struttura di Vazia. A Vazia, la nuova sezione adibita a quarantena è stata aperta nel primo braccio del terzo piano, ancora sottoposto a ristrutturazione dopo la rivolta di marzo, dove furono devastati anche il primo e secondo piano, entrambi però tornati in funzione (e già oltre il massimo della loro capienza). Ogni piano include a sua volta tre bracci, e ogni braccio 12 celle: ne consegue che, al momento, gli spazi adibiti a quarantena al terzo piano siano 12, cioè una cella per detenuto. Questo naturalmente sulla carta, escludendo quindi arresti ben più massicci, che costringerebbero alla quarantena in un’unica cella ben più d’un detenuto. “Nonostante l’annuncio dell’apertura della nuova sezione, al personale di polizia penitenziaria non è stata data alcuna indicazione sulla nuova organizzazione e, con sorpresa di tutti, la sezione è stata aperta con un giorno di anticipo sulla data prefissata - denunciano gli agenti penitenziari attraverso le organizzazioni sindacali (Sappe, Osapp, Sinappe, Fsa-Cnpp, Cgil, Cisl e Uil) - Questo senza considerare le risorse dell’effettivo organico presente, chiedendo ai poliziotti penitenziari di protrarre il turno di lavoro fino alle 20, in modo da rendere operativa l’apertura della sezione”. Insomma, non bastasse lo stress di un lavoro umanamente difficile, la nuova sezione adibita a quarantena ha finito per esasperare la tolleranza del carico di ore da svolgere: “La cronica carenza di personale ha portato anche alla chiusura degli uffici interni all’istituto, per permettere alle unità operanti di fruire dei diritti spettanti per legge, ma questo a prezzo di gravi disagi”, proseguono gli agenti, che “operano con la paura di essere contagiati” e chiedono “l’immediato invio di unità di polizia penitenziaria”. Così, alla fine, l’appuntamento è fissato per il 20 ottobre, quando gli agenti manifesteranno davanti alla casa circondariale di Vazia e, il 21 ottobre, davanti alla Prefettura di Rieti. Milano. Zagaria nel carcere di Opera: “Zero assistenza, manca pure la cartella clinica” di Angela Stella Il Riformista, 13 ottobre 2020 La denuncia della legale che è andata a trovarlo dopo il ritorno in carcere. L’uomo ha un tumore alla vescica. Domani l’udienza al tribunale di sorveglianza, che dovrà decidere se le sue condizioni siano compatibili con la detenzione. Pasquale Zagaria è assistito adeguatamente nel Centro clinico del carcere milanese di Opera? A suo dire “no”, come ci riferisce uno dei suoi legali, l’avvocato Lisa Vaira che sabato è andata a trovarlo e alla quale ha chiesto di denunciare pubblicamente la situazione proprio dalle pagine del Riformista, che da tempo si occupa delle vicende relative alla sua espiazione della pena: “Ho visto Zagaria e l’ho trovato molto provato”. Ma facciamo un passo indietro. Domani ci sarà l’udienza presso il Tribunale di Sorveglianza di Brescia che dovrà decidere se le condizioni dell’uomo, affetto da un tumore alla vescica, sono compatibili con il carcere. Il 22 settembre Zagaria, in detenzione domiciliare da cinque mesi per motivi di salute presso Pontevico, era stato trasferito nel carcere di Opera a seguito di una decisione del magistrato di sorveglianza di Brescia. Da quel momento qualcosa forse è iniziato ad andare storto. Il detenuto ovviamente non può avere comunicazioni con l’esterno, ma raccogliamo il suo racconto attraverso il legale Lisa Vaira che lo assiste insieme ad Andrea Imperato. “Appena è giunto ad Opera - ci dice Vaira - il nostro assistito è stato ricoverato nel centro clinico insieme agli altri detenuti di Alta Sicurezza. Ma poi è stato subito trasferito nel piano clinico del 41bis, perché il Ministro Bonafede ha immediatamente ripristinato il regime di carcere duro che era scaduto a fine luglio”. Secondo Zagaria, sempre come riferito al legale, “si tratta di un reparto fatiscente, dove non c’è un medico a disposizione tutto il tempo, ci sono i secchi per raccogliere l’acqua che cola dai soffitti, gli sono state date lenzuola usate mai cambiate”. Inoltre, e questa è la cosa più grave a suo dire, “quando il 2 ottobre si è recato all’Ospedale San Paolo per effettuare l’immunoterapia, i medici non avevano a disposizione la cartella clinica. Appena è arrivato nessuno conosceva la sua patologia, non è stato visitato da un urologo, nonostante sia affetto da un carcinoma alla vescica. Zagaria mostra loro dei referti che aveva con sé, li fotocopiano e somministrano la terapia”. L’avvocato Vaira ci dice che “probabilmente la cartella clinica è rimasta a Sassari e l’amministrazione penitenziaria non ha provveduto a farla arrivare aggiornata al carcere di Opera”. L’episodio che però più preoccupa è che “la notte tra il 2 e il 3 ottobre, dopo aver ricevuto la terapia ed essere tornato nel centro clinico, Zagaria è svenuto e nessuno se ne sarebbe accorto. La terapia prevede che venga monitorato subito dopo ma questo non sarebbe successo. Mi ha raccontato che è svenuto e nonostante le telecamere presenti nella stanza nessuno sia corso a prestargli soccorso. Lui si sarebbe ripreso dopo un po’, avrebbe chiamato l’agente penitenziario e solo dopo una mezz’oretta sarebbe arrivato un medico”. Facciamo presente all’avvocato che sollevare queste problematiche a poche ore dall’udienza dinanzi al Tribunale di Sorveglianza potrebbe essere una strategia: “Zagaria sostiene che contro di lui ci sia un accanimento, che non gli abbiano fatto terminare la terapia per mettere a tacere tutte le polemiche sul suo caso. Io ho scritto subito al Dap per avere notizie certe sia della cartella clinica sia delle immagini della video sorveglianza. Al carcere di Opera ho chiesto se permetteranno a Zagaria di fare una visita specialistica che si dovrebbe tenere a breve per alcuni fibropolimi di cui soffre da anni. In tutti questi casi nessuno mi ha ancora risposto. Quanta fretta da parte dell’amministrazione penitenziaria di rincarcerare un malato oncologico, con un residuo di pena di neanche 2 anni, ritenuto non pericoloso; invece a neanche un mese dal suo ingresso in carcere ci troviamo già in questa situazione, in cui i medici di Milano Opera nulla sanno delle sue patologie, non hanno la cartella clinica e manca del tutto l’assistenza. Altro che centri clinici di eccellenza come vogliono far credere”. Cosenza. “Il detenuto contagiato a Rossano non è isolato in un’area attrezzata” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 ottobre 2020 Vengono rispettati i protocolli di prevenzione da Covid 19 nel carcere calabrese di Rossano? È quello che si chiede l’associazione Yairaiha Onlus dopo aver appreso, il 2 ottobre scorso, che un detenuto è risultato positivo al rientro da un permesso e posto in isolamento nel carcere. “Nei mesi scorsi - scrive l’associazione in una lettera inviata alle autorità, dal Dap al ministero della Giustizia e quello della Salute - avevamo inviato a tutte le direzioni penitenziarie, compresa questa, formale richiesta per conoscere quali misure di prevenzione erano state adottate per prevenire il rischio contagio all’interno delle sezioni nel caso in cui si sarebbe verificato qualche contagio, richiesta rimasta senza nessuna risposta”. L’associazione Yairaiha ha appreso, con molta preoccupazione, che il detenuto risultato positivo al Covid 19 fino alla giornata del 7 ottobre “è posto in isolamento - si legge sempre nella missiva - non in una area attrezzata e separata dal resto della popolazione detenuta, bensì nella normale sezione di isolamento trattamentale dove si trovano collocati altri detenuti in isolamento volontario e/o disciplinare, oltre che lavoranti ed agenti che hanno continuato ad avere contatti con tutti i detenuti della sezione di isolamento e non solo”. L’associazione ritiene che tale sistemazione “confligge apertamente con le disposizioni sanitarie indicate dalle autorità nazionali e internazionali richiamate nei Dpcm varati per tutelare la popolazione detenuta dal rischio contagio Covid 19”. Viene fatto presente