Il criminologo Giulini: “Cambio gli uomini violenti, riparano il male che hanno fatto” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 12 ottobre 2020 Il presidente del Centro italiano per la promozione della mediazione, cooperativa sociale fondata 25 anni fa: “Cerchiamo di capire cosa produce un atto lesivo e come lavorare con chi lo commette”. “Cominciò tutto alla fine del 1995. Finii casualmente fra detenuti per reati sessuali nel carcere di Sondrio. C’era gente che si diceva innocente, che “io non ho fatto niente”, che “il giudice ha sbagliato”. Tutti in lacrime con il fazzoletto in mano a spiegarmi quanto fossero perseguitati, tutti livorosi verso la giustizia che li aveva mandati in prigione. Mi sono detto: a cosa serve il mio impegno di criminologo clinico con questi signori? A cosa serve il sistema penale se poi restituiamo al mondo persone rancorose e arrabbiate? Ho perfino pensato di cambiare lavoro...”, racconta Paolo Giulini, presidente del Centro italiano per la promozione della mediazione. Invece ha resistito alla tentazione... “Beh, sì. Perché fra quelle persone mute sulle loro responsabilità un giorno si è inserito un caso che mi ha aperto la prospettiva e mi ha spiazzato”. Ce lo racconta? “Uno di questi signori venne a raccontarmi un sogno. Il soggetto era il fratello maggiore. Era un racconto di abusi e lui lo descriveva come un gigante dalle mani enormi, ricordo che ondeggiava con la testa descrivendo gli schiaffi ricevuti nel sogno. Ovviamente era il resoconto di una realtà vissuta tanti anni prima, quella storia mi colpì molto perché partendo dal sogno quell’uomo pian piano cominciò a riconoscere quel che c’era scritto nella sentenza, ammise le sue condotte aggressive, le violenze sessuali sulla figlia di 13 anni... Il “non è vero” dell’inizio diventò consapevolezza”. Quindi si convinse a non mollare... “Esatto. Ho pensato: allora c’è il modo di aprire delle crepe nella negazione. Possiamo lavorarci! Ed è così davvero: si può lavorare sulla storia personale di chi commette atti violenti, sui traumi, sulle negligenze dello sviluppo. Si può trovare il modo perché queste persone tocchino con mano la gravità delle loro condotte, perché la capiscano e non la replichino”. Parliamo delle vittime... “Le vittime sono al centro di tutto questo ragionamento”. In che senso? “Nel senso che non si può restituire ai violenti la possibilità di tornare alla società senza passare dalla giustizia riparativa che mette al centro proprio le vittime. La chiave di tutto è lei, la riparazione, dove per riparare si possono intendere tante cose, a cominciare dal fatto che hai capito fino in fondo il disvalore del tuo comportamento, che hai risarcito il danno, che puoi, sai e vuoi fare azioni che tengano conto delle esigenze della vittima. Si può arrivare anche all’interazione fra il reo e la vittima, o la sua famiglia”. Lei è docente di Psicologia dello Sviluppo all’Università Cattolica di Milano ed è presidente del Cipm. Che cos’è esattamente il Centro italiano per la promozione della mediazione? “È una cooperativa sociale nata nel 1995 e che oggi conta una ventina di operatori di area clinica e criminologica. Ci occupiamo della sofferenza dell’uomo. Scomponiamo un atto lesivo, cerchiamo di capire che cosa produce e come lavorare con chi lo ha commesso. Promuoviamo la gestione pacifica dei conflitti attraverso la mediazione che ripeto, non è il nostro focus ma uno strumento per applicare la giustizia riparativa”. Lavorate soltanto nelle carceri? Solo sui reati sessuali? “No. Siamo in diverse carceri ma anche sul territorio, per esempio a Milano gestiamo il presidio criminologico territoriale del Comune. Ci occupiamo di violenze nelle relazioni strette, prevalentemente stupri, maltrattamenti, violenza di genere e stalking. Lo facciamo sia come prevenzione sia a fine pena, come funzione riparativa. Dopo di noi il nostro modello è tato promosso in varie regioni”. Quanti gruppi seguite? “In tutto 34 a settimana, compresi quelli per i parenti degli autori delle vittime. Anche loro tendono a negare che il loro caro sia un mostro...”. Una storia che ha seguito e non è andata come avrebbe voluto... “Per esempio un ragazzo conosciuto a San Vittore. Aveva commesso sei abusi sui treni, lo chiamavano il mostro dei treni. All’inizio è stata durissima ma con il tempo si è sciolto. Un giorno mi ha detto: se non mi avessero fermato sarei diventato un killer seriale. Ha fatto un buon percorso con noi, al punto da diventare un alleato perché aiutava i nostri operatori nei colloqui per smantellare la negazione di altri violenti come lui. Ma c’è stato un episodio improvviso che lo ha fatto scompensare ed è diventato un paziente psichiatrico. Io mi ci sono affezionato. Oggi mi dice di sentirsi un funambolo, continuamente in sospeso sul rischio della recidiva”. C’è qualcosa che la emoziona nel lavorare con queste persone? “Sì. Mi commuovo sempre quando vedo che c’è qualità umana nelle persone che trattiamo. Ci fu un uomo, un pedofilo, che dopo due anni di trattamento un giorno venne al gruppo e disse: ho capito che per tutta la vita avrò bisogno di un corrimano. Ecco, quella frase mi ha restituito dignità operativa. Noi siamo il corrimano, ma da soli non bastiamo. Serve che lui lo capisca e quella diventa la sua qualità umana”. Ha mai a che fare con stupratori non guaribili? “Ho avuto a che fare con persone che hanno dichiarato il lutto della sessualità, il “non c’è niente da fare, devo chiudere col sesso”. Un signore in un gruppo mi disse: “appena penso al sesso so che sono a rischio reato”. Non era obbligato a partecipare al gruppo, ma veniva lo stesso per provare a controllarsi. Abbiamo anche persone che vengono senza aver mai commesso nessun atto violento: sentono pulsioni e capiscono di essere a rischio”. Tutto questo anche durante il lockdown? “In presenza o su video non importa: non ci siamo mai fermati. Abbiamo colto l’assoluto bisogno di non interrompere e non lo abbiamo fatto”. È vero che per chi segue i vostri trattamenti il rischio di recidiva è molto basso? “Un dato per capire: dal 2005, cioè da quando esiste l’Unità di trattamento intensificato per autori di reati sessuali nel carcere di Bollate, abbiamo trattato 317 detenuti; le recidive sono state undici”. E il vostro lavoro sulla violenza domestica? “Collaboriamo con il protocollo Zeus della dottoressa Alessandra Simone, la dirigente dell’Anticrimine di Milano che lo ha ideato. La polizia invita i maltrattanti alla prima avvisaglia a venire da noi e l’87% di loro viene. Siamo spesso in una fase molto precoce di violenze che possono portare a un femminicidio, intervenire subito è fondamentale. In questo genere di reati c’è da lavorare su fattori culturali radicati, sull’idea che “se l’è meritato”, che “provocava”, che “deve fare quel che dico io”, che “al mio paese si può fare”. È un lavoro complesso. Posso dire una cosa?” Prego... “Sembrerà strano, ma in questi casi il trattamento è faticoso. Più faticoso che mai”. L’accusa di Palamara: “Pago io per tutti, da indagato ho capito molte cose…” di Paolo Comi Il Riformista, 12 ottobre 2020 “Mi iscrivo al Partito Radicale”. La nuova vita di Luca Palamara, da ieri ex magistrato, inizia nella sede del Partito Radicale. Terminato il processo disciplinare al Csm che ha sancito la sua rimozione dall’ordine giudiziario, Palamara si è recato ieri pomeriggio nella storica sede di piazza Argentina a Roma per rispondere in una conferenza stampa improvvisata alle domande dei giornalisti e per mandare dei segnali ai tanti colleghi che fino al giorno prima gli chiedevano favori ed ora fanno finta di non conoscerlo. “Porto e porterò sempre la toga nel cuore”, ha esordito visibilmente emozionato l’ex presidente dell’Anm ed ex zar indiscusso delle nomine a Palazzo dei Marescialli. “Mi ha sempre contraddistinto - ha proseguito - l’equità, il senso civico e la legalità, valori che metto ora a disposizione del Partito Radicale”. Dopo aver affermato di essere pronto a ricorrere alla Corte dei diritti dell’Uomo per veder garantiti i propri diritti, Palamara ha iniziato a togliersi qualche sassolino dalle scarpe, lanciando messaggi ai “naviganti” delle Procure. “La mia carriera è stata messa in discussione per una cena con un parlamentare” senza che ci fosse alcuna “traccia di nominare un procuratore che potesse aggiustare i processi”. Riferimento alla cena avvenuta all’hotel Champagne di Roma l’8 maggio del 2019 in presenza del deputato dem Luca Lotti, ex ministro dello Sport ed imputato a Roma nel processo Consip. Secondo l’accusa, infatti, Palamara avrebbe brigato con alcuni consiglieri del Csm per nominare il procuratore generale di Firenze Marcello Viola a procuratore della Capitale al posto di Giuseppe Pignatone, all’epoca appena andato in pensione. Viola, una volta nominato, avrebbe quindi dovuto aiutare Lotti nella sua vicenda giudiziaria. L’accusa, però, non ha mai portato alcuna prova di questo accordo. E neppure che Viola fosse a conoscenza di ciò. “Conosco bene i rapporti fra politica e magistratura negli ultimi venti anni avendo svolto un ruolo da protagonista”, ha aggiunto Palamara, toccando l’argomento delle correnti. “Pago per tutti, per un sistema che non funziona, un sistema obsoleto che penalizza i non iscritti. I segretari delle correnti entrano Csm e danno disposizioni su chi nominare”, ha affermato, puntualizzando che non ha comunque voglia di “passare per vittima”. “Ho sempre frequentato politici, era funzionale per le tematiche che dovevo affrontare”. E poi, “il sistema delle correnti domina la magistratura da circa quaranta anni. Vive di accordi prevalentemente fatti a sinistra con Area (il potente gruppo progressista della magistratura di cui fa parte Magistratura democratica, ndr). Quando ci sono stati spostamenti a destra sono venuti fuori i problemi”. Non poteva mancare un accenno al famigerato trojan “che ha raccontato solo quello che è avvenuto durante la cena dell’hotel Champagne. Una foto parziale”. La pubblicazione delle chat che raccontavano degli accordi sulle nomine “hanno molto infastidito all’interno della magistratura e mi duole aver letto che ho assunto una difesa che non dovevo”. Una stoccata, dunque, ai colleghi che, come detto, hanno preso immediatamente le distanze. Come nelle migliori tradizioni, il meglio è arrivato al termine della conferenza stampa. “Sono in grado di raccontare degli accordi avuti con i politici per le nomine e di tante situazioni simili, e sono pronto a mettere a disposizione il materiale che ho in mio possesso”. Nella nuova veste di aderente al Partito Radicale, infine, Palamara ha toccato due moloch: la separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale, considerati “un mantra in magistratura”. “Da indagato ho capito tante