Circolare del Dap sul 41bis: rispettare sentenze Consulta, ma la revocano dopo 2 giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 ottobre 2020 Il 29 settembre il Dap chiede di rispettare le sentenze di Consulta e Cassazione, dopo due giorni arriva lo stop del capo Petralia e del vice Tartaglia. Il direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Turrini Vita, tramite circolare, ordina alle direzioni delle carceri di rispettare le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione sul 41bis. Ma dopo qualche giorno il vice capo dipartimento Roberto Tartaglia e il capo Bernardo Petralia revocano la circolare. Le carceri possono quindi continuare ad opporsi alle ordinanze emesse dai magistrati di sorveglianza che recepiscono la sentenza della Consulta. Cosa è accaduto? La circolare emanata il 29 settembre - Il Dubbio ha appreso che il 29 settembre scorso, il direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento del Dap ha emanato una circolare avente come oggetto i “reclami giurisdizionali (articolo 35 bis OP)”. In questa nota l’ufficio generale ha comunicato l’orientamento assunto dai magistrati di sorveglianza a seguito dei rilevanti interventi della Corte costituzionale e della suprema corte di Cassazione. Ovviamente, come il buon senso e anche lo stato di diritto richiede, ha chiesto di rispettare subito le ordinanze della magistratura di sorveglianza visto che sono dovute dalle sentenze della Consulta e Corte suprema. Di rispettarle, ma soprattutto di non predisporre più reclami avversi. A quali ordinanze si riferisce? Sono quattro. E giustamente l’ufficio generale del Dap le elenca. Eliminare i divieti imposti in materia di cottura cibi - C’è l’ordinanza di accoglimento di reclami aventi ad oggetto richieste di detenuti volte ad eliminare i divieti imposti dall’amministrazione in materia di cottura cibi. Una questione decisa dalla Corte costituzionale con sentenza del 266 settembre del 2018. Eliminare il divieto di scambio di oggetto tra detenuti appartenente allo stesso gruppo di socialità - Poi c’è l’ordinanza di accoglimento reclami aventi ad oggetto richieste di detenuti volte ad eliminare il divieto di scambio di oggetto tra detenuti appartenente allo stesso gruppo di socialità. Anche su questa questione la Corte costituzionale si è espressa con sentenza del 5 maggio scorso con la quale, appunto, è stato dichiarato illegittimo il divieto assoluto di scambio di oggetti tra detenuti in 41bis appartenenti allo stesso gruppo di socialità. Eliminare le limitazioni alla permanenza all’aria aperta a una sola ora - L’altra è l’ordinanza di accoglimento di reclami aventi ad oggetto richieste di detenuti volte ad eliminare le limitazioni alla permanenza all’aria aperta ad una sola ora. In questo caso trattasi della sentenza della Cassazione che ha detto sì alle due ore d’aria per i detenuti al 41bis, perché ridurre a un’ora d’aria questo intervallo, considerando al suo interno anche l’ora prevista per la socialità del detenuto significa non comprendere le diverse finalità dei due istituti. Le due ore d’aria, sempre secondo la Cassazione, possono essere ridotte solo in presenza di validi motivi, in assenza dei quali, la riduzione della suddetta durata di aria aperta rivestirebbe un valore meramente afflittivo, in violazione dell’art. 27 della Costituzione. Annullamento di sanzioni disciplinari inflitte per condotte consistite in meri scambi di saluto - L’ultima ordinanza elencata è quella di accoglimento di reclami aventi ad oggetto la richiesta di annullamento di sanzioni disciplinari inflitte per condotte consistite in meri scambi di saluto tra detenuti sottoposto al 41bis e appartenenti a diversi gruppi di socialità. Anche in questo caso la Cassazione ha ritenuto che il mero saluto (si riferiva al “buongiorno” e alla “buonanotte”) tra detenuti non può essere ritenuta una forma di comunicazione, intesa nel veicolare messaggi. La circolare è stata revocata il 1° ottobre - La circolare a firma di Turrini era chiara: tutta improntata a chiedere di rispettare le ordinanze ispirate dalle sentenze della Consulta e Cassazione. Ma tempo qualche giorno, esattamente il primo ottobre, come ha appreso il Dubbio, la nota dell’ufficio generale è stata revocata dal vice capo Dap Tartaglia e dal capo Petralia. Al 41bis la sentenza della Corte costituzionale non può essere applicata? L’allarme dei Garanti dei detenuti: “44 suicidi in carcere nel 2020, 8 solo in Campania” di Amedeo Junod Il Riformista, 10 ottobre 2020 Con il diffondersi dell’epidemia di Coronavirus è stata scritta un’altra pagina nera nella triste storia delle carceri in Italia. Nell’anno delle rivolte e, più di recente, delle numerose denunce di maltrattamenti e violenze, si contano, ad oggi, già 44 suicidi negli istituti di pena, di cui 8 persone solo nella regione Campania. In un simile contesto assume un rilievo ancor maggiore la Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà. L’assemblea nazionale, strutturata in due giorni di dibattiti, è stata organizzata a Napoli il 9 e 10 ottobre 2020, in una regione, come sottolineato dal garante regionale della Campania Samuele Ciambriello, “che è una terra di contrasti, che si riverberano anche nell’ambito operativo in un contesto delicato quale quello delle persone private della libertà” e in cui al primato negativo riguardante il sovraffollamento e l’inadeguatezza delle strutture, denunciata ormai da decenni, hanno fatto seguito solo promesse (il progetto del Carcere di Nola, per fare un esempio, è ancora in fase di progettazione preliminare) mentre Poggioreale resta il carcere più sovraffollato d’Europa. Al centro del dibattito, le tematiche relative alla prevenzione, al diritto alle relazioni familiari e alla formazione nei penitenziari, in tempi di pandemia. Per Mauro Palma, Presidente nazionale del Garante dei diritti dei detenuti, “le rivolte nelle carceri all’inizio della pandemia sono state l’esplicitazione di una doppia ansia che c’era negli istituti penitenziari. Aver fatto circolare la voce di una chiusura totale e avere la sensazione di stare in un ambiente rischiosissimo in caso di pandemia, hanno determinato le rivolte che non devono essere lette come organizzate da qualche mano oscura. È stato piuttosto un grido drammatico che rispondeva ad un’angoscia reale. La questione delle morti avvenute durante le rivolte è stata spesso superficialmente archiviata come drammatico effetto collaterale. Come garante nazionale, mi sono presentato come persona offesa in tutte le inchieste e seguo attentamente l’evolversi delle indagini. I fatti recenti di Santa Maria Capua Vetere, invece, testimoniano come la magistratura di sorveglianza abbia fatto un lavoro egregio andando a reperire le dichiarazioni delle persone fin dalla stessa notte della prima denuncia. Sono atti gravi da appurare a fondo”. Per quanto riguarda la quotidianità in carcere in era Covid, per Stefano Anastasìa, portavoce della Conferenza e garante dei diritti dei detenuti per la Regione Lazio e per la Regione Umbria, “in carcere sono stati mesi caratterizzati da difficoltà inedite, perché le misure di prevenzione Covid hanno inevitabilmente danneggiato o interrotto attività e relazioni familiari, costringendo spesso ad interrompere i rapporti dei detenuti col mondo esterno. Come garanti siamo stati presenti negli istituti di pena per cercare di sostenere in prima linea le necessità delle persone private della libertà. In questa assemblea cercheremo di fare il punto sulle esperienze e sulle criticità presenti e sulle prospettive implicate dall’epidemia”. Il Garante regionale Ciambriello ha fornito inoltre alcuni numeri sulla situazione in Campania, aggiornati a settembre 2020: Nei 15 istituti penitenziari per adulti risiedono 6475 detenuti di cui 308 donne e 134 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 6062 unità. Per ciò che concerne gli Istituti penali per Minori, invece, sono accolti complessivamente 55 ragazzi. Sul fronte delle buone notizie, invece, risale a pochi giorni fa la visita del Ministro Gaetano Manfredi al Polo Universitario Penitenziario di Secondigliano, secondo polo universitario per detenuti per numero di iscritti, dopo quello di Bologna. Per quanto riguarda i corsi di formazione professionale, invece, si riscontra l’attivazione di 23 corsi di formazione che hanno coinvolto 236 iscritti. L’opinione condivisa dei garanti è che occorre però fare molto di più per rendere gli istituti penitenziari migliori, per promuovere il circolo virtuoso dell’investimento formativo considerato come strumento finalizzato al reinserimento sociale concreto, e per accostare alla certezza della pena un’altra certezza, altrettanto cruciale, e cioè la garanzia di una pena di qualità, che tenga sempre aperti gli occhi sui diritti inviolabili delle persone private della libertà. “Alla persona che sbaglia va tolto il diritto alla libertà, ma non quello alla dignità”. Anastasia: “Bene il decreto sicurezza, ma no alla criminalizzazione dei cellulari” redattoresociale.it, 10 ottobre 2020 In corso a Napoli l’Assemblea della Conferenza dei Garanti. Il portavoce, Stefano Anastasìa, ha fatto il punto sulle carenze del sistema, sui problemi della didattica a distanza e sul decreto sicurezza. “Il decreto sicurezza del governo è un atto molto importante che farà emergere dalla clandestinità migliaia di persone. Riconosce e amplia il ruolo del Garante delle persone private della libertà, consentendo a coloro che sono trattenuti nei Cpr (i Centri di permanenza per il rimpatrio) di rivolgersi ai garanti, per rappresentare i propri problemi e presentare reclami”. Così il portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, Stefano Anastasìa, garante per le regioni Lazio e Umbria, nel corso della relazione introduttiva all’assemblea 2020 della Conferenza in corso di svolgimento a Napoli. “Unico appunto - ha aggiunto Anastasìa - è sulla criminalizzazione dei telefoni cellulari in carcere: se non si affrontano più radicalmente le forme della comunicazione dei detenuti con i familiari e il mondo esterno, garantendola nella legalità, la sanzione penale è una minaccia vuota e che avrà solo effetti controproducenti”. L’importanza dei garanti territoriali - Nel corso della sua relazione introduttiva, Anastasìa ha sottolineato l’importanza della rete dei garanti territoriali, soprattutto al tempo della pandemia. Un tempo in cui i detenuti vivono “in una condizione di doppia reclusione e di separazione, dalla vita civile e da quei legami-ponte (con i familiari, con i volontari, con la comunità esterna) che generalmente ne garantiscono una minima tollerabilità”. Le carenze del sistema di accoglienza sul territorio sono un ostacolo all’uscita dagli istituti di reclusione di migliaia di persone e necessitano di scelte di investimento finanziario, anche con il Recovery Fund, in luoghi e forme dell’accoglienza e dell’integrazione sociale. Anastasìa ha ricordato le difficoltà nella prosecuzione della didattica a distanza e la necessità di garantire in via prioritaria le vaccinazioni dei detenuti che lo richiedano. “Con la popolazione detenuta di nuovo in crescita (54.277) - ha proseguito Anastasìa - c’è nuovamente grande