Intervista a Riccardo De Vito: “Sì cari giornalisti, sulle scarcerazioni non siamo pentiti” di Angela Stella Il Riformista, 7 novembre 2020 Sulle misure anti-covid dice: “Bene sfoltire le carceri, ma chi è meno pericoloso non deve proprio entrare”. Il 41bis? “Un imbuto da cui non si esce, fa bene Woodcock a contestarlo”. Allungare i permessi premio, diminuire gli ingressi in carcere, immettere risorse umane nel sistema: è questa la ricetta di Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza a Sassari e Presidente di Magistratura Democratica, per fronteggiare l’espansione del coronavirus in carcere. Ma in questa lunga intervista abbiamo anche discusso di 41bis per cui “contestarlo non significa fiancheggiare la mafia” e di comunicazione: “viva il quarto potere” ma si abbia l’onestà e la capacità di saper leggere i provvedimenti giudiziari. Dottor De Vito, in carcere i contagi sono in aumento. Il Ministro Bonafede nel pacchetto giustizia del dl ristori ha previsto delle misure per sfoltire le presenze. Qual è il suo parere in merito? Il carcere non è un luogo ermetico, al contrario. Le misure tempestivamente adottate nel cosiddetto “decreto ristori” sono un primo passo, ma serve uno sforzo maggiore. In particolare credo sia necessario ribaltare la prospettiva: non basta soltanto favorire l’accesso a misure alternative per soggetti meno pericolosi e con “poca pena” da espiare; occorre anche impedire che quelle categorie di detenuti facciano ingresso in carcere. In questa direzione si potrebbe pensare a una breve sospensione dell’emissione degli ordini di esecuzione delle pene brevi, escludendo solo alcune categorie di reati particolarmente gravi (mafia, terrorismo). È bene che si sappia che sono meccanismi in parte già sperimentati nel nostro ordinamento e che danno buona prova anche sotto il profilo della tutela della sicurezza pubblica: chi ne beneficia, nella maggior parte dei casi, sa che deve rigare dritto per avere benefici. Un vantaggio anche sotto il profilo della prevenzione del crimine. Occorrerebbe, poi, “allungare” i permessi premio, in modo da consentire a chi ne fruisce - gente che ha conseguito la fiducia dei giudici e delle forze dell’ordine - di stare più tempo lontano dal carcere e favorire l’uso dei reparti per gli isolamenti e la cura. La magistratura di sorveglianza farà la sua parte. Però così non si crea un ingolfamento nei vostri uffici considerate le troppe pratiche? Il Tribunale di Sorveglianza di Milano per esempio è al collasso... I colleghi di Milano e della Lombardia vanno ringraziati. Sono stati avanguardia in un territorio flagellato. Hanno svolto un lavoro enorme non solo per alleggerire la pressione delle presenze, ma anche per immaginare soluzioni - in accordo con il Provveditorato - che prevenissero i contagi. Ora tutti gli Uffici di sorveglianza in Italia sono in situazione di affanno: mancanza di personale - di magistratura e di cancelleria - numeri dei procedimenti che aumentano e politica che tende a scaricare la responsabilità sui giudici. Tuttavia non faremo mai venire il nostro impegno per attuare la Costituzione e fare del carcere un luogo in grado di proteggere la salute dei detenuti e di chi vi lavora. Sarebbe opportuno, tuttavia, che il decisore politico favorisse il più possibile soluzioni rapide, tali da non intasare gli uffici o, comunque, da garantire ai magistrati la possibilità di concentrare il lavoro sui detenuti. Sento parlare di liberazione anticipata speciale - è già proposta di legge: misura utile, ma per non gravare troppo gli uffici, almeno, sarebbe da bilanciare con altri tipi di provvedimenti, come la sospensione dei procedimenti nei confronti dei condannati liberi. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà personale c’è necessità di un impegno a dialogare rapidamente con il territorio affinché anche per le persone senza domicilio possano valere le nuove norme sull’esecuzione penale. Altrimenti si rischia di determinare una ingiustizia nei confronti delle fasce più deboli e di rendere ben più ristretto l’accesso alle nuove previsioni normative per un numero consistente di persone. Che ne pensa? Sono del tutto d’accordo. Purtroppo la prigione, da un punto di vista oggettivo, realizza ancora una funzione di “smaltimento” delle povertà colpevole. Molti poveri, non necessariamente stranieri (stiamo seguendo gli Usa sulla strada della crescita degli homeless), sono tagliati fuori da tutto. È necessario creare dimore sociali e favorire l’ulteriore finanziamento di un progetto della Direzione generale dell’esecuzione penale esterna e di Cassa Ammende, finalizzato a trovare risorse e posti per i senza fissa dimora. Chissà che dalla positiva sperimentazione del progetto non possa uscire una diversa filosofia della pena e dei luoghi di espiazione. Per fronteggiare l’emergenza covid il procuratore generale Salvi ha dichiarato: “Arrestate solo se necessario”. Ma il carcere come extrema ratio non dovrebbe essere la normalità? Dovrebbe, ma se il Procuratore Generale sente di doverlo specificare e di orientare culturalmente le Procure evidentemente non è così nella realtà. Non penso che ci siano pubblici ministeri cattivi, ma che la custodia spessa venga oggettivamente utilizzata per elidere le lentezze del processo. È un fatto tragico sul quale occorre riflettere. In un editoriale sul Fatto Quotidiano di ieri il pm Woodcock contesta la misura del 41bis che da eccezionale si è trasformata in ordinaria. E aggiunge “in carcere ci sono altri 60000 detenuti di cui nessuno si occupa”. Che ne pensa di un pm che esprime queste posizioni? Penso che sottolinea cose sacrosante e dimostra che la cultura delle garanzie e della giurisdizione è ancora diffusa in tutta la magistratura. In effetti, il 41bis ha un carattere che una studiosa, Angela Della Bella, aveva definito “imbutiforme”: ci entri e non ne esci. I numeri aumentano e così diventa difficile garantire un trattamento conforme agli standard richiesti dalle Corti e dalle Carte. In più, il 41bis è pensato come la scultura di Michelangelo, “per via di levare”. A forza di sottrarre diritti dal trattamento ordinario rischia di rimanere troppo poco. Una penalità simbolicamente afflittiva, inutile sotto il profilo della prevenzione. Denunciarlo non significa fiancheggiare la mafia, ma al contrario salvare il valore strategico del regime. Woodcock mette in discussione pure il sistema del pentitismo: anche questo da sistema eccezionale si è trasformato in ordinario. “Mi pento, casomai aumento i miei reati e ottengo benefici”. Quindi paradossalmente delinquo senza pagare le conseguenze. Per non parlare, aggiungo io, della fallacia di molte dichiarazioni. Qual è il suo pensiero? Il pentitismo ha fallito in Italia? Non bisogna dimenticare che si tratta di strumenti essenziali per disarticolare associazioni criminose ad alto tasso di impenetrabilità. Mi sembra, tuttavia, che su una cosa fondamentale Woodcock abbia ragione: si superino gli steccati e si discuta a tutto tondo di penalità penitenziaria e benefici premiali, di regime differenziato e di collaboratori, perché è ora che il sistema sia sottoposto a un check-up. Generalmente si pensa che l’esperienza del “pentitismo” sia tipicamente italiana; in realtà siamo debitori dell’esperienza statunitense e, più in genere, dei sistemi di common-law, legati a una visione contrattualistica della premialità. Anche in quei Paesi sono nati problemi - dal ritorno al crimine ai depistaggi - e si sono resi necessaria accorgimenti: maggiori verifiche per la concessione della protezione e dei benefici, maggiore attenzione alle revoche, differenziazione degli strumenti investigativi e via dicendo. Credo che un approccio pragmatico e critico, senza estremismi e atteggiamenti preconfezionati, sia quello più appropriato. intanto è bene iniziarne a discuterne. A proposito di pentitismo, due giorni fa Liana Milella su Repubblica ha scritto che voi magistrati di sorveglianza non vi siete mai ‘pentiti’ di aver concesso le misure di detenzione domiciliare per motivi di salute? È una frase molte forte... Non mi scandalizzo per il linguaggio della stampa. Viva il quarto potere, sempre. Devo dire, però, che il pentimento presuppone una colpa che di certo i magistrati di sorveglianza non si sentono sulle spalle. Abbiamo tutti agito nei binari della Costituzione, dell’ordinamento penitenziario, del codice penale. E non solo quando abbiamo ammesso i detenuti a misure domiciliari per ragioni di salute, ma anche quando abbiamo lasciato in carcere i tanti condannati che agitavano quelle ragioni in modo pretestuoso. Anche questa parte della storia andrebbe fatta conoscere. In merito alla narrazione mediatica, domenica scorsa il nostro direttore Sansonetti è stato ospite di Non è l’Arena e ha difeso le decisioni dei magistrati di sorveglianza che hanno concesso i domiciliari anche ai mafiosi per motivi di salute. Per Giletti e Telese è scandaloso... Per me non è scandaloso: è imposto dalla Costituzione e dalla legge, in questa comprendendo anche il codice penale scritto a regime fascista imperante. Non credo sia possibile tornare al tempo della pena come supplizio. Aggiungo solo che se i provvedimenti giudiziari si leggessero per intero - compito che i magistrati devono facilitare con una scrittura comprensibile per tutti - tutto sarebbe più trasparente e meno strumentalizzabile. Vedi, Telese, le carceri non sono tombe di Iuri Maria Prado Il Riformista, 7 novembre 2020 Il lugubre finalismo vendicativo dei giustizialisti suppone che il detenuto debba marcire nella sua cella fino alla morte, negandogli il diritto alla cura. “E’ tutto nella legge”. Così ha detto l’altra sera il giornalista Luca Telese, discutendo con il direttore di questo giornale durante la trasmissione “Non è l’Arena”. Si riferiva alla situazione delle carceri, replicando a Sansonetti il quale, ripetutamente interrotto, tentava di ricordare come le galere siano piene di innocenti e di malati gravi gratuitamente afflitti da una detenzione che prescinde da qualsiasi esigenza di sicurezza. A questo Telese - e ai tanti che in argomento, per disinformazione o malafede, la raccontano come lui - bisognerebbe far osservare in primo luogo che il sistema delle pene e carcerario non è tutto nella legge: al contrario, è proprio tutto fuorilegge. E non per idea di qualche stralunato amico dei mafiosi che vuol liberali mettendo nel nulla la militanza antimafia dei giudici eroi e oltraggiando i diritti delle vittime (questo è il palinsesto canonico di TeleForca): piuttosto, quel sistema è fuorilegge a lume di Costituzione e per la giurisprudenza europea che fa del nostro Paese un delinquente abituale per come tratta gli indagati e i detenuti. Reclamare galera a oltranza per i “mafiosi”, pur quando il fatto di mafia è l’incostituzionale concorso esterno e pur quando il mafioso è un relitto devastato dalle metastasi, rappresenta un modo appena più ripulito per dire che devono marcire in galera: una sostanza uguale anche se non la si mette in slogan; una concezione che prende tutti: dall’ex ministro leghista, che almeno la dice chiara e tonda, al senatore Matteo Renzi che tenta di girarci intorno ma poi con fierezza illustra l’esemplarità della morte in carcere di Riina e Provenzano e rivendica il merito di quella macabra inflessibilità. Secondo questa concezione, non si tratta di tenerli in carcere affinché non nuocciano: si tratta di tenerceli affinché vi muoiano; devono rimanerci per giungere alla morte, con la pena che - come la tortura deve imperativamente proseguire finché un’altra vita finisce di palpitare nel chiuso di quelle tombe provvisorie. Questo lugubre finalismo vendicativo e sicario non serve alla sicurezza comune e non omaggia i diritti delle vittime: perché la sicurezza comune non è messa a rischio se un condannato muore nel proprio letto, e perché tra i diritti delle vittime, fino a prova contraria, non c’è quello di vedere un detenuto trattato come una cosa, con il carceriere che tiene in vita il recluso come il torturatore sorveglia lo stillicidio per evitare che lo spettacolo si interrompa presto. Ma esattamente questo suppone l’unanimismo giustizialista quando ringhia che “Se proprio serve può essere curato anche in carcere!”: suppone il dovere del carcere e il dovere della morte in carcere, non il dovere della cura, proprio come l’aguzzino smette per un attimo di frugare nella carne del torturato non per dargli sollievo ma per prolungare la possibilità di torturarlo. E questo schifo non è “tutto nella legge”: è tutto nei fatti, dei quali preferiamo non occuparci perché è più facile raccontare che una società minacciata dalla criminalità è provvidenzialmente protetta dallo Stato che butta le chiavi. Le parole sono importanti di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 7 novembre 2020 Ho sempre ammirato chi ha il dono della sintesi, in un Paese dove tutti straparlano di cose che non sanno; un po’ meno, invece, chi conciona senza aver letto prima quel che ancora non c’è. Così, su Repubblica del 5 novembre, a proposito della sentenza della Corte Costituzionale (la cui motivazione verrà per l’appunto depositata nelle prossime settimane) Liana Milella dà i voti, e come sempre lo fa usando l’accetta: “ha ragione Bonafede....che era ricorso a un decreto per obbligare le toghe... E hanno torto i magistrati” che, manco a dirlo (udite udite) “hanno subito ritenuto lesa la loro autonomia...”