che le indicazioni fornite dalle organizzazioni e dalle convenzioni internazionali sono vincolanti per tutti gli stati membri ai sensi dell’art. 117 della Costituzione e che tutti i Dpcm varati in ambito penitenziario richiamavano espressamente le disposizioni dettate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dal Centers for disease control and prevention CDC 24/ 7 Saving lives, protecting people e dal Cpt del Consiglio d’Europa che prevedevano l’istituzione di specifiche zone di isolamento sanitario separate dalle normali sezioni detentive qual è, appunto, la sezione di isolamento. L’associazione ricorda inoltre che la tutela della salute dei cittadini, detenuti compresi, a prescindere dalla classificazione e dal circuito di assegnazione, è l’unico diritto fondamentale tra quelli contenuti nella nostra Costituzione. “Quanto sta avvenendo nell’istituto di Rossano - denuncia l’associazione Yairaiha - viola le norme costituzionali e ordinamentali mettendo a serio rischio la salute e l’incolumità dei detenuti e del personale”. Diversi sono i casi registrati in altre carceri, ma secondo l’associazione non si può pensare di contrastare la diffusione del virus nelle carceri lasciando che le persone contagiate vengano “isolate” nello stesso ambiente degli altri detenuti e il rischio che avvenga nelle carceri quanto avvenuto nelle Rsa è, purtroppo, ancora altissimo. “Riteniamo - si legge nella lettera inviata alle autorità - che la gestione del caso specifico di Rossano sia di una gravità tale che non può essere imputata ad una generica impreparazione all’emergenza sanitaria in atto, atteso che ormai siamo al 7° mese di emergenza Covid 19, né tanto meno si può ricondurre alle emergenze e carenze croniche delle carceri italiane”. Yairaiha Onlus chiede, pertanto, “quali iniziative urgenti si intendono mettere in atto affinché la popolazione detenuta possa essere adeguatamente tutelata dal rischio contrazione Covid 19?”. Siracusa. Il Garante dei detenuti in visita al carcere: “Scarse condizioni igieniche” nuovosud.it, 13 ottobre 2020 Nell’ambito dell’attività di Garante per le persone private della libertà, Giovanni Villari, insieme ad un collaboratore, ha effettuato presso la Casa Circondariale di Cavadonna a Siracusa, una visita di controllo a carattere conoscitivo in alcune aree interne al penitenziario, allo scopo di constatarne le condizioni ambientali, strutturali e di esercizio, in rapporto al trattamento dei reclusi. La visita ha avuto come oggetto la cucina del Blocco 50, quella interessata in particolare dalla devastazione dell’ultima rivolta dei detenuti dello scorso 9 marzo. Sono state valutate nel loro complesso, le condizioni igieniche e di gestione nelle varie fasi di conservazione e preparazione dei cibi. Si è inoltre assistito alla fase conclusiva di preparazione del cibo al fine di valutarne qualità e quantità. Con la presente relazione si dà dunque conto delle condizioni igieniche della cucina e del processo di preparazione dei pasti. Quanto all’attrezzatura in dotazione sono stati individuati: 2 forni di cui uno solo funzionante, 2 bollitori entrambi funzionanti, una bistecchiera con quattro fuochi, funzionante, 2 banconi refrigeranti, una affettatrice, un’impastatrice, un pelapatate, fuori uso, una cella frigorifera, in funzione. Le condizioni degli apparecchi sopra elencati sono giudicate idonee dal punto di vista igienico, anche tenuto conto che al momento della visita era in ultimazione la preparazione dei pasti. Erano presenti anche utensili di lavoro per la cucina di vario numero e dimensioni, quali: pentole; padelle, teglie, mestoli, taglieri. I detenuti lavoranti che cucinano e assistono alla preparazione e alla pulizia e riassetto indossano grembiuli e stivali bianchi e qualcuno il copricapo, quali dispositivi idonei all’espletamento di questo servizio. Non è stato chiesto in questa occasione, per nessuno di loro, la presenza di documentazione sanitaria idonea. Anche i vari piani di lavoro sono stati rinvenuti in buone condizioni. Per quanto riguarda i pasti, si rileva che il menù giornaliero per il pranzo prevedeva un primo costituito da pasta con salsa di pomodoro e funghi, regolarmente servito a tutti i detenuti. Come secondo, invece, gli addetti alla cucina hanno comunicato che sarebbe stata servite una mozzarella con contorno di patate al forno per tutti. Ciononostante, al momento della visita in sezione al Blocco 50, al secondo piano, non è stato trovato riscontro di tali pietanze. Diversamente, ai detenuti è stato servito un secondo costituito da pomodori tagliati a metà e non conditi, peraltro ritenuti da una larga maggioranza dei detenuti di livello inqualificabile (di terza scelta). Da un semplice esame visivo e olfattivo però non sono risultati di così pessima qualità. Erano comunque già maturi e presentavano, in qualche caso, lievi tracce di deterioramento. Quanto al pasto serale può riferirsi solo che, alla luce di quanto riferito, erano previste delle cotolette di pesce surgelate con contorno di piselli, le quali sono state visionate dal sottoscritto all’interno della cella frigorifera presso cui sono conservate e mantenute in buone condizioni igieniche. È stata inoltre visionata la dispensa, anch’essa in buone condizioni igieniche, contenente pasta, latte, passata di pomodoro e riso in sacchi, temporaneamente appoggiati a terra. Nel complesso, la preparazione e la qualità del cibo può dirsi discreta, tenuto conto che è stato assaggiato soltanto il primo piatto del giorno, e quindi nulla può dirsi in merito alla qualità del secondo e della frutta. Quanto alla quantità delle portate può invece sollevarsi qualche criticità, infatti i detenuti hanno lamentato la scarsa quantità di ciascuna delle portate. Ciononostante ci è stato comunicato dal responsabile della cucina, un assistente della polizia penitenziaria presente al momento della visita, che le quantità vengono stabilite al momento della preparazione, pesando la quantità totale della pasta in proporzione al numero dei pasti da preparare. È dunque al momento dello sporzionamento, eseguito all’interno del blocco che probabilmente si verificano dei problemi di equa spartizione. Ciò è dovuto in parte al fatto che le porzioni vengono divise tra le singole celle in ciotole uniche, tramite un mestolo che funge da misura. In seguito è compito degli stessi detenuti dividersi le porzioni spettanti a ciascuno dei membri della cella. Tale metodo può diventare fonte di discriminazioni tra i vari soggetti presenti all’interno del carcere, in particolare, con riguardo agli extracomunitari. La fase di sporzionamento non è stata visionata durante lo svolgimento, poiché si è potuto entrare in sezione soltanto quando questa era già conclusa. La visita è stata svolta a partire dalle 11.40 circa, dato che per motivi di sicurezza non è stato concesso l’ingresso immediato all’interno della sezione da parte dell’agente incaricato al controllo al piano, trattandosi di sezione aperta. Per tale ragione si è reso necessario attendere l’intervento dell’ispettore responsabile della sorveglianza, il quale ci ha cortesemente accompagnati all’interno della sezione, assistendoci per l’intera durata della visita. Nella stessa giornata sono stati visitati: il piano terra, l’area d’ingresso nonché l’area passeggio del blocco 20 (circuito alta sicurezza). In relazione a tale blocco può generalmente sottolinearsi la scarsa condizione igienica e scarsa pulizia, già rinvenibile presso l’ingresso, il quale era particolarmente sporco, con visibili macchie di unto a terra e sulle pareti nonché una elevata quantità di guano di uccelli. In seguito alle numerose segnalazioni giunteci da parte dei detenuti, sono state inoltre visionate le varie aree passeggio pertinenti tale blocco. Essi lamentano le pessime condizioni igienico-sanitarie delle aree di passeggio, tali da ingenerare il timore di contrarre infezioni e dunque indurre a privarsi del diritto all’ora