preoccupazione. Sono loro, i detenuti, che hanno detto ai loro familiari, fin che hanno potuto, di non tornare a colloquio, neanche quando questo era tornato a essere possibile. Sono loro che in questi giorni hanno chiesto di poter fare la vaccinazione anti-influenzale, per evitare la confusione dei sintomi e la paralisi degli istituti di pena e della loro vita quotidiana”. A presiedere l’assemblea è il Garante della Campania, Samuele Ciambriello, il quale a inizio lavori ha letto un messaggio di ringraziamento del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Sono poi intervenuti il vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio Devid Porrello, coordinatore del gruppo di lavoro sugli organi di garanzia della Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis (in modalità telematica), la capo dipartimento Giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria campana, Antonio Fullone, l’assessora alle politiche sociali del Comune di Napoli, Monica Buonanno. I lavori sono proseguiti nel pomeriggio con le sessioni di lavoro sui temi legati all’emergenza Covid-19 nelle carceri: prevenzione sanitaria e diritto alle relazioni familiari, il lavoro, l’istruzione e l’offerta trattamentale. Altre due sessioni tematiche riguardano la funzione rieducativa della pena in contesti di criminalità organizzata e il reinserimento sociale e l’accoglienza delle persone private della libertà. Sessione conclusiva pubblica. Oggi, sabato 10 ottobre, la mattinata sarà dedicata alle relazioni delle sessioni parallele e al dibattito al quale parteciperanno, in presenza o in remoto, Giovanna Del Giudice, Conferenza Salute Mentale, Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia, Antonietta Fiorillo, presidente del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza, Riccardo Polidoro, Unione camere penali italiane, Alessio Scandurra, Associazione Antigone. A conclusione, interverrà Mauro Palma, presidente dell’Autorità garante nazionale delle persone private della libertà. La rete dei Garanti delle persone private della libertà - La Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà rappresenta gli organismi di cui si sono dotati regioni ed enti locali, in base alla legislazione nazionale e regionale. Il decreto-legge 146/2013 ha consentito ai detenuti e agli internati la facoltà di “rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa ai garanti regionali o locali dei diritti dei detenuti” e ha istituito il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, al quale affida la responsabilità di “promuovere e favorire rapporti di collaborazione con i garanti territoriali, ovvero con altre figure istituzionali comunque denominate che hanno competenza nelle stesse materie”. Nel corso degli ultimi 15 anni, 17 regioni e province autonome, 9 province e aree metropolitane, 50 comuni hanno istituito garanti dei detenuti o delle persone private della libertà, ovvero ne hanno formalmente affidato le funzioni ad altri organi di garanzia a competenza multipla. La Conferenza, con sede presso la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome e sede operativa presso il Garante dei detenuti del Lazio, rappresenta i garanti territoriali nei rapporti istituzionali con le autorità competenti e collabora con il Garante nazionale. Tra gli altri compiti previsti dal proprio regolamento, la Conferenza dei garanti ha i seguenti: elabora linee-guida per la regolamentazione, l’azione e l’organizzazione degli uffici dei garanti territoriali; monitora lo stato dell’arte della legislazione in materia di privazione della libertà; coordina la raccolta di informazioni relative alle forme e ai luoghi di privazione della libertà nei territori di competenza dei garanti territoriali; effettua studi e ricerche, organizza eventi di dibattito e confronto promuove occasioni di confronto e di formazione comune dei garanti territoriali e del personale addetto ai relativi uffici; esercita ogni forma di azione ritenuta opportuna per la risoluzione delle problematiche relative alla privazione della libertà; elabora documenti comuni ai fini dell’unitarietà dell’azione dei garanti territoriali, rimanendo ferma l’autonomia di azione e di espressione di ogni garante; sostiene e promuove l’istituzione di nuovi garanti a ogni livello. I telefoni in carcere e il partito della forca di Guido Vitiello Il Foglio, 10 ottobre 2020 Dove si daranno convegno un ergastolano e la sua amata, se non in sogno? È ciò che accade in “Peter Ibbetson”, romanzo di George du Maurier del 1891. Il telefono esisteva già da qualche anno, ma nessuno poteva ancora immaginare fino a che punto avrebbe stravolto il nostro senso dei luoghi e delle mura, creando un ambiente immateriale e tuttavia non onirico. “Un tempo, mettere i prigionieri in un luogo sicuro e isolato significava separarli dalla società sia dal punto di vista fisico che informativo. Ma oggi molti detenuti hanno in comune con il resto della società il privilegio della radio, della televisione e del telefono”, scriveva Joshua Meyrowitz in “Oltre il senso del luogo”. L’oggi di cui parlava era il 1985, il sistema carcerario quello statunitense. Nel nostro qui e ora, al contrario, il giornale unico della forca, da Repubblica a La Verità, non risparmia sarcasmi sui cellulari fatti entrare nelle prigioni attraverso salumi, formaggi e palloni e orifizi umani, mentre il ministro Bonafede s’inventa un reato nuovo per punirne il traffico. Meno male che c’è Rita Bernardini a ricordare, sul Riformista, che nella stragrande maggioranza i carcerati non sono boss mafiosi che mandano ordini all’esterno, ma gente comune che vuole parlare con la fidanzata, la madre, i figli; e che l’amministrazione della giustizia inglese, scoperto un traffico analogo, ha deciso di mettere un telefono in ogni cella. Con il paradosso che in Gran Bretagna, patria elettiva di Du Maurier, il prigioniero potrà sentire l’amata al telefono; in Italia, patria di Meucci, è costretto ancora a incontrarla in sogno. Tra vecchi mali e nuove esigenze: alla giustizia serve il Recovery Fund di Vincenzo Maria Siniscalchi Il Mattino, 10 ottobre 2020 Il Ministro della Giustizia ha svolto nei giorni scorsi un intervento in forma di comunicazioni innanzi alla Commissione Giustizia della Camera. In quelle comunicazioni ha precisato che si trattava della informativa non su un piano definito di interventi già pronti per trasformarsi in strumenti operativi bensì della enunciazione di una sorta di ideale piano strategico destinato a porre una serie di questioni all'interno del “Recovery Plan”. L'annunzio è ambizioso ed includerebbe l'uso dei fondi in particolare per dare maggiore dotazione alla “inclusione dei detenuti, alle misure alternative al carcere, alla digitalizzazione dell'intero sistema, oltre che al miglioramento della edilizia giudiziaria”. Si tratta di buona parte di ciò che occorre per recuperare credibilità ai processi penali e civili paralizzati dalle lungaggini, dal decorso di tempi che fanno registrare il prolungamento oltre ogni ragionevole durata della loro trattazione. È questione che si agita ormai quotidianamente nei tribunali italiani con i processi che vanno avanti a fatica, con rinvii da udienza ad udienza in una sostanziale inerzia che pare acquisita, oggi, come un male endemico, inguaribile. Entrando nello specifico degli annunci del Ministro di Giustizia - anche se si tratta di “grandi linee” e di progetti in corso di definizione ad opera degli uffici di via Arenula - va detto che, quale che sia il valore di questi progetti rispetto al problema primario della paralisi delle procedure, certamente va condiviso il tentativo di dar vita, sia pure su aspetti, per quanto rilevanti, non precisamente diretti a realizzare una articolata progettazione delle riforme urgenti, di un inserimento della Giustizia del nostro Paese, nei piani di finanziamenti previsti dagli accordi europei per fine 2021. La premessa per iscrivere una ipoteca sul “Recovery Fund” che interessi in qualche modo, ad esempio, le condizioni di gravi crisi inerziali del processo penale in Italia, non sfuggirà certo al competente ministero ed agli uffici che vi lavorano. Va detto che anche per la giustizia si riaffaccia la necessità di organizzare un piano di investimenti ben al di là delle sole pur rilevanti questioni annunziate dal Ministro in sede parlamentare. Si tratta, cioè, di porre la questione di una programmazione eccezionale che riguarda un comparto, come quello della Giustizia, con il riferimento ad un recupero di finanziamenti che consentano un impiego radicale di risorse di grande consistenza. Questa potrebbe, a mio avviso essere l'occasione per affrontare organicamente il complesso di riforme dirette ad incidere, ad esempio, sullo snellimento del processo penale, sulle sue fasi “morte”, anche per il meccanismo del frequente ricambio dei collegi giudicanti con un completamento degli organici e con la dotazione del necessario personale di segreteria, per adempiere alla serie di incombenze che si richiedono soprattutto ad un personale qualificato proveniente da concorsi. Si pensi anche al carico emergente di operazioni giudiziarie necessarie alla istruzione ed alla trattazione delle nuove norme che prevedono un complesso apparato sanzionatorio a tutela delle misure di contenimento per la più parte destinate a produrre in notevole quantità nuovi illeciti penali i quali riguardano aspetti nuovi della azione penale tant'è che ormai si prospetta un vero e proprio “diritto penale della pandemia “; che è cosa ben diversa dalla serie - pure essa rilevante - di ipotesi di violazioni amministrative. Questo settore si è andato sempre più evolvendo in particolare nella esigibilità di condotte obbligatorie, la violazione delle quali viene sempre più intensamente a configurarsi come concausa, a titolo colposo, del diffondersi del contagio. Un nuovo complesso sistema normativo peserà dunque in forma giurisdizionale sul lavoro dei Tribunali penali. Si prospettano processi complessi che registreranno il continuo intersecarsi della rete di norme amministrative (spesso come presupposto di quelle penali) sicché, nel quadro emergenziale, occorrerà por mano ad una dislocazione di risorse umane idonee a soddisfare in termini ragionevoli il contributo che la giustizia può e deve dare. E tutto ciò nel quadro dell'art. 32 della Costituzione che pone la salute non solo come diritto individuale ma come fondamentale interesse collettivo. Appello al Parlamento: salvate il processo accusatorio di Eriberto Rosso Il Riformista, 10 ottobre 2020 Il tempo presente è quel che è. Manca qualsiasi afflato politico culturale che consenta di immaginare serie riforme per la effettività delle garanzie del giusto processo. Del resto, gli oltre mille interventi che si sono succeduti dal 1988 - anno di svolta per l’adozione del codice accusatorio - al netto della legge n. 63/2001 di attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e del tentativo riformatore del 2006 (la cd. Legge Pecorella), sono sempre stati contrassegnati da logica emergenziale e volti ad un efficientismo del quale hanno sempre fatto le spese i diritti della difesa. È con questa consapevolezza che noi dell’Unione delle Camere