cose”, ha quindi concluso. Quella fuga di notizie sul destino di Davigo che preoccupa il Csm di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 ottobre 2020 Il parere segreto dell’Avvocatura dello Stato finisce sui giornali. Il tanto atteso parere dell’Avvocatura dello Stato sulla permanenza di Piercamillo Davigo al Consiglio superiore della magistratura anche quando sarà andato in pensione è, dunque, negativo. La notizia, non smentita, è stata data questa settimana dal quotidiano La Stampa. Il parere era arrivato a Palazzo dei Marescialli nella giornata di venerdì scorso ed era stato immediatamente “secretato” dal vice presidente del Csm David Ermini. Il parere, desecreatato, verrà discusso lunedì prossimo dalla Commissione verifica titoli. Successivamente sarà la volta del Plenum. La data è già in calendario: 14 ottobre. È l’ultimo Plenum disponibile prima del 20 ottobre, giorno in cui Davigo compirà settanta anni e sarà collocato a riposo per sopraggiunti limiti di età. Era stata la Commissione verifica titoli, in quell’occasione presieduta dalla togata di Magistratura indipendente Loredana Micciché, a voler interessare della questione l’Avvocatura dello Stato. La decisione era avvenuta a maggioranza in quanto il laico pentastellato Alberto Maria Benedetti aveva deciso di astenersi, non concordando sull’opportunità di chiedere all’esterno un parere che poteva essere fornito dall’Ufficio studi di piazza Indipendenza. La presidente Micciché a tale osservazione aveva risposto ricordando che in caso di contenzioso amministrativo l’Avvocatura dello Stato difende “ex lege” l’operato del Csm. Data la delicatezza della questione, il rischio ricorsi è altissimo. Sia da parte di Davigo in caso dovesse essere dichiarato decaduto, o da parte del primo dei non eletti, il giudice di Cassazione Carmelo Celentano, all’epoca candidato nelle liste di Unicost. Il voto avverrà a scrutino segreto. Considerati gli equilibri fra le correnti e i consiglieri laici, il destino di Davigo è nelle mani dei vertici della Corte di Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio ed il procuratore generale Riccardo Fuzio, e del vice presidente del Csm David Ermini. Non essendoci in passato casi analoghi, il voto su Davigo creerà un precedente. In caso dovesse passare la tesi favorevole alla permanenza di Davigo, in futuro il Csm potrebbe essere composto anche da tutti magistrati in pensione. Sarebbe sufficiente essere in servizio fino al momento dell’elezione. Csm, le toghe di Area: “Sulla permanenza di Davigo garantire voto palese” Il Dubbio, 12 ottobre 2020 La corrente progressista della magistratura chiede trasparenza e dibattito pubblico sui due casi all’esame del Csm. Garantire dibattito pubblico e voto palese sui due casi che saranno all’esame del Consiglio superiore della magistratura la prossima settimana, che devono essere trattati separatamente: la permanenza di Piercamillo Davigo dopo la pensione e la sostituzione di Marco Mancinetti, il togato che si è dimesso a settembre dopo che è stata avviata a suo carico l’azione disciplinare. A chiederlo è il coordinamento di Area democratica per la giustizia. “Il Csm si accinge ad assumere le proprie determinazioni sulle conseguenze del pensionamento del consigliere Davigo e delle dimissioni del consigliere Mancinetti. Riteniamo che le due questioni debbano essere trattate separatamente affinché la decisione dell’un caso non venga ad essere contraltare dell’altro”, si legge in una nota di Area. “Auspichiamo che il plenum del Csm possa adottare la deliberazione finale attraverso un dibattito pubblico ed un voto palese - sottolineano le toghe progressiste - affinché le ragioni del voto e delle relative posizioni siano il più possibile intellegibili e trasparenti”. A giudizio di Area “sono due questioni oggettivamente complesse che devono essere affrontate e risolte attraverso l’interpretazione delle norme esistenti senza che le relative decisioni possano essere influenzate da argomenti di tipo personalistico, da logiche di schieramento o da calcoli strategici. Si tratta di temi che investono la composizione di un organo di rilievo costituzionale che pertanto chiamano tutti al più alto senso di responsabilità”. Sentenza anticipata, lo strumento nato con Tangentopoli e utilizzato ancora oggi di Fabrizio Cicchitto Il Riformista, 12 ottobre 2020 Ha distrutto Cosentino e colpito Renzi e Salvini. Caro direttore, il suo è stato l’unico quotidiano che ha dato risalto nei titoli, nelle foto, negli articoli all’assoluzione di Nicola Cosentino. I grandi quotidiani hanno relegato la notizia in uno spazio che era visibile solo per chi la conosceva già e l’andava a cercare. Il Fatto Quotidiano ha balbettato. Saviano non pervenuto. Guai, però, se trattiamo questi episodi e altri (la richiesta di condanna a 8 anni per Nunzia De Girolamo e anche i guai giudiziari di Renzi e di Salvini) come una serie di singoli episodi. No, essi e molti altri rientrano nel fatto che dal 1992-1994 i Pm e il circo mediatico ad essi collegato hanno conquistato il potere in questo paese. Ciò è derivato da una serie di operazioni concatenate che hanno portato al quasi totale cambiamento del sistema politico, dei soggetti politici, dei leaders del nostro paese. Questa operazione, non per banalizzarne lo spessore che è profondo, ma per cogliere lo strumento “attuativo” che è stato adottato dal 1992 in poi, avendo come retroterra la congiunzione fra l’iniziativa giudiziaria e l’impatto mediatico (che è fondamentale) ha preso il nome di “sentenza anticipata”. Il termine è stato brillantemente spiegato dal “cervello” di Mani Pulite che è stato il procuratore Borrelli. In un libro intervista Borrelli ha spiegato cosa si intende per “sentenza anticipata”. Noi la traduciamo in pillole. “Se io Pm invio a te uomo politico, che come tale hai un fondamentale problema di prestigio nei confronti della pubblica opinione e di consenso nei confronti dei cittadini elettori, un avviso di garanzia (il massimo degli effetti sarebbe una bella custodia cautelare) sparato dai maggiori quotidiani, dal quotidiano locale e da alcune televisioni il gioco è fatto: tu sei azzerato come personalità politica sia sul terreno del prestigio che del consenso e a quel punto la sentenza è stata data. Se poi dopo sette anni tu sei assolto con sentenza definitiva dalla magistratura giudicante ciò vale per la tua biografia personale, ma è insufficiente sul piano politico: da tempo prestigio e consenso sono evaporati. Se un’operazione siffatta poi non colpisce solo il “leader maximo” di un partito, ma viene estesa a 1.000-2.000 dirigenti nazionali e locali come negli anni ‘92-’94 avvenne per la DC e per il PSI (per il PRI, il partito degli onesti secondo Giorgio La Malfa, il PLI, il PSDI bastò colpire i segretari) ecco che il centro-destra della DC (la sinistra DC venne risparmiata) e l’intero PSI sono stati azzerati. Allora prima di parlare di Nicola Cosentino, e anche di Nunzia De Girolamo, non si può non fare un passo indietro e tornare da dove tutto è partito, cioè da Mani Pulite. Ora, quale fu l’operazione eversivo-rivoluzionaria messa in atto da Mani Pulite? Una cosa semplicissima. Da sempre, dalla fondazione della repubblica tutti i partiti si sono finanziati in modo irregolare. La DC e i partiti di governo erano finanziati dalla FIAT, dall’Assolombarda, dalla Montecatini, poi dalle industrie a partecipazioni statali, addirittura l’ENI con Enrico Mattei e Albertino Marcora tenne a battesimo la sinistra di Base che ha svolto un ruolo politico fondamentale nella DC. A sua volta il PCI ha avuto fino agli anni ‘80 enormi finanziamenti dal KGB, poi dalle cooperative rosse, ma anche da privati, una rete di società import-export per privati italiani e per paesi comunisti dell’Est e ha goduto di una permanente rendita petrolifera proveniente dall’ENI di cui ha parlato diffusamente Gianni Cervetti nel suo libro L’oro di Mosca. Il PSI fino all’avvento di Craxi è stato finanziato dal maggiore partito alleato, ai tempi del frontismo attraverso il PCI, dal KGB e dalle cooperative rosse, ai tempi del centro-sinistra attraverso la DC, da aziende dell’Iri e dall’ENI, più imprenditori privati, qualche amico personale di Pietro Nenni, come il vecchio Rizzoli. Gli uni sapevano degli altri. Cossiga ha ricordato che il ministero dell’Interno seguiva gli “scambisti” che traducevano in lire i rubli e i dollari che provenivano dall’URSS al PCI. Parliamoci chiaro: se il metodo e le scelte del pool di Mani Pulite fosse stato adottato nella prima fase della Prima Repubblica De Gasperi, Fanfani, Andreotti, Saragat, Malagodi, La Malfa, Nenni, Morandi, Togliatti, Secchia, Amendola avrebbero avuto guai giudiziari assai seri. Poi quando andò avanti la politica di unità nazionale (‘76-’79) e comunque diminuì la tensione fra gli USA e l’URSS, si arrivò anche a operazioni di finanziamento comuni: ad esempio in Italstat venivano gestiti gli appalti per le grandi opere pubbliche: le grandi imprese private e pubbliche dell’edilizia gestivano di comune intesa a rotazione l’assegnazione degli appalti. Da un certo momento in poi alle cooperative rosse fu riservata una quota oscillante fra il 20 e il 30%. Bene, ad un certo punto, specie dopo la sottoscrizione del trattato di Maastricht che imponeva mercato e libera concorrenza, il sistema di Tangentopoli risultò antieconomico. In più con il crollo del muro di Berlino (1989) e la fine del PCUS (1991) i grandi gruppi privati italiani riconobbero sempre meno il ruolo dei partiti, in primis della DC e del PSI. Allora, in uno Stato normale si sarebbe dovuto fare una grande operazione consociativa, magari anche con un’amnistia, nella quale tutto il sistema del finanziamento irregolare veniva smontato, casomai rafforzando il finanziamento pubblico e realizzando una rigorosa regolamentazione dei partiti (art. 49 della Costituzione) per assicurare la democrazia interna. Avvenne tutto il contrario. Un’amnistia ci fu, nel 1989, ma essa servì a preservare il PCI da azioni giudiziarie derivanti dall’enorme finanziamento del KGB di cui aveva goduto. Dopodiché c’è stato il più assoluto arbitrio, due pesi e due misure. Il nucleo originario del circo mediatico-giudiziario che ha dato vita a Mani Pulite è stato costituito dal pool dei Pm di Milano, con gip annesso, dai quattro principali quotidiani (Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Unità) i cui direttori o loro incaricati si sentivano ogni sera alle 19 per concordare titoli e aperture sulla base degli input provenienti dal pool dei Pm, il Tg3 (Sandro Curzi già direttore di Radio Praga), Samarcanda (Santoro), le reti Mediaset che Berlusconi aveva messo a disposizione del pool per evitare i guai giudiziari che stavano colpendo gli imprenditori amici di