Bortolato: “Non è utile a nessuno un carcere che sia solo una vendetta pubblica” di Felice Sblendorio bonculture.it, 9 novembre 2020 Intervista a Marcello Bortolato, magistrato e presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze. Non ha risparmiato nulla la pandemia: nemmeno il carcere. Secondo l’ultimo bollettino fornito da Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, l’estensione del contagio in carcere procede a ritmo sostenuto con più di 400 positivi tra i detenuti e un valore più alto tra il personale penitenziario. In una settimana il numero dei positivi in cella è più che raddoppiato. A Milano (a San Vittore e Bollate) i contagi aumentano con rapidità, mentre ad Alessandria il virus ha colpito il 14% della popolazione detenuta, provocando un decesso. Così, anche il Covid-19 è entrato in una realtà dimenticata e marginale nel racconto pubblico, inasprendo problematiche antiche e durature. Ma cos’è diventato, oggi, il carcere? In Italia, secondo il magistrato Marcello Bortolato e il giornalista del Corriere della Sera Edoardo Vigna, si è trasformato in una “Vendetta Pubblica” (Editori Laterza, 160 pagine, 14 euro). In un saggio urgente, dallo stile puramente divulgativo e accessibile, gli autori tentano con successo di scardinare false credenze e miti comuni su un tema così delicato e complesso come il penitenziario. Se, come scrivono gli autori, “il carcere è un po’ come la temperatura e il tempo meteorologico: la realtà è diversa dal percepito” il lavoro di Bortolato e Vigna ha il pregio di mostrarci una realtà aderente ai numeri e ai dati. Non c’è nessuna interpretazione, ma un lavoro minuzioso che tenta di contestualizzare e distinguere, analizzare e smontare il furore emotivo del populismo giudiziario. Mettendo al centro la dignità dell’uomo, come sancito dalla Costituzione, gli autori donano al lettore un manifesto civile per pensare e immaginare meglio “l’istituzione totale” del carcere. Dottor Bortolato, cominciamo dall’origine: a che cosa serve la pena? “Oggi, in Italia, la pena non può che essere ricondotta alla funzione indicata dall’articolo 27 della Costituzione: ovvero un’utilità rieducativa intesa in un disegno più grande di reinserimento sociale. Classicamente, nella storia, la pena ha avuto diverse funzioni: retributiva, special-preventiva, di prevenzione generale e di mera funzione custodiale. La nostra Carta, pur non prendendo posizione sulle funzioni storiche della pena, impone che, qualunque essa sia, debba tendere al reinserimento sociale. Questo è il punto di partenza.” Per la nostra Costituzione nessuno è irrecuperabile… “Esatto. Nemmeno la pena dell’ergastolo - che tendenzialmente è in contraddizione con il principio rieducativo - può essere esclusa da una finalità di reinserimento sociale.” Quando si parla di carcere, da Voltaire in poi, si usa spesso la metafora dello specchio: di un Paese o del suo grado di civiltà. L’immagine delle carceri italiane cosa riflette? “Un Paese variegato, con una popolazione di varia estrazione sociale e multietnica. Il carcere italiano ha un tasso di soggetti stranieri elevato con una percentuale del 40”45%. La nostra, poi, è una società complessa che vede forme di disagio più o meno vaste che vanno dalla marginalità sociale alla tossico-alcol-dipendenza. Problemi che, come sottolineava Alessandro Margara, portano a una detenzione sociale per tutta una serie di soggetti che provengono dalle fasce più disagiate della società. Con delle persone analfabete, che possiedono un titolo di studio perlopiù limitato alla licenza elementare, bisognerebbe implementare l’opera di trattamento attraverso la cultura, il teatro e la scuola. Questo è un primo grande problema, perchè solamente una piccolissima parte di questa popolazione carceraria può accedere ai trattamenti e allo strumento principale per l’opera riabilitativa che è il lavoro.” Il carcere in Italia è una vendetta pubblica? “Se è vero che il carcere nasce come una forma di monopolio della vendetta, limitando quella privata delle vittime nei confronti del reo, nel corso del tempo si è trasformato in una vendetta di Stato. Ma la Costituzione, nonostante i desideri di molta parte dell’opinione pubblica, ci obbliga a immaginare una funzione che non si riduca a una semplice catena di sofferenze e dolore. Esprimere una detenzione che sia solamente una mera privazione dei diritti fondamentali non consente al condannato di uscire dal carcere, come tutti noi vorremmo, come una persona diversa da quella che è precedentemente entrata. Non è utile a nessuno un carcere che sia solo una vendetta pubblica. È utile a tutti, invece, un carcere che consenta al condannato di diventare una persona diversa, non cadendo nella trappola della recidiva; quella possibilità sempre dietro l’angolo di reiterare il reato.” Un carcere del genere è una condanna a delinquere ancora? “Sicuramente. Io sono convinto, anche sulla base delle mie esperienze, che se al detenuto si tolgono i diritti fondamentali non lo si riconosce nella sua dignità di persona. L’uomo va sempre trattato e riconosciuto come tale, coltivando la ragionevole aspettativa che, anche il reo, quando uscirà dal carcere, potrà a sua volta considerare gli altri come persone degne, e non commettere più reati.” Il populismo giudiziario oramai ha alimentato una sete di vendetta. Non crede che nel dibattito pubblico si pensi al carcere più in un’antica ottica retributiva che rieducativa? “La funzione retributiva, che ha in sé una sua legittimità, soddisfa una reazione emotiva e immediata alla commissione del reato. Credo che il carcere sia un argine alle nostre paure, quando invece un tema del genere necessita di un approccio serio e razionale. La retribuzione, sempre più vista come un modo per privare la libertà e infliggere sofferenza al reo, ha una sua legittimità solamente in una cornice di legalità e ragionevolezza. La retribuzione del male ha senso solo se è innanzitutto proporzionata al reato commesso, e non solo a ciò che ‘vuole la gente’.” Il paradigma positivista ha ribaltato la figura predestinata al crimine tipica della scuola classica. La funzione rieducativa supplisce alcune mancanze o deficit della società? “Il modello rieducativo ha i suoi limiti, ma è il fondamento culturale dell’ordinamento penitenziario. Siccome i reati sono causati perlopiù da una deprivazione sociale, bisogna agire su quelle cause pe poter ragionevolmente aspettarsi che la recidiva non si verifichi più.” Spesso, però, non basta. Quanto è sbagliato affidare solamente al diritto penale la risoluzione dei problemi sociali? “Sicuramente è sbagliato. Pensiamo all’annoso problema della droga. Nonostante lo strumento punitivo non sia usato solamente nel nostro Paese, il fenomeno è sempre più grave. Molto spesso lo strumento penale è totalmente insufficiente per combattere guerre sociali. La nostra risposta, che è la più semplice, è un segnale emotivamente forte per una comunità spaventata. Ma un vero Stato democratico, che ha realmente a cuore il benessere della sua cittadinanza, dovrebbe cominciare a pensare a forme alternative per rispondere a questi disagi.” L’Italia è culturalmente pronta ad accoglierle? “La pena alternativa alla prigione deve necessariamente maturare ed essere accolta in un tessuto sociale pronto. Il carcere, per la società, è la risposta più semplice: i colpevoli sono lontani dal nostro sguardo e quel problema non è più importante per il destino comune di tutti noi. Le pene alternative, invece, necessitano di accoglienza e della possibilità di un confronto - regolato ovviamente da prescrizioni effettive - fra la persona che ha appena commesso il reato e la comunità generale.” Uno sforzo ulteriore è il percorso della giustizia riparativa. Ricucire il rapporto fra vittima e colpevole significa pacificare un trauma che, molto spesso, lacera le comunità? “Il libro si conclude con un capitolo che parla della giustizia riparativa come passaggio ulteriore rispetto al modello rieducativo. È un paradigma di giustizia alternativa a quello classico per il quale si ipotizza che la risposta al reato non debba solamente essere detentiva. Il reato non può essere considerato solamente come una conseguenza della violazione di una norma astratta, ma deve essere concepito come una ferita, una lacerazione sociale. E come si può porre rimedio a questa lacerazione? I processi di mediazione tra vittima e colpevole ad esempio, oppure le opere di riconciliazione sociale fatte in Sudafrica dopo l’apartheid, in cui lo Stato rinuncia in tutto o in parte alla sua pretesa punitiva purché il condannato sia sollecitato, su un presupposto di verità, a realizzare forme di riparazione che possono spaziare dalle scuse formali al risarcimento del danno, oppure a forme di lavoro gratuito a favore della collettività. Il colpevole doveva ammettere il proprio reato e anche confessarne altri non scoperti, e si trattava di reati comuni ancorché motivati da odio razziale e non solo ‘politici’, e ciò apriva la strada alla riconciliazione pubblica e privata. Un grande esempio: quando uscì dal carcere Mandela disse “pace” e non “guerra”. Questo, ovviamente, non è un paradigma applicabile a tutti i tipi di reato e a tutti i livelli di pericolosità, ma sicuramente è uno sguardo possibile nel tentativo di superare la funzione rieducativa attualmente in grande sofferenza.” Una riparazione che non necessita del perdono, però… “Il perdono non ha nulla a che fare con la giustizia riparativa. È un atto spontaneo, assolutamente libero, che non è imposto né richiesto da nessuno. Se il processo di mediazione porta a un perdono da parte della vittima è un ulteriore passo.” In molti, da tempo, sono contrari alla dimensione totalizzante del carcere. Lei cosa ne pensa? “Benché sia legittima l’idea di eliminare il carcere in toto, considerandola una misura contraria ai principi democratici e ai valori di rispetto della dignità umana, nel libro volontariamente non tocchiamo il tema dell’abolizionismo. Partiamo dal presupposto che il carcere così com’è non va bene: dunque deve essere assolutamente rinnovato. Le leggi per riformarlo ci sono. Noi abbiamo uno dei migliori ordinamenti penitenziari al mondo se solo venisse attuato in ogni sua parte. Una possibile riforma crediamo sia urgente.” Un intellettuale come Adriano Sofri, che ha vissuto il carcere dopo una condanna definitiva, ha scritto che “Una lingua che conserva il futuro anteriore non merita l’infamia dell’ergastolo”. Se non c’è né futuro e né rieducazione, l’ergastolo ostativo a che cosa serve? “L’ergastolo ostativo è in netta contrapposizione al principio rieducativo, tanto da spingere la Corte Costituzionale a dichiararlo in parte illegittimo con la sentenza 253 del 2019. Nessuna persona è irrecuperabile, e forme destinate a finire con la morte del detenuto sono intrinsecamente in contrapposizione con l’articolo 27 della nostra Costituzione. Io, personalmente, auspico che la Corte possa dire qualcosa di più non solo sui permessi premio, ma anche sulle altre misure alternative connesse all’ergastolo ostativo. Il tema è complesso e si lega chiaramente al profilo della collaborazione. Lo Stato, in un’ottica utilitaristica di politica criminale, molto spesso chiede al condannato di svelare aspetti della criminalità ancora poco noti in cambio di benefici. Il condannato vive così una scelta drammatica che contrappone la sua libertà a quella degli altri. Dal punto di vista morale la pretesa della collaborazione con la giustizia è qualcosa che stride con i principi classici dell’etica e della libertà. Ciò non toglie che lo strumento della collaborazione, in un periodo emergenziale come quello degli anni 90, abbia consentito di portare a casa risultati importanti in tema di lotta alla mafia. Il tutto, però, deve essere ricondotto in termini più coerenti con la Costituzione. Una pena senza speranza, come ha scritto più volte Papa Francesco, non può che essere parificata a una pena capitale.” Emilio Di Somma: “Bonafede ha sbagliato con il pm Di Matteo” di Giulia Sorrentino Libero, 9 novembre 2020 Il dirigente del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria si schiera col magistrato antimafia. E sulle scarcerazioni facili: commessi troppi errori. Emilio Di Somma, parliamo dello scontro tra il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e il pm Antonino Di Matteo: cosa ne pensa uno come lei che è stato vicecapo del Dap e che conosce i retroscena delle nomine agli incarichi di maggior prestigio? “Comprendo sul piano umano la reazione del dottor Di Matteo. Ha taciuto per due anni, ma ha sentito il bisogno di dire come si sono svolti i fatti quando ne ha ascoltato una narrazione che a suo avviso non corrispondeva al vero. E ritengo che abbia detto la verità. Bonafede, invece, tentando di dare una spiegazione in ordine alla mancata nomina di Di Matteo a capo del Dap, che proprio lui gli aveva proposto, ha affermato che se avesse accettato la nomina a direttore generale degli affari penali non vi sarebbero stati questa volta “dissensi” o “mancati gradimenti”, così implicitamente ammettendo che questi non meglio definiti dissensi o mancati gradimenti vi erano stati all’annuncio della nomina di Di Matteo a capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. E un brutto segnale, soprattutto nei confronti di un magistrato che ha fatto della lotta alla mafia una ragione della sua attività professionale”. I detrattori di Nino Di Matteo si chiedono come mai abbia “scaricato” Piercamillo Davigo, tenuto anche conto del fatto che quest’ultimo non lo abbia difeso quando si è trattato della sua questione. Che opinione si è fatto a riguardo? “Non conosco personalmente il dottor Di Matteo ma ho seguito il suo impegno nella lotta alla mafia e sono convinto che per questa giusta causa abbia impiegato tutto il suo sapere e le sue capacità sino allo stremo delle forze. Avrà commesso anche degli errori come tutti gli esseri umani, e i magistrati tali