Covid nelle carceri, casi triplicati in 10 giorni. Positivi 448 detenuti e 547 agenti Il Messaggero, 8 novembre 2020 Il Covid corre anche nelle carceri. In dieci giorni è triplicato il numero dei detenuti positivi. Se al 28 ottobre erano 150, adesso sono 448. Ancora più alto il contagio tra i poliziotti penitenziari e il personale addetto: in 574 hanno contratto la malattia. Una diffusione che avviene mentre le carceri continuano a essere piene oltre la loro capienza: sono 54.809 i ristretti a fronte di 50.533 posti disponibili. Per ora sono modesti gli effetti del dl Ristori, che proprio per alleggerire le carceri nell’ottica di rendere più facile limitare la diffusione del contagio, ha previsto la detenzione domiciliare per i detenuti ai quali resta da scontare una pena inferiore a 18 mesi (ma solo per reati meno gravi e con l’obbligo del braccialetto elettronico). Hanno lasciato il carcere solo in 85. Troppo pochi come nota l’ufficio del Garante nazionale detenuti, che perciò invoca, come “assolutamente necessari”, “interventi più decisivi”, da introdurre in sede di conversione del decreto. I casi di positività nelle carceri sono concentrati in sei Istituti, oltre due hub lombardi che funzionano da strutture ricettivo- sanitarie per le zone limitrofe. Piccoli i numeri del contagio in altri 49 Istituti, nessuno nei rimanenti 135. L’infezione delle prigioni. Positivi 424 detenuti, San Vittore a rischio caos di Paola Fucilieri Il Giornale, 8 novembre 2020 Un centinaio di detenuti contagiati dal Covid solo nel carcere milanese di San Vittore. Il culmine è stato raggiunto venerdì sera e nella casa circondariale è scattato subito l’allarme. In piazza Filangieri, infatti, c’è un hub, ovvero un reparto attrezzato per la cura del “Covid-19” creato dall’amministrazione penitenziaria presso l’istituto milanese in collaborazione con la Regione Lombardia, fortemente voluto per esigenze sanitarie dal direttore Giacinto Siciliano. Si tratta però di 50 posti su due piani, più altre 7 camere per detenuti addetti al lavoro nel reparto. Così l’emergenza di venerdì ha costretto a dover rivedere tutte le disposizioni e nelle scorse ore pare ci sia stato un vero e proprio “travaso” di detenuti. “Il che significa, teoricamente, che dovrebbero trasferire i contagiati, creando reparti appositi per separarli all’interno dello stesso istituto o altrove, ma sempre e comunque in ambito penitenziario”. Chi parla è Leo Beneduci, segretario generale dell’Osap (la sigla sta per Organizzazione sindacale della polizia penitenziaria, il secondo sindacato nazionale in Italia con seimila iscritti e primo a Milano e in Lombardia). Beneduci ha svolto attività sindacale nelle carceri fino al 6 ottobre. “Poi mi è venuta la febbre (ma non l’ho presa in carcere) e quando sono risultato positivo al tampone mi sono messo in quarantena”, ci spiega. I dati ufficiali più recenti di cui l’Osapp dispone parlano di 424 detenuti malati all’interno di case circondariali e istituti penitenziari e di 524 infetti tra il personale della polizia penitenziaria e quello civile. “Dobbiamo ricordare però che proprio tra il personale ci sono moltissimi di noi che si sono messi in isolamento volontario dopo aver saputo di essere entrati in contatto con detenuti o colleghi contagiati - insiste il segretario generale del sindacato Osapp. Per questa ragione quando si parla di personale delle carceri coinvolto dal contagio noi, considerando il “sommerso”, stimiamo almeno oltre 1.500 unità”. Dopo le decisioni forti prese dal governo prima delle rivolte di massa nelle carceri, i colloqui con i familiari vennero sospesi, gli spostamenti dei detenuti all’interno delle carceri limitati al massimo così che il contagio si potesse calmierare. “L’amministrazione penitenziaria sembrava aver avuto una visione realistica di quelle rivolte: i detenuti sostenevano di aver distrutto gli istituti penitenziari per la sospensione dei colloqui, ma chi aveva creato i danni maggiori, in realtà, era proprio chi di colloqui non ne faceva mai, soprattutto extracomunitari - prosegue il sindacalista -. Questo lascia immaginare, anche se le indagini sono ancora in corso, che la regia delle rivolte sia stata programmata dagli “AS” (acronimo che sta per detenuti ad Alta Sicurezza, affiliati alle organizzazioni criminali o già in regime di 41bis) per ottenere benefici di pena o quant’ altro. E i danni sono costate ai cittadini dai 40 ai 60 milioni di euro”. E aggiunge: “Sempre durante la prima emergenza Covid-19 il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede decise che oltre ai detenuti a rischio per infermità (uscirono molti mafiosi) tra i detenuti in generale, avrebbero potuto lasciare le carceri coloro con una pena residua inferiore ai 18 mesi, per andare ai domiciliari magari con il braccialetto elettronico. Bonafede aveva parlato di 5mila persone, ma secondo le nostre stime, se va bene, di detenuti con quella misura ne sarebbero usciti al massimo mille: la misura infatti non si può applicare ai detenuti che non hanno fissa dimora, come moltissimi extracomunitari e poi, dopo tutte le polemiche per gli appalti di quei braccialetti anche prima del coronavirus, non mi risulta che ci siano così tanti braccialetti elettronici disponibili”. C’è poi il capitolo, a dir poco bollente, del personale della polizia penitenziaria e di quello civile che lavora in carcere. “Il personale è obbligato a portare la mascherina e a utilizzare i guanti e qualora non lo facesse potrebbe essere sottoposto a procedimento disciplinare - sottolinea Beneduci. Ora, dopo un’iniziale sospensione dei colloqui (voluta anche da tanti detenuti proprio per proteggere i familiari) in molte carceri sono ripresi i momenti di socialità e c’è addirittura chi fa palestra, scuola, va al campo di calcio, in biblioteca o semplicemente passeggia senza mascherina”. “Ci sono Case circondariali dove è stato permesso di avere colloqui non protetti, dove i reclusi si abbracciano e si baciano con i familiari - continua Beneduci. È vero, in alcuni istituti sono stati montate divisorie in plexiglass, e si parla con i congiunti anche in videoconferenza. Ma la verità è che ora, per probabile timore o incapacità dei vertici del Dap, il ritorno della pandemia è stato sottovalutato”. 41bis, i 6 errori di Woodcock di Giancarlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2020 “Serve per far confessare”, “è delatorio”, “i detenuti vessati anche nel vestiario”, “non è più un regime eccezionale”, etc. Luoghi comuni che fanno il gioco dei garantisti “à la carte” e dei mafiosi. Pubblicando l’intervento di Henry J. Woodcock sul 41bis, Marco Travaglio “immagina” che vi sarà un dibattito sul tema “fra gli addetti ai lavori”. In questi anni ho molto scritto dell’argomento e forse ciò mi legittima ad intervenire. Ma ero incerto se farlo e ho deciso di sì soltanto per dovere di coerenza. Perché? Sento già rimbombare le grida scomposte dei “benpensanti” secondo cui chiunque la pensi diversamente da loro sul 41bis è un boia, un forcaiolo, un manettaro, un incivile ammalato di cattivismo giustizialista, un primitivo assetato di vendetta... Sono stufo di essere oggetto da sempre - per altro in ottima compagnia - di queste infamanti accuse per il solo fatto di aver maturato sul campo (facendomi per anni - come usa dire - un “mazzo tanto”) un’esperienza concreta di contrasto alla mafia che comporta il dovere di pensarla in un certo modo nonostante le contumelie. Mentre sono certo che gli attacchi riprenderanno subito e con vigore, posto che le tesi che li sorreggono (?) ora trovano - di fatto - l’autorevole sponda di una degnissima figura com’è Woodcock. E poi ecco in arrivo altre grida compiaciute: spaccato il fronte dei Pm! Tacciano per sempre i molesti magistrati “di guerra”! Chiedano scusa! Avevamo ragione noi (noi di “Nessuno tocchi Caino”, noi avvocati delle “Camere penali”, noi media schierati su questi fronti)! E francamente regalare a costoro - pur nel rispetto di ogni opinione - altre carte da giocare, mi sembra surreale. Ma veniamo al dunque. Le critiche al 41bis sono elencate da Woodcock in modo dettagliato e spietato, con autentiche bordate che sparano concetti come (dis)umanità, sadismo, tortura, annientamento del nemico, rendere la vita impossibile, incostituzionalità e via salmodiando. Poi, illustrando nel merito i “difetti” del 41bis, con accenti a volte quasi consenzienti, Woodcock mescola verità a luoghi comuni che nascono ai tempi del terrorismo (quando il 41bis si chiamava art. 90) ed esplodono con la mafia, ma che non diventano più veri per il solo fatto di essere stra-ripetuti. Primo: il carcere “duro” serve per far confessare e difatti punisce chi non confessa; - il regime differenziato viene applicato a chi è accusato di delitti di mafia; pentendosi, si dimostra fattivamente di volerla smettere con questa “cultura” di violenza e di morte; altrimenti si manifesta in sostanza la scelta di fare ancora parte del sodalizio criminale; pertanto il 41bis non è strutturato per punire chi non confessa, ma più semplicemente per modulare la detenzione nei confronti di chi è stato e intende rimanere mafioso. Ciò in base ad una realtà che può cessare solo col pentimento/confessione o con la morte: la assoluta fedeltà del singolo al collettivo criminale, nel quale egli si immedesima interiorizzandolo come l’unico formato da individui degni di essere riconosciuti “uomini” (non a caso autodefinitisi “d’onore”), mentre tutti gli altri sono oggetti da assoggettare. In breve, il 41bis “punisce” la maggior pericolosità dei mafiosi irriducibili. Secondo: pentimento non significa travaglio morale, significa solo confessione; - lasciamo stare il travaglio morale, che è un fatto interiore, del tutto estraneo alla sfera giudiziaria; osserviamo invece che per riconoscere una revisione critica del proprio passato e la decisione di cambia- re vita, le regole del processo esigono segni concreti “esteriori”; la confessione, sia dei propri delitti sia di quanto si sa dell’organizzazione