Penali Italiane ci siamo accostati alle consultazioni volute dal Ministro Bonafede sulla riforma del processo penale. Un’era glaciale fa, dunque, con il Governo Conte I, avevamo individuato proposte comuni con la Magistratura associata, per alcuni essenziali interventi in grado di incidere sui tempi morti del procedimento e così contribuire all’effettiva attuazione alla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo: riduzione del numero dei processi a dibattimento attraverso l’innalzamento della soglia di pena per il patteggiamento, ampio spazio all’iniziativa della difesa nell’abbreviato condizionato, valutazione sostanziale delle fonti di prova in sede di udienza preliminare, una incisiva depenalizzazione. Proposte ragionevoli che dovevano accompagnarsi con il rafforzamento delle regole di realizzazione del contraddittorio al dibattimento. Avevamo poi da soli insistito nel proporre sanzioni processuali finalizzate a garantire la certezza del tempo delle indagini e il ripristino di una seria disciplina della prescrizione, istituto di garanzia e di civiltà giuridica che gli allora neofiti giustizialisti avevano rimosso dal nostro ordinamento, abolendola dopo il primo grado di giudizio. È noto come, nonostante gli impegni assunti dalle forze parlamentari chiamate a comporre la parzialmente diversa maggioranza di governo, l’Esecutivo abbia proposto un disegno di legge di riforma del processo che ha ignorato gli approdi del tavolo di consultazione, incentrato su di una farraginosa responsabilità disciplinare del Pubblico Ministero a fronte dell’eventuale sforamento del tempo delle indagini, di nessuna utilità per il malcapitato cittadino sottoposto a processo. È poi previsto che i criteri di priorità per la trattazione delle cause penali siano affidati all’autorità giudiziaria, così chiamata a svolgere scelte di politica criminale che debbono invece appartenere al potere legislativo. Timidissimi gli interventi sui riti speciali, concepiti in modo tale da non incidere sul numero dei processi. Già che c’erano, hanno previsto anche l’estensione della regola per la quale - pure mutando il Giudice - ordinariamente non si procede a rinnovare l’acquisizione della prova e ridotto la collegialità in appello. Ieri, in sede di audizione dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati, l’Unione ha illustrato le proprie critiche, e ha avanzato le proprie proposte, le une e le altre qui semplicemente tratteggiate. Ma soprattutto ha rivolto un appello ai parlamentari giuristi: voi che siete avvocati, magistrati, accademici impedite che il già scassato processo accusatorio vada definitivamente al macero. Non è in gioco semplicemente questo o quell’equilibrio parlamentare. Si tratta per davvero di non rendere ancor più buio il nostro tempo. Palamara fatto fuori dal Csm col processo-farsa: “Ho pagato io per tutti” di Rossella Grasso e Giacomo Andreoli Il Riformista, 10 ottobre 2020 “Porto e porterò sempre la toga nel cuore essendomi sempre ispirato ai principi di una giustizia giusta”. Così Luca Palamara ha commentato a caldo, durante una conferenza stampa, la decisione dei giudici della disciplinare del Csm che hanno accolto le tesi accusatorie della Procura generale di Cassazione e hanno deciso che l’ex presidente dell’Anm va rimosso dall’ordine giudiziario. “Sono consapevole di aver pagato io per tutti, per un sistema che non funzionava, che nei fatti si è dimostrato obsoleto e superato - ha continuato Palamara - So che pago io per tutti che è esistita una magistratura silenziosa di tanti che mi hanno chiesto di andare avanti e non vengono allo scoperto”. Nel processo disciplinare, “il dottor Palamara aveva chiesto di difendersi depositando una lista di testi di 133 persone. Non gli è stato consentito. Non gli è stato consentito di difendersi provando”. Lo ha detto Giuseppe Rossodivita, legale di Luca Palamara, parlando alla stampa. “La prova è assolutamente mancata nel processo che ha portato alla radiazione di Palamara”, ha aggiunto. “È un modo di procedere purtroppo molto utilizzato nelle aule di tribunali quello di avere un parametro di riferimento del materiale probatorio molto molto traballante e lasco pur essendo più che sufficiente, secondo la giurisprudenza, per arrivare a sentenze che vanno a incidere pesantemente sulla vita delle persone”, ha aggiunto Rossodivita. Durante la conferenza stampa Palamara, visibilmente provato, ha detto di essere intenzionato a ricorrere tanto alle Sezioni unite, quanto, dovesse esserci bisogno, alla Corte europea dei diritti dell’uomo. “23 anni di carriera ispirati ai principi della magistratura, messa in discussione per una cena con un parlamentare - ha continuato Palamara - ribadisco che non ho mai fatto nessun accordo con nessun parlamentare”. “Il sistema delle correnti nei fatti si è dimostrato obsoleto e superato - ha continuato Palamara - Io i politici li ho frequentato nel corso della mia attività. Per me il relazionarmi con la politica era funzionale alla tematica che stavo affrontando. Non ho mai barattato la mia funzione per fare un favore al politico di turno”. Si è scagliato contro il il sistema delle correnti in Italia: “Non l’ho inventato io - ha detto - Domina la magistratura da circa 40 anni e ha avuto sostenitori e forti critici all’interno della stessa magistratura. Indubbiamente ha penalizzato i non iscritti alle correnti anche sul versante delle nomine”. Continua a professare la sua innocenza e non ha intenzione di arrendersi. Spiega che di cene con politici ne ha fatte tante ma questo era sempre in virtù del suo lavoro e delle tematiche che andava ad affrontare. “Non solo Lotti - dice - I nomi dei politici che ho incontrato li farò, ma deve tutto essere documentato e circostanziato. Io sarò in grado di dire e documentare con chi mi sono trovato a parlare di nomine con politici diversi da Lotti. Di cene ne ho fatte tantissime”. A chi gli chiede se è pentito di qualcosa risponde: “La parola pentimento è una parola che faccio fatica a metabolizzare. Dal punto di vista dell’opportunità politica posso dire che la partecipazione di Lotti era meglio che non ci fosse ma è una partecipazione che in alcun modo ha alterato la nomina del procuratore di Roma”. E rimanda al mittente l’accusa di “fare la vittima” e dice: “Non voglio assolutamente assumere il ruolo di vittima, state tranquilli, così come non voglio abbattermi rispetto a quello che è accaduto oggi, il mio impegno sarà di battermi per la verità”. “La magistratura ha bisogno di uomini coraggiosi. Ci siamo difesi nel processo, sempre. Siamo stati sempre presenti in un processo che ha contingentato le udienze in 10 giorni. Questa è la mia risposta di rispetto e di ossequio delle istituzioni”. Il partito Radicale intanto chiede una Commissione di inchiesta sull’affaire Palamara. “Ci attiveremo con i capigruppo di Camera e Senato perché ci sia una risposta a questa nostra richiesta” ha detto il segretario del partito Maurizio Turco. Palamara: “Pago io per tutti, ma mi batterò per la verità” di Simona Musco Il Dubbio, 10 ottobre 2020 L’ex pm aderisce ai Radicali: “Ora lottiamo per la Giustizia”. Solo tre ore di camera di consiglio dopo un processo lampo durato non più di una decina di udienze e una sentenza che non lascia scampo: rimozione e radiazione dalla magistratura. Si chiude così il processo disciplinare a carico di Luca Palama, l’ex presidente dell’Anm accusato di aver condizionato e pilotato le attività del Csm. Ma lui si difende: “Farò ricorso alle Sezioni unite e, se ce ne sarà bisogno, arriverò fino alla Corte europe dei diritti dell’uomo” “Pago io per tutti”. Luca Palamara non è più un magistrato, rimosso da quel Csm di cui è stato parte e nel cui seno si sarebbe reso “infaticabile organizzatore, sceneggiatore e regista della strategia” per arrivare alle nomine ai vertici delle Procure di Roma e Perugia, con la volontà di “condizionare in modo occulto l’attività istituzionale del Csm”, secondo l’avvocato generale della Cassazione Piero Gaeta. La polvere è stata nascosta sotto il tappeto: il sistema, con la sua condanna, sarebbe stato distrutto. Perché un sistema, per il Csm, non esiste. Ma per l’ex presidente dell’Anm la partita non è chiusa: dicendosi contrario a vestire il ruolo della vittima, annuncia di voler accogliere l’invito del Partito Radicale che ieri lo ha ospitato per la conferenza stampa post sentenza - per una battaglia comune per “una giustizia giusta” e per la creazione di una Commissione d’inchiesta in grado di fare luce sul mondo della magistratura. Un mondo che Palamara ha frequentato per 23 anni, durante i quali tante sono state le interlocuzioni con la politica, e dove a ragionare su nomine e logiche correntizie, spiega, non sarebbe stato solo lui. “Posso dire oggi di avere pagato io per tutti, per un sistema che non funzionava che nei fatti si è dimostrato un sistema obsoleto e superato”, aggiunge, sottolineando che “sarò in grado di fare i nomi delle persone con cui ho parlato di nomine, anche dei politici, non solo Lotti, non solo quelli del Pd”. E assicurando di non aver “mai barattato la funzione per fare un favore a questo o quel politico di turno”. Con occhi segnati e voce pacata, Palamara annuncia ricorso. Prima alle Sezioni Unite della Cassazione, poi, se necessario, alla Cedu. Ma il processo alla magistratura, intanto, si sposta fuori dalle aule. “La mia nuova esperienza mi ha fatto maturare idee nuove e diverse, che prima non avevo”, dice parlando di separazione delle carriere, tema sul quale nella sua vita da magistrato era orientato su un secco “no”. “Prima avevo una visuale dei problemi della magistratura, la visuale di chi esercita il terribile potere di giudicare, che spesso travolge fatti, persone e situazioni”, sottolinea. La prospettiva ora è diversa, al punto da abbracciare le battaglie del Partito Radicale, contro il quale prima stava dall’altra parte della barricata: “Riflettiamo sul perché un fascicolo va avanti e un altro no”, aggiunge parlando con i giornalisti. Non fa nomi - promettendo di farli a tempo debito - ma descrive un sistema che “ha tagliato fuori coloro che non facevano parte”. Un fatto “oggettivo, piaccia o non piaccia”, di cui lui non sarebbe stato l’unico protagonista. E racconta di come proprio al Csm “i segretari delle correnti davano indicazioni sui nomi, sul perché qualcuno doveva ricoprire una carica anziché l’altra”. Dall’altra parte però, spiega, “esiste una magistratura silenziosa”, fatta “di tanti colleghi che mi hanno chiesto di andare avanti e che non vengono allo scoperto”. Per il sostituto procuratore generale Simone Perelli e per l’avvocato generale Gaeta, il comportamento di Palamara è stato di “una gravità inaudita”. Ma per il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, non si è trattato di una “sentenza politica”. Guizzi, durante il processo, ha contestato aspramente l’utilizzo del trojan, piazzato dai pm di Perugia per scoprire la presunta corruzione da 40mila euro poi eliminata dalle accuse, l’utilizzabilità delle intercettazioni e la riduzione della lista testi da 133 a sei. “Quando ero in disciplinare - spiega Palamara ho visto processi che saltavano per un certificato medico presentato più