sono, a volte ottenendo successi, altre volte sconfitte. Questo per dire che in ben due circostanze, la questione Bonafede e la questione della permanenza al Csm del dottor Davigo anche oltre il compimento dei settant’anni, egli ha tenuto la barra dritta e non si è fatto condizionare nel primo caso dalle simpatie dei Cinque Stelle nei suoi confronti e nel secondo dall’appartenenza alla corrente di Davigo. In entrambi i casi egli ha dato ascolto solo alla sua coscienza di uomo di legge. Sarebbe bello se tutti i membri del Csm rispondessero nel loro agire alla loro coscienza e non alle direttive delle correnti dell’Anm che ne hanno consentito la nomina in un organo costituzionale qual è appunto il Consiglio Superiore della Magistratura”. Qual è la sua opinione sulla vicenda delle scarcerazioni facili anche di detenuti sottoposti al 41bis, sul ruolo del Dap e della magistratura di sorveglianza? E com’è possibile che il ministero sbagli un indirizzo e-mail? “La circolare emanata dalla Direzione Generale dei detenuti del Dap non diceva cose stravaganti. Trasmetteva una comunicazione dell’Oms che elencava una serie di malattie che, se possedute in generale da qualunque essere umano, lo rendevano più facilmente aggreditile dal Covidl9. La circolare si concludeva con l’invito alle direzioni di segnalare alle autorità giudiziarie competenti i casi di soggetti che si trovavano eventualmente in quella situazione clinica, per valutare la concreta possibilità di adottare nei loro confronti misure espressamente previste dalla legge. È obbligatorio precisare che l’amministrazione penitenziaria non ha il potere né di incarcerare né di scarcerare, potere che appartiene esclusivamente all’autorità giudiziaria. Ciò detto, intendo certamente affermare che il Dap abbia avuto responsabilità, ed anche gravi. Quella circolare è stata buttata lì per caso come un semplice adempimento burocratico. Andavano assunti contatti con le autorità giudiziarie in via preventiva già da parte dell’amministrazione centrale richiamando la loro attenzione sulla pericolosità della situazione. Bisognava fare un censimento rapido - ma il Dap questi dati dovrebbe già averli - sulla situazione dei reparti ospedalieri presenti in alcuni istituti e sulle disponibilità ad ospitare detenuti in condizioni fisiche non idonee. È mancata una amministrazione in grado di gestire il delicato momento. E ne sono stata prova evidente le proteste, le rivolte, le evasioni in massa ed anche i morti come non si vedevano ormai da quarant’anni. L’inadeguatezza a governare un evento così straordinario e l’inevitabile confusione che ne è scaturita hanno fatto sì che non si rispondesse tempestivamente ad una magistratura di sorveglianza che chiedeva dove poter mandare un detenuto e che si arrivasse al punto di sbagliare anche un indirizzo di posta elettronica. Inoltre, le disposizioni di legge volute da Bonafede hanno aggiunto poco, se non nulla, alle cautele che già venivano adottate dal Dap in specie in relazione ai detenuti in regime di 41bis anche in via diretta con contatti formali ed informali con la Direzione Nazionale Antimafia e con le procure distrettuali. Va invece dato atto alla magistratura di sorveglianza ed alle autorità giudiziarie competenti, in ordine ai vari gradi di giudizio per quel che riguarda i detenuti non ancora condannati in via definitiva, di aver svolto un eccellente lavoro consentendo una diminuzione del sovraffollamento nel rispetto della legge”. Una giustizia fallace “uccise” Aldo Scardella di Giovanni Terzi Il Tempo, 9 novembre 2020 Il ragazzo di 25 anni, accusato di omicidio, si tolse la vita in carcere. Dopo 16 anni sono stati condannati i veri colpevoli del delitto: lo studente era innocente. Ci sono avvenimenti che non è giusto che passino nell’oblio. Storie che hanno per sempre segnato la vita di persone e famiglie in modo definitivo; una di queste è quella di Aldo Scardella morto suicida nel carcere di Cagliari il 2 luglio del 1986. Per testimoniare l’ingiustizia Perpetrata ad Aldo Scardella il 23 settembre del 1986 Enzo Tortora andò a deporre un mazzo di fiori sulla sua tomba benché ancora con esattezza non si conosceva nulla della sua innocenza. Tortora disse: “Capisco profondamente che cosa l’ha spinto a uccidersi. È stata la disperazione, il dolore per un’accusa ingiusta”. Enzo Tortora capì senza bisogno di alcuna prova che con quel giovane la giustizia non si era comportata in modo corretto. La disperazione di Aldo Scardella è simile a quella di molte persone che, prima di un giusto processo, vengono incarcerate. Aldo però, si suicidò dopo aver gridato, senza mai essere stato ascoltato, per cento ottantacinque giorni la propria innocenza. Una storia che non può passare inosservata soprattutto adesso dove, grazie al caso Palamara, sono emerse relazioni e condizionamenti tra i giudici che certo ci fanno pensare a quanto, a volte, sia fallace la giustizia nel nostro paese. La storia di Aldo Scardella è drammaticamente semplice. Tutto ebbe inizio il 23 dicembre del 1985 intorno alle dieci di sera. Siamo all’antivigilia di Natale, quando due uomini armati entrano in via dei Donoratico a Cagliari nel negozio Bevimarket di Giovanni Battista Pinna, un cinquantenne commerciante cagliaritano che si stava apprestando a chiudere il proprio negozio di liquori e vini. Improvvisamente il commerciante venne aggredito dai malviventi che cercando l’incasso prenatalizio, aprirono il fuoco su di lui, uccidendolo. La sorte, beffarda, fece sì che, poco distante dal luogo dell’omicidio e della rapina abitava Aldo Scardella un giovane e brillante studente universitario che si prefigurava un futuro fatto di lavoro e ideali. A collegare il supermercato, teatro dell’omicidio, e la casa del giovane Scardella c’era un mandorleto dove gli assassini, scappando, persero un passamontagna. Dopo tre giorni dall’omicidio, il giorno di Santo Stefano, intorno alle sei di mattina, alcuni uomini della Squadra Mobile di Cagliari entrarono nella casa di Scardella per una perquisizione. Il giovane venne anche interrogato oltre che predisposta una perizia sul passamontagna che diede riscontri negativi circa la possibile appartenenza al giovane studente sardo. Nonostante questo oltre all’alibi fornito, Scardella venne arrestato il 29 dicembre e tradotto in prima battuta nel carcere di Oristano, in isolamento giudiziario. Per ben dieci giorni la famiglia non seppe in quale penitenziario fosse stato trasferito il proprio figlio; sempre per 10 giorni non diedero ad Aldo la possibilità di accettare il proprio avvocato difensore non permettendogli di firmare la delega necessaria. La formula per cui venne arrestato Aldo Scardella citava “esistono sufficienti indizi di colpevolezza a carico dell’imputato per poter affermare che Aldo Scardella sia colpevole”. Questi “sufficienti indizi di colpevolezza” misero Scardella in una condizione di isolamento con una pressione fisica e psicologica probabilmente utile a dichiarare la propria colpevolezza. Una colpevolezza che non esisteva. Il difensore di Aldo Scardella per ben due volte tentò l’istanza di scarcerazione ma senza successo. Aldo Scardella venne arrestato per presunzione di colpevolezza anche se il passamontagna ritrovato non apparteneva a lui e il guanto di paraffina dimostrava che non aveva esploso alcun colpo di pistola. Ma lo Scardella abitava a poche decine di metri dal luogo del delitto e i rapinatori erano scappati a piedi il che dimostrava, secondo la Procura, che le indagini dovevano fermarsi a chi abitava necessariamente nella zona. Ad Aldo Scardella venne negata anche la possibilità di assistere con gli altri detenuti alla Messa di Pasqua così come di appendere nella sua cella dei disegni e dei poster per renderla più umana. Per cento ottantacinque giorni al giovane studente universitario venne negata ogni cosa al solo fine di farlo crollare, al solo fine di trovare non “il” colpevole ma “un” colpevole. Fu per questo che Aldo Scardella si tolse la vita; torturato moralmente da troppo tempo e mai ascoltato in nessuna istanza che gli permettesse di reggere, a ventiquattro anni, il disonore per un omicidio mai commesso. Ma la vita, o meglio il destino, è beffardo e crudele e così solo la morte suicida del giovane fece porre l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale sul trattamento utilizzato dalla Procura di Cagliari attraverso interrogazioni parlamentari in cui si chiese se rispondeva a verità che “i familiari non vennero informati, nonostante le ripetute richieste, del carcere ove era recluso fino all’8 gennaio 1986 e soltanto in tale giorno poterono consegnargli il cambio della biancheria; per tutta la durata dell’istruttoria sommaria l’imputato venne tenuto in isolamento e non ottenne il permesso di avere colloqui coi familiari e col difensore; il giudice istruttore non interrogò mai l’imputato; il giudice istruttore mantenne l’imputato in stato di isolamento continuo, concedendo solo tre colloqui ai familiari (...) e non concesse mai alcun colloquio al difensore”. Ma la storia dell’omicidio del Bevimarket di Cagliari si riaprì con un processo a carico di Adriano Peddio e Walter Camba accusati nel ‘96, dieci anni dopo il suicidio di Scardella, da Antonio Fan- M, un collaboratore di giustizia. Fanni dichiarò di avere fornito l’arma, una calibro 38, ai due malviventi cagliaritani facenti parte della banda di “Is Mirrionis”, che il 20 settembre 2002 vennero condannati in via definitiva per essere stati i colpevoli materiali dell’omicidio di Pinna. Ed eccoci di fronte ad un altro caso dove appare chiara la ricerca spasmodica di un colpevole da parte della Giustizia che si trova a volte a costruire e non a istruire processi. Dopo trentaquattro anni il fratello Cristiano intervistato da un giornale ha dichiarato: “Chi si occupò della vicenda di Aldo sapeva che era innocente, perché conosceva in quale mondo era maturato il delitto del commerciante. Volevano lui come colpevole per non disturbare qualcuno che in quel momento faceva comodo alla giustizia”. Nessuno di coloro che ha commesso un errore incarcerando preventivamente Aldo Scardella ha mai avuto un provvedimento disciplinare. Nel nostro Paese funziona così, solo per gli errori giudiziari paga la vittima e non il responsabile. Giustizia a rischio blocco su penale e giudici di pace di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2020 Il virus torna a mettere in difficoltà la giustizia. A soffrire di più, con tagli drastici di udienze e rinvii, sono i procedimenti penali in tribunale e quelli di fronte ai giudici di pace, sia civili che penali. Infatti, nel penale, a differenza del civile e dell’amministrativo, i canali telematici affiancano poco o nulla le attività da svolgere di persona. Peggiore la situazione dei giudici di pace: qui la telematizzazione è all’anno zero, nonostante la grande mole di controversie di cui si occupano. Così, nelle scorse settimane sono tornate le code e le aule affollate. Per evitare assembramenti i capi degli uffici stanno adottando provvedimenti per ridurre l’attività e rinviare in parte le udienze. Del resto lo stesso Consiglio superiore della magistratura, nelle linee guida del 4 novembre, ha raccomandato “la trattazione di procedimenti in numero e modalità effettivamente compatibili con il rispetto delle prescrizioni” per contenere i contagi. In questo quadro si aggiunge il decreto Ristori-bis, approvato venerdì dal Consiglio dei ministri, che prevede nel periodo emergenziale la sospensione dei processi penali (e della prescrizione) se le udienze sono rinviate per l’assenza di testimoni “puri” ed esperti in quarantena o in isolamento fiduciario. La frammentazione - Quello che si delinea è però un quadro molto frammentato, non governato da regole nazionali uniformi ma da indicazioni dettate dai presidenti dei tribunali e applicate - non senza differenze - dai magistrati. Una situazione che preoccupa gli avvocati, che la scorsa primavera avevano denunciato il caos provocato dai tanti protocolli (uno per ufficio giudiziario, se non uno per sezione) che avevano regolato la ripresa dell’attività dopo la sospensione dei termini e delle udienze del primo lockdown. “La differenziazione dei provvedimenti locali è una delle criticità più gravi poiché ha complicato molto l’attività e purtroppo non è stata ancora superata - dice Maria Masi, presidente del Consiglio nazionale forense - ma ora c’è più consapevolezza e un maggiore coinvolgimento dell’avvocatura che all’inizio era mancato. Ci adopereremo per un’azione di vigilanza e di interlocuzione con il ministero”. Udienze ridotte nel penale - Mentre, nel civile, il processo telematico e la trattazione documentale hanno permesso una sostanziale tenuta del sistema, nel penale la situazione è molto più critica. “Il problema della contrazione dell’attività non investe i processi civili - conferma il presidente del Tribunale di Milano, Roberto Bichi - mentre nel settore penale è inevitabile ridurre le udienze. Abbiamo regolato la partecipazione a distanza alle convalide di arresto, ai giudizi per direttissima e alle udienze di fronte al giudice di pace per l’espulsione degli stranieri. Per celebrare le udienze deve essere però presente un cancelliere ma ci sono molte assenze per positività e soprattutto per isolamenti. Penso che garantiremo due udienze per sezione penale, contro le tre di oggi”. Un quadro simile lo disegna Antonino La Malfa, presidente vicario del Tribunale di Roma: “La situazione nel civile è abbastanza regolare: abbiamo fissato udienze sia di mattina che di pomeriggio ma la ripresa di una produttività quasi normale è dovuta soprattutto alle udienze documentali. Nel penale è tutto molto più complesso. Mi è stato segnalato qualche assembramento e quindi ho chiesto ai presidenti di sezione di riscaglionare le udienze”. Il nodo è anche strutturale: “Abbiamo solo 4 aule grandi e attrezzate per videoconferenze con molti detenuti”, aggiunge La Malfa. Udienze penali