e delle sue coperture, è in pratica la principale modalità di tale riconoscimento; per contro - lo stabilisce la Consulta - “una semplice dichiarazione di dissociazione” non basta, in quanto atteggiamento ambiguo e facilmente strumentalizzabile per dissimulare il persistere di una sostanziale adesione al clan. Terzo: confessione significa delazione; - quand’eravamo bambini ci insegnavano che “chi fa la spia non è figlio di Maria”; sia pure che pentendosi e rivelando segreti di mafia si fa la spia; ma contro chi? contro un sistema che “vive” di stragi e omicidi, avvelena economia e politica, corrompe e assoggetta pretendendo omertà; per cui non è escluso che Maria consideri questo comportamento proprio come.... un suo figlio (per lo meno dopo la scomunica inflitta ai mafiosi da papa Francesco). Quarto: i detenuti al 41bis sono un “battaglione”, oltre 600, e tale numero poco si adatta al carattere eccezionale dell’istituto; - ma questo numero è l’effetto inesorabile di una causa precisa, l’estensione in Italia (e ben oltre i nostri confini) delle varie mafie, che non sono un’emergenza ma un fatto strutturale, per cui il 41 bis di eccezionale ha purtroppo ben poco. Quinto: i benefici legati alla collaborazione sono “sontuosi” e addirittura potrebbero avere un effetto “criminogeno”; - ora, a parte che i benefici sono quelli previsti dalla legge (semmai può esserci qualche giudice di manica più larga), ai tanti pentiti che ho conosciuto da vicino va riconosciuto di aver operato per impedire nuovi crimini, cercando di neutralizzare potenti organizzazioni criminali; a rischio di subire rappresaglie bestiali essi stessi ed i propri familiari: basta ricordare - per tutti gli altri, e sono un esercito - Patrizio Peci (Br) e il fratello Roberto, insieme a Santino Di Matteo (Cosa nostra) e al figlio tredicenne Giuseppe. Sesto: ai detenuti del 41bis è vietato vestirsi come vogliono o usare lenzuola meno grezze di quelle dell’amministrazione e questo non c’entra con la sicurezza; - poco “riguardoso”, ma l’alternativa è un progressivo ritorno al “Grand Hotel Ucciardone”, un’immagine che sembra iperbolica mentre fotografa la realtà di quando in carcere comandavano i mafiosi, per cui la supremazia dello Stato (anche nella struttura più “totalizzante”) era per loro mera parvenza. In sostanza, per i mafiosi il carcere era a tutti gli effetti la continuazione del dominio esterno, simboleggiata appunto dalla disponibilità di cose che i detenuti comuni si sognano. Con indirette ricadute sulla sicurezza che sconsigliano un ritorno al passato. Per vero Woodcock (sia pure con una singolare forma parentetica) verso la conclusione del suo intervento afferma che il 41bis “per carità, entro limiti ben determinati e soprattutto se relegato all’ambito di eccezionalità per il quale era stato concepito, è pure utile e necessario in un Paese come il nostro”. Senonché la mafia, va ribadito, è tutt’ora un sistema consolidato di potere e non un’emergenza eccezionale. Men che mai lo era quando Giovanni Falcone ideò il 41bis. Che pertanto è frutto della sua intelligenza e conoscenza senza uguali della mafia; ed è letteralmente intriso del suo sangue, in ragione del fatto che contribuì fortemente a decretarne la morte per strage. Da Bonafede stretta sui processi per il Covid, ma l’Anm si divide sul futuro presidente di Liana Miella La Repubblica, 8 novembre 2020 Oggi forse il voto. La sinistra di Area candida Poniz ma chiede il voto palese perché teme dissensi anche interni. Da Magistratura indipendente però arriva una pressante richiesta di “discontinuità” proprio rispetto all’ex giunta Poniz. Da una parte c’è Bonafede, che va avanti nella sua strategia anti-Covid sulla giustizia. Dall’altra c’è una nuova Anm, che dovrebbe analizzare quei testi, ed è in allarme per le indiscrezioni, ma si presenta pesantemente divisa al primo appuntamento per eleggere il futuro presidente. Una giornata tra interventi in presenza e interventi a distanza via Teams in cui si perde una mattina perfino per decidere chi debba presiedere l’assemblea, e in cui a più riprese riemerge la preoccupazione per quei due articoli che già camminano verso la Gazzetta ufficiale. In consiglio dei ministri, l’altra notte, il Guardasigilli Alfonso Bonafede non ha perso tempo e li ha fatti inserire nel decreto Ristori bis. Portano i numeri progressivi 23 e 24 e sono destinati, inevitabilmente, a rallentare ancora i tempi della giustizia. Ma di fronte al Covid non si può scherzare. Per fare i processi a tutti i costi non si può contribuire ad aumentare il numero dei contagi e dei positivi. Processi senza pm e difensori. Prescrizione bloccata - Ecco i due articoli che angosciano i magistrati. Vorrebbero che l’Anm intervenisse a giudicarli, ma l’Anm ancora non c’è. E rischia di non esserci, se oggi i 36 eletti non si mettono d’accordo, forse per un’altra settimana. L’articolo 23 del decreto Ristori bis stabilisce che, per via dell’emergenza epidemiologica, a meno che non sia necessaria una nuova istruzione del dibattimento, gli appelli contro le sentenze di primo grado saranno fatti in camera di consiglio “senza l’intervento del pubblico ministero e dei difensori, salvo che una delle parti private o il pm faccia richiesta di discussione orale o che l’imputato manifesti la volontà di comparire”. Non è certo una decisione da poco. Ma non basta. Perché l’articolo successivo, il 24, impone lo stop del corso della prescrizione e dei termini di custodia cautelare quando “l’udienza è rinviata per l’assenza del testimone, del consulente tecnico, del perito o dell’imputato in un procedimento connesso citati a comparire per esigenze di acquisizione della prova”. Ci vorrebbe una Anm nel pieno delle sue funzioni e dei suoi vertici per affrontare una discussione con il Guardasigilli su queste norme e sulle possibili conseguenze in termini di effettiva durata dei processi. Ma al momento i 36 componenti eletti tra il 18 e il 20 ottobre da 6mila colleghi - su 10mila, e questo è già un bel problema - sono bloccati dalle trattative tra le correnti per decidere il presidente, il segretario, la giunta. Il miraggio di un governo unitario - A parole tutti vogliono un governo unitario per il sindacato dei giudici. In concreto però nessuno sembra credere veramente nella possibilità di arrivare a una giunta in cui entrino tutte e cinque le correnti, o almeno tre o quattro, perché fuori resterebbero Articolocentouno di Andrea Reale e forse pure i davighiani di Autonomia e indipendenza. Al momento lo scontro tra la corrente di sinistra di Area e i conservatori di Magistratura indipendente è durissimo e si dipana lungo un’intera giornata di interventi. Che rivelano come il caso Palamara e le ormai famose chat rappresentino tuttora un veleno che guasta i rapporti all’interno della magistratura in un’astiosa guerra di accuse reciproche. Come quando Antonio Sangermano, ex pm del processo Ruby, ex Unicost che con un gruppo di transfughi ha dato vita al Movimento per la Costituzione e si è candidato dentro Magistratura indipendente, dà del “mistificatore” all’ex presidente dell’Anm Luca Poniz, primo dei neoeletti con 739 voti, che con un altolà sulla questione morale è entrato in rotta di collisione con Mi, che si è rifugiata nelle dimissioni. Ma adesso Sangermano spara a zero su tutti, contesta “un uso strumentale della questione morale per eliminare avversari”, rifiuta “un’indegna ammucchiata di potere”. Un siluro a Poniz, accompagnato da un complimento alla possibile candidata donna presidente Silvia Albano, mentre negli stessi minuti dietro le quinte s’incontrano i segretari di Area Eugenio Albamonte, di Mi Paola D’Ovidio, di Unicost Francesco Cananzi nel disperato tentativo di raggiungere un accordo. Ma quando sono le 18 e gli interventi sono finiti è fumata grigia. Quindi si va a oggi. L’Anm “ruota di scorta dei giallorossi” - Dovrebbero starci tutti. Ma tutti invece sono contro tutti. Per via di quella parola - “discontinuità” - che proprio le toghe di destra di Magistratura indipendente buttano in campo. Discontinuità da chi? Dalla politica e dal governo giallorosso? Oppure, o anche, dalla precedente giunta Poniz? Chi via via parla di quella corrente non lascia dubbi. Come Maria Cristina Ribera, pm a Napoli, che disegna un’Anm che non sia “soggetto politico” perché solo questa sarebbe “la grande forza” del sindacato dei giudici che poi “ne garantisce l’indipendenza”. Una “discontinuità” dalla politica che produce la crisi della stessa Anm dove sbaglia chi vuole occuparsi di politica dell’immigrazione. Di certo un tema caro alla sinistra di Area che scende in campo contro i decreti sicurezza. Lo dice Maria Angioni, giudice del lavoro al tribunale di Sassari ed eletta con ArticoloCentouno. Mentre il sindacato delle toghe dovrebbe puntare tutto sui “carichi esigibili”, il lavoro che si può chiedere a ciascun magistrato, quello e non altro, un totem per Mi, come dimostrano le parole di Salvatore Casciaro, consigliere alla Corte di appello di Romina, e quelle di Andrea Reale e dei suoi neo eletti. Albano o Poniz? - Ce la farà Luca Poniz oggi a diventare di nuovo presidente dell’Anm? Il segretario di Area Albamonte gioca per lui e cerca il difficile consenso di Mi. Lui, Poniz, pm a Milano, insiste sulla “questione morale”, su una battaglia “che continua aprendo una pagina nuova con regole condivise”. Poniz, che di sé dice “non ho mai cumulato incarichi”, contesta “il carrierismo associativo” (dall’Anm al Csm e viceversa). Ma non rinuncia a un’Anm che “tutela la magistratura dagli attacchi della politica”, quando la politica aggredisce chi indaga sulla politica corrotta. Lui al vertice o Silvia Albano, giudice civile a Roma, esperta di immigrazione? A chi disquisisce sulla “politicità” dell’Anm lei risponde: “Politicità vuol dire fare scelte di valore, quello che i magistrati fanno ogni giorno. Ma è anche parlare dei carichi esigibili, ed anche dei diritti fondamentali delle persone”. Certo, tant’è che, chiude Albano, “l’Anm viene convocata