d’aria. Le aree passeggio del blocco sono quattro, tutte in cattive condizioni igienico-sanitarie. In particolare, l’area passeggio numero 1 è stata trovata in condizioni inqualificabili, tali da poterla definire la più sporca tra le 4. Si è rinvenuto l’unico lavello presente non funzionante, lo scarico dei servizi sanitari probabilmente otturato ed il pavimento impantanato d’acqua sporca e guano d’uccello. Sul soffitto, ed in particolare nelle travi nonché nei fari di illuminazione, possono notarsi diversi nidi di piccione, anche in ragione del fatto che le reti presenti a copertura del cortile hanno maglie talmente larghe da permettere il passaggio degli uccelli. L’area di passeggio numero 2 può definirsi anch’essa particolarmente sporca, con problemi analoghi a quelli menzionati per l’area numero 1. L’area wc, anche in tal caso, è ricoperta da escrementi di uccelli, e, inoltre, vi sono alcune mattonelle rotte, tra queste una particolarmente pericolosa in quanto spigolosa e tagliente. L’area di passeggio 3, analogamente alle altre, è piena di guano d’uccello, anche per la presenza di diversi nidi di colombo nelle travi. Da ultimo, l’area numero 4 presenta condizioni di poco migliori rispetto all’area 1, ma anche qui si rinvengono guano d’uccello, nidi di piccioni nei fari di illuminazione, e un faro non funzionante. Problematiche sollevate da alcuni detenuti durante la visita del garante in blocco 50. Nel corso della visita è stata ricevuta una rimostranza comune a tutti i detenuti incontrati, relativa al prelievo forzato del peculio, in seguito al pignoramento relativo al risarcimento dei danni arrecati dall’insurrezione verificatasi il 9 marzo scorso, che ha provocato danni per una cifra complessiva di circa 300.000,00 euro. In particolare, i detenuti, venendo privati del denaro necessario per provvedere alle rispettive necessità, chiedono la possibilità di essere forniti di beni di prima necessità, di fatto carenti o del tutto mancanti, quali carta igienica, bagno schiuma e shampoo, sapone per indumenti, dentifricio, acqua da bere in bottiglia e altri simili accessori. Chiedono inoltre di essere messi a conoscenza dell’entità reale dei danni provocati, nonché delle somme dovute dai singoli al fine di essere consapevoli delle trattenute presenti e future. Al momento della visita le suddette informazioni risultano essere mancanti o comunque non fornite ai detenuti. Il problema su esposto è stato segnalato alla direzione e al comando della polizia penitenziaria affinché comunichi anche sinteticamente, modi, natura e termini del prelievo coatto. Inoltre, un detenuto non vedente, durante la visita, ha segnalato legittimamente al garante una propria difficoltà, richiedendo la sostituzione del letto a castello con un letto singolo, in quanto, in ragione della sua condizione, urta molto frequentemente la testa contro il letto superiore. Il problema sembra essere di difficile soluzione, non essendo possibile al momento né il cambio della cella né la sostituzione del letto, sebbene esistano alcune stanze di detenzione con letti singoli e non sovrastati da altri letti. Firenze. In/Out, il disco realizzato dai detenuti di Sollicciano redattoresociale.it, 13 ottobre 2020 Nel carcere di Sollicciano di Firenze, esiste un gruppo di detenuti che fa musica, un complesso dal nome Orkestra Ristretta: l’idea nasce in origine come laboratorio musicale, “Musica Terra Comune”, nel 2007: dal 2014 ha assunto il nome attuale, grazie al sodalizio con Tempo Reale e alla collaborazione con Regione Toscana, Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, Ministero di Giustizia e Casa Circondariale di Sollicciano. I detenuti cantano e altri suonano, con stili diversi tra loro: le lingue in cui si canta e si scrive sono infinite, incentrate sul genere rap, il canto dell’anima e forma poetica della marginalità urbana. È un linguaggio che parla e valica confini linguistici, sociali e nazionali: la musica per i detenuti è un modo per far sentire la propria voce e non essere dimenticati. Nel 2016 l’Orkestra Ristretta è entrata nel mondo discografico con il CD Otto: per celebrare questi incontri musicali che i detenuti hanno avuto con i musicisti che hanno partecipato ad alcuni laboratori, il Centro di Ricerca Produzione e Didattica Musicale di Firenze ha promosso la realizzazione del nuovo disco In/Out. Su Produzioni dal Basso - prima piattaforma italiana di crowdfunding e social innovation - è stata lanciata una raccolta fondi per permettere ai detenuti del carcere di realizzare il loro disco, un progetto musicale con parti realizzate dentro al carcere e alcune all’esterno. Le donazioni serviranno prima di tutto a coprire i costi artistici ma anche per i costi di editing studio e mastering, la stampa delle copie del CD, la grafica e la comunicazione. Per tutti coloro che decideranno di contribuire con una donazione sono previste delle ricompense, come il download digitale del disco, una copia del CD e l’invito ad un concerto oppure il pacchetto All Inclusive comprensivo della maglia dell’Orkestra Ristretta. Per maggiori informazioni: https://www.produzionidalbasso.com/project/in-out-il-nuovo-disco-dell-orkestra-ristretta-del-carcere-di-sollicciano Napoli. Palloni donati ai detenuti “per distrarsi e ricordare l’importanza delle regole” di Rossella Grasso Il Riformista, 13 ottobre 2020 Un pallone può essere molto più di un gioco da ragazzi. Può essere l’occasione di svago per tanti detenuti che soprattutto in tempi di pandemia sono costretti a limitare le loro attività. E può essere anche formativo per capire che rispettando le regole del gioco è bello vincere tante partite. Per questo motivo l’associazione “Un’infanzia da Vivere” di Caivano ha deciso di donare palloni in tutte le carceri della Campania. Ha iniziato da Poggioreale e adesso anche a Secondigliano. Ma il giro di consegne continuerà anche a Salerno, Bellizzi e Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino e Benevento. “Grazie al contributo di ‘Con i Bambini’, ‘Con il Sud’ e tante altre realtà sociali, con l’aiuto dei garanti Pietro Ioia e Samuele Ciambriello da un mese stiamo portando i palloni in tutte le carceri - ha spiegato Bruno Mazza dell’Associazione di Caivano - Dopo Poggioreale oggi siamo a Secondigliano. I palloni rappresentano uno sfogo per i ragazzi che stanno dentro: non hanno nulla, non possono fare null’altro che parlare sempre delle stesse cose. E così un pallone può essere una distrazione fondamentale. Ci auguriamo che attraverso un pallone possano impegnarsi a rispettare le regole basilari come il rispetto reciproco”. L’iniziativa è finanziata da Impresa Sociale Con i Bambini e Fondazione Con Il Sud attraverso il progetto “Emergenza Covid -19” con cui sono stati stanziati fondi per attività al Parco Verde e così l’associazione ha pensato di poter condividere con i detenuti parte del finanziamento attraverso la donazione dei palloni, che sperano di poter portare in tutta Italia. “È possibile che presto nelle carceri per la pandemia chiudano tutte le attività ricreative - ha detto Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli - Poche persone potranno entrare e l’unico sfogo sarà il pallone. Almeno così potranno organizzare dei tornei”. Un’area iniziativa solidale promossa da Ioia è la raccolta di beni di prima necessità per “Il detenuto ignoto”: saponi, dentifrici e disinfettanti raccolti in tutta Italia da donare ai detenuti che non hanno la possibilità di procurarseli in nessun modo. La rete della solidarietà ancora una volta si stringe intorno ai più deboli in un momento in cui la situazione sta per precipitare nuovamente. Torino. Così Serghei ha fatto meta: dal carcere al rugby di serie A di Valentina Stella Il Dubbio, 13 ottobre 2020 Ha iniziato con “La Drola”, la squadra dei detenuti di Torino. La storia di Serghei Vitali incarna pienamente quanto previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione per cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato: dopo 16 anni di carcere Serghei è un giocatore del Rugby Colorno, “top-12”, la serie A del rugby. A rendere nota la storia è il quotidiano del ministero della Giustizia, gNews. Moldavo di Falesti, ai confini con la Romania, Serghei comincia la sua disavventura italiana nel 2000: “Ero finito in un giro di recupero crediti - racconta a Raul Leoni - e sono rimasto coinvolto in una brutta vicenda”. Da quel momento inizia a frequentare prima i tribunali e poi gli istituti di pena fin quando nel 2015 non arriva alla casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino dove milita La Drola, la squadra di rugby formata da detenuti che ha fatto la storia dello sport in carcere: “Li ho visti giocare la prima volta - continua nel suo racconto a Leoni - e ho pensato che erano pazzi, una cosa senza senso”. Poi la catarsi e l’entrata in squadra: “Non ho mai avuto una famiglia, ero abituato dalla vita a combattere solo per me stesso. Ho capito per la prima volta cosa significavano l’amicizia e il sacrificio, il piacere di lottare anche per gli altri, i miei compagni, il rispetto per le regole”. Quasi 150 partite con La Drola, fino a quando Serghei paga totalmente i conti con la giustizia italiana. Da un mese il 36enne è un uomo libero: “Il primo aiuto l’ho avuto dall’Associazione San Cristoforo di Parma, dove mi ha accolto don Umberto Cocconi”. Poi anche la nuova passione sportiva fa la sua parte: a dargli una mano il consigliere federale Stefano Cantoni, presidente di “Sostegno Ovale”. “Sono arrivato a Colorno, una squadra importante: mi hanno accolto come uno di loro”. Ma arrica il Covid- 19, seguito dal lockdown, e Serghei si mette a disposizione delle associazioni di volontariato che lavorano in contatto con il club emiliano: “È sempre stato il primo a rispondere alla chiamata, non ha saltato mai un turno, disponibilità assoluta”, dicono di lui a Colorno. Oltre al servizio per la comunità, mette la sua esperienza di vita a disposizione della società biancorossa: oltre agli allenamenti in prima squadra si dedica come aiuto- allenatore ai piccoli “under 14”. Ora la vita di Serghei può cambiare. C’è ancora da regolarizzare la situazione amministrativa con il Paese di origine - conclude l’articolo di giustizia newsonline visto che durante la detenzione tutti i documenti sono scaduti: e poi il desiderio di diventare cittadino romeno e, come tale, comunitario. Una carta in più per realizzare il sogno di giocare in un campionato vero, di un lavoro, di una famiglia. Un libro per difendersi da populismo penale e fake news di Francesco D’errico* Il Dubbio, 13 ottobre 2020 “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”, di Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna, uscito di recente per Editori Laterza, rappresenta, innanzitutto, una riuscita operazione di debunking. In questo breve saggio, infatti, si smontano, pezzo per pezzo e dati alla mano, le infinite fake news sul carcere, si smentiscono i troppi falsi miti e le innumerevoli informazioni distorte che avvelenano quotidianamente il dibattito sulla giustizia. Pagina dopo pagina, si misura la distanza siderale tra percezione dell’opinione pubblica e realtà dei fatti, dove le evidenze statistiche sconfessano la convinzione, apparentemente impossibile da sradicare, che l’unico metodo per produrre maggiore sicurezza sia quello di rinchiudere il maggior numero di persone con le pene più afflittive possibili. La quotidianità del carcere, “luogo in sé violento”, è profondamente diversa da chi la descrive come “vitto e alloggio gratis”: è fatta di contagio criminale e di ozio forzato, di un “silenzio chiassoso” e alienante, di promiscuità e malattia, di un’omologazione che “distrugge l’individualità”, di dipendenza da psicofarmaci e sovraffollamento. Altro che “in carcere non ci va nessuno”, nel nostro paese i delitti sono in diminuzione, eppure gli istituti di pena continuano a riempirsi. Qualcosa non funziona, e non sarà la costruzione di nuove strutture a risolvere il problema: “più grande è il secchio e più acqua ci metterai per soddisfare la sete punitiva di certa parte dell’opinione pubblica”. Già, perché la famosa “certezza della pena” ha perso, nel suo uso comune, il significato originario di pena predeterminata, conoscibile e quindi prevedibile dai consociati, trasformandosi in “certezza della galera”; non si fonda più, dunque, sull’art. 25 della Costituzione, ma su “ciò che vuole la gente”. Oggi, tutto ciò che “non è galera è misura alternativa, dovrebbe essere il contrario”: sarebbe necessario invertire il paradigma, applicando per davvero il principio dell’extrema ratio. Un cambiamento culturale, a partire da un concetto fondamentale ribadito più volte dagli autori: “lo Stato esercita il potere di privare un uomo della libertà: ogni altra imposizione è un’inaccettabile violazione dei suoi diritti”. Lo ha ricordato di recente anche Mauro Palma: “si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti”. Ecco che, in un solo colpo, si sgombera il campo dalle anacronistiche invocazioni al lavoro forzato o, ancora peggio, al medievale ritorno a inflizioni corporali, come da qualsiasi pratica di tipo coercitivo che invada la sfera interna, intima del condannato. In questa prospettiva, anche il diritto all’affettività acquisisce grande rilevanza, in quanto non si tratta di un lusso o di un privilegio ma di “una dimensione naturale dell’essere umano, di una parte essenziale del concetto stesso di dignità”, fondamentale per alleviare il paradossale effetto desocializzante di un istituto nel quale si è rinchiusi per essere “risocializzati”. Oltre all’analisi e alla critica del fenomeno punitivista, c’è spazio anche per una proposta finale dedicata alla giustizia riparativa, “per favorire la responsabilizzazione del condannato” e il percorso di risocializzazione, a patto però che sia frutto di una scelta del detenuto e non di imposizioni più o meno velate. “Vendetta pubblica”, in conclusione, non è solo un utile kit di sopravvivenza per affrontare il populismo penale imperante e smascherarne le più ripetute bugie, ma è anche e soprattutto un saggio chiaro e dal registro divulgativo, accessibile ai più, utile per poter apprezzare il senso di un diritto penale e penitenziario costituzionalmente orientati, in grado di trovare il delicato equilibrio tra esigenze di sicurezza e inviolabilità delle garanzie individuali perché “tutelare i diritti non significa cedere alla criminalità ma è anzi il miglior antidoto con cui combatterla”. Regalatelo al vostro amico la prossima volta che vi dirà “bisogna buttare via la chiave”, forse cambierà idea. *Presidente Extrema Ratio “Seizeronove. Galeoni e Galeotti”: i detenuti si raccontano sulla nave della fantasia di Delia Morea ilmondodisuk.com, 13 ottobre 2020 Il libro a cura di Adolfo Ferraro. Spesso si dice che la letteratura abbia un potere salvifico e molto spesso questo assunto è vero, nel caso del libro di recente pubblicazione “Seizeronove. Galeoni e Galeotti” (Homo Scrivens) a cura di Adolfo Ferraro, la letteratura fa di più, poiché diventa mezzo terapeutico. Essa sperimenta, confrontandosi con forme di devianza complesse nella rosa dei reati: i “sex offenders”, cioè i reati a scopo sessuale, regolati dall’articolo artt. 609 bis ss. del Codice Penale, le origini dei disadattamenti e la divisione del bene dal male. L’idea dello psichiatra Adolfo Ferraro e di un gruppo di operatori volontari è stata quella di attuare il laboratorio “Lupus in fabula”, tenuto dal mese di ottobre 2018 al giugno 2019 presso la casa circondariale di Napoli Secondigliano. Al laboratorio, programmato e organizzato dalla sifpp (Società Italiana Formazione Psichiatria Penitenziaria e Forense) con le autorizzazioni della Direzione del carcere, del Provveditorato Regionale Campania Amministrazione Penitenziaria e del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli) hanno partecipato venti detenuti responsabili