ridotte anche al Tribunale di Ancona. Il presidente, Giovanni Spinosa, con un provvedimento in vigore da oggi ha chiesto di rinviare (a dopo il 1° aprile 2021, salvo casi particolari), le cause fissate fino al 9 dicembre che riguardano i reati meno gravi e affidate ai giudici onorari, oltre a quelle ad alto rischio di assembramento: come il processo per il crac di Banca Marche, rinviato al 25 gennaio. “È stata una scelta necessaria - osserva Spinosa - perché il palazzo di giustizia non ha un’areazione esterna diretta e gestire tutte le cause in sicurezza non è possibile”. A Napoli le maggiori criticità riguardano i procedimenti di fonte al giudice monocratico, dove ci sono oltre 34mila pendenze. “È il settore che soffre di più - dice la presidente del Tribunale, Elisabetta Garzo. Eravamo già scesi a 20-30 procedimenti per udienza (pre-Covid erano 40) ma bisognerà arrivare a 15-20. La decisione sarà comunque frutto di un’interlocuzione con le Camere penali”. Anche al Tribunale di Bari, “le cause penali in presenza sono passate da 35-40 per udienza a 20-25 - racconta il presidente dell’Ordine degli avvocati locale, Giovanni Stefanì: scontiamo anche un enorme problema di edilizia giudiziaria, che ora per fortuna il ministero sta affrontando”. Giudici di pace in tilt - Finora esclusi dalla telematizzazione dei processi, gli uffici dei giudici di pace rischiano il blocco. “Con il personale di cancelleria in smart working la giustizia di prossimità è destinata alla paralisi totale, dato che non è prevista alcuna attività telematica”, conferma il presidente dell’Unione nazionale delle Camere civili, Antonio Denotaristefani. Le controversie affidate alla giustizia di prossimità nel civile riguardano i risarcimenti danni per circolazione stradale fino a 20mila euro, le liti fra proprietari e inquilini e quelle condominiali, mentre nel penale i reati minori non puniti con la detenzione. A causa dell’assenza di informatizzazione, non ci sono dati aggiornati: l’ultima rilevazione risale al 2015 e parla di 900mila fascicoli. “Il Governo si era già dimenticato dei giudici di pace a marzo e continua a farlo - dice Antonio Tafuri, presidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli -. È una grave trascuratezza poiché non hanno collegamenti da remoto e sono spesso collocati in strutture inadeguate”. “Bisognerebbe estendere il processo telematico - dice Antonino Galletti, presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma - perché il 70% delle cause è di fronte ai giudici di pace”. Ucpi: modificare le norme sui processi in Corte d’Appello contenute nel Decreto Ristori Bis camerepenali.it, 9 novembre 2020 Fisicità della camera di consiglio, mantenimento del giudice naturale precostituito, scelta della parte in ordine alle modalità di partecipazione all’udienza sono le condizioni minime per affrontare l’emergenza senza definitivamente snaturare il processo di appello. L’Unione delle Camere Penali chiede la modifica delle norme del decreto Ristori bis sui processi in Corte d’Appello. È accaduto nella esperienza dei governi di questa Legislatura che, nel momento della sintesi di redazione dei provvedimenti legislativi da inviare alle Camere per la conversione, conclusa la fase delle consultazioni con gli operatori e le associazioni di Avvocatura e Magistratura, una esperta manina tecnica in dialogo diretto con qualche forza politica della maggioranza sia riuscita ad introdurre norme in contraddizione con quanto precedentemente comunicato e discusso. La storia si ripete con lo schema di decreto-legge cd. Ristori bis, approvato dal Governo in queste ore: prove generali per riscrivere, al pari delle modalità del giudizio di Cassazione, la procedura dell’appello penale. Le Corti, nel periodo dell’emergenza Covid, sono chiamate a lavorare in camera di consiglio senza l’intervento di P.M. e difensori. La prima conseguenza è la perdita definitiva di oralità e immediatezza; il processo di appello si trasforma in processo scritto, accentuandosi così la sua non condivisa funzione di mero controllo della valutazione del Primo Giudice. È il compimento di una tendenza già conclamata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte e in buona parte recepita dalla cd. Riforma Orlando: non solo il processo diviene scritto, ma si accentua il carattere monocratico della decisione, anche perché la camera di consiglio si terrà da remoto. Dunque i giudici non condivideranno più gli atti e il luogo della deliberazione né sarà possibile conoscere se tutti i giudici avevano a disposizione al momento della decisione non solo gli atti del procedimento ma, ad esempio, i materiali di ricerca o di riferimento predisposti dal Giudice relatore. L’Unione delle Camere Penali già ad aprile 2020, in pieno lockdown, si era fatta carico della possibilità che nei giudizi di appello, per il tempo dell’emergenza, le parti potessero rassegnare conclusioni scritte, ferma comunque la contemporanea presenza dei giudici; oggi il meccanismo viene rovesciato sia per l’udienza pubblica che per quella camerale, prevedendo che la parte possa chiedere di partecipare e non che possa decidere di non partecipare. La camera di consiglio a distanza è la negazione della collegialità, anche per l’impossibilità di vederne garantita la segretezza, che è presidio della libertà del giudice. I previsti collegamenti da remoto si terranno su piattaforme in grado di riprendere e registrare ciò che accade; la trasformazione normativa dell’abitazione del giudice quale luogo della camera di consiglio non può certo garantire da qualsiasi possibilità di intrusione. Nella condizione di pandemia, e solo per il tempo di vigenza delle misure che limitano possibilità di movimento e contemporanea presenza di più persone anche nei palazzi di giustizia, la fisicità della camera di consiglio con la contemporanea presenza dei giudici nell’aula è garanzia minima ed indispensabile per la tenuta del giudizio di appello e irrinunciabile precondizione per consentire alle parti la valutazione sulla necessità di partecipare o meno all’udienza. L’esperienza concreta ci ha insegnato - vedi il caso della disciplina già sperimentata dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione - che la richiesta da parte del difensore di procedere alla discussione orale può determinare lo spostamento della data di trattazione della causa, con modificazione della composizione del collegio. È evidente come tale prassi sia destinata ad incidere in concreto sula individuazione del giudice naturale e come anche per questa via si snaturino le regole di garanzia di questo grado di giurisdizione. Chi ha voluto l’abrogazione della prescrizione per l’appello addirittura oggi ne prevede la sospensione, per i procedimenti in corso, per cause indipendenti dalla volontà o dalla condizione dell’imputato, il quale addirittura vede allungarsi il tempo della propria detenzione. L’Unione delle Camere Penali ha dedicato la propria inaugurazione del Anno giudiziario 2020, tenutasi a Brescia lo scorso febbraio, mentre nel Paese cominciava a diffondersi la pandemia e all’alba dei primi interventi emergenziali, proprio al processo di appello e alla necessità di salvaguardarne la natura e il ruolo di secondo giudizio di merito, valorizzandone la funzione di garanzia non solo per la forza del dettato costituzionale ma anche in virtù dell’art. 14 del Patto internazionale dei diritti civili e politici, che riconosce al condannato “il diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità alla legge”. A quelle nostre assise parteciparono con segni di apprezzamento e condivisione della nostra battaglia i massimi esponenti di forze politiche che oggi compongono la maggioranza di governo. A loro ci appelliamo perché le disposizioni relative ai giudizi di appello nel periodo di emergenza siano modificate nel percorso parlamentare di conversione. Impedire ulteriori erosioni di garanzie nel sistema delle impugnazioni è una nostra priorità. Aiga: “Covid usato come scusa per un processo eterno” Il Dubbio, 9 novembre 2020 I giovani avvocati contro il dl Ristori bis: “Misure in palese contrasto con il codice di procedura penale”. No alla compressione dei diritti. Ad affermarlo è Aiga, associazione italiana giovani avvocati, che critica fortemente le previsioni applicabili al processo penale contenute nel decreto “Ristori bis”, che prevedono un appello senza l’intervento di pm e difensori e, ancora, sospensione del corso della prescrizione e dei termini di custodia cautelare nei procedimenti penali nel periodo di emergenza, onde evitare estinzione del processo e gente fuori dal carcere “prima” del tempo. Misure, sostiene Aiga, che “di fatto vanificano la celebrazione del giudizio di appello e scaricano sugli imputati le conseguenze dell’assenza di testimoni e consulenti tecnici, quando questi siano stati colpiti dal Covid o in isolamento fiduciario”. Norme ritenute, dunque, in totale contrasto con il principio del giusto processo e della sua ragionevole durata, così come definiti dall’articolo 111 della Costituzione e dalla Carta Europea dei diritti dell’Uomo. “L’Aiga dice un chiaro no all’utilizzo strumentale dell’emergenza Covid per continuare a creare un “processo eterno” con una prescrizione infinita (così come già accadrà per i reati ai quali si applicherà la riforma Bonafede in tema di prescrizione) che nel caso del decreto viene sospesa per cause del tutto indipendenti dall’azione degli imputati e dei loro difensori - si legge in una nota. Aiga ribadisce inoltre senza mezzi termini l’importanza della tutela del contraddittorio nel processo penale in ogni grado di giudizio, ricordando come l’appello non sia un inutile orpello, ma un giudizio previsto anzitutto a garanzia degli imputati innocenti che erroneamente siano stati riconosciuti colpevoli nel giudizio di primo grado, i quali non possano essere adeguatamente tutelati con un processo solo “cartolare”, che non tenga conto di quando venga chiesta la rinnovazione del dibattimento”. Le disposizioni contenute nel Decreto Ristori bis, per i giovani avvocati, sono “in palese contrasto con il codice di procedura penale, nella parte in cui obbligano l’imputato (per mezzo del difensore) a richiedere la celebrazione “in presenza” venticinque giorni prima dell’udienza, quando i termini per la notifica dell’appello ai difensori ed imputati a mente dell’articoli 601 comma 3° e 5° c.p.p. è di soli venti giorni”. Il decreto rappresenterebbe, dunque, “l’ennesima occasione perduta per specificare nel codice di procedura penale l’istituto del legittimo impedimento per avvocati ed imputati attinti dal Covid o dall’obbligo di isolamento fiduciario, ai quali spesso, pur agendo nel rispetto delle normative vigenti, non è stato riconosciuto dai giudici di merito alcun diritto al rinvio del processo, pur essendo a differenza di testimoni e periti, parti necessarie e fondamentali del giudizio”. L’ingorgo della giustizia civile: vent’anni di rivoluzioni mancate di Sergio Rizzo La Repubblica, 9 novembre 2020 Il ministro Bonafede ha istituito l’ennesima commissione, dimenticando che da oltre tre anni giace in qualche cassetto una relazione di Alpa (mentore del premier) sul taglio del contenzioso. Tre milioni, 287 mila 116. Ecco il numero delle cause civili che risultavano pendenti nel primo trimestre di quest’anno, praticamente all’inizio della pandemia che poi avrebbe bloccato quasi del tutto i tribunali. Quel numero dice che un italiano su 18, neonati compresi, oggi ha in atto una lite in sede civile. Rapporto che di civile ha decisamente poco. Ce lo ricorda continuamente la Commissione europea, sottolineando che solo Cipro ha una giustizia civile più lenta e complicata. Con le inevitabili e gravi conseguenze del caso, a cominciare dal formidabile effetto dissuasivo nei confronti degli investimenti esteri. Lo sanno da decenni anche le pietre, e da sempre non c’è stato governo che non abbia promesso di togliere la sabbia dagli ingranaggi. Solo per restare nell’attuale millennio, “una rivoluzione nella giustizia civile”, annunciò il ministro della giustizia Piero Fassino nel 2000. Ma poco rivoluzionaria, se nel 2003 il suo successore, il leghista Roberto Castelli, annunciava un’altra e ben più decisiva riforma che “inciderà concretamente sui tempi lunghi della giustizia italiana, contribuendo a smaltire l’enorme arretrato”. Arretrato che, per inciso, da allora aumentò di oltre un milione di cause nei successivi sei anni. Tanto che il ministro Clemente Mastella dovette dare pubblicamente ragione al governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, indignato per la situazione della giustizia civile in Italia Così come Angelino Alfano. Il quale, nel 2008, non esitò a confermarne lo “stato di gravità”, mentre il capo dello Stato (e della magistratura) Giorgio Napolitano denunciava: “Attualmente è un ostacolo non da poco agli investimenti esteri”. Toccò nel 2013 alla ministra della Giustizia Anna Maria Cancellieri comunicare la decisione di aver deciso “una terapia d’urto”, con il decreto “del fare” che secondo il premier dell’epoca Enrico Letta sarebbe stato “rivoluzionario” per la giustizia civile. Mai però come la rivoluzione che aveva in mente Matteo Renzi, e che fece passare in Parlamento con la fiducia. Ma anche in questo caso il termine “rivoluzione” sembrò un tantino ridondante. Il 22 luglio del 2016 l’ufficio parlamentare di bilancio di Giuseppe Pisauro giudicò infatti i miglioramenti introdotti negli armi “parziali e troppo timidi”. Formula elegante per dire che fino a quel momento era stata solo una sequenza di flop. Il motivo è presto detto. A dispetto delle promesse, la politica non si è mai davvero impegnata per risolvere il problema. Le cause, ovviamente, sono varie. Le lobby remano contro, le burocrazie pure, gli organici sono ridotti, le strutture fatiscenti, le procedure assurde. E le responsabilità sono anche molto diverse. Ma la verità è che non c’è mai stata la