Craxi (arresto di Salvatore Ligresti). Al suo decollo il circo mediatico-giudiziario non aveva rapporti politici preferenziali neanche con il PCI: quello che voleva era smontare il ruolo e l’influenza dei partiti. Sono stato personalmente testimone della preoccupazione, anzi dell’angoscia di qualcuno dei massimi dirigenti del PDS che sapeva benissimo che il loro partito faceva parte del sistema del finanziamento irregolare. Non a caso al centro delle preoccupazioni era specialmente il PDS di Milano: poco dopo fu arrestato Cappellini, segretario della federazione, berlingueriano di stretta osservanza, non migliorista. Adesso è emerso che Cuccia interpellò Craxi perché lanciasse un’operazione di leadership personale di stampo gollista: Craxi rifiutò perché si sentiva di appartenere al sistema dei partiti e così segnò la sua rovina, in breve tempo divenne “il cinghialone”, colui che impersonava quel sistema politico-partitico che doveva essere smontato con le buone o con le cattive. Per una fase specialmente Borrelli - il più colto e aristocratico del pool - accarezzò il disegno che ad un certo punto Scalfaro chiamasse un nucleo di magistrati a svolgere un ruolo di supplenza politica nella guida dello Stato. Scalfaro non se la sentì e a quel punto ebbe buon gioco il vice di Borrelli Gerardo D’Ambrosio, da sempre esplicitamente comunista, a spingere il pool ad un’alleanza con il PDS, visto che già nel passato il partito era stato alleato della magistratura sul terrorismo e nella lotta alla mafia. Così avvenne (e, dopo essere andato in pensione, D’Ambrosio per 3 legislature è stato eletto parlamentare del PDS). Quindi da un certo momento in poi scattò l’alleanza fra il pool e il PDS. L’alleanza non escludeva che esponenti locali o dirigenti delle cooperative fossero perseguiti. Essa però escludeva che venissero colpiti i massimi dirigenti nazionali: Craxi e Forlani non potevano non sapere, Occhetto e D’Alema potevano non sapere. L’operazione fu smaccata nel caso Enimont. Malgrado che è risultato che Gardini si era recato in via delle Botteghe Oscure portando una valigetta con un miliardo e che Sama e Cusani che avevano partecipato all’operazione sono stati condannati come corruttori, invece nessun corrotto è stato perseguito. “E che mandavo l’avviso di garanzia al signor PCI?”, si è domandato quel garantista del Pm Antonio Di Pietro. Successivamente - registriamo la concomitanza solo in termini oggettivi - egli fu eletto dal PDS nel Mugello e poi il suo partito, Italia dei Valori, fu l’unica formazione politica ammessa da Veltroni in alleanza alla lista del PD. Allora, partendo da questa scelta, in Italia si è verificata una cosa unica in Europa: ben cinque partiti rappresentati da sempre in parlamento sono stati eliminati non dal voto degli elettori, ma dal circo mediatico-giudiziario. Altre forze politiche, pur facendo anch’esse parte del sistema del finanziamento irregolare, cioè il PDS e la sinistra democristiana, non sono state perseguite. C’era il problema dei grandi gruppi imprenditoriali che del sistema di Tangentopoli erano stati parti fondamentali: Valletta fu insieme a Enrico Mattei uno dei fondatori del sistema di Tangentopoli. La questione fu risolta attraverso il ricorso inusitato nella procedura penale con le lettere di Romiti per la FIAT, di Carlo De Benedetti per la CIR che confessavano una serie di tangenti presentandosi come dei poveri concussi prevaricati e costretti dai politici, quei terribili concussori. Se Curzio Malaparte potesse scrivere una nuova edizione del suo libro Tecnica di un colpo di Stato, dovrebbe aggiornarlo: senza un carro armato, senza spari in Italia negli anni ‘92-’94 è stata attuata un’autentica rivoluzione (o eversione), perché il sistema del finanziamento irregolare riguardava tutti i partiti, senza eccezione alcuna, e tutti i grandi gruppi privati e pubblici, e il pool di Mani Pulite, invece, ha colpito alcuni e salvato altri, acquisendo però per sé e per tutta la categoria un potere enorme. Le cose non si sono fermate lì. Fino a quando Berlusconi ha fatto l’imprenditore e ha messo le sue televisioni a disposizione del pool non è stato nemmeno sfiorato da un avviso di garanzia. Invece quando è sceso in politica è iniziato un autentico bombardamento giudiziario, già nel 1994 e continuato fino al 2013, con la sua estromissione dal Senato. Purtroppo, in quegli anni non funzionava il trojan: se avesse funzionato, sarebbe risultato che Palamara è un untorello, che si occupava di promozioni e spostamenti e per parte sua ha solo sfiorato verbalmente Salvini. I suoi predecessori hanno fatto ben altro, hanno sconquassato governi (il governo Berlusconi nel 1994, involontariamente, per colpire Mastella, quello di Prodi nel 2008), ministri, parlamentari. Ovviamente i colpi non hanno riguardato solo Berlusconi, ma sono scesi “per li rami”. Cosentino aveva la gravissima colpa di aver fatto fare a Forza Italia in Campania passi da gigante sul terreno dei consensi. Per questo è entrato nel mirino e oramai, fra abuso in atti d’ufficio, concorso esterno in associazione mafiosa, traffico d’influenze illecito è facilissimo, specie nel Sud, da parte dei Pm più aggressivi e faziosi azzerare un uomo politico. Per di più, genialmente il governo Letta ha eliminato il finanziamento pubblico, ma, come ha dimostrato il trattamento riservato ad alcuni dei finanziatori della fondazione di Renzi, è facilissimo affermare che un contributo privato deriva da precisi interessi economici perché una (determinata) operazione economica viene gestita o influenzata dalla personalità politica a cui quella fondazione fa riferimento. Nunzia De Girolamo è la vittima di una “coda” del bombardamento su chiunque facesse parte del mondo berlusconiano. Un sistema così perverso non poteva non produrre una distruzione della politica intesa nella sua dimensione “alta” e per ciò che riguardava la qualità della classe politica. I grillini sono il prodotto finale di questa distruzione della politica e della qualità della classe politica. Il paradosso è che ciò sta avvenendo quando l’Italia deve affrontare la più grave crisi della sua storia dal 1945, una pandemia finora senza vaccino che sta provocando migliaia di morti (finora 36.000 morti, di cui 180 medici: queste cifre se le devono mettere bene in testa i grotteschi negazionisti che fra luglio e agosto hanno fatto danni a non finire anche fornendo ai giovani pessimi esempi) e una gravissima recessione. Quindi oggi l’Italia affronta recessione e pandemia con la più mediocre classe politica della sua storia. Ciò riguarda sia la maggioranza (con qualche eccezione individuale nel PD e in Italia Viva), sia l’opposizione (anche in questo caso con una serie di eccezioni individuali). Parla Maniero, l’ex boss del Brenta: “Abbiamo ucciso ma conoscevamo onore e lealtà” di Silvia Mancinelli adnkronos.com, 12 ottobre 2020 “Quarant’anni fa vigeva un ordine imperativo: mai creare allarme sociale”. “Non perché fossimo virtuosi, ma perché lo ritenevamo sconveniente: sarebbero arrivate più forze dell’ordine, più magistrati e la lotta contro di noi sarebbe stata molto più intensa”. Inizia così la lunga lettera scritta da Felice Maniero all’Adnkronos dal carcere di Pescara. “Faccia d’angelo”, capo indiscusso della Mala del Brenta, è tornato dietro le sbarre esattamente un anno fa con l’accusa di aver maltrattato la compagna. Martedì prossimo siederà davanti alla I sezione penale della Corte di Appello di Brescia per il processo, difeso dall’avvocato Rolando Iorio già legale di Angelo Izzo. “Mi scusi per l’orribile disordine - scrive a penna - la prego di correggere l’ortografia e il testo”. Felice Maniero, il criminale incallito, quello delle rapine e del traffico d’armi, degli omicidi e dell’associazione mafiosa, chiede scusa per gli eventuali errori “nonostante il mio master in terza media - scherza - ottenuto solo perché il preside di quella scuola ormai preistorica mi ha fatto giurare che non mi sarei più fatto vedere in zona”. La mala-vita che lo ha confinato per lo più in celle dalle quali è fuggito, ha chiesto di essere trasferito e ha progettato un’esistenza diversa, era altro rispetto a quella di oggi. “Noi non abbiamo mai permesso estorsioni, pizzi o reati simili in tutto il Veneto - chiarisce l’ex boss oggi 66enne - Ma soprattutto mai abbiamo ucciso appartenenti alle forze dell’ordine. Un esempio su tutti: quando siamo fuggiti dal carcere di Padova avevamo una trentina di agenti penitenziari legati mani e piedi. Essendo tutti ex carcerati, qualche sassolino dalle scarpe se lo sarebbero tolto volentieri. Io non l’ho permesso e premetto che abbiamo commesso 7 omicidi tra bande rivali venete e moltissimi reati gravi nell’arco di trent’anni”. Ma se potesse tornare indietro, lui che con l’acqua purificata si era già immaginato imprenditore ambientalista, cosa farebbe? “Certamente non il criminale - dice Maniero - certo nemmeno l’impiegato (senza offesa per la categoria, aggiunge). Però un lavoro onesto ed eccitante più che volentieri. Ho scoperto un sistema per offrire acqua di qualità, priva di microplastiche, virus e batteri, incluso l’ebola per i paesi in via di sviluppo, senza l’uso di plastiche o derivati a un costo irrilevante. Lo affermo con estrema serietà” ci tiene a precisare. Lui, che ha recentemente ispirato anche una miniserie televisiva, dal carcere lancia un messaggio a un nuovo possibile Faccia d’angelo che si affacci al mondo del crimine: “Non cedere al facile guadagno, ti assicuro che è una stupida menzogna, il guadagno facile non esiste nemmeno in una società onesta, di certo non nel marciume della mafia, ‘ndrangheta o camorra. Se cadi nelle grinfie di appartenenti a una qualsiasi organizzazione criminale diventerai uno schiavo per la vita. Malvagi e imbecilli giuramenti, santini bruciati. Addirittura verrai ribattezzato. Un’infame e ridicola farsa per intrappolare giovani inesperti, attratti da falsi miti per poi rubargli la vita”. “Le carceri sono strapiene di giovani senza un euro appartenenti ai vari clan mafiosi colpevoli di gravi reati con almeno vent’anni o più da scontare. Ti prego - continua il suo appello - non cadere mai e poi mai alle loro infernali trappole. Ti aspetterebbe una vita insanguinata, molta galera da scontare, niente più. Non avrai denaro e o tuoi cari dovranno sostenerti economicamente con un dolore infinito sapendoti in un luogo colmo di sofferenze. Il guadagno facile lo fa solo il boss di turno ma anche loro, prima o poi, finiscono quasi tutti in carcere per non uscire più dal 41bis”. “Ti assicuro che nel crimine organizzato non esistono onore, lealtà, altruismo, verità o amicizie sincere - ribadisce Maniero - solo una lotta senza quartiere tra adepti per accaparrarsi una zona in cui spacciare