di reati sessuali. L’originalità dell’idea ha consistito nella lettura collettiva del romanzo “Il Visconte dimezzato” di Italo Calvino, come metafora della scissione tra il bene e il male e lo stimolo a ricomporre, attraverso la lettura, le parti di se stessi, anche quelle più profonde. Il protagonista del romanzo di Calvino va in guerra ma viene dimezzato da una palla di cannone dividendo le due parti del suo corpo nel bene e nel male, il laboratorio esamina, appunto, il contenuto metaforico del romanzo attraverso tre fasi: la prima riguarda la lettura collettiva, nella seconda si è lavorato sui personaggi, sviluppando ogni detenuto una storia autonoma dal testo, utilizzando meccanismi di creatività personale, creando, appunto, una storia ex novo, cosi è giunti a raccontare se stessi, la propria attuale condizione: “nell’idea di acquisire una consapevolezza che non nega e non giustifica, ma aiuta a comprendere”. Infine, la terza fase che ha portato alla elaborazione di un testo completo dove ogni partecipante al gruppo ha portato il suo contributo, un testo rappresentativo di un lavoro comune e nel contempo delle varie individualità. Come si vede un percorso molto interessante e complesso che ha avuto il fine di fare acquisire ad ognuno consapevolezza, in relazione al proprio reato, utilizzando i linguaggi della letteratura e della scrittura. Il tutto si concretizza con un progetto di fantasia molto significativo: una nave, un immaginario galeone (di quelli che solcavano i mari ai tempi dei pirati) sulla quale sono accolti i detenuti (galeotti) e che li porta a solcare gli immaginari mari della mente. Sulla nave di fantasia ci si imbarca con la parte di sopra (quella inerente il bene) ma clandestina arriva anche la parte di sotto (il male). Perché la nave, perché il galeone? I manufatti di passatempo dei detenuti (fatti con i stuzzicadenti e cartoni, ad esempio) spesso raffigurano navi e vengono chiamati “Seizeronove” come l’articolo del codice che li tiene in carcere, da questi l’ispirazione. All’interno del libro sono, dunque, raccolte le storie di questi uomini, scrive uno di loro: “Un ultimo appuntamento con la speranza. Da alcuni mesi partecipo, insieme ad altri compagni, a un interessante programma di terapia di gruppo, non per guarire da qualcosa come droga, alcol, violenza in tutte le forme possibili, bensì per conoscere noi stessi, il nostro animo, il proprio cuore”. Un progetto particolare, che tenta di mettere a nudo personalità complesse, spesso con disturbi della personalità e che di certo rientrano in una categoria sociale ai margini per le loro azioni, un progetto dove si sono spesi nella totalità i detenuti e i volontari che attraverso un’idea vincente hanno traghettato su una nave immaginaria un gruppo di “anime” alla ricerca della loro parte buona non tralasciando quella cattiva. Scrive Adolfo Ferraro, curatore di questo lavoro egregio, di questa pubblicazione che interessa per le tante verità che sottende: “Può la Letteratura cambiare le persone? E può quindi, potendo produrre cambiamenti, diventare cura per disturbi caratteriali difficilmente curabili? Una cura che non prevede necessariamente la guarigione, perché forse non c’è nulla da guarire, ma piuttosto cambiamenti profondi che possano incidere su devianze sociali e culturali che producono danno e comportamenti illeciti e a volte delittuosi”. È da questa premessa interrogativa che prende inizio un viaggio di scoperta che non prevede una guida turistica - intesa come la conferma di verità già note - ma piuttosto di affrontare il fardello interiore e profondo di chi non sempre è consapevole del proprio malessere, sia usando la negazione volontaria sia semplicemente rifiutando (più o meno consciamente) consapevolezze imbarazzanti e responsabilizzanti”. Il libro si completa con scritti di Giulio Balbi, professore Ordinario di Diritto Penale, Amalia Fanelli, operatrice penitenziaria volontaria, Luigi Romano, presidente Antigone Campania, Maria Pia Daniele, autrice e regista, Davide Iodice, regista e pedagogo. Un libro da leggere. Adolfo Ferraro Seizeronove. Galeoni e galeotti. Homo Scrivens 2020, Napoli. p. 176, euro 19,70 Aiuti o tutela dei diritti? Unione europea al bivio di Giuliano Pisapia Corriere della Sera, 13 ottobre 2020 La Ue deve negoziare con il gruppo di Visegrad, formato da Paesi nei quali c’è stata una pericolosa contrazione dei diritti fondamentali, per non rischiare che ritardino, o siano bloccati, i fondi previsti per il Recovery Plan. Ingenti risorse per il rilancio economico e sociale versus difesa dello Stato di diritto? È accettabile che l’Unione Europea rinunci a sanzionare la violazione dei principi base di uno Stato di diritto per non rischiare che ritardino, o siano bloccati, i fondi previsti per il Recovery Plan? Potrebbe sembrare una domanda retorica, con un’ovvia risposta negativa, ma è invece un quesito che oggi ci mette di fronte a dubbi e conseguenti assunzioni di responsabilità. Il “via libera” unanime al Recovery Plan è infatti sempre più indissolubilmente legato a questo aspetto. E il rischio di rottura tra istituzioni europee diventa sempre più attuale e concreto. Ma - sia chiaro - questo pericolo non può in alcun modo essere addebitato al Parlamento europeo che ha fatto, e sta facendo, il suo dovere non dimenticando che lo Stato di diritto è uno dei pilastri su cui si fonda l’Unione europea. Del resto, che credibilità può avere chi minaccia e decide sanzioni economiche per Paesi non Ue che non rispettano i principi democratici e, contemporaneamente, non ha la forza e il coraggio di applicare le stesse sanzioni a chi fa parte della “famiglia europea”? Il piano Next Generation Ue per la ripresa post Covid - 750 miliardi tra finanziamenti e prestiti, di cui oltre 200 destinati all’Italia - per diventare operativo deve essere ratificato da tutti i 27 Paesi dell’Unione, compresi gli Stati dell’Est appartenenti al gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) che in questi anni, a partire dall’Ungheria e dalla Polonia, hanno visto una pericolosa contrazione dei diritti fondamentali. Purtroppo proprio questa modalità di approvazione del Piano permette a tutti gli Stati di avere un sostanziale diritto di veto (come purtroppo accade per troppe decisioni europee) e di trasformarlo in una pericolosa arma di contrattazione, direi quasi di ricatto, nei confronti dell’intera Europa. Il pericolo, fondato, è che questo potere di vieto venga utilizzato arrivando a minacciare di non sottoscrivere l’accordo se non viene eliminato il divieto, approvato a larga maggioranza dal Parlamento europeo, di finanziare i Paesi che non rispettano le regole di uno Stato di diritto. Finanziare, ad esempio, un Paese come l’Ungheria, il cui presidente chiede e ottiene i “pieni poteri”, o come la Polonia, che cancella l’autonomia e indipendenza della magistratura e il cui ministro dell’istruzione dichiara che “le persone Lgbt non sono eguali alle altre persone” e “che l’ideologia Lgbt è scaturita dal neo-marxismo e ha le stesse radici del nazionalismo tedesco”. La Germania - che attualmente presiede il Consiglio dell’Ue - ha proposto un compromesso che in realtà è un passo indietro perché cancella di fatto quanto aveva deciso il Parlamento. E ciò, malgrado il recente rapporto sulla violazione dello Stato di diritto nei 27 Paesi Ue abbia bocciato e accusato pesantemente l’Ungheria e la Polonia che “mettono in pericolo le fondamenta giuridiche, politiche ed economiche della Ue”. Che fare dunque? Siamo a un bivio. Se non si trova una mediazione “alta e nobile” il banco salterà ma certo non sarà, e non potrà essere, responsabilità di chi chiede il rispetto delle regole. La proposta tedesca non ha ricevuto buona accoglienza tra i parlamentari progressisti, ma non solo da loro. “Non possiamo scegliere tra i soldi e i diritti”, questa è una convinzione diffusa nel Parlamento europeo. Ma c’è anche chi, ricordando che i fondi Ue sono