determinazione e la lucidità necessaria: altrimenti dopo tanti anni e innumerevoli promesse non saremmo ancora qui a parlarne. Come sta a dimostrare la storia incredibile che raccontiamo di seguito. Il 7 marzo del 2016 il governo di Matteo Renzi ha appena compiuto due anni e la rivoluzione della giustizia civile non sta evidentemente ancora dispiegando i suoi effetti. Quel giorno il ministro della giustizia Andrea Orlando decide di istituire una commissione, testuale, “per l’elaborazione di ipotesi di organica disciplina e riforma degli strumenti di degiurisdizionalizzazione, con particolare riguardo alla mediazione, alla negoziazione assistita e all’arbitrato”. Traduzione: sfoltire quanto più possibile il contenzioso che intasa i Tribunali civili. E a chi affida la commissione? A un principe del foro che risponde al nome di Guido Alpa, mentore e socio di studio dell’avvocato Giuseppe Conte, futuro presidente del Consiglio che in quel momento occupa un posto da laico nel consiglio di presidenza della giustizia amministrativa per nomina del M5S: sponsor Alfonso Bonafede, ossia il futuro ministro della Giustizia nel governo Conte. Dopo nove mesi di lavoro a gennaio del 2017 Alpa spedisce a Orlando la relazione con le proposte per tagliare le liti civili. Ma è un momentaccio. Il ministro della Giustizia è impegnato nella battaglia con Renzi per la corsa alla segreteria del Pd ed è forse un po’ distratto. Di sicuro, però, le alte burocrazie ministeriali non fanno salti di gioia a vedersi scavalcate da un Alpa qualsiasi, e certo non hanno alcun interesse a spingere la cosa. Così la relazione finisce in un cassetto. Dove rimane fino allo sbarco di Conte a palazzo Chigi e di Bonafede al ministero di via Arenula. A quel punto logica vorrebbe che saltasse subito fuori. Invece no. Nemmeno con l’arrivo del ministro a Cinque stelle, che ha spinto il socio di Alpa prima a Palazzo Spada e poi a Palazzo Chigi, il documento viene riesumato. Anzi, in previsione c’è pure un bello schiaffone per il principe del foro. Il 23 dicembre 2019 Bonafede istituisce per decreto un’altra commissione, battezzata “Tavolo tecnico sulle procedure stragiudiziali in ambito civile e commerciale”. Un comunicato del ministero spiega che “si tratta di un tavolo che nasce per una ricognizione approfondita e sistematica delle procedure stragiudiziali esistenti con l’obiettivo di ridurre il contenzioso giudiziario e potenziare l’accesso alla giustizia per tutti i cittadini”. Le parole sono un po’ diverse, ma il succo non cambia: è di fatto lo stesso lavoro che era stato affidato da Orlando a Guido Alpa. Stavolta presidente della nuova commissione è un consigliere del ministro, l’avvocato Pietro Gancitano. E i lavori sono materialmente coordinati da Paola Lucarelli, professoressa di diritto commerciale all’università di Firenze, la stessa dove ha studiato Gancitano. Si parte il 21 gennaio 2020 e il primo atto del cosiddetto “Tavolo” è la pubblicazione del “Manifesto della Giustizia complementare alla giurisdizione”. Nel frattempo siamo però giunti al 28 marzo, il coronavirus impazza con l’Italia in pieno lockdown. I componenti del “Tavolo” chiedono allora una proroga della scadenza, prevista per la fine di giugno. Ma da quell’orecchio l’ufficio legislativo del ministero non ci sente. E anche questo tentativo naufraga nelle secche della burocrazia ministeriale, mentre del ministro si perdono le tracce. Agli atti resta l’ennesima relazione e una interrogazione parlamentare presentata in Senato da Donatella Conzatti, commercialista eletta con Forza Italia e poi passata a Italia viva. Oltre, naturalmente, ad altri quattro anni (e un po’ di soldi pubblici) buttati via. Processi Tele(p)atici: nonostante la telematica la giustizia rinuncia all’oralità di Claudia Morelli altalex.com, 9 novembre 2020 Il sistema in Italia è travolto dall’impossibilità di svolgere i processi con udienze in presenza e dalla farraginosità di risposta delle diverse giurisdizioni. Processi Tele(p)atici. Nonostante la telematica, la giustizia rinuncia al principio di oralità, in quarantena da Covid-19. Le giurisdizioni, più che accedere alle video-udienze (considerate male minore dagli avvocati) si preparano alla trattazione scritta a tappeto. Non nel penale, però, nel quale l’ultimo provvedimento (vedi infra) estende la digitalizzazione alle udienze preliminari e alle camere di consiglio mentre le udienze dovranno tutte tenersi in presenza. L’innovazione nella Giustizia ha percorsi insondabili. E mentre scriviamo di progetti di AI e Blockchain a supporto del servizio Giustizia, dobbiamo fare i conti con la realtà del sistema in Italia, travolto ancora una volta dalla impossibilità di svolgere i processi con udienze in presenza e dalla farraginosità con la quale le diverse giurisdizioni stanno rispondendo per cercare di mandare avanti il sistema. Inoltre, all’interno di ciascuna giurisdizione la situazione è effettivamente, e drammaticamente, a macchia di leopardo. Alcune sedi funzionano quasi a pieno ritmo. Di altre, invece, si registra l’encefalogramma piatto. Vecchie ragioni (anche nella scelta dei dirigenti o nella scopertura di organico) e nuove (incompetenza digitale e assenza di infrastrutture) si sommano in un cocktail nefasto per il servizio pubblico. E, incredibilmente, le risorse finanziarie ci sono state e ci sarebbero ancora. Dal canto suo, il Governo, con il nuovo decreto legge “ristori”, approvato in Consiglio dei Ministri di lunedì parla con enfasi di “digitalizzazione” riferendosi alla previsione dell’utilizzo di collegamenti da remoto per l’espletamento di specifiche attività legate alle indagini preliminari e, in ambito sia civile che penale, alle udienze; e alla semplificazione del deposito di atti, documenti e istanze. Segnalo che prevede, tra le altre cose, lo stop dei pignoramenti immobiliari fino a 31/12, rendendo inefficace ogni procedura esecutiva effettuata dal 25 ottobre. Facciamo il punto delle norme processuali contenute nel D.L. n. 137/2020 negli artt. da 23 a 28 con il supporto di Maurizio Reale, avvocato esperto di Processo telematico. E poi proviamo a stimare il debito giudiziario che l’Italia si porterà sulle spalle. Il processo penale e le novità del decreto legge Ristori (n. 137/2020) - Le novità riguardano in particolare il processo penale. Oltre la possibilità di effettuare comunicazioni, avvisi e notifica delle sentenze alle parti via Pec, la digitalizzazione del processo penale iniziata con il decreto legge Cura Italia (D.L. n. 18/2020) estende la possibilità di svolgere in videoconferenza, contestualmente con collegamenti da remoto, le indagini preliminari, udienze penali (secondo un provvedimento della Dgsia da adottare) e camere di consiglio (prima in via temporanea, fino al 30 giugno; ora per tutta la durata del periodo emergenziale) e l’escussione dei testimoni (scatenando sul punto la reazione contraria di Ucpi). Non solo. La principale novità sta nell’aver esteso la possibilità di deposito telematico di memorie, istanze di parte; possibilità di deposito che subirà una ulteriore estensione di atti che potranno avvalersi della gestione digitale. Per quanto riguarda le udienze, potranno essere svolte da remoto anche quelle per l’escussione dei testimoni. Il processo civile - Doveva essere un fiore all’occhiello, con i suoi 50 milioni di atti depositati nei sei anni di obbligatorietà. E invece anche la giustizia civile è andata in lockdown. Nessuna particolare novità. Quindi per il rito civile valgono le norme contenute nel decreto Agosto che prevedono, ma fino al 31 dicembre, il deposito obbligatorio di tutti gli atti di parte telematicamente nei Tribunali, Corte di Appello. In Cassazione - in virtù di un protocollo sottoscritto a luglio e poi ri-sottoscritto a ottobre - si avvierà la sperimentazione del deposito telematico secondo il doppio binario, per arrivare al 15 gennaio quando le parti avranno la facoltà di depositare telematica, che diverrà obbligatoria e a regime ad aprile (segnate la data). Vediamo se questa sperimentazione funzionerà meglio di quella precedente. Le udienze sono sostanzialmente a trattazione scritta, a meno che non siano le parti a chiederne la trattazione da remoto (tramite Teams o Skype Business) o il giudice le disponga d’ufficio. Udienze in presenza sono disposte per le cause di maggiore delicatezza nel diritto di famiglia e minori; ma il dl ristori prevede che per separazioni e divorzi le parti possono rinunciare alla udienza in presenza depositando telematicamente memorie scritte. È prevista sempre la possibilità della udienza in presenza scaglionata. Ma questo attiene alle scelte organizzative dei singoli uffici giudiziari. E questo è un problema. Tanto che l’Avvocatura aveva chiesto di prevedere disposizioni unitarie in tutti i Tribunali italiani, oltre la semplificazione delle udienze a trattazione scritta; e l’obbligo di fissazione di orari scaglionati per le udienze in presenza. Occorre inoltre ricordare che non in tutti gli uffici del Giudice di pace è possibile depositare gli atti in via telematica. Al “danno”, potremmo dire, si aggiunge anche “la beffa” visto che il Legislatore si è perduto per strada la norma che permetteva all’avvocato di certificare la firma della procura alle liti del cliente per poter depositare il ricorso/azione. Entro metà novembre l’accesso dei cancellieri ai registri di cancelleria da remoto - Se le parti dunque, dovranno fare i conti con la resistenza alle udienze da remoto che ha una doppia causa nei profili organizzativi di natura tecnica e tecnologica e nella preferenza della magistratura alla trattazione scritta, finora il collo di bottiglia è stato rappresentato dalle cancellerie visto che - come aveva denunciato AVV 4.0, i cancellieri non potevano accedere da remoto ai servizi di cancelleria, che sono quelli che ricevono, smistano, effettuato tutte le comunicazioni e gli atti necessari all’andamento del processo. Il Ministero della Giustizia ha promesso, anche qualche girono fa, di provvedere entro metà novembre per permettere l’accesso ai registri di cancelleria anche da remoto per permettere lo smart working e (di riflesso?) mandare avanti l’attività giurisdizionale. Processo tributario telematico - È stato l’ultimo processo telematico a partire, con la previsione sulla carta delle udienze da remoto a regime fin dal 2018. Eppure il decreto legge “Ristori” le prevede ancora in via emergenziale, forse consapevole che le commissioni tributarie in massima parte non hanno la reattività adatta a riorganizzarsi da remoto; e pare che anche firmare digitalmente i provvedimenti sia difficoltoso. Insomma, se è possibile fare udienze da remoto, bene; altrimenti le controversie fissate per la trattazione passano in decisione sulla base degli atti, salvo trattazione documentale richiesta dagli avvocati. Anche qui, una beffa. Una situazione che gli avvocati tributaristi hanno più volte denunciato essere molto grave. Occorre evidenziare che dopo diversi mesi, finalmente a metà ottobre il Garante privacy aveva dato parere favorevole allo schema di regolamento attuativo del MEF sulle udienze da remoto a regime che potrebbero svolgersi dalla piattaforma Skype for business tramite la infrastruttura SIF ma con alcune osservazioni: valutare meglio la circostanza del trattamento dei dati personali nei casi in cui il cittadino può intervenire personalmente; valutare la formazione di metadati prodotti (e conservati) dalla stessa piattaforma; che occorrerebbe studiare un meccanismo di identificazione e autenticazione della parte e, nel mentre, occorre che il link per l’accesso alla video udienza fosse strettamente personalizzato e non cedibile a terzi; le necessità di prevedere la informativa per il trattamento dei dati; l’inefficacia di effettuare la sottoscrizione del verbale d’udienza da parte di giudici e segretario don SPID ma con firma digitale (come avviene per tutti i comuni mortali, in effetti, quando occorre dare valore legale ad un documento!). Processo amministrativo: dal 9 novembre trattazione scritta salvo... È quello che ha dimostrato maggiore resilienza, anche per la reattività dimostrata dalla produzione di Linee guide man mano che il legislatore interveniva con la normazione d’emergenza. L’art. 4 del decreto legge n. 28/2020, convertito con modificazioni dalla Legge 25 giugno 2020, n. 70, aveva disposto che, nel processo amministrativo telematico, fino al 31 luglio 2020, poteva essere chiesta la discussione orale ovvero disposta d’ufficio, mediante collegamento da remoto. Sul sito è stata predisposta una sezione con le istruzioni sulla strumentazione operativa, sul funzionamento di Microsofts teams e anche un approfondimento compilazione nuovi moduli di deposito ricorso e atto. Ora il decreto Ristori estende la possibilità per le parti con istanza congiunta (altrimenti decide il giudice) di richiedere la discussione orale da remoto per tutte le udienze pubbliche che si svolgono dal 9 novembre 2020 al 31 gennaio 2021. Durante il periodo, salvo le parti abbiamo chiesto la trattazione orale da remoto, gli affari in trattazione passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Il giudice delibera in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto. Restano fermi i poteri presidenziali di rinvio degli affari e di modifica della composizione del collegio. Per le udienze pubbliche e le camere di consiglio che si svolgono tra il 9 e il 20 novembre 2020, l’istanza di discussione orale, di cui al quarto periodo dell’articolo 4 del decreto-legge n. 28 del 2020, può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza pubblica o camerale. Debito finanziario e debito giudiziario - Di certo, a causa del Covid 19 ma non solo, oltre il debito finanziario l’Italia si ritroverà sulle spalle un debito “giudiziario”, ordinario e tributario, senz’altro; forse meno consistente quello giudiziario amministrativo. Carichi pendenti che potrebbe trascinare giù il sistema economico