nella commissione Giustizia di Camera e Senato per esprimere il parere sulle leggi”. È possibile una giunta unitaria? “Di fronte a una situazione drammatica” secondo lei è possibile. Una giunta che “avrebbe la responsabilità grandissima di ricostruire la fiducia sulla magistratura tutta. Ma l’unità deve partire da un’assunzione di responsabilità. Elena Paciotti diceva che l’unanimità non è unanimismo. Abbiamo idee diverse, ma se il comitato direttivo centrale è forte, un confronto sulle idee è possibile”. Vedremo se oggi ce la faranno a superare gli steccati. Appello cartolare e custodia cautelare “allungata”, gli avvocati: “Così muore il giusto processo” di Simona Musco Il Dubbio, 8 novembre 2020 Ecco le misure previste dal dl Ristori bis per la Giustizia. Appello senza l’intervento di pm e difensori. E, ancora, sospensione del corso della prescrizione e dei termini di custodia cautelare nei procedimenti penali nel periodo di emergenza, onde evitare estinzione del processo e gente fuori dal carcere “prima” del tempo. Sono queste le due misure relative alla giustizia previste dal decreto Ristori bis. Una notizia che l’avvocatura accoglie come “la soppressione del giusto processo”, con il processo d’appello ridotto ad un semplice passaggio di carte, nonostante la prevista facoltà di chiedere la discussione orale, che in assenza di norme tecniche sarebbe, di fatto, “impossibile”. All’articolo 10 il dl stabilisce che fino alla fine dell’emergenza e fuori dai casi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, la decisione sugli appelli proposti contro le sentenze di primo grado si procederà in camera di consiglio “senza l’intervento del pubblico ministero e dei difensori, salvo che una delle parti private o il pubblico ministero faccia richiesta di discussione orale o che l’imputato manifesti la volontà di comparire”. Almeno entro dieci giorni prima dell’udienza, il pm dovrà trasmettere le proprie conclusioni alla cancelleria della Corte d’Appello per via telematica o attraverso sistemi “che saranno resi disponibili ed individuati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati”. Dopo la ricezione, la cancelleria invia l’atto ai difensori delle altre parti che almeno cinque giorni prima dell’udienza potranno presentare le conclusioni con atto scritto, sempre per via telematica. La richiesta di discussione orale va formulata per iscritto dal pubblico ministero o dal difensore entro 25 “giorni liberi” prima dell’udienza, stesso termine stabilito per la richiesta dell’imputato di partecipare all’udienza. Ma ciò, contestano gli avvocati, entra in conflitto con il termine previsto per la notifica della citazione in appello, che è di 20 giorni. Sono escluse da tali disposizioni e udienze fissate entro 15 giorni dall’entrata in vigore del decreto. Dal sedicesimo al trentesimo giorno, la richiesta di discussione orale o di partecipazione dell’imputato all’udienza potrà essere formulata “entro il termine perentorio di cinque giorni dall’entrata in vigore del presente decreto”. Tali misure, stando alla relazione illustrativa, hanno il fine di “diminuire gli accessi fisici negli uffici giudiziari e nelle relative cancellerie e di consentire lo svolgimento dell’attività giurisdizionale nel grado di appello, notoriamente il più critico per l’accumulo di arretrato”. E ciò prevedendo la “cartolarizzazione” dell’udienza, così come già sperimentato in Cassazione. “È comunque salvaguardato il diritto delle parti”, si legge nella relazione. Una convinzione che, di sicuro, non trova d’accordo gli avvocati. Ma il decreto prevede anche che, fino alla fine dell’emergenza, “i giudizi penali sono sospesi durante il tempo in cui l’udienza è rinviata per l’assenza del testimone, del consulente tecnico, del perito o dell’imputato in procedimento connesso i quali siano stati citati a comparire per esigenze di acquisizione della prova, quando l’assenza è giustificata dalle restrizioni ai movimenti imposte dall’obbligo di quarantena o dalla sottoposizione a isolamento fiduciario”. Per lo stesso periodo sono sospesi pertanto anche il corso della prescrizione e i termini di durata massima della custodia cautelare. La ratio è quella di salvaguardare “le esigenze poste alla base delle misure di custodia cautelare applicate agli imputati contro il rischio di estinzione del reato di prescrizione o, rispettivamente, di decorso dei termini massimi di custodia cautelare per il caso in cui il giudizio subisca una battuta d’arresto, nello svolgimento dell’attività istruttoria, per l’impossibilità di acquisire una prova cui debba partecipare una persona (testimone, consulente tecnico, perito o imputato in procedimento connesso) la cui assenza sia giustificata dalle restrizioni agli spostamenti imposte dall’obbligo di quarantena o dalla sottoposizione a isolamento fiduciario in conseguenza delle misure urgenti in materia di contenimento e gestione della emergenza epidemiologica”. Insomma, se stanno in carcere un motivo ci sarà. Ed è meglio non evitarlo. Prescrizione e termini di custodia cautelare rimangono dunque sospesi “per un periodo di tempo pari a quello stabilito per il correlato giudizio penale”. Il differimento dell’udienza non potrà avvenire, comunque, oltre il sessantesimo giorno successivo al limite imposto agli spostamenti, “dovendosi avere riguardo in caso contrario, agli effetti della durata della sospensione del corso della prescrizione e dei termini di durata stabiliti per la custodia cautelare. I periodi di sospensione di cui si è detto sopra non devono essere computati nei termini di durata massima di sospensione della custodia cautelare. Il tutto con lo scopo “di salvaguardare l’accertamento processuale dal rischio di estinzione del reato per prescrizione ed evitare il decorso dei termini massimi di custodia cautelari degli imputati, facendo in modo che il giudizio non subisca battute d’arresto nella attività istruttoria a causa delle limitazioni agli spostamenti imposte dalla normativa dettata in questa fase emergenziale”. La giustizia civile aveva fatto passi avanti grazie all’emergenza, ora rischia di tornare indietro di Francesco Carraro Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2020 Non tutti gli effetti primari o secondari del Covid-19 sono negativi, o addirittura disastrosi. In taluni limitati casi, in certi particolari settori, si sono registrate delle conseguenze paradossalmente positive. Parliamo, per esempio, dell’universo “giustizia” e, per la precisione, del “pianeta” della giustizia civile. Come arcinoto, uno dei problemi endemici in materia è rappresentato, in generale, dalla lunghezza e dalla lentezza dei processi. Più in particolare, tutti gli operatori del settore - in primis, ovviamente, gli avvocati - sanno bene che non solo sono “lenti” e “lunghi” i procedimenti civili, sono anche lentissime e lunghissime le mattinate trascorse nell’asfittica anticamera di un’aula o nell’angusto corridoio di accesso alla stanza del magistrato di turno. Laddove clienti, difensori, testimoni si accalcano in paziente attesa del dipanarsi degli eventi. O, per meglio dire, della “chiama” dei processi: una quantità di cause fissate tutte lo stesso giorno, tutte alla stessa ora, tutte nello stesso luogo. E che si svolgono, nella migliore delle ipotesi, seguendo l’ordine del cosiddetto “ruolo generale”; nella peggiore, in base all’atavico principio secondo cui chi prima arriva meglio alloggia, mentre gli altri si mettono in coda. Con una precisazione doverosa e di “non poco momento”, come usa dire in gergo legale per indicare le cose di non lieve importanza: sovente, tali udienze si riducono a due-minuti-due di botta e risposta in cui vengono verbalizzate frasi di “quattro” parole tipo: “si precisano le conclusioni come in atti”; oppure: “si insiste per l’accoglimento delle istanze”. Ebbene, tutto ciò avveniva in Italia nel periodo che potremmo definire a.C.: ante Covid. Oggi, invece - nell’era pandemica e venuta meno l’iniziale sospensione di ogni attività processuale - gli avvocati civilisti si sono risvegliati in un mondo nuovo. Un mondo che non rassomiglia affatto a quello precedente e che, per tanti aspetti, sembra miracolosamente migliorato. Giunti all’appuntamento con il giudice, ci si trova di fronte a uno scenario capovolto: dal pieno (di locali gremiti) al vuoto (di stanze spopolate), dal caos vociferante di prima al silenzio ordinato di adesso, dal pressappochismo di un orario (quasi) mai rispettato alla puntualità svizzera dell’ora stabilita. A questo punto, due considerazioni si impongono. Una riguarda il passato, un’altra il futuro. Da un lato, infatti, ci si dovrebbe chiedere perché ora funziona un sistema così “civile”, logico e razionale di organizzare, e tenere, i processi; e perché, invece, “prima” ciò non accadeva. Attribuire questa “magia” alle esigenze precauzionali e di distanziamento sociale imposte dall’epidemia significa solo ammettere la pretestuosità degli alibi finora accampati per giustificare i disagi. Tipo: non abbiamo tempo, non abbiamo risorse, non si può fare altrimenti. I fatti di oggi dimostrano proprio il contrario. Evidentemente, il tempo e le risorse c’erano anche prima giacché la situazione attuale non è frutto di nuovi stanziamenti, ma solo di un diverso, e più efficiente, approccio organizzativo. Veniamo ora alla seconda considerazione, quella rivolta all’avvenire: ma è mai possibile che - nell’epoca dello streaming permanente, dello smartworking universale, di Zoom, di Skype, delle videocall di Whatsapp - i processi debbano svolgersi secondo l’unità di tempo, di luogo e di azione di aristotelica memoria? E cioè che un avvocato di Venezia sia costretto a farsi tre o quattro ore di macchina o di treno per andare a Milano o a Torino (o viceversa), magari solo per pronunciare le frasi di circostanza di cui sopra? In realtà, la giustizia ai tempi del Coronavirus ha dimostrato come queste arcaiche e farraginose modalità di espletamento delle tipiche attività forensi non siano, nella più gran parte