Assemblea dei Garanti, Palma: “Non solo affollamento ma anche scarsa qualità delle carceri” Il Riformista, 11 ottobre 2020 “Quella dei garanti è una funzione essenziale, oggi più che mai i garanti sono e devono essere degli osservatori. Il nostro ruolo è di supporto, controllo, stimolo e prevenzione. I garanti mettono in campo uno sguardo non assuefatto” ha detto Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà a conclusione della seconda giornata dell’Assemblea annuale dei Garanti Territoriali svoltasi al Centro Direzionale di Napoli il 9 e il 10 ottobre. Dopo i saluti del Garante regionale campano Samuele Ciambriello e del suo omologo per le regioni Lazio e Umbria, Stefano Anastasia, ha avuto luogo un breve resoconto di quanto discusso ieri (venerdì 9 ottobre) da diversi gruppi di lavoro che si sono concentrati su svariati argomenti di attualità carceraria: lavoro, istruzione, sanità e relazioni fra i detenuti e le loro famiglie, modalità trattamentali nei contesti di detenzione per criminalità organizzata. Diversi gli interventi che si sono succeduti in seguito: Antonietta Fiorillo, Presidente del Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza si è soffermata sulla necessità di ripartire dal carcere di cui ha sottolineato pesanti carenze da diversi punti di vista come quello delle scarse possibilità di formazione dei detenuti, un vero handicap in termini di reinserimento sociale. “Il carcere è abbandonato a sé stesso - ha detto - e i garanti ci assicurano un aiuto di fondamentale importanza”. Per la Fiorillo è necessario trovare nuovi percorsi e dotarsi di strumenti diversi per affrontare la grave crisi della realtà carceraria in quanto, a suo avviso, quelli esistenti non bastano neanche a gestire la normalità. “Ci sono, inoltre problemi di comunicazione, integrazione e sinergia” ha aggiunto, riferendosi ai rapporti fra le diverse figure operanti nel settore. Altri interventi hanno toccato temi ugualmente sensibili e attuali in questo campo e posto in evidenza l’importanza del volontariato, la centralità degli aspetti sanitari e di una loro gestione rispettosa della dignità umana. Nel successivo dibattito sono stati lanciati appelli per rendere sistematiche le attività trattamentali specie per colmare i lunghi e profondi vuoti pomeridiani; dal canto suo il garante cittadino di Napoli Pietro Ioia si è rivolto ai colleghi esortandoli a fare rete e a dar vita a consultazioni regolari fra di loro. Come già specificato, le conclusioni sono state del Garante nazionale Mauro Palma che nel suo intervento ha esteso il concetto di privazione della libertà personale riferendosi agli alberghi Covid, alle case per anziani, ai centri per le persone diversamente abili, ai migranti bloccati su navi o negli hot spot e ripetuto il concetto dei garanti come osservatori. Come figure capaci di uno sguardo “multiplo e riassuntivo” della realtà carceraria. Una realtà estremamente critica, non c’è una idea di Carcere, i cui problemi, secondo Palma, sono “più di carattere qualitativo che quantitativo, no prevalentemente di sovraffollamento”. L’atto conclusivo della due giorni è stata la decisione dell’assemblea di prorogare di un anno la carica di portavoce della Conferenza dei Garanti Territoriali rivestita da Stefano Anastasia. Anastasìa confermato portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali dei detenuti Ristretti Orizzonti, 11 ottobre 2020 L’Assemblea della Conferenza dei Garanti approva unanime la proroga dell’incarico di Portavoce a Stefano Anastasìa, Garante del Lazio e dell’Umbria. “Ringrazio le colleghe e i colleghi che hanno voluto confermare il mio incarico. Nel confronto di questi due giorni sono emersi temi e problemi dei diversi luoghi di privazione della libertà, particolarmente delicati in questo tempo di rinnovata emergenza nella diffusione della pandemia da Covid-19”. Così Stefano Anastasìa, garante dei detenuti del Lazio e dell’Umbria, al termine dell’assemblea annuale dei garanti territoriale delle persone private della libertà che, all’unanimità lo ha confermato portavoce per un anno. “Anche con il garante nazionale Mauro Palma - abbiamo condiviso la necessità di un impegno autonomo e indipendente dei garanti nella tutela dei diritti delle persone detenute o comunque private delle libertà”. L’assemblea ha infine approvato la proposta di sottoscrivere un protocollo d’intesa con il Garante nazionale e le amministrazioni della Giustizia, per il miglior esercizio delle funzioni dei garanti regionali e locali. A conclusione della mattinata, è intervenuto Mauro Palma, presidente dell’Autorità garante nazionale delle persone private della libertà, dopo le relazioni delle sessioni parallele e il dibattito al quale hanno partecipato, in presenza o in remoto, Giovanna Del Giudice, Conferenza Salute Mentale, Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia, Antonietta Fiorillo, presidente del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza, Riccardo Polidoro, Unione camere penali italiane, Alessio Scandurra, Associazione Antigone. Le garanzie difensive sono le basi della civiltà, non un ostacolo al processo di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 11 ottobre 2020 Dopo le contestate riforme sulla sospensione sine die della prescrizione ed in materia di intercettazioni, il Governo ha nuovamente deciso di intervenire nel settore della giustizia penale, con un nuovo Disegno di Legge, che - nelle intenzioni - avrebbe il fine meritorio di aumentare l’efficienza del procedimento penale, introducendo nuove disposizioni per la celere definizione dei processi attualmente pendenti. Come anticipato, l’intento dell’esecutivo è senza dubbio meritevole di pregio, se non fosse che, ancora una volta, il progetto di legge finisce per ridefinire la figura dell’avvocato quale mero orpello, necessario ma non indispensabile, del procedimento penale, relegandolo - ancora una volta - ad un ruolo di - quasi fastidioso ostacolo alla rapida definizione del processo penale. Il provvedimento si inserisce, quindi, nell’ormai nota volontà governativa di voler diminuire con strumenti, peraltro, di dubbia utilità concreta - a tutti i costi i tempi del processo penale, a drammatico discapito dei più basilari diritti difensivi del giusto processo, di cui l’avvocato, quale parte ed indispensabile ingranaggio del sistema penale, risulta essere il più alto rappresentante in sede processuale. In merito a questo Disegno di Legge, la Commissione Giustizia il 7 ottobre, riunitosi presso la Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto, ha svolto alcune preliminari audizioni da parte dei più importanti Organi rappresentativi del settore (Cnf, Ucpi e Ocf), che hanno così avuto modo di evidenziare le numerose criticità del provvedimento. I delegati dalle Associazioni forensi hanno, dunque, fortemente criticato il progetto di legge, rilasciando dichiarazioni univoche: a titolo di esempio si riportano le parole diffuse dal Cnf subito dopo l’intervento della consigliera avv. Giovanna Ollà, secondo cui le modifiche “impattano fortemente sul sistema garantistico e sui diritti di difesa”. In particolare, l’Unione delle Camere Penali Italiane, rappresentata dal segretario avv. Eriberto Rosso e dal responsabile della Comunicazione avv. Giorgio Varano, con un comunicato chiaro e sintetico, cui, quale avvocato penalista il sottoscritto ritiene di aderire completamente, hanno evidenziato alcune criticità. I punti censurati e su cui è stata posta l’attenzione sono così sintetizzabili: no alle ulteriori contrazioni delle garanzie difensive, no alla violazione delle regole del contraddittorio, no alla riduzione a simulacro delle impugnazioni; sì al rilancio dei riti speciali, sì al rafforzamento delle garanzie difensive per la realizzazione dei principi del giusto processo. Venendo al merito delle disposizioni inserite nel Disegno di Legge, occorre rilevare come lo stesso preveda ulteriori erosioni delle garanzie difensive nella fase del dibattimento. A titolo di esempio, si segnala l’estensione dei meccanismi di recupero delle prove dichiarative nel caso di mutamento di un componente del collegio giudicante: se passasse il Disegno di Legge oggetto delle audizioni non sarebbe più possibile la rinnovazione della testimonianza davanti al Giudice della decisione e le ragioni che la rendevano assolutamente necessaria potranno essere rappresentate solo con l’atto di appello. Lo schema di Disegno di Legge, interviene poi nuovamente sulla disciplina della prescrizione, ferma restando la sua sospensione dopo la sentenza - di condanna e di assoluzione - di primo grado. Dunque, ancora una volta il Governo non torna sui propri passi. Tuttavia, il punto maggiormente oggetto di critiche riguarda la disciplina delle impugnazioni, materia in cui si è giunti ad ipotizzare di abolire la collegialità per una grande parte dei processi in grado di appello e limitando la portata cognitiva del giudizio, arrivando anche a prevedere un assolutamente insolito “ruolo - stralcio” gravante sulle Corti di Appello. Peraltro, in materia verrebbe introdotta un’ulteriore - evitabile modifica in ordine all’obbligo che l’impugnazione in appello richieda l’attribuzione, da parte dell’imputato, di un nuovo specifico mandato ad hoc al difensore. Un ulteriore adempimento a carico sia dell’avvocato, sia della persona imputata nel procedimento penale, i quali in pendenza dei termini di impugnazione dovrebbero provvedere nuovamente al rilascio di una procura. Sul punto, il delegato del Cnf presente all’audizione, ha correttamente specificato che “riguardo alla coerente scelta dell’avvocato sulla proposizione dell’appello, è in gioco un profilo di correttezza verso l’assistito perfettamente presidiato dal nostro codice deontologico”. Insomma, il pensiero celato contenuto in tutte queste numerose riforme sembra sempre essere quello per cui l’avvocato, finanche nell’esercizio dei suoi doveri professionali, sanzionati peraltro dal Codice Deontologico, sia un ostacolo ad una rapida risoluzione del processo. Ancora, sempre nell’ottica di limitare i poteri del difensore e con questi naturalmente la garanzia di un processo equo e ragionevole, con il nuovo Disegno di Legge verrebbe introdotta l’impossibilità di depositare l’impugnazione presso il Giudice del circondario in cui svolge la professione l’avvocato (circostanza oggi prevista per evidenti motivi di praticità), con obbligo di provvedere, invece, al deposito presso il Giudice del luogo che ha emesso il provvedimento, addirittura eliminando la possibilità di usare il mezzo della raccomandata. Il tutto in assenza del processo telematico in materia penale. Nel Disegno di Legge in oggetto, nulla viene detto, poi, in materia di riti speciali (ad eccezione di un leggero e non incisivo aumento del limite edittale per richiedere l’applicazione della pena su richiesta delle parti) e sul tema della depenalizzazione: ancora una volta l’approccio del Governo per riformare il sistema penale risulta miope e senza alcuna previsione di lungo termine, finendo per mortificare la funzione difensiva e non dando alcun seguito alle proposte preventivamente formulate dagli organi forensi intervenuti nell’audizione del 7 ottobre. Ed ancora, con il progetto in esame verrebbe introdotta una ulteriore disposizione secondo cui l’avvocato diverrebbe un mero “Messo notificatore”, rendendolo il soggetto destinatario di tutte le notifiche successive alla prima, andando così a snaturare la funzione difensiva dell’avvocato ed imponendo allo stesso l’onere di provare l’irreperibilità dell’assistito. Il provvedimento qui analizzato per i motivi su esposti si pone in contrasto con alcuni fondamentali diritti di difesa, finanche di rango costituzionale, quale il principio del giusto processo e del contraddittorio. Come già detto, a parere di chi scrive, un serio progetto di riforma del sistema penale dovrebbe agire su tre versanti: da un lato, rafforzando gli strumenti preventivi alla configurazione dei reati e dall’altro modificare l’assetto dell’udienza preliminare, attualmente divenuta mero filtro e strumento di smistamento delle udienze alle Sezioni dibattimentali ed in ultimo aumentare l’organico dei funzionari ed addetti presenti nei Palazzi di Giustizia. Tutte le modifiche di questo Governo intervenute fino ad oggi non risolvono in concreto alcuna delle questioni che affliggono da anni il sistema penale italiano, che, anzi, ne uscirà maggiormente indebolito dalle recenti riforme. L’equazione è semplice: se vengono ridotti i poteri del difensore in sede penale, tutto il sistema penale ne risentirà, a scapito prima di tutti della persona