droga, effettuare omicidi ed estorsioni. Devi sapere che ti daranno, come primo compito, l’ordine di commettere diversi omicidi per dimostrargli che puoi appartenere al loro clan, invece farai esclusivamente un importante e gratuito favore al tuo boss, uccidendo alcuni suoi nemici pericolosi per lui e inizierai la tua ‘auspicata carriera’ con un malvagio imbroglio, commettendo reati che portano all’ergastolo. Immaginando di poter essere tuo papà ti dico: rifiuta e caccia per sempre colui o coloro che ti accenneranno perfide proposte. Se cadi in quel girone infernale, talvolta anche la morte potrebbe essere una scelta migliore”. L’ex boss del Brenta, che dal carcere è evaso tre volte (da Fossombrone nel dicembre 1987, da Portogruaro nel 1989 e da Padova a giugno 1994) liquida Jhonny lo zingaro così: “È sempre stato uno squilibrato barbone, la sua fuga con il ricovero in una baracca abbandonata e l’arresto poi confermano la mia opinione”. Tutt’altra idea su Graziano Mesina: lui, scrive nella lettera, “senza alcun dubbio si era preparato da tempo alla latitanza. È una persona pericolosissima, soprattutto nell’organizzare sequestri di persona, e molto furba. Ritengo che, età permettendo, prepari qualcosa di clamoroso, presumibilmente un attentato alle forze dell’ordine”. Felice Maniero, il male resta sempre male, anche quello più “nobile” di Mauro Leonardi ilsussidiario.net, 12 ottobre 2020 In una intervista Felice maniero rivendica un’attività criminale tutta d’uno pezzo. Ma il male è sempre male e non si tratta. Parola di Felice Maniero dal carcere di Pescara. “Faccia d’angelo”, capo della Mala del Brenta, è tornato dietro le sbarre esattamente un anno fa con l’accusa di maltrattamenti ai danni della compagna. Allo stesso tempo però reclama una sorta di “galateo” che avrebbe contraddistinto la malavita dei suoi tempi. Il criminale protagonista di rapine, traffico d’armi, omicidi e tanto altro dice: “Noi non abbiamo mai permesso estorsioni, pizzi o reati simili in tutto il Veneto. Soprattutto mai abbiamo ucciso appartenenti alle forze dell’ordine. Un esempio su tutti: quando siamo fuggiti dal carcere di Padova avevamo legati mani e piedi una trentina di agenti penitenziari. Essendo tutti ex carcerati, c’era chi qualche sassolino dalle scarpe se lo sarebbe tolto volentieri ma io non l’ho permesso. E premetto che abbiamo commesso 7 omicidi tra bande rivali venete e moltissimi reati gravi nell’arco di trent’anni”. Io penso però che il male sia male e che sia oltremodo pericoloso cercare di ammantare di nobiltà la corruzione: la violenza “di una volta” è sempre violenza, la mafia “di una volta” è sempre mafia. Anzi proprio la mafia, la corruzione, spesso hanno fatto breccia nei cuori di alcuni di noi o non sono state combattute con la dovuta decisione perché si sono presentate come “rimedi” a malfunzionamenti dello Stato, ad ingiustizie vere o presunte che venivano dal “sistema”. Troppo spesso, fino a un attimo prima dello smascheramento finale, il male ha mostrato proprio la “faccia d’angelo” di uno come Felice Maniero ed ha avuto la spavalderia di parlare di sé come se fosse una cosa assolutamente normale. Invece il male è male. Non bisogna anestetizzarsi, relativizzare: proprio chi come me vuole ribadire tutti i giorni la necessità di rispettare le opinioni legittime altrui diverse dalle proprie, anzi a volte antagoniste, è chiamato ad affermare con forza che con il male non bisogna trattare. È uno dei pochi casi in cui bisogna dividere nettamente il bianco dal nero, il sì dal no. Gesù lo insegna nel vangelo quando afferma che con il demonio non si parla mai, neppure quando, per irretire, dice la verità. Come l’indemoniato di Cafarnao: “So bene chi sei, il Santo di Dio!”. Ma Gesù gli intimò: “Taci, esci da costui!” (cfr Lc 4,34-35). Non credo che i parenti delle vittime fatte da Maniero si consolino pensando ai suoi modi cortesi ed educati: potrebbero anzi esserne vieppiù offesi intendendoli come una sorta di ambigua ipocrisia. Avvocato avvisato dell’interrogatorio del detenuto solo il giorno prima: tutto regolare quotidianogiuridico.it, 12 ottobre 2020 Cassazione penale, sezione II, sentenza 21 settembre 2020, n. 26343. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il Tribunale per il riesame aveva rigettato l’appello proposto nei confronti dell’ordinanza che aveva applicato ad un indagato la misura cautelare della custodia in carcere, ritenendo tempestivo l’avviso dell’interrogatorio di garanzia notificato al difensore il giorno prima del compimento dell’atto, la Corte di Cassazione (sentenza 21 settembre 2020, n. 26343) - nel rigettare la tesi difensiva, secondo cui l’avviso dell’interrogatorio di garanzia notificato al difensore 24 ore prima del compimento dell’atto non aveva consentito l’esercizio del diritto di difesa, tenuto conto che l’interrogatorio si svolgeva a 600 km di distanza dal luogo in cui il difensore aveva lo studio - ha invece affermato che dovendosi valutare la effettività delle garanzie difensive esercitabili attraverso l’interrogatorio di garanzia con riguardo alla particolare funzione dell’atto (che e? quella di consentire un immediato contatto tra la persona privata della liberta? ed il giudice che ha emesso la misura sulla base di atti (di regola) non formati in contraddittorio) e non essendovi una disciplina specifica in ordine al termine che deve intercorrere tra l’avviso dell’atto ed il suo compimento, la effettività delle predette garanzie difensive deve essere valutata con riguardo alle circostanze del caso concreto, che devono essere apprezzate con l’obiettivo di verificare se il difensore abbia avuto possibilità di esercitare il suo mandato. Con il sequestro Ue dei conti bancari recupero crediti “esteri” più facile di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2020 Il recupero transfrontaliero dei crediti in materia civile e commerciale diventa più facile. Sarà approvato nei prossimi giorni il decreto legislativo che adegua la normativa italiana al regolamento Ue n. 655/2014 che ha istituito l’ordinanza europea di sequestro conservativo sui conti bancari. L’obiettivo è aumentare la tutela dei creditori, incrementare gli scambi internazionali e favorire la realizzazione del mercato interno. L’ordinanza europea permette infatti al giudice di assicurare l’esecuzione futura del credito mediante il trasferimento o il prelievo di somme detenute dal debitore in un conto bancario attivato in uno Stato membro diverso sia da quello di domicilio del creditore, sia da quello del foro di competenza per la domanda di sequestro. Il Dlgs che ha già ottenuto i pareri parlamentari deve essere ora varato in via definitiva dal Consiglio dei ministri. Le regole - Il regolamento Ue 655/2014 ha introdotto nello spazio giudiziario europeo norme processuali uniformi per tutti gli Stati membri (con esclusione della Danimarca e, prima ancora della Brexit, del Regno Unito) per mettere in campo, a tutela del creditore, uno speciale provvedimento cautelare (l’ordinanza europea di sequestro conservativo di conti correnti bancari), autonomo rispetto ai rimedi cautelari di diritto interno. Il testo, che è affiancato dal regolamento di esecuzione 1823/2006, è direttamente applicabile dal 18 gennaio 2017. L’Italia doveva però ancora inserire alcune regole processuali al fine di permettere il corretto funzionamento della nuova procedura, in linea con quanto previsto dall’articolo 5 della legge 117/2019 contenente la delega al Governo per il recepimento delle direttive europee (legge di delegazione europea 2018). Lo fa adesso con questo Dlgs che ne permetterà quindi il concreto utilizzo. Si tratta infatti di regole norme processuali essenziali per far sì che un giudice di uno Stato membro possa congelare i fondi presenti in un conto bancario che il debitore ha attivato in un altro Paese Ue. L’ordinanza di sequestro sui conti correnti rafforza quindi i diritti dei creditori, mettendo un freno a possibili manovre per sottrarre denaro dai conti nello spazio europeo. Il giudice competente - Uno degli aspetti che doveva essere chiarito era quello del funzionamento nei casi in cui la domanda di ordinanza di sequestro conservativo fosse fondata su un credito risultante da un atto pubblico: il Dlgs precisa che la competenza spetta al giudice del luogo in cui l’atto pubblico è stato formato. Ma il tema cruciale era quello delle acquisizioni delle informazioni sui conti bancari: il Dlgs precisa che la competenza è affidata al presidente del tribunale del luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede e, se queste situazioni non riguardano l’Italia, la competenza è del Tribunale di Roma. Spetta al presidente del tribunale richiedere la ricerca di informazioni con modalità telematiche in modo conforme all’articolo 492-bis del Codice di procedura civile. L’istanza, quindi, deve essere presentata dal creditore, con autorizzazione del presidente del tribunale del luogo in cui il debitore ha domicilio o residenza. Poi spetta all’ufficiale giudiziario procedere all’acquisizione delle informazioni. Le regole interne, tuttavia, sono applicate solo se compatibili con le norme fissate nel regolamento Ue che ha attivato un meccanismo di cooperazione tra autorità emittenti e autorità di informazione del luogo in cui l’ordinanza deve essere eseguita. I ricorsi - L’organo giurisdizionale competente chiamato a decidere sull’azione del debitore contro l’ordinanza europea di sequestro è il giudice che ha emesso il provvedimento, mentre nel caso di opposizione all’esecuzione dell’ordinanza è competente il tribunale del luogo in cui il debitore ha la residenza o la sede. Il Dlgs introduce una tutela per il debitore che, nel caso di attivazione dei mezzi di ricorso, ha diritto a stare in giudizio con l’assistenza di un difensore. Il regolamento non prevede questo obbligo, lasciando spazio, però, agli Stati membri e, quindi, l’intervento del legislatore italiano funzionale a rafforzare il diritto di assistenza in giudizio è compatibile con il diritto Ue. Il testo, in ultimo, fissa gli importi per il contributo unificato che è di 98 euro, con incrementi nei procedimenti di impugnazione. Inoltre, in caso di ricorso del debitore contro l’esecuzione dell’ordinanza di sequestro conservativo, il contributo va da 43 a 1.688 euro a seconda del valore del sequestro. L’emergenza Covid non sdogana la Pec per i ricorsi penali di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2020 Non si può presentare a mezzo Pec il ricorso per Cassazione contro una decisione del Tribunale del riesame per la scarcerazione di un indagato. Nemmeno durante il lockdown. Lo ha affermato la prima sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza 27127 del 29 settembre scorso. Di norma, nel processo penale non