dei casi, necessarie. Basta connettersi a una piattaforma on line e il gioco è fatto: i giudici e gli avvocati si vedono e si parlano, in diretta; gli uni avanzano istanze, formulano eccezioni, perorano ragioni, gli altri manifestano indirizzi, prendono decisioni, emettono ordinanze. Prevengo l’obiezione: per il resto del mondo è la norma. Lo so, ma vi assicuro che, per il mondo della giustizia civile, ha costituito una innovazione “rivoluzionaria” la possibilità di tenere udienze “da remoto” introdotta dall’art. 83, c. 7, lett. f del DL 28/2000 convertito in Legge 27/2020. Eppure, dopo la tempesta della scorsa primavera, le resistenze a questa novità sono state fortissime e si è tornati indietro. Ciò che dovrebbe costituire la (lodevole) norma è derubricato al rango di (fastidiosa) eccezione. È come se la giustizia italiana stesse aspettando la fine dell’emergenza per riprecipitare definitivamente nei suoi vizi secolari e nei suoi ritmi ottocenteschi. Sarà compito anche e soprattutto della classe forense fare in modo che ciò non accada. I praticanti avvocati contro gli annunci social di Bonafede di Giulia Merlo Il Domani, 8 novembre 2020 Il ministro ha comunicato con un post il rinvio degli esami di abilitazione I 20mila che erano in attesa delle prove scritte sono ora in un limbo e senza nessun tipo di ristoro economico. Il danno di vedersi rinviare l’esame di abilitazione alla professione forense a poco più di un mese dalle date fissate è stato grande ma in qualche modo atteso visto l’aggravarsi della pandemia. Peccato che ai praticanti avvocati sia toccata la beffa di scoprirlo da Facebook. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, infatti, ha comunicato con un post che “a causa dell’aggravamento della situazione sanitaria e la conseguente necessità di ridurre, quanto più possibile, le occasioni di diffusione del virus si impone il rinvio delle prove scritte degli esami d’avvocato programmate per il 15-16-17 dicembre”. Una modalità che ha lasciato basiti gli oltre 20mila aspiranti avvocati che hanno affidato soprattutto ai social la loro doppia frustrazione: il rinvio, ma anche la mancanza di indicazioni sul futuro. “Il rinvio dell’esame sine die non è una soluzione e, ancor di più, un errore che aggrava la condizione nella quale già ci troviamo, tardando ulteriormente il nostro ingresso nel mondo del lavoro”, scrive Vincenzo La Licata, il responsabile dell’Associazione italiana praticanti avvocati. L’esame da avvocato, infatti, è un test di abilitazione complesso che richiede una preparazione di molti mesi: prima ci sono tre prove scritte - un parere di diritto penale, uno di diritto civile e un atto a scelta tra tre tracce - poi, superate quelle i cui tempi di correzione sono di circa sei mesi, va sostenuto un esame orale su sei materie. In tempi normali, l’iter occupa quasi un anno, oltre alla preparazione: gli scritti a dicembre, gli orali cominciano in settembre e nei grandi fori possono durare anche fino a novembre e dicembre, tanto che è prassi iscriversi di nuovo all’esame nell’incertezza del superamento dell’orale. Quindi, la cancellazione delle prove scritte di dicembre senza una data di rinvio fa piombare gli aspiranti professionisti in un limbo di incertezza. Proprio questa è la contestazione: “La mancata attivazione del ministero della Giustizia il quale non ha provveduto ad adottare misure alternative al fine di consentire lo svolgimento dell’esame”. Tra le ipotesi mai concretizzate, infatti, c’era la soluzione straordinaria di non svolgere le prove scritte ma solo la prova orale a distanza di sicurezza oppure da remoto, “proprio come già previsto dal ministero dell’Università e della Ricerca per tutte le altre libere professioni” scrivono i praticanti. In uguale confusione sono anche i praticanti che hanno sostenuto le prove a dicembre 2019: la pandemia ha rallentato le correzioni degli scritti e gli esiti sono arrivati ben oltre giugno, facendo slittare l’inizio degli orali. Orali che, nonostante la pandemia, continuano a svolgersi in presenza. Arrivederci a primavera In realtà, la data di slittamento è stata ipotizzata anche se il ministro non l’ha inclusa nel suo post di Facebook. “Le prove dovevano svolgersi dal prossimo 15 dicembre ma, dalla comunicazione del governo, abbiamo appreso che saranno rinviate alla primavera del 2021”, scrive il deputato di Liberi e uguali e avvocato, Federico Conte. Che sottolinea anche un altro aspetto: ormai da tempo è in corso un dibattito per ripensare l’esame di abilitazione alla professione forense, che però non è mai culminato in una proposta concreta. Per ora, tuttavia, rimane evidente un dato: 20mila praticanti che hanno già sostenuto dei costi (i corsi di preparazione possono costare anche qualche migliaio di euro, oltre all’acquisto dei codici commentati per svolgere la prova, che costano circa 450 euro) sono bloccati. Hanno svolto due anni di pratica in uno studio, ma nessuna norma prevede che il loro lavoro venga retribuito. Alcuni avvocati garantiscono un compenso, altri un piccolo rimborso spese, moltissimi invece considerano quello dei praticanti una sorta di volontariato obbligatorio per diventare professionisti. E nessuno dei decreti ha previsto per loro un qualche tipo di ristoro economico. Professionisti a metà, tra i 26 e i 30 anni, senza un orizzonte certo. Magistratura. Fumata nera per il rinnovo dei vertici dell’Anm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2020 È stallo totale nell’Anm per il rinnovo dei vertici, a partire dal presidente. I 36 componenti del “parlamentino” delle toghe, riuniti in parte da remoto in parte in presenza nelle stanze di un hotel romano adiacente alla storica sede della Cassazione, dopo 9 ore di discussione, in parte dedicate a una surreale scelta del presidente dell’assemblea, sono ancora ben lontani dall’avere trovato una soluzione. Di certo pare ormai tramontata l’ipotesi di giunta unitaria, i nuovi entrati di Articolo 101 e Autonomia e Indipendenza per ragioni diverse, i primi sostenitori di un sorteggio per il rinnovo del Csm indigeribile per gli altri gruppi associativi, la seconda per la proposta di modifiche statutarie assai problematiche, sono fuori. Ma le 3 correnti “storiche” sono ben lontane da un’intesa. Tanto che il supplemento dei lavori di questa mattina potrebbe non essere decisivo e condurre a uno slittamento. Area, con tensioni al proprio interno su nomi e futuro del cartello, pur vincitrice delle elezioni di poche settimane fa, Magistratura Indipendente, che chiede discontinuità, e Unicost, sono prigioniere di tensioni reciproche e veti incrociati. Su Luca Poniz, di Area, presidente uscente e più votato alle elezioni, pare esserci lo “sgradimento” di MI, che invoca discontinuità per rifondare un Anm all’altezza della sfida del post Palamara; su Silvia Albano, di Area, i dissensi sono all’interno della sua stessa componente. Slittamento di sei mesi per la class action di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2020 Slitta ancora la riforma della class action. Per vedere, forse, entrare in vigore la nuova versione dell’azione di classe all’italiana bisognerà aspettare il prossimo maggio. A pochi giorni dal via, che sarebbe scattato il prossimo 19 novembre, la bozza del decreto ristori bis rinvia di altri 6 mesi l’esordio di uno dei provvedimenti più controversi del recente diritto dell’economia. Inevitabile allora il parallelo con quanto previsto su un altro fronte cruciale, quello della nuova disciplina della crisi d’impresa, dove il Codice che riscrive l’attuale Legge fallimentare è stato fatto slittare al prossimo settembre. E per certi versi le ragioni sono analoghe. Perché se il nuovo assetto della class action era già stato oggetto di uno slittamento circa un anno fa in occasione del proverbiale decreto Milleproroghe di fine 2019, motivato soprattutto con ragioni tecniche (la mancata realizzazione in tempo utile del portale telematico attraverso il quale dare visibilità alle proposte di azione di classe), ora le ragioni sembrano essere piuttosto quelle di evitare di mettere sotto ulteriore stress il sistema delle imprese che si sarebbe trovato tra poco più di una settimana a dovere fare i conti con uno strumento profondamente ripensato. La nuova class action è destinata a sostituire quella attualmente in vigore che è regolata nel Codice del consumo, dove la collocazione testimonia l’intenzione di tutelare i diritti individuali dei consumatori e degli utenti che si trovano in una condizione di omogeneità nei confronti di un’impresa. E tuttavia questa fisionomia ha probabilmente sin dall’origine determinato il flop sostanziale di un istituto che invece sul piano formale era stato presentato come assai innovativo. Nei fatti di azioni collettive andate a segno se ne sono contate ben poche; dati aggiornati al 2017, a 7 armi dall’introduzione nel nostro ordinamento giuridico, ne individuavano solo 2 concluse con risarcimenti. Un esito determinato in larga parte dall’infrangersi dei tentativi promossi soprattutto dalle associazioni dei consumatori sullo scoglio più alto, quello dell’ammissibilità e quindi dell’omogeneità degli interessi fatti valere. Con la nuova class action la titolarità passa a chiunque ritiene siano stati violati diritti (ma non interessi) individuali omogenei e per qualsiasi forma di responsabilità (per esempio quella relativa a danni all’ambiente oppure alla salute). Resta il meccanismo di opt in, cioè la necessità di una manifestazione di volontà per entrare nella classe, anche se con l’assoluta anomalia, in barba a qualsiasi rischio di soccombenza, di un ingresso nella classe anche dopo il (primo) giudizio di condanna. Con il rischio, per le imprese, di un utilizzo dell’azione come vero e proprio bancomat. Resta l’assenza del carattere punitivo, come peraltro raccomandato anche in sede europea: a poter essere ottenuta sarà sempre la condanna al risarcimento del danno. Assai contestato dalle imprese, che vi vedono un evidente volano al contenzioso, era