insieme allo stop dell’economia. Avv4.0 ha cercato di stimare l’entità del debito, chiedendo alle diverse amministrazioni i dati dei processi da marzo a ottobre 2020. Non ha risposto il ministero della Giustizia. Per il settore tributario abbiamo consultato le rilevazioni trimestrali del Ministero dell’Economia. Partiamo da questi. I rinvii tributari. Per iniziare a prefigurare scenari, basti pensare che a marzo 2020 (in piena fase I) i giudici tributari hanno adottato 19mila600 decreto di rinvio delle udienze; decreti che sono diventato 30mila400 da aprile a giugno (ultimi dati disponibili). Insomma oltre 50mila rinvii in 8 mesi. Anm, nuova fumata nera: rinviata la nomina della Giunta Il Dubbio, 9 novembre 2020 Il direttivo del sindacato delle toghe ha deciso stamane di rinviare nuovamente l’elezione al 21 novembre. È ancora “fumata nera” per l’elezione dei nuovi vertici dell’Anm: dopo lo slittamento del voto disposto ieri, il direttivo del sindacato delle toghe, a maggioranza, ha deciso stamane di rinviare nuovamente l’elezione del presidente, segretario e degli esponenti di Giunta dell’Associazione nazionale magistrati. La data individuata dal direttivo del sindacato delle toghe per permettere un “approfondimento”, attraverso l’”interlocuzione” tra i gruppi, con l’obiettivo di arrivare a un “programma condiviso” e, quindi, alla formazione di una Giunta unitaria è il 21 novembre. A chiederlo il gruppo dell’ex pm di mani pulite, Piercamillo Davigo, con lo scopo di affidare a un gruppo ristretto rappresentativo di tutti le componenti il compito di provare a stilare un programma condiviso sula base del quale arrivare a una giunta unitaria. È la proposta avanzata da Aldo Morgigni di Autonomia e Indipendenza al Comitato direttivo centrale dell’Anm che ha all’ordine del giorno l’elezione del nuovo presidente e della nuova giunta ma da ieri ne discute senza trovare una soluzione. Il rinvio è stato approvato dai rappresentanti di Area, Unicost e Magistratura Indipendente, per cercare di trovare una base comune, e, quindi, un programma condiviso, in modo da poter vita a una Giunta unitaria o più ampia possibile. I 4 esponenti di “Articolo 101-Lista per il Cdc”, invece, si sono espressi contro il rinvio del voto, pur dicendosi “non pregiudizialmente contrari ai contenuti di eventuali proposte” per il programma di Giunta. Da parte loro, si ribadisce la necessità che vi sia un “dialogo” tra i gruppi su proposte quali il sorteggio temperato per il Csm e la rotazione per gli incarichi di vertice negli uffici giudiziari. Il rinvio è una “anomalia assoluta”, ha sottolineato Andrea Reale, secondo il quale “non devono esserci unità associative al ribasso”: Reale, inoltre, ha parlato di “anomalia” anche in relazione alla partecipazione, alle riunioni del “parlamentino”, dei vertici delle “correnti”: “è una triste realtà deleteria per i lavori dell’Anm, la democrazia è una risorsa straordinaria, non possiamo gettarla alle ortiche in un momenti di crisi così elevata, soprattutto perché la crisi deriva da queste interferenze”, ha detto in chiusura della riunione di oggi. Un punto è stato già messo in chiaro: se non ci sarà il dialogo sulle sue proposte (sorteggio per la composizione del Csm e rotazione negli incarichi ai vertici degli uffici giudiziari), Articolo 101 rimarrà fuori dalla giunta. Dopo lo stop di ieri, questa mattina è ripresa la riunione, ma già ieri c’era chi sollecitava un rinvio più lungo. I lavori di ieri, che hanno visto alcuni magistrati partecipare da remoto, altri riuniti in una sala dell’hotel Cicerone di Roma per mantenere le regole di distanziamento Covid, sono apparsi subito in salita: prima una lunga discussione su chi dovesse presiedere la riunione, poi la decisione di utilizzare anche il voto telematico per eleggere i nuovi vertici. Il dibattito, quindi, si è concentrato sulla natura della Giunta che verrà: da un lato, si cerca di lavorare per una Giunta unitaria, come quella che venne composta dopo il voto del 2016 per il rinnovo del “parlamentino”, dall’altro, non si è, al momento, trovata una sintesi tra le posizioni. E ancora: c’è chi, come il presidente uscente Luca Poniz (Area), ha parlato in favore della “continuità” rispetto al lavoro della precedente Giunta, la quale ha guidato l’Anm nei momenti più critici della “bufera” scaturita dal caso Palamara, mentre Magistratura Indipendente, ieri mattina, ha diffuso un documento per sottolineare che la nuova Anm “dovrà operare con discontinuità nei contenuti e nei metodi”. Sono proprio Area e MI ad aver ottenuto più seggi nel “parlamentino” dopo il voto dello scorso ottobre: 11 quelli di Area (il gruppo delle toghe progressiste) e 10 quelli delle toghe moderate di Magistratura Indipendente, che a queste elezioni ha presentato una lista assieme al Movimento per la Costituzione, fondato da alcuni magistrati usciti da Unicost. Quattro rappresentanti nel direttivo, poi, sia per Autonomia & Indipendenza sia per “Articolo Centouno-Lista per il Cdc”, di cui fanno parte magistrati esterni alle correnti tradizionali. Sette, infine, i seggi assegnati a Unicost. Comune sciolto per mafia, ma la mafia non c’era… di Giorgio Mannino Il Riformista, 9 novembre 2020 Lo scorso 29 luglio il Comune di Partinico - paese di trentamila abitanti a trenta chilometri da Palermo - per la prima volta nella sua storia è stato sciolto per mafia. Nella relazione firmata dall’ex prefetto del capoluogo siciliano, Antonella De Miro, si legge che “possano sussistere elementi concreti, univoci e rilevanti tali da far ritenere un possibile collegamento tra l’amministrazione comunale e Cosa nostra”. Ma quali sono questi elementi? Il provvedimento si basa su quattro punti: l’indagine a carico del consigliere comunale Vito Alessio Di Trapani, imputato per associazione a delinquere nel procedimento penale - ancora in fase dibattimentale - seguito all’operazione antimafia Game Over; la cattiva gestione dei servizi sociali, in particolare relativa alle forniture alla casa di riposo “Canonico Cataldo” che sarebbero state affidate sempre alle stesse ditte, senza gara d’appalto e senza aver accertato i requisiti antimafia; la “mala gestio” del servizio di raccolta dei rifiuti che “ha finito per favorire ditte a vario titolo riconducibili alla criminalità mafiosa”; infine, ad aver giocato un ruolo importante per lo scioglimento, sarebbero state le “relazioni amicali e parentali” dei dipendenti e dei consiglieri comunali con soggetti con un passato nell’organizzazione mafiosa che hanno però saldato, negli anni, i propri debiti con la giustizia o che, in alcuni casi, hanno cambiato completamente vita. Fatti di trent’anni fa rispolverati per l’occasione. Si parla, persino, di “dipendenti comunali i cui congiunti sono gravati da precedenti penali”. Come se essere parente di chi ha commesso reati sia, automaticamente, un indice di colpevolezza. Basta leggere con attenzione le 235 pagine della relazione prefettizia per rendersi conto che di mafia, in realtà, c’è ben poco. E le motivazioni dello scioglimento appaiono basarsi più su sospetti piuttosto che su dati di fatto. Ma andiamo con ordine. Dei consiglieri comunali solo Di Trapani è stato rinviato a giudizio. È imputato per associazione a delinquere - è esclusa l’aggravante mafiosa - davanti la corte del tribunale di Palermo. Il processo è ancora in corso ma su Di Trapani la sentenza sembra già essere stata pronunciata. Sugli altri membri del consiglio comunale e sugli assessori non c’è neppure un’indagine. Nessuna ombra. Per quanto riguarda la “cattiva gestione” dei servizi sociali, stando alla relazione prefettizia, lo scioglimento per mafia sarebbe motivato dalla mancata verifica da parte degli amministratori dei requisiti antimafia delle ditte fornitrici, dalle ripetute bocciature in consiglio comunale delle proposte - da parte dell’ex sindaco Maurizio De Luca, dimessosi a maggio 2019 - di affidare a privati il servizio per fronteggiare la profonda crisi finanziaria delle casse comunali e quindi di avere favorito la gestione interna a ditte “a disposizione della mafia” vicine ad alcuni consiglieri comunali. Relazioni e complicità solo eventuali e non dimostrate. Più complicata la situazione relativa al servizio di raccolta dei rifiuti, nella quale, però, sembra emerga piuttosto l’incapacità gestionale dell’amministrazione che una vera e propria vicinanza ai clan locali. Il riferimento, tra gli altri, è alla ditta Cogesi che ha ricevuto, nel dicembre 2019, un’interdittiva antimafia e alla quale sarebbero stati affidati i servizi di raccolta, ben prima però della misura preventiva adottata dalla prefettura. Perché, dunque, questo scioglimento per mafia? “Dalla relazione non emerge nulla di criminogeno. L’apparato consiliare sicuramente ha commesso molti errori. Ci sono state dimenticanze e gravi omissioni. Ma sono azioni dovute all’incapacità gestionale. Sciogliere Partinico per infiltrazioni mafiose è stata una minchiata col botto. Non c’è alcun procedimento penale che riguardi i consiglieri comunali. Nessuno è indagato per mafia eppure il Comune è stato sciolto”, dice Salvo Vitale, scrittore, compagno di mille battaglie al fianco di Peppino Impastato e attuale capo redattore di TeleJato. Dello stesso parere è Pietro Rao, ex consigliere comunale di minoranza nella giunta guidata da De Luca: “Non c’erano gli elementi per sciogliere il Comune per mafia. Faccio politica da più di vent’anni, sono nato a Partinico e quando bisognava scioglierlo perché c’erano forti legami con la criminalità organizzata non è stato fatto niente, adesso che questi soggetti non ci sono viene sciolto”. Secondo Rao “è stato tutto montato ad arte per giochi politici. Si doveva difendere un principio, una linea e per giustificare le proprie incapacità politiche hanno tentato di buttarla in caciara col fatto che erano tutti mafiosi, che tutto era condizionato e che non si poteva lavorare. Balle!”. Tradotto: De Luca e Rosario Arena - commissario che ha sostituito il sindaco dopo le dimissioni - sono uomini del presidente della Regione Nello Musumeci. Entrambi avrebbero fallito nella gestione della città e la carta dell’antimafia sarebbe servita per coprire i fallimenti. Anche Toti Comito, esponente di maggioranza della giunta De Luca non reputa solidi i motivi dello scioglimento: “Non credo proprio che il consiglio comunale e l’amministrazione abbiano avuto pressioni mafiose. Evidentemente c’è altro ma non mi va di sindacare il lavoro prefettizio. Bisognava resettare il consiglio perché la macchina burocratica si era incancrenita e non era all’altezza della sfida”. Meno netto il giudizio dell’ex sindaco De Luca: “Quello che posso dire è che c’è stata una resistenza al cambiamento vero. Non so se questa possa essere definita mafia o no. Ho solo cercato di risanare i conti del Comune e progettare il futuro della città. Ma non mi è stata data questa possibilità”. Intanto qualcuno - che preferisce rimanere anonimo - degli ormai ex consiglieri comunali fa sapere che procederà per vie legali: “Non posso rimanere a guardare. In questa storia c’è stata una grave manipolazione della verità”. La messa alla prova si estende. Sospensione concessa agli enti, fatte salve le condizioni di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti Italia Oggi, 9 novembre 2020 Poche le società ammesse alla prova: è quanto deciso dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Modena, che ha ammesso infatti una persona giuridica, attiva nel settore della produzione di generi alimentari e indagata per l’ipotesi di cui all’art. 25-bis.1 Dlgs 231/2001, in relazione al reato di frode nell’esercizio del commercio previsto dall’art. 515 c.p. alla sospensione del procedimento con messa alla prova, mettendo così in discussione le conclusioni a cui in passato era pervenuto il Tribunale di Milano. Si assiste dunque a un cambio di rotta della giurisprudenza sulla possibilità delle società di accedere alla messa alla prova, avendo dato il Tribunale all’ente una chance di uscire prima del tempo e con la “fedina pulita” dal processo penale; e ciò attraverso l’eliminazione degli effetti negativi dell’illecito; il risarcimento del danno; un adeguamento del modello 231; nonché lo svolgimento di una attività di volontariato. La messa alla prova. La sospensione del processo con messa alla prova, istituto che ha natura consensuale e funzione di riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato, è stata introdotta con legge n. 67/2014 ed è di fatto una modalità alternativa di definizione del processo; attivabile sin dalla fase delle indagini preliminari, consente di pervenire a una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato, laddove il periodo di prova cui acceda l’indagato/imputato, ammesso dal giudice in presenza di determinati presupposti normativi, si concluda con esito positivo. Sotto il profilo contenutistico, l’art. 168-bis c.p. prevede anzitutto la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato; inoltre, è previsto l’affidamento al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria. Infine, condicio sine qua non dell’ammissione all’istituto è costituita dal lavoro di pubblica utilità ovvero da una prestazione non retribuita in favore della collettività. In tema di adempimento, l’Ufficio esecuzione penale esterna ha il compito di controllare e relazionare al giudice, il quale, allorquando ritenga che la prova abbia conseguito i risultati prefissati, pronuncia sentenza con la quale dichiara il reato estinto. Qualora l’esito della prova sia negativo, con ordinanza si dispone invece che il processo riprenda il suo corso dalla fase in cui è intervenuta la sospensione. Limiti. La richiesta di adesione al percorso di messa alla prova può essere avanzata entro le conclusioni dell’udienza preliminare o, in assenza di quest’ultima, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Nel caso in cui la volontà di conseguire il beneficio sia manifestata durante le indagini