è consentito ai difensori e alle parti private l’uso della posta elettronica certificata per la trasmissione dei propri atti alle altre parti né per il deposito presso gli uffici. L’articolo 16, comma 4, del decreto legge 179 del 2012 riserva l’uso di questo mezzo informatico alla sola cancelleria per le comunicazioni richieste dal pubblico ministero e per le notificazioni ai difensori disposte dall’autorità giudiziaria. Un’impugnazione è un atto di parte e non una comunicazione del giudice; non rientra quindi tra quelli per i quali è ammessa la Pec. E, finché non sarà operativo il processo penale telematico, non potranno nemmeno operare le regole del Codice digitale (il Dpr 68 del 2005). Peraltro, per le impugnazioni la giurisprudenza già da tempo richiamava il principio della tipicità delle forme di presentazione, fissate nell’articolo 583 del Codice di procedura penale, che non ammettono equipollenti. L’inoltro con Pec non rientrava tra le forme tipizzate e quindi rendeva il ricorso inammissibile. Questo vale anche quando il difensore deve proporre ricorso al Tribunale della libertà contro le misure cautelari applicate a un suo assistito e quando voglia ricorrere dinanzi alla Cassazione contro un provvedimento del Tribunale della libertà. Infatti, l’articolo 309 del Codice di procedura penale richiama espressamente il principio generale fissato nell’articolo 583 dello stesso Codice. Tuttavia, durante il lockdown, l’articolo 83 del decreto legge 18 del 2020 ha disposto la sospensione delle attività giudiziarie e dei termini processuali, prevedendo ai commi 14 e 15 che le comunicazioni e le notificazioni alle parti fossero effettuate mediante invio all’indirizzo Pec del difensore di fiducia. Al comma 11 ha poi previsto che il ricorso per cassazione nei giudizi civili possa essere inoltrato via Pec. Queste disposizioni e il contesto emergenziale nel quale sono state emanate avevano indotto il difensore di un indagato sottoposto a custodia cautelare, confermata dal Tribunale della libertà, a presentare il ricorso per cassazione contro questa decisione a mezzo Pec. Per il procedimento dinanzi al tribunale al riesame, infatti, non valeva la sospensione delle udienze e dei termini e il difensore ritenne di potersi avvalere delle modalità di comunicazione eccezionalmente introdotte per ridurre i contatti tra gli operatori. Ma la Cassazione ha spiegato che anche le disposizioni contenute nell’articolo 83 del decreto legge 18 del 2020 contengono una deroga insuscettibile di estensione e, poiché nulla è stato disposto per le impugnazioni nei procedimenti penali, la presentazione del ricorso a mezzo Pec deve considerarsi preclusa anche in tempi di Covid. Esigenze cautelari nei reati contro la Pa anche per sospensione o dimissione dal servizio Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2020 Misure cautelari - Personali - Disposizioni generali - Esigenze cautelari - Reato contro la pubblica amministrazione commesso da un pubblico dipendente - Ipotesi di sospensione o dimissione dall’incarico del pubblico dipendente - Pericolo di reiterazione del reato - Configurabilità - Motivazione specifica - Necessità. In tema di reati contro la pubblica amministrazione, l’attualità del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie ex art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., può ritenersi sussistente anche nel caso in cui il pubblico agente risulti sospeso o dimesso dal servizio, purché il giudice fornisca adeguata e logica motivazione in merito alla mancata rilevanza della sopravvenuta sospensione o cessazione del rapporto, con riferimento alle circostanze di fatto che concorrono a evidenziare la probabile rinnovazione di analoghe condotte criminose da parte dell’imputato nella mutata veste di soggetto estraneo all’amministrazione. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 2 ottobre 2020 n. 27292. Misure cautelari personali - Esigenze cautelari - Reati contro la Pa del pubblico dipendente - Sospensione o dimissione dall’incarico del pubblico dipendente - Pericolo di reiterazione del reato - Configurabilità - Motivazione specifica - Necessità - Fattispecie. In materia di reati contro la pubblica amministrazione commessi da soggetti intranei all’apparato amministrativo, il requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, introdotto nell’articolo 274 c.p.p., lettera c), dalla L. 16 aprile 2015, n. 47 deve fondarsi su dati concreti e oggettivi, non meramente congetturali, attinenti al caso di specie, che rendano tale esigenza reale e attuale, cioè effettiva nel momento in cui si procede all’applicazione della misura cautelare. (In motivazione la Corte ha precisato che correttamente è stato ritenuto sussistente il pericolo attuale di reiterazione nei confronti di un imputato sospeso in via cautelare dal servizio, valorizzandosi la pluralità di episodi corruttivi contestati, le modalità di commissione dei fatti e la pendenza di ulteriori procedimenti di analoga natura, indicativi della creazione di una rete di relazioni estesa a diversi settori della pubblica amministrazione). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 10 dicembre 2018 n. 55113. Misure cautelari - Personali - Disposizioni generali - Esigenze cautelari - Reato contro la Pa commesso da un pubblico dipendente - Ipotesi di sospensione o dimissione dall’incarico del pubblico dipendente - Pericolo di reiterazione del reato - Configurabilità - Motivazione specifica - Necessità. Nei reati contro la Pa, anche dopo l’introduzione, nell’art. 274, lett. c), cod. proc. pen., a opera della legge 16 aprile 2015, n. 47, del requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, il giudice di merito può ritenere sussistente il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie pure quando il soggetto in posizione di rapporto organico con la Pa risulti sospeso o dimesso dal servizio, purché fornisca adeguata e logica motivazione in merito alla mancata rilevanza della sopravvenuta sospensione o cessazione del rapporto, con riferimento alle circostanze di fatto che concorrono a evidenziare la probabile rinnovazione di analoghe condotte criminose da parte dell’imputato nella mutata veste di soggetto ormai estraneo all’amministrazione, in situazione, perciò, di concorrente in reato proprio commesso da altri soggetti muniti della qualifica richiesta. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 28 giugno 2017 n. 31676. Misure cautelari personali - Esigenze cautelari - Pericolo di recidiva - Pubblico dipendente - Reati connessi alla carica pubblica ricoperta dall’agente - Dismissione dell’ufficio nell’esercizio del quale il reato è stato commesso - Persistenza del pericolo di reiterazione del reato - Configurabilità - Condizioni - Motivazione puntuale - Necessità. In tema di esigenze cautelari determinate dal pericolo di reiterazione di comportamenti delittuosi analoghi a quelli già contestati, sebbene l’allontanamento dal posto di lavoro e dalle funzioni dell’indagato per fatti di reato commessi nel contesto della funzione esercitata, se non esclude di per sé l’esigenza cautelare indicata dall’articolo 274, comma 1, lettera c), del Cpp, costituisce tuttavia un fatto che, per la sua rilevanza, può essere svalutato solo sulla base di precise circostanze e non su quella di presunzioni tratte da situazioni pregresse e superate dall’evolversi dei fatti. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 28 giugno 2017 n. 31676. Campania. Conferenza dei Garanti: nelle carceri regionali 400 detenuti di troppo di Viviana Lanza Il Riformista, 12 ottobre 2020 Più di 400 detenuti in più nelle carceri campane. È l’ultimo dato sul sovraffollamento nei quindici istituti di pena della Campania, la fotografia più aggiornata del sistema penitenziario che pone la nostra regione in cima alla classifica, seconda solo alla Lombardia, per numero di detenuti. Cosa fare? Se ne è discusso alla conferenza nazionale dei garanti che quest’anno, su iniziativa del garante regionale Samuele Ciambriello, si svolge a Napoli. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha inviato una lettera promettendo grandi investimenti e “l’impegno ad ampliare progressivamente le opportunità lavorative e di inclusione sociale a beneficio dei detenuti”. Il sottosegretario Andrea Giorgis ha spiegato l’intenzione del governo di puntare a “investimenti nell’assunzione e nella formazione di personale”, “investimenti nelle strutture perché non si possono offrire percorsi trattamentali efficaci se non ci sono strutture adeguate” e “investimenti in presidi sanitari per il diritto alla salute dei detenuti, anche quelli al 41bis”. La speranza di chi ha a cuore le tematiche del carcere è che dalle parole si passi ai fatti senza dover attendere tempi biblici. Intanto in carcere si continua a morire: dall’inizio dell’anno si sono verificati 44 suicidi nelle celle italiane, otto dei quali in Campania. “Con il primato negativo riguardante il sovraffollamento - commenta Ciambriello - si continua a parlare da Nord a Sud del piano incompiuto per il carcere di Nola, pensato nel 2015 e ancora in una fase di progettazione preliminare. Dunque - aggiunge il garante campano - a coloro che ritengono che la risposta alla questione della detenzione sia rappresentata dalla costruzione di nuove carceri e non da un maggiore accesso alle pene alternative, ricordo che occorre fare i conti con la lentezza burocratica delle procedure, anche per evitare lo scandalo delle cosiddette carceri d’oro”. Dici carcere e pensi alle mille contraddizioni dei luoghi di pena, che in Campania si sommano a quelle di un territorio sempre in bilico tra grandi emergenze ed esperienze di eccellenza. La popolazione attualmente presente in Campania è di 6.475 detenuti, di cui 308 donne e 134 stranieri, mentre la capienza regolamentare delle strutture sarebbe in totale di 6.062 persone. Il carcere militare di Santa Maria Capua Vetere ospita 58 detenuti, l’istituto penale per minori di Nisida conta 30 ragazzi reclusi, 25 quello di Airola. Quanto all’esecuzione penale esterna, secondo i dati aggiornati a pochi giorni fa, l’ufficio ha in carico 6.440 persone. Non è tutto. Le quattro strutture Rems presenti in Campania (sono strutture sanitarie che accolgono autori di reati affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi) hanno una capacità di accoglienza di circa 68 posti. In questa realtà trova spazio da tre anni il polo universitario penitenziario regionale, una luce nel buio. Il polo ha sede nel carcere di Secondigliano e tra i 57 già immatricolati e i 54 nuovi iscritti è arrivato quest’anno a 106 studenti detenuti. Nel corso del 2019 sono stati attivati 23 corsi di formazione professionale che hanno coinvolto 236 iscritti nei vari istituti della regione, esempio