pari al 3% del Pil ungherese, è convinto che Orbán non potrà farne a meno e che il suo sia solo un bluff. Sono convinto che sia possibile trovare un punto di incontro, ma non dovrà essere a scapito del diritto e dei diritti. Anche perché la trattativa in corso rappresenta un momento decisivo per comprendere la direzione che l’Europa prenderà nei prossimi anni. È necessario capire se riusciremo ad avere una vera comunità o soltanto una somma di Stati che litigano - e spesso battagliano - tra loro per far prevalere, a seconda del momento, i propri interessi. Questo passaggio è anche determinante per sancire un maggior ruolo decisionale del Parlamento europeo, che, va ricordato, è l’unica istituzione europea eletta direttamente dagli oltre 400 milioni di cittadini dei 27 Stati membri. “Sacrificare” lo Stato di diritto all’interno dell’Unione ci porterebbe a un salto nel vuoto dai contorni incerti e non accettabili. Come disse John Kennedy “non possiamo mai negoziare per paura, ma non possiamo mai avere paura di negoziare”, ma non possiamo neppure dimenticare che, come sosteneva Stefano Rodotà, “i diritti sono lo specchio e la misura dell’ingiustizia e uno strumento per combatterla”. *Europarlamentare, vicepresidente Commissione Affari costituzionali Cittadinanza, razzismo e privilegi di Bruno Montesano Il Manifesto, 13 ottobre 2020 Ius soli (e non solo). L’unico modello che si può contrapporre al razzismo è quello di una democrazia cosmopolitica, aperta e conflittuale, dove la cittadinanza non circoscriva una comunità predefinita ma divenga la posta in gioco nella lotta per l’espansione dei diritti. L’idea che sia naturale negare e limitare i diritti di chi non è considerato membro della comunità nazionale - e che la sua esistenza vada normata in relazione alle esigenze di sicurezza - rimane l’assunto della riforma dei Decreti Sicurezza. Alla base c’è una valutazione differenziale del valore di alcune vite rispetto ad altre. Con la riforma, ci sono alcuni miglioramenti relativi ma molte norme rimangono comunque peggiori rispetto alla normativa precedente al governo Conte I, ad esempio per i tempi necessari al rilascio della cittadinanza a chi sia nato in Italia da genitori stranieri. D’altronde, la lotta contro le migrazioni si è sviluppata all’interno di uno stato nazione dove il meccanismo della cittadinanza come sistema di gerarchizzazione resta solido. Cittadinanza nazionale e “razza” spesso vengono confuse, perché minacciosità e arretratezza diventano caratteristiche naturali proprie delle minoranze e di chi migra da alcuni paesi. E mentre la differenza nazionale si fa differenza razziale, la bianchezza emerge come elemento che qualifica la cittadinanza. Per bianchezza si intende non solo la pigmentazione ma un sistema di gerarchizzazione in cui la cultura diviene “razza”, stratificando le popolazioni anche al di qua della linea del colore. D’altra parte, la cittadinanza è da sempre al centro del conflitto tra istanze universalistiche e particolaristiche, tra quanti cercano di espandere i diritti di chi risiede e transita in un luogo e chi vuole difendere i veri cittadini, preservando la subordinazione dei migranti e accentuandone lo sfruttamento economico. La cittadinanza moderna pone fine ai privilegi di censo e progressivamente assicura diritti civili, politici e sociali ai membri della comunità nazionale. Se da un lato la cittadinanza limita e contiene le diseguaglianze dell’economia di mercato per alcuni, dall’altro garantisce delle gerarchie basate sul genere, la classe e la bianchezza. La cittadinanza infatti, pur se compressa e trasformata all’interno del regime neoliberale, a sua volta va vista come un titolo ereditario e come un privilegio. Le vie per accedere alla cittadinanza nazionale dipendono da legami di sangue e suolo, del tutto contingenti e non dalla scelta di aderire ad una comunità. Pertanto, per quanto lo ius soli segnerebbe un notevole avanzamento per chi è nato qui, la cittadinanza continuerebbe ad essere un privilegio di status. Il modello della cittadinanza civica, dove si aderisce per scelta, e non per i rapporti di sangue o con il territorio (cittadinanza etnica), non è mai stato realizzato. E quando si dice di volerlo realizzare, nelle procedure per il rilascio della cittadinanza, le discriminazioni riappaiono. Infatti, gli unici soggetti di cui si verifica l’adeguatezza alla comunità sono gli stranieri per sangue. Chi nasce - o discende - da genitori italiani non è chiamato a dimostrare nulla per ottenere o mantenere la propria cittadinanza. La cittadinanza permette di accedere ad una quota della ricchezza nazionale, la cui concentrazione si intreccia con la lunga durata dei processi coloniali e di scambio ineguale. Al di là degli effetti reali delle migrazioni su welfare e mercato del lavoro, la difesa dei confini della cittadinanza viene percepita come una difesa del proprio interesse. Dal momento che la cittadinanza si regge sul senso di solidarietà tra i suoi membri, per indagare le radici dell’attuale razzismo bisogna risalire al soggetto della nazione - il popolo -, con tutte le idealizzazioni e astrazioni selettive atte a configurarlo. Le origini di un popolo non esistono ma possono venir create ex post, facendo della contingenza un destino, la cui coerenza dipende dall’esclusione di chi non è membro della comunità così immaginata. Il razzismo si situa pertanto all’interno di ogni costruzione dell’identità nazionale. I caratteri e le istituzioni - che vengono rappresentate come esito necessario dello spirito nazionale - di un popolo servono a legittimare l’assenza di una sostanza comune. Ed è facendo appello a questi tratti identitari, riprodotti dal nazionalismo banale delle istituzioni, che il razzismo riemerge come accentuazione della distribuzione discriminatoria delle risorse. Così, l’interesse a difendere prospettive che si sentono minacciate si lega all’identità nazionale vissuta dai cittadini come un elemento naturale. L’unico modello che si può contrapporre è quello di una democrazia cosmopolitica, aperta e conflittuale, dove la cittadinanza non circoscriva una comunità predefinita ma divenga la posta in gioco nella lotta per l’espansione dei diritti. La comunità emergerebbe così dal riconoscimento della reciproca vulnerabilità, al di là delle appartenenze preesistenti, aprendo la strada a delle forme di coesistenza non identitarie. Siria. Amnistia per migliaia di detenuti nelle carceri curde: ci sono anche membri di Isis Il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2020 A comunicarlo sono le stesse autorità curde citate dai media siriani. Una decisione che sorprende se si tiene conto della presenza di numerose cellule dormienti in tutto il Paese e della nuova presenza dello Stato islamico in alcuni villaggi nella regione petrolifera di Deir Ezzor, dove i jihadisti sono tornati a minacciare le donne e a chiedere il pagamento della zakat Membri di medio e basso rango, malati terminali, colpevoli di reati minori e over 75, tutti in carcere da più di due anni. Le Forze Democratiche Siriane (Sdf), a maggioranza curda, hanno deciso di concedere l’amnistia a migliaia di prigionieri, tra cui alcuni ritenuti membri dello Stato Islamico, che così potranno godere di sconti di pena o, addirittura, essere liberati. A comunicarlo sono le stesse autorità curde citate dai media siriani. Destinatari del provvedimento saranno alcuni dei 12mila prigionieri di nazionalità siriana rinchiusi nelle carceri curde del nord-est del Paese, su un totale di circa 19mila carcerati in larga parte considerati ex combattenti del Califfato provenienti anche da Iraq (5mila) e da altre 55 diverse nazionalità (2mila). “Numerosi detenuti nel nord e nord-est della Siria saranno rilasciati o le loro pene saranno ridotte in forza di un’amnistia generale - si legge nel comunicato delle forze curdo-siriane - Questa prevede delle eccezioni per assicurare il rispetto della sicurezza nella regione e