coinvolta, quale soggetto indagato, imputato ma anche come parte lesa. Il sottoscritto ritiene, in conclusione, di aderire all’appello ed invito svolto dall’Unione delle Camere Penali Italiane in sede di audizione ai componenti giuristi della Commissione Giustizia affinché “non consentano ulteriori menomazioni del sistema accusatorio, come quelle previste dal disegno di legge di riforma, mettendo a disposizione le tante proposte maturate in sede di consultazione per l’obiettivo della realizzazione della ragionevole durata del processo”. Per la Cassazione valgono più i consulenti dell’accusa che della difesa? Il Dubbio, 11 ottobre 2020 Caiazza: “Finalmente lo ammettono. Peccato che la parità delle parti (Pm e imputato) davanti al giudice terzo è il comando costituzionale”. “Detto in parole povere, secondo la terza sezione penale della Corte di Cassazione, il parere tecnico del Consulente del Pubblico Ministero è in sé più attendibile di quello del Consulente della Difesa. Ciò deriverebbe dal fatto che il Pm è un organo pubblico, il cui compito è quello di accertare la Verità, mentre il compito del difensore è solo quello di affermare e sostenere la verità utile per la salvezza del proprio assistito”. Così su Facebook il presidente dell’Unione delle camere penali italiane Gian Domenico Caiazza, commenta la sentenza della Corte di Cassazione con cui si stabilisce che il parere tecnico di un consulente della Difesa ha meno attendibilità di quello di un consulente del pm. “Naturalmente, colpisce di questa sentenza null’altro che la brutale ed esplicita chiarezza. Nessuno di noi può dirsi sorpreso da una simile affermazione, visto che noi avvocati ne scontiamo quotidianamente la ferrea vigenza nei processi che si celebrano nelle aule di giustizia. Dirò di più: se questa rivendicazione, in termini di principi generali, della superiorità degli elementi di prova raccolti dal Pm ci aiuterà a svergognare in via definitiva la storiella del processo ad armi pari davanti ad un giudice terzo ed imparziale, ben venga questa sentenza. Così almeno la piantiamo di raccontare favole”, prosegue Caiazza. C’è un piccolo particolare, però, segnalo il capo dei penalisti italiani: “La parità delle parti (Pm e imputato) davanti al giudice terzo è il comando inequivoco dettato dall’art. 111 della Costituzione. E questa sentenza, ed il principio che essa afferma, letteralmente si fa beffe, ed anzi sovverte, quanto preteso senza equivoci dalla nostra Costituzione”. È vero, segnala Caiazza, che il codice di rito imporrebbe “al Pubblico Ministero di ricercare le prove anche favorevoli all’imputato: ma si tratta, come è a tutti noto, di una delle norme - forse la norma - più inapplicabile e infatti più disapplicata del nostro codice di procedura penale. Ed è giusto che sia così: il Pubblico Ministero onesto, equilibrato e sereno può e deve prendere atto della prova che demolisce il proprio teorema accusatorio, se in essa si imbatte; ma pretendere che ne vada alla ricerca è pura accademia, figlia peraltro della idea inquisitoria del processo che non distingue accusatore e giudice”, insiste il presidente dell’Ucpi. Nella realtà, poi, secondo Caiazza, il principio affermato dalla Cassazione viene sistematicamente smentito. “Non si comprende d’altronde per quale misterioso motivo il parere dell’esperto balistico o chimico o tanatologico nominato dal PM dovrebbe avere valore ed attendibilità scientifiche superiori a quelle dei suoi colleghi nominati dalla difesa. Al contrario, nel proprio sforzo confutativo della tesi accusatoria è assai frequente che l’imputato, soprattutto se è in grado di sostenerne le spese, nomini consulenti più qualificati, e spesso di gran lunga più qualificati, di quelli nominati dall’ufficio di Procura”, rimarca Caiazza. “La valutazione del Giudice, dunque, non può che essere di merito: assegnare questo odioso ed ingiustificabile vantaggio all’accusa, e dunque questo pesante handicap alla difesa, la dice lunga sulla idea che i giudici nutrono, nel nostro Paese, del processo accusatorio. La magistratura italiana è, davvero con rarissime eccezioni, irrimediabilmente ostile al sistema processuale accusatorio, all’idea del processo delle parti, alla formazione della prova in dibattimento in un contraddittorio paritario”, argomenta il capo dei penalisti. Poi l’arringa finale: “Il sistema accusatorio, infatti, diffida della prova raccolta da PM e polizia giudiziaria in solitudine, interrogando testi nel chiuso di uno stanzino di una caserma, e nominando consulenti il cui lavoro - e la cui conferma in successivi incarichi - è fortemente condizionato dalla inclinazione a compiacere e supportare la tesi dell’Accusa. Tutto questo materiale, nel processo accusatorio, vale tutt’al più ai fini di rinviarti a giudizio; poi è carta straccia o poco più, perché la prova andrà formata alla luce del sole, in dibattimento, davanti ad un giudice terzo. Un sistema indigeribile per la magistratura italiana, che sin dal primo giorno del nuovo codice ha infatti provveduto a mutilarne i connotati distintivi, e da allora non ha mai smesso. Quest’ultima è solo una piccola ciliegina su una torta sontuosamente imbandita nel corso degli anni; in barba a Giuliano Vassalli, all’art. 111 della Costituzione, ed alle fastidiose pretese paritarie del difensore, che con la ricostruzione della verità ha poco o niente a che fare. Quello è il lavoro dei Pubblici Ministeri, perbacco!”, conclude Caiazza. Firenze. Sollicciano e gli altri, la Fase 2 non c’è mai stata di David Allegranti Corriere Fiorentino, 11 ottobre 2020 Il carcere, con l’emergenza sanitaria, è diventato ancora più impermeabile, celato agli occhi della società dei liberi. Il rischio contagio ha ridotto di parecchio le interazioni con l’esterno, creando non pochi disagi ai detenuti, che hanno difficoltà a incontrare i famigliari e le associazioni che difendono i loro diritti (come “L’Altro diritto” diretta da Sofia Ciuffoletti). Solo da poco queste associazioni hanno ricominciato a frequentare Sollicciano, una delle carceri più grandi d’Italia e il più grande della Toscana. Mantenere una vigilanza attiva sulle condizioni dei detenuti, in un momento complesso come questo, è ciò che dovrebbe fare tutta la politica, ma purtroppo non avviene. Nei giorni scorsi hanno chiesto di poter visitare Sollicciano Il consigliere comunale di Firenze, Dmitrij Palagi (Sinistra Progetto Comune), e il presidente dell’Associazione Progetto Firenze, Massimo Lensi. Al 30 settembre, nel carcere fiorentino c’erano 726 persone detenute. La capienza regolamentare dovrebbe essere di 491 unità letto. “L’istituto è una piccola città e come tale va considerato, con le persone ristrette, gli educatori e le educatrici, il personale lavorativo”, dicono Palagi e Lensi. “Il diritto alla salute e le necessarie protezioni al contagio devono valere all’esterno come all’interno, senza pregiudicare i già deboli diritti dei ristretti e i loro percorsi rieducativi. Il carcere è a tutti gli effetti parte della città, e come tale noi lo consideriamo. Per questa ragione, invitiamo il garante dei detenuti del Comune di Firenze e quello della Regione Toscana ad accompagnarci nella visita”. L’emergenza virus, infatti, “ci deve far assumere precise responsabilità nei confronti della collettività civica, anche al fine di sconfiggere la deleteria logica dei luoghi separati, tipica delle istituzioni totali”. I due politici hanno ragione e sarebbe prezioso se questa richiesta venisse condivisa anche dagli altri partiti. “Il carcere ha un peccato originale”, ci dice la filosofa del diritto Sofia Ciuffoletti, che fra le altre cose è anche garante dei detenuti al carcere di San Gimignano. “Le norme penitenziarie europee, appena riviste, dicono che ci deve essere la massima conformità tra l’esterno e l’interno, ma in questo modo il carcere rincorre come Tantalo il mito dell’esterno, senza mai arrivare a raggiungerlo. In tempi di lockdown, l’esterno è ancora più irraggiungibile”. Eppure, aggiunge Ciuffoletti, “i contatti con l’esterno, così come il mantenimento dei legami affettivi e sociali sono parte integrante del trattamento rieducativo. Già prima del lockdown il diritto al trattamento era gravemente compromesso, adesso la situazione è in caduta libera, d’altra parte il carcere si trova più a suo agio con il lockdown: la chiusura è il suo stato naturale. Consente al carcere di essere meno permeabile dall’esterno. Proprio in questi mesi di chiusura, infatti, si sono innestate delle prassi problematiche, tipiche dell’istituzione “totale” come direbbe Goffman, e che sarà difficile eradicare”. Come l’abuso dei colloqui via Skype, spiega Ciuffoletti: “La tecnologia, va detto, è intervenuta a “colmare” il vuoto affettivo e grazie a Skype le detenute e i detenuti possono fare i colloqui con familiari e terze persone. La pandemia ha reso possibile quello che noi non siamo riusciti a fare per decenni, nonostante le nostre richieste di poter consentire l’uso di questi strumenti. Ci sono state molte difficoltà in passato sulla possibilità di fare colloqui via Skype con persone che hanno parenti che abitano lontano. Bisognerà stare attenti, però, che questa situazione non diventi una prassi e che non sostituisca il colloquio visivo, che è un’esperienza molto importante e diversa rispetto a una conversazione Skype”. Per questo è sacrosanto che politica e associazioni possano entrare in carcere. Per renderlo meno impermeabile. Roma. Detenuto suicida, la direttrice rischia il processo di Giulio De Santis Corriere della Sera, 11 ottobre 2020 Regina Coeli, dal giudice ordine di liberarlo. Valerio Guerrieri, 22 anni, nel 2017 era stato definito dal perito del Tribunale “ad alto rischio suicidario” per problemi psichici. La direttrice di Regina Coeli, Silvana Sergi accusata di non aver disposto subito il trasferimento in una Rems, come deciso dal giudice. La direttrice del carcere di Regina Coeli, Silvana Sergi, rischia di finire sotto processo per la morte di Valerio Guerrieri, impiccatosi in cella, a 22 anni, il 24 febbraio 2017. Il giovane non avrebbe dovuto trovarsi dietro le sbarre poiché dieci giorni prima il Tribunale aveva deciso che fosse liberato. Appunto perché a rischio suicidio. Ma secondo l’accusa la direttrice non ha eseguito il provvedimento. I reati contestati: morte come conseguenza di un altro delitto, omissione d’atti d’ufficio e indebita limitazione della libertà personale. A formulare l’accusa il gip Claudio Carini, che ha imposto l’imputazione coatta respingendo per la seconda volta la richiesta di archiviazione della Procura. Ora il pm Attilio Pisani dovrà chiedere il rinvio a giudizio della direttrice e di Grazia De Carli, dirigente dell’ufficio VI della direzione generale detenuti del Dap, accusata a sua volta di morte come conseguenza di un altro delitto e omissione d’atti d’ufficio. “Valerio avrebbe potuto essere ancora vivo, per questo ci siamo opposti a ogni richiesta di archiviazione”, dice l’avvocato Claudia Serafini. Per la morte del ragazzo già sono sotto processo sette agenti della penitenziaria di Regina Coeli e un medico, accusato di omicidio colposo per non aver controllato in cella il ragazzo sottoposto “alla misura della grande sorveglianza”. Il suicidio è l’ultimo atto di una storia drammatica. Valerio incappa più di una volta in qualche guaio con la giustizia perché cleptomane. Nel 2014 il Tribunale dei minori lo dichiara incapace di intendere e di volere. Per qualche tempo sembra migliorare, ma nel 2016 la situazione precipita. Arrestato per resistenza e lesioni durante un inseguimento, viene trasferito in una Rems, per poi far ritorno a Regina Coeli. Il 14 febbraio 2017 il giudice Anna Maria Pazienza lo condanna a quattro mesi, ma in aula il perito afferma che “il paziente è ad alto rischio suicidario”. Analisi che spinge il giudice a ordinare l’immediato ricovero in una Rems. La ricerca è affidata alla funzionaria del Dap: il 16 febbraio viene selezionata la Rems di Subiaco, che però non ha posto. Dopo quel giorno di altre ricerche non c’è traccia, come sottolinea il gip. Nuoro. Badu e Carros, i detenuti 41bis saranno allocati nella ex sezione femminile di Simonetta Selloni La Nuova Sardegna, 11 ottobre 2020 Decreto ministeriale per riaprire gli spazi per detenuti ad altissima pericolosità Completati i lavori. Caligaris (Mds): “L’isola verso il record di reclusi mafiosi”. Via la sezione destinata alle donne, spazio per i 41 bis. Badu e Carros si prepara a una nuova infornata di detenuti sottoposti a regime speciale, il gotha della criminalità. Nulla di nuovo, perché il penitenziario nuorese, attraverso i decenni, ha accolto ospiti