di investimento in formazione in un’ottica di reinserimento sociale dei detenuti. Ma non basta. Le criticità continuano a essere tante e l’ha ribadito Stefano Anastasia, garante dei detenuti di Lazio e Umbria aprendo i lavori della conferenza che si chiuderà oggi. “La pandemia ha fatto cadere il tabù della tecnologia nelle carceri”, afferma. Ora tocca abbattere gli altri Santa Maria C.V. (Ce). “I detenuti avevano dei bastoni”, la scusa per il pestaggio non regge di Nello Trocchia Il Domani, 12 ottobre 2020 Sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile un’altra pagina oscura riguarda il materiale ritrovato nella perquisizione. C’erano o no i bastoni? Quanti? E chi li ha portati? La vicenda oscura inizia dalle ragioni che hanno motivato quella spedizione e termina con i dubbi sul materiale ritrovato. C’è un’altra oscura vicenda che aggrava quanto già emerso sui fatti accaduti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il 6 aprile scorso. Quel giorno 300 poliziotti penitenziari sono entrati nell’istituto Francesco Uccella e le perquisizioni programmate si sono trasformate in pestaggi e violenze nei confronti dei detenuti del padiglione del Nilo, rei di protesta e di richiesta di protezione per la notizia del primo contagiato in carcere. La storia oscura inizia con le ragioni che hanno motivato quella spedizione e si conclude con i dubbi sul materiale trovato. Dal confronto tra interrogazioni parlamentari emergono fonti ufficiali, testimonianze, versioni contrastanti. C’erano bastoncini o no? Quanti? E chi li ha portati? “Non è vero che abbiamo fatto i bastoni”, ci ha detto un ex prigioniero picchiato il 6 aprile, ora libero di raccontare cosa è successo. “Non abbiamo avuto niente, abbiamo solo sofferto, sono i classici” pezzi di supporto “a giustificare gli abusi”. Della violenza del 6 aprile, come abbiamo rivelato, ci sono video che mostrano le percosse, le aggressioni. Ci sono immagini di detenuti inginocchiati, trascinati, picchiati da bande di quattro, cinque poliziotti. Tra i detenuti picchiati c’è anche un disabile; un altro, invece, è stato picchiato, messo in isolamento e, dopo un mese, è morto. Già soffriva di altre malattie. Nessuno vuole rispondere ufficialmente alle nostre domande, anche se la direzione del carcere ci informa che le nostre indagini sono considerate “articolate”, opinione condivisa anche da alcuni sindacalisti. In attesa che si rompa il muro del silenzio, si moltiplicano i punti da chiarire attorno al film horror andato in scena il 6 aprile. L’olio bollente e il magistrato - La prima questione irrisolta riguarda le ragioni di quella ricerca. C’è un’interrogazione parlamentare, presentata lo scorso giugno, da quindici deputati dei Fratelli d’Italia che spiega: “I detenuti, dopo aver occupato alcuni reparti, hanno minacciato i carabinieri penitenziari con olio bollente e alcuni coltelli”. Alcuni sindacati e la stessa amministrazione carceraria confermano la presenza di olio bollente pronto all’uso. Il 6 aprile però è arrivato in carcere il magistrato di sorveglianza Marco Puglia e da quanto abbiamo ricostruito non è successo nulla di grave. La direzione del carcere sostiene il contrario e parla di un tono irrazionale usato nei confronti della Puglia dai reclusi. Ma lo stesso magistrato, fuori dal carcere, ha detto ai giornalisti che nessuna rivolta violenta era stata inviata a tutte le parti in un messaggio rassicurante. È stato dalla magistratura di sorveglianza e dai garanti dei detenuti che sono arrivate le prime comunicazioni che hanno avviato le indagini. Il magistrato esce e poco dopo entra il contingente di 300 uomini per una perquisizione che si traduce in un pestaggio diffuso. Indagati, tra gli altri, nelle indagini della Procura locale, sono Gaetano Manganelli, all’epoca comandante della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, e Pasquale Colucci, già capo unità di traduzione dell’istituto di Secondigliano. I bastoni? - Per quanto ne sappiamo, dopo la perquisizione, ai piani alti del Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è arrivato un numero, per la precisione. I bastoncini trovati sarebbero stati venti insieme a microcellule e coltelli rudimentali. Nelle ricostruzioni di quei giorni, nelle relazioni parlamentari, nelle riviste di settore, si parla soprattutto di altri “bar, pentole piene d’olio, pentole per olio bollente e altri oggetti contundenti”. I bastoni rinvenuti, ricavati dai tavoli nelle celle, confermano dalla direzione del carcere, sono stati però sequestrati tra il 6 e l’8 aprile, due giorni dopo i fatti. Eppure non ci sono perquisizioni dopo il giorno 6. I detenuti posti in isolamento e denunciati per resistenza a pubblici ufficiali sono 14. Gli oggetti ritrovati avrebbero dovuto, in mancanza di una precisa identificazione dei responsabili, coinvolgere più detenuti in procedimenti disciplinari. Date e numeri sollevano dubbi. Occorre capire se hanno ragione il detenuto, ora libero, che parla di “pezzi di sostegno”, così come i parenti di altri detenuti picchiati. Di certo le versioni discordanti non dissipano i dubbi. Non solo quello. C’è un capitolo delle indagini della Procura di Santa Maria Capua Vetere e condotte dalla locale società dell’Arma dei Carabinieri, relativo ad un possibile screening delle indagini subito dopo i fatti. Riguardo a quanto accaduto, in quei giorni, nei video, il testimone ricostruito, si vedono gli stessi detenuti che, il giorno prima, durante la protesta, hanno rimesso in ordine le sedie. La verità è che gli inquirenti stanno ricostruendo parte dei video, ma si interseca con il materiale trovato nei telefoni sequestrati agli agenti l’11 giugno, quando la procura ha proceduto al sequestro dei cellulari notificando 57 mandati di perquisizione agli agenti di polizia carceraria. Materiale utile per proseguire le indagini che ipotizzano non solo tortura, abuso di autorità e violenza privata, ma anche reati di falsificazione, calunnia e screening. Vibo Valentia. Picchiato più volte all’arrivo in carcere, l’inferno di Gabriele di Ciro Cuozzo Il Riformista, 12 ottobre 2020 “Aiutatemi o ingerisco pillole”. Denudato e picchiato al suo arrivo nel carcere di Vibo Valentia, perché reduce da un trasferimento dovuto alle rivolte andate in scena durante il lockdown nel penitenziario salernitano di Fuorni. È la denuncia del detenuto Gabriele De Biase, 31enne napoletano (originario di Scampia), momentaneamente trasferito nel carcere di Secondigliano per un processo. Una lunga lettera indirizzata al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a Roma nella quale viene raccontato l’incubo vissuto nel carcere di Vibo Valentia dove è stato “ospite” per pochi mesi. Una missiva segnalata dal garante del Comune di Napoli Pietro Ioia ai colleghi di Campania (Samuele Ciambriello) e Calabria (Agostino Siviglia) e al garante nazionale Mauro Palma che in questi giorni ha presenziato l’Assemblea nazionale a Napoli. È raccapricciante il racconto di De Biase che ora teme di ritornare nuovamente nel carcere calabrese. Un grido d’aiuto che ha messo in apprensione i suoi familiari preoccupati da possibili gesti di autolesionismo del loro caro. Già il 3 ottobre scorso il 31enne è stato portato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli di Napoli dopo aver ingerito, nel cuore della notte, alcune pillole. Gabriele e i suoi familiari chiedono solo di non tornare in quel carcere di Vibo Valentia dove al suo arrivo il ‘comitato di benvenuto’ è stato tutt’altro che umano. “Mi hanno messo nelle camere di sicurezza e neanche dopo 30 minuti sono entrati in 5, con manganelli, mi hanno detto di spogliarmi e appena ho eseguito l’ordine mi hanno dato addosso senza nessuna pietà” si legge nella missiva. Insulti e aggressioni perché reduce da una rivolta. Poi lettere inviate ai familiari, dove denunciava quanto accaduto, che sarebbero state aperte dalla direzione del carcere e strappate dopo aver letto il contenuto. E ancora: “mi hanno costretto a bere l’acqua della fontana che non era potabile”. Un inferno durato, per fortuna, pochi mesi. “Gabriele è uno che il carcere se l’è sempre fatto, da quando era minorenne” raccontano i suoi familiari. “Non è la galera il problema, lui andrebbe anche in Africa basta che non lo fanno tornare a Vibo Valentia” aggiungono. “Abbiamo paura perché dopo aver ingerito tre pillole una settimana fa, Gabriele minaccia di fare altrettanto quando gli comunicheranno di tornare in quell’inferno”. Questo il testo della lettera indirizzata al Dap Io sottoscritto Gabriele De Biase, nato a Napoli, attualmente ristretto presso la c/c di Secondigliano dichiaro l’intenzione di denunciare l’Istituto di Vibo Valentia per i motivi sotto scritti: Dichiaro che fino al giugno 2020 mi trovavo nel carcere di Vibo ed ora sono a Secondigliano per motivo di “cause” ma poiché in quell’Istituto ho subito violenze fisiche e mentali, sono stato picchiato per giorni interi, poiché io ero stato trasferito là (Vibo) a seguito delle rivolte negli Istituti e appena sono arrivato lì all’ingresso c’era il Comandante con degli agenti ad aspettarci. Una volta che siamo arrivati mi hanno messe nelle camere di sicurezza e neanche dopo 30 minuti sono entrati in 5, con manganelli, mi hanno detto di spogliarmi e appena ho eseguito l’ordine mi hanno dato addosso senza nessuna pietà. Mi insultavano e mi picchiavano ed altri agenti ridevano delle botte che stavo prendendo. Mi hanno tenuto nudo per due ore e questo è andato avanti (si è ripetuto) per giorni interi. Io ad un certo punto ho chiesto il divieto di incontro con tutto l’istituto ma, alla mia richiesta, mi hanno solo picchiato, dicendomi che dovevo soffrire come un cane. Ho provato anche a parlare con l’area educativa, spiegando i motivi, ma mi hanno detto che gli agenti mi trattavano così perché venivo da una rivolta e mi dissero che poi, man mano, si sarebbero calmati. In quell’Istituto me la sono vista brutta, ad un certo punto ho pensato anche che potevo essere ammazzato sotto una loro mazzata; io chiedevo di andare a visita medica ma non mi mandavano e mi dissero che il dirigente sanitario stava dalla loro parte perché parente di uno della Dia. Poi io gli riferii che li denunciavo e loro trovarono una mia denuncia in una lettera, mi chiamarono giù, me la strapparono e mi gettarono il foglio in faccia. L’8 settembre 2020 mi hanno portato in isolamento, mi hanno trattato come un animale, mi hanno fatto bere l’acqua della fontana che non è potabile e me ne sono sentito di tutti i colori. Ed adesso che mi trovo qui (Secondigliano) ho trovato il coraggio di denunciare, ma la mia preoccupazione è quella che mi riportino lì (Vibo) dove sono stato picchiato senza motivo. Torino. Quando la libertà è un bosco della buonanotte di Paolo