poi stato anche il meccanismo di remunerazione degli avvocati e dei rappresentanti della classe tarato sulle adesioni e sul volume dei risarcimenti. Campania. “Il coronavirus è arrivato con prepotenza nelle carceri, bisogna svuotarle” Il Dubbio, 8 novembre 2020 L’appello del Garante dei detenuti. Preoccupa la situazione dei contagi da Coronavirus nelle carceri della Campania. Per questo motivo il Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, lancia l’allarme affinché si intervenga subito e in maniera efficace. “Grazie allo straordinario lavoro di tutti coloro che operano in ambito penitenziario, del personale sanitario e del senso di responsabilità della maggior parte delle persone detenute in questi mesi il contagio da Covid 19 nelle carceri è stato contenuto - scrive Ciambriello - In questi ultimi tempi, purtroppo, il Virus è arrivato con prepotenza nel carcere di Poggioreale, contagiando tantissimi detenuti, agenti di polizia penitenziaria e personale sanitario e socio-sanitario, così come nel carcere di Secondigliano e in misure ridotte altrove, Benevento, e Bellizzi Irpino”. “Due detenuti di Secondigliano sono ricoverati nel reparto Covid del Cardarelli - continua la lettera - un detenuto di Avellino nell’ospedale della città. I detenuti vivono una condizione di doppia reclusione e di separazione. C’è bisogno di svuotare le carceri. Il lavoro di Procure, magistrati di sorveglianza, in applicazione dei provvedimenti recenti è importante ma è poca cosa, non si trovano i braccialetti, sono necessari più magistrati di sorveglianza e cancellieri. Devono uscire subito i detenuti con patologie particolarmente gravi e con età avanzata. Le misure alternative al carcere sono la strategia giusta”. “Il Virus è tornato implacabile - continua l’appello di Ciambriello - La necessità di intervenire sul carcere si fa di nuovo pressante. La politica faccia il proprio dovere, senza demagogia, superando il populismo politico e penale. Così come il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria dichiari che carceri come Poggioreale sono una polveriera con miccia corta. È necessaria una sinergia maggiore tra amministrazione penitenziaria e sanità regionale”. “È emergenza! - conclude Ciambriello - I prossimi giorni saranno insidiosi e per questo è fondamentale la massima collaborazione tra tutti gli attori del mondo penitenziario, della giustizia, della politica e del privato sociale. Noi garanti continueremo a svolgere un ruolo di garanzia e interazione con il territorio di riferimento, qualificandoci come validi interlocutori del sistema carcerario”. Lazio. Teatro in carcere, al via il progetto “Senzaporte” a Latina, Velletri e Viterbo di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 8 novembre 2020 Ha preso il via, nella giornata di giovedì 5 novembre 2020, il progetto “Senzaporte”, giunto alla seconda edizione. All’iniziativa, promossa da King Kong Teatro con il contributo della Regione Lazio - Assessorato alla cultura per officine di teatro sociale 2020/2021, partecipano tre case circondariali: Latina, Velletri e Viterbo. Fino a giugno 2021 si terranno, negli istituti di pena, una serie di incontri, che permetteranno ai detenuti di sperimentare un cammino di training e pratica teatrale. Al termine del percorso, è prevista una performance teatrale in ciascuno delle carceri coinvolti. “La compagnia teatrale King Kong, con cui abbiamo una collaborazione di lungo corso - commenta Nadia Fontana, direttrice del carcere di Latina -, permette ai detenuti di esprimersi nel migliore dei modi. Si tratta di una esperienza molto positiva per i reclusi, pur svolgendosi in un arco temporale ridotto. Il teatro è uno strumento estremamente utile, che conduce gli interessati a un percorso introspettivo e culturale. Non può esservi rieducazione senza cultura, sono concetti interconnessi. È importante non tanto conoscere gli autori, ma che si impari il rispetto delle regole, del vivere comune anche attraverso la storia e la letteratura. I detenuti comprendono che le loro storie non sono un unicum, ma sono percorsi già battuti e che esiste una possibilità di cambiamento. Forniamo strumenti e spunti di riflessione. In questo senso il teatro è un magnifico tramite”. “Negli spettacoli finali - conclude Fontana - delle scorse edizioni, ho assistito a dei veri e propri cambiamenti, con i detenuti-attori a proprio agio sul palco”. Verona. Suicida in carcere a soli 23 anni: era uno dei rivoltosi dell’ex caserma Serena trevisotoday.it, 8 novembre 2020 Nelle scorse ore il maliano Chaka Ouattara si è tolto la vita all’interno del carcere di Verona dove si trovava in isolamento. Sequestro, saccheggio e devastazione. Erano queste le accuse che ormai dal tempo pendevano sul 23enne maliano Chaka Ouattara, uno dei facinorosi della violenta rivolta avvenuta lo scorso giugno all’interno dell’ex caserma Serena di Dosson. Ouattara, infatti, insieme ad altri migranti ospiti dell’hub aveva improvvisamente aggredito alcuni infermieri dell’Ulss 2 intenti ad effettuare i dovuti tamponi a coloro che si trovavano nella struttura, il tutto a causa del fatto che l’hub stesso si era ben presto trasformato in un importante focolaio Covid. Una volta arrestato il 23enne era subito stato portato in carcere a Santa Bona ma, come riporta “la Tribuna”, da una decina di giorni il giovane era stato spostato in isolamento all’interno del carcere di Verona. Il ragazzo, però, ha subito sofferto molto questo allontanamento dalla Marca e dagli altri arrestati di giugno, tanto da chiamare persino il suo avvocato il giorno prima di togliersi la vita nella sua cella. A determinare questo ultimo ed estremo gesto anche, forse, la difficoltà di poter richiedere gli arresti domiciliari non avendo lui un luogo dove poter risiedere e scontare un’eventuale condanna. Così, probabilmente con i lacci della sua tuta, Chaka nelle scorse ore ha deciso di farla finita senza che inizialmente nessuno si sia accorto di nulla. Proprio questo aspetto preoccupa ora il legale del 23enne che chiede al Pm incaricato di andare a fondo nella vicenda, anche solo per capire come sia stato possibile un tale gesto visto che un detenuto isolato dovrebbe essere più controllato di un detenuto ordinario”. Napoli. Covid: 30 detenuti contagiati nel carcere di Poggioreale, 2 gravi portati in ospedale cronachedellacampania.it, 8 novembre 2020 L’epidemia di Covid è scoppiata nel carcere di Poggioreale. Oltre trenta detenuti del reparto Roma risultano contagiati e sono in isolamento. Ma oggi due sono stati trasportati al Cardarelli in gravi condizioni. Avevano una forte insufficienza respiratoria. La situazione è monitorata costantemente ma si teme che possano scoppiare disordini come nel marzo scorso. Sulla vicenda e sulla situazione Covid all’interno delle carceri campane è intervenuto oggi il Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello. “Grazie allo straordinario lavoro di tutti coloro che operano in ambito penitenziario - ha spiegato Ciambriello - del personale sanitario e del senso di responsabilità della maggior parte delle persone detenute in questi mesi il contagio da Covid 19 nelle carceri è stato contenuto. In questi ultimi tempi, purtroppo, il virus è arrivato nel carcere di Poggioreale, contagiando alcuni detenuti, agenti di polizia penitenziaria e personale sanitario e socio-sanitario, così come nel carcere di Secondigliano e in misure ridotte altrove. Due detenuti sono ricoverati nel reparto Covid del Cardarelli”. Il Garante campano delle persone private della libertà ha poi aggiunto: “C’è bisogno di svuotare le carceri ma non si trovano i braccialetti. Sono necessari piu’ magistrati di sorveglianza e cancellieri. Devono uscire subito i detenuti con patologie particolarmente gravi e con età avanzata. Le misure alternative al carcere sono la strategia giusta”, aggiunge Ciambriello. “La politica faccia il proprio dovere, senza demagogia, superando il populismo politico e penale”, osserva ancora il Garante. “È necessaria una sinergia maggiore tra amministrazione penitenziaria e sanità regionale” conclude Ciambriello ritenendo “fondamentale la massima collaborazione tra tutti gli attori del mondo penitenziario, della giustizia, della politica e del privato sociale. Noi garanti continueremo a svolgere un ruolo di garanzia e interazione con il territorio di riferimento, qualificandoci come validi interlocutori del sistema carcerario”. L’Aquila. Coronavirus e carcere, al via lo screening nei drive-in di Giulia Antenucci abruzzolive.it, 8 novembre 2020 La situazione nel carcere dell’Aquila è seria ed in continua evoluzione di casi accertati positivi al contagio da coronavirus, tra poliziotti penitenziari ed un’addetta mensa, per un totale di undici, tenendo anche conto di un considerevole numero di lavoratori posto in isolamento fiduciario. Già da alcuni giorni le associazioni sindacali Cgil e Fp Cgil stanno rivendicando una dura e inarrestabile battaglia, inviando più esposti ed appelli alla Procura, Asl, Nas, Prefettura, Presidente Corte d’Appello, sindaco ed Autorità politiche ed istituzionali varie, visto il possibile rischio focolaio all’interno del penitenziario aquilano che ha portato anche alla chiusura della mensa nei giorni scorsi, e poi successivamente essere riaperta. A darne notizia sono Francesco Marrelli della Cgil dell’Aquila, Anthony Pasqualone della Fp Cgil L’Aquila) e Giuseppe Merola della Fp Cgil Abruzzo Molise-Comparto Sicurezza che, ancora una volta, evidenziano le rivendicazioni poste in essere, coinvolgendo costantemente la Direzione Generale e Sanitaria dell’Asl 1 Aquila-Avezzano-Sulmona, considerato che i poliziotti penitenziari hanno dovuto effettuare test diagnostici a pagamento presso laboratori convenzionati. Solo grazie all’apprezzabile e scrupoloso interessamento istituzionale della Prefetta dell’Aquila, nonché dell’Amministrazione Penitenziaria, sarà avviata un’attività di screening a mezzo un drive in, nei prossimi giorni ed in tre punti della Città, con la collaborazione