del calibro di Antonio Iovine, boss dei Casalesi che tra quelle mura si pentì, e buona parte del commando che uccise Borsellino e Falcone. A stabilire la riapertura è stato il decreto ministeriale firmato nei giorni scorsi dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, con il parere favorevole del provveditorato regionale per la Sardegna e del Direttore del Gruppo operativo mobile (Gom) della Polizia penitenziaria, organismo al quale sarà affidata la custodia dei reclusi. “L’obiettivo - sottolinea una nota del ministero della Giustizia - è quello di rispondere alle emergenti esigenze di gestione penitenziaria dei detenuti al 41-bis e garantire al tempo stesso la corretta distribuzione dei reclusi nell’ambito del circuito penitenziario dedicato”. Le premesse per arrivare all’apertura della nuova sezione sono state poste nello scorso mese di luglio, con l’arrivo nell’isola del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia in visita a Uta e a Badu e Carros. Una missione legata alla possibilità di trasferire nei due penitenziari altri detenuti in regime di 41 bis, progetto che ora compie un consistente passo in avanti con il decreto del ministro Bonafede. La sezione dedicata ai 41 bis di Badu e Carros, che gli addetti ai lavori conoscono come la porcilaia, aveva bisogno di un importante adeguamento dal punto di vista strutturale e della sicurezza. Questi lavori sono stati compiuti, e Nuoro ridiventa luogo idoneo a ospitare reclusi specialissimi. Una scelta che per ora ha suscitato la reazione di Maria Grazia Caligaris, dell’associazione “Socialismo, diritti e riforme”. “Non è bastato istituire il 41bis a Sassari (92 posti) e a Cagliari-Uta (altrettanti non appena si concluderanno i lavori), si è pensato bene di realizzare una sezione “speciale” anche a Nuoro, nella ex sezione femminile ristrutturata”. Caligaris sottolinea che “mentre l’isola si propone al mondo come meta naturalistica e culturale, si ritrova a essere classificata come la terra del 41 bis. Su questo dovrebbero intervenire le massime autorità regionali e i Parlamentari del tutto esclusi da queste scelte”. Ancona. Carcere di Montacuto, Bilò: “Servono lavori di ristrutturazione” di Annalisa Appignanesi centropagina.it, 11 ottobre 2020 Il consigliere regionale in visita al penitenziario insieme ad una delegazione di Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria (Uspp). Fra le criticità ha evidenziato sovraffollamento e carenza di organico. “Sono necessari lavori di ristrutturazione, da compiere con urgenza per rendere maggiormente vivibili, salubri e sicuri gli ambienti del carcere di Montacuto, sia per gli agenti di Polizia Penitenziaria che quotidianamente vi lavorano, che per i detenuti”. A denunciare la situazione presente all’interno dell’Istituto Penitenziario di Ancona è il consigliere regionale eletto in quota Lega, Mirko Bilò. Il consigliere alla sua prima uscita ufficiale dopo l’elezione, si è recato in visita alla Casa Circondariale di Montacuto e alla Casa di reclusione Barcaglione, accompagnato da una delegazione regionale di Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria (Uspp) costituita dal vicesegretario regionale Angelo De Fenza, dal segretario provinciale di Ascoli Piceno Luca Iannotta e dal segretario regionale di Ancona Giovanni Giuliani. Obiettivo verificare la situazione dei due istituti penitenziari per avanzare proposte volte a trovare soluzioni alle criticità, visto il mandato ricevuto dagli elettori in seno all’Assemblea Legislativa. È nel carcere di Montacuto che ha constatato le maggiori criticità, qui infatti al problema della carenza di agenti di Polizia Penitenziaria, che si attesta attualmente intorno alle 35 unità, si aggiunge quello del sovraffollamento di detenuti, che tocca quota 50 unità. Una situazione delicata, vista anche la concomitante pandemia di covid-19: “Sono problemi che rivestono una importanza cruciale e che occorre risolvere con estrema urgenza, specie alla luce dell’attuale pandemia di coronavirus, che proprio nella fase emergenziale aveva suscitato proteste mettendo a rischio la sicurezza dei poliziotti e degli stessi detenuti” osserva Bilò. Oltre a queste ben note difficoltà c’è anche la questione infrastrutturale. Secondo il consigliere infatti, sono necessari lavori urgenti come “il rifacimento del tetto, dove si segnalano infiltrazioni di acqua piovana e di sistemazione degli scarichi della cucina, che danno luogo a perdite di acqua nei cunicoli sotterranei le quali favoriscono il proliferarsi di ratti e zanzare”. Situazione sotto controllo invece a Barcaglione dove la struttura secondo Bilò, “sia sotto il profilo organizzativo sia di igiene e salubrità, risulta efficiente e ben organizzata: i reparti detentivi e gli altri locali a disposizione dei detenuti sono ben curati sotto ogni profilo, così come la caserma che ospita agenti e uffici, inclusi gli altri ambienti in uso al personale di Polizia Penitenziaria”. Inoltre il consigliere ha posto l’accento sulle iniziative e le attività trattamentali organizzate nella struttura, finalizzate al reinserimento nella collettività dei detenuti: fra queste ha voluto menzionare la realizzazione di un caseificio con 20 pecore per la produzione di formaggio. Ascoli Piceno. Rinnovata la cappella della Casa circondariale di Luigi Miozzi gazzettadiascoli.com, 11 ottobre 2020 “Il tempo che impieghiamo per incontrare Dio è un tempo che ci rende tutti uguali nonostante le disparità sociali, economiche e anche di libertà, poiché in quel momento sperimentiamo ciascuno l’essere figlio Suo”. Così il cappellano della Casa Circondariale di Marino del Tronto don Alessio Cavezzi ha presentato sabato 10 ottobre 2020, ricorrenza della Madonna delle Grazie, la cappella rinnovata, frutto del lavoro e dell’impegno di un gruppo di detenuti della sezione di massima sicurezza, che dai primi mesi del lockdown ha donato il proprio tempo e la propria professionalità trasformando una stanza bianca dotata di semplice altare in una vera e propria chiesa dalle pareti affrescate e adornate con stucchi e vetri decorati. “Ci sarebbero tante cose da dire. Tutto questo è stato reso possibile dall’incontro di tanti elementi tutti coerenti con quello che l’ordinamento penitenziario richiede - ha affermato la direttrice Eleonora Consoli - dalla disponibilità della Caritas che ci ha dato i fondi alla volontà di don Alessio fino al contributo fattivo e al lavoro delle mani, del cuore e della testa dei detenuti. Conosco questo istituto da ventitré anni; questa stanza ha visto tante persone. Oggi è stata realizzata un’opera che rimarrà nel futuro per tutta la comunità”. Un’opera per tutti, come da più parti ribadito questa mattina quando, alla presenza del vicario del prefetto Anna Gargiulo, della direttrice della Casa Circondariale e di un gruppo di detenuti, il vescovo di Ascoli S. E. Monsignor Giovanni D’Ercole ha officiato la S. Messa e intitolato la cappella proprio alla Madonna delle Grazie, co-patrona con S. Emidio della Diocesi. “Ora potete dire: “questa è la mia cappella” - ha affermato il vescovo di Ascoli - e il contributo che avete dato resterà per sempre sotto la protezione della Madonna delle Grazie, cui oggi consacriamo questo luogo e che ci invita ogni giorno ad affidarci a Gesù”. Fino a poco tempo fa, come ricordato da don Alessio, i segni della presenza del Signore all’interno della Cappella della Casa Circondariale sono stati lasciati all’immaginazione dei visitatori. “Oggi, grazie alla proposta di alcuni detenuti e alla disponibilità della direzione e del comandante, di quello stanzone reso vivo solo da un altare è rimasto ben poco - spiega don Alessio - e la Cappella è stata abbellita e resa accogliente e calda, con un’impresa di vera costruzione di colonne, capitelli, lesene, corniciature e mosaici alle finestre, oltre al tabernacolo che permette la presenza viva di Dio-Eucaristia”. Per alcuni mesi C.A, C.P., P.S. e R.S. hanno lavorato con maestria, aiutati e sostenuti anche dagli altri detenuti, realizzando infine un’opera di tutto rispetto. Una luce di speranza per i detenuti della Casa Circondariale di Marino del Tronto in un periodo buio per tutti e molto di più per la popolazione carceraria. La pandemia, infatti, ha costretto la direzione a ridurre al minimo l’ingresso dei volontari nella struttura e a applicare regole più stringenti alle visite dei parenti, che possono incontrare i propri familiari solo attraverso un vetro, oltre che tramite skype. “Siamo in tempi difficili - ha affermato la direttrice rivolgendosi ai detenuti presenti - da più di sei mesi a voi è imposto un sacrificio in più, le regole che ci hanno imposto sono dure ma necessarie. Da parte nostro l’impegno a migliorare la situazione è massimo, ma purtroppo per poter allentare le misure di sicurezza devono esserci le condizioni”. Roma. San Vincenzo De Paoli, venerdì 16 il XIII Premio Carlo Castelli per la solidarietà agensir.it, 11 ottobre 2020 Si svolgerà venerdì 16 ottobre a Roma, presso la sede di Palazzo Maffei Marescotti, la cerimonia per il XIII Premio Carlo Castelli per la solidarietà. Il concorso letterario riservato ai detenuti delle carceri italiane è promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli, con il patrocinio di Senato della Repubblica, Camera dei deputati, Ministero della Giustizia e Università europea di Roma e con lo speciale riconoscimento della medaglia del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ai primi tre classificati la giuria assegna un “doppio” premio in denaro: una parte viene consegnata all’autore, mentre un’altra somma viene destinata ad un’opera di solidarietà. Così anche chi ha “sbagliato” nella vita e vive l’esperienza della reclusione ha la possibilità di compiere una buona azione. “Riteniamo che questo - afferma Antonio Gianfico, presidente della Federazione nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli - sia uno stimolo per aiutare il recluso a riconciliarsi con il proprio vissuto e con la società”. Il tema della tredicesima edizione è: “Il mondo di fuori visto da dentro”. “Viene da chiedersi come possa una persona ristretta in carcere percepire la realtà esterna” è la domanda che pone Claudio Messina, delegato nazionale carceri della Società di San Vincenzo De Paoli e ideatore del Premio Carlo Castelli: “La galera interrompe bruscamente una condizione di vita e ne determina un’altra piena di limitazioni e divieti, tagliando contatti esterni e causando grossi condizionamenti ed una forte regressione nello sviluppo della personalità e nelle relazioni”. Il Premio Castelli vuole esprimere vicinanza a coloro che hanno intrapreso un percorso di cambiamento, o di conversione, a chi ancora non se ne sente capace, nonché provocare una riflessione in tutte le persone che non vogliono vedere e sentir parlare di carcere. Ai tre vincitori di questa edizione vanno rispettivamente 1.000, 800 e 600 euro, con il merito di finanziare anche un progetto di solidarietà. In aggiunta ai premi, a nome di ciascuno dei tre vincitori saranno devoluti, nell’ordine: 1.000 euro per finanziare la costruzione di un’aula scolastica nel Centro Effata di Nisiporesti (Romania); 1.000 euro per un progetto formativo e di reinserimento sociale di una giovane dell’Istituto minorile di Casal del Marmo (Roma); 800 euro per l’adozione a distanza di una bambina dell’India. Lettera(tura) dal carcere di Emanuele Trevi Corriere della Sera - La Lettura, 11 ottobre 2020 All’uscita delle “Mie prigioni” di Silvio Pellico, stampate a Torino nel 1832, si disse che quel libro avrebbe danneggiato gravemente l’oppressore asburgico. Era una previsione azzeccata, dal momento che lo stesso cancelliere Metternich avrebbe ammesso che le memorie di Pellico erano costate all’Austria molto più di una battaglia persa sul campo. Ma quella era un’epoca di invidiabile ottimismo. Oggi le prigioni come lo Spielberg sono sempre lì; quella che sembra essersi smarrita è la speranza. È questa la differenza abissale che, in tema di scritture carcerarie e di denuncia di soprusi e lesioni della dignità umana, separa il capolavoro di Pellico da un libro come Nessun amico se non le montagne (Add editore) di Behrouz Boochani, curdo iraniano che, perseguitato dal regime di Teheran, ha cercato scampo in Australia e si è trovato per 5 anni prigioniero sull’isola di Manus, in Nuova Guinea, detenzione riservata agli immigrati clandestini. Uno dei luoghi più notevoli della geografia contemporanea della vergogna che Boochani, privato non solo di computer e carta, è riuscito a descrivere, a futura memoria, inviando su WhatsApp migliaia di messaggi in persiano a un amico, che via