Morelli Corriere di Torino, 12 ottobre 2020 Un progetto che nasce dal carcere e che, in qualche modo, consente ai partecipanti di uscire e abbracciare, anche solo metaforicamente, le loro famiglie. Il bosco buonanotte, edito dalla casa editrice Scritturapura di Stefano Delmastro, è molto più di un libro e condensa un lungo lavoro svolto dalla cooperativa Voci Erranti Onlus, che da 18 anni lavora all’interno della Casa di reclusione di Saluzzo. Lì sono stati portati avanti, soprattutto, dei laboratori teatrali, ma da quando la struttura ha iniziato a ospitare uomini “in alta sicurezza” (con condanne più gravi), è nata anche l’idea di coinvolgere i detenuti in un laboratorio di scrittura creativa, con il progetto Liberalandia. C’è stato un bando, promosso da Compagnia di San Paolo e Fondazione Crt, che ha sostenuto l’iniziativa, poi pubblicizzata all’interno del carcere. Si è formato, quindi, un gruppo di 13 detenuti. “Erano molto interessati - spiega la coordinatrice Grazia Isoardi - perché per loro è un aspetto poco condiviso. Parlano poco delle famiglie, è un argomento che fa star male e non hanno gli strumenti per elaborarlo. C’è poi una grave mancanza di personale nelle carceri, soprattutto in ambito psicologico”. A Saluzzo c’è l’assistenza di due psicologi che arrivano da Torino, ma solo un giorno a settimana. È troppo poco per garantire un ascolto sufficiente a oltre 400 detenuti, per questo un laboratorio come quello di Voci Erranti è diventato ancora più importante. Ma come si è arrivati a un libro? “Attraverso giochi ed esercizi - racconta Isoardi - nel laboratorio, condotto da due psicologhe e un antropologo (Francesca Gancia Vallarino, Monica Prato e Marco Pollarolo dell’associazione Mamre di Torino, ndr) e due educatrici del penitenziario (Cinzia Sannelli e Maria Andolina, ndr), siamo riusciti a individuare le 15 parole più utilizzate dai partecipanti nei loro scritti. Abbiamo detto: bene questi sono i nostri 15 ingredienti”. Termini come “bugia” o “maschera”, legate soprattutto al dubbio più ricorrente: dire o no ai figli la verità? Poi altre parole, come “buonanotte” e anche “bosco” e “farfalla”. Grazie al lavoro dello scrittore e autore teatrale Yosuke Taki si è arrivati alla creazione di un libro, “Il bosco buonanotte”, nel quale i papà riescono a comunicare con i loro figli attraverso le metafore, ma soprattutto grazie alla condivisione di un linguaggio comune, quello della fiaba. L’opera, con le illustrazioni di Francesca Reinero, è in vendita a 15 euro e i proventi saranno devoluti a Voci Erranti per la realizzazione di progetti di inserimento sociale e lavorativo per i detenuti. Napoli. Cosimo, l’ergastolano diventato attore: “Ho riscritto la mia storia” di Maria Pirro Il Mattino, 12 ottobre 2020 “Ho incrociato quella ragazzina lì, che poi è diventata mia moglie, per sbaglio. Avrei dovuto corteggiare sua sorella. Ma, prima di iniziare, tirai a sorte con un altro pretendente, dovetti cedere la mano e, per orgoglio, dissi che la mia favorita in realtà era la minore delle due, e mi feci avanti. Senza più rivali”. Fermandola per strada: Gelsomina aveva solo 12 anni. “Posso aspettare, le dissi”: ha atteso lei, in fondo. Mai un passo indietro, in tutte le stagioni dell’amore. E ancora lo guarda negli occhi come fosse la prima volta, mentre Cosimo Rega, salernitano di Angri, coinvolto nella guerra contro Raffaele Cutolo e condannato all’ergastolo, racconta la sua storia riscritta dietro le sbarre e declamata dopo sul palco. “Sono un detenuto. Da 41 anni, oggi in semilibertà”, dice. “Sono un ex camorrista, anche se non potrò mai dire di essere un ex assassino”. Per questo, parla di fine pena mai: “Ho ucciso, e non mi sono mai pentito o dissociato durante i procedimenti penali. E neanche ho potuto chiedere scusa ai parenti delle vittime”, aggiunge, spiegando di essere cambiato. “Soprattutto grazie a lei”. “Avrei voluto lasciarla libera, dopo la sentenza definitiva. Mi fermò subito, con queste parole definitive: Non sarà un muro di cinta a dividere questa famiglia. Partii così per un viaggio dentro di me, che mi ha portato a fare per tre mesi lo sciopero della fame, avvertendo il desiderio di vivere non solo sopravvivere, sostenuto fin qui”. Fin qui è al ristorante Il Poggio in via Nuova Poggioreale per la presentazione del libro del Garante dei detenuti Samuele Ciambriello, a due passi dalla casa circondariale più complessa del Sud. Una delle 28 che Cosimo ha conosciuto da dentro. “Ma la mia cella è diventata veramente una prigione, quando ho scoperto il teatro”, è la battuta che pronuncia, da capocomico, ora che è arrivato a Rebibbia. Rega ha interpretato anche Cassio in Cesare non deve morire dei fratelli Taviani, Orso d’oro 2012. Ha incontrato Shakespeare, Dante, Giordano Bruno e tanti altri maestri e drammi. “E ho scritto della mia esperienza, poi portata a teatro da Chi è di scena, grazie a Vincenzo Salemme”. Un atto unico recitato con Daniela Marazita dal titolo Nel cuore del Falco. “Un soprannome ereditato da mio nonno, che dava la caccia ai ladri e in cambio riceveva dai pastori un pezzo di formaggio che agguantava con le sue mani grandi. Come un rapace”. Il denaro facile lo ha spinto sulla strada del crimine, poi la mancanza di cultura e la formazione delinquenziale in cella, l’ambizione di voler emergere nel suo paese fino alla sensazione di avere perso tutto, al momento delle accuse dei collaboratori di giustizia e del verdetto dei giudici. “Per non cedere, mi sono messo a studiare e laureato al Dams e così mi sono ritrovato fuori senza nemmeno rendermene conto”. Sul palco, alle conferenze sulle misure alternative per la riabilitazione, e anche tra i ragazzi delle scuole che non gli risparmiano domande. “Cosa si prova dopo aver ucciso, a questa non si può rispondere”. Un ricordo privato, che Rega cerca invece di riassumere, è la prima uscita in permesso premio. Dopo 20 anni da recluso. E quella ragazzina lì ad aspettare, sotto un ombrello per ripararsi dalla pioggia. Lui oggi ha 68 anni, due figli, un lavoro come portiere in un ateneo romano, l’obbligo di tornare a Rebibbia ogni sera, il dispiacere di non aver viaggiato nel resto del mondo e un desiderio per l’intera durata delle inchieste rimasto inespresso. “Vorrei incontrare i parenti di Giuseppe Parlati e Angelo Santaniello, che ho reso orfani. Vorrei chiedere e dire loro tante cose”. In altre stanze, altre voci. Noam Chomsky: “L’ambiente ha riportato i giovani alla politica, non deludiamoli” di Luca Mastrantonio Corriere della Sera, 12 ottobre 2020 Il linguista attacca il negazionismo di Trump e appoggia il programma verde di Biden: “Gli Usa devono nazionalizzare e convertire le grandi aziende per un Green New Deal “. E torna sulla sua scelta di firmare la lettera contro la “cancel culture” a sinistra. Questo articolo - pubblicato nella sezione Sette Green sul numero 41 del magazine in edicola il 9 ottobre - fa parte della grande inchiesta con cui il sistema “Corriere” racconta la terra (e noi): indagini, newsletter, storie e approfondimenti (come spiega qui Edoardo Vigna). Torna, gratis, anche il mensile verde Pianeta 2021. E proprio 7 ha realizzato attraverso i propri canali social l’ultima (in ordine di tempo) ricerca sulla sensibilità degli italiani rispetto ai temi legati all’ambiente: alle varie domande in pochissime ore hanno risposto oltre 10 mila lettori, ribadendo che la pandemia non ha allentato le scelte virtuose. Causa Covid ci sono intellettuali che hanno perso un po’ del loro bene dell’intelletto, arrivando a negare la realtà dell’epidemia, come leader populisti pre-ricovero. Ci sono poi attivisti dei diritti civili che per arrivare a destinazione prima premono sull’acceleratore e pazienza se si investe qualche diritto... Poi, per fortuna, c’è chi resta lucido, anche perché è da anni che scruta il buio che stiamo attraversando, in termini di libertà e diritti al futuro, al lavoro e alla felicità che sono a rischio. Tra questi, l’americano Noam Chomsky, da decenni punto di riferimento della sinistra radicale e di chiunque rispetti chi, oltre ad aver rifondato da giovanissimo la linguistica moderna, critica con coerenza i mali del capitalismo neoliberista, i suoi seguaci e i falsi oppositori. Senza fare sconti, come quando già nel 1969 nel saggio I nuovi mandarini. Gli intellettuali e il potere in America criticava i “mandarini” comunisti, oltre i fiancheggiatori dell’imperialismo come Walt Rostow, di cui però difese il diritto di insegnare a Cambridge quando i movimenti pacifisti lo stavano spazzando via. Perciò Chomsky, oggi 91enne, può firmare appelli come quello di Haper’s magazine contro le derive liberticide della cancel culture di sinistra senza venire strumentalizzato da destra, o parlare dei danni di Trump senza scivolare nella semplificazione fascistoide. In gioco non c’è una ideologia da difendere, ma il genere umano, il cui progresso è possibile solo in un’ottica di pace ed ecologia del vivere, condivise da tutti. Lei cosa si aspetta dalle elezioni presidenziali del 3 novembre? “Trump ha già dichiarato in pubblico che potrebbe non accettare il risultato del voto. La sua personalità, al limite della psicopatologia, non gli permette di accettare l’idea della sconfitta. Anche perché fuori dalla Casa Bianca ci sono molti guai giudiziari ad attenderlo”. Crede che la democrazia americana sia in pericolo? “C’è chi dice che gli Stati Uniti siano una democrazia a partito unico, il partito degli affari, del quale democratici e repubblicani sono soltanto due fazioni. Ora i repubblicani hanno rotto la simmetria, sono diventati un partito di ultradestra, hanno molto in comune con i partiti neofascisti europei. L’amministrazione Trump persegue due soli obiettivi: far diventare i ricchi sempre più ricchi, e collocare a tutti i livelli dell’ordinamento giudiziario magistrati di destra. E un sistema giudiziario in mano a funzionari fedeli alla destra sarà in grado di bloccare per molti anni a venire ogni possibile riforma anche moderatamente redistributiva. La Costituzione americana del diciottesimo secolo era molto progressista. Ma il sistema politico in questo momento è ultraconservatore”. Trump ha acceso lo scontro sociale, fino a dove può arrivare? “Trump non ha mandato l’esercito regolare a fronteggiare le manifestazioni legate al movimento Black Lives Matter, perché temeva che i comandi militari potessero disobbedire ai suoi ordini. Penso all’uso della polizia di frontiera e altre formazioni di polizia federale come forze paramilitari per reprimere le proteste, in contrasto con i sindaci e i governatori. L’escalation della violenza può fornire un pretesto per lo stato d’emergenza, e allora perfino lo svolgimento regolare delle elezioni sarebbe a rischio. Non immagino un governo