di Esercito e Carabinieri. “Solo così, finalmente, le lavoratrici ed i lavoratori potranno essere monitorati e si potranno scongiurare eventuali alterazioni nefaste per l’incolumità pubblica e penitenziaria”, continuano i sindacalisti, “non dimenticando quanto è accaduto nei mesi scorsi in diverse Rsa e senza tralasciare il preoccupante numero di detenuti e personale vario contagiato in diversi carceri del Paese. L’apparato penitenziario generale del Paese è abbastanza vulnerabile, presentando già delle precarietà logistiche e strutturali, per cui necessita di una maggiore attenzione e salvaguardia sia per i detenuti che per gli addetti ai lavoratori, e pertanto continueremo ad essere sentinelle vigili per la tutela della difesa collettiva”, conclude Cgil e Fp Cgil senza mezzi termini. Catania. “Mi negano operazione a gamba”, detenuto in sciopero della fame La Sicilia, 8 novembre 2020 L’avvocato Domenico Acciarito che ha presentato più istanza per potere fare eseguire l’intervento. Un detenuto di 32 anni del carcere di Bicocca ha iniziato dal 4 novembre scorso lo sciopero della fame perché da mesi chiede inutilmente di potere essere sottoposto a un urgente intervento chirurgico a una gamba che lo rende invalido. Lo ha reso noto il suo legale, l’avvocato Domenico Acciarito, che ha presentato più istanza per potere fare eseguire l’operazione. “È stanco e il dolore è insopportabile - spiega il penalista - e dopo mesi e mesi a chiedere gli venga riconosciuto il diritto alla salute, sancito da Costituzione e della Cedu, ha deciso di passare a un gesto eclatante: da tre giorni rifiuta il cibo. Il detenuto, agli arresti dal febbraio scorso in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere mafia e traffico di stupefacenti, il 27 marzo del 2019 ha avuto un incidente stradale ed è stato operato per una frattura scomposta alla tibia con lesioni ai legamenti laterali. Operato gli sono stati impiantate delle placche che gli causano un deficit di estensione. Per questo, su parare dei medici, deve essere operato per “la rimozione del mezzo di sintesi” e poi avviare “subito un trattamento riabilitativo inderogabile”. “Il mio assistito - sottolinea l’avvocato Acciarito nella quarta richiesta di sospensione dell’ordinanza e la concessione dei domiciliari con braccialetto elettronico per il tempo necessario all’intervento e alla riabilitazione - continua giornalmente a sottoporsi ad antidolorifici per il dolore acuto e una struttura sanitaria pubblica per ben due volte ha certificato che le placche devono essere rimosse con urgenza. È costretto a muoversi in carcere con due stampelle”. Per questo chiede che il suo assistito venga “sottoposto ad intervento di rimozione” nell’ospedale di Lentini, dove gli sono state applicate le placche. L’ultima richiesta l’avvocato l’ha presentata lo scorso 4 novembre. Belluno. Problemi in carcere: “Chiudete subito la sezione salute mentale” newsinquota.it, 8 novembre 2020 Minacce verso i poliziotti e gli altri detenuti, violenza e furia distruttiva. Situazione nuovamente critica nella Sezione per la tutela della salute mentale del carcere di Belluno. Nei giorni scorsi un detenuto si è reso protagonista di una escalation di episodi di violenza, scagliandosi su sedie, porte, finestre e tavoli. Fortunatamente gli episodi si sono limitati alla distruzione di beni dell’amministrazione e non hanno provocato danni fisici a detenuti e poliziotti. Altissima però la tensione fra gli altri ristretti e il personale di polizia penitenziaria. Per questo, i sindacati territoriali di polizia penitenziaria tornano a chiedere la chiusura immediata della sezione per la tutela della salute mentale. Ma non solo. Robert Da Re (Cisl Fns), Giordano Morriello (Fsa Cnpp), Luisa Baschiera (Cgil Fp Pp), Luca Garrisi (Sappe), Giuseppe Ongaro (Osapp) e Pietro Falletta (Uspp), a nome di tutto il personale dei poliziotti in servizio nella casa circondariale di Belluno, chiedono l’implemento della pianta organica e anche la veloce assegnazione di altro personale e l’intervento urgente dell’ufficio tecnico del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per verificare l’idoneità della sezione. “Non sono escluse nuove iniziative di protesta se le richieste dovessero rimanere ancora una volta inascoltate - spiegano i rappresentanti sindacali -. Ricordiamo che nella casa circondariale di Belluno il personale di polizia penitenziaria è in stato di agitazione dall’ottobre 2018. Eppure, in questi due anni, non è stato preso alcun provvedimento. È palese che la struttura bellunese non è in grado di gestire particolari utenze, senza mettere a repentaglio l’incolumità psicofisica del personale di servizio. Prova ne è la delibera della Regione Veneto 793 dell’11 giugno 2019 la quale evidenza la necessità di predisporre una struttura adeguata. Delibera che non ha ancora trovato realizzazione, nonostante la sezione debba terminare la sua funzione nell’istituto bellunese alla fine del 2020 o inizio 2021”. Il personale di polizia penitenziaria di Belluno è stremato, anche a causa della forte carenza di personale, che spesso lavora sotto la soglia minima di sicurezza ed è costretto a ricoprire più posti di servizio. “I poliziotti - concludono i rappresentanti sindacali - si sono caricati dell’onere di una nuova sezione con evidenti peculiarità, senza battere ciglio e con inevitabile senso di abnegazione. Sacrifici non ritenuti tali dall’amministrazione che non sembra intenzionata a prendere in seria considerazione le problematiche che gravano fortemente sull’istituto bellunese e più precisamente sul personale che vi opera”. Latina. Protestano i detenuti, con grida e utensili battuti sulle inferriate latinapress.it, 8 novembre 2020 Grida e proteste nel carcere di via Aspromonte a Latina. Come è ben avvertibile anche dall’esterno, da cinque sere i detenuti “battono” sulle sbarre delle celle con gli utensili da cucina al grido di “libertà” anche se ancora non sono noti i motivi della protesta nell’istituto penitenziario del capoluogo. La situazione ci è stata segnalata da molti residenti della zona. Nei giorni scorsi però un detenuto è risultato positivo al Covid. L’uomo è stato posto in isolamento sanitario in una apposita sezione dove non ha contatti con altri detenuti. In via Aspromonte ci sono attualmente 151 detenuti, più del doppio della capienza ufficiale che è di 77 persone. La Spezia. Anche i detenuti per la manutenzione della città cittadellaspezia.com, 8 novembre 2020 Accordo tra il Comune della Spezia, l’amministrazione carceraria e alcune associazioni per il lavoro “extra-murario”. Il Comune della Spezia si avvràà delle attività di reinserimento lavorativo dei detenuti presso la casa circondariale della Spezia. Uno specifico programma, articolato in interventi di cura e manutenzione degli spazi urbani, sarà stilato nelle prossime settimane, ma intanto c’è l’accordo tra Palazzo Civico, l’amministrazione di Villa Andreini ed una serie di associazioni del terzo settore con ATS Isforcoop come capofila. Nel perseguire un fine rieducativo della pena, quello di far svolgere ai carcerati dell’attività lavorativa è una pratica comune e dall’efficacia provata. Queste attività promuovono il reinserimento sociale del detenuto, soprattutto quando il lavoro è extra-murario, ovvero si svolge al di fuori dell’istituto di pena. Il primo protocollo d’intesa tra Anci e il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria che promuoveva lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità da parte di soggetti in stato di detenzione risale ormai al 2012. Tra gli scopi: “l’accrescimento del senso di autonomia e responsabilità dei soggetti coinvolti; motivazioni ed interessi degli stessi verso possibili percorsi professionali futuri; migliorare la qualità della vita in carcere; aumentare la socializzazione ed allentare le tensioni prodotte dalla condizione detentiva; favorire il recupero e l’acquisizione di abilità e competenze individuali; lo sviluppo nei detenuti un senso etico di rispetto per l’ambiente e la riduzione dei rischi di recidiva”. Cura e manutenzione degli spazi urbani sono gli ambiti in cui il Comune della Spezia dispiegherà il lavoro dei detenuti. L’individuazione dei soggetti - “idonei e motivati” - spetta alla casa circondariale diretta dalla dottoressa Anna Rita Gentile. Tra le associazioni coinvolte Conform, Consorzio Agorà, Fondazione Cif Formazione, Ceis Centro di Solidarietà, Villaggio del ragazzo, Ente Forma, Il sentiero di Arianna, Golfo del Tigullio e S.E.I. C.P.T Cooperarci. L’accordo durerà un anno. Catania. Il Vangelo donato in carcere Avvenire, 8 novembre 2020 Circa 200 copie del Vangelo di Luca e vari libri di preghiera entrano in carcere a Catania. Si tratta di un’iniziativa della Caritas Diocesana che li ha donati al cappellano della Casa Circondariale di Piazza Lanza, padre Antonio Giacona, destinati alla popolazione detenuta e alle famiglie È un modo, insieme ad altri già collaudati nel periodo natalizio, per abbattere il muro della diffidenza o dell’indifferenza verso chi è recluso, e quindi per stimolare e promuovere atteggiamenti di concreta accoglienza e inclusione sociale nei loro confronti. “Nella società di oggi - afferma don Piero Galvano, direttore della Caritas etnea - constatiamo una povertà spirituale che spesso è causa della povertà materiale. Quando mettiamo Dio ai margini della nostra vita, inevitabilmente finiamo per perdere dei riferimenti fondamentali che ci conducono in condizioni di disagio. Anche per questa ragione speriamo che donare il Vangelo di Luca ai nostri fratelli detenuti possa indurre alla riflessione, alla “carità della verità”, che è un modo per dare certezza a chi altrimenti rischia di vagare senza meta”. E, in questo senso, quello di Luca è il Vangelo della misericordia che contiene parabole fondamentali dedicate al perdono e alla conversione. Arriva il decreto “ristori bis”, in attesa di un’altra emergenza di Mario Pierro Il Manifesto, 8 novembre 2020 Le misure. Due miliardi