via li ha tradotti in inglese. Come si può facilmente intuire, più la libertà è conculcata più si fanno difficili le condizioni della scrittura in tutte le fasi, dalla prima concezione di un’idea alla trasmissione del manoscritto oltre le sbarre e alla pubblicazione. Con effetti che possono perpetuarsi anche dopo la morte dell’autore. Un caso esemplare sono i Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, che, immediatamente dopo la Liberazione, furono pubblicati da Einaudi con la supervisione di Palmiro Togliatti in un’edizione “tematica” che definire fuorviante è poco. Solo nel 1975, per merito di Valentino Gerratana, i manoscritti furono restituiti alla loro forma originaria, rivelando pienamente la ricchezza e l’irregolarità del metodo di pensiero di Gramsci. Ma a parte il caso delle vicende postume, ad accomunare le scritture carcerarie, c’è sempre la mancanza di un controllo totale dell’autore sull’opera. Non c’è bisogno di avere letto Foucault per intuire che ciò che viene scritto in prigione è costantemente controllato, sottoposto a censura soprattutto se si tratta di lettere, eventualmente sequestrato e distrutto. C’è anche, d’altra parte, una ricchissima tradizione di espedienti di fortuna, dai più geniali surrogati della carta e dell’inchiostro ai sistemi per aggirare la solerzia dei più occhiuti guardiani. Le cartine di sigarette e i quadrati di carta igienica usati come fogli da Bobby Sands nel terribile carcere di Long Kesh sono solo due esempi di un’inesauribile ingegnosità che attraversa i secoli. Chi fosse curioso dell’argomento (in fondo chiunque può finire, a torto o ragione, in gattabuia) potrà consultare un bel libro di Daria Galateria, uscito per Sellerio nel 2012: Scritti galeotti. Scrittori in catene dal Settecento a oggi. Ma quando si affrontano questi argomenti, non si può evitare di imbattersi, prima o poi, nell’ombra di Sade e del suo capolavoro, Le centoventi giornate di Sodoma. In Sade, ospite di tutte le prigioni più famose della storia di Francia, dove passò una buona metà della sua vita, il legame tra immaginazione e detenzione si fa stringente, come se l’una implicasse l’altra. Bisogna considerare che il grande scrittore fu prigioniero - caso più unico che raro - di tutti i governi e i regimi che si susseguirono nella sua epoca tumultuosa. Arrestato nel 1777, ancora giovane, in conseguenza di una di quelle famose lettres de chevet che sono come il simbolo della monarchia assoluta, durante il Terrore fu rimesso dietro le sbarre dalla giustizia giacobina, e sfiorò la ghigliottina. Tornato per pochi anni in libertà, e resosi nuovamente colpevole di infamie come i romanzi dedicati a Justine e Juliette, fu riacciuffato dalla polizia napoleonica, e morì dopo Waterloo, nel manicomio di Charenton, in qualità di prigioniero del restaurato regime monarchico. Ebbene, Sade è molto chiaro in proposito: la privazione della libertà ha la conseguenza di esacerbare e infiammare la sua immaginazione; la scrittura, che dell’immaginazione è il veicolo naturale, è il maggiore veicolo di contagio della perversione. Separando lo scrittore dai suoi simili, lo si trasformerà necessariamente in un pericolo pubblico, autore di ordigni verbali che prima o poi deflagreranno nella mente dei lettori, corrompendoli definitivamente. La prigione non è più una circostanza tra le altre nella vita dello scrittore, ma l’alambicco in cui si distilla un veleno capace di aggredire l’immaginario anche a secoli di distanza. È una teoria puntualmente verificata dai fatti relativi al manoscritto del capolavoro. Nella sua cella alla Bastiglia, Sade trascriveva le Centoventi giornate, in calligrafia minuscola, su centinaia di foglietti che poi incollava a un rotolo facile da nascondere. Un lavoro sfibrante, da certosino del male, portato avanti a tappe forzate fino alla notte di inizio luglio del 1789 quando, pochi giorni prima che i rivoluzionari radano al suolo la Bastiglia, Sade viene prelevato e condotto altrove senza poter portare via nulla con sé. Fino alla morte, rimpiangerà la perdita di quel manoscritto. Non poteva sapere che in realtà il prezioso manufatto non era sepolto tra le macerie della Bastiglia, ma aveva iniziato un viaggio clandestino nel tempo di cui poco si sa, ma che coinvolse di sicuro molte persone: funzionari di polizia corrotti, bibliomani, collezionisti... Fino a che, nel 1904, uscì a Berlino la prima edizione del libro più maledetto della letteratura occidentale, curato da uno psichiatra che si firmava per prudenza con uno pseudonimo. A partire da Guillaume Apollinaire, che pochi anni dopo pubblicò il primo studio scientifico sull’opera di Sade, e arrivando almeno al Salò di Pasolini, si può affermare che Le centoventi giornate di Sodoma sono lo scheletro nell’armadio del Novecento, il modello assoluto di ogni estremismo letterario a venire. Anche il castello di Silling, dove si svolgono le atrocità del romanzo, è una prigione: anzi, con le sue porte murate è la quintessenza, l’idea platonica di ogni prigione. Circondato da mura impenetrabili, separato dai suoi simili da quattro governi diversi e accomunati solo dal ritenerlo un mostro, Sade più di ogni altro riuscì a trasformare le circostanze della sua vita in una via di conoscenza, e il suo talento artistico ne fece il più libero degli uomini. “Lettere dal carcere”, la voce di Gramsci attraverso le sbarre di Marco Revelli La Stampa, 11 ottobre 2020 Esce dopo domani da Einaudi, nella collana i millenni, l’epistolario dalla prigionia del grande intellettuale comunista. La versione “definitiva” di un classico della letteratura antifascista. L’8 novembre 1926 Antonio Gramsci viene arrestato a Roma, e rinchiuso a Regina Coeli “in regime d’isolamento”. Iniziava così un lungo calvario, destinato a concludersi con la morte, il 27 aprile 1937. Un decennio, nel corso del quale scriverà (oltre ai 33 celebri Quaderni) centinaia di lettere, in condizioni proibitive affidate all’arbitrio dei suoi carcerieri, nei tanti luoghi di detenzione o di transito: a San Vittore, dove fu rinchiuso nei mesi del processo e dove gli era concesso di scrivere una sola volta a settimana avendo a disposizione unicamente due fogli di carta; a Turi dove restò cinque anni e dove poteva scrivere una volta ogni 15 giorni con un unico foglio che ripiegava in due per raddoppiare i destinatari; a Civitavecchia, dove fu detenuto già gravemente ammalato per qualche settimana prima di essere trasferito alla clinica Cusumano di Formia, e ancora al Carmine di Napoli, all’Ucciardone di Palermo, a Caserta o Isernia durante i trasferimenti. Lettere sottoposte a minuzioso controllo e censura da parte delle direzioni carcerarie, scritte nelle poche ore concesse, spesso negli stanzoni comuni, su tavolacci, banchi e piani d’appoggio improvvisati, le quali costituiscono tuttavia - o forse proprio per questa inumana asperità della condizione - un documento straordinario, letterario prima ancora che politico, oltre che una sconvolgente denuncia contro il fascismo. Gran parte del materiale è composto da lettere ai familiari più stretti (la moglie Giulia, la cognata Tania, la madre Giuseppina, i figli Delio e Giuliano, i fratelli Gennaro, Carlo, Mario e le sorelle Grazietta e Teresina) e agli amici più cari (Piero Sraffa in primis), accanto alla corrispondenza con gli avvocati e con un certo numero di militanti e (pochi) dirigenti comunisti. Su quel corpus eterogeneo e frammentato, disperso in mezza Europa, si concentrò, fin dai giorni immediatamente successivi alla morte di Gramsci, il gruppo dirigente del Partito comunista italiano, in particolare Palmiro Togliatti, con l’intento di rendere omaggio al suo fondatore e di rafforzare la battaglia antifascista, offrendo come “patrimonio del proletariato” il lascito di un suo grande pensatore. Ma l’opera si rivelò assai più lunga e complicata del previsto (una “storia nella storia”), resa ardua dalle vicende politiche in un’Europa dominata dai fascismi con la guerra incombente, dalle fratture e dai dissapori famigliari, dalle convulsioni e dalle feroci vicende dell’epoca staliniana, tra Parigi, Barcellona (in piena Guerra civile), Roma, Mosca… E vedrà la luce solo nel 1947, nella prima edizione einaudiana col titolo Lettere dal carcere, ottenendo un immediato successo di pubblico e di critica. Elio Vittorini, Italo Calvino, Benedetto Croce espressero giudizi entusiastici. Vinse il prestigioso Premio Viareggio, divenendo un “caso letterario”. La prima tiratura di 7.500 copie andò subito esaurita e in meno di un anno fece cinque ristampe. Conteneva 218 lettere (quelle che era stato possibile reperire), riprodotte quasi integralmente, con qualche dichiarata omissione: le missive che si era ritenuto opportuno omettere per il loro carattere intimamente personale (che avrebbero potuto rivelare momenti di cedimento fisico, dissidi famigliari, irritazioni e sconforto). E alcune (per la verità poche, perché sui passaggi politici aveva già lavorato la censura carceraria) reticenze sugli aspetti più scabrosi della battaglia politica interna al Partito e all’Internazionale comunista (per lo più riferimenti a nomi scomodi, come Bordiga o Trockij). Inoltre, venivano omesse le lettere del 1933, quando la salute di Gramsci era precipitata. Rimedierà ai vuoti una nuova edizione accresciuta delle Lettere curata da Sergio Caprioglio e Elsa Fubini pubblicata nel 1965 nella prestigiosa collana NUE. Conteneva 428 lettere (quasi il doppio rispetto all’edizione precedente), di cui 119 inedite e tutte con testo rigorosamente integrale, controllato (con la collaborazione anche di Sraffa) sull’originale. Ora, a più di mezzo secolo da quella storica pubblicazione, giunge una nuova sontuosa edizione delle Lettere, ancora per Einaudi, nella collana “I Millenni” (pp. 1376, € 90, da martedì in libreria), quasi a celebrare il carattere di “classico della letteratura” di quell’epistolario. Curata con precisione filologica da uno specialista negli studi gramsciani, Francesco Giasi, che firma anche una preziosa e dettagliata introduzione, questa “definitiva”, potremmo dire, riproposizione delle Lettere - 489 complessivamente, dalla prima, del 20 novembre 1926 alla moglie Giulia, all’ultima, straziante, del 23 gennaio 1937 al figlio Giuliano, più un’appendice di 22 documenti - si arricchisce di un ulteriore repertorio di inediti “assoluti”, per così dire. In particolare tre lunghe lettere alla madre Giuseppina, dell’estate del 1929, con una gustosa vicenda famigliare relativa al fratello Nannaro (Gennaro) oltre a questioni relative all’allevamento dei bambini; e una successiva, a Gennaro stesso, con interessanti giudizi sulle pratiche avvocatizie. Completano il volume una dettagliata Cronologia e 36 schede biografiche di Corrispondenti e famigliari a cura di Maria Luisa Righi, oltre a un preziosissimo e monumentale indice dei nomi. Oggi, a quasi un secolo dalla prima lettera, a più di 70 anni dalla prima edizione, si può ben dire che questo resta - come scrive Francesco Giasi - “un libro da leggere pagina dopo pagina, come un’opera letteraria. Un’opera capace di raccontare una storia drammatica - con l’esito più tragico - come solo i capolavori della letteratura sanno fare”. Coronavirus, Cei: allarme usura, sei milioni di famiglie a rischio rainews.it, 11 ottobre 2020 Le stime aggiornate spiega il segretario generale della Cei, mons. Stefano Russo, parlano di circa 2 milioni di famiglie in sovra-indebitamento e altre 5 milioni appena sopra-soglia, cioè in equilibrio precario tra reddito disponibile e debiti ordinari. Uno scenario inquietante quello che emerge dal convegno promosso a Roma dalla Consulta Nazionale Antiusura, a proposito delle difficoltà socio-economiche generate dalla pandemia e in particolare, delle conseguenze drammatiche per le famiglie. Le stime aggiornate della Consulta, spiega nel suo messaggio il segretario generale della Cei, mons. Stefano Russo, parlano di circa 2 milioni di famiglie in sovra-indebitamento e altre 5 milioni appena sopra-soglia, cioè in equilibrio precario tra reddito disponibile e debiti ordinari. Di queste, “circa 800 mila persone o 350 mila famiglie sono nell’area dell’usura”. Con realismo, denuncia Russo, si può stimare che lo shock della pandemia abbia fatto lievitare complessivamente fino ad almeno 6 milioni il numero di famiglie in varia graduazione di sofferenza: da quelle pressate da uno stato d’insolvenza finanziaria o creditizia a quelle via via più esposte alla trappola dell’usura”. A rischio anche le aziende - “Anche le aziende sono a rischio di usura, soprattutto per la pandemia: 40.000 (dato Confcommercio) potrebbero finire in mano alla criminalità organizzata”, sottolinea ancora il numero due della Cei, per il quale le Fondazioni riunite nella Consulta Nazionale Antiusura “sono un campanello d’allarme”: “quanti stanno già ricorrendo a prestiti usurai che alimentano le mafie e la corruzione nel Paese?”