volte. Io sono stato processato in 10 giorni”. Il diritto alla difesa, dunque, sarebbe stato compresso. Convinzione fatta propria anche dai Radicali. “Il caso Palamara per qualcuno è chiuso, per noi si apre oggi”, afferma Maurizio Turco, segretario del Partito. Perché nelle pieghe di questo processo “abbiamo ritrovato gli orrori dei processi e della Giustizia italiana, che noi chiediamo imperterriti che sia riformata”. A partire, secondo l’avvocato Giuseppe Rossodivita, membro del Consiglio generale dei Radicali, dall’utilizzo del materiale probatorio. Per l’accusa, infatti, Palamara voleva un “procuratore di Perugia addomesticato, che doveva assecondare il sentimento di rivalsa suo e di Lotti nei confronti di Paolo Ielo (procuratore aggiunto a Roma, ndr)”. Uno schema, sottolinea Rossodivita, del quale “Viola non ne sapeva nulla”, ma soprattutto di cui è mancata la prova “nel processo che ha portato alla radiazione di Palamara. E questo è un modo di procedere molto utilizzato nelle aule dei tribunali”. Le critiche trasversali non mancano: per l’ex procuratore Carlo Nordio si è trattato di “un processo stalinista”, per il presidente dell’Unione Camere penali Giandomenico Caiazza di “un esorcismo”, con un capro espiatorio sacrificato “per salvare dal peggio innanzitutto i sacerdoti officianti”. E lui, Palamara, non fa che ripetere il mantra: “Porto e porterò sempre la toga nel cuore. I valori che mi hanno portato ad essere magistrato - equità, senso civico e amore per la giustizia - sono quelli che oggi, come privato cittadino, intendo mettere a disposizione della collettività”. Espulso un colpevole, nel Csm restano i problemi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 ottobre 2020 La toga strappata di dosso a Luca Palamara segna l'epilogo di un processo disciplinare, ma non chiude il caso. Per lui e per la categoria che ha rappresentato per oltre un decennio. Il condannato nega di sentirsi vittima ma parla da vittima: “Pago per tutti”; ritiene ingiusto un giudizio limitato ai fatti addebitati, ma sa che non è vero: sono state applicate le regole che ogni giorno applicano i suoi (ora ex) colleghi. Tuttavia questa condanna non può suonare come un'assoluzione per la magistratura nel suo insieme. L'autoriforma, in attesa delle riforme annunciate, deve proseguire per restituire all'istituzione la credibilità incrinata. Espellere un colpevole non risolve il problema. Se Palamara è vittima, lo è di sé stesso; giunto all'apice del potere nel suo mondo, inseguiva le proprie aspirazioni con spregiudicate manovre (illecite secondo il verdetto) e rapporti border line con magistrati a mezzo servizio in politica (Cosimo Ferri) e ex ministri imputati (Luca Lotti), considerandosi intoccabile. Ma è anche il frutto avariato di un sistema che gli ha consentito di coltivare certi metodi. La sua apparizione nella sede del Partito radicale, a poche ore dalla radiazione, è sembrata evocare un po' Enzo Tortora (se il paragone non suonasse ingiurioso per una vera vittima della “giustizia”) e un po' Joe Valachi, pronto per la commissione d'inchiesta invocata dai suoi nuovi compagni di strada politica. “Se parlo io crolla la magistratura”, confidava agli albori dello scandalo, prima di venirne travolto, lasciando in sospeso possibili e dirompenti rivelazioni. Da allora accenna e allude, come ha fatto pure ieri, portando però sulle spalle il pesante silenzio opposto al suo giudice disciplinare, quando ha preferito non rispondere alle domande dell'accusa sui fatti contestati (le trame dell'hotel Champagne). Per adesso è crollato lui, sebbene la storia non sia finita. Ma la magistratura, con le prassi opache o poco commendevoli scoperchiate dalle indagini su Palamara, continua a non stare tanto bene. Per questo il caso non è chiuso. Al di là del destino di una toga strappata, urgono nuove pratiche (solo in parte avviate) e comportamenti trasparenti. Senza aspettare le riforme. Responsabili una volta, responsabili sempre di Salvatore Tassinari, Alessandro Santoro e Beppe Battaglia Ristretti Orizzonti, 10 ottobre 2020 Lettera aperta al Tribunale di Sorveglianza di Firenze. Da alcuni anni una pratica quantomeno discutibile grava sulle persone detenute nelle carceri di Sollicciano e Solliccianino (e probabilmente anche in altri carceri). È la pratica dei “permessi premio con l'accompagnamento di un volontario”. A dire il vero, l'Ordinamento Penitenziario vigente non prevede la fattispecie del “permesso con accompagnamento di un volontario”; in effetti si tratta di un'innovazione del Tribunale di Sorveglianza. Noi abbiamo l’impressione che il volontario “accompagnatore” non sia inteso a mo' di supporto logistico (un passaggio in macchina) e di facilitatore, quanto, invece, con una impropria attribuzione di valenza “custodiale”. Già alcuni anni fa una volontaria di Pantagruel venne portata a processo con l’imputazione di favoreggiamento di evasione di un detenuto accompagnato in permesso premio. Fu allora che l’associazione Pantagruel intervenne presso il presidente del tribunale di sorveglianza, chiedendo che venisse chiarito che il volontario accompagnatore non aveva alcuna responsabilità custodiale. Il presidente dette allora formale assicurazione che la funzione del volontario doveva intendersi come semplice sostegno al detenuto in uscita. A nostro modesto avviso, la prassi che si è venuta consolidando nel tempo è tornata ad assumere, nella logica del magistrato di sorveglianza, una valenza velatamente custodiale, doppiamente offensiva: nei confronti così della persona detenuta come dei volontari. Il primo, piuttosto che chiamato al senso di responsabilità, si dispone che venga accompagnato come si fa con i bambini, che in ragione della loro età non sanno badare a sé stessi, con ciò coronando il processo d'infantilizzazione che il carcere opera sulle persone detenute (altro che rieducazione!). Una prassi altresì offensiva nei confronti dei volontari che, per consuetudine, accettano un ruolo che non dovrebbe competergli, soggiacendo così ad una sorta di ricatto morale, supponendo che in loro mancanza il permesso premio non verrebbe concesso, perché ritenuto dal magistrato a maggior rischio. E questo spiega quella sorta di ripristino di fatto della funzione “custodiale” del volontario stesso. Con la presente chiediamo discontinuità da questa prassi, limitando la disposizione dell’accompagnamento al primo permesso e solo nei casi di detenuti che abbiano bisogno di sostegno logistico e di facilitazione per orientarsi nel territorio. È auspicabile che, come alla persona detenuta, in funzione della sua rieducazione, sia riconosciuta la responsabilità di gestire in autonomia un beneficio penitenziario, così ai volontari penitenziari sia restituito il proprio ruolo, che non è quello di trasformarsi impropriamente in guardiani senza divisa. È una questione di dignità e rispetto dei ruoli, richiamando alla propria responsabilità anche il magistrato che concede il permesso (o che lo rifiuta), così rinunciando al ricatto morale verso i volontari e all'atteggiamento punitivo nei confronti delle persone detenute. Sicilia. Coronavirus, consegnati 5mila tamponi veloci alle carceri siciliane sicilia24.it, 10 ottobre 2020 Cinquemila tamponi veloci, per individuare possibili casi di Covid, sono stati consegnati nelle carceri siciliane. “Dobbiamo dire grazie - sostiene Gioacchino Veneziano, segretario regionale dell’organizzazione sindacale - all'assessore regionale Razza che, unitamente al suo staff, è riuscito a consegnare i tamponi rapidi a tutto il personale di polizia penitenziaria in servizio in Sicilia”. Lo scorso 17 settembre, l’esponente sindacale aveva avuto un incontro con l'assessore alla Salute Ruggero Razza. Presente anche l'assessore al Territorio Toto Cordaro. Veneziano aveva spiegato perché la polizia penitenziaria ed in generale gli operatori in servizio nelle carceri dell’Isola avevano questa urgenza. “Infatti, immediatamente dopo l'interlocuzione con i vertici regionali della UilPa - spiega Veneziano - che di fatto sono poliziotti penitenziari, quindi profondi conoscitori della realtà carceraria, l'assessore Razza ha capito perfettamente che il Covid-19 nelle carceri non era solo un problema sanitario, ma poteva mettere a rischio anche l'ordine e la sicurezza degli istituti penitenziari”. “I 5.000 tamponi rapidi - prosegue - consentiranno di controllare tutti i lavoratori che operano nelle strutture di competenza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, del Dipartimento giustizia minorile e, quindi, pure quelli degli Uffici esecuzione penale esterna. Insomma - continua Veneziano - abbiamo dato un concreto e decisivo impulso per la tutela della salute dei nostri colleghi, ma non solo della polizia penitenziaria, ma anche delle Funzioni centrali”. Ovviamente - conclude il segretario - il capo del Dipartimento Bernardo Petralia con l'impegno diretto ha accelerato l'operazione di assegnazione dei tamponi, che con solo tre operatori di polizia penitenziaria in servizio presso l'Ufficio sicurezza e traduzioni del PRAP della Sicilia, stanno facendo i miracoli per poterli consegnare entro domani o al massimo lunedì in tutti gli istituti e servizi penitenziari della nostra regione”. Sardegna. Caligaris (Sdr): “Nel carcere di Badu e Carros aprirà sezione per il 41bis” castedduonline.it, 10 ottobre 2020 Lo afferma in una dichiarazione Maria Grazia Caligaris di “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso dell’istituzione nel carcere nuorese di Badu e Carros di una sezione destinata ai detenuti in regime di massima sicurezza. “Ancora una volta le scelte del Ministero della Giustizia confermano l’idea di una Sardegna isola-carcere per detenuti mafiosi e criminalità organizzata”. Lo afferma in una dichiarazione Maria Grazia Caligaris di “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso dell’istituzione nel carcere nuorese di Badu e Carros di una sezione destinata ai detenuti in regime di massima sicurezza (41bis). “In questi anni - osserva - abbiamo assistito a una desertificazione delle Case di Reclusione all’aperto (Colonie Penali) e a una crescita esponenziale di detenuti di spessore criminale. Non è bastato istituire il 41bis a Sassari (92 posti) e a Cagliari-Uta (altrettanti non appena si concluderanno i lavori), si è pensato bene di realizzare una sezione “speciale” anche a Nuoro, nella ex sezione femminile ristrutturata. Il risultato è inequivocabile anche perché nel frattempo sono cresciuti i detenuti dell’Alta Sicurezza avendo realizzato le nuove carceri di Oristano-Massama e Tempio Pausania. Senza dimenticare che anche a Cagliari-Uta ci sono una trentina di AS”. “Il problema non è la sicurezza dei cittadini o i pericoli di infiltrazioni mafiose, che può essere gestito, quanto la fisionomia di un’isola che mentre si propone al mondo come meta naturalistica e culturale delle vacanze valorizzando archeologia, storia e lingua si ritrova - conclude l’esponente di Sdr - a essere classificata come la terra del regime 41bis. Su questo dovrebbero intervenire le massime autorità regionali e i Parlamentari del tutto esclusi da queste scelte”. Milano. “Dopo il Covid un'altra vita. Quella delle piccole cose” di Paola Fucilieri Il Giornale, 10 ottobre 2020 Domenico de Robertis, assistente capo della Polizia penitenziaria: “Ero perso, mi ha salvato Morricone”. “Come è cambiata la mia vita dopo che mi sono ammalato di Covid? Ho compreso fino in fondo l'importanza delle piccole cose. Quelle che diamo per scontate, quelle di tutti i giorni: prendere una boccata d'aria in santa pace, abbracciare i propri figli, parlare con un amico, un collega, guardandolo negli occhi, di persona, persino portare in giro il cane. Chissà, magari ci sentiamo immortali. Oppure semplicemente pensiamo: a me non capiterà mai. Ecco: dopo questa esperienza io non ragionerò più così, mai più.Ci sono delle linee di demarcazione, un prima e un dopo. E forse non tutto accade per caso”. Domenico de Robertis, cinquantunenne, sposato, padre di tre ragazzi di 19, 18 e 13 anni, una famiglia con cui vive a Tavazzano (Lodi) è assistente capo coordinatore nel carcere di San Vittore dall'aprile 1998. Arruolatosi volontario in Marina a 17 anni, sguardo diritto di quelli che non mentono, “Mimmo”, come lo chiamano qui tutti nella casa circondariale di piazza Filangieri, è uno di quelli che in questi ambienti definiscono “operativo”. È rimasto infatti contagiato dal Covid proprio durante la rivolta di San Vittore il 9 marzo, nel pieno dell'emergenza Coronavirus. Ufficialmente i detenuti devastarono completamente il carcere, lo misero a ferro e fuoco e salirono sul tetto per la sospensione dei colloqui con i familiari; in realtà i disordini furono una scusa per protestare contro le condizioni di vita in carcere. Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza dal 2016, quel giorno definì gli agenti della penitenziaria “eroici”. “Appena terminata la rivolta, dal punto di vista della salute, sono progressivamente peggiorato, giorno dopo giorno - racconta de Robertis -. Ho cominciato ad avvertire una forte spossatezza ed ero anche molto raffreddato. Subito ho minimizzato, pensando a un malanno stagionale. Quando però ho iniziato a perdere gusto e olfatto, beh, allora mi sono preoccupato. Una sera mentre stavo cenando non sentivo nulla, più nessun sapore, mi sembrava di mangiare del cartone. No, non avevo ancora la febbre, ma sapevo che quei sintomi erano tra i principali del Covid. Ho fatto il tampone negli ambulatori di San Vittore il 24 marzo. Il giorno dopo ho lavorato. La sera sono tornato a casa e avevo la febbre a 40. ho pensato a una influenza”. La mattina successiva de Robertis va dal medico di famiglia per il certificato di malattia. Ma, dopo avergli auscultato i polmoni la sua dottoressa, l'ottima diagnosta Giuseppina Orecchia, lo manda subito al pronto soccorso per una radiografia al torace. “Mi hanno individuato una polmonite interstiziale da Covid e una leggerissima dispnea. Il prelievo arterioso per controllare la quantità di ossigeno che avevo nel sangue però era okay, quindi sono stato rimandato a casa. La mattina del 26 è arrivato il referto del tampone: positivo”. “Inizialmente avevo il terrore di andare in ospedale perché sentivo i racconti di gente che da lì non tornava più a casa. Ho iniziato ad avere paura quando la saturazione, che misuravo con il saturimetro da casa, ha iniziato ad abbassarsi: arrivai a 92, il minimo era 94 quindi avrei già dovuto farmi ricoverare, come mi aveva detto il medico. Non ho detto nulla, fortunatamente poi sono migliorato”. Chiuso in camera da letto in isolamento totale per 40 giorni la vita di de Robertis cambia radicalmente. “Passavo tutto il tempo a guardare dalla finestra le pochissime persone che passavano di lì: abito nel Lodigiano, una delle zone più colpite dal contagio. Social, giochi, tivù, letture...Ma ho avuto anche momenti di sconforto. Mi sono commosso profondamente ascoltando il chitarrista Jacopo Mastrangelo che, da un terrazzo che affacciava su una piazza Navona deserta, suonava le note della colonna sonora di C'era una volta in America del grande Ennio Morricone...Struggente. In quei momenti non sapevo più cosa pensare”. Piano piano i sintomi del Covid passano. “Ho iniziato a fare i tamponi, solo che non riuscivo a negativizzarmi: ne ho fatti 8, erano tutti positivi. A fine aprile finalmente è arrivato quello negativo. Tuttavia, se ci fosse stato anche un minimo segno di polmonite interstiziale, nonostante l'assenza di sintomi e il tampone negativo, la mia quarantena non sarebbe ancora stata sciolta. E allora mi è crollato nuovamente il mondo addosso. Per fortuna la radiografia è andata bene”. Esito positivo il 4 maggio, il 5 de Robertis torna al lavoro a San Vittore. “È stato a dir poco meraviglioso rivedere tutti insieme i colleghi che non incontravo da quaranta giorni, riabbracciare (virtualmente, s'intende) gli amici, il comandante Manuela Federico e il direttore del carcere Giacinto Siciliano” conclude de Robertis. Che, già impegnato a donare il plasma, da allora non ha mai più tolto la mascherina. Roma. “Covid, un focolaio nel reparto femminile di Rebibbia” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 ottobre 2020 L’allarme di Gabriella Stramaccioni, Garante per i detenuti. Per ora sono cinque i casi di Covid 19 nel carcere di Rebibbia, in particolar modo nel reparto femminile tra detenute, agenti e una infermiera. Ma forse si poteva evitare se il personale, anche medico, avesse utilizzato i dispositivi di protezione? Non solo. Il problema rischia di esplodere se il contagio dovesse allargarsi al reparto sanitario di Rebibbia dove ci sono decine e decine di detenuti anziani e con gravissime patologie. A denunciarlo è Gabriella Stramaccioni, garante locale delle persone private della libertà del comune di Roma. Lei che quotidianamente visita il carcere di Rebibbia, spiega a Il Dubbio: “Dopo il focolaio ora sembra che sia ripresa l’attenzione, ma ho visto ogni giorno troppe persone entrare in carcere senza adottare le necessarie precauzioni. Il virus viene portato dall'esterno, non certo da coloro che sono reclusi da tempo”. La problematica che la garante ha evidenziato è dovuta non solo dalla sua osservazione personale, ma anche dalle numerose lettere ricevuta dai detenuti che denunciano il problema del personale sanitario senza mascherine. Per questo la garante sottolinea che “è necessario ed urgente attenersi scrupolosamente alle disposizioni che prevedono obbligo della mascherina”. L’emergenza Covid 19 non è finita, il rischio che possano riesplodere nuovi focolai nelle carceri è ancora alle porte. La garante Stramaccioni lancia un appello alla magistratura di sorveglianza affinché “verifichi di nuovo, come è stato fatto durante il lockdown, tutti i casi di incompatibilità con il regime detentivo da parte di coloro che soffrono di particolari patologie”. E si parla di tante persone. “Sono almeno 65 i detenuti anziani che presentano gravi patologie - spiega la dottoressa Stramaccioni a Il Dubbio - molti di loro sono con le sedie a rotelle e respirano con le bombole di ossigeno”. La garante locale di Roma rappresenta un quadro devastante, con il reparto sanitario che è un vero e proprio lazzaretto, così come non mancano situazioni di persone problematiche e con gravi patologie le quali la società non riesce a farsene carico. “Il carcere è diventato una discarica sociale, persone abbandonate - anche per motivi del tutto legittimi - dai propri familiari e che però non trovano altre soluzioni. Alcuni di loro, autosufficienti, potrebbero andare nelle case famiglia che a Roma non mancano, ma tanti altri anziani - non autosufficienti - dovrebbero andare nelle Rsa che però non hanno posti per poterli ospitare”, denuncia sempre la garante. Parliamo di tutte persone problematiche che a prescindere dal Covid 19 dovrebbero essere aiutate e non lasciate in carcere. Ma ora, a maggior ragione, visto che il virus si diffonde soprattutto nei luoghi chiusi e sovraffollati, la questione diventa di primaria importanza. “Bisogna nuovamente riattivarsi come ai tempi del lockdown - osserva Stramaccioni -, riaprire le pratiche per concedere le misure alternative come la detenzione domiciliare per motivi di salute. I magistrati devono rispondere alle diverse istanze che giungono, ad esempio ci sono diversi detenuti che potrebbero uscire grazie alla liberazione anticipata”. La garante denuncia che da quando, a giugno, è stata decretata la fine dell’emergenza nelle carceri, tutto si è fermato e nessun detenuto esce più nonostante abbia i requisiti come appunto il discorso dell’incompatibilità con il regime penitenziario per motivi di salute, oppure gli mancano meno di 18 mesi di fine pena. “Altro motivo per cui i magistrati di sorveglianza non rispondono alle varie istanze di scarcerazione - aggiunge sempre la dottoressa Stramaccioni - è il blocco totale della cancelleria, tant’è vero che i magistrati nemmeno le ricevono”. Problemi su problemi, con il Covid 19 che è un’aggravante. Sistema sanitario a Rebibbia che non funziona come dovrebbe, troppi detenuti anziani e malati parcheggiati in carcere, così come non mancano situazioni psichiatriche dove gli agenti penitenziari certamente non possono far fronte. Prima che si verifichi l’irreparabile, la magistratura e il Dap, in sinergia con gli enti locali comprese le Asl, dovrebbero attivarsi. Livorno. L'ex di Prima Linea diventa Garante dei detenuti, Fratelli d’Italia all’attacco Corriere Fiorentino, 10 ottobre 2020 Marco Solimano, dopo quasi tre anni, torna a fare il Garante per i diritti dei detenuti. Il Consiglio Comunale ha eletto Solimano nella seduta di giovedì. “Da oggi inizierà un lavoro molto importante - ha detto l’assessore al sociale Andrea Raspanti - per la tutela dei diritti delle persone detenute potendo contare su una grande passione e un bagaglio di esperienze solido”. Solimano succede a Giovanni De Peppo, ex assistente sociale, che era stato voluto dal sindaco Filippo Nogarin. “Il mio primo impegno - ha dichiarato - sarà sull’emergenza Covid”. Solimano, ex consigliere comunale Pd dal 2004 al 2009 e presidente dell’Arci, ha ricoperto il ruolo di garante per sette anni. “Una scelta inaccettabile e oltraggiosa”, dice il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli. “L’amministrazione del Pd guidata dal sindaco Luca Salvetti nomina nel ruolo di Garante dei diritti dei detenuti un ex terrorista di “Prima Linea”, condannato a 19 anni di carcere. Dalla seconda metà degli anni 70 l’organizzazione si è resa protagonista di 39 delitti con 16 uccisi”. Ferrara. Torture in carcere, il Ministero si costituisce come responsabile civile La Nuova Ferrara, 10 ottobre 2020 Il Ministero di giustizia ci sarà, al processo come responsabile civile rappresentato dall’Avvocatura dello stato: si è costituito ieri all’udienza del primo procedimento penale per tortura, contestato a tre agenti di polizia penitenziaria del carcere cittadino su un detenuto. Il ministero, in caso di condanna dei tre, sarà tenuto a far fronte agli eventuali risarcimenti civilistici. Davanti al gip Danilo Russo e alla pm Isabella Cavallari, ieri l’udienza si è protratta tra eccezioni e prime formalità, poi il rinvio dell’udienza. I tre agenti di Polizia penitenziaria e una infermiera sono accusati del reato di tortura verso un detenuto. La prossima udienza è stata fissata al 14 gennaio. Pesaro. Allerta in carcere, tre detenuti positivi al Covid Corriere Adriatico, 10 ottobre 2020 Allerta nel carcere di Pesaro, per la presenza di alcuni detenuti contagiati dal Covid - 19: si tratta di tre “ospiti” appena trasferiti nel carcere di via Burla a Parma. I tre uomini sono risultati positivi al tampone fatto all’arrivo nel penitenziario emiliano, dopo il trasferimento. Ora sono stati messi in isolamento. Gli agenti della Polizia penitenziaria venuti a contatto con i contagiati prima del loro trasferimento verranno sottoposti al tampone, per escludere la presenza di altri contagi all’interno del carcere. Milano. Il ministro, il don e la sicurezza nella solidarietà di Andrea Galli Corriere della Sera, 10 ottobre 2020 Dialogo tra don Gino Rigoldi e il ministro Lamorgese. Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e don Gino Rigoldi protagonisti del dibattito al Giambellino. Il sacerdote ha ribadito l’importanza, quando si affrontano tematiche relative alla sicurezza, degli interventi in chiave sociale, sopratutto nelle zone dove c’è più degrado. Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. E don Gino Rigoldi. Uniti, al teatro Shalom, per parlare di sicurezza ma non solo. L’ex prefetto: “Milano sa reagire con la capacità di fare squadra”. Il sacerdote: “Dobbiamo mantenere sempre vivo il senso della solidarietà. E partire dai bisogni delle persone”. Non poteva essere che qui. In uno dei suoi quartieri, il Giambellino. Indipendentemente dal peso, dal profilo, e dal ruolo dell’ospite-interlocutore, che ieri, al teatro Shalom, all’interno della parrocchia di San Vito, è stata il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Salita sul palco con don Gino Rigoldi, per appunto un padrone di casa da queste parti, nell’incontro organizzato dal Partito democratico cittadino nell’ambito del ciclo di eventi “Ricomincia con noi”. Tema di partenza: la sicurezza. Poi si è parlato di tanto altro, in diretta streaming e davanti a 120 spettatori, il massimo della capienza per le misure anti-covid. Il primo intervento del sacerdote, preceduto da quello del ministro che ha annunciato, in relazione alla pandemia, la possibile rimodulazione dell’impiego dei militari già presenti in città, si è concentrato sulle case popolari. Ancora difettose a livello generale, ancora diffusori di criticità: “Ma se miglioro il clima all’interno degli appartamenti, ho innegabili vantaggi su tutto il palazzo e, a cascata, sull’intera zona intorno”. Dunque sì a macro-interventi, a riqualificazioni strutturali su larga scala, a operazioni contro le occupazioni, ci mancherebbe il contrario. Ma senza mai dimenticare i singoli profili degli inquilini, le loro richieste, gli specifici bisogni: esplorare in profondità, non “limitarsi alla superficie”. Il capocronista milanese di Repubblica, Piero Colaprico, moderatore del dibattito, cui ha partecipato anche il presidente del Municipio 6 Santo Minniti, ricordando le lontane stagioni milanesi dei cento e passa omicidi all’anno ha domandato a Lamorgese lo stato attuale della sicurezza metropolitana, in riferimento al presunto “far west” sovente evocato dal centrodestra. Risposta che peraltro è comprovata dai numeri: “Parliamo di una città assolutamente tranquilla”. Di nuovo don Gino, innescato sul tema del lavoro, fra nuovi disoccupati e impieghi in nero: “Stiamo agendo in relazione all’emergenza, nell’ovvia speranza di uscirne, contribuendo a fornire non pochi pasti a chi ne ha bisogno, a chi i non ha soldi per comprare da mangiare. Dopodiché, dobbiamo essere pronti per quando terminerà questo periodo, farci trovare reattivi con metodo. Il punto di partenza? L’importante è muoversi insieme, mantenere il senso della comunità”. Altro argomento (col ministro): una delle famose virtù di Milano, ovvero la sinergia fra le istituzioni, che riguarda anche i rapporti tra differenti forze dell’ordine, e al contempo la capacità dei privati di entrare direttamente nelle esigenze dei milanesi. Lamorgese: “Sì, vero. Nella mia recente esperienza di prefetto, ho avuto modo di verificare l’immediata disponibilità, l’attenzione, la conseguente mobilitazione. Una qualità senza dubbio locale, che però adesso, nel mio incarico da ministro, trovo anche nel resto d’Italia. Il periodo durissimo che stiamo vivendo ha generato reazioni virtuose”. Ulteriore argomento, sempre con Lamorgese: gli immigrati di seconda generazione e il loro ingresso in polizia, finanza, carabinieri: “Chi è cittadino italiano può partecipare ai concorsi regolarmente. Se hai l’età e sei cittadino italiano puoi partecipare, e nei concorsi vale il merito, non il colore della pelle”. Chiusura con don Gino: la politica a Milano: “Io e la politica? Beh, ci parliamo, con la massima chiarezza. Su alcuni temi non ci incontriamo per niente. Su altri andiamo d’accordo. A volte litighiamo anche, e qualcuno mi augura di andare all’inferno... Penso al carcere: sono problemi l’altissimo tasso di recidiva, sono problemi i suicidi... Eppure mi sento rispondere che problemi non lo sono per niente, il problema è la sicurezza”. Trento. Il progetto “Liberi da dentro”, ponte tra il carcere e la città ladige.it, 10 ottobre 2020 Al via, ieri, la terza edizione del progetto “Liberi da dentro”, un'iniziativa promossa dalla Scuola di partecipazione sociale (Sps), in collaborazione con diverse realtà associative e istituzionali della città di Trento. Nata con l'obiettivo di costruire un ponte tra carcere e città, la manifestazione culturale cerca di favorire una riflessione ampia sul ruolo rieducativo della pena e sull'importanza di un'idea di giustizia ripartiva che sostenga la responsabilità sociale e la costruzione di relazioni sicure. All'interno del programma, ancora in via di definizione, vi sono laboratori, corsi e spettacoli teatrali, proiezioni cinematografiche e letture. Tutte le iniziative sono pensate per coinvolgere, in modo parallelo, la cittadinanza, gli studenti degli istituti secondari di secondo grado e la popolazione carceraria della casa circondariale di Spini di Gardolo, a Trento. L'appuntamento inaugurale della rassegna, che poi si concluderà nel giugno del 2021, prevede la presentazione del film “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”, di Fabio Cavalli. All'evento, al teatro San Marco, di via San Bernardino (ore 20.30), interverrà anche la giudice della Consulta Daria de Pretis. “Il nostro intento - hanno spiegato i promotori Alberto Zanutti, Daniela Ranzi e Aaron Giazzon - è quello di mettere al centro un tema che spesso tende ad essere dimenticato, nonostante riguardi tutti da vicino. Crediamo sia importante che la cittadinanza abbia una conoscenza reale del mondo del carcere, e che sia consapevole della necessità di percorsi di pena gestiti in chiave rieducativa, con un coinvolgimento diretto e responsabile del territorio”. Tra le iniziative che interesseranno studenti e detenuti, vi è la realizzazione di un audiolibro, letto dagli studenti, che poi andrà a completare, assieme ad altri volumi presentati durante la rassegna, la biblioteca del carcere del capoluogo. Le attività laboratoriali entreranno in tutte e otto le sezioni del penitenziario (interessando almeno 15 detenuti per sezione), mentre le classi interessate al percorso potranno iscriversi liberamente. Per quanto riguarda gli incontri con gli autori, invece, sono previsti iniziative con Marco Malvaldi, coautore di “Vento in scatola” con Glay Ghammouri, Annalisa Graziano e Adolfo Ceretti. “Recupero e reinserimento - ha concluso l'assessore Mariachiara Franzoia - sono temi che ci riguardano da vicino. L'attività culturale rappresenta un'occasione per fare prevenzione e promuovere la legalità”. Il programma completo è disponibile sul portale www.sps.tn.it, mentre è possibile iscriversi all'attività attraverso posta elettronica (liberidadentro@gmail.it). L'evento inaugurale è ad ingresso libero, previa prenotazione. Premio Castelli: detenuti scrittori, la tredicesima edizione mediterranews.org, 10 ottobre 2020 Per la prima volta online, venerdì 16 ottobre 2020 la tredicesima edizione del Premio “Carlo Castelli” per la solidarietà, concorso letterario riservato ai detenuti delle carceri italiane promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli. Si svolgerà venerdì 16 ottobre 2020 a Roma, presso la sede di Palazzo Maffei Marescotti in via della Pigna 13/A, la cerimonia di premiazione del XIII Premio Carlo Castelli per la solidarietà. Il concorso letterario riservato ai detenuti delle carceri italiane è promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli, con il patrocinio di: Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Ministero della Giustizia e Università Europea di Roma e con lo speciale riconoscimento della medaglia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Media Partner: Pontificio Dicastero per la Comunicazione (Radio Vaticana, Vatican Media e Osservatore Romano), TV2000 e Radio InBlu. L’evento verrà trasmesso in diretta su Facebook e Youtube a partire dalle ore 18.00 Come ogni anno, anche per questa edizione sono giunti elaborati da numerosi istituti di pena di tutta Italia. Ai primi tre classificati la giuria assegnerà un “doppio” premio in denaro: una parte verrà consegnata all’autore, mentre un’altra somma verrà destinata ad un’opera di solidarietà. Così, anche chi ha “sbagliato” nella vita e vive l’esperienza della reclusione, avrà la possibilità di compiere una buona azione. “Riteniamo che questo - afferma Antonio Gianfico, Presidente della Federazione nazionale della Società di San Vincenzo De Paoli - sia uno stimolo per aiutare il recluso a riconciliarsi con il proprio vissuto e con la società”. Il tema della tredicesima edizione è: “Il mondo di fuori visto da dentro”. “Viene da chiedersi come possa una persona ristretta in carcere percepire la realtà esterna” è la domanda che pone Claudio Messina, Delegato nazionale carceri della Società di San Vincenzo De Paoli ed ideatore del Premio Carlo Castelli: “La galera interrompe bruscamente una condizione di vita e ne determina un’altra piena di limitazioni e divieti, tagliando contatti esterni e causando grossi condizionamenti ed una forte regressione nello sviluppo della personalità e nelle relazioni”. Dai racconti dei detenuti emerge proprio la consapevolezza di vivere in un “tempo sospeso”, l’ansia di non sapere se, una volta scontata la pena, fuori ci sarà ancora qualcuno ad attenderti, una casa, un lavoro. Ma, dagli elaborati emerge anche un altro sentimento: la paura. Tutti noi, che viviamo nel “mondo di fuori”, durante il lock down, siamo rimasti in qualche modo “reclusi” nelle nostre abitazioni ed abbiamo sperimentato sensazioni di isolamento e clausura. Come avranno vissuto, i detenuti, la pandemia vista “da dentro”? Puntando all’essenza della narrazione, stimolando soprattutto la spinta interiore che la persona è capace di sentire e di esprimere, il Premio Castelli vuole significare vicinanza a coloro che hanno intrapreso un percorso di cambiamento, o di conversione, a chi ancora non se ne sente capace, nonché provocare una riflessione in tutte le persone che non vogliono vedere e sentir parlare di carcere. Ai tre vincitori di