militare o apertamente fascista. Il fascismo era un’ideologia e aveva una dottrina, cose fuori dalla portata di Trump. Lui somiglia più al piccolo dittatore di una repubblica delle banane, che agisce per tornaconto personale e per salvaguardare gli interessi di chi lo sostiene”. Quanto peserà sul voto la malagestione dell’emergenza Covid? “Trump non ha ascoltato gli esperti, ha cercato di sfruttare l’epidemia per attaccare la Cina, ha accreditato le teorie del complotto. È direttamente responsabile per la morte di decine di migliaia di cittadini, e per questo cerca disperatamente qualcuno da incolpare, l’Oms, la Cina, i democratici”. Quali sarebbero le conseguenze di una rielezione di Trump? “Una catastrofe per il mondo. Trump non è solo negazionista rispetto all’emergenza climatica, tutti i suoi atti legislativi contribuiscono a spingere il pianeta verso il disastro. È l’unico leader al mondo, insieme forse solo a Bolsonaro, che continua a favorire l’utilizzo crescente di carburanti fossili, a negare la necessità di ridurre le emissioni nocive, a rifiutarsi di riconoscere la realtà scientifica della crisi climatica. Sembra voler correre più velocemente possibile verso l’abisso. Il suo ruolo tossico riguarda anche altre questioni, dallo sdoganamento del suprematismo bianco, alla corsa al riarmo, al fiancheggiamento dei cosiddetti movimenti “pro-life”, che sono in realtà movimenti antiabortisti e oscurantisti in materia di diritti civili. Trump sta smantellando il sistema di controllo e contenimento della proliferazione di armi nucleari, tentando di alterare i trattati internazionali. E ha approvato un piano di rifinanziamento del Pentagono per sviluppare nuove armi ad alto potenziale distruttivo. È a rischio la sopravvivenza stessa del pianeta e dell’umanità. Sono le elezioni politiche più importanti della storia umana”. In caso di sconfitta di Trump, cosa si augura che avvenga? “Per prima cosa l’intera industria dei carburanti fossili andrebbe progressivamente dismessa: il governo dovrebbe nazionalizzarla e avviare un processo di conversione, per raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero. Serve un nuovo regime di controllo sulla proliferazione di armi nucleari, fino a proibire l’impiego dell’energia nucleare a scopi militari... Atti concreti, che potrebbero in poco tempo restituire agli Usa la leadership morale”. Quali sono gli elementi che la rendono più ottimista? “Dopo la morte di George Floyd è nato forse il più grande movimento sociale nella storia degli Usa che ha contagiato il mondo intero. Non si tratta solo di proteste contro le violenze della polizia, ma di un movimento contro le disuguaglianze e il razzismo istituzionale. Poi penso a quanto arrivato da Sanders nella campagna di Joe Biden, per spingerla su posizioni più progressiste. Il programma di Biden sulle questioni ambientali, scritto con un gruppo ecologista radicale, Sunrise, prevede investimenti di milioni di dollari per lo sviluppo delle energie rinnovabili, e l’adozione di un Green New Deal tra le priorità dell’agenda legislativa. I democratici sanno che non possono deludere i giovani attivisti spinti verso la politica dall’allarme per il clima”. Italia ed Europa guardano alle elezioni con preoccupazione... “I Paesi europei dovrebbero rafforzare la propria cooperazione. L’Europa deve superare le divisioni interne, valorizzare la propria unione economica e politica, e diventare una potenza autonoma, libera da influenze esterne, per contribuire a ridefinire gli equilibri mondiali”. Perché ha firmato l’appello sulla “cancel culture” a sinistra? “La lettera non nominava mai la cancel culture, ma è significativo che sia stata interpretata all’interno di quel contesto. Si riferiva anche alle azioni di alcuni settori della sinistra che rischiano di creare un’atmosfera tossica, in cui la richiesta legittima di protezione per le categorie discriminate diventa una forma di intimidazione che limita la libertà d’espressione. Ma è una porzione minuscola della vera cancel culture. Le “cancellazioni”, le pressioni dirette o indirette che impediscono a qualcuno di parlare e di esprimere la propria opinione, praticate dall’establishment, da chi detiene il potere, e quindi in questo momento dalla destra, vanno contro chi contesta il sistema, e quindi molto più spesso la sinistra”. Egitto. La storia di un’avvocata per i diritti umani in carcere da due anni e gravemente malata di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2020 Mercoledì scorso è arrivata la notizia, terribile, del rinnovo della detenzione preventiva di Patrick Zaki per altri 45 giorni. Ma la sua persecuzione giudiziaria, attraverso quella modalità di prolungamento a oltranza della carcerazione senza processo che ha l’obiettivo di far calare l’oblio sui dissidenti egiziani, non è affatto unica. Hoda Adbelmoniem, avvocata per i diritti umani, 61 anni, è detenuta da quasi due anni nella prigione femminile di al-Qanater per accuse di terrorismo. Da allora, non ha mai ricevuto una visita dei familiari, che hanno potuto vederla fugacemente durante un’udienza, il 18 luglio di quest’anno. Dalle poche parole scambiate col marito, non stava affatto bene. Anche dopo che il 22 agosto sono riprese le visite in carcere, i suoi parenti non sono stati ammessi. Abdelmoniem è stata arrestata il 1° novembre 2018 nel corso di una retata di avvocati e difensori dei diritti umani. L’arresto è avvenuto all’1.30 di notte, nella sua abitazione al Cairo. Gli uomini dell’Agenzia per la sicurezza nazionale si sono presentati, come sempre, senza mandato di cattura e senza dare spiegazioni. Hanno bendato e caricato l’avvocata su un veicolo senza permetterle di portare con sé i suoi medicinali. Dopo tre settimane di sparizione forzata, il 21 novembre Abdelmoniem è comparsa di fronte alla Procura suprema per la sicurezza dello stato, l’organo giudiziario competente sui casi di terrorismo. Indossava gli stessi abiti del giorno dell’arresto. È seguito un altro periodo di sparizione forzata, dal 2 dicembre 2018 al 14 gennaio 2019. Il 15 gennaio è comparsa nuovamente di fronte alla procura speciale. Sua figlia l’ha vista fortemente dimagrita e terrorizzata. Dopo altre due settimane di sparizione forzata, il 31 gennaio è stata definitivamente trasferita ad al-Qanater. Abdelmoniem è in pessime condizioni di salute. Il 26 gennaio di quest’anno ha avuto un attacco cardiaco che l’ha costretta a un ricovero in ospedale. Soffre di pressione alta e ha un coagulo di sangue alla gamba sinistra. Già esponente del Consiglio nazionale per i diritti umani e iscritta all’Ordine degli avvocati, all’epoca dell’arresto Abdelmoniem era consulente volontaria del Coordinamento egiziano per i diritti e le libertà, un’organizzazione non governativa molto attiva nella denuncia delle sparizioni forzate e di altre violazioni dei diritti umani che, il giorno stesso della retata, ha annunciato la cessazione di ogni attività. *Portavoce di Amnesty International Italia Iran. Fallito attentato al meeting dei dissidenti in Francia: diplomatico di Teheran a processo di Guido Olimpio Corriere della Sera, 12 ottobre 2020 Una trama da film per un’azione sventata nel 2018 in Europa: una autobomba imbottita di esplosivo detto “madre di Satana”, una coppia di esecutori, il filo dei mandanti che porta all’ambasciata della Repubblica Islamica a Vienna. Una trama da anni di piombo in Europa. Al centro l’Iran e i suoi oppositori all’estero, possibile bersaglio di un attacco. È la fine di giugno del 2018 quando alla polizia belga arriva una segnalazione precisa. Fermano una Mercedes con a bordo Amir Saadouni e la sua compagna, Nasimeh Naami, residenti ad Anversa. A bordo della vettura una miscela esplosiva piuttosto potente, il Tatp, noto come la madre di Satana. Deve servire per compiere un attentato contro una grande manifestazione organizzata in Francia - a Villepinte/Seine Sait Denis - dal Consiglio nazionale della resistenza iraniana, organizzazione di esuli. Il meeting, in programma il 30, prevede la partecipazione di personalità straniere, compreso Rudolph Giuliani, Newt Gingrich, l’ex ambasciatore americano Bill Richardson, la colombiana Ingrid Betancourt. Reazione a catena - Il fermo della coppia innesca una reazione a catena, si muovono le intelligence europee, seguono altri due arresti. Il primo è quello che pesa di più: Assadolah Assadi, 49 anni, diplomatico, terzo segretario dell’ambasciata iraniana a Vienna. Il funzionario agisce in realtà - secondo informazioni citate da Le Monde - per il Dipartimento 312, sezione dei servizi segreti khomeinisti che usano da tempo la capitale austriaca come snodo. L’accusato è stato mandato in Europa per sorvegliare i dissidenti, stessa missione per il suo complice Mehrad Arefani. Gli investigatori, probabilmente aiutati anche dal Mossad israeliano, ricostruiscono il piano. Assadi consegna denaro e bomba a Saadouni durante un incontro in Lussemburgo, il passaggio avviene dopo una cena in pizzeria il 28 giugno. È la fase finale prima di lanciare l’operazione in Francia. Ma li intercettano prima che possano eseguire gli ordini. Lo scenario della difesa - L’insieme dei dati investigativi, le prove dell’attività del nucleo, con le ricognizioni in loco, preparazione dell’ordigno, i contatti sono considerati sufficienti e abbondanti. Bruxelles esclude che si tratti di un’iniziativa individuale e accusa direttamente Teheran. Dalla capitale smentiscono, sostengono che si tratti di una provocazione - false flag - per mettere in difficoltà la Repubblica islamica. Lo scenario difensivo punta sul fatto che gli esecutori si sono fatti beccare con in mano indizi incriminanti, dovevano incastrare gli ayatollah. Identica la posizione di Assadi, nega le proprie responsabilità. Una linea accompagnata da minacce. In una conversazione con gli inquirenti svelata dalla Reuters allude a future ritorsioni da parte di formazioni mediorientali. È la strategia già usata negli anni 80-90 quando i mullah mandano team ad eliminare molti oppositori in Europa. Monarchici, nazionalisti, Mujaheddin del popolo cadono sotto il fuoco di piccole cellule. Proprio a Vienna, nel luglio dell’89, è assassinato il leader dei curdi iraniani, Abdul Rahman Ghassemlou. Il processo - La costante è l’impunità totale o quasi per chi è responsabile degli agguati. Anche quando ci sono dei sospettati in manette, i governi tendono a cedere per timore di rappresaglie. Questa volta potrebbe andare in altro modo: è stata fissata la data del processo, il 27 novembre. Udienze che si preannunciano interessanti per quanto potrebbe emergere su modus operandi, network. Ma c’è sempre lo scenario B, già prospettato da qualcuno. Il principale imputato viene scambiato con qualche francese detenuto in Iran. Un film già visto.