. “Sappiamo che l’usura - constata mons. Russo - è un fenomeno le cui dimensioni non sono quantificabili a causa dell’ampiezza della domanda e dell’offerta. È un fenomeno ancora sommerso con pochissime denunce in tutta Italia”. Il problema, insomma, “è alquanto complesso e richiede una presa di coscienza attenta e consapevole. Soprattutto da chi ha responsabilità perché si eviti che chi versa in difficoltà sia costretto a rivolgersi a usurai senza scrupoli”. Tutelare soggetti più deboli e fragili - In questo quadro, “possiamo immaginare una reazione corale, virtuosa ed efficace?”, chiede, rimarcando che “diversi soggetti stanno già operando in tal senso, e ne abbiamo riscontro dall’impegno e dalla dedizione delle istituzioni sanitarie, dalle decisioni assunte da varie istituzioni politiche, dalle risposte generose che giungono dalle realtà educative, da tante amministrazioni locali, dal volontariato, dalle stesse comunità cristiane che, con generosità, si sono attivate per stare accanto a chi è nel bisogno”. In momenti come questi “si avverte, inoltre, l’urgenza di tutelare con particolare cura i soggetti più deboli e fragili, coloro che magari già prima della pandemia sperimentavano povertà, sofferenze, solitudini, emarginazione, tutte situazioni aggravatesi proprio con l’avvento del Covid”, aggiunge mons. Russo. Da qui “l’invito a intraprendere azioni che aiutino a superare questa fase senza costringere le prossime generazioni a portare il peso di pesanti debiti, non solo finanziari, accumulati nell’attuale emergenza”. Auspicando infine l’opportunità di “stringere alleanze e reti collaborative tra Istituzioni e Organismi, impegnati su obiettivi comuni”, il segretario Cei vede positivamente come “per il futuro si possa attivare sempre più una proficua collaborazione” fra le associazioni antiusura e le Caritas locali, “nel segno di quella prossimità, che vi vede spesso in contatto con le ferite profonde dell’umanità del nostro tempo”. Migranti. “Navi umanitarie, sono fermi politici. L’Italia chiede requisiti inesistenti” di Giansandro Merli Il Manifesto, 11 ottobre 2020 L’intervista. Dopo il nuovo blocco della Alan Kurdi, Valentin Schatz, consulente di Sea-Eye e ricercatore associato presso l’Università di Amburgo, rivela: “Le ispezioni da cui derivano i provvedimenti del 5 maggio e 9 ottobre sono state fatte dagli stessi ufficiali, nonostante la nave si trovasse in due porti diversi e lontani”. Attraverso una fonte il manifesto ha appreso che è stata formata una squadra apposita per le Ong, che si sposta su indicazione del comando generale delle capitanerie di porto La nave Alan Kurdi della Ong Sea-Eye è stata nuovamente sottoposta a un fermo amministrativo. È accaduto venerdì sera a Olbia. Si aggiunge alle altre navi umanitarie bloccate: Sea-Watch 3, Sea-Watch 4 e Ocean Viking. Solo Open Arms finora è riuscita a superare i controlli. “È ovvio che sono ispezioni politicamente motivate”, afferma Valentin Schatz, ricercatore associato presso l’Università di Amburgo e l’Istituto per la legge del mare e il diritto marittimo. Schatz è consulente di Sea-Eye e rivela un elemento importante: nonostante le ispezioni che hanno causato i due fermi dell’Alan Kurdi siano avvenute in due porti diversi e lontani gli ufficiali sono gli stessi. il manifesto ha verificato l’informazione consultando i documenti e attraverso una fonte ha poi appreso che è stata formata una squadra apposita per le Ong, che si sposta su indicazione del comando generale delle capitanerie di porto. Valentin Schatz, esperto di diritto internazionale del mare Perché la Alan Kurdi è di nuovo bloccata? L’Italia considera le attività di ricerca e soccorso della nave un “fattore prevalente” che giustifica controlli aggiuntivi. Secondo le regole normali la Alan Kurdi non sarebbe stata ammissibile per un controllo di sicurezza in porto per un altro anno. Il “fattore prevalente” sarebbe che la nave salva i migranti ma non è certificata per questo servizio. Quindi le autorità italiane ritengono che il soccorso sia un servizio invece che un’operazione d’emergenza. Questa è la motivazione principale. Poi ci sono piccole mancanze tecniche, che effettivamente esistono ma si potrebbero risolvere rapidamente. Ogni volta sono effettuati controlli di 8, 10 ore alla ricerca di ogni irregolarità. Anche a maggio andò così. C’è una forma di accanimento? È ovvio che sono controlli politicamente motivati. Quasi nessuna nave viene ispezionata da cima a fondo ogni volta che entra in un porto. C’è poi un dettaglio interessante: i verbali di ispezione del 5 maggio e del 9 ottobre sono firmati dagli stessi due ufficiali della capitaneria di porto. Nonostante siano avvenuti in due porti e in due isole diverse: a Palermo il primo, a Olbia il secondo. È singolare. In genere questi controlli sono condotti dalle autorità del porto di sbarco o al massimo di uno vicino. Ha analizzato anche i documenti relativi al fermo di Sea-Watch 4. Cosa emerge? Lo schema è lo stesso per tutte le navi civili di salvataggio. L’Italia interpreta le regole in un modo peculiare, che differisce da quello degli altri stati. Ritiene che queste imbarcazioni non compiano operazioni di emergenza ma offrano un servizio di ricerca e soccorso e per questo debbano soddisfare requisiti aggiuntivi di sicurezza. Le autorità sembrano più preoccupate per la sicurezza dei naufraghi quando sono a bordo che quando rischiano la vita in mare... Stanno affermando che sono passeggeri. Se una nave trasporta passeggeri deve avere più bagni, più spazi e certificazioni diverse. Perché il funzionamento normale è per molte persone. Quelle delle Ong, invece, sono navi con poche persone a bordo. Aumentano solo dopo i salvataggi perché non possono lasciare qualcuno in mare. I rapporti rilevano sempre la stessa mancanza: il sistema di scarico delle acque reflue. A Sea-Watch 4 dicono: ad agosto hai salvato 358 persone ma l’impianto di depurazione era per 30. Ma se hai salvato dei naufraghi è chiaro che non stai funzionando normalmente. Dal punto di vista del diritto internazionale del mare come interpreta i provvedimenti? Ricerca e soccorso non sono un servizio, ma un obbligo. Un obbligo più importante di quelli che riguardano il sistema di scarico dei bagni. Quello che chiede il governo italiano non esiste. Sea-Watch 4 e Alan Kurdi battono bandiera tedesca ma non possono andare dal loro governo e chiedere di essere classificate come navi di ricerca e soccorso, perché per imbarcazioni private quella certificazione non esiste. Né nel diritto tedesco, né in quello internazionale. E credo neanche in quello italiano. A parte ciò, le certificazioni sono stabilite in base al funzionamento normale. Per 20-30 persone il governo tedesco rilascia quella di nave da carico. L’Italia, come gli altri paesi membri, è obbligata a riconoscerla. È una specie di diritto comunitario. L’Italia non può dire di no. Siamo in presenza di un disaccordo tra stati. Su cosa? La maggior parte delle convenzioni internazionali specificano che la messa in sicurezza delle persone in mare costituisce sempre un’eccezione. Se una nave commerciale compie un salvataggio e trasporta un numero maggiore di persone gode di specifiche eccezioni rispetto a ciò che le è richiesto normalmente. Per esempio non si applica il divieto di scaricare acque reflue in mare, perché l’obbligo di salvare vite prevale su quello di non inquinare. Il governo italiano, però, sostiene che queste eccezioni valgono solo quando il salvataggio è accidentale, mentre le Ong vanno in mare con quello scopo intenzionale. La questione potrebbe essere risolta in maniera semplice: affinché ciò che fanno le Ong sia di nuovo un’eccezione basterebbe che l’Italia utilizzasse la Guardia costiera per le missioni di ricerca e soccorso. L’unico motivo per cui le Ong compiono regolarmente dei salvataggi è che non ci sono più i governi a farlo, come sarebbe loro obbligo. Migranti. Questa “revisione” dei Decreti Salvini non fermerà le stragi di Enrico Calamai Il Manifesto, 11 ottobre 2020 I “desaparecidos” dell’Europa opulenta nel nuovo millennio, vengono costantemente sorvegliati e seguiti nella loro discesa all’inferno, come sagome di un videogioco, in mare o nel deserto o nei lager. È vero, la revisione delle leggi sicurezza fatte approvare dall’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini rappresenta un primo passo di cui non si può non tener conto. Ben poca cosa, tuttavia, di fronte a quanto fatto, con semplicità e senza retorica, dal Governo Letta nel non lontano 2013/2014: l’operazione Mare Nostrum, che ha permesso, sia pure per poco, alla nostra Marina Militare di attuare conformemente al Diritto del Mare, salvando migliaia di vite umane. Non sarà la revisione delle Leggi Salvini a fermare le morti, perché, come scritto da Fratoianni e Orfini nell’articolo pubblicato sul manifesto dell’8 ottobre, il fenomeno delle migrazioni è strutturale. Per essere più chiari è l’altra faccia di una globalizzazione che meglio sarebbe definire neocolonialismo tendente alla globalità, in cui un Occidente sempre più armato ed aggressivo è, per il momento ancora, in grado di imporre i propri interessi a quegli Stati che non sono in grado di tutelare la propria sovranità e le proprie risorse, specie il petrolio. Ne risulta un mondo in cui Paesi sempre più ricchi sono circondati da miseria endemica e disastri ecologici, guerre e dittature, tentativi di proliferazione nucleare, come unico modo per tutelare la propria sovranità, terrorismo, che è la guerra dei poveri ma si presta anche ad ambigue derive securitarie, crisi da noi stessi provocate ed esodi biblici che di tutto ciò sono, per l’appunto, il portato strutturale. I Paesi dell’Unione europea e della Nato affrontano il problema esternalizzando le frontiere e spingendole sempre più a sud, chiudendo i porti, frapponendo normative proibizionistiche che trasformano in res nullius la massa dei disperati che attraversano Medio Oriente e Africa, in viaggio verso la sponda sud del Mediterraneo. Non solo, si è costruito un complesso sistema a tenaglia, attraverso il cosiddetto Processo di Rabat sulla sponda occidentale dell’Africa e il processo di Khartoum su quella orientale, di cui fanno parte dittature quali quella eritrea, sudanese, egiziana. È una riedizione del Piano Condor, che permetteva l’eliminazione dei cosiddetti sovversivi nell’America Latina degli anni ‘70 del secolo scorso. Perché i migranti sono i destabilizzatori, i sovversivi di oggi e governi criminali vengono sostenuti, armati e finanziati affinché facciano il lavoro sporco di bloccarli in qualunque modo, prima che possano arrivare alle coste mediterranee e diventare percettibili dalla nostra pur ondivaga opinione pubblica. E se capita che un’immagine buchi lo schermo, come nel caso del piccolo Alan Kurdi - nome da pronunciare con rispetto e cautela perché di vittima di violenza mediatica si tratta, oltre che della violenza sistemica che ne ha provocato la morte - ecco che le convulsioni emotive sconvolgono momentaneamente l’inerzia di un’opinione pubblica che la settimana successiva resterà piatta e inerte, di fronte alla notizia dell’affondamento di un barcone nella stessa zona con 4 bambini a bordo, questa volta non fotografati. E che tutto sommato accetta senza particolare commozione che il Mediterraneo diventi l’area di confine a più alta mortalità al mondo, secondo le Nazioni Unite. Sappiamo ormai, perché ampiamente documentato, quanto avviene in Libia: torture, massacri, stupri, prelievo di organi, riduzione in schiavitù e utilizzo in guerra come carne da cannone, ma è soltanto un tassello del sistema. Possiamo ben immaginare i metodi seguiti dai “diavoli a cavallo” incaricati in un primo tempo dal governo sudanese del genocidio in Sud Sudan e attualmente di dare la caccia e bloccare costi quello che costi migranti e richiedenti asilo. Possiamo anche ben immaginare quale sarà l’esito dei negoziati avviati recentemente in Tunisia dalla Ministra Lamorgese. Si sta mettendo a punto un sistema concentrazionario a intensità variabile, sparpagliato a macchia di leopardo ma rispondente a un disegno unitario, in tutto l’enorme retroterra africano e mediorientale che fa capo al Mediterraneo, nel quale trattamenti inumani e degradanti di ogni tipo sono da tempo all’ordine del giorno e che se non bloccato potrebbe diventare il più grande sistema eliminazionista se non genocidario, della storia dell’umanità. Una cosa tuttavia è certa: quelli che diventano i desaparecidos dell’Europa opulenta nel nuovo millennio, vengono costantemente sorvegliati e seguiti nella loro discesa all’inferno, come sagome di un videogioco, in mare o nel deserto o nei lager. Poco o nulla può sfuggire al panottico costituito da schermi e attrezzature varie ad alta tecnologia, navi e aerei spia, satelliti e droni. E in un sistema democratico, quale è ancora il nostro, l’operato anche omissivo dei militari e dei governi a monte, aderisce e dà forma insieme al volere dell’elettorato. No, la revisione dei cosiddetti “Decreti Salvini” non basta di fronte a tutto ciò; chissà cosa potremo dire se un giorno ci sarà una Norimberga a mettere in luce quanto in questo momento sta accadendo e, anzi, si sta facendo intorno a noi, grazie anche alla nostra neghittosa indifferenza: che non sapevamo? Giornata per l’abolizione della pena di morte. “Basta esecuzioni, il mondo si unisca” di Lucia Capuzzi Avvenire, 11 ottobre 2020 Appello del Papa per la dignità dei detenuti. A dicembre il bando ritorna all’Onu. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà”. Con queste parole, diffuse ieri via Twitter, papa Francesco si è unito alla celebrazione della Giornata mondiale contro la pena di morte. Una ricorrenza istituita diciotto anni fa dalla World coalition against death penalty (Wcadp), rete di oltre 150 Ong, e vari tra collegi di avvocati, autorità locali e sindacati. Il tweet di Francesco riprende esattamente quanto scritto al paragrafo 268 della nuova enciclica Fratelli tutti. Nel testo, c’è proprio un’apposita sezione del settimo capitolo sulle condanne capitali e sul dovere delle società di tutelare i diritti dei prigionieri. Un appello più cruciale che mai in questo tempo di pandemia in cui “le condizioni di quanti vivono già in estremo isolamento in carceri di massima sicurezza e spesso in attesa di esecuzione sono divenuto ancor più drammatiche”, come sottolinea la Comunità di Sant’Egidio, tra i fondatori della World coalition against death penalty. Al contempo, però, è cresciuto anche il numero di quanti si impegnano per il bando globale al boia, ha aggiunto la Comunità che, per l’occasione, ha lanciato la nuova piattaforma per la campagna abolizionista (nodeathpenalty.santegidio.org). Alla pressione della società civile si somma quella della diplomazia mondiale e di numerosi organismi internazionali, come il pronunciamento della Corte africana dei diritti umani e dei popoli del 28 novembre 2019. Eppure - ha sottolineato Amnesty International -, da allora, Botswana, Egitto, Somalia e Sud Sudan hanno continuato a mettere a morte i prigionieri. Un passo importante per arrivare alla moratoria universale è la prossima Assemblea generale dell’Onu di dicembre, in cui - dopo la pubblicazione di uno specifico rapporto del Segretario generale - ci sarà un nuovo voto al riguardo. Un forte appello ai governi affinché aderiscano è stato rivolto dall’Unione Europea e dal Consiglio d’Europa. “Nel 2019, per il secondo anno consecutivo, nel mondo sono state registrate esecuzioni solo in venti Paesi. Un minimo storico, eppure si tratta di venti Paesi di troppo”, hanno affermato l’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, e la segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejcinovic Buric. Pena di morte, Sant’Egidio lancia il nuovo sito web della campagna per l’abolizione di Simone Pitossi agensir.it, 11 ottobre 2020 In occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte che si celebra oggi, la Comunità di Sant’Egidio ribadisce il proprio impegno per l’abolizione di questa misura inumana e ingiusta, per la difesa della vita di ogni condannato e presenta il nuovo sito della campagna per un mondo senza pena di morte: nodeathpenalty.santegidio.org La nuova piattaforma è fruibile su tutti i dispositivi (desktop, tablet e mobile) e vuole essere uno strumento che consenta di partecipare attivamente alla campagna, attraverso l’invio di appelli e petizioni, e la condivisione degli eventi online. In questo tempo di pandemia, si legge in un comunicato, “le condizioni di coloro che vivono già in estremo isolamento in carceri di massima sicurezza e spesso in attesa di esecuzione, sono divenute ancora più drammatiche, in ogni parte del mondo”. La Comunità ha moltiplicato i propri sforzi per umanizzare la vita dei detenuti, “ed è significativo che nel momento in cui l’umanità si è confrontata con una condizione di particolare vulnerabilità, sia sensibilmente cresciuto il numero di coloro che hanno voluto impegnarsi in questa battaglia per la difesa della vita umana, sia con l’adesione sempre più massiccia agli appelli per i condannati a morte, sia nella richiesta di corrispondere con i detenuti”. Sant’Egidio, tra i fondatori della World Coalition Against the Death Penalty, segue con attenzione l’evoluzione ed accompagna gli sforzi dei Paesi, come la Repubblica centrafricana e il Kazakistan, che decidono di consegnare alla storia la pena capitale e guarda con fiducia alla prossima Assemblea generale Onu, a inizio dicembre, dove - dopo la pubblicazione di un rapporto specifico del segretario generale - sarà votata una nuova risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni, con una maggioranza che si preannuncia più ampia della precedente. Leggi liberticide e diritti negati, i regimi del mappamondo Covid di Gabriella Colarusso La Repubblica, 11 ottobre 2020 In molte nazioni lo stato di emergenza è usato per reprimere la stampa. Dall’inizio della pandemia, il presidente della Tanzania John Magufuli nega che nel suo Paese ci sia un problema sanitario. Magufuli, che è stato eletto cinque anni fa in elezioni considerate libere dalla comunità internazionale, sta usando la mano dura contro giornalisti e medici che osano contraddire la sua non-gestione dell’emergenza, e molti media del Paese si sono visti ritirare le licenze per aver criticato l’operato del governo. In Sierra Leone, il presidente Julius Maada Bio ha imposto lo stato di emergenza per un anno, e così pure sta facendo l’Egitto del generale al Sisi, prolungando di fatto una condizione che va avanti fin dal colpo dí stato contro l’ex presidente Morsi. In molti Paesi dell’America latina l’esercito è tornato per le strade per far rispettare le misure di protezione sanitaria, mentre in Stati come le Filippine o il Vietnam una serie di leggi contro “le fake news” stanno fornendo ai governi il pretesto per far tacere giornalisti e attivisti. La pandemia è una tempesta sanitaria difficile da domare, ma è anche uno stress test per la democrazia nel mondo. “La crisi ha imposto la necessità di misure straordinarie per proteggere la salute dei cittadini, e questo è sacrosanto, ma bisogna stare attenti a che queste misure - come lo stato di emergenza - vengano introdotte attraverso processi democratici e subito rimosse una volta che la pandemia sarà passata”, ci dice Alberto Fernandez Gibaja, senior Programme Officer dell’Idea, International Institute for Democracy and Electoral Assistance di Stoccolma, un’organizzazione intergovernativa che supporta i Paesi nelle loro transizioni verso la democrazia e ogni anno analizza lo stato di salute delle libertà nel mondo. Il 16 ottobre al Festival della partecipazione di Bologna, Gibaja presenterà i dati dell’ultimo global monitor dell’organizzazione. La fotografia che gli studiosi hanno scattato in questi ultimi otto mesi non è rassicurante. La pandemia sta mettendo a dura prova “la libertà di espressione e la sicurezza personale nel mondo”: mentre i governi democratici infatti usano divieti e restrizioni per cercare di arginare l’epidemia, la stessa viene usata da regimi autoritari o democrazie illiberali per concentrare i poteri, silenziare i critici, rafforzare gli apparati di sorveglianza, scavalcare i Parlamenti. Su 163 Paesi presi in considerazione dal rapporto, più della metà, 97, hanno fatto ricorso a poteri emergenziali, con percentuali che arrivano al 63,33% degli Stati in Europa e all’84% nelle Americhe, ma mentre “le democrazie stanno usando strumenti democratici per arrivare all’approvazione degli stati di emergenza, questo non succede nei regimi autoritari o nei Paesi che sono a metà strada tra democrazia e autocrazie”, dice Gibaja. Circa il 70% degli Stati nel mondo ha imposto il lockdown, e una percentuale ancora più alta, il 90%, ha chiuso le scuole, con conseguenze gravi per il welfare e l’uguaglianza di genere. Per molti bambini non andare a scuola significa rinunciare all’unico pasto del giorno: succede in Somalia, Afghanistan, Yemen. Per le bambine l’impatto può essere anche più duro. Se c’è un solo computer in casa, molte famiglie spesso scelgono che sia il bambino e non la bambina a usarlo. “Rischiamo di perdere molti dei progressi fatti nell’uguaglianza di genere a scuola a causa della pandemia”. Ma sono soprattutto la libertà di espressione e la sicurezza personale dei cittadini a essere sotto pressione. In molti Paesi come il Vietnam, lo Sri Lanka, il Marocco, i governi stanno usando le leggi contro le “fake news” per perseguire i critici. In altri è la sicurezza personale ad essere a rischio. Spiega Gibaja: “Ci sono paesi come il Niger in cui la polizia ha usato una forza eccessiva per reprimere le proteste contro la creazione di un cordone sanitario intorno alla capitale Niamey, ma violenze sono state registrate anche in Kashmir, in India”. In diversi Stati dell’America Latina, “che hanno un passato di repressione militare, i governi stanno facendo ricorso all’esercito per far rispettare le misure”. Per i regimi autoritari la crisi del Covid è un campo di battaglia politico, “l’occasione per stigmatizzare la democrazia come debole, servono volontà, disciplina e solidarietà. “Vi spiego perché il Covid è un’occasione per tutti i fondamentalismi” di Francesca Mannocchi L’Espresso, 11 ottobre 2020 Il Covid favorisce teorie del complotto e diseguaglianze sociali. E crea terreno fertile sia per Al Qaeda che per i suprematisti bianchi. Parola di Ali Soufan, l’uomo che identificò la mente dell’attentato alle Torri Gemelle. Che mette in guardia contro la tortura: produce solo bugie. Nel 2002 Ali Soufan, allora agente del FBI, vola in Afghanistan per interrogare Abu Zubaydah, catturato con un gruppo di sospetti qaedisti dopo uno scontro a fuoco in Pakistan. È l’inizio della guerra al terrore americana post 11 settembre. Soufan gli chiede di confermare l’identità di uno jihadista coinvolto negli attentati contro le ambasciate statunitensi del 1998, e accidentalmente mostra al detenuto una fotografia di Khaled Sheik Mohammed che era nell’elenco dei ricercati FBI. Zubaydah per nominarlo usa uno pseudonimo che Soufan conosceva bene. Era il nome per identificare uno dei fedelissimi di Bin Laden, ma non aveva ancora un nome e un volto a cui collegarlo. Fino all’incontro con Zubaydah. È stata la prima conferma che Khaled Sheik Mohammed fosse un membro di Al Qaeda e la mente dell’attentato alle Torri Gemelle. Nel 2011 Soufan decide di raccontare quegli anni in un libro di memorie, ma la CIA censura gran parte del racconto per “motivi di sicurezza nazionale”. Oggi, dopo nove anni e una lunga causa legale, “The Black Banners: How Torture Derailed the War on Terror After 9/11” è stato ripubblicato con i contenuti declassificati. È la prima volta che un libro di un funzionario dell’intelligence americana viene censurato e i documenti successivamente declassificati. Abbiamo raggiunto Soufan al telefono nella sua abitazione di New York. Vorrei partire da una domanda personale, all’ex agente FBI e al cittadino americano. Che effetto le ha fatto vedere il suo libro finalmente privo di strisce nere che oscuravano interi paragrafi? “È stato un grande momento. Sfogliare il libro senza parti censurate era il senso di una battaglia legale durata nove anni. Volevo che i lettori conoscessero la verità su quel periodo, l’inefficacia della tortura negli interrogatori, che sapessero come sono stati ingannati. È stata una battaglia per la verità e una vittoria per la trasparenza”. Ha sempre sostenuto che le censure imposte dalla CIA fossero un abuso di potere per nascondere l’inefficacia delle Enhanced Interrogation Tecquiques (EIT) (le pratiche di tortura) utilizzate negli interrogatori. “La tortura è stato un tema enorme della politica americana. L’idea era: se attraverso la tortura otteniamo informazioni utili a tutelare la sicurezza nazionale, allora la tortura è accettabile. Il punto è che le opinioni erano basata non su fatti, ma su una falsa narrazione. L’intero racconto della guerra