. Separato Abele da Caino, la brava giornalista ci informa che la Corte “non lascia spazio a critiche e a dubbi, né tantomeno a dubbi di costituzionalità”. Ora, detto che la Corte va difesa sempre, e che si può esser d’accordo o meno con le sue decisioni, qualcuno dovrebbe spiegare all’ispettrice Javert che quando la Corte decide non può lasciare margini di incostituzionalità, sta lì proprio per questo, ma forse bisognerebbe leggere prima di scrivere trattarsi di “un giudizio che non lascia alcuno spazio a ulteriori dubbi interpretativi”. Ancora, proseguendo nella lettura, immancabile il rinvio alla “lista”, ormai un bordereau, vero e proprio totem usato pour épater le bourgeois. Fin qui, si dirà, peccati veniali; leggere è una cosa antica, studiare e capire non usa più, e in fondo, per citare un bel libro recente, “per il tuo bene ti mozzerò la testa”. Molto più semplice additare i giudici (e gli avvocati, ma quelli son per definizione cattivi come i loro clienti, presunti tali a prescindere) come inidonei a soddisfare i bisogni punitivi avvertiti dal popolo, dovendosi invece prediligere “il massimo rigore repressivo per esorcizzare l’angoscia generata dalla criminalità incombente”, come ci ricorda Ennio Amodio. Ma quel che proprio non si può leggere, accostato a vicende di mafia, è quel passaggio in cui la nostra (laureata in filologia) accusa i giudici di non essersi mai “pentiti” per le misure concesse; lo scrive così, tra virgolette. Affermazione offensiva e peraltro dimentica del fatto che i giudici hanno applicato norme del codice (perfino di quello fascista - tale è l’art.147 c.p.), non certo le norme introdotte dal Ministro (che infatti, come riconosce l’autrice, “la concessione dei domiciliari in tutti i decreti per il Covid è sempre stata esclusa per gli autori di reati gravi, come quelli di mafia”). Nel frattempo, si crepa di Covid. Le parole sono importanti, diceva Moretti in Palombella rossa, mollando due sberle alla giornalista “non alle prime armi”. Nel nostro caso basta una smorfia, trattenendo la nausea. *Avvocato Un coraggioso Woodcock contro il 41bis di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 novembre 2020 Il pm denuncia le criticità sottaciute di un regime carcerario simile alla tortura. Su questo giornale abbiamo spesso criticato le inchieste e i metodi del pm Henry John Woodcock, che hanno in qualche caso portato all’arresto di persone innocenti sulla base di prove inesistenti (per queste critiche il magistrato ci querelò, ma tutto fu archiviato perché i fatti raccontati erano veri). A maggior ragione, è il caso di elogiare il pm napoletano per la sua presa di posizione contro il 41bis. In un intervento sul Fatto quotidiano, Woodcock scrive con lucidità ciò che tanti giuristi e garantisti affermano da tempo, sommersi da insulti e accuse di ogni tipo. Queste misure restrittive e degradanti, contrarie ai princìpi costituzionali ma accettate per contrastare la mafia in quanto straordinarie, ormai non sono più di “carattere eccezionale”, scrive Woodcock, visto che “i soggetti attualmente sottoposti al 41bis siano tanti, oltre 600, e che le proroghe sono di fatto automatiche e senza limitazioni temporali. Circostanze, queste, che lo fanno piuttosto assomigliare a un regime ‘ordinario’ per detenuti ‘speciali’ o, peggio, a una sorta di pena supplementare che viene peraltro applicata da un’autorità amministrativa, in relazione a fattispecie evanescenti e astratte come il ricorso di ‘gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica’”. Oltre a questo aspetto e al fatto che tutti i ricorsi siano di competenza esclusiva del Tribunale di sorveglianza di Roma “evocando lo spettro del Tribunale speciale”, l’altro punto importante sollevato dal magistrato è l’impossibilità di discuterne laicamente: “Mi lascia molto perplesso il fatto che in Italia chi critica il 41bis - che, per carità, entro limiti ben determinati e soprattutto se relegato all’ambito di eccezionalità per il quale era stato concepito, è pure utile e necessario in un paese come il nostro nel quale la criminalità organizzata è particolarmente aggressiva - rischia concretamente di essere additato come fiancheggiatore delle mafie”. L’intervento di Woodcock, oltre che per i contenuti, è importante per il giornale su cui è stato pubblicato: ovvero quello che ha sempre negato le gravi criticità del 41bis e trattato chiunque provasse a sollevare qualche dubbio come un fiancheggiatore della mafia. Benvenuto a bordo dottor Woodcock. Covid. “Nelle carceri un’emergenza irrisolta, 3 detenuti morti e 1.000 contagi” giustizianews24.it, 7 novembre 2020 Siamo ad oltre mille contagi nelle carceri italiane tra detenuti e personale penitenziario, con un trend di crescita spaventoso. Morti tre detenuti. Allo stato attuale nessuna misura di prevenzione per evitare il propagarsi del virus. A dichiaralo è il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria S.PP. Aldo Di Giacomo: “sono tre i detenuti morti nella seconda ondata nelle carceri italiane; uno a Livorno, uno ad Alessandria ed uno a Milano. Ad oggi sono 1050 i casi accertati di positività al Covid-19 tra detenuti e personale penitenziario, ma preoccupano gli oltre 1300 poliziotti in malattia ed in isolamento fiduciario o in attesa di tampone. Fin qui l’analisi dei dati è incontrovertibile, in 15 giorni sarà una catastrofe. Allora come mai non si passa da un regime di celle aperte a quello chiuso per evitare contatti ravvicinati? Come mai non si sospendono i colloqui con i famigliari, chiudono le scuole e tutte quelle attività non indispensabili, consentendo solo contatti Skype per una quindicina di giorni per evitare il diffondersi del virus? Sarebbero queste sicuramente norme di buon senso. Pensare di gestire tutti i detenuti contagiati nelle carceri è evidente a tutti, forse anche a Petralia e Tartaglia, che non è possibile. Ed ecco di nuovo come nella prima fase il garante dei detenuti che chiede a voce alta di rimettere in libertà quanti più detenuti possibili per evitare che si ammalino e per garantire il diritto alla salute. Il Ministro della Giustizia dal canto suo ha già provveduto a far sapere il suo pensiero con una norma che rimette in libertà tutti i residui pena non superiori a 18 mesi, con esclusione di alcune categorie, con il controllo del braccialetto elettronico. Braccialetti che, come nella prima fase in cui sono stati liberati circa ottomila detenuti, non sono sufficienti. Tutte queste indecisioni rendono chiaro il quadro politico prima che amministrativo. La mancanza di prevedimenti è una chiara volontà politica di alleggerire le carceri di migliaia di detenuti. Non può essere data lettura diversa, ma in questo caso il Ministro deve fare in fretta, come sollecitato anche dai radicali, altrimenti corre il rischio di avere altre sommosse. Noi dell’S.PP. siamo di un’altra idea: bisognava fare tutte le cose che abbiamo più volte dette, sopra riportate, perché crediamo nella certezza della pena e perché pensiamo che non sia questo il rispetto che meritano i famigliari delle vittime, abusati due volte. Lo stato deve stare senza sé e senza ma dalla parte dei cittadini e non dei delinquenti e che nessuno si stupisca quando a breve saremo costretti a fare uscire ancora i detenuti di alta sicurezza perché non sarà una necessità ma una scelta”. “Depenalizzare: ecco la riforma che salva il processo” di Errico Novi Il Dubbio, 7 novembre 2020 Sulla riforma del processo penale, la commissione Giustizia di Montecitorio ha voluto ascoltare anche gli accademici, dopo aver già incassato le critiche dell’Anm e, soprattutto, dell’avvocatura. Fermatevi, please. O meglio: fermatela. Fermate l’ordalia dei reati. Arginate la bulimia del processo penale. Lo chiedono a gran voce i giuristi. Lo hanno ribadito in un’audizione sul ddl del guardasigilli Alfonso Bonafede, svolta giovedì scorso a Montecitorio, in commissione Giustizia. Da una parte il professore della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa Tullio Padovani, tra i massimi padri della scienza processual penalistica italiana, che con impietosa, entomologica puntualità smonta gli auspici deflattivi della riforma. Dall’altra un costituzionalista che si dichiara preliminarmente portatore di “un’ottica parziale, direi diagonale, sulla materia” come Alfonso Celotto, ordinario all’università Roma Tre, che precede l’intervento di Padovani e di Serena Quattrocolo, professoressa di Diritto processuale penale presso l’università del Piemonte orientale. Ebbene, è proprio il presunto intruso Celotto a tradurre in un accorato appello il senso che in fondo si potrebbe cogliere anche nelle parole degli altri due accademici: “Il punto è che sono state attratte nella sfera del processo penale troppe fattispecie anche minori, per le quali era più che sufficiente un altro genere di sanzione. Se arriviamo a un milione e mezzo o due milioni di processi, come pure si legge nella relazione introduttiva della riforma, vuol dire che dobbiamo ridurre il numero dei reati, altrimenti non spegneremo mai l’incendio del carico eccessivo”. Dobbiamo, in una parola, “depenalizzare”. Celotto: “pene pecuniarie oltre alle multe: che senso ha?” - Ecco, la frase di Celotto, pronunciata con pacatezza, è rimbombata nella Sala del Mappamondo non solo perché a presidiarla c’erano pochissimi deputati, tra i quali il vertice della commissione Mario Perantoni, dei 5 Stelle, con gli altri collegati in videoconferenza. La sala era solenne e vuota. Ma le parole del costituzionalista si sono udite benissimo, e non possono che rievocare il vano tentativo compiuto al tavolo del ministro, quasi due anni fa, da Anm e Unione Camere penali. Furono le rappresentanze di magistrati e avvocati a proporre alcune ipotesi di riforma, solo in parte accolte nel testo varato a inizio 2020 in Consiglio dei ministri, e a sollecitare anche ampi interventi di depenalizzazione. Alla fine l’ipotesi non ha retto alla prova dell’intesa politica e ne sono sopravvissute pochissimi riverberi sul fronte della nuova disciplina delle contravvenzioni, peraltro minuziosamente destrutturata dalle critiche di Padovani. L’ordinario di Diritto costituzionale a Roma Tre, da giurista di estrazione eterodossa, fa notare cose semplicissime: “Ci sono fattispecie in materia ambientale e urbanistica già sanzionate sul piano amministrativo a cui, per creare un’ulteriore deterrenza, si aggiunge anche la responsabilità penale. Ma anche considerato che poi la sanzione penale è un’ammenda, cioè un’ulteriore sanzione economica, non si spiega il motivo per cui si debbano andare a ingolfare le sezioni penali dei Tribunali. Prima ancora della procedura”, è la inevitabile raccomandazione di Celotto, “andrebbe dunque modificato il codice penale. Se io commetto un piccolo abuso edilizio, la sanzione di una forte multa e della demolizione è già molto persuasiva”. Padovani sottopone, senza pietà, i propositi deflattivi ai raggi X - Padovani è il primo processual penalista a essere divenuto accademico dei Lincei. Intanto contesta la cosiddetta “indicazione delle priorità, fra i reati, che dovrebbe essere avanzata dagli uffici di Procura con una serie di consultazioni e criteri, fra cui persino la dotazione di strumentazioni tecnologiche. Cosa vuol dire, che se in quell’ufficio non ci fossero mezzi abbastanza evoluti per poter contrastare i reati informatici e per questo si decidesse di non inserire quelle fattispecie in cima alla gerarchia dei delitti da perseguire, i criminali informatici sposteranno i propri interessi tutti in quel distretto? Ma è assurdo”. Padovani ha una prosa fiammeggiante che annichilisce i deputati, nessuno dei quali alla fine, osa porgergli quesiti. Si sofferma anche sul “corto circuito che si rischia di creare fra le cosiddette priorità e la neo-introdotta disciplina dei termini per le indagini preliminari, ora presidiati anche da sanzioni disciplinari a carico del pm che non li rispettasse: ci troveremo dunque con magistrati inquirenti che da una parte avranno relegato in fondo alla graduatoria delle urgenze tutta una serie di materie, destinate quindi a finire sul binario morto della prescrizione; dall’altra però ci sono le sanzioni e dunque la necessità di chiudere tutto. Se la storia delle priorità voleva essere una disciplina surrettizia della prescrizione, mi pare che si sia riusciti a creare un meccanismo esplosivo”. Da instancabile sostenitore delle battaglie dei penalisti (categoria di cui pure fa parte), Padovani sollecita il Parlamento ad affrontare casomai “il nodo vero, quello dell’obbligatorietà”. Poi però indaga sulle zone grigie della materia, e in particolare sugli interventi, previsti nel ddl penale, relativi alle pene pecuniarie: “Si rischia di perdere l’occasione sulla cosiddetta pena pecuniaria per tassi”. Eppure, anche grazie al lavoro svolto dallo stesso Padovani nell’89 come consulente di via Arenula, “un po’ di strada si era fatta: per esempio con l’articolo 459 comma 1 bis sul decreto penale. Dobbiamo arrivare a una vera mutuazione, dal modello portoghese, del meccanismo per cui si sostituisce la pena detentiva con una pecuniaria moltiplicata per il numero di giorni di carcere altrimenti sofferti, ma calibrata in ragione delle reali possibilità economiche del soggetto. Con la riforma attuale”, avverte Padovani in commissione Giustizia, “sapete cosa avverrebbe? Che una pena pecuniaria sostitutiva dell’arresto passerebbe da 45mila a 32mila euro: ma a che serve? Sono sempre troppi, per un poveraccio. Bisogna tenere conto di quello che realmente può pagare”. Poche attenuanti, da Padovani, anche per l’articolo 10 della riforma, relativo alle contravvenzioni, in cui il tentativo di rendere la sanzione pecuniaria concorrenziale con quella detentiva gli pare “confuso e non facilmente interpretabile: le norme esistenti sono più vantaggiose. Se si vuole snellire il sistema penale serve altro”. Serve l’archiviazione di un totem, quello del panpenalismo. Che invece ancora una volta sembra aver schiacciato sotto i propri piedi gli auspici di chi avrebbe voluto depenalizzare, prima ancora che riformare il processo. Albano, una donna per ridare forza all’intesa tra Anm e Cnf di Errico Novi Il Dubbio, 7 novembre 2020 Oggi il “parlamentino” delle toghe elegge il nuovo presidente: la difficile sfida della giudice di area. È difficile fare previsioni. Sarà una riunione tesa, tutta condotta sul filo di una tensione che può spezzarsi e deragliare nel frazionismo. Oggi, tanto per intenderci, il neoeletto direttivo dell’Anm si insedierà e potrebbe subito trovarsi sull’orlo di una scissione. Area vanta una