questa edizione vanno rispettivamente 1.000, 800 e 600 euro, con il merito di finanziare anche un progetto di solidarietà. In aggiunta ai premi, a nome di ciascuno dei tre vincitori saranno devoluti, nell’ordine: 1.000 euro per finanziare la costruzione di un’aula scolastica nel Centro Effata di Nisiporesti (Romania); 1.000 euro per un progetto formativo e di reinserimento sociale di una giovane dell’Istituto minorile di Casal del Marmo (Roma); 800 euro per l’adozione a distanza di una bambina dell’India. Queste le opere premiate: La paura di decidere chi essere - Colombo Stefania (C.R. Milano Bollate). Quello che vedo dall’aldiquà - Ziri Elton (C.R. Vigevano - PV)Il buco della serratura - Spiridigliozzi Marcello (C.R. Roma Rebibbia) Inoltre, la Giuria del Premio Carlo Castelli ha conferito dieci segnalazioni di merito ai migliori elaborati pervenuti da vari istituti penitenziari. Le opere finaliste sono raccolte e pubblicate in un volumetto intitolato “Spazi vicini Vite distanti” edito da Anthology Digital Publishing scaricabile al link: https://anthologydigitalpublishing.it/book/spazi-vicini-vite-distanti-premio-castelli-per-detenuti-carcere La nostra politica incerta e l’inerzia nemica del paese di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 10 ottobre 2020 È ormai congenita l’incapacità del sistema, specie quando si tratta di cose importanti, di decidere e di far eseguire quanto deciso in tempi umani. Credo che da molto tempo nessun elettore italiano dia il suo voto a questo o quel partito nelle consultazioni politiche in base a ciò che esso promette nei suoi programmi; né, all’inverso, che nessun partito (al di là di qualche gesto simbolico di nessun effetto pratico come il testé modificato “decreto sicurezza” con il quale Salvini pretendeva di aver fermato il fenomeno migratorio) riesca realmente - anche quando gli capita di andare al governo - di fare qualcosa di significativo di quanto ha promesso. Dando spesso l’impressione, peraltro, neppure di provarci. L’unica eccezione importante che mi viene in mente è quella dei 5 Stelle con il reddito di cittadinanza. Ma si è trattato per l’appunto di un’eccezione, verificatasi in seguito a due circostanze straordinarie: uno strepitoso successo elettorale e, per i grillini, la conseguente prima volta in assoluto al governo, per giunta in posizione di forza. Deriva da quanto ho detto l’ormai congenita incapacità del sistema politico italiano, specie quando si tratta di cose importanti, di decidere e di far eseguire quanto deciso in tempi umani. Le cause sono conosciute, stra-conosciute da sempre, ma non si è mai trovato uno straccio di maggioranza o di governo che pensasse a porvi rimedio o ne fosse capace. Le enumero a titolo di promemoria: a) la presenza costante di governi di coalizione (per loro natura rissosi), guidati da un primo ministro che in genere conta poco e non riesce ad avere il comando effettivo dell’attività dei dicasteri. Eper di più un premier che non può quasi mai sapere quanto durerà in carica (tutto ciò si deve al combinato disposto di una pessima seconda parte della Costituzione e di ancora “più pessime” leggi elettorali); b) il numero spropositato di coloro che hanno titolo a prendere parte in un modo o nell’altro al processo decisionale: entità le più diverse titolari di pareri obbligatori, comitati interministeriali, tavoli di consultazione, conferenza stato-regioni, ecc. ecc. c) la farraginosità esasperante di ogni genere di disposizione a cominciare dalle leggi, in genere preparate da uffici legislativi dei ministeri dove dominano schiere di legulei specializzati nel rendere complicate le cose, infarcirle di codicilli e clausole di ogni tipo, scriverle in un linguaggio ai più incomprensibile; d) il governo occulto degli apparati burocratici di vertice, dominatori incontrastati dei regolamenti attuativi senza i quali quasi tutte le leggi non possono entrare in vigore (cioè padroni di farli, di farli subdolamente modificando in modo sostanziale le leggi suddette, o di non farli affatto rinviandoli alle calende greche); e) infine, il controllo di legittimità sugli atti dell’amministrazione da parte del Tar, il ricorso al quale è ormai divenuto una prassi pressoché costante a proposito di ogni procedura, con una predilezione tutta particolare per quelle di appalto. A questo elenco di ostacoli già di per sé imponente si aggiunge la povertà di visione, di coraggio e di statura della classe politica italiana degli ultimi vent’anni. In un regime come il nostro per decidere di fare qualcosa di importante e per riuscire ad avviarlo un uomo di governo o la sua maggioranza, infatti, devono avere il coraggio in certo senso di scommettere su se stessi. Devono essere convinti cioè che quello che decidono di mettere in opera (e che naturalmente vedrà la luce o mostrerà i suoi effetti positivi solo dopo un tempo abbastanza lungo) si rivelerà però una cosa così indiscutibilmente positiva che comunque gli porterà, sia pure dopo qualche anno, un risultato di consensi, anche se allora essi non saranno più al potere. E che glielo porterà in misura maggiore che se quell’uomo di governo e la sua maggioranza avessero deciso d’impiegare le stesse risorse nella distribuzione di mance e mancette d’immediato ritorno elettorale. Il guaio è che perché ciò avvenga sarebbe necessario, come ho detto, un universo politico diverso da quello italiano. Nel nostro Paese, infatti, da tempo governare non è sinonimo di fare o di cambiare le cose, bensì di occupare la maggior parte possibile di luoghi di potere con relativa distribuzione di nomine e di prebende, mentre essere parlamentari non vuol dire frequentare la Camera o il Senato ma essere invitati nei talk-show televisivi. È così che l’Italia si è fermata. È così che si trova da almeno due decenni immersa nella palude del non decidere/non fare, delle decisioni che quando pure ci sono ci mettono poi un secolo a tramutarsi in realtà operanti. Non c’è un elettore, sono convinto, il quale non pensi, ad esempio, che il nostro sistema giudiziario vada profondamente cambiato, che la nostra Pubblica Amministrazione per come essa è attualmente organizzata costituisca sempre un esempio di inefficienza e troppo spesso un ostacolo alla vita e alle attività dei cittadini. Non c’è elettore, sono convinto, il quale non pensi che il nostro sistema scolastico e universitario nonché l’intero sistema della ricerca abbia bisogno di essere ripensato da cima a fondo, che l’ordinamento regionale così com’è non funziona; che il sistema attuale di accertamento tributario finisce per favorire l’evasione fiscale, che in una grande parte del Paese le condizioni dei trasporti urbani, dello smaltimento e del trattamento dei rifiuti, delle periferie invochino interventi radicali e urgenti. Ebbene, potrà apparire stupefacente ma per nessuna di tali questioni si ha notizia che qualche partito abbia un’idea concreta di come cambiare davvero le cose, abbia un’ipotesi appena appena dettagliata di una nuova legislazione. Nulla. Sono anni che il nostro sistema politico e di governo appare dominato da una sostanziale inerzia. E questo - in una società civile come quella italiana, vivacissima e piena di energia a livello molecolare, ma a livello generale incapace di aggregarsi per forza propria intorno a indirizzi di vasta portata, priva di una vera tradizione di movimenti collettivi dal basso - ha un effetto sostanzialmente paralizzante. Non a caso da anni il Paese è fermo. L’assenza di una guida che solo la vera politica può assicurare è la più certa premessa per il declino dell’Italia. Un Nobel contro la fame: “Battaglia mai così urgente” di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 10 ottobre 2020 Il Programma alimentare dell’Onu “cruciale nella cooperazione multilaterale”. “Speriamo che malgrado la recessione i governi trovino modo di sostenerci”. Nel quartier generale dell’agenzia Onu contro la fame, a Parco de Medici a Roma, quei pochi non in smart working hanno condiviso con un brindisi lo stupore per un riconoscimento inaspettato. In caso di premio di squadra, le aspettative si concentravano - nell’anno del Covid - sull’Organizzazione mondiale della sanità, da cui pochi mesi fa si sono sfilati, polemicamente, gli Stati Uniti. Invece a essere insignito del Nobel per la pace è stato il Programma alimentare mondiale (Pam) - in inglese World Food Program (Wfp), a ricordarci che la pandemia passerà mentre la fame no e non ci può essere pace con quasi 700 milioni di persone che non sanno se domani mangeranno. “Il Wfp ha dimostrato un’impressionante capacità di intensificare i propri sforzi”, ha spiegato la presidente del Comitato per il Nobel Berit Reiss-Andersen. L’agenzia Onu diretta dall’americano David Beasley, un trumpiano ex governatore repubblicano della South Carolina, è stata elogiata anche perché svolge “un ruolo cruciale nella cooperazione multilaterale”. Un approccio che la pandemia ha mostrato “necessario per affrontare le sfide globali”, anche se “il multilateralismo sembra aver perso rispetto in questi tempi”, ha osservato Reiss-Andersen puntando il dito contro i crescenti populismi che “screditano il lavoro delle organizzazioni internazionali”. Qualcuno vi ha letto un riferimento a Trump che ha posto in discussione l’operato di più enti internazionali, a iniziare dall’Organizzazione internazionale del commercio. Ad oggi comunque gli Stati Uniti restano il primo donatore del Wfp, che è l’organizzazione umanitaria più grande al mondo, con oltre 8 miliardi di dollari raccolti nel 2019. “Le risorse arrivano per il 98% dai governi”, dice al CorriereManoj Juneja, l’economista di origine indiana vice di Beasley. Dagli Usa proviene il 42% dei contributi, dai 3 ai 3,5 miliardi di dollari l’anno. “Siamo preoccupati per il 2021, speriamo che malgrado la recessione i governi trovino modo di sostenerci” afferma. Il premio accende i riflettori su un’emergenza che si imporrà nel mondo post-Covid: l’aumento di povertà e fame. “Negli ultimi due anni si è invertito il trend positivo. Oggi 690 milioni di persone al mondo soffrono di malnutrizione, di cui 135 milioni in forma acuta, prima della pandemia, ma ora stanno raddoppiando”, avverte. L’obiettivo Onu della “fame zero” entro il 2030 sembra più lontano. “Due terzi dei nostri aiuti vanno nelle aree di conflitto - Yemen, Sud Sudan, Siria, Somalia, Sudan, Repubblica democratica del Congo, Nigeria e Afghanistan. Senza pace non si può arrivare a fame zero. Il nostro lavoro aiuta a creare le condizioni, ma la pace deve essere perseguita a livello di governi e di comunità internazionale - avverte Juneja -. Serve poi investire in infrastrutture: il 40% della produzione dei piccoli agricoltori dei Paesi in via di sviluppo viene buttato perché manca un sistema di stoccaggio e trasporto”. Preoccupazioni a parte, ora si brinda: “Fieri, commossi per un premio ricordo alle persone vulnerabili del 21 esimo secolo”. Migranti. Lucano: “Da questo governo nessuna svolta sull’immigrazione” di Claudio Dionesalvi Il Manifesto, 10 ottobre 2020 Intervista all'ex sindaco di Riace. Giudica le recenti modifiche ai decreti di Salvini solo un “palliativo”: “Culturalmente non è mutato il paradigma. Si continua