al terrore è stato inquinato e corrotto, distorcendo le opinioni delle persone. Ora è finalmente possibile sapere cosa è accaduto in quei mesi nella stanza degli interrogatori. I lettori sapranno che abbiamo ottenuto informazioni per sventare altri attentati con metodi tradizionali. Non con la violenza. E sapranno che la violenza ha prodotto menzogne. Per paradosso, nascondere i contenuti di Black Banners e declassificarli ora, è la dimostrazione che abbiamo sempre sostenuto la verità. Si cancella ciò che si teme, non ciò che è inoffensivo”. Può spiegare quali informazioni, tra le tante, siano state censurate? “Dettagli sulla guerra al terrore e i fallimenti di quel percorso. Il resoconto dell’interrogatorio di Zubaydah, la nostra conversazione durata di fatto dieci giorni. L’identificazione di Khaled Sheik Mohammed come mente dell’attacco alle Torri Gemelle, o le informazioni su José Padilla, accusato di voler organizzare negli Stati Uniti un attacco terroristico con una bomba radiologica. Nel 2005 la CIA sostenne di aver ottenuto le rivelazioni grazie alle “tecniche di interrogatorio avanzate”, alla tortura, la verità è che sono state ottenute con tecniche tradizionali. Quando la CIA ha interrotto l’accesso all’FBI la tortura è diventata sistematica, nelle forme del waterboarding, della privazione prolungata del sonno. Oggi i lettori possono valutare autonomamente che quelle tecniche abbiano portato più disastri che successi”. Lei ha sempre sostenuto di opporsi alla tortura perché non funziona, perché non avrebbe reso l’America più sicura, diventando al contrario strumento di reclutamento. Penso alle immagini di Abu Graib. Gli Stati Uniti oggi sono un paese piu’ sicuro di 19 anni fa? “Dipende. Molte cose sono state sistematizzate e regolate per scongiurare pericoli di un altro attacco. Da questo punto di vista ritengo che abbiamo avuto successo. Ma se osserviamo le piste globali della minaccia jihadista sono molto meno ottimista. Al-Qaeda è più potente di quanto non fosse dopo l’11 settembre, quando contava circa 400 membri. Oggi vanta circa 40.000 membri in tutto il mondo e conserva la capacità di reclutare e agire in suo nome in Sahel, in Libia, Yemen, Somalia, Siria. Tatticamente abbiamo vinto, ma strategicamente abbiamo fallito. Non abbiamo saputo imporre una narrazione alternativa né trovare soluzioni per le instabilità di questi paesi. E al Qaeda ne approfitta. “The management of savagery” era la strategia qaedista del 2004: la violenza è tutto e la gestione della ferocia porterà al controllo del territorio. È ancora così? “Decisamente. Fase uno, sconvolgere l’ordine locale, regionale e internazionale con attacchi terroristici. Fase due: impedire a chiunque di riempire i vuoti di potere e quindi indebolire lo stato. Fase tre: controllare il territorio. Oggi al Qaeda sta implementando la Fase Due in vaste aree, dal Sahel appunto, al Medio Oriente. E lo fa in assenza di una diplomazia e una strategia statunitense”. Recentemente ha detto che la diplomazia un tempo consistesse nel dialogo con i nemici e oggi all’opposto, sia diventata l’esercizio di parlare solo con gli amici. Gli Stati Uniti si stanno ritirando da molti scenari delicati. Che Medio Oriente si sta modellando e quali sono le responsabilità americane? “Francamente stento a vedere una strategia diplomatica in Medio Oriente. Ho l’impressione che si stia creando una regione con fattezze più simili a quelle che precedevano la prima guerra mondiale, basti pensare alle energie che la Turchia sta mettendo nel Mediterraneo con ambizioni egemoniche. Osservando la capacità dell’Iran di avvantaggiarsi dei paesi indeboliti, come lo Yemen, la Siria, il Libano, o l’Iraq, per influenzare l’equilibrio regionale, è evidente che la regione attraversi una condizione peggiore di quella che viveva prima della guerra in Iraq del 2003. E questo senza dubbio dipende dall’indebolimento degli Stati Uniti. Stiamo gridando al mondo: lasciamo la regione, ce ne andiamo, togliamo le tende. Gli altri si organizzando, cercano di capire su quale carta puntare perché sanno di non poter piu’ contare su quella americana”. Eppure Trump ha rivendicato I suoi successi nella lotta al terrore. Mi riferisco all’uccisione di al Baghdadi e di Soulemani. “È necessario distinguere le due cose. L’uccisione di Baghdadi è senza dubbio legittima, ha inflitto atrocità al mondo. Sull’omicidio di Soulemani le valutazioni sono molto diverse. Ammetto che il mondo sia migliore senza di lui, eppure quell’omicidio si trascina molti ma. Innanzitutto è evidente che la sua morte non abbia portato stabilità, dopodiché se la nostra sola strategia è chiamarci fuori dalla regione, mentre quella iraniana è esserci, la nostra uscita di scena sarà inevitabilmente usata come segno di una vittoria iraniana. Per gli iraniani equivale a dire: Soulemani è vendicato. Dovremmo avere una strategia di lungo termine basata sui nostri valori e i nostri interessi. La verità è che in venti anni di guerra al terrore abbiamo troppe volte contraddetto quei valori apparendo ipocriti agli occhi del mondo, e continuiamo a farlo”. Vede un’America indebolita? “Molto, sì. Il punto è che la debolezza americana rischia di influenzare la sicurezza globale, ho sempre pensato che la nostra leadership fosse una pietra angolare della sicurezza e la stabilità del mondo, e lo abbiamo dimostrato negli ultimi 70 anni. Sono stati commessi errori? Certo. Ma ho l’impressione che invece di imparare dagli effetti nefasti di quegli errori li stiamo peggiorando”. Vede corrispondenze tra l’amministrazione Bush - penso alle falsità sull’efficacia della tortura - e l’atteggiamento dell’amministrazione Trump verso l’intelligence, sulle elezioni del 2016 ad esempio? “L’amministrazione vuole modellare la percezione dei fatti. Questo vale per la gestione della pandemia o per la situazione al confine messicano, o per i rapporti con l’Iran o i sauditi. Oggi viviamo la continuazione del passato. La politicizzazione dell’intelligence non è iniziata con Trump. Esisteva prima, Trump ne ha solo tratto vantaggio. Dopo l’11 settembre il 70% dell’opinione pubblica americana credeva che Saddam Hussein fosse coinvolto negli attacchi perché c’era una campagna coordinata, atta a far credere che fosse così. L’intelligence otteneva informazioni con la tortura, le informazioni erano false, ma davano forma alla narrazione che serviva a quell’amministrazione. Così chiunque era favorevole alla tortura. È il sistema intero che crea un circolo vizioso di menzogne e disinformazione. ?Se non ci battiamo per la trasparenza e per l’obbligo di rispondere dei propri errori, lo vivremo ancora e ancora.È necessario punire chi ha mentito, così ci penserà due volte a mentire di nuovo”. Il Coronavirus ha modificato le vite di tutti e inevitabilmente cambierà anche le strategie dei gruppi terroristici, come pensa che si modellerà il terrorismo del futuro? “La pandemia è un’opportunità per i fondamentalismi. Gli estremismi religiosi così come il suprematismo bianco vedono nella crisi da Covid un modo per rafforzare e promuovere le loro ideologie. La pandemia produrrà una crescente instabilità e disparità sociale. Se a questo uniamo la proliferazione di disinformazione e teorie del complotto, è facile immaginare un terreno fertile per gruppi terroristici di varia natura. I gruppi religiosi dipingeranno la crisi come una volontà superiore, reclutando in nome di una interpretazione rigida dei testi. Penso a gruppi come i talebani, al Shabab o quel che resta e si sta ricompattando dell’Isis. Dall’altro lato i gruppi di destra rafforzeranno la narrativa populista dei confini rafforzati per evitare contaminazioni e altre epidemie. La conseguenza naturale sarà un’ondata xenofoba”. Alcuni mesi fa il New Yorker ha rivelato che lei è stato avvertito dalla CIA di una minaccia da parte di al Qaeda sostenuta dai Sauditi, questo mentre era al centro di una campagna online e di intimidazione con gli stessi protagonisti della tragica vicenda di Jamal Khasoggi. Lei era amico di Khasoggi, si batte per fare giustizia per la sua morte. Può dirci di più sulle minacce ricevute? “Non posso dire molto perché ci sono indagini in corso. Non abbiamo trovato collegamento tra le minacce di al Qaeda e la campagna di disinformazione dei sauditi, certamente le coincidenze sono singolari. E le somiglianze con il caso Khashoggi lampanti. Stesse parole, stesse frasi per augurarmi la morte, stessi account social che minacciavano Jamal. La verità non ha molti fan e io ho tanti nemici. Non mi faccio intimidire, se lo facessi avrebbero vinto loro”. Abbiamo iniziato la nostra conversazione con una domanda personale, vorrei concluderla con un’altra domanda personale. È spaventato? “Sarò totalmente onesto. No. Diciamo che se dopo più di vent’anni al Qaeda e i sauditi sono così interessati al mio lavoro è perché il mio lavoro li disturba e li ostacola, segno dunque che sono nel giusto. Mi alleno a non pensare nei termini della paura quanto nei termini della giustizia”. Giulio Regeni e Patrick Zaki: dall’Egitto solo promesse e nessuna verità di Floriana Bulfon L’Espresso, 11 ottobre 2020 Il primo è stato ucciso e torturato dai servizi segreti, il secondo è detenuto da 240 giorni per aver pubblicato su Facebook dei post considerati contrari ad Al Sisi. Ma sono due personaggi scomodi per gli affari. “Con l’Italia c’è un’esemplare collaborazione”, assicura l’ambasciatore egiziano Hisham Badr al termine della cerimonia in cui tre grandi aziende italiane, Eni, Snam e Saipem, entrano nel comitato consultivo del forum che avrà sede al Cairo e si occuperà di rafforzare la cooperazione nel campo del gas. È accaduto pochi giorni fa ed è il segno che il dialogo energetico tra governo egiziano e italiano procede a gonfie vele. Del resto anche le fregate stanno già salpando verso le Piramidi. Amicizia e prosperità al servizio di interessi comuni, quelli che latitano davanti a Giulio Regeni e Patrick George Zaki. Due giovani calpestati nella loro disarmata vulnerabilità e stritolati dalle mani di un potere, quello di Abd al-Fattah al-Sisi, che limita la libertà delle persone, reprime il dissenso, fa scomparire gli oppositori. Regeni è stato torturato e ucciso dai servizi segreti egiziani ed è stato chiaro fin dall’inizio. Una gerarchia di ferocia e omertà l’ha costretto a un calvario e ha messo subito in moto la macchina dei depistaggi: la macabra messinscena organizzata per dare la colpa a una banda di balordi; i video registrati nella metropolitana la notte della sparizione restituiti, dopo lunghe trattative, frammentati e inutili; le celle telefoniche negate perché al Cairo si sa è prioritario tutelare la privacy. Il risultato è che dopo oltre quattro anni e dodici incontri tra la procura di Roma e quella egiziana è stallo e l’ultima volta, in videoconferenza, il procuratore generale Hamada Al Sawi si è persino lanciato in una sequela di contro-domande per offendere la memoria del giovane ricercatore. Provocazioni continue, come l’aver restituito un paio d’occhiali, il portafoglio e un orologio facendo credere che fossero di Regeni. Erano solo “cianfrusaglie”, hanno amaramente commentato i genitori. L’Egitto tace anche in merito alla rogatoria partita nell’aprile 2019. Chiede informazioni su cinque uomini dei servizi di sicurezza e pone dodici quesiti, alcuni emersi da importanti testimonianze come quella del keniota che ha ascoltato un poliziotto della National Security raccontare di aver partecipato al sequestro o quelle molto attendibili di un testimone individuato nel corso delle indagini difensive dall’avvocato della famiglia Regeni. I magistrati italiani Sergio Colaiocco e Michele Prestipino hanno poi specificato che “per consentire la prosecuzione delle indagini preliminari”, servono le generalità complete dei cinque indagati per il sequestro. Colonelli, maggiori e un generale devono eleggere domicilio in Italia, un passaggio tecnico ma fondamentale. Nulla da fare, resta solo un silenzio assordante. Tanto che la Procura di Roma a dicembre, quando scadono i termini dell’indagine preliminare, dovrà decidere in solitudine se chiedere il rinvio a giudizio anche se la mancata notifica degli atti potrebbe rappresentare un problema per lo svolgimento del processo. Altro che garanzie sul caso di Giulo Regeni: il cdm prima di ferragosto ha autorizzato l’esportazione di due fregate sottratte alla Marina italiana, tra le proteste dei militari. E ora i conti non tornano tra Fincantieri, Leonardo e gli altri fornitori per le armi chieste da Al Sisi “Da parte nostra c’è la forte volontà di conseguire risultati definitivi nell’inchiesta sull’omicidio