non-maggioranza. I propri “seggi”, 11, si sommeranno ai 7 di Unicost: in tutto fanno 18 sui 36 del “parlamentino”. Parità assoluta, e possibilità di eleggere il nuovo presidente sospesa alle decisioni dei 4 eletti di Autonomia e indipendenza, la componente di Davigo ormai priva del leader. Dall’altra parte il blocco formato da Magistratura indipendente, uscita bene dal voto dello scorso 20 ottobre: oltre 1600 voti, un centinaio in meno di quelli di Area, e staccata di un solo seggio dal gruppo progressista: 10 eletti. “Mi” è arricchita dalla presenza dei magistrati di Movimento per la Costituzione, con i quali ha fatto lista unica. Ci sono inoltre i 4 seggi di Articolo 101, il gruppo antisistema e anti-correnti, poco incline a coalizzarsi con chicchessia. Come se ne esce? Dipende dai davighiani, sì, ma dipende anche dai nomi messi in campo. E il più serio e plausibile individuato nelle silenziose trattative delle ultime due settimane e mezza è quello di Silvia Albano. Eletta con Area, e con moltissimi voti, superata solo dal presidente uscente Luca Poniz - che “Mi” non intende rivedere al vertice dell’Associazione. Ce la farà Albano, giudice civile a Roma, e soprattutto, espressione autentica dell’anima più culturalmente impegnata di Area, ossia Magistratura democratica? Lei ha presentato una piattaforma implicita in un articolo pubblicato alcuni giorni fa su Questione giustizia, la rivista di “Md”, intitolato come una mano tesa: “L’Associazione Nazionale Magistrati di fronte alla sfida dell’unità”. Ma tra gli argomenti in suo favore, ce n’è uno che, imprevedibilmente, potrebbe sciogliere il ghiaccio di “Mi” persino più che i dilemmi di Autonomia e indipendenza: la consolidata sintonia col mondo dell’avvocatura. L’idea, coltivata da Albano, del dialogo necessario con la professione forense. Nell’aprile 2017 la giudice è stata, insieme con l’allora presidente Eugenio Albamonte, la prima rappresentante di una giunta Anm a intervenire a un plenum del Cnf. Fu un evento straordinario. E forte. Vi si posero parte dei pilastri sui quali si regge oggi l’aspirazione dell’avvocatura al riconoscimento costituzionale. Perché di quell’incontro con l’istituzione forense, i due dirigenti dell’Associazione magistrati condivisero la prospettiva: se l’avvocato è in Costituzione non indebolisce ma casomai rafforza anche l’indipendenza dei magistrati, perché dell’ordine giudiziario diventa in modo ancora più chiaro la sola vera controparte. La professione forense verrebbe cioè riconosciuta nella propria funzione di coprotagonista della giurisdizione, e allontanerebbe soprattutto il rischio di insidie, da parte della politica, per l’autonomia della giurisdizione stessa. Un disegno chiaro. Ora, non si può escludere possa essere anche questo il granello di sabbia in grado di scardinare l’ingranaggio che separa la visione solidaristica e protettiva di “Mi” da quella “politica” e impegnata di Area. Perché sul fatto di dover respingere l’ingerenza del potere politico, sono tutti e due d’accordo. Anzi, ogni tanto è “Mi” che accusa Area di indulgere in un collateralismo coi partiti di centrosinistra. Dietro l’angolo in realtà ci sono le pretese del governo di assoggettare i magistrati alle sanzioni per “tardività”, inserite nel ddl penale. Una Anm battagliera e convinta nel dire no a tale ipotesi potrebbe ritrovarsi davvero unita. E la prima donna presidente dell’Anm 26 anni dopo Elena Paciotti potrebbe essere il segreto per un esito in apparenza irraggiungibile. L’Anm verso una giunta unitaria, ma c’è l’incognita del presidente di Giulia Merlo Il Domani, 7 novembre 2020 È arrivato il momento della verità per l’Associazione nazionale magistrati. Il sindacato delle toghe oggi sceglie l’assetto per i prossimi quattro anni: se con una giunta unitaria con rotazione dei presidenti come in parte è stato dell’ultimo mandato, oppure se tornerà l’uomo forte sostenuto da una maggioranza (come fu il quadriennio di Luca Palamara). Il Covid ha reso più complicata la scelta: l’assemblea si riunirà sia in presenza che in remoto per chi non può spostarsi dalle zone rosse. Se inedita è la modalità con cui si esprimeranno i 36 eletti, anche gli schieramenti sono ancora incerti. Questi giorni sono stati fitti di riunioni e telefonate incrociate, ma nessuno entrerà in sala già eletto presidente. Per ora, l’unico asse chiaro è quello tra Area, il gruppo dei progressisti, e le toghe centriste di Unicost: il primo è il gruppo più votato con 11 rappresentanti; l’ex corrente di Palamara ne conta 7. Una giunta espressione di tutti e cinque i gruppi è impossibile perché Articolo 101, la lista dei 4 eletti “anti-correntisti”, ha fatto sapere che entrerà solo in una giunta che accoglie in blocco il suo programma, compreso il sorteggio per il Csm. Richiesta irricevibile, soprattutto per Area e Unicost. Autonomia e indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo che conta 4 eletti ha scelto la neutralità: ascolterà i programmi e farà l’alleanza sulla base di quello. “Le nostre priorità sono la gestione dei tribunali durante il Covid e la tutela delle condizioni di lavoro. L’Anm va riformata, rompendo i meccanismi deleteri che la rendono un centro di potere relazionale, come è stato per Palamara”, dice uno di loro. Anche i moderati di Magistratura indipendente, con 10 eletti, sono in attesa del confronto ma l’auspicio è quello di una giunta unitaria. “La speranza è che il dibattito porti a una sintesi tra tutti i gruppi, con una convergenza su un programma comune - dice la segretaria Paola D’Ovidio - non abbiamo preclusioni, ma chiediamo netta discontinuità rispetto al passato, perché l’Anm recuperi la fiducia dei colleghi e torni a occuparsi di ordinamento giudiziario e delle problematiche del settore giustizia”. La presidenza Dal dibattito, dunque, uscirà anche il presidente che meglio incarnerà l’orientamento - unitario o meno-del nuovo comitato direttivo centrale. Nel rispetto dell’esito del voto, anche in una giunta unitaria la prima presidenza spetterebbe ad Area. Il primo degli eletti è il presidente uscente, Luca Poniz, che punterebbe a riconfermarsi al vertice. Ad avversarlo, però, ci sono spinte soprattutto esterne. Nei suoi confronti esiste una forte preclusione da parte di Mi, che ha chiesto discontinuità rispetto al vecchio corso. Proprio da Poniz, infatti, Mi è stata messa all’angolo come corrente più compromessa con lo scandalo Palamara. Anche all’interno di Area, inoltre, il fronte non è compatto e una parte del gruppo è stata critica rispetto alla gestione egemonica dei vertici. A rendere incerte le sorti dell’elezione è anche il deciso ricambio dei neoeletti nel comitato direttivo centrale. Molti volti nuovi e moltissime donne: per la prima volta sono la metà delle elette, rispecchiando la composizione di genere in magistratura. Proprio questo dato trasversale ai gruppi potrebbe essere un segnale che, vista la mancanza di un nome unitario, i tempi possano essere maturi per una presidenza femminile dopo l’unica, negli anni Novanta, di Elena Paciotti. In questo senso, un nome possibile sarebbe quello della seconda eletta per numero di preferenze, Silvia Albano. Storica esponente di Magistratura democratica e al secondo mandato in Anm, si è dimessa dalla giunta Poniz in contrasto con la scelta del presidente di non sciogliere il sindacato e convocare elezioni anticipate dopo lo scandalo Palamara. Uno strappo che - in una nota dal titolo “L’Anm di fronte alla sfida dell’unità” dove fa un bilancio dell’attività del sindacato - Albano definisce “sofferto” ma giustificato “dall’impossibilità di dare un contributo utile”. Al netto dell’esito, oggi la nuova Anm post scandalo Palamara sarà formalmente insediata e nel dibattito si definiranno anche i primi orientamenti rispetto alle scelte del ministero della Giustizia: dalla riforma del Csm alla gestione dei tribunali durante la pandemia. Esame da avvocato rinviato, e la riforma ancora non c’è di Francesca Sabella Il Riformista, 7 novembre 2020 Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha deciso: l’esame di avvocato è stato rinviato. Stop alle prove scritte, mentre si svolgeranno le prove orali per i candidati che hanno superato i primi test l’anno scorso. “L’aggravamento della situazione sanitaria - ha scritto il guardasigilli sul suo profilo Facebook - e la conseguente necessità di ridurre, quanto più possibile, le occasioni di diffusione del virus impongono il rinvio delle prove scritte degli esami d’avvocato programmate per il 15, 16 e 17 dicembre”. “Al momento - scrive ancora Bonafede - sembra ragionevole ipotizzare che la prova si possa tenere nella primavera del 2021. Per coloro che hanno superato gli scritti svolti nel 2019, invece, le prove orali proseguiranno perché è possibile, al momento, implementare modalità che garantiscano la sicurezza e la salute dei candidati e dei membri delle commissioni”. A Napoli le problematiche dell’accesso alla professione forense, a cominciare dalle prove d’esame per finire con le successive correzioni, sono da mesi al centro del dibattito. Anche perché il capoluogo partenopeo, l’anno scorso, si aggiudicò la maglia nera: riuscirono a superare la prova scritta solo 1.345 candidati, mentre i bocciati furono 2.456. Con il 31% di ammessi alla prova orale, Napoli si confermò tra le peggiori d’Italia. E proprio in questi giorni, accantonate le polemiche sulla struttura dell’esame, gli aspiranti avvocati, attraverso petizioni online e lettere al ministro, avevano chiesto di non rinviare la prova per evitare che migliaia di aspiranti avvocati rimanessero nel limbo. Appresa la notizia del rinvio, i praticanti hanno sottolineato le loro ragioni e le loro richieste. “Chiediamo in modo univoco maggiore specificazione delle date in cui si svolgeranno gli esami e, soprattutto, delle tempistiche legate alla correzione degli elaborati. Ciò al fine di non coinvolgere la sessione di dicembre 2021 che si spera preveda già l’applicazione di una riforma che garantisca il prestigio della professione”: la nota, firmata da Claudia Majolo (Upa), Giuseppe Marinaro (Apra-Palermo) e Giordano Bozzanca, attende ora una risposta dal Ministero di via Arenula. A rischio una generazione di nuovi avvocati, per il virus saltano gli esami di abilitazione di Viola Giannoli La Repubblica, 7 novembre 2020 Rinviate dal ministro Bonafede le prove previste a dicembre per l’aggravarsi dell’epidemia. Vanno avanti le interrogazioni in presenza ma le commissioni saltano di continuo per malattia o quarantene. L’accesso alla professione diventa un rebus. Studenti e associazioni: “Prova unica a distanza come per altre categorie per garantire salute e lavoro”. Commissioni decimate, sessioni saltate, scritti rinviati. Quest’anno il cammino per diventare avvocati è un percorso a ostacoli, avvolto nella nebbia. E per i quasi 25mila giovani che ogni anno si presentano alle sessioni di abilitazione la fine del tunnel è ancora lontana. Non solo. Perché tra ritardi e pandemia il rischio è che si crei un imbuto e l’accesso alla professione resti bloccato per un paio di anni. Per spiegare meglio: gli esami scritti per l’abilitazione forense previsti per il 15, 16 e 17 dicembre sono stati stoppati causa Covid. Una nuova data ancora non c’è, ma la prova si terrà, nel migliore dei casi, la prossima primavera. Ad annunciarlo, dopo il Dpcm che ha provvisoriamente diviso l’Italia in tre e stabilito lo stop a tutti i concorsi ad eccezione di quelli per le professioni sanitarie, è arrivata ieri una comunicazione (attesa da settimane) del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. “L’aggravamento della situazione sanitaria e la conseguente necessità di ridurre, quanto più possibile, le occasioni di diffusione del virus impongono il rinvio delle prove scritte degli esami d’avvocato” ha scritto su Facebook. “Mi dispiace dover dare questa comunicazione ai tanti aspiranti avvocati che si apprestano ad affrontare questa importante tappa della vita professionale” ha aggiunto il ministro, giustificando i ritardi nelle comunicazioni con la necessità di prendere “il tempo necessario per vagliare e confrontare tutte le possibili soluzioni (compresa quella di una maggiore parcellizzazione degli esami) che permettessero di evitare lo slittamento”. Tuttavia, conclude Bonafede, ““di fronte all’evoluzione del quadro epidemiologico, il rinvio rappresenta purtroppo una scelta obbligata supportata anche dal ministero della Salute”. Anche se il Dpcm sospende le prove, per ora, solo fino al 3 dicembre, il ministro ha voluto chiarire come “le esigenze logistiche e organizzative non consentono di attendere oltre, anche per venire incontro alle esigenze di programmazione di chi deve sostenere l’esame”. In molti, infatti, si erano già pre-iscritti, versando la quota di partecipazione, pronti ad affrontare la prova. “Per cercare di ridurre i tempi della procedura - si legge ancora nel post - il Ministero sta già lavorando a tutte le soluzioni organizzative che possano consentire di accelerare la correzione delle prove scritte e diminuire quanto più possibile gli effetti di questo rinvio”. Già perché solitamente tra i test a penna e gli orali passano 7-8 mesi. In questo caso dunque si sovrapporrebbero agli scritti della sessione di Natale 2021. Un bel caos: l’accesso alla professione rischia di fatto di restare impantanato per due anni, facendo perdere tempo prezioso (e reddito) a chi ha terminato da mesi il tirocinio. “Rinviare le prove significa posticipare l’abilitazione dei candidati che concludono la pratica nel corso del 2020 e, a strascico, ritardarne l’iscrizione all’albo che, anche in considerazione delle conseguenze economiche dell’emergenza pandemica, pare suscettibile di rappresentare un significativo pregiudizio per gli aspiranti avvocati” commenta il Consiglio nazionale forense. Ma non è tutto. Perché se è vero che lo stesso Dpcm e l’annuncio del ministro hanno dato semaforo verde agli orali della scorsa sessione che possono dunque proseguire, anche qui il cammino