preliminari, è però necessario anche il placet del pubblico ministero, ferma restando la possibilità di reiterare l’istanza. Per ciò che concerne i presupposti oggettivi, la facoltà è limitata all’ipotesi in cui si proceda per un illecito dotato di scarso disvalore, individuato dal legislatore in un reato punito con la pena pecuniaria, con la pena detentiva fino a quattro anni ovvero che rientra fra quelli di competenza del tribunale monocratico con citazione diretta a giudizio. Quanto ai presupposti soggettivi occorre invece che la domanda provenga da chi non sia stato dichiarato delinquente o contravventore abituale, professionale o per tendenza, da colui al quale non sia stata già concessa e poi revocata, ovvero da colui al quale non sia stata concessa con esito negativo. Estensione agli enti? L’accoglienza positiva che in genere viene riservata alle occasioni di recupero alla legalità ha indotto diversi interpreti a interrogarsi sulla possibilità di estendere la disciplina della messa alla prova, già esportata, per effetto del predetto intervento del 2014, dalla giurisdizione minorile a quella degli adulti, anche all’ente. La giurisprudenza di merito ha inizialmente propeso tuttavia per una interpretazione restrittiva. Risale al marzo 2017 l’ordinanza con cui il Tribunale di Milano ha precluso all’ente di ricorrere all’istituto, incentrando la motivazione sull’effettiva assenza di una previsione nel Dlgs n. 231 del 2001 in tal senso, e non considerando che nel processo agli enti si applicano le disposizioni procedurali del codice di rito, anche quando non espressamente regolamentate nel Dlgs 231/2001, con l’unico limite della compatibilità. Il riferimento è ai giudizi immediato e direttissimo che, pur non menzionati nel suddetto decreto, risultano pacificamente praticabili. Il cambio di rotta. A determinazione opposta è giunto il Tribunale di Modena, che ha concesso sospensione del procedimento con messa alla prova nei confronti di una società attiva nel settore della produzione di generi alimentari, indagata per l’ipotesi di cui all’art. 25-bis.1 Dlgs 231/2001, in relazione al reato di frode nell’esercizio del commercio previsto dall’art. 515 c.p.. L’autorità giudiziaria, dopo aver verificato l’insussistenza di cause di proscioglimento immediato ma al contempo la concreta capacità dell’istante di tornare a operare nel virtuoso circuito della legalità, ha acconsentito all’esecuzione del programma di trattamento proposto dalla difesa, comprensivo di tutti i requisiti imposti dalla norma codicistica per le persone fisiche. L’impresa si è impegnata a provvedere, con tempestività e puntualità, all’eliminazione degli effetti negativi dell’illecito; al risarcimento degli eventuali danneggiati; a un adeguamento e aggiornamento del modello di organizzazione e gestione, attraverso il potenziamento delle procedure di controllo relative all’area aziendale in cui si è verificata l’azione criminosa; allo svolgimento di una attività di volontariato, consistente nella fornitura gratuita di una parte della propria produzione in favore di un organismo religioso gestore di un punto di ristorazione rivolto a persone in condizioni disagiate. Adempimenti che sono stati svolti correttamente; infatti verificatane la conformità al programma, attestata dalla relazione conclusiva dell’Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna), il giudice per le indagini preliminari ha successivamente dichiarato, il 21 settembre scorso, l’estinzione del reato. L’insussistenza penale del fatto può bloccare la sanzione di Riccardo Giorgetti e Emanuele Mugnaini Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2020 La condanna in sede penale e, talvolta, l’assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste” impediscono la riscossione della sanzione. Così - perla prima volta su questo tema - si è espressa la Corte di cassazione con la sentenza 21694 depositata lo scorso 8 ottobre. La pronuncia riguarda la vicenda giudiziaria connessa a una presunta residenza estera fittizia, che si era conclusa con l’assoluzione in sede penale dell’imputato per l’insussistenza del fatto. In sede tributaria, invece, la pretesa era stata confermata; e contro questa il contribuente aveva proposto un ricorso per Cassazione, nel quale lamentava la violazione del principio del ne bis in idem invocando l’inesigibilità delle sanzioni irrogate. Il doppio binario - Il rapporto tra processo tributario e procedimento penale è caratterizzato dalla reciproca e indipendente coesistenza, anche se ad essere sanzionata è la medesima condotta. Il motivo risiede nell’articolo 654 del Codice di procedura penale, che esclude l’efficacia del giudicato penale nel processo tributario, stante il diverso regime probatorio. La separazione viene ribadita dall’articolo 20 del Dlgs 74/2000, secondo cui sia il procedimento amministrativo che quello tributario non possono essere sospesi per la presenza di un procedimento penale per gli stessi fatti. Non è pertanto infrequente che la medesima controversia si risolva nell’assoluzione in sede penale e nella soccombenza in ambito tributario. Se l’orientamento giurisprudenziale prevalente va nel senso della separazione tra i due procedimenti - concetto ribadito nelle recenti pronunce della Suprema corte n. 21126/2020 e 24589/2020 - è da rilevare perlomeno un obbligo di apprezzamento della sentenza di assoluzione penale da parte del giudice tributario (sentenza 19781/2020). Da ultimo - ma è una pronuncia isolata - si segnala la sentenza 20579/2020 nella quale i giudici di legittimità, nell’ambito della disciplina dei costi da reato, hanno stabilito che l’accertata insussistenza della fattispecie di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti comporta de facto la deducibilità del costo, incidendo necessariamente sul giudizio tributario. Ne bis in idem e sanzioni - Il principio del ne bis in idem, contenuto nell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, stabilisce che nessuno può essere perseguito o condannato due volte per lo stesso reato. La complessa evoluzione giurisprudenziale che ne è seguita ha poi ammesso la coesistenza di due regimi sanzionatori, ma con il limite rappresentato dal carico afflittivo, che deve rispondere a criteri di proporzionalità, e alla necessaria simultaneità dei procedimenti. Una parziale tutela - osserva la Corte nella sentenza 21694/2020 - si rinviene nella disciplina di cui all’articolo 21 del Dlgs 74/2000, secondo la quale l’ufficio irroga comunque la sanzione amministrativa, ma questa (in base al comma 2) può essere riscossa solo nel caso in cui il procedimento penale si concluda con un provvedimento di archiviazione, con una sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento o, infine, con una formula assolutoria che escluda la rilevanza penale del fatto. In questi casi, i termini per la riscossione decorrono dalla data in cui il provvedimento di archiviazione o la sentenza sono comunicati dalla cancelleria del giudice all’ufficio competente. In sostanza, il contribuente che avesse fatto acquiescenza all’accertamento o fosse risultato soccombente invia definitiva nel giudizio tributario potrebbe beneficiare dello “sconto” della sanzione, qualora venisse condannato in via definitiva in sede penale. Il passo avanti della Corte I giudici di Cassazione osservano - ed è forse uno dei passaggi più interessanti della sentenza - che la locuzione impiegata dal legislatore nell’articolo 21 sembrerebbe deporre nel senso che la possibilità di dare corso all’esecuzione della sanzione sia definitivamente esclusa non solo in caso di condanna, ma anche di assoluzione o proscioglimento perché il fatto non sussiste. Al tempo stesso, prosegue la Corte, occorre però valutare caso per caso la natura costitutiva della violazione onde evitare che si verifichino casi di sostanziale impunità quando, nonostante l’assoluzione, la violazione amministrativa rimane. È il caso, ad esempio, del reato di omesso versamento Iva. Qualora in sede penale venisse accertato che l’evasione è avvenuta, ma al di sotto della soglia di punibilità, si avrebbe, per consolidato orientamento, l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”; ma in tale circostanza, permanendo l’evasione, la sanzione è ugualmente dovuta. In conclusione, se un soggetto sottoposto a procedimento penale viene raggiunto da un’azione di recupero della sanzione amministrativa per la stessa fattispecie, sarà quantomeno opportuno valutare di adire al contenzioso. Rischia il sequestro chi presta l’auto senza accertarsi dell’uso che ne verrà fatto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2020 Per la Cassazione, sentenza n. 30936, è un bene pericoloso possibile fonte di danno e - come un’arma - anche di responsabilità penale. L’auto è un bene “pericoloso”, “potenzialmente” fonte di “danno” e anche di responsabilità “penale”, per cui prima di darla in prestito si deve svolgere una indagine, che sia dimostrabile, sulla idoneità della persona a ricevere le chiavi. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 30936 depositata il 6 novembre (segnalata per il “Massimario”), confermando il sequestro di un veicolo dato in prestito a un “conoscente” che ne aveva poi fatto un uso contrario alla legge. Secondo il Gip di Potenza che, a sua volta, aveva respinto il ricorso contro la misura cautelare, il ricorrente - legale rappresentante di una azienda di trasporti - “non aveva provato la propria buona fede circa l’uso del veicolo da parte di terzi, né che questo non potesse essere addebitato ad una sua negligenza”. Il proprietario si era difeso sostenendo di averlo prestato a uno “stimato imprenditore” locale nonché “uomo per bene” che glielo aveva chiesto per trasportare della legna presso la sua abitazione, mentre poi “tradendo la fiducia accordatagli”, ne aveva fatto un uso illecito, procedendo a una attività di gestione di rifiuti non autorizzata, come accertato dai Carabinieri. In generale, per la III Sezione penale, il proprietario di un bene “in sequestro” che ne rivendichi la restituzione “non può limitarsi a spendere il proprio titolo e l’estraneità formale all’indagine, ma ha l’onere di provare la propria buona fede, ovvero che l’uso illecito della res gli era ignoto e non collegabile ad un suo comportamento colpevole o negligente”. Un onere che, prosegue la decisione, il Gip ha correttamente ritenuto non assolto dal momento che il soggetto aveva riferito d’aver prestato un mezzo di trasporto (peraltro di “significativa capienza”) “ad uno sconosciuto”, ossia a una persona che - sebbene identificata - era nota alla ricorrente come “imprenditore stimato” soltanto per sentito dire, “per quanto è dato sapere”. L’ordinanza, conclude la sentenza, ha così inteso affermare il principio di diritto che la Cassazione condivide secondo cui “il proprietario che cede a terzi la disponibilità di un bene in sé pericoloso, possibile fonte di danno e di responsabilità, anche penale (come un veicolo o un’arma), deve previamente accertarsi dell’idoneità soggettiva ed oggettiva della persona cui il bene stesso è consegnato, delle finalità sottese alla consegna, svolgendo quindi una verifica - la cui prova non potrà esser rimessa alle sue sole parole - che attesti l’adozione di un comportamento prudente ed adeguatamente rigoroso, l’unico in forza del quale lo stesso soggetto potrà non esser chiamato a rispondere dell’eventuale illecito poi commesso dal terzo con il bene medesimo”. Padova. Il virus entra in carcere, ci sono 16 positivi di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 9 novembre 2020 Nove agenti della penitenziaria, 6 detenuti e un docente: secondo i sindacati l'ha portato il pasticciere di una cooperativa. Nove agenti della polizia penitenziaria e 6 detenuti e un insegnante sono risultati positivi al Covid. L'incubo del virus travolge il carcere Due Palazzi di Padova nel pieno della seconda ondata. È stato fatto un primo ciclo di tamponi a 580 detenuti e circa 400 guardie. Il timore è che il contagio possa allargarsi a macchia d'olio, rendendo la situazione impossibile da governare. Secondo quanto appurato dai sindacati, il virus sarebbe partito dal pasticciere di una cooperativa. "La situazione Covid alla casa di reclusione è sotto controllo" assicura l'Usl. Secondo le fonti sanitarie il tracciamento è iniziato da un detenuto sintomatico, tamponato e isolato all'interno del carcere. In seguito sono stati tracciati 127 contatti, dei quali altri cinque sono stati trovati positivi e successivamente isolati. Nei prossimi giorni arriverà l'esito della totalità dei tamponi e, a quel punto, si potrà stilare un bilancio. tensioneMa la tensione è alta all'interno della casa di reclusione, dove si trovano i condannati in via definitiva a una pena superiore ai 5 anni. Le sezioni 1 e 6 sono in isolamento per 10 giorni, fino al secondo tampone che sarà eseguito tra il 10 e il 12 novembre. Gli isolati sono stati sistemati nell'ala usata come polo universitario, ora riconvertita per l'emergenza. le attivitàMa il nervosismo serpeggia tra le sezioni, come è successo durante la prima ondata, con una rivolta sedata. Il senso di impotenza scatena la rabbia dei detenuti, che temono per la loro vita ora che il Covid è entrato nel penitenziario. Il direttore Claudio Mazzeo sta cercando di tenere fisso il timone della nave ma non è semplice. Bisogna prendere decisioni impattanti, come quella di continuare o meno con le attività collaterali. Il Cpia (centro provinciale per l'istruzione degli adulti), invece, è ancora attivo: continua le lezioni in presenza con i detenuti che non hanno problemi. Ovviamente per tutti, docenti compresi, c'è l'obbligo di indossare la mascherina.le cooperativeIl detenuto che presta servizio nella pasticceria della cooperativa World Crossing è stato trovato positivo mercoledì 4 novembre. Un pasticcere civile della stessa cooperativa era risultato positivo il 29 ottobre. Ecco perché ora una parte dei sindacati