e mezzo di euro per le zone rosse e arancioni. Francesco Laforgia (LeU): “Non possiamo andare di chiusura in chiusura in attesa del vaccino. Serve un reddito universale per chi perde il lavoro”. In attesa del tris, l’altro ieri notte il governo ha varato il secondo “decreto ristori” che risarcisce imprese e terzo settore colpiti dal semi-lockdown nelle zone rosse e arancioni e stanzia un bonus baby-sitter da mille euro ai genitori lavoratori con figli costretti a casa dalla decisione di chiudere le scuole superiori, e la seconda e terza media nelle zone rosse e arancioni. Previsto un congedo straordinario con il riconoscimento di un’indennità del 50 % dello stipendio per i genitori lavoratori dipendenti. Il nuovo decreto sarà inserito come emendamento al primo “decreto ristori” attualmente in discussione in parlamento. Il suo valore è pari a 2 miliardi e 500 milioni di euro. È previsto che gli importi previsti saranno accreditati sui conti correnti a chi ha già usufruito dei sussidi nel lockdown precedente, altrimenti sarà necessario fare domanda. Il governo promette di erogare in fretta i fondi. In sostanza si tratta di un ampliamento degli indennizzati due settimane fa, a fondo perduto, con il 200% di quanto ricevuto a giugno per una lunga lista di codici Ateco: ristoranti, palestre, cinema e teatri e al 400% per le discoteche. Per chi è stato ulteriormente colpito dal nuovo “Dpcm” il contributo è aumentato di un altro 50 per cento. Il presidente del Consiglio Conte ha detto che i bonifici scatteranno da martedì prossimo. Secondo il ministro dell’economia Gualtieri i bonifici stanziati dal primo decreto ristori del 26 ottobre ha già raggiunto più di 211 mila imprese per un totale di oltre 964 milioni di euro sui 5,4 già stanziati. Il prossimo mese, in caso di prolungamento dei lockdown, o che la loro estensione in altre regioni, e comunque fino alla fine della pandemia, il governo a moltiplicare i “ristori” per una parte della perdita del fatturato, rafforzando gli indennizzi temporanei. Di emergenza in emergenza, si porrà sempre il problema di un altro decreto per coprire i danni subiti da questa o da un’altra categoria che non riprenderà l’attività “normalmente” nel periodo tra una chiusura e un’altra. Anche per questo nel “ristori bis” il governo ha istituito un fondo per compensare automaticamente le attività delle regioni che saranno interessate da future misure restrittive. Nel frattempo avverrà in maniera carsica la chiusura delle attività piccolo-imprenditoriali e la perdita del lavoro - oggi quelli precari - dopo il prossimo 21 marzo forse anche quelli dipendenti se non verrà prolungato ancora il blocco dei licenziamenti. Invisibile, aumenterà la povertà e il lavoro povero sarà ancora più povero. Continua a mancare una riforma universalistica del Welfare, di tipo strutturale, che potrebbe partire dall’estensione senza vincoli né condizionalità del “reddito di cittadinanza” a una platea potenziale di 14 milioni di lavoratori poveri, oltre ai poverissimi ai quali è rivolto oggi. I bonus per lavoratori dello spettacolo, del turismo e stagionali, e il “reddito di emergenza” previsti dal primo decreto “ristori” saranno in vigori per uno o due mesi. Dopo, saranno rinnovati, ma non saranno sufficienti per fermare l’onda della crisi. Nella pioggia di norme previste dal decreto ristori “bis” si segnalano lo stop della rata Imu di dicembre, il credito di imposta cedibile al proprietario dell’immobile pari al 60% dell’affitto da ottobre a dicembre, la sospensione dei pagamenti dell’Iva per novembre; la sospensione dei contributi previdenziali e assistenziali per novembre; rinvio del secondo acconto Ires e Irap per le attività a cui si applicano gli Indici sintetici di affidabilità (Isa). Ci sono nuove risorse per il trasporto pubblico locale: 300 milioni di euro anticipati rispetto al 2021. 340 milioni per l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali alle imprese agricole, della pesca e dell’acquacoltura, per le aziende di vino e birra. Saranno assunti a tempo determinato 100 fra medici e infermieri militari, confermati a fino al 31 dicembre di 300 medici e infermieri Inail. Rafforzati gli obblighi di pubblicità e trasparenza sui dati epidemiologici. Soddisfatti Arci e Acli per il fondo ai circoli e alle attività economiche non commerciali. Francia. Terrorismo e insulti, ora il nuovo Macron sfida l’Islam politico di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 8 novembre 2020 Le decapitazioni attuate da jihadisti e gli attacchi da parte di Erdogan mettono alla prova un presidente che non aveva fatto della laicità una sua bandiera. “Ora potrebbe fare più e meglio dei predecessori”. Emmanuel Macron è cambiato. Ci sono voluti orrori come le decapitazioni all’uscita da scuola a Conflans e nella chiesa di Nizza, e gli insulti senza precedenti del presidente turco Erdogan, per fargli prendere una posizione chiara contro un nemico, l’Islam politico, indicato come una minaccia all’esistenza stessa della République. Le moschee radicali come quella di Pantin vengono chiuse, le associazioni islamiste come BarakaCity sciolte per decreto, gli imam finanziati dalle potenze straniere (soprattutto Turchia, poi Algeria e Marocco) destinati a essere sostituiti da religiosi formati - e controllati - in Francia, le prepotenze non solo verbali dell’aspirante califfo Erdogan affrontate senza cedimenti, la difesa della libertà di espressione e delle caricature di Charlie Hebdo ribadita senza esitazioni. Eppure fino a qualche tempo fa Macron affrontava le questioni della laicità, dell’identità nazionale, del rapporto con le religioni con una apparente svogliatezza, un laissez-faire da liberale all’anglosassone quale in fondo è: il presidente francese sembrava privilegiare il multiculturalismo, quell’idea che i cittadini possano conservare diverse lealtà verso lo Stato, certo, ma anche verso la comunità religiosa di appartenenza, e pazienza se i sistemi di valori collidono. Ancora nel 2016, pochi mesi dopo gli spaventosi attentati a Charlie Hebdo e poi al Bataclan e ai ristoranti parigini, Macron sbuffava contro l’allora premier Manuel Valls e lo accusava di usare la sua “laicità vendicativa” come un’arma “contro la religione musulmana”. La pretesa rottura del giovane Macron nei confronti della vecchia politica si esprimeva anche distaccandosi dalla tradizione nazionale sulle questioni dell’identità. Non importano le tue origini o le tue credenze religiose, sarai un buon francese se adotterai i valori della République (laicità compresa): questo è quel che prevede il modello dell’assimilazione alla francese. Macron sembrava poco convinto, o comunque distratto, e nella prima parte del mandato di tutto si è occupato fuorché della minaccia dell’Islam politico. “Macron è il classico tecnocrate, l’uomo meno indicato per interessarsi a questioni di fondo come l’identità di una nazione. Ma non si possono scegliere gli eventi, ed è possibile che la Storia stia trasformando un piccolo politico, un alto funzionario senza visione, in un uomo di Stato. È un processo al quale stiamo assistendo in diretta, e devo ammettere con mia grande sorpresa che alla fine Emmanuel Macron potrebbe rivelarsi, sul tema cruciale della difesa della civiltà, migliore dei suoi predecessori”. A parlare è Céline Pina, 50 anni, ex consigliera regionale socialista nell’Ile de France, una figura molto nota in Francia da quando nel 2015 entrò in conflitto con la gerarchia del partito denunciando le frasi di inaccettabile violenza ascoltate al “Salone della donna musulmana” di Pontoise. “I predicatori recitavano tutto il repertorio islamista, ovvero gli strali contro le donne che vanno in giro senza velo e quindi sono svergognate che non possono poi lamentarsi se vengono stuprate, le minacce ai musulmani che osano dedicarsi alle attività da kuffar, miscredenti, come la musica o la danza, l’idea che le leggi da seguire non sono quelle della Repubblica ma del Corano”, ricorda Pina. Quel che le accadde rappresenta una parte significativa della storia recente della Francia. Da sempre militante e poi eletta a sinistra, Céline Pina venne messa ai margini nel partito e accusata “di fare il gioco del Front National”, l’eterna accusa utilizzata per mettere a tacere chi sottolinea i problemi. Un boicottaggio nei confronti della Francia, incrociato alle accuse da parte del leader turco Erdogan, ha attraversato il mondo musulmano: vuoti gli scaffali nei market, dal cioccolato ai formaggi. Qui un supermarket in Giordania (foto Epa/Ansa) Un boicottaggio nei confronti della Francia, incrociato alle accuse da parte del leader turco Erdogan, ha attraversato il mondo musulmano: vuoti gli scaffali nei market, dal cioccolato ai formaggi. Qui un supermarket in Giordania (foto Epa/Ansa) L’anno successivo, ormai uscita da un Ps in crisi di identità, ha scritto Silence coupable (Silenzio colpevole), un atto d’accusa contro la classe dirigente di destra e di sinistra che ha chiuso gli occhi. “Non lo avrei mai detto, ma Macron potrebbe fare molto meglio di Sarkozy o Hollande”. Sarkozy, che pure lanciò un grande dibattito sull’identità nazionale, ma allo stesso tempo allacciò legami sempre più stretti con il Qatar finanziatore dei Fratelli musulmani. Hollande che pure subì durante il suo mandato gli spaventosi attentati del 2015, “e nel momento cruciale scelse, poco coraggiosamente, la strada più facile”. Dopo quegli attentati il premier socialista Valls si fece interprete di una linea intransigente contro il terrorismo, ovviamente, ma anche con l’ideologia che lo nutre, ovvero l’islamismo politico, la pretesa dei musulmani radicali di vivere secondo regole proprie, superiori a quelle dello Stato. Valls venne accusato - soprattutto a sinistra - di attaccare così milioni di musulmani francesi. All’opposto della linea di Valls c’era quella di Jean-Louis Bianco, presidente dell’Osservatorio della laicità, organismo incaricato di sorvegliare sulle minacce ai valori della Repubblica. Samuel Paty, 47 