è tutt’altro che lineare. Chi è stato infatti allo scritto dello scorso dicembre ha iniziato il secondo step dell’esame in ritardo di 15 giorni o addirittura un mese, a inizio ottobre. Così a Roma, Napoli, Milano, ad esempio. Da allora gli appelli vanno avanti a singhiozzo tra date rinviate, prove ancora non ricalendarizzate, candidati scavalcati, comunicazioni latitanti. Decine di sottocommissioni sono state decimate dal Covid, dalle quarantene, da isolamenti precauzionali, dall’indisponibilità di avvocati o magistrati fragili e dunque impossibilitati a partecipare, dai sostituti che non si trovano. Ancora oggi alla Corte di appello di Roma gli orali sono stati annullati e ai candidati la comunicazione è arrivata con sole tre ore di anticipo. Tante le voci che, dentro e fuori dal Parlamento, si sono levate per chiedere una prova a distanza. A cominciare dal Consiglio nazionale forense che il 28 ottobre scriveva a Bonafede: “Laddove non sia possibile garantire un corretto esame orale in presenza assicurando il necessario distanziamento dei candidati, impedendo l’accesso agli accompagnatori, calendarizzando l’esame ad orari differenziati, sanificando gli ambienti, si rende necessaria una proroga che autorizzi lo svolgimento della prova orale da remoto oltre a quanto già previsto dal decreto Rilancio”. E ancora, le associazioni come Inoltre-Alternativa Progressista, Libera e Giovane Avvocatura, l’Associazione italiana praticanti avvocati, l’Unione praticanti avvocati, Giovane avvocatura e Apra Palermo, che propongono “una soluzione di buon senso” ovvero “l’orale abilitante a distanza, non per facilitare alcunché bensì per garantire ai candidati e alle rispettive famiglie il diritto alla salute e al lavoro”. Aggiunge Alessandra Costantini, praticante avvocato e rappresentante della Lega Giovani: “Ancora una volta la nostra categoria viene penalizzata. Il ministro valuti l’opportunità di svolgere l’esame con modalità differenti e colga l’occasione per una seria e soddisfacente riforma del sistema di abilitazione. Ci vuole rispetto per anni di sacrifici”. Solo ieri il presidente della Commissione centrale ha inviato una lettera ai presidenti delle commissioni per comunicare che “è in corso di valutazione, sul piano normativo, la possibilità di reintrodurre lo svolgimento delle prove di valutazione da remoto”. Un caso unico: gli aspiranti legali sono rimasti praticamente i soli, tra le professioni ad accesso regolato da un esame di abilitazione, a conservare le prove in presenza, invece dell’orale unico a distanza come per commercialisti o ingegneri. L’omicidio di Napoli e una generazione tradita. Quella campana che suona per tutti noi di Maurizio de Giovanni La Stampa, 7 novembre 2020 Casalnuovo di Napoli: martedì sera Simone Frascogna, 19 anni, viene ucciso a coltellate. Si costituisce un 18enne. La madre: “Non perdono”. Potrebbe essere stato vittima di una epurazione interna al gruppo malavitoso al quale apparteneva Benvenuto Gallo, 24 anni, morto ieri all’ospedale Cardarelli di Napoli dove era stato portato con una grave ferita da arma da fuoco alla nuca. Il giovane, con precedenti per spaccio, è stato forse attirato in una trappola e poi colpito dai sicari alla testa, come in un’esecuzione, nel quartiere San Pietro a Patierno. Immaginiamo che qualcuno, a leggere certe notizie, nel provare un accorato e doloroso senso di angoscia possa in qualche modo avvertire una sensazione se non di sollievo, perlomeno di distanza. Da napoletani sappiamo fin troppo bene che all’immagine della nostra città, per tanti versi meravigliosa e ricchissima di storia, arte, cultura e bla bla bla, si annette sempre più spesso l’immagine di un luogo violento e potenzialmente mortale. Un far west tricolore, una Gomorra infernale dove si spara liberamente e si ammazza gente per strada. E ci sono altri, anche molto vicini al territorio se non interni allo stesso, che pensano con maligna soddisfazione che a morire ammazzati siano incidentalmente gli stessi che in altre occasioni sono stati a loro volta assassini, o che potrebbero facilmente esserlo. Finché si ammazzano fra di loro, si dice. Uno di meno, si dice. Se lo meritano, si dice. Chi appartiene alle suddette scuole di pensiero, che ammettiamo sono state disegnate grossolanamente e aderendo a stereotipi informativi che sfiorano ormai il luogo comune, avrà così accolto la notizia della morte di un ragazzo di 24 anni con un colpo di pistola alla nuca, in un quartiere periferico della città. Evento che peraltro segue un’analoga uccisione, stavolta di un 19enne, Simone, a seguito di una banale lite pare per motivi di viabilità. Da Genova a Caserta - Tutto quadra: il degrado, l’ignoranza, la violenza come forma comportamentale usuale, l’assenza di controllo di un territorio abbandonato da parte delle istituzioni. Lo diciamo con forza: se questa fosse l’unica sede di questo cancro sociale, come peraltro fu definito da un autorevole ministro della Repubblica, proporremmo con forza l’auto-deportazione selettiva e poi una bella spolverata di napalm su questa terra ricca di storia, arte, cultura e bla bla bla. Un’azione incisiva e radicale, per una soluzione definitiva. Purtroppo, e abbastanza ovviamente, non è così. Lo dice la cronaca recente di questo Paese, con una trentina di episodi trovati all’istante su Google inserendo “violenza tra giovani per futili motivi”, e senza voler andare troppo indietro nel tempo. Da Colleferro a Genova, da La Spezia a Massa Carrara, da Diamante a Bastia Umbra, da Caserta a Sesto San Giovanni, da Prato a Legnago: colpi di pistola, certo, ma anche coltellate, sprangate, pugni e calci. Non sempre ci scappa il morto, e a ben guardare c’è un largo spettro di “futili motivi”, spesso influenzati dall’assunzione di sostanze o di alcol, ammesso che si voglia considerare questa triste abitudine alla stregua di un’attenuante della gravità del fenomeno. Tutt’altro che mezzo gaudio questo mal comune, sia chiaro: ed è evidente che un’area così vasta e popolosa, la densità più alta dell’intero continente, costituisce un problema altrettanto vasto non solo per la città e la regione ma per tutto il Paese, e induce a considerazioni sull’assenza dello Stato e sulla dispersione scolastica che annoierebbero i lettori. Sta di fatto però che il fenomeno della violenza tra giovani e dei giovani sembra aver superato ogni livello di guardia, e che non è confinabile a una o altra latitudine o a uno o altro contesto socioeconomico. Le colpe dei genitori - I ragazzi. I nostri ragazzi. Armati e decisi a usare le armi, determinati a un uso distorto delle arti marziali, ansiosi di procurarsi legioni di followers spostando costantemente in avanti i limiti del proibito, del violento e dell’estremo. Cresciuti a videogiochi di sangue e morte, educati a vincere e altrimenti a essere irrimediabilmente perdenti, abituati a genitori che picchiano gli insegnanti e incitano i figli da bordo campetto a picchiare a loro volta gli avversari, costantemente incensati e protetti da un mondo dal quale restano distanti, privati del senso della comunità o dell’appartenenza, spinti ad apparire e a non essere, i ragazzi di questa generazione abbandonata minacciano di essere i più perduti di sempre. Non li troverete in piazza a manifestare se non per lanciare sassi contro chiunque. Non li troverete a discutere se non di macchine e moto, non li troverete a innamorarsi se non di tette e culi o di bicipiti tatuati, non ne troverete uno ad aiutare qualche debole. Saranno pronti piuttosto a picchiare barboni, a spaccare vetrine, a bruciare semafori a centosessanta all’ora. E tutto quanto precede non è il solonismo di un anziano nostalgico e conservatore, ma quello che banalmente si può reperire in mezz’ora di Instagram o Tik Tok, volendo soltanto rispettare l’assoluta maggioranza. Certo, non tutti. Certo, non dovunque. Certo, non i figli o i nipoti di voi che state leggendo, che sono tutti deliziosi ragazzi al di sopra di ogni sospetto. Ma per quanto ci riguarda, se e quando leggiamo di un ragazzo morto o picchiato, ferito o sfregiato a seguito di una notte brava da qualche parte, non ce ne sentiamo mai troppo lontani. Perché a volte basta passare per caso, in certi posti, per trovarsi in mezzo a qualcosa di irreparabile. Per cui, come diceva Hemingway, se senti la campana suonare non chiederti mai per chi suona. Perché suona per te. Le vite al bivio. L’orrore di Casalnuovo e i destini incrociati di Antonio Mattone Il Mattino, 7 novembre 2020 Non si può perdere la vita così. È la scritta che compare sul luogo dove la sera del 3 novembre è stato ucciso Simone Frascogna. Non si può morire a diciannove anni per uno sguardo di troppo o una precedenza non data. La vita sembra davvero valere poco. “Tu non sai a chi appartengo!” avrebbe detto l’assassino. Anche lui giovane, appena diciottenne, individuato grazie alle immagini della videosorveglianza, sembra avere legami di parentela con esponenti della malavita della zona. E dopo essere venuto alle mani con la vittima, che esperto di arti marziali stava avendo la meglio, ha estratto una lama e lo ha ferito mortalmente con quattro coltellate. Simone invece apparteneva a una famiglia di lavoratori e viveva a Licignano, una località nel comune di Casalnuovo, un insediamento di case nato dopo il terremoto. Una periferia cresciuta in fretta e dimenticata altrettanto in fretta, come tanti agglomerati venuti su con l’edilizia post sismica, senza alcuna connessione con i centri urbani. Periferie caratterizzate da un processo di marginalizzazione dove si va smarrendo l’identità comune. Qui la scuola è in difficoltà, i partiti e il sindacato più deboli se non inesistenti e la chiesa è meno forte. In contesti del genere, privi di solidi punti di riferimento, l’integrazione diventa difficile ed è facile perdersi. Tuttavia Simone Frascogna era un ragazzo che non si era perso e non era entrato negli ingranaggi della criminalità. Frequentava il quinto anno dell’Itc Isis Europa ed era appassionato di brazilian Jiu jitsu, un’arte marziale di autodifesa. Aveva molti amici e nel suo profilo Facebook si faceva ritrarre spesso accanto al padre, a cui era molto legato. Chi lo ha conosciuto nella palestra sportiva che frequentava da alcuni anni, lo ricorda entrare in punta di piedi con il suo sorriso timido, accennando a un saluto discreto per evitare di disturbare. Un giovane gentile e sempre disponibile per gli altri, che arrivava presto in palestra per pulire il tatami dove si dovevano esibire i bambini. E che d’estate andava a fare il cameriere per potersi comprare i nuovi attrezzi sportivi da utilizzare per il nuovo anno. Quella sera il suo destino si è incrociato per caso con quello del suo assassino e dei suoi complici. Erano in tre ad aggredire Simone e tutto è accaduto in meno di un minuto. Un copione che si è ripetuto troppe volte a Napoli e nell’hinterland partenopeo. Viene da chiedersi cosa spinge ragazzi violenti ad accanirsi privi di scrupoli e con tanta brutalità su una persona disarmata. Cosa possa passare per la testa quando si tira dalla tasca un coltello pronti a colpire mortalmente. Sono domande a cui è difficile trovare delle risposte plausibili. Probabilmente si tratta di giovanissimi in cerca di identità e di considerazione che cercano di emergere attraverso azioni e appartenenze perverse. Così per gioco, sfida, noia, rabbia o vuoto scaricano un arsenale di violenza suchi capita sotto tiro. Appartenere poi ad una certa “famiglia” determina in modo prestabilito un destino da cui è molto difficile sottrarsi. Così come deve essere stato per colui che è stato arrestato per l’omicidio di Simone. In un video postato su Tik Tok, l’ultimo social di tendenza, si possono vedere le sue imprese in sella ad una grossa moto con una canzone in sottofondo le cui parole sono tutto un programma: “Criminale dint’ all’anema mica pe’ scelta, so’ stato crisciuto ‘a ‘na setta ‘int’ a ‘stu deserto”. Giovani criminali e boss del futuro che scorrazzano impunemente per le strade anonime della periferia senza che nessuno li fermi. Quella della violenza giovanile è una realtà complessa, tuttavia il mondo della politica e le agenzie educative sembrano impotenti e rassegnate e hanno rinunciato a parlare a questa generazione. Durante la scorsa campagna elettorale non abbiamo visto molti dibattiti sul tema. Nessuna proposta, né alcun allarme lanciato per fermare il diffondersi della violenza criminale. Qualche settimana fa, proprio ad alcune centinaia di metri da dove è stato ucciso Simone, ho incontrato il figlio di un camorrista che mi ha raccontato la fatica e l’orgoglio di aver intrapreso una strada totalmente diversa da quella del padre. Casalnuovo è anche questo. Un territorio difficile dove i giovani spesso si trovano da soli di fronte ad un bivio e devono scegliere se percorrere una strada fatta di violenza e guadagni facili o se mangiare pane e fatica. E basta un niente per decidere se andare da una parte o dall’altra. Milano. Covid al 41bis di Opera: altri due ricoverati. Quanti sono i contagiati? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 novembre 2020 Sono finiti in ospedale, positivi al Covid, altri due detenuti al 41bis del carcere milanese di Opera. Uno di 59 anni e un altro quasi ottantenne e con molte patologie. La vicenda del recluso al 41bis di 59 anni ce la racconta la figlia che non ha avuto notizie del padre dal 27 ottobre. “Solo ieri (5 novembre ndr) - racconta a Il Dubbio -, chiama il nostro avvocato dicendo che il carcere le aveva mandato una e- mail con scritto che mio padre è stato ricoverato. Abbiamo fatto tante chiamate per sapere ma purtroppo è stato tempo speso invano. Nessuno che parla, nessuno che ti dice niente. Solo nel tardo pomeriggio arriva un’ulteriore e- mail dal carcere con scritto che mio padre ha il Covid ed è ricoverato in terapia intensiva”. Una storia che si ripete. Una prima informativa generica e, solo dopo sollecitazioni, arriva la risposta con completezza. L’altra vicenda invece riguarda il recluso al 41bis quasi ottantenne. Proprio 10 giorni fa si è visto respingere dal tribunale di sorveglianza l’istanza per il differimento pena, sottolineando il fatto che il Coronavirus non era penetrato in carcere e che comunque i detenuti al 41bis sono isolati e quindi protetti. Ma tempo qualche giorno, come ha rivelato Il Dubbio, il virus è entrato eccome al carcere duro. In questo caso parliamo di Salvatore Genovese, 78enne al 41bis fin dal 1999, cardiopatico, diabetico, già operato di tumore, sordo e con i polmoni devastati da innumerevoli polmoniti pregresse. Solo giovedì scorso, 5 novembre, il suo legale Francesco Paolo Di Fresco ha appreso tramite una informativa della direzione, che martedì Genovese è stato ricoverato presso il reparto di medicina protetta del San Paolo di Milano. Ma, come è già accaduto con i familiari di Antonio Tomaselli (l’altro detenuto al 41bis, malato terminale), non si è specificato il motivo. L’avvocato Di Fresco ha quindi subito mandato una pec urgente per avere spiegazioni visto la genericità dell’informativa. Il giorno stesso, la direzione ha risposto, ma questa volta spiegando il motivo del ricovero: “(…) si comunica alla S. V. che il detenuto indicato in oggetto, in data 03.11.2020 è stato ricoverato presso l’Ospedale San Paolo “Divisione di Medicina Protetta” di Milano, in quanto risultato essere positivo alla Sars- Covid 19, attualmente ricoverato nel reparto ordinario con un quadro clinico stabile che allo stato non richiede l’ausilio di respiratori artificiali”. Come detto, l’avvocato di Genovese ha fatto istanza per chiedere il differimento della pena in ragione delle condizioni di salute compromesse e delle potenziali complicanze che derivano dalla diffusione della pandemia da Covid 19, trattandosi appunto di “soggetto a rischio” alla stregua delle informazioni fornite dall’Oms, sia per l’età avanzata, sia per le concomitanti patologie. In effetti, da quanto risulta dall’ultima relazione sanitaria, l’uomo è affetto da numerosissime patologie. Ma nello stesso tempo, a detta del magistrato di sorveglianza che aveva rigettato l’istanza precedente, le patologie non potevano rientrare nello spettro indicato dall’Oms, anche perché “apparivano adeguatamente monitorate presso la struttura carceraria”. Ma non solo. Il tribunale di sorveglianza che dieci giorni fa ha rigettato l’istanza, ha ricordato quanto ha osservato il magistrato di sorveglianza. Ovvero, il giudice scrive che “il regime detentivo speciale cui è sottoposto il detenuto (non condividendo la camera detentiva con alcun altro detenuto e non avendo occasioni di promiscuità con altri detenuti), garantiva uno stato di permanenza in carcere connotato da grande isolamento e tale da rendere molto ridotti i contagi con gli altri detenuti, solo in gruppi di socialità ristretti e per poche ore al giorno”. Ma tempo qualche giorno, i fatti smentiscono la certezza cristallizzata dal tribunale di sorveglianza: il virus è entrato nei 41bis, infettando anche Genovese poi ricoverato d’urgenza per monitorarlo visto le sue patologie pregresse. Rimane però il buco nero della mancata tempestiva informazione. Ricordiamo che Antonio Tomaselli attualmente lotta tra la vita e la morte, ed è l’altro detenuto al 41bis del carcere di Opera che è malato terminale e ha contratto il virus. Da giorni la moglie non aveva sue notizie. Solo dopo - e solo per puro caso - si è scoperto essere risultato positivo al Covid 19 e per questo ricoverato d’urgenza in ospedale. Katiuscia, la moglie di Antonio Tomaselli ha attraversato giorni di forte preoccupazione e angoscia nel non sapere che fine avesse fatto il marito. Ricordiamo che è comunque in 41bis, anche se è in terapia intensiva. Lei e i figli, non possono andare a trovarlo. Per questo ora il legale ha avanzato una istanza al Gup per i domiciliari ospedalieri. Ma tutto è confuso, generando preoccupazione e angoscia. Rita Bernardini del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino che, contatta da Il Dubbio, tuona: “Figuriamoci se il Covid 19 possa fermarsi ai cancelli degli istituti penitenziari checché ne dica Travaglio secondo il quale con il Covid stare in carcere è molto più sicuro che stare fuori. Chi glielo dice ora a Travaglio che il temibile virus è entrato persino al 41bis, cioè al carcere duro, il luogo più isolato esistente in Italia? E poiché in quel regime di detenzione anticostituzionale ci sono moltissimi detenuti anziani ed affetti da gravissime patologie, ecco che prendersi il Covid lì equivale ad una sentenza di morte!”. Napoli. Svuotare le carceri si può: una proposta concreta al ministro Bonafede di Viviana Lanza Il Riformista, 7 novembre 2020 “L’inefficacia delle misure adottate è tanto più grave se si considerano gli straordinari provvedimenti a tutela della salute pubblica adottati dal Governo, salute rispetto alla quale le persone detenute risultano evidentemente figlie, sacrificabili, di un dio minore”. I presidenti della Camera penale di Napoli e del Carcere Possibile scrivono al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Denunciano i rischi della pandemia all’interno delle carceri campane e propongono quattro modifiche al testo del decreto Ristori. Partendo da una premessa: le misure contenute nel pacchetto giustizia varato dall’Esecutivo non bastano. Il limite di pena assai contenuto e le numerose ipotesi ostative alla concessione della detenzione domiciliare, previsti attualmente, impediscono di raggiungere la sensibile e celere diminuzione delle presenze nelle carceri campane che servirebbe invece per disporre di quegli spazi (oggi assenti) da destinare all’isolamento sanitario dei casi sospetti e dei detenuti positivi al virus. Sulla carta, in Campania, bisognerebbe far uscire dalle celle circa 800 detenuti, ma con le attuali misure previste dal decreto non si arriverà a 200. “Senza contare - scrivono gli avvocati Ermanno Carnevale e Anna Maria Ziccardi, rispettivamente presidenti di Camera penale e della Onlus Carcere Possibile - che la cronica indisponibilità dei braccialetti elettronici rallenterà notevolmente l’efficacia del provvedimento anche per quei pochi che potranno usufruirne”. “Il drammatico pericolo di un’ulteriore diffusione del contagio - sottolineano - desta elevatissima preoccupazione nella stessa amministrazione penitenziaria, e ciò non solo per le evidenti condizioni di promiscuità in cui vivono i reclusi, ma anche a causa delle particolari condizioni di sovraffollamento che caratterizzano nuovamente gli istituti di detenzione, che, con riferimento a quelli della città di Napoli, vedono ristrette complessivamente più di 3.500 persone a fronte di una capienza di soli 2.700 posti. Tale condizione, peraltro aggravata da una temporanea ma significativa riduzione del personale di polizia penitenziaria dovuta proprio all’emergenza sanitaria, richiede l’immediata adozione di misure normative”. Perciò i penalisti al ministro chiedono di attuare, in sede di conversione del decreto, quattro modifiche. Quali? Estendere l’applicazione della detenzione domiciliare ai detenuti con un residuo di pena fino a 2 anni (e non ai 18 mesi previsti); evitare che l’ostatività riguardi anche reati già espiati in caso di cumulo di condanne, eliminando la previsione che impone l’obbligo del braccialetto elettronico; riconoscere la possibilità di concedere i permessi anche in deroga ai limiti temporali previsti dalla normativa, per i condannati ai quali siano stati già concessi i permessi o (quindi, in alternativa e non più in aggiunta come previsto inizialmente nel decreto) che siano stati già assegnati al lavoro all’esterno. Inoltre, reintrodurre l’istituto della liberazione anticipata speciale, misura emergenziale che nel 2014 fu adottata per svuotare le carceri e che prevede una detrazione di pena maggiore rispetto a quella prevista dalla liberazione anticipata ordinaria. “Confidiamo - concludono i penalisti - che tali ragionevoli proposte, proprio perché formulate in ossequio ai principi costituzionali posti a tutela anche della salute di coloro che sono affidati alla custodia e responsabilità dello Stato, trovino il giusto accoglimento”. Cosa risponderà il ministro? Bologna. Positivi in Tribunale, “va chiuso”. Il presidente: “Andiamo avanti” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 7 novembre 2020 Quattro positivi tra giudici e personale, via alla sanificazione. Pressing per fermarsi. Il Tribunale di via Farini ha adottato tutte le misure sanitarie previste: distanziamento e misura della temperatura, oltre a udienze contingentate. Il virus entra in Tribunale e crea preoccupazione e malumori tra giudici e personale. quattro tra magistrati e amministrativi sono risultati positivi, cresce il pressing per fermarsi. Ma il presidente Caruso spiega: “Non possiamo chiudere, ma non c’è nessun allarme. Sono state prese tutte le misure, ci atteniamo alle disposizioni di Ausl e governo. Quattro positivi al Covid in pochi giorni preoccupano personale amministrativo e magistrati tra i corridoi del Tribunale di Bologna. Ieri mattina si è diffusa la notizia tra le aule di giustizia della positività di alcuni dipendenti, ma un po’ di malcontento circolava da qualche giorno, quando si è saputo di un contagio nella sezione dei gip, la più in sofferenza in termini di spazi. Ieri qualche giudice ha bussato alla presidenza per esprimere preoccupazione, ma nel frattempo il presidente del Tribunale Francesco Maria Caruso ha disposto la sanificazione di tutti gli ambienti del palazzo, che ha chiuso con un’ora circa di anticipo. Da lunedì le udienze riprenderanno regolarmente. “Non c’è nessun allarme - spiega il presidente - i quattro casi rilevati sono tutti asintomatici tranne uno che però sta bene. Il medico competente per il Tribunale è stato informato e abbiamo fatto tutti i passaggi necessari, ma non possiamo permetterci di chiudere né io posso sospendere le attività perché non siamo in zona rossa”. Le udienze andranno avanti con le dovute precauzioni. Il dpcm del 24 ottobre conteneva già nuove misure per i Tribunali e quindi da più di una settimana le udienze civili vengono celebrate da remoto, interrogatori di garanzia e convalide si tengono in videoconferenza, così come la partecipazione degli imputati reclusi in carcere alle udienze. I processi penali sono tornati a porte chiuse. “Ci atteniamo alle disposizioni del governo e dell’Ausl - prosegue Caruso - non possiamo ridurre l’attività ulteriormente. Se la situazione non diventa ingovernabile, finché possiamo il Tribunale resta aperto”. Caruso spiega anche che la preoccupazione tra i dipendenti dipende più che altro dal fatto che chi ha avuto contatti con i colleghi risultati positivi si chiede cosa fare, visto che spesso i cancellieri lavorano in stanze molto piccole. “Ma se sono state adottate le misure di distanziamento, indossati i dispositivi di protezione e arieggiate le stanze non c’è da preoccuparsi. Ad ogni modo abbiamo adottato degli accorgimenti organizzativi per mettere in smartworking per qualche giorno chi è stato a contatto con i positivi”. C’è anche l’idea di trovare un laboratorio privato che faccia tamponi in convenzione per i dipendenti della giustizia, visto che non sono rientrati tra le categorie a rischio sottoposte a screening periodici dalle autorità sanitarie. Il vero problema nella giustizia è la scarsa applicabilità del lavoro agile: per questioni di sicurezza non è possibile accedere ai sistemi e ai fascicoli da casa. “Proprio ieri c’è stata una riunione in Procura sullo smartworking ma non abbiamo ancora raggiunto un accordo perché ci sono molte difficoltà” spiega Nunzia Catena della Funzione pubblica Cgil. “In Tribunale purtroppo è successo quello che ci si aspettava, ancora troppe persone lavorano in presenza, anche se non c’è resistenza allo smartworking, ma un problema di strumenti. Abbiamo fatto un incontro e non c’erano divergenze, abbiamo trovato disponibilità ad aggiornarci quando arriveranno gli strumenti per l’applicazione dell’accordo nazionale”. Il Covid è arrivato prima, ma con 11mila processi penali pendenti e il 30% dell’organico amministrativo scoperto, la situazione è tutt’altro che semplice. Milano. Dai detenuti di Bollate al personale penitenziario un milione di mascherine gnewsonline.it, 7 novembre 2020 Più di un milione di mascherine chirurgiche del progetto #Ricuciamo, realizzate da detenuti nello stabilimento di produzione interno alla Casa di Reclusione di Milano Bollate, saranno distribuite oggi ai Provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria (Prap) e, da qui, agli istituti penitenziari di tutta Italia. La fornitura consentirà di coprire il fabbisogno di mascherine per circa un mese per le 39.849 unità di personale del Dap: 35.785 appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria e 4.064 al Comparto funzioni centrali e dirigenti. La ripartizione è stata effettuata in proporzione al personale assegnato a ciascun Provveditorato: 107.750 mascherine arriveranno al Prap della Lombardia, 75.000 a quello di Emilia Romagna e Marche, 65.950 in Triveneto (Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia), 102.700 in Piemonte Liguria e Valle d’Aosta, 83.100 in Toscana e Umbria, 186.500 nel Lazio Abruzzo e Molise, 68.300 in Puglia e Basilicata, 115.450 in Campania, 46.450 in Calabria, 108.050 in Sicilia e 105.000 in Sardegna. La distribuzione vedrà impegnati gli uomini del Servizio approvvigionamento e distribuzione armamento e vestiario (Sadav), di stanza a Roma Rebibbia. La prossima settimana sarà distribuita un’altra fornitura da un milione di mascherine: 500mila arriveranno dallo stabilimento all’interno del penitenziario di Roma-Rebibbia, altrettante giungeranno invece da quello di Salerno. Lecce. Riparazione dei router, il laboratorio tecnologico dei detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 7 novembre 2020 E’ iniziata lunedì scorso nel carcere di Lecce l’attività del laboratorio per la riparazione di router in uso ai clienti della Linkem, società italiana