garantire il diritto delle vittime di ricevere giustizia”. In particolare, si legge, saranno rimessi in libertà “i detenuti che scontano pene minori, quelli affetti da malattie incurabili e i prigionieri con più di 75 anni di età”. I prigionieri con pene più gravi vedranno dimezzate le loro condanne e chi è stato condannato all’ergastolo avrà una pena ridotta a 20 anni di carcere. Anche i latitanti potranno beneficiare dell’amnistia se si costituiranno entro due mesi. Esclusi dallo sconto di pena solo i colpevoli di “spionaggio”, “tradimento”, “crimine d’onore”, “traffico di droga”, “dirigenti di organizzazioni terroristiche come l’Isis”. Saranno rilasciati “membri dell’Isis di medio e basso rango se hanno ottenuto meriti di buona condotta”. Una decisione che sorprende se si tiene conto della presenza di numerose cellule dormienti dello Stato Islamico in tutto il Paese, anche nel nord-est, dove i miliziani in nero compiono costantemente attacchi terroristici e kamikaze contro le Sdf. Inoltre, è di pochi giorni fa la notizia, confermata dalle stesse Forze Democratiche Siriane, di una nuova presenza dello Stato islamico in alcuni villaggi nella regione petrolifera di Deir Ezzor, dove i jihadisti sono tornati a minacciare le donne che non indossavano indumenti islamici secondo i dettami del Califfato fondato da Abu Bakr al-Baghdadi e a chiedere il pagamento della zakat. Bangladesh. Da oggi pena di morte per il reato di stupro di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 13 ottobre 2020 Decisione del governo dopo numerose manifestazioni nel paese in seguito dell’ennesima violenza di gruppo contro una donna. Il governo del Bangladesh ha approvato ieri un inasprimento delle pene per il reato di stupro, rispondendo a una settimana di proteste da parte della società civile bangladeshi. Il nuovo emendamento, che va a modificare la legge per la Prevenzione della Repressione di Donne e Bambini, porterà la pena massima per lo stupro dall’ergastolo alla pena capitale. Nella conferenza stampa tenutasi ieri nella capitale Dhaka, il segretario di gabinetto Khander Anwarul Islam ha annunciato che la nuova misura, approvata dal consiglio dei ministri in videoconferenza, sarà ufficializzata nella giornata di oggi con un ordine esecutivo della prima ministra Sheikh Hasina. Il governo bangladeshi ha varato la nuova norma dopo numerose manifestazioni che hanno interessato diversi centri urbani, compresa Dhaka. Migliaia di persone, soprattutto studenti e giovani donne, hanno sfilato per le strade urlando slogan come “impiccate gli stupratori” e “nessuna pietà per i violentatori” - riporta Al Jazeera - scontrandosi sistematicamente con le forze dell’ordine schierate dal governo Hasina. A incendiare le polveri della rabbia popolare è stato un video condiviso agli inizi di ottobre sui social network che mostrava un gruppo di uomini mentre attaccavano una donna. Identificati dal video, otto uomini sono stati arrestati. Secondo le ricostruzioni delle autorità, divulgate dalla stampa locale, la vittima dell’abuso è una donna di 37 anni, residente nel distretto meridionale di Noakhali. La vittima ha raccontato alla polizia di essere già stata violentata da uno degli arrestati lo scorso anno, mentre un complice la minacciava con una pistola puntata alla tempia. Gli abusi sono continuati fino ad arrivare al due settembre, quando il gruppo di uomini l’ha prima violentata e poi ricattata, obbligandola ad altre violenze e al pagamento di un riscatto per non rendere pubblico il video. Quando la donna si è rifiutata, il video è stato pubblicato. Nonostante l’authority delle telecomunicazioni del Bangladesh abbia ordinato la rimozione del video da tutte le piattaforme social, il documento continua a circolare su Whatsapp. La protesta, iniziata con una mobilitazione online fino alle manifestazioni di piazza degli scorsi giorni, si inserisce in una serie di mobilitazioni studentesche contro le violenze sessuali che da mesi infiammano le città del Bangladesh. Cortei di protesta e scontri con la polizia si erano già registrati a Syleth, nel nord del Paese, e ancora a Dhaka, all’inizio dell’anno. Secondo un rapporto pubblicato la scorsa settimana da Ain o Salish Kendra (Ask) - organizzazione non governativa che si occupa di diritti umani e supporto legale per le vittime di abusi - tra gennaio e settembre 2020 sono stati denunciati in Bangladesh 975 stupri; in un caso su cinque si è trattato di stupri di gruppo. Il bilancio prende in considerazione solo i casi coperti dalla stampa nazionale e denunciati alle forze dell’ordine. In Bangladesh, come nel resto dell’Asia Meridionale, lo stigma sociale che subiscono le vittime di violenza sessuale rende più difficile denunciare gli stupri. È ragionevole stimare che le cifre evidenziate da Ask riflettano in minima percentuale l’ampiezza del problema nel Paese. Per la legge vigente in materia - articolo 376 del codice penale, ratificato nel 1860, durante l’occupazione britannica - se la vittima è moglie dello stupratore il massimo della pena è ridotto a due anni di carcere, al pagamento di un’ammenda o entrambi. Uomini, bambini, trans, “hijra” (nel subcontinente indiano, eunuchi, trans “male to female”) e intersex non sono contemplati e non godono quindi di alcuna tutela legale in caso di violenza sessuale. Mali. Liberazione di 180 detenuti e sei milioni di euro di Daniele Raineri Il Foglio, 13 ottobre 2020 È il riscatto pagato per la liberazione dei due ostaggi italiani sequestrati da al Qaida in Africa. Secondo fonti vicine ai negoziati sentite dal Foglio, il governo ha pagato in totale sei milioni di euro per liberare Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio, due italiani rapi-ti in Niger e rilasciati giovedì scorso in Mali. Gli ostaggi erano nelle mani della divisione di al Qaida che infesta la regione del Sahel con la sigla Jnim e riesce a muoversi con facilità da un paese all’altro attraverso frontiere che in certe aree esistono soltanto sulla carta. I negoziati sono stati abbastanza rapidi grazie al fatto che il 25 marzo il gruppo terrorista ha rapito un famoso politico del Mali, Soumaila Cissé - ex ministro delle Finanze e candidato a diventare presidente - durante la campagna elettorale. Questo ha creato in meno di un mese una connessione tra il governo del Mali e i sequestratori e a questo contatto si sono attaccate le trattative per altri ostaggi: la francese Sophie Petronin, un’operatrice umanitaria rapita nel 2016, e i due italiani. I negoziati sono cominciati a diventare concreti all’inizio di agosto e non hanno subìto scossoni nemmeno durante il golpe in Mali del 18 agosto, perché i golpisti hanno avuto l’idea saggia di tenere sempre lo stesso negoziatore al suo posto. Il sequestro di Cissé è stato una svolta soprattutto per l’ostaggio francese, Petronin, perché il gruppo terrorista rifiuta di negoziare con la Francia e di partecipare a qualsiasi negoziato dove i francesi siano presenti come mediatori. Da anni un contingente militare francese di cinquemila soldati è presente nell’area del Sahel - il nome della missione è Operazione Barkhane - per dare la caccia ai gruppi jihadisti con alterne fortune: a volte registra successi e a volte sembra che i progressi siano impossibili. Agiugno i francesi hanno ucciso con un’operazione nel nord del Mali Abdelmalek Droukdel, l’imprendibile capo dell’altra grande divisione africana di al Qaida in quella regione, conosciuta con la sigla Aqim. Non c’era spazio per negoziati, ma i terroristi avevano segnalato la disponibilità a liberare Petronin, di 75 anni, che nei quattro anni di prigionia si è convertita all’islam e oggi si fa chiamare Mariam. Un emissario di al Qaida ha mandato una lista di duecento nomi di detenuti nelle carceri del Mali da liberare in cambio dell’ostaggio francese e del politico maliano (per quest’ultimo hanno voluto anche denaro). A negoziare per gli italiani c’erano gli uomini dell’Aise, i servizi segreti per l’estero, che