anni, sposato e padre di un figlio, insegnava Storia, Geografia ed Educazione Civica. Durante una lezione sulla libertà di espressione aveva mostrato vignette su Maometto: è stato decapitato da un diciottenne a Conflans, vicino Parigi Samuel Paty, 47 anni, sposato e padre di un figlio, insegnava Storia, Geografia ed Educazione Civica. Durante una lezione sulla libertà di espressione aveva mostrato vignette su Maometto: è stato decapitato da un diciottenne a Conflans, vicino Parigi. Bianco ha avuto un atteggiamento ambiguo, talvolta vicino ad ambienti islamici radicali. “Valls ne chiese l’allontanamento, Hollande non lo ascoltò. Ancora una volta, tra i socialisti e nel governo fu la coerenza a perdere e la linea Bianco, accomodante, a vincere”. I perché di questa acquiescenza verso l’Islam radicale sono molti. C’è la convinzione che i musulmani siano i nuovi deboli, i nuovi proletari che la sinistra ha il dovere di proteggere come un tempo con gli operai, che sono scomparsi o votano Front National. “Ma c’è pure banalmente il clientelismo, la consapevolezza che per essere eletti alla periferia nord di Parigi occorre avere un buon rapporto con la comunità musulmana e quindi con i suoi rappresentanti più radicali”. Oggi Macron ha indicato il nemico. Che non è più il solito “lupo solitario” con problemi psichiatrici. L’uccisione del professore ha indicato che le responsabilità andavano cercate certo nel terrorista ceceno, ma anche nella campagna di odio organizzata online dal padre di una allieva. Il contrasto Macron-Erdogan è decisivo: dove vogliamo mettere il segno di separazione tra ciò che va combattuto e ciò che può essere tollerato? Secondo Erdogan, e i suoi alleati francesi fautori dell’Islam politico, ci sono da una parte pochi terroristi e dall’altra l’insieme dei musulmani che non vanno offesi con la libertà di espressione. “Secondo Macron, finalmente, bisogna combattere i terroristi e anche gli islamisti radicali, che preferiscono la sharia alle leggi dello Stato”, dice Pina. È la battaglia dei prossimi anni, molto più vasta e pericolosa, ma che Macron ha deciso di combattere. Iran. L’avvocato per i diritti umani Nasrin Sotoudeh rilasciata temporaneamente Il Dubbio, 8 novembre 2020 Al momento ignoti i motivi del provvedimento. L’attivista e avvocatessa iraniana per i diritti umani, Nasrin Sotoudeh, è stata scarcerata in via temporanea “con il consenso del magistrato responsabile delle carceri femminili”. Lo ha annunciato il sito della magistratura iraniana “Mizan Online”, senza precisare i motivi del provvedimento. Nei mesi scorsi l’avvocatessa ha iniziato un lungo sciopero della fame per protesta contro la detenzione dei prigionieri politici in Iran, interrotto a metà settembre per problemi cardiaci. Il mese scorso Sotoudeh è stata trasferita senza preavviso dal famigerato carcere di Evin, a Teheran, a quello di Qarchak, penitenziario altrettanto famigerato dove le condizioni sono anche peggiori. Secondo l’agenzia Mizan “Nasrin Sotoudeh ha ottenuto un permesso di uscita temporaneo in accordo con l’assistente supervisore della prigione femminile”. L’agenzia non ha fornito ulteriori dettagli. L’Iran ha rilasciato temporaneamente migliaia di prigionieri a causa dei timori della diffusione del coronavirus nelle carceri dei paesi del Medio Oriente più colpiti dall’epidemia. Accusata di “propaganda sovversiva”, l’attivista è stata condannata nel 2018 a 148 frustate e 33 anni e mezzo di carcere, di cui dovrà scontarne almeno 12. Sotoudeh, che assieme al marito è fra i principali attivisti iraniani per i diritti umani, si è sempre detta innocente, dicendo di aver soltanto manifestato pacificamente per i diritti delle donne e contro la pena di morte. Il 20 ottobre era stata trasferita nella prigione di Qarchak, nota per i maltrattamenti sui prigionieri politici. A comunicarlo il marito Reza Khandan, che denuncia l’ennesimo abuso ai danni della moglie. Ieri “le guardie della prigione di Evin hanno chiamato Nasrin e le hanno detto di essere pronta per il trasferimento in ospedale. Invece è stata trasferita direttamente alla prigione di Qarchak! - ha scritto sul proprio profilo Facebook - Tre settimane fa, dopo essere stata ricoverata in ospedale, è stata riportata in prigione prima di completare l’intero trattamento. Secondo gli esperti, avrebbe dovuto essere nuovamente trasferita in ospedale per un esame cardiaco urgente e angiografia, ma invece le autorità di Evin l’hanno trasferita nel carcere di Qarchak, dove le condizioni sanitarie e di detenzione sono anche peggiori del carcere di Evin”. Sotoudeh soffre di una serie di problemi di salute cronici. La prigione di Qarchak è una struttura per sole donne in una fabbrica di polli inutilizzata a sud di Teheran, nota per le condizioni antigieniche e il maltrattamento dei prigionieri politici. Nella stessa prigione si trova anche la ricercatrice dell’Università di Melbourne Kylie Moore-Gilbert, condannata nel 2018 a dieci anni di carcere per presunto spionaggio, un’accusa spesso intentata contro cittadini stranieri e con doppia cittadinanza. L’accademica è stata trasferita in prigione a luglio dopo essere stata detenuta a Evin. Fonti hanno riferito al Guardian che la ricercatrice è rimasta terrorizzata dagli agenti della struttura, con prigionieri regolarmente perquisiti e vulnerabili a focolai di malattie. Dal 22 ottobre, “un giorno triste per le donne”, dilaga la protesta in Polonia di Massimo Congiu Il Manifesto, 8 novembre 2020 Le proteste sono cominciate il 22 ottobre contro una sentenza della Corte costituzionale che inasprisce ulteriormente le già restrittive leggi sull’interruzione di gravidanza. C’è chi le ha definite le più imponenti manifestazioni polacche dalla svolta politica del 1989. Parliamo delle proteste iniziate lo scorso 22 ottobre contro una sentenza della Corte costituzionale votata a inasprire ulteriormente le già restrittive leggi sull’interruzione di gravidanza. Essa vieterebbe infatti l’aborto anche in caso di gravi malformazioni del feto. Le dimostrazioni pubbliche susseguitesi da quel giorno sono state massicce e hanno avuto luogo in diverse città del paese. Finora le donne hanno chiaramente svolto un ruolo centrale in questa mobilitazione, ne sono state ispiratrici e promotrici. La protesta però si è allargata, ha coinvolto molti giovani e assunto un carattere complesso. I manifestanti, infatti, non hanno tardato a chiedere le dimissioni del governo e si sono pronunciati a favore di una società libera dall’influenza di una chiesa capace di condizionare le scelte politiche e la vita delle donne, delle famiglie. Una mobilitazione massiccia, si diceva, che ha organizzato cortei, blocchi stradali, uno sciopero generale e picchetti nelle chiese, attaccando in questo modo la Conferenza episcopale polacca che aveva accolto con soddisfazione la sentenza. Sentenza giunta dietro richieste del partito di maggioranza Diritto e Giustizia (PiS), forza politica nazionalista e conservatrice, di quelle per cui la formula patria-chiesa-famiglia rappresenta i valori fondamentali di una popolazione sana. Va detto che dal 2015, anno dell’approdo del PiS al potere, il governo polacco si è speso per una revisione della già restrittiva legge sull’aborto. Emanata nel 1993, la stessa è senz’altro una delle più limitative esistenti in tale ambito. Essa concede infatti il diritto di aborto solo nei casi di stupro, incesto e pericolo di vita per la madre. Come già detto, la sentenza escluderebbe la possibilità di intervenire nei casi di malformazione e problemi di salute del feto, una disposizione tanto voluta dal governo che però oggi, dopo numerosi giorni di manifestazioni continue e partecipate sembra in difficoltà e ritarda l’esecuzione della sentenza. La domanda, nel momento in cui questo articolo viene scritto, è se l’esecutivo si stia davvero preparando a compiere concretamente un passo indietro. Sta di fatto che questa situazione viene già vista come un primo successo dei manifestanti che erano già scesi in piazza, soprattutto nel 2016 e nel 2018 per gli stessi motivi. Allora come oggi sono in ballo cambiamenti fondamentali per la società polacca e una maggiore possibilità di autodeterminazione femminile. C’è una società civile che si attiva per questo e si pone in contrasto con certi poteri politici ed ecclesiastici che aspirano evidentemente ad un controllo sociale in nome di codici morali considerati limitanti e unicamente funzionali all’esercizio del potere. Quello della legge sull’aborto è uno spunto di grande importanza; del resto, il carattere restrittivo della legislazione vigente nel paese ha portato a far crescere in modo continuo il numero delle donne che abortisce legalmente all’estero o clandestinamente in patria. Molte donne scelgono di andare all’estero per effettuare l’interruzione di gravidanza. Le mete principali risultano essere la Slovacchia e la Repubblica Ceca seguite da Paesi Bassi, Germania e Lituania. Per quello che riguarda invece gli aborti legali vi è da osservare che, secondo le statistiche a disposizione, nel 2019 ci sono state 1.100 interruzioni di gravidanza, la stragrande maggioranza delle quali dovute a malformazioni del feto, cioè proprio alle motivazioni che la sentenza non ammetterebbe più come ragioni accettabili per procedere all’interruzione di gravidanza. Secondo le stime della Federazione delle Donne e della Pianificazione Familiare, un’organizzazione femminista, dal 2016 un numero di donne compreso fra 80.000 e 120.000 abortisce illegalmente in patria o legalmente all’estero. Ora si attendono aggiornamenti sulle decisioni del governo di Varsavia che, chiedendo a gran voce disposizioni più severe in materia di aborto, secondo diverse Ong a livello internazionale, ha violato i diritti delle donne. Inoltre la commissaria del Consiglio d’Europa per i diritti umani ha definito lo scorso 22 ottobre un giorno triste per le donne. Donne che in questi giorni sono state protagoniste, organizzatrici instancabili e, si spera, artefici di un cambiamento.