imputano a quella positività la genesi del cluster. "Il nostro civile era a casa già dal 23 ottobre" specifica Matteo Marchetto, presidente della coop Work Crossing. "Credo che i tempi non coincidano". Al termine della prima ondata il direttore del carcere Mazzeo aveva avuto il piacere di raccontare i segreti di quella che era stata catalogata come una tenuta del sistema-penitenziario. Furono distribuite 550 mascherine e avviata una campagna di sensibilizzazione al mantenimento delle distanze e all'osservanza delle misure igieniche. Inoltre vennero concesse elargizioni, come quella di una videochiamata al giorno ai familiari, cosa che prima era vietata. Vennero acquistati 14 smartphone, che gli agenti facevano usare sotto sorveglianza. "Chiediamo di essere trattati come le case di riposo" Giampietro Pegoraro, sindacalista della Cgil Penitenziaria svela i retroscena che stanno dietro l'emergenza. Giampietro Pegoraro, responsabile della Cgil Penitenziaria, cosa non ha funzionato? "Purtroppo sono state riscontrate alcune positività. Sembra che tutto sia partito dal pasticcere di una coop. È venuto a contatto con un detenuto e così si sono infettate, al momento, sedici persone. Ma il punto importante è un altro". Quale?"Noi da mesi chiediamo di essere equiparati alle case di riposo, quindi con cicli di tamponi frequenti per verificare la situazione. Abbiamo scritto al governatore del Veneto Luca Zaia già durante la prima ondata ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta". Dunque non è attivo il monitoraggio dei detenuti e del personale impiegato in carcere? "Purtroppo no. Avevamo chiesto a Zaia tamponi ogni 20 giorni. Ora che ci sono anche i tamponi rapidi, che per loro natura vengono impiegati nel modo migliore proprio quando bisogna tracciare popolazioni numerose, bisognerebbe inserire i penitenziari nel programma di tracciamento". Avete appena concluso un ciclo di quasi mille tamponi... "Sì ma a giochi fatti, solo perché dopo la positività riscontrata vogliono mappare il contagio". Siete preoccupati? "Adesso la situazione è molto rischiosa. Questo virus ha una progressione esponenziale. Se parte l'iperbole all'interno del penitenziario, allora è la fine". Come vengono trattati gli agenti penitenziari risultati infetti? "Sono tutti a casa, in isolamento". E i detenuti? "Anche loro sono stati isolati in quello che fino a poco tempo fa venire usato come polo universitario. Lì dentro vengono sistemati anche detenuti provenienti da altre carceri, in attesa dell'esito del tampone o arrestati che vengono da fuori. Sono stanze singole, in cui l'isolamento è possibile". Napoli. Storia di Antonio, una “larva umana” sbattuta in carcere a marcire di Viviana Lanza Il Riformista, 9 novembre 2020 “Risulta essere in grado di percepire l’effetto rieducativo della pena”. Tanto basta, secondo i giudici, per riportarlo in carcere. Anche se è un uomo di sessant’anni che pesa quasi trenta chili e da decenni soffre di schizofrenia, anoressia, mutacismo. Anche se di recente è stato dimesso dall’ospedale di Pozzuoli dopo un ricovero presso il dipartimento di salute mentale per atti di lesionismo nei confronti di se stesso e di altri. E anche se, proprio per le sue condizioni di salute, da diciassette anni scontava la condanna in detenzione domiciliare. Per riportare in carcere Antonio Puglisi, ieri mattina, è stata necessaria l’ambulanza. Perché non si poteva fare diversamente. L’uomo è in condizioni di salute tali da richiedere assistenza continua e da non poter essere autosufficiente. Per condurlo in carcere è stata organizzata un’operazione con auto dei carabinieri e ambulanza. Antonio Puglisi, originario del rione Traiano, con un’accusa di omicidio sulle spalle (un delitto avvenuto nel 1996 nell’ambito di regolamenti di conti fra persone ritenute legate a clan della camorra), è tornato in cella. Destinazione, carcere di Secondigliano. La decisione è stata adottata dai giudici del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, lo stesso che negli ultimi anni gli aveva rinnovato la possibilità di scontare la condanna in detenzione domiciliare in considerazione dei gravi motivi di salute. Puglisi sta scontando una condanna a 24 anni di carcere, in gran parte già espiata e con un residuo di quattro anni e dieci mesi. “Da 17 anni il mio assistito era in detenzione domiciliare - spiega l’avvocato Giovanna Limpido, difensore di Puglisi - Le sue condizioni di salute, negli anni, non sono cambiate e mi sorprende che una simile decisione arrivi proprio in un momento particolare come questo, con una pandemia in atto e il rischio di contagio altissimo anche all’interno delle strutture carcerarie”. Difatti, una preoccupazione centrale di questi giorni, negli ambienti politici, giudiziari e della sfera penitenziaria, è proprio quella legata alle misure da adottare per limitare il sovraffollamento delle carceri e contenere il rischio Covid all’interno degli istituti di pena, visto che i dati sui contagi sono in costante aumento. In Campania si registrano più di 20 detenuti positivi al Covid e oltre 70 tra agenti della polizia penitenziaria e personale socio-sanitario. Nel resto del Paese la situazione non è meno allarmante: tre detenuti sono morti durante questa seconda ondata della pandemia (uno ad Alessandria, uno a Livorno e uno a Milano), sono stati accertati 1.050 casi di positività al virus tra detenuti e personale penitenziario e sono oltre 1.300 i poliziotti in malattia, in isolamento fiduciario o in attesa di tampone. Numeri che proprio ieri hanno spinto il sindacato di polizia penitenziaria a chiedere interventi per prevenire il propagarsi del virus. Ma perché Puglisi è tornato in carcere? Perché quest’anno, dopo anni in cui era stata accolta, il Tribunale di Sorveglianza ha rigettato l’istanza per la concessione della detenzione domiciliare. Scrivono i giudici: “Non basta che l’infermità fisica menomi in misura rilevante la salute del soggetto in espiazione di pena ma è necessario che la stessa, oltre a non poter essere adeguatamente curata presso i centri clinici carcerari o con l’eventuale trasferimento del detenuto in ambienti sanitari esterni, raggiunga un livello tale da collidere con il senso di umanità e con il principio di tutela della salute garantiti costituzionalmente”. Si parte dal presupposto che “il beneficio invocato può essere giustificato solo con l’impossibilità di praticare le cure necessarie nel corso dell’esecuzione della pena, non già dalla possibilità di praticarle meglio fuori dalla struttura penitenziaria”. Di qui la decisione: “Nel caso di specie il collegio ritiene che il quadro patologico riscontrato non comporta l’inconciliabilità con il regime detentivo e per l’altro verso non fa venir meno la pericolosità dell’istante che per le patologie da cui è affetto risulta essere in grado di percepire l’effetto rieducativo della pena”. Alba (Cn). Il Garante dei detenuti: ho trascorso 330 ore al carcere Giuseppe Montalto gazzettadalba.it, 9 novembre 2020 Un complesso in attesa di ristrutturazione, sovraffollato, dove sono state avviate iniziative all’avanguardia: è il carcere Giuseppe Montalto di Alba. Da cinque anni, ad accendere i riflettori è il garante per le persone detenute Alessandro Prandi, il cui mandato scadrà a dicembre. Un ruolo volontario e non retribuito, creato con l’obiettivo di far valere i diritti dei carcerati, oltre a garantire un legame con le istituzioni. Dopo essersi ricandidato per i prossimi cinque anni, Prandi traccia un bilancio della sua esperienza. Che realtà rappresenta oggi il Montalto, Prandi? “Dopo i contagi di legionella a inizio 2016, il carcere ha riaperto nell’estate 2017, limitatamente a una sezione da 33 posti, dove in media abbiamo sempre almeno 46 detenuti, a parte i mesi del lockdown. Siamo così diventati il carcere più sovraffollato d’Italia. Gli spazi sono il problema più importante, che limita l’organizzazione delle attività, soprattutto in questo momento. Finalmente, a settembre, è stato pubblicato il bando per lo svolgimento dei lavori da oltre 4 milioni di euro: se verranno portati a termine entro un paio di anni, il Montalto potrà ritornare alla sua capienza originaria: 142 posti”. Dal punto di vista umano, che cosa emerge dai suoi colloqui con i detenuti? “I colloqui sono la parte più importante del ruolo del garante: dalla riapertura del 2017 a oggi, ho passato in carcere 330 ore, tra incontri, visite e altri impegni. E posso dire che, se non si vive in prima persona la realtà carceraria, non si può comprendere. Dai colloqui ho potuto notare come, al di là del motivo per cui una persona è detenuta, sono tante le fragilità che possono derivare dal contesto da cui si proviene o dalle esperienze vissute. In più casi ho incontrato detenuti con problemi psichiatrici, che avrebbero dovuto seguire percorsi diversi, ma il sistema italiano non è in grado di offrire alternative”. Qual è il rapporto tra il carcere e l’Albese? “Il Montalto ha grandi potenzialità, come dimostra, ad esempio, il corso di operatore agricolo, con il quale si è realizzato il vino Vale la pena. Importante anche il ruolo dell’associazione di volontariato Arcobaleno, che fornisce aiuti concreti ai detenuti e organizza attività. All’interno, sono un centinaio gli agenti della Polizia penitenziaria, con due educatori. A mio avviso, però, continua a mancare una progettualità. Il passaggio fondamentale sarebbe coinvolgere pienamente il carcere nelle politiche sociali cittadine, considerandolo una realtà che fa parte del territorio: è fondamentale comprendere che investire sul carcere, significa investire in sicurezza. Oggi, quando un detenuto esce dalla struttura, se non ha un contesto familiare di riferimento, si trova da solo, con tutti i problemi connessi al reinserimento: questo aumenta il rischio di recidiva”. Com’è vissuta l’emergenza sanitaria in carcere? “Dopo un periodo di fermo, sono riprese le attività, a piccoli gruppi, anche se l’accesso dei volontari è ridotto. I colloqui con i familiari sono ammessi, mantenendo anche le videochiamate. A oggi non ci sono stati casi di Covid-19. Ad Alba, però, non è garantito il lavoro esterno ai detenuti, poiché non si riesce a isolare il lavoratore nel momento in cui rientra”. Quali iniziative le piacerebbe vedere realizzate? “Per esempio, un servizio di trasporto, con una navetta di collegamento con il centro, come accade in tutti gli istituti penitenziari. Inoltre, sarebbe importante migliorare il piazzale, ora abbandonato. Tra i progetti vedrei bene una serie di collaborazioni, come quella tra il piccolo museo interno e gli altri piemontesi, ma anche con il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Torino, avviando un vero scambio”. Modena. Protesta davanti al carcere di Sant’Anna, tensione e lancio di oggetti modenatoday.it, 9 novembre 2020 Nel tardo pomeriggio di venerdì alcune decine di manifestanti si sono dati appuntamento davanti al carcere di Modena. Una protesta annunciata qualche giorno prima, con l’intento di riaccendere i riflettori sulla tragica rivolta dell’8 marzo e chiedere giustizia per le vittime di quei drammatici fatti, ma anche un cambio di rotta circa la gestione della popolazione carceraria. Nel volantino che annunciava la mobilitazione si legge infatti: “Sulle reali cause di queste morti, stilare per lo più come ‘morti per overdose’, cala ben presto un inquietante silenzio. Da allora ad oggi, i detenuti rimasti nel carcere di Modena stanno in celle sovraffollate dentro una sezione chiusa e in pessime condizioni igienico-sanitarie”. Accuse che si sono trasformate quindi in protesta intorno alle 19 di venerdì, con un raduno nel parcheggio di strada Sant’Anna da parte di diverse persone, per lo più appartenenti agli ambienti della sinistra antagonista e anarchici. Oltre ai cori e agli slogan, si sarebbero verificati lanci di oggetti, fumogeni e petardi all’interno del cortile del carcere. #Isolati speciali: gli studenti raccontano il “loro” lockdown di Francesco Sellari Corriere della Sera, 9 novembre 2020 Il Festival dei giovani presenta un “social movie” che raccoglie i filmati (quasi 3.000) girati dai ragazzi durante la quarantena primaverile. L’ideatrice del festival Fulvia Guazzone: “Questi video raccontano la sofferenza provata dai ragazzi, la mai rabbia”. Come hanno vissuto gli adolescenti il lockdown causato dalla pandemia di Covid 19? Molte analisi di psicologi ed esperti hanno cercato di spiegarcelo. Ora il docufilm #Isolatispeciali dà la parola direttamente a loro, ragazzi e ragazze delle scuole superiori. I promotori lo definiscono un “social movie” che ha raccolto e selezionato quasi tremila video girati dagli studenti italiani nei giorni più duri della quarantena primaverile: lo sguardo di una generazione sull’evento epocale che più di tutti ha segnato la loro giovane esistenza. Il documentario verrà presentato nelle prossime settimane sulla piattaforma festivaldeigiovani.it. “Noi lavoriamo con le scuole da 15 anni, e durante il lockdown abbiamo organizzato diversi dibattiti online con gli studenti su come stessero vivendo quel periodo. Sono emerse testimonianze forti e allora abbiamo chiesto loro di raccontare con dei video le loro giornate ma anche i loro stadi emotivi”, spiega Fulvia Guazzone, ideatrice del Festival dei Giovani. Sofferenza, mai rabbia - La manifestazione arrivata alla quinta edizione, quest’anno sarà solo in versione digitale dal 10 al 12 novembre. “Questi video raccontano la sofferenza che hanno provato - prosegue la Guazzone - Si sono sentiti privati della libertà, preoccupati perché hanno capito che in gioco c’è anche la costruzione del proprio futuro. C’è stata sofferenza, quindi, ma mai rabbia. Alcuni, hanno vissuto la quarantena come un momento di pausa, un’occasione per rallentare i ritmi e trovare o riscoprire passioni e hobby: gli allenamenti in casa, la cucina, scrivere un diario. O semplicemente recuperare il rapporto con i genitori. Ovviamente, non tutte le