in questi anni hanno costruito una rete di contatti molto estesa - l’attuale direttore, Giovanni Caravelli, si è occupato della liberazione di Silvia Romano in Somalia. Le autorità del Mali hanno liberato 180 detenuti in due tranche, sabato 3 e domenica 4 ottobre, e secondo il giornalista francese Wassim Nasr tra loro ci sono soltanto tre jihadisti importanti. Molti altri fra i liberati sono prigionieri qualsiasi, hanno connessioni deboli o casuali con il gruppo terrorista, e la loro liberazione è una mossa politica da parte di al Qaida per ingraziarsi la popolazione. I qaidisti hanno chiesto un intervallo di tre giorni fra il rilascio dei loro uomini e quello degli ostaggi per avere il tempo di nascondere i leader liberati e infatti giovedì hanno rilasciato i quattro prigionieri. Mentre sui media circolavano le foto dei sequestrati restituiti al governo del Mali e ormai atterrati in Francia e Italia, su un canale telegram sono apparse le foto dei jihadisti liberati mentre incontravano il capo storico del gruppo, Iyad Ag Ghali. Nella stessa regione dove Iyad Ag Ghali muove i suoi combattenti arriveranno i soldati delle forze speciali italiane impegnati con altri contingenti europei nell’operazione Takuba a sostegno dei francesi. Israele. Il prigioniero politico palestinese Maher al Akhras in fin di vita di Michele Giorgio Il Manifesto, 13 ottobre 2020 Giunto al 78esimo giorno di digiuno totale. Protesta contro la detenzione “amministrativa”, senza processo e accuse formali, che sconta da luglio in un carcere israeliano. “Maher sta molto male, ha perso quasi la metà del suo peso, ha un forte mal di testa e un ronzio costante nelle orecchie ed è troppo debole per stare in piedi. Ora fa fatica anche a rispondermi”. Così Taghreed al Akhras ha descritto ieri le condizioni del marito, Maher al Akhras, incarcerato in Israele e giunto al 78esimo giorno di digiuno completo. Rifiutando il cibo, Al Akhras - ora ricoverato all’ospedale Kaplan di Rehovot - protesta contro la detenzione “amministrativa” che sta scontando da luglio senza aver mai subito un processo e ricevuto accuse formali dalla procura militare israeliana. Un giudice ha approvato il suo arresto “cautelare” - cominciato a luglio - sulla base di una segnalazione dello Shin Bet, il servizio segreto, che ha chiesto di tenerlo chiuso in una cella per non meglio precisate “ragioni di sicurezza”. Al Akhras si sta lentamente spegnendo ma non si arrende. Il suo avvocato ha fatto sapere che non rinuncia alla condizione che ha posto per mettere fine al digiuno: la scarcerazione immediata, quindi prima del 26 novembre, la data stabilita dal giudice militare come scadenza della sua detenzione. “Questo sciopero della fame è in difesa di ogni prigioniero palestinese e del mio popolo che soffre a causa dell’occupazione”, ripete Al-Akhras. A sostegno della sua liberazione è in corso una campagna internazionale che l’8 ottobre è culminata in un Twitter Storm con gli hashtag #SaveMaher #DignityStrike. Residente a Silat al Dhahr, un villaggio vicino a Jenin, Al Akhras, è già stato incarcerato cinque volte, gran parte delle quali senza processo. Al Akhras non è il primo palestinese a digiunare per protesta in questi ultimi anni. Il motivo è stato sempre la battaglia contro la detenzione “amministrativa”. Questa misura, proibita da leggi e convenzioni internazionali, prevede periodi rinnovabili di detenzione senza processo. È stata introdotta per la prima volta in Palestina durante il mandato coloniale britannico (terminato nel 1948). Ma le autorità israeliane la impiegano ancora contro i palestinesi sotto occupazione militare. Al momento ci sono circa 350 palestinesi incarcerati senza accuse o processo su un totale di 4.400 prigionieri politici. Dal 1967, anno di inizio dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, sono stati emessi almeno 50.000 ordini di detenzione amministrativa. Nigeria. Il musicista Yahaya Sharif-Aminu rischia di essere impiccato per una canzone di Grazia Di Michele optimagazine.com, 13 ottobre 2020 È assurdo che nel 2020 ci siano ancora artisti che non possono esprimere liberamente il proprio pensiero. Si chiama Yahaya Sharif-Aminu, ha 22 anni, è detenuto nello Stato di Kano al nord della Nigeria. È un musicista amante del gospel, e come milioni di altri ragazzi nel mondo ha inviato alcune sue canzoni ad amici, tramite WhatsApp, che sono suo malgrado diventate pubbliche nel marzo di quest’anno. Nessuno avrebbe saputo della sua esistenza se in una delle sue canzoni non avesse lodato un imam scatenando la ferocia e l’indignazione dei suoi conterranei, i quali hanno considerato blasfema la sua composizione, sebbene questa non insulti in alcun modo la religione islamica. Yahaya appartiene infatti all’ordine islamico sufi TIjaniyya, molto popolare nell’Africa settentrionale e occidentale, e la sua colpa è quella di aver dato lustro a un imam della confraternita (Ibrahim Niasse), elevandolo, secondo gli accusatori, al di sopra di Maometto. Tanto è bastato perché manifestanti inferociti bruciassero la sua casa e invocassero a gran voce la pena di morte per lui. Dopo un tentativo di fuga, il ragazzo è dunque finito in carcere in attesa di giudizio. Il 10 agosto, l’Alta Corte della Shari’a lo ha condannato alla pena di morte tramite impiccagione. Il leader della fazione che lo accusa, Idris Ibrahim, ha dichiarato alla Bbc che “questo servirà da deterrente per gli altri che credono di poter insultare la nostra religione o il nostro profeta e andarsene in giro senza problemi”. Nonostante la Costituzione nigeriana riconosca e garantisca il diritto alla libertà di pensiero, di religione e d’espressione, la condanna a morte per blasfemia è tuttora in vigore in quegli stati musulmani della Nigeria che riconoscono nella legislazione islamica Shari’a l’unica fonte normativa. Le punizioni, in caso di trasgressione, vanno dal linciaggio, all’amputazione, fino appunto all’impiccagione. Per aver esercitato la libertà di pensiero e d’espressione, Yahaya è quindi detenuto in carcere in attesa dell’ultimo atto, la firma del Governatore di Kano, Abdullahi Umar Ganduje, senza poter incontrare il suo avvocato, né i suoi familiari. Laddove venga ratificata la condanna del “blasfemo” (le procedure sono peraltro sommarie, a quanto rivelano gli osservatori della realtà giudiziaria nigeriana), la condanna a morte verrà eseguita senza indugio. È nei confronti di questo Governatore che associazioni per i diritti umani come Amnesty International stanno esercitando una pressione costante e determinata affinché non firmi il mandato di esecuzione e rimetta in libertà Yahaya, ma contestualmente il Governatore di Kano subisce eguali pressioni da parte di leader religiosi e personaggi influenti, affinché firmi subito l’esecuzione. La vita di questo ragazzo è oggi appesa ad un filo. Chiuso in un carcere, non soltanto teme di essere impiccato, ma sa di rischiare la vita anche nell’ipotesi di una sentenza favorevole e di una sua liberazione, avendo ricevuto minacce di morte da parte di fanatici per sé e per la propria famiglia. In un comunicato del 28 settembre, gli esperti dell’Onu scrivono che: “l’espressione artistica di un’opinione (…) attraverso canzoni o altri mezzi (…) è protetta dalla legge Internazionale (…)”. “L’applicazione della pena di morte per espressioni artistiche - dice ancora il comunicato - è una violazione flagrante della legge Internazionale dei diritti umani”. Non è accettabile che oggi, nel 2020, Yahaya possa essere impiccato per aver scritto e cantato una canzone, per aver espresso una sua idea, un suo pensiero dandogli voce. Non è un delinquente, non ha fatto del male a nessuno, non merita di essere trattato come il peggiore dei criminali. Non è possibile che ancora oggi fazioni religiose pretendano la pena capitale per blasfemia (al di là della inaccettabilità della pena di morte in sé); e che questo bellissimo ragazzo di 22 anni non possa tornare a cantare.