a ritenere l’immigrazione un problema di ordine pubblico e non invece una risorsa sociale”. Il sindaco leghista Tonino Trifoli gli ha appena comunicato che entro 90 giorni dovrà demolire “in quanto abusiva” l’antica forgia ricostruita in estate grazie al lavoro dei volontari della cooperazione sociale calabrese. Ma Mimmo Lucano tira dritto. D’altronde, per il Tar “l’abusivo” sarebbe proprio Trifoli dichiarato ineleggibile. Intanto, come una trottola l’ex sindaco gira l’Italia per presentare il suo libro autobiografico Il fuorilegge. Pur immerso nelle difficoltà di un modello di accoglienza che malgrado le traversie sta cercando di far rinascere, non esita in nome di una battaglia ideale e culturale a dire la sua sul nuovo provvedimento del governo in tema di immigrazione. Sindaco, il suo acerrimo avversario Matteo Salvini grida allo scandalo. Annuncia la raccolta firme per i referendum abrogativi e li chiama “decreti clandestini”. Quindi tutto bene? Il nuovo decreto è impeccabile? Non crede che, piuttosto, esca rafforzata la linea Minniti sui respingimenti alle frontiere e sugli accordi con le milizie? I decreti Salvini nascono in continuità con i decreti Minniti-Orlando. E il nuovo decreto non supera entrambi se non lievemente. Si tratta del settimo intervento sull’immigrazione e culturalmente non ne è mutato il paradigma. Si continua a ritenere l’immigrazione un problema di ordine pubblico e non una risorsa sociale. Viene demandato tutto alle prefetture e sono emarginati gli enti locali. Questo decreto è solo un palliativo, non ci vedo una svolta. La legge Bossi-Fini non è stata intaccata e rappresenta l’anticamera dello sfruttamento con quello scambio indegno tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro. Il salvataggio in mare viene ancora punito. E quanto al permesso per motivi umanitari era già sancito dalla Convenzione di Ginevra. Nel libro lei scrive che “in questo disastro economico e sociale in cui siamo precipitati all’improvviso, avremmo un enorme bisogno di idee e prima di diventare un modello per ridar vita a una comunità, Riace era un’idea: era un’idea di futuro”. Perché, per dare futuro e prospettiva, non pensare a un sistema di accoglienza diffuso nelle aree interne spopolate? Perché non utilizzare il Recovery Fund, come proposto da questo giornale, per affrontare il dramma epocale delle migrazioni? Quando ero sindaco ne parlai con l’allora presidente calabrese Agazio Loiero. La Calabria era “l’obiettivo 1” tra le aree fragili destinatarie dei fondi europei. Poi non se ne fece più nulla. Anzi Riace ben presto l’hanno pure smantellata per far posto al modello bidonvilles, tipo san Ferdinando. Invece sarebbe di grande valore sociale riattivare un processo di ripopolamento nazionale dei borghi abbandonati e delle aree fragili. La questione meridionale potrebbe anche essere in parte risolta attraverso l’accoglienza virtuosa. L’Europa dovrebbe finanziare e fare da traino a questo processo. Invece Bruxelles si gira dall’altra parte, ha un atteggiamento pilatesco come nel caso della mancata revisione degli accordi di Dublino. A Riace, negli anni novanta, non esistevano quasi più né agricoltura, né allevamento. L’unica possibilità per i pochi abitanti rimasti era fuggire. Poi il sistema di accoglienza creato da noi ha cambiato tutto. Centinaia di profughi hanno rimesso in moto l’economia del paese. Lei ha rinunciato, per sua ammissione, a candidature elettorali. Preferisce restare a Riace e far ripartire dal basso il borgo multietnico. I progetti sul territorio, in effetti, stanno rinascendo: il turismo solidale, le botteghe artigianali, il frantoio sociale, la fattoria didattica. Però ugualmente le difficoltà sono tante per fronteggiare le emergenze: bollette, fornitori, medicinali, il latte per i bambini. Vuole lanciare un appello? Sono tornato a fare il militante, il volontario semplice. Il primo ottobre abbiamo aperto l’asilo multietnico, ci danno una mano le associazioni come la Terra di Piero e riceviamo aiuti dal Banco Alimentare, abbiamo ripristinato il bonus sociale per la spesa. Insomma, abbiamo fatto rinascere un embrione di economia della speranza contro il delirio del libero mercato e del profitto che si sta acuendo durante questa crisi pandemica. Malgrado ciò, Riace continua ad essere esclusa dalla programmazione nazionale, non riusciamo neanche a recuperare le spese per i servizi sociali resi negli anni scorsi e mai pagati. La prefettura di Reggio deve ancora versare i fondi del 2017. Noi proviamo a far tutto da soli. Ma certo non è facile. La Giornata mondiale contro la pena di morte: a che punto siamo? di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 ottobre 2020 Dal 2003, il 10 ottobre di ogni anno la Coalizione mondiale contro la pena di morte si rivolge ad associazioni, reti, attivisti e istituzioni per diffondere informazioni e appelli e mobilitare l’opinione pubblica in favore dell’abolizione della pena capitale. Nel corso degli anni, la Giornata mondiale contro la pena di morte è diventata un punto di riferimento per la campagna globale contro la pena di morte. Questa iniziativa è seguita da “Cities for Life”, il 30 novembre, quando città di ogni parte del mondo illuminano edifici simbolici per celebrare la storica abolizione della pena di morte da parte del Granducato di Toscana, nel 1786. Il tema della Giornata mondiale contro la pena di morte di quest’anno è il diritto a un’efficace rappresentanza legale. Molti processi che terminano con una condanna alla pena capitale sono segnati, infatti, dalla scarsa qualità della difesa dell’imputato o dall’impossibilità di assicurargli una difesa efficace. Ma a che punto siamo? Sono 142 gli stati che hanno abolito la pena di morte o che comunque non eseguono da tempo condanne: di questi, ben 107 sono abolizionisti totali e il prossimo sarà il Kazakhistan. Un continente, l’Oceania, è libero dalla pena di morte. Lo sarebbero anche l’Europa e le Americhe, se non fosse per la Bielorussia e gli Stati Uniti d’America, dove quest’anno il presidente Trump ha deciso di ridare via libera alle esecuzioni federali dopo una sospensione di 17 anni. Resta gravissima la situazione in Cina, dove i dati sulla pena di morte continuano a essere considerati un segreto di stato, mentre tre stati del Medio Oriente - Iran, Iraq e Arabia Saudita - si collocano da anni tra i primi cinque stati per numero di esecuzioni. L’Africa sub-sahariana fa passi avanti. Alla fine dell’anno scorso la Corte africana dei diritti e dei popoli si è pronunciata contro l’obbligatorietà della pena capitale in favore del principio della discrezionalità del giudice. Sul sito di Amnesty International Italia ci sono informazioni e soprattutto appelli da firmare. Mali. Gli ostaggi italiani scambiati con 200 terroristi islamici di Andrea Morigi Libero, 10 ottobre 2020 Dopo due anni di sequestro in Mali e pochissime notizie sugli ostaggi, si è rivelato determinante l’intervento della Francia. Appena padre Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio, giunti ieri nel primo pomeriggio all’aeroporto di Ciampino, mettono piede sul territorio italiano, fanno appena in tempo a ricevere il benvenuto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio che vengono caricati su un’automobile che li conduce in una caserma del Ros dei Carabinieri dove i magistrati li ascoltano per ricostruire la dinamica dei loro sequestri. Per entrambi, comunque, pare si sia rivelato decisivo l’intervento della Francia, presente con le proprie truppe in Mali, sul nuovo governo locale. I negoziati che hanno condotto al rilascio di quattro ostaggi, fra i quali la cooperante francese Sophie Petronin e l’ex ministro Soumaila Cissé, detenuto dai terroristi islamici da sei mesi, si sono conclusi con la liberazione contestuale da parte delle autorità maliane di 180 prigionieri jihadisti nel fine settimana. Gli italiani riferiscono i dettagli della loro prigionia, che si è protratta per due anni, cadenzata da trasferimenti da uno Stato all’altro e “lunghi spostamenti che duravano diversi giorni, anche a bordo di barche e moto, attraversando il Burkina Faso per arrivare fino in Mali”. Non avevano percezione del rischio di essere sgozzati, anzi, il religioso sottolinea che “siamo stati trattati bene tanto che il 20 maggio scorso, in occasione del mio compleanno, ho ricevuto in regalo una radio grazie alla quale abbiamo potuto avere notizie sulla diffusione del coronavirus in Europa”. Pochi i momenti drammatici: “Non abbiamo ricevuto particolari minacce di morte, ma il momento peggiore è stato quando Luca Tacchetto (il padovano tornato libero lo scorso marzo dopo 15 mesi di sequestro in Mali, ndr) è riuscito a fuggire dopo un primo tentativo fallito. A quel punto siamo stati incatenati per alcuni giorni agli alberi ma poi la situazione si è tranquillizzata”. Sono due casi diversi, che hanno condiviso la prigionia soltanto negli ultimi sei mesi ma entrambi invisibili. Il religioso, appartenente alla Società delle missioni africane, scompare la sera del 17 settembre 2018 dalla sua parrocchia di Bomoanga, diocesi di Niamey, in Niger. Il religioso ha spiegato agli inquirenti e ai carabinieri del Ros di essere stato venduto da uno del posto che aveva avuto contatti con la missione Bomoanga, a circa 150 chilometri dalla capitale del Niger. I pastori Fulani furono avvertiti che “il bianco era tornato”. “Arrivarono con sei moto - ha detto Maccalli parlando dei suoi rapitori - e mi portarono via”. Da allora, su di lui cala un silenzio interrotto soltanto dalle preghiere della sua congregazione religiosa e dei fedeli. Per l’opinione pubblica è uno sconosciuto, diversamente da altri ostaggi. Tanto che la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre si mobilita per far luce sulla vicenda, chiedendo una maggiore pressione sociale sugli apparati di sicurezza per facilitare la liberazione dei nostri connazionali. Il sequestro viene gestito da tre gruppi, tutti appartenenti alla galassia jihadista legata ad Al Qaeda. Il primo composto da pastori Fulani, il secondo da sequestratori di origine araba e l’ultimo da Tuareg. Comunque non sI hanno notizie finché lo scorso 6 aprile il quotidiano cattolico Avvenire non pubblica un video della durata di 24 secondi, ricevuto dai rapitori, nel quale compare il sacerdote, che si presenta fornendo la prova di esistenza in vita. “Mi chiamo Pier Luigi Maccalli, di nazionalità italiana, oggi è il 24 marzo”. A sorpresa, nel filmato compare anche un altro ostaggio, un uomo che dice: “Mi chiamo Nicola Chiacchio. Sono di nazionalità italiana”. Mentre è stata ricostruita, attraverso la sua famiglia e i confratelli, la vicenda di padre Maccalli, originario di Madignano, in provincia di Cremona, restano infatti piuttosto misteriose le circostanze relative a Chiacchio. Nemmeno il suo rapimento risulta alle cronache, finché l’uomo - di cui non si conoscono né l’età né la provenienza, ma si sa solo che si tratta di un viaggiatore - affiora nel video. Nessuno pare averne denunciato la scomparsa, alimentando così il mistero che avvolge la sua persona. Di lui non è disponibile nemmeno un profilo social, se non un breve diario di escursioni in bicicletta risalente al 2004.