famiglie sono uguali. Chi ha dovuto fare la quarantena in piccoli appartamenti o con famiglie litigiose ha sofferto tanto. E chi era emarginato a scuola purtroppo si è allontanato ancora di più”. Con la seconda ondata e la nuova attivazione della didattica a distanza, il tema diventa purtroppo nuovamente attuale. “Ora sembra esserci un di più di sofferenza e paura - prosegue la Guazzone - Durante l’estate hanno pensato che il peggio fosse passato e ora di nuovo si chiude tutto: la scuola così come lo sport e le opportunità di svago. È ancora presto per capire come reagiranno e cercheremo di raccogliere delle opinioni più strutturate”. Diecimila ragazzi per un festival - Nelle passate edizioni, il Festival dei Giovani si è svolto a Gaeta, in provincia di Latina. In quattro anni sono arrivati nella cittadina laziale quasi 80.000 studenti, coinvolti in dibattiti, workshop e percorsi di orientamento universitario. Al momento, già 10.000 tra studenti e studentesse, si sono registrati alla piattaforma on line che ospiterà gli eventi dell’edizione 2020. Il target maggiormente coinvolto va dai 16 ai 20 anni, dal terzo anno delle superiori ai primi anni di università. “Abbiamo diverse aree tematiche - aggiunge la Guazzone - con centinaia di eventi su ambiente, partecipazione attiva, inclusione. Ma anche orientamento al lavoro. Ci sarà anche un focus sulle nuove professioni nel campo dell’Intelligenza artificiale e più in generale del digitale”. Tra i partner dell’iniziativa molte importanti aziende e l’università Luiss Guido Carli che quest’anno proporrà anche una simulazione della prova di ammissione e presenterà la scuola di programmazione 42 Roma. Si tratta della nuova scuola di coding, in partenza a gennaio 2021, completamente gratuita, per ragazze e ragazzi appassionati di digitale. La particolarità di 42 Roma Luiss sta nel fatto che abbandona la didattica frontale in favore di processi di auto-apprendimento tra pari (il cosiddetto Peer 2 Peer learning). Spazio anche alla creatività con l’avvio di Myos - Make Your Own Series, un Pcto (il nuovo percorso che riprende la vecchia alternanza scuola lavoro) dedicato alla scrittura di soggetti per serie Tv che prevede lezioni con giovani sceneggiatori e dibattiti sulle serie più amate dai ragazzi. Iran. “I prigionieri politici vengono sistematicamente affamati”. nessunotocchicaino.it, 9 novembre 2020 Secondo il coordinatore della Campagna per il Cambiamento Iraniano (Campaign for Iran Change) Struan Stevenson, i prigionieri politici iraniani vengono “sistematicamente affamati” dalle guardie per spezzare la loro volontà, forzare false confessioni e ottenere dichiarazioni pubbliche di pentimento. Stevenson, che è un ex membro del Parlamento europeo, ha spiegato che il regime teme un’altra rivolta che li spazzerà via dal potere, quindi il Ministero dell’Intelligence e della Sicurezza (Mois) e il capo della magistratura Ebrahim Raisi hanno ordinato una repressione dei detenuti politici con la speranza di spaventare i futuri manifestanti affinché obbediscano. I detenuti sono stati sottoposti a gravi carenze alimentari, togliendo le uova dalle loro razioni, lasciando loro solo 10-12 cucchiai di riso di bassa qualità (leggi: “puzzolente e marcio”) al giorno. Le prigioni si difendono sostenendo che i prigionieri possono comprare cibo extra al negozio della prigione, omettendo di dire però che anche in questi spacci interni il cibo è marcescente. Molti detenuti non hanno reddito e non possono ricevere denaro dalle loro famiglie perché erano loro i capo-famiglia. L’approvvigionamento idrico contaminato nelle carceri significa che i detenuti devono già acquistare acqua a prezzi gonfiati. La privazione alimentare sta causando stress mentale, che è un’ulteriore forma di tortura contro i prigionieri. Altri metodi utilizzati includono stipare 70 persone in una cella destinata a contenerne solo 20, senza ventilazione e solo un bagno, separato solo da una “tenda sporca”, in modo che l’odore si diffonda in tutta la cella. Possono essere tenuti lì per settimane senza cibo adeguato o altro. “Solo dopo che hanno firmato un impegno a pentirsi delle loro opinioni politiche e sono stati costretti a inchinarsi e umiliarsi davanti alle guardie, vengono riportati nei reparti “normali” della prigione. Lì, almeno, possono uscire ogni mattina alla luce del sole dalle 7 alle 8 del mattino mentre viene effettuata “la conta”, ha scritto Stevenson. Molte di queste informazioni sono state fornite dal prigioniero politico Soheil Arabi in lettere e file audio fatti uscire clandestinamente dalla prigione e destinati alla sua famiglia. È stato ripetutamente torturato e picchiato dagli agenti. Anche sua madre è stata arrestata, accusata di “collusione” e “diffusione di propaganda contro lo Stato”, e gravemente torturata. Egitto. Patrick Zaky resta in carcere, udienza rinviata al 21 novembre La Repubblica, 9 novembre 2020 Zaky, 28 anni, arrestato a febbraio con l’accusa di propaganda contro lo Stato, non è stato portato in aula. Il giovane, 28 anni, è in carcere da otto mesi: le accuse contro di lui non sono mai state discusse ma secondo la legge egiziana l’arresto preventivo può essere prolungato fino a due anni. Al termine del quale, spesso, gli imputati vengono tenuti in carcere con una modifica delle accuse: cosa che fa ripartire il calcolo della carcerazione preventiva per altri 2 anni. Un sistema di “porte scorrevoli” come lo ha definito Human rights watch in un report in cui lo descriveva come il metodo scelto dal governo del presidente Abdel Fatah al Sisi per tenere sotto controllo i dissidenti. Inizialmente detenuto a Mansoura, città di origine della sua famiglia, Patrick è stato spostato al Cairo a marzo: e per mesi, a causa dell’emergenza Covid, non ha potuto incontrare familiari né avvocati. La mamma ha potuto finalmente vederlo soltanto a settembre e lo ha trovato dimagrito e stanco, ma anche determinato a non farsi piegare e desideroso di continuare gli studi in Italia. Iran. Resta in carcere il sufi malato e semiparalizzato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 novembre 2020 Ieri pomeriggio la comunità mondiale dei diritti umani ha tirato un sospiro di sollievo nell’apprendere che Nasrin Sotoudeh, la più nota avvocata iraniana per i diritti umani, aveva ottenuto il rilascio temporaneo. Sotoudeh stava scontando una serie di condanne, per un totale di 17 anni di carcere, solo a causa del suo impegno professionale in favore dei prigionieri di coscienza, dei condannati a morte e ultimamente delle attiviste processate per aver protestato pubblicamente contro l’obbligo d’indossare il velo. Fiaccata da un lungo sciopero della fame, c’è da sperare che Sotoudeh possa riprendersi e avere accesso a tutte le cure mediche di cui ha bisogno e che, soprattutto, quel rilascio diventi permanente. Behnam Mahjoubi, 33 anni, appartenente alla comunità sufi dell’Iran, resta invece ancora in stato di detenzione ed è un’altra persona che in carcere non avrebbe mai dovuto entrare. Arrestato insieme ad altre centinaia di manifestanti durante le proteste scoppiate a Teheran il 19 e 20 febbraio 2018 e rilasciato dopo un breve periodo di detenzione, nell’agosto 2019 Mahjoubi è stato condannato a due anni di carcere dalla sezione 26 del Tribunale rivoluzionario di Teheran per “raduno illegale” e “attentato alla sicurezza nazionale”. Da quando nel giugno 2020 ha iniziato a scontare la pena nel carcere di Evin, a Mahjoubi sono state negate le cure per gli attacchi di panico di cui soffre, nonostante i familiari si fossero detti disponibili a fornirli. Sonniferi, solo sonniferi, in carcere non c’era altro. A seguito del peggioramento delle condizioni di salute, anche a causa di una caduta durante un attacco di panico che lo ha reso paralizzato da un lato del corpo, il 27 settembre Mahjoubi è stato trasferito e ricoverato contro la sua volontà presso l’ospedale psichiatrico “Aminabad”, nella località di Razi. In segno di protesta, Mahjoubi ha iniziato uno sciopero della fame. Durante il ricovero (sei giorni e cinque notti), ha subito torture, violenze fisiche e psicologiche e trattamenti medici che lo hanno reso a lungo incosciente. Rientrato nel carcere di Evin ha iniziato a perdere gradualmente la percezione fisica del suo corpo, a tal punto da non poter più alzare dalla branda. Nonostante le autorità sanitarie abbiano dichiarato che debba essere rilasciato a causa del disturbo di cui soffre e delle preoccupanti condizioni fisiche in cui versa, non compatibili con la detenzione in carcere, per essere adeguatamente curato in una struttura ospedaliera, Mahjoubi resta in prigione. La Signora di Birmania, dal Nobel al genocidio di Pio D’Emilia Il Messaggero, 9 novembre 2020 Il primo incontro risale al lontano 1990. Il camion dal quale conduceva la sua prima, improvvisata campagna elettorale, e sul quale ero salito assieme ad altri colleghi stranieri, si era rotto, e fummo tutti costretti a passare la notte in una locanda isolata alla periferia di Rangoon, la capitale. Parlammo a lungo: lei, Aung San Suu Kyi, ci raccontò tutta la sua vita, l’infanzia accanto al padre Aung San, padre della patria alleatosi con chiunque persino gli invasori giapponesi - gli avesse promesso aiuto nella lotta per la conquista dell’indipendenza, poi rimasto ucciso in un attentato proprio il giorno in cui veniva inaugurato il primo governo nazionale. La scelta di vivere all’estero, seguendo il marito, studioso di buddismo. Il suo ritorno in patria per assistere la madre, malata. Ed il suo improvviso, imprevisto quanto inevitabile coinvolgimento nella vita politica, dopo i massacri perpetrati dalla giunta militare. “Non è quello che pensavo di fare ci diceva ma è quello che debbo fare”. Da allora ci siamo incontrati più volte. Nel novembre 2010, appena liberata, fui il primo giornalista straniero ad intervistarla. Uno degli incontri più emozionanti della mia vita. Poi, improvvisamente, la svolta. Era il novembre del 2015, esattamente 5 anni fa. Il Paese era alla vigilia delle prime elezioni finalmente libere (beh, quasi: i militari continuano a riservarsi il 25% dei seggi ed il diritto di veto per ogni riforma costituzionale) ed era evidente che lei ed il suo partito, la Nld (nuova lega democratica) avrebbero trionfato. Chiesi e ottenni un’intervista, che si svolse a casa sua. Verso la fine le posi una domanda che forse non si aspettava, ma certamente legittima. Una domanda sul suo collega Liu Xiaobo, lo scrittore cinese insignito del Nobel per la Pace, che stava marcendo, gravemente malato, in carcere (morì, sempre in carcere, un paio di anni dopo). La signora era appena rientrata dal suo primo, storico viaggio in Cina, durante il quale aveva incontrato anche il presidente cinese Xi Jinping. Ne avevano parlato? Aveva approfittato dell’occasione per chiedere la liberazione del Nobel? Con mio grande stupore lei si irrigidì, tentando di eludere la domanda. Ma a seguito della mia insistenza si alzò in piedi, dicendomi che non era corretto chiederle il contenuto di un incontro privato (!) e che comunque il mio tempo era scaduto. In pratica mi cacciò di casa. Da allora non sono più riuscito a parlarle. E quando tre anni fa, in occasione della visita del Papa e delle critiche internazionali compresa una lunga lettera del Dalai Lama che stava ricevendo per il modo in cui stava gestendo la tragedia dei Rohingya riuscii finalmente a contattarla, mi attaccò il telefono in faccia. Sic transeat gloria mundi. Per molti anni abbiamo seguito con molta attenzione, apprensione e simpatia le vicende della Birmania (che oggi si chiama Myanmar), il meraviglioso quanto sfortunato e dilaniato Paese del Sud-Est asiatico immortalato da George Orwell nel suo avvincente Burmese Days, Diario Birmano. E questo anche grazie alla figura carismatica di Aung San Suu Kyi, 75 anni, premio Nobel per la Pace, per molti anni simbolo della resistenza contro il Tatmadaw, uno dei regimi militari più lunghi, sanguinari e corrotti della storia, e della lotta per il rispetto dei diritti umani. La sua liberazione nell’oramai lontano 2011, dopo anni di prigione e arresti domiciliari, venne salutata e celebrata in tutto il mondo, Italia compresa. Una ventina di Paesi e di importanti città, compresa Roma, le concessero la cittadinanza onoraria. Tutte revocate (tranne la nostra, pare, forse sarebbe il caso di farlo) negli ultimi due o tre anni, da quando, a seguito delle elezioni del 2015, la signora è andata al potere grazie ad un discutibile accordo con i militari e da quando si è resa complice, nella migliore delle ipotesi, del genocidio perpetrato nei confronti dei Rohingya, una minoranza etnica di religione musulmana che vive nello stato Arakan-Rakhine e da sempre vittima di pesanti discriminazioni e violente repressioni. Nell’agosto 2017, a seguito di una violentissima operazione militare, oltre 700 mila persone hanno dovuto abbandonare i loro villaggi, rifugiandosi nel Bangladesh. Un’operazione per la quale Aung San Suu Kyi ed il suo governo sono attualmente sotto processo presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. L’accusa è gravissima: genocidio. Ma la signora tira dritto per la sua strada. Non solo ha negato tutte le accuse, ma continua a governare assieme ai suoi ex aguzzini, e pur di restare al potere ha ignorato in questi ultimi giorni ogni appello, anche da parte della comunità internazionale, a sospendere il voto. Voto che si è svolto ieri e che ha confermato la sua grande popolarità, ma che per colpa della pandemia e degli scontri in corso in varie zone del Paese è stato sospeso in oltre 50 città e dal quale molte minoranze non solo i Rohingya sono state escluse. Elezioni apartheid, le ha definite Human Rights Watch, usando un termine che speravamo fosse definitivamente sepolto dopo la fine del regime razzista sudafricano. Alla fine, oltre 3 milioni di cittadini sono stati privati del diritto di voto, con il benestare della Signora Povera Birmania.