Regeni”, aveva assicurato il presidente Al-Sisi. Di più: “Giulio è uno di noi”. E invece il ritorno dell’ambasciatore Giampiero Cantini, considerato una resa sulla verità nel bel mezzo delle ferie agostane, e il susseguirsi di visite governative al cospetto del generale-dittatore non ci hanno restituito risposte ma hanno solo aumentato i profitti delle relazioni economiche. Anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio chiarisce la linea: “l’ambasciatore non si ritira perché è con i contatti diplomatici che si ottengono risultati”. Ne è meno convinto Erasmo Palazzotto, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sulla morte del giovane friulano: “i risultati sono stati insoddisfacenti. Ci sarà un momento in cui il governo sarà costretto a decidere”. Dovrà prendere coscienza che obbedendo ai dittatori non si fa l’interesse nazionale. Stabilire che rapporti tenere con un paese dove negli ultimi giorni sono state imprigionate quasi trecento persone, più di 50 minori, che considera il social TikTok un pericolo per la moralità. Dove si muore nelle mani dello Stato o si scompare inghiottiti nel buio. Arresti, condanne e torture sono ormai prassi comuni. A migliaia sono finiti in carcere, “prigionieri di coscienza” come Zaki, studente egiziano dell’Università di Bologna. Da 240 giorni è rinchiuso nel maxi complesso carcerario di Tora alle porte del Cairo. Accusato, dopo aver pubblicato dei post considerati antiregime, di “incitazione alla protesta e al terrorismo”. Pochissime le visite permesse, censurate molte delle lettere spedite e ricevute, una detenzione preventiva che viene prolungata di volta in volta. Il 26 settembre è saltata l’udienza, forse ci sarà il 7 ottobre. La giustizia usata per sfinire la rete del dissenso. “Zaki paga il prezzo del suo attivismo per i diritti umani” spiega Riccardo Noury di Amnesty International che insieme a una rete di associazioni, studenti, comuni e cittadini continua a chiedere la sua liberazione. Per il regime però ogni appello dell’Italia è considerato un’indebita ingerenza. L’Egitto mostra i muscoli, tanto che l’ambasciata a Roma si è rifiutata persino di accogliere le oltre 150mila firme raccolte a sostegno della richiesta di scarcerazione. Zaki spera di poter raggiungere presto i suoi colleghi, di frequentare di nuovo l’università. “Sto bene, un giorno tornerò libero e tornerò alla normalità e ancora meglio di prima”, ha scritto in una lettera alla famiglia. I suoi genitori, come quelli di Regeni, continuano con forza e dignità a chiedere risposte. Insieme a loro si stringe una comunità che si ribella al mancato rispetto dei diritti umani e all’omertà. Perché il complice più stretto e efficace di un regime che si scaglia su prede indifese è il silenzio. Russia. La condanna di Dmitriev e i limiti della nostra politica di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 11 ottobre 2020 Indignazione negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, in Italia nessuna reazione ufficiale e c’è anche chi frena. È passata sostanzialmente inosservata nel nostro paese l’ultima pesante condanna a tredici anni di carcere subita lo scorso 29 settembre da Yuri Dmitriev, storico russo e attivista dell’associazione Memorial. La sentenza ha sollevato le proteste degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, convinti che dietro la pretestuosa accusa di pedofilia rivolta al condannato si celi la volontà di colpire il suo lavoro in difesa della memoria delle vittime dello stalinismo. Nel 1997 Dmitriev fu tra coloro che scoprirono a Sandarmockh, nelle foreste della Carelia al confine con la Finlandia, oltre duecento fosse comuni nelle quali erano stati gettati i corpi di migliaia di persone appena giustiziate con un colpo alla nuca. Provenivano dalle isole Solovki, cioè dal primo campo per prigionieri politici fondato nel 1923 ai tempi di Lenin; nel 1937 si era deciso di chiudere il campo e di sopprimere tutti coloro che vi erano reclusi. Al momento in cui avvenne la scoperta delle fosse comuni le autorità russe sembravano appoggiare questo tipo di ricerche e anche condividere lo spirito che le sosteneva: nell’ottobre 1997, sessantesimo anniversario della loro uccisione, alle vittime di Sandarmockh venne dedicata una cerimonia e poi un monumento, destinato però a restare il primo e l’ultimo del genere. Con l’arrivo al governo di Vladimir Putin la situazione doveva infatti mutare. Sempre più il passato sovietico (stalinismo compreso) veniva giudicato in modo sostanzialmente positivo in quanto rappresentava il periodo nel quale la Russia si era affermata come grande potenza mondiale. Questa rivendicata continuità tra la Russia di oggi e l’esperienza sovietica è tanto più forte in quanto incontra il gradimento di ampi settori dell’opinione pubblica da tempo interessata da un fenomeno di - come è stato chiamato - soviet nostalgia. La battaglia in difesa della memoria delle vittime del comunismo è dunque diventata difficile (l’associazione Memorial è stata considerata un “agente straniero”) e viene direttamente combattuta da una storia ufficiale che cerca di offuscare la realtà oppressiva e criminale del regime comunista; ma diventa anche pericoloso voler documentare le uccisioni di massa avvenute in epoca staliniana. La vicenda di Dmitriev si inserisce e si spiega in questo quadro. Arrestato nel dicembre 2016, veniva inizialmente prosciolto nel 2018, ma l’anno seguente un nuovo processo lo vedeva condannato a tre anni e mezzo di reclusione. Questo avrebbe voluto dire che, dato il periodo già trascorso in prigione, sarebbe uscito dal carcere il prossimo novembre. La nuova condanna pronunciata a fine settembre - un “fulmine a ciel sereno” l’ha definita Le Monde - viene dunque a impedire il ritorno in libertà di uno storico particolarmente impegnato nella difesa della memoria delle vittime del Gulag. L’assenza in Italia di reazioni ufficiali al caso Dmitriev segnala un diffuso limite del nostro ceto politico sia - per quanto possa sembrare incredibile a trent’anni circa dalla fine dell’Urss - nel giudizio storico da dare del comunismo sovietico sia nell’atteggiamento da tenere verso la Russia di Putin. Sul primo versante il limite riguarda soprattutto la sinistra. Ricordo ad esempio che, quando un anno fa il Parlamento europeo approvò una risoluzione di condanna tanto del fascismo e del nazismo quanto dei regimi comunisti, l’Anpi protestò duramente ricordando come i sovietici fossero stati i “liberatori” dell’Europa (affermazione verissima e perfino ovvia, che dimenticava però come al contempo, all’interno dell’Urss e nei confronti dei regimi dell’Est, il potere sovietico avesse svolto anche un ruolo di oppressore e spesso di carnefice). Sul secondo versante, quello della posizione assunta nei confronti della “democratura” putiniana, si distinguono invece - in una sotterranea alleanza gialloverde - sia i Cinquestelle che la Lega. Pochi giorni fa, infatti, un documento del Parlamento europeo che chiedeva un’indagine internazionale sull’avvelenamento di Alexei Navalny ha ricevuto il voto contrario della Lega, mentre i rappresentanti del M5S si sono astenuti (insieme a quelli di FdI). Non stupisce dunque che, per una ragione o per l’altra, la sorte di chi come Yuri Dmitriev combatte per salvare le tracce delle vittime del comunismo interessi poco o nulla alla politica italiana, che pure non tralascia occasione per richiamarci (un po’ ipocritamente, forse) al dovere della memoria. Mali. Ostaggi liberati, ecco il volto umano dell’Occidente che piace agli africani di Domenico Quirico La Stampa, 11 ottobre 2020 Per certe figure umane accade come per i luoghi affascinanti, ti vien voglia di fermarti a oltranza, di metterci vita e radici, per riporre con calma quanto ti danno di fatica, di opere e di fuochi da non lasciar morire lungo la china degli anni e delle stagioni. Parlo di due degli ostaggi liberati in Mali, il missionario italiano Pier Luigi Maccalli e la cooperante francese Sophie Petronin. Nei luoghi africani dove i due, da anni, svolgono la loro milizia della fraternità quotidiana, applicata, pressante, Bamoanga in Niger quasi al confine con il Burkina Faso, e Gao in Mali dove il grande fiume si slarga a ventaglio lucente e opera la piccola ong che si occupa dei bambini malnutriti, la gente ne ha festeggiato la liberazione come se fossero persone di famiglia. Compagni di vita: non bianchi, occidentali, stranieri. Non conta per loro che lui sia cristiano, “infedele” e lei convertita all’Islam (per questo insolentita dalla destra francese al trucido belare: traditrice, rimandatela indietro!). Risuonano, anche Oltralpe, assonanze con quanto accaduto in Italia per un altro ostaggio, Silvia Romano. Anche lei cooperante. Sono due punti della terra, Bamoanga e Gao, dove uomini afflitti guardano scorrer la sabbia; dove sono necessari rinforzi urgenti, quotidiani di misericordia e supplementi di carità affinché la Storia non sia solo pessima e torva. Dovremmo chiederci il perché di questa gioia. La risposta è che queste due figure rappresentano quello che loro, gli africani, vorrebbero fossimo noi, l’Occidente che si aspettano di vedere, incontrare, amare. Perché vivono una storia che è anche la loro. Uomini e donne che vengono per tendere la mano, per aiutare, alla pari, la loro difficile traversata nella miseria, nella corruzione, nella violenza identica praticata dai presidenti e dai ribelli. Un Occidente che non propone modelli da copiare, si offre e non chiede nulla, né conversioni di anime né contropartite economiche o scambi di utilità politiche. Che impara la loro lingua e non impone la propria, che indossa le stesse vesti, mangia lo stesso cibo, patisce la stessa fatica sotto il firmamento immenso. Che dopo quattro anni di prigionia tra i jihadisti, a 75 anni, dice: “Abbiamo tutti delle prove da attraversare”. E quella frase anche loro potrebbero sillabarla, abituati come sono agli insistenti, inesorabili, arroganti facitori d’ingiustizia. Non fraintendiamo: non parlo di piccole storie da catechismo, figurine incastrate nel presepio. La santità, anche quella laica, è eccezione e non modello. Basta guardarli i due ex ostaggi per sentirne la stoffa: non volti macerati dalla disciplina dell’anima, che impone subito, con l’odore della naftalina, abissali smarrimenti a noi abituati alle piccole diserzioni quotidiane. Sono, il prete e la cooperante, forti, lei con un sorriso malizioso, e la voglia di ricominciare subito. Parliamo semmai di politica, sì di politica internazionale, di strategia pratica per impedire che il terzo mondo diventi, come sta accadendo, una immensa retrovia di jihad fanatiche. Gli uomini e le donne che transitano accanto a Pier Luigi Maccalli e Sophie Petronin, sono abituati ad un altro Occidente. Quello dei notabili politici in mercedes che vengono a stringere le mani dei loro presidenti e dei loro ministri ingolfati in mille traffici, soperchierie e ladrocini; e che dopo una nuotata nell’acqua santa della cooperazione e della democrazia approdano subito nelle terre basse degli affari. Promettono sviluppo e modernità, e loro si domandano: sì ma quando? Sono abituati alle facce degli uomini di affari che scendono a firmar contratti, comprano le loro disgraziate ricchezze a prezzo di favore, dando una mancia ai complici locali. Osservano la cooperazione che stazza tonnellaggi da multinazionale, che non vedono in faccia perché vive blindata nei suoi fortilizi sicuri e distribuisce aiuti con la indifferenza con cui si elargisce un premio di produzione o un’elemosina. Sono abituati a incrociare nelle piste di polvere occidentali in tuta mimetica, marziani affardellati di giubbotti, mitra, visori, congegni elettronici, che si muovono su mezzi da fantascienza. Vengono a portare “sicurezza”, a dar la caccia al “nemico”. Ma il nemico parla la stessa lingua, hanno lo stesso dio, veste allo stesso modo. Già. Chi è il nemico? Le immagini prendono significati diversi. Le didascalie si intorbidano. L’Occidente, un’altra volta dopo il colonialismo, confonde, delude. Ci sono momenti in cui cosa bisogna fare lo si capisce di più, con estrema nitidezza. Nel Sahel, per l’ennesima volta, ci si batte per conquistare, prima che un territorio, i cuori e le menti. I jihadisti schierano il kalashnikov e dio, la fede e la voglia di vendetta, parossismi e corrosioni. Ha funzionato in altri luoghi, funziona purtroppo anche qui. Noi schieriamo forze speciali, elicotteri, droni, denaro, alleati impresentabili, vaghe promesse, il virus del: ti aiuto Africa se mi dai le basi e le materie prime. Non basta. Ci vogliono esempi semplici e chiari: come questi due ex ostaggi.