che opera nel settore delle telecomunicazioni. Sono in tutto tredici i detenuti assunti a tempo indeterminato, di cui due impiegati all’esterno in punti di raccordo che la società ha nei territori di Lecce e Taranto. L’avvio del progetto, sperimentale e senza oneri per l’Amministrazione, è stato preceduto da tre mesi di corso retribuito per i detenuti individuati dall’Area trattamentale dell’Istituto che sono stati formati anche come installatori di antenne, campo che offre notevoli opportunità d’inserimento lavorativo al termine della pena. Le apparecchiature sono state installate in uno dei locali della casa circondariale pugliese dopo la valutazione sull’impatto elettromagnetico dei sistemi radianti effettuata dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale e nel rispetto di tutti i protocolli di sicurezza. La Direzione della casa circondariale e il Comando di Polizia Penitenziaria hanno anche avviato con lo stesso partner privato, e in particolare con il supporto del team dell’amministratore delegato Davide Rota, l’iniziativa “Comunico” per la realizzazione di una sala interattiva Skype. Secondo quanto previsto dal progetto, saranno i dipendenti del laboratorio a occuparsi dell’allestimento tecnico del locale per realizzare un servizio utile all’intera comunità carceraria. Una volta attive, infatti, le dieci postazioni a controllo unificato offriranno non solo maggiori opportunità di colloqui online per i detenuti ma anche servizi integrati che renderanno più semplice ed efficiente il lavoro del al personale di Polizia Penitenziaria addetto al settore. Bollate (Mi). I detenuti raccolgono alimenti per le famiglie bisognose Ristretti Orizzonti, 7 novembre 2020 I detenuti dell’associazione Catena in Movimento del carcere di Bollate, in collaborazione con l’Associazione Milano Positiva, raccolgono alimenti a favore di 40 famiglie bisognose del Comune di Milano. Appuntamento sabato 7 novembre alle ore 15.30 presso la Chiesa di San Gabriele Arcangelo in Mater Dei di via Termopili 7. Presente anche Laura Specchio, Presidente Commissione Politiche per il Lavoro, Sviluppo Economico, Attività produttive, Commercio, Risorse Umane, Moda e Design e Capo Gruppo Gruppo Consiliare Alleanza Civica per Milano. Un gesto di solidarietà che unisce chi sta dentro con chi sta fuori: questo lo spirito dell’iniziativa “Insieme abbattiamo l’indifferenza” che coinvolge i detenuti dell’Associazione del Carcere di Bollate Catena in Movimento e Milano Positiva, associazione di Promozione Sociale attiva principalmente sul territorio del Municipio 2 che si è attivata per fare da tramite tra l’azione promossa dal Carcere e le famiglie in difficoltà, riuscendo a dialogare con enti del territorio ossia la chiesa di San Gabriele Arcangelo in Mater Dei. Da sempre attenta alle esigenze dei più bisognosi, da sempre attenta a mettere in luce i problemi legati alla disabilità e alla sicurezza, Milano Positiva APS, durante il lockdown, rendendosi conto che il problema della reperibilità alimentare fosse divenuto un’emergenza, ha cominciato a collaborare con Pane Quotidiano e Banco Alimentare per raccogliere e distribuire derrate alimentari. Quaranta famiglie bisognose, in forte aumento a causa del disagio economico provocato dalla pandemia e dalle misure predisposte per contenerla, riceveranno sabato un pacco alimentare risultato della donazione da parte dei detenuti di Bollate. Gli alimenti arrivano da uno scambio nato all’interno del Carcere quando, in occasione del primo lockdown, i detenuti che lavorano per l’Associazione Catena in Movimento hanno confezionato mascherine - oltre 10.000 - per la popolazione carceraria e non solo. Per sdebitarsi con i compagni, i detenuti che hanno ricevuto le mascherine hanno raccolto generi alimentari che poi hanno deciso di donare a chi, fuori, ne ha bisogno. Ispirati dai concetti posti alla base della “Giustizia riparativa” e dalle parole di Papa Francesco e del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella secondo cui “La vera pandemia è l’indifferenza”, e che, ora più che mai, invocano l’unione e la coesione di tutti per affrontare il dramma che il pianeta intero sta vivendo, i detenuti coinvolti in questo progetto sono riusciti a valorizzare il loro tempo raccogliendo quasi 100 kg di generi alimentari da devolvere alle famiglie. Con il supporto dell’Associazione Milano Positiva che dice: “l’attività con il carcere di Bollate apre le porte ad una collaborazione che si spera possa essere sempre più proficua”, i detenuti hanno dato vita al Banco Alimentare “Insieme abbattiamo l’indifferenza”, una sorta di mutuo soccorso che abbatte le barriere tra “dentro” e “fuori”. Messina. I detenuti di Barcellona Pozzo di Gotto raccontano la “loro” pandemia in un corto Gazzetta del Sud, 7 novembre 2020 Entrare in un carcere “difficile” e provare a far raccontare lo “tsunami” Covid a un gruppo di detenuti, tra lunghi corridoi opachi e pareti chiazzate d’intonaco. C’è riuscita l’equipe dell’articolazione per la Tutela della salute mentale del carcere di Barcellona Pozzo con “Forse perché eravamo gli ultimi”, cortometraggio che parteciperà al concorso nazionale “Menti in corto” promosso dalla Comunità Terapeutica Assistita di Calatafimi. Il progetto, presentato in conferenza stampa dalla direttrice del carcere Nunziella Di Fazio, è il un punto di arrivo di un percorso annuale portato avanti dal personale della Casa circondariale che punta alla promozione dell’introspezione e del benessere psico-sociale dei detenuti. Catapultati davanti e dietro una telecamera, sedici ristretti del “Madia” hanno risposto al tema del bando “2020: anno bisesto, anno funesto?” raccontando cosa potrebbe accadere in un ex manicomio abbandonato ai pochi uomini sopravvissuti alla pandemia del funesto 2020 e cercando di proporre riflessioni più profonde sul senso dell’umanità, sulla necessità di combattere l’isolamento e l’alienazione. “E’ stata un’occasione unica - ha sottolineato Nunziella Di Fazio, direttrice della Casa circondariale che a breve concluderà la sua esperienza al carcere di Barcellona - frutto di un percorso artistico-riabilitativo che ha coinvolto sedici detenuti, diventati sceneggiatori, interpreti e tecnici di un originalissimo e toccante cortometraggio”. “Noi siamo il doppio errore, e forse perché noi siamo ultimi, tocca a noi ricominciare l’umanità” spiegano i protagonisti all’interno del corto che è un inno “a tornare a giocare e credere alle cicogne, al coraggio di vincere la malattia, alla pazienza in periodi di burrasca per mangiare di nuovo il miele senza mosche, a ringraziare Dio, a rifare tutto e farlo bene”. Mentre tutt’intorno il mondo al di fuori della casa circondariale di Barcellona rimaneva chiuso in casa, i sedici detenuti coinvolti nel progetto hanno avuto l’occasione di vivere una tensione verso l’esterno, la possibilità di tuffarsi in un mondo diverso. “Forse perché eravamo gli ultimi” non è solo l’unica produzione siciliana in concorso, ma è anche l’unico corto, a livello nazionale, in cui sono stati coinvolti i detenuti di una struttura carceraria. Sotto il coordinamento della psichiatra Francesca Cordova e dei tecnici riabilitativi Valeria Schilirò e Paolo Federico, la regia è stata affidata a Salvo Presti, mentre la fotografia e l’editing a Emanuele Torre. La Comunità Terapeutica Assistita di Calatafimi renderà presto visibili tutti i contributi delle realtà che hanno partecipato al concorso, per raccogliere il giudizio di giuria tecnica, di una giuria popolare e mediatica, attraverso la diffusione dei lavori sulle pagine Facebook e Instagram “Menti in Corto” Quattro parole chiave per disegnare un’idea di giustizia di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 7 novembre 2020 “Un’altra storia comincia qui” di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti, per Bompiani. L’”igiene del linguaggio” attraverso i pensieri di Carlo Maria Martini. Un’opera quanto mai necessaria in un momento storico nel quale la lingua dell’odio e della brutalità ha investito anche il pianeta del carcere. La questione della pena, per sua natura complessa, va sottratta a scontati stereotipi interpretativi. Reato e pena vanno indagati senza le certezze apodittiche di chi confonde il reato con il reo e la pena con la vendetta. Per comprendere fino in fondo l’antropologia del crimine e del carcere è necessario investire nel dialogo tra campi epistemologici diversi. Marta Cartabia, la prima presidente donna della Corte Costituzionale in Italia, e Adolfo Ceretti, criminologo e studioso di giustizia riparativa da decenni, in Un’altra storia inizia qui (Bompiani, pp. 128, euro 10), attraverso le parole e i pensieri di Carlo Maria Martini, ci regalano un’opera di igiene e mitezza di linguaggio, quanto mai necessaria in un momento storico nel quale la lingua dell’odio e della brutalità ha investito anche il pianeta del carcere. Si pensi ad espressioni incostituzionali e violente come “marcire in galera” o “buttare la chiave” che hanno monopolizzato il dibattito pubblico con incursioni finanche istituzionali. Nell’ambito del libro si possono selezionare quattro parole chiave - crudeltà, dignità, visita, riconciliazione - essenziali nel pensiero degli autori, nonché fulcro dell’idea di giustizia del cardinale Carlo Maria Martini. Parole, che nel libro sono trattate con delicatezza e profondità di scrittura, nella consapevolezza che la giustizia non sia qualcosa per soli tribunali o prigioni, ma che sia parte della vita e della comunità. Crudeltà: al diritto penale va restituito quel suo originario scopo diretto a minimizzare la violenza dei delitti e la crudeltà delle pene. “Di fronte alla delinquenza e al crimine, è necessario reagire, opponendosi al male, senza per altro compiere altri mali e altre violenze” (Martini, 2001). Non di rado si intravede nella società una sorta di indifferenza o compiacimento di fronte alla sofferenza del carcerato. Augurare a una persona, chiunque sia, di marcire in galera significa sperare che vada in putrefazione, che subisca un irrimediabile decadimento fisico e psichico. Alla crudeltà delle pene si contrappone quella dolcezza di cui scrisse oltre 250 anni addietro Cesare Beccaria. Dignità: il diritto internazionale proibisce la tortura e tutte le pene o i trattamenti disumani e degradanti. La crudeltà fa parte dunque dello stesso campo giuridico e semantico della degradazione e della disumanità. L’umanità, recuperando il pensiero kantiano, non è altro che la dignità umana. Quest’ultima ha una sua definizione di carattere negativo: l’individuo non deve essere mai degradato a cosa; è sempre fine, mai mezzo. Le Corti supreme hanno usato il grimaldello della dignità umana per porre limiti agli arbitrii punitivi. Nel nome della dignità umana, come ricorda Marta Cartabia, la nostra Corte Costituzionale ha organizzato un viaggio di conoscenza e testimonianza nelle carceri italiane. Visita: la pena non è solo quella raccontata nei codici ma anche quella che si percepisce attraverso i propri occhi, sentendo gli odori e ascoltando i silenzi o i rumori del carcere. “Venendo a Milano, ho voluto iniziare la visita pastorale alla città e alla diocesi cominciando proprio dal carcere di san Vittore…Mi urgevano e mi urgono dentro le parole di Gesù: ero in carcere e mi avete visitato” (Martini, 2003). Bisogna aver visto per poter capire cos’è la pena del carcere, come ci ha insegnato Pietro Calamandrei. Infine, riconciliazione. La giustizia per gli autori deve contribuire alla riconquista della solidarietà perduta. Il carcere, pur nella sua inevitabile residuale necessità, non riesce a ricomporre le fratture, anzi le alimenta, le riproduce su più ampia scala. La riconciliazione, secondo Carlo Maria Martini, serve ad evitare che si confonda in eterno il reo con il suo reato. In un altro intenso volume autobiografico “Il Diavolo mi accarezza i capelli. Memoria di un criminologo” (Il Saggiatore) Adolfo Ceretti e Niccolò Nisivoccia ci aiutano a entrare nella filosofia e nella pratica della mediazione, quale risposta nonviolenta ai traumi prodotti dal delitto. Speriamo, dunque, che un’altra giustizia ricominci a partire dalle parole stesse di Cartabia e Ceretti. L’allarmante zona grigia del crimine tra centro e periferia di Giuliano Santoro Il Manifesto, 7 novembre 2020 “La città dei vivi”, l’ultimo romanzo di non-fiction di Nicola Lagioia, pubblicato da Einaudi. Nello sperdimento della metropoli, il clima malato in cui è maturato l’omicidio Varani. “Qui siamo tutte buone famiglie. Il problema so’ i figli”, dice Valter Foffo. Quando si fa sfuggire queste parole, suo figlio Manuel è in carcere per omicidio assieme a Marco Prato. Il delitto è avvenuto nel suo appartamento romano, al decimo piano di un palazzo piccolo borghese al Collatino. I due hanno ucciso dopo giorni passati insieme a sniffare cocaina. La vittima si chiama Luca Varani. Lavora per poche centinaia di euro al mese da un carrozziere, è figlio di venditori ambulanti di dolciumi. Ha attraversato la città all’alba del terzo giorno di reclusione tossica per raggiungere la tana in cui Foffo e Prato si sono chiusi a progettare futuri deliranti. Varani si è mosso dalla periferia settentrionale verso quella orientale, attirato dalla promessa di quattrini, forse in cambio di sesso. A quel caso di cronaca nera, Nicola Lagioia ha dedicato il romanzo non-fiction La città dei vivi (Einaudi, pp. 472, euro 22). Siamo a Roma, nell’Italia che alla fine dell’inverno 2016 si affaccia alla grande transizione politica che condurrà al tracollo di tutti i partiti. L’esito corrisponde al clima del quale l’omicidio Varani, per come emerge dalla narrazione di Lagioia, è una spia potentissima. Traspare l’assoluta mancanza di coscienza di classe. Tutti gli attori di questa storia appaiono spaesati, privi di consapevolezza del proprio ruolo e defraudati da ogni prospettiva. Il paese di “buone famiglie” si pone il “problema” dei figli che cercano di diventare adulti negli anni che seguono la crisi finanziaria. Foffo è figlio di un piccolo imprenditore. Sogna di sfondare con una “start up” che assomiglia sempre più a un rimpianto. Prato, il cui padre è un manager culturale, organizza serate e aperitivi: la disperazione lo divora mentre lavora mostrandosi entusiasta. Sono sperduti nella metropoli, sono il simbolo del collasso della creative class, del progressivo sbriciolarsi del secondo anello della città globale, quello che secondo gli analisti avrebbe dovuto collocarsi a ridosso delle residenze delle élite del centro storico per fornire servizi e attestarsi nell’anello metropolitano che precede la periferia. Il centro di Roma è ormai da qualche anno una città di cartone, set per turisti e contenitore di affittacamere in balia di allibratori digitali e visitatori mordi-e-fuggi: la pandemia ha poi mostrato tutta la fragilità di questo modello economico. Foffo e Prato percepiscono l’orlo del burrone. “Ci sentivamo in fondo mediocri, stupidi, pavidi e inessenziali, nel crepuscolo di un’epoca che aveva promesso di farci ricchi, intelligenti, coraggiosi”, scrive Lagioia. È in questa allarmante zona grigia (tra centro e periferia, tra vita e morte, tra romanzo e fiction) che si dipana La città dei vivi. Implodono i confini tra il centro che bazzicano i due assassini e la periferia dalla quale proviene Varani. Questa volta gli assassini sono i borghesi, spaventati guerrieri della concorrenza abituati come tutti a consumare la droga performativa per eccellenza per darsi un tono da vincenti o per trovare il coraggio di oltrepassare i confini dei generi. Il “ragazzo di vita” è la vittima. Prato agli inquirenti racconta chiaramente che Varani è stato scelto per la sua condizione di ricattabile: “Pensavo che Luca per soldi avrebbe fatto qualunque cosa. Ero a conoscenza della sua situazione economica”. Per vivere un’esperienza che la sentenza di condanna a Foffo definisce “oltre ogni limite”, i due uccidono un “debole”, ristabilendo nella forma più estrema i confini, le coordinate e le differenze di classe. “A Roma le barriere sociali, anagrafiche, le discrepanze estetiche, potevano crollare in un istante”, scrive l’autore. Ripercorrendo la strada che dall’Esquilino scende lungo la via Casilina e conduce a Tor Pignattara e da lì alla città infinita fino ai Castelli, Lagioia racconta in prima persona la sua angoscia. Più avanti annota che “una marea di nuovi poveri, scasati, disagiati, premeva inquieta dalle periferie”. Il male però è alle sue spalle, dalle zone centrali dalle quale proviene. Non sono le “periferie”, a patto che esistano ancora, ad accerchiare la città e travolgerla nel caos. Perché questa è la storia di un buco nero, di una voragine che dalle zone esclusive delle mura storiche ingoia il resto delle forme di vita. Il festival della canzone, in manicomio di Mario Bernardi Guardi Corriere Fiorentino, 7 novembre 2020 Lucca, la storia di come Tobino cercò di trasformare Maggiano in un paese. Follia, disperazione e lacrime. Il manicomio di Maggiano è stato il più antico d’Italia e per decenni ha assomigliato a un carcere. Ma con la direzione dello psichiatra-scrittore Mario Tobino, alla guida di Maggiano dal 1956 al 1958, iniziò una lenta e difficile apertura verso l’esterno, con tanto di festival musicali. A raccontarlo è il libro di testimonianze “Maggiano. Gli anni del cambiamento 1958-1968”, a cura di Giovanni Contini e Marco Natalizi. Il manicomio di Maggiano, il più antico d’Italia, come risultava alla promulgazione della legge 180 nel 1978 - la Basaglia, che chiudeva i manicomi - ha una lunga storia. Inizia nel 1770 quando viene istituito dalla Repubblica di Lucca, termina nel 1999 quando viene chiuso. Nel mezzo lacrime e sangue, la sostanza di cui è impastato il mistero doloroso della follia. Eppure, sosteneva lo scrittore e psichiatra Mario Tobino, che lo diresse dal 1956 al 1958, se si va al di là dell’orrore e della repulsione per il malato “oggetto” e se si azzardano forme di recupero che hanno al centro attenzione, ascolto e amore, al folle può essere restituita la dignità che ogni essere umano merita. Ed è questo il senso delle testimonianze raccolte in Maggiano. Gli anni del cambiamento 1958-1968, a cura di Giovanni Contini e Marco Natalizi, Maria Pacini Fazzi Editore, opera che racconta dieci anni di impegno di medici e infermieri per “umanizzare” il manicomio. Il libro porta il contrassegno della Fondazione Mario Tobino, che da anni, con pubblicazioni, convegni, visite guidate, si fa attiva custode di un’esperienza diventata ragione di vita per il medico-scrittore che trasformò Maggiano in Magliano consacrandovi la propria materia narrativa. “Tobino - osserva Marco Natalizi - coltivò la generosa illusione che il fine del manicomio, dei medici, degli infermieri fosse quello di tutelare i diritti dei malati e si prodigò per rendere quel luogo più accogliente, scontrandosi spesso con l’ottusità dei burocrati, come racconta nel suo libro Il manicomio di Pechino”. Ma già in altre opere (da Le libere donne di Magliano a Gli ultimi giorni di Magliano), aveva rivelato quella che gli appariva come una terribile condizione carceraria. Ebbene, “Gli anni del cambiamento” evocano di continuo questo scenario, mettendoci di fronte a uno spietato “regime chiuso”, che precludeva scambi sociali e uscite verso il mondo esterno. Una “fossa dei serpenti” che spesso ingoiava il matto per tutta la vita. Uno spazio per alienati brutalmente alienante, dove gli unici mezzi per tenere a bada i degenti erano le celle imbottite, il letto di contenzione, la camicia di forza, l’elettroshock, la morfina, la coercizione violenta, le “celle dell’alga” dove agli “agitati” che strappavano vesti e lenzuola venivano date, come coperte, mucchi di alghe seccate. Per decenni Maggiano, al pari di altri manicomi, fu un turbine di deliri e di furie aggressive. Finché qualcosa cominciò a cambiare e non solo grazie all’avvento degli psicofarmaci. Così, le testimonianze raccolte (con registratori e videocamere) da Isabella Tobino, nipote dello scrittore, e dai curatori, insieme alle lunghe notti del corpo e dello spirito, tra urla terribili e silenzi tombali, raccontano anche il laboratorio del “nuovo”. Già con Tobino e poi con Domenico Gherarducci che diresse il manicomio dal 1958 al 1984. Al centro, l’idea dell’”ospedale-paese”: il malato deve fare e trovare dentro la struttura manicomiale quello che potrebbe fare e trovare fuori, in “paese”, nella società, in mezzo a quelli che non sono malati. In questo modo, mentre si cerca di rimediare alla scarsità e alla mancanza di preparazione degli infermieri, promuovendo corsi di formazione, i degenti cominciano ad aiutare il personale nelle pulizie degli ambienti, vanno in gita (la prima al Santuario di Montenero nel 1959), dormono in camerette con lettini e lenzuola pulite. Qualcuno di loro si appassiona alla musica che diventa mezzo comunicativo ed espressivo, nasce l’idea di un Festival della Canzone, la cui prima edizione si svolgerà nel 1964, viene aperto un Circolo Sociale Ammalati e comprata una stampatrice elettrica per il periodico La Pantera, redatto e composto dai degenti, viene aperta una “Banchina”, un piccolo sportello con macchina da scrivere e schedario, che può essere utilizzato per i depositi dei malati e dei parenti in visita. Non tutto è facile, qualcosa dura, qualcosa no. Ma è una possibile via d’uscita, prima della 180. Eppure Tobino fu “contro”. Perché? “Per lui, come per Basaglia, veniva prima la persona, poi il paziente - spiega Natalizi - ma le ideologie del tempo strumentalizzarono il pensiero di entrambi, così di Tobino fecero un ‘conservatore’ e di Basaglia un ‘innovatore’. Il fatto è che Tobino non voleva che i manicomi fossero chiusi: l’Italia non era ancora pronta per un simile passo, non c’erano strutture alternative, e lui temeva per i suoi malati cronici, quelli che nessuno voleva”. Infatti per loro, la “casa”, paradossalmente ma non troppo, restava il manicomio di Maggiano. Covid. Il “negazionismo” e le due forme del diniego di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 7 novembre 2020 Verità nascoste. La concretezza sta oscurando la nostra vista nel modo di gestire psichicamente e operativamente la pandemia. Invocando la paura contro chi nega di sentirla, si crea un conflitto in cui entrambi i fronti, assecondandola o esorcizzandola, la rendono padrona della nostra vita. Lo sforzo a contenere la pandemia è, in gran parte, manifestamente improvvisato a livello planetario e impostato, per forza delle cose, su misure piuttosto primitive. La frammentazione dei dati scientifici, lo scarso coordinamento tra gli esperti (che non coincidono con i virologi, in grado di vedere solo una parte del problema), lo smantellamento della sanità pubblica in quasi tutti i paesi del mondo e la mancanza di strumenti preventivi attendibili (a causa dell’ormai cronica dipendenza della ricerca dalla logica del profitto), impediscono che le misure restrittive seguano una logica rigorosa di selezione dei soggetti da proteggere. Rendono, inoltre, arduo il trattamento delle persone ammalate. La politica, già da tempo impotente di fronte al fenomeno della globalizzazione economica (che l’ha travolta), ed evidentemente spaesata, insegue affannosamente gli eventi, cercando di fronteggiare i danni immediati, ma è incapace di prevedere i danni futuri, sperando che, a tempesta passata, tutto torni come prima. Nel vuoto di una risposta politica (da non confondere con l’amministrazione dell’esistente) si è insediata la lotta contro il “negazionismo”. Il termine “negazionismo” è stato usato, del tutto impropriamente, per designare il “diniego” (in psicoanalisi il rigetto della percezione/evidenza di un fatto reale) nei confronti della Shoah. In realtà, il diniego dello sterminio più aberrante della storia (la soppressione affettivamente indifferente e impersonale di milioni di persone) è un derivato della soppressione dell’umano da parte dei nazisti (che inizia dal loro mondo interno). Di ciò che non deve esistere, non si può registrare la morte. Non l’hanno registrata i carnefici (se non come fatto logistico), non la registrano i loro apologeti. Il reato di “negazionismo” doveva essere definito come “apologia di crimine contro l’umanità”. Il fatto che così non è stato misura la nostra difficoltà di vedere oltre la concretezza dei dati. La concretezza sta oscurando la nostra vista anche nel modo di gestire psichicamente e operativamente la pandemia. Invocando la paura contro chi nega di sentirla, si crea un conflitto in cui entrambi i fronti, assecondandola o esorcizzandola, la rendono padrona della nostra vita. Già la paura fisiologica nei confronti del Covid (che ha un indubbio fondamento reale) supera la sua funzione prudenziale (“attento/a a non”), perché il contagio, l’ammalarsi e l’esito sono imprevedibili. Quando la paura perde il suo legame con la prudenza, che ne fa da contenitore, produce destabilizzazione psichica. Ad essa si aggiunge allora un’angoscia supplementare (riguardante la tenuta del nostro apparato psichico). Se non si fa nulla per ritrovare l’aggancio con la prudenza, le risposte possibili sono due opposti: il compattamento in un assetto difensivo generalizzato nei confronti della realtà e il diniego del pericolo (uno “stabilizzatore” psichico, è risaputo). Entrambe le risposte sono imprudenti. Sia l’eccesso dell’angoscia di morte, sia l’atteggiamento trasgressivo (che incentivati da un’informazione troppo incalzante e contraddittoria si riflettono l’uno nell’altro) emarginano il pensiero critico e sono un pericolo per la democrazia: portano all’invocazione di poteri forti. La loro contrapposizione che conforma il confronto sul rischio rappresentato dalla pandemia allo scontro fuorviante tra “realisti” e “negazionisti”, nasconde un secondo diniego, quello più importante e pericoloso. Il diniego dell’assenza catastrofica di un governo democratico, lungimirante e saggio, del mondo, dell’eclissi della visione globale in una realtà violentemente globalizzata, del vivere intrappolati nella necessità, nello stato d’eccezione prodotto da una logica permanente di emergenza. Per ritrovare la prudenza smarrita bisogna uscire dalla cecità, l’evidenza che nasconde, non fa vedere. Petri Sarvamaa, la difesa dei valori di Paolo Lepri Corriere della Sera, 7 novembre 2020 L’europarlamentare finlandese co-relatore dell’accordo sul meccanismo che permetterà di sospendere i finanziamenti comunitari agli Stati che violano i diritti fondamentali: “Non siano scesi a compromessi sui valori”. Il suo partito aderisce al Ppe, di cui fa parte, anche se “sospeso”, Fidesz di Viktor Orbán. Una contraddizione da risolvere. “Non siamo scesi a compromessi sui valori”, ha commentato soddisfatto il finlandese Petri Sarvamaa, popolare, co-relatore del Parlamento europeo (insieme alla socialista spagnola Eider Gardiazabal Rubial) nel negoziato sul meccanismo che permetterà di sospendere i finanziamenti comunitari agli Stati che violano quei diritti fondamentali (come l’indipendenza del potere giudiziario) alla base della nostra casa comune. L’accordo dovrà essere ratificato a maggioranza qualificata dai Paesi membri. Una buona notizia, in questo anno terribile. “L’Ue non solo sarà in grado di interrompere i fondi quando i principi dello Stato di diritto sono già violati, ma anche - ha spiegato Sarvamaa - nei casi in cui è evidente che decisioni recenti di un governo rappresentano un rischio futuro per le nostre finanze”. Le reazioni rabbiose di Ungheria e Polonia non si sono fatte attendere. Ma, come scrive su Twitter il sessantenne ex giornalista finlandese, “l’Unione non è un bancomat per gli autocrati”. ?? Di totalitarismi Sarvamaa ne sa qualcosa, visto che la famiglia del padre è fuggita in Finlandia dalla Russia all’epoca della rivoluzione. Durante la giovinezza qualche occupazione saltuaria (cameriere al ristorante dell’aeroporto di Helsinki e maschera in un cinema-teatro), gli studi di scienze politiche e poi il lavoro nella radiotelevisione pubblica Yle. A Strasburgo è arrivato nelle liste del Partito di Coalizione Nazionale, vecchia e non gloriosissima formazione politica liberal-conservatrice che aderisce ai Popolari europei. ? Ma quanto durerà ancora, venendo proprio al Ppe, la sgradevole telenovela della presenza al suo interno (attualmente “sospesa”) dei sovranisti autoritari di Fidesz al comando del premier ungherese Viktor Orbán? Tutto ciò non fa bene alla credibilità di questa grande “famiglia politica” europea. Proprio quanto è accaduto nei giorni scorsi nel negoziato sulle violazioni dello Stato di diritto lo conferma. Si tratta di una evidente contraddizione. Va detto che il partito di Sarvamaa è uno dei tredici firmatari della inascoltata lettera in cui si chiedeva l’espulsione della falange di Orbán. Ora è arrivato per tutti il momento di scegliere. Navi e aerei davanti la Tunisia per fermare le barche dei migranti di Carlo Lania Il Manifesti, 7 novembre 2020 Il piano, approvato dalla Francia, messo a punto dal Viminale anche in funzione antiterrorismo. Brigate italo-francesi ai confini. Navi e aerei italiani posizionati nelle acque di fronte alla Tunisia per intercettare i barchini con i migranti. L’idea è stata messa a punto dal Viminale e illustrata ieri dalla ministra Luciana Lamorgese al collega francese Gerald Darmanin, che ha fatto tappa a Roma prima di partire per un viaggio nei Paesi del Maghreb. Se Tunisi darà il via libera, i nostri mezzi sosteranno in acque internazionali e avranno il compito di intercettare i natanti che partono dal Paese nordafricano diretti verso l’Italia, segnalandoli alle autorità tunisine che si muoveranno per bloccarli e riportarli indietro. Di fatto la Guardia costiera tunisina è chiamata a fare lo stesso lavoro che da anni svolge la cosiddetta Guardia costiera libica con i disperati che partono da quel Paese. In questo modo l’Italia e l’Europa potranno affermare di non effettuare i respingimenti vietati dal diritto internazionale, avendo delegato ad altri il compito di riportare indietro i migranti. A peggiorare le cose, c’è poi il fatto che il nuovo piano viene giustificato anche con la necessità di fermare eventuali terroristi diretti in Europa, specie dopo i recenti attentati di Nizza (l’autore della strage alla Basilica di Notre Dame era sbarcato a Lampedusa lo scorso mese di settembre) e Vienna. Misure che però, ancora una volta, rischiano di colpire solo chi cerca un futuro migliore, visto che chi è intenzionato a portare il terrore in una capitale europea spesso non ha neanche bisogno di attraversare il Mediterraneo. E’ stato lo stesso Darmanin ad ammettere infatti come il più delle volte il pericolo lo abbiamo già in casa: “Su trenta terroristi che hanno colpito negli ultimi anni, 22 erano francesi”, ha spiegato il ministro. Ancora una volta l’Europa mette quindi assieme l’immigrazione irregolare con il terrorismo, un’equazione che già in passato ha dimostrato di non funzionare. Il compito di spiegare al governo tunisino il piano italiano (fatto proprio anche da Parigi) spetta proprio a Darmanin volato nel pomeriggio nel Paese nordafricano dove ha incontrato il presidente Kais Saied. Alla Tunisia, ma anche all’Algeria, dove arriverà oggi, il ministro chiede maggiore collaborazione per il rimpatrio di una serie di soggetti radicalizzati, ma anche un via libera politico che permetterebbe alle navi e agli aerei italiani di collaborare in maniera più stretta con la marina tunisina. In cambio, va da sé, c’è la promessa di aiuti europei all’economia tunisina messa ulteriormente in difficoltà dalla pandemia di Coronavirus. Aiuti che Bruxelles vorrebbe negoziare con i Paesi di origine dei migranti in cambio di una maggiore collaborazione nei rimpatri. “Serve una road map che negozi gli accordi di riammissione con i principali Paesi africani che ancora che ancora non si sono attivati”, ha spiegato Lamorgese al temine del vertice con Darmanin. La collaborazione tra Italia e Francia nel controllo delle frontiere non riguarda però solo quelle marittime. Presto partirà infatti una sperimentazione di sei mesi durante i quali Brigate miste formate da poliziotti italiani e francesi controlleranno i confini tra i due Paesi con l’apertura a Bardonecchia di un ufficio della polizia di frontiera. “Non si chiudono le frontiere”, ha voluto specificare Darmanin. “La libera circolazione, gli scambi commerciali sono garantiti, la lotta è contro il terrorismo e l’immigrazione clandestina”. Tutto questo in attesa di una revisione di Schengen come chiesto nei giorni scorsi dal presidente Macron e che a Bruxelles hanno già inserito nel calendario dei lavori dell’Unione. L’appuntamento è fissato per i primi di dicembre quando la Commissione europea lancerà il primo forum per rimettere mano al trattato sulla libera circolazione. Intanto su tutte le rotte marine si continua a viaggiare e purtroppo anche a morire. Stando a quanto denunciato dalle organizzazioni umanitarie circa 800 persone sono morte in una settimana tentando di raggiungere la Spagna, mentre nel Mediterraneo centrale continuano gli sbarchi sull’isola di Lampedusa. Ieri sono arrivati in tutto 206 migranti, tutti trasferiti nell’hotspot di contrada Imbriacola di nuovo sovraffollato con 1.306 persone. Israele. Maher al Akhras vince la sua battaglia contro la detenzione senza processo di Michele Giorgio Il Manifesto, 7 novembre 2020 Israele ha accettato di liberare il prigioniero palestinese che ha digiunato per 103 giorni contro gli arresti “amministrativi”. Cresce nel frattempo la condanna internazionale per la distruzione del villaggio di Hamsa al Fouqa. Fu categorico Maher al Akhras a fine luglio, quando venne arrestato dall’esercito israeliano e messo in “detenzione amministrativa” per quattro mesi senza processo e senza conoscere le accuse mosse nei suoi confronti. “Ho due sole possibilità” disse “tornare dalla mia famiglia o lasciarmi morire”. Ieri, dopo 103 giorni di sciopero della fame che lo hanno portato vicino alla morte, il 49enne palestinese del villaggio Silat al-Dhahr ha vinto la sua battaglia: presto tornerà a casa. Le autorità israeliane hanno accettato di rilasciarlo il 26 novembre, alla scadenza dei quattro mesi di carcere, e di non rinnovare la detenzione. Da parte sua Al Akhras, in condizioni critiche, tornerà a nutrirsi restando ricoverato nell’ospedale Kaplan di Rehovot. Sui social migliaia di palestinesi e stranieri hanno celebrato l’annuncio della scarcerazione a fine mese. In sostegno del prigioniero erano scese varie organizzazioni internazionali e qualche giorno fa anche l’Onu. Dal letto dell’ospedale al Akhras ha rivolto un saluto speciale alla famiglia, al suo avvocato Ahlam Haddad, ai prigionieri politici palestinesi e ha ringraziato le organizzazioni arabe ed ebraiche che si sono impegnate per la sua scarcerazione. I servizi di sicurezza di Israele accusano Al Akhras di essere un militante del Jihad Islami ma non hanno prodotto alcuna prova a sostegno di questo. E, come è avvenuto per altre migliaia di palestinesi dal 1967 ad oggi, hanno chiesto ad una corte militare di mettere Al Akhras in carcere, senza processo, ed esposto ad un rinnovo automatico della detenzione. Peraltro il 25 ottobre la Corte suprema israeliana non era andata oltre il congelamento del provvedimento, lasciando la sorte del prigioniero nelle mani delle autorità militari. La prospettiva di ampie proteste palestinesi in caso di morte del detenuto è stata con ogni probabilità la ragione che ha spinto Israele ad accettare un accordo. Al Akhras non è il primo palestinese che fa lo sciopero della fame contro la detenzione amministrativa. Negli ultimi anni la protesta si è intensificata ma le autorità israeliane non rinunciano a questa sorta di “custodia cautelare” a tempo indeterminato introdotta durante il Mandato britannico sulla Palestina. Si intensificano nel frattempo le condanne internazionali, tra cui quella dell’Ue, per la distruzione martedì del villaggio di Hamsa al Fouqa, nel nord della Valle del Giordano. I palestinesi parlano di “blitz” compiuto dall’esercito israeliano approfittando dell’attenzione generale rivolta alle presidenziali Usa. Più di 70 palestinesi sono rimasti senza casa e vivono ora in tende messe a disposizione dalla Croce Rossa. Il Cogat, la sezione dell’esercito israeliano responsabile degli affari civili, spiega che sono state distrutte strutture “costruite illegalmente in un’area di addestramento militare”. Ma il centro per i diritti umani B’Tselem denuncia che le zone per le manovre militari e altre misure impediscono totalmente ai palestinesi di costruire in Area C, il 60% della Cisgiordania che gli Accordi di Oslo assegnarono provvisoriamente al controllo di Israele in attesa di un accordo territoriale definitivo che non è mai arrivato. Quest’anno 798 civili palestinesi sono rimasti senza casa per le demolizioni compiute in Cisgiordania. Arabia Saudita. Elettroshock e frustate all’attivista che si batte per i diritti delle donne La Repubblica, 7 novembre 2020 La 31enne Loujain al-Hathloul è in isolamento e in sciopero della fame. Le sue condizioni di salute sono allo stremo. Le autorità negano contatti con la famiglia. Il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti delle donne (Cedaw) lancia l’allarme per il peggioramento progressivo delle condizioni di salute dell’attivista saudita Loujain al-Hathloul, in sciopero della fame per protesta contro le condizioni carcerarie. La 31enne, in prima fila nella lotta per i diritti delle donne e per il diritto alla guida nel regno wahhabita, ha iniziato a rifiutare il cibo il mese scorso, denunciando le restrizioni e gli abusi cui è oggetto nella cella nella quale è rinchiusa. Rilanciando il suo caso, il Comitato Onu si rivolge in modo diretto a re Salman invocandone il rilascio immediato. Elettroshock, frustate e abusi sessuali. Loujain al-Hathloul si è battuta in prima persona nelle Campagne per l’abolizione delle medievali restrizioni delle libertà delle donne in Arabia Saudita ed è stata arrestata dalle autorità saudite per aver violato le norme inerenti alla sicurezza nazionale, nel contesto di una più ampia operazione per reprimere i movimenti attivisti, soprattutto quelli femminili. Secondo quanto raccontano i parenti di Loujain, lei è stata costretta in regime di isolamento per tre mesi, ed è stata oggetto di elettroshock, frustate e abusi sessuali. I suoi carcerieri le avrebbero addirittura offerto la possibilità di uscire dal carcere se avesse dichiarato di non aver subito torture. Il governo saudita respinge le accuse. Le autorità negano ogni accusa. Intanto, fra i capi d’imputazione emersi c’è quello di aver chiesto la fine della tutela maschile, di aver contattato organizzazioni internazionali e diplomatici Onu e stranieri. E comunque, pur restando in carcere, finora i giudici non hanno emesso una sentenza di condanna. Il 26 ottobre Loujain al-Hathloul ha iniziato lo sciopero della fame per le restrizioni subite, fra cui il divieto di poter comunicare in modo regolare con la famiglia. “Non può sopravvivere in prigione - dice la sorella Lina alla Bbc - senza sapere cosa ne sarà del suo domani. “Non sa - aggiunge - quando potrà ricevere la prossima visita… se domani o fra un anno. Mia sorella è risoluta e dice: preferisco morire, se non ho idea di quanto posso rivedere i miei genitori regolarmente”. Il richiamo severo delle Nazioni Unite. Il Comitato Onu sull’eliminazione delle discriminazioni contro le donne è composto da 23 esperti indipendenti da tutto il mondo e lancia un severo richiamo sulle condizioni di salute fisiche e mentali di Hathloul. In una nota si legge un invito perentorio alle autorità saudite di “proteggere i suoi diritti alla vita, alla salute, alla libertà e la sicurezza delle persone, in ogni frangente e circostanza, rispettando le sue libertà di coscienza ed espressione, incluso lo sciopero della fame”. Infine, il comitato si è appellato direttamente al monarca Salman perché utilizzi i suoi poteri e le prerogative reali per garantire il rilascio di Loujain al-Hathloul, in vista della Giornata internazionale dei difensori dei diritti umani delle donne. “La segregazione indigena una guerra civile strisciante che avvelena la Bolivia” di Christian Dalenz Il Dubbio, 7 novembre 2020 Fernando Molina è un giornalista e scrittore boliviano. Ha scritto diversi libri sulla storia della Bolivia e ha un blog sul quotidiano La Razón dove ha spesso descritto con dovizia di particolari i modi in cui si vive il razzismo nel suo Paese. Inoltre, è corrispondente per il giornale spagnolo El País. Un curriculum perfetto per aiutarci a capire cosa è successo in Bolivia sia durante gli anni di governo di Evo Morales che nell’ultimo anno, tra la caduta di Morales, il governo di Jeanine Añez e la vittoria di Luis Arce (ex ministro dell’Economia proprio con il leader indigeno e il Mas, il loro partito, al potere). Qual è la sua opinione rispetto al risultato elettorale? Si poteva davvero prevedere una vittoria tanto schiacciante di Luis Arce o si tratta di una totale sorpresa? Sapevamo che Arce avrebbe vinto, ma nessuno si immaginava una vittoria con il 26% di distacco dal secondo arrivato. Questa sorpresa si deve all’effetto combinato di sondaggi molto imprecisi e del “voto occulto” di massa da parte di simpatizzanti del Mas che avevano paura di mostrare la propria adesione al partito, visto l’attacco mediatico e la persecuzione giudiziaria subita da parte del governo di Jeanine Añez. Che ne pensa dei 14 anni di governo di Evo Morales? È stato un processo di grandi trasformazioni sociali dovute alla grande abbondanza di eccedenti economici. Le infrastrutture del Paese si sono fortemente ampliate. Il mercato interno si è moltiplicato. Il commercio e le costruzioni hanno dato lavoro alla maggior parte dei boliviani, e ciò si è tradotto in salari più alti e minori diseguaglianze. La maggiore capacità di acquisto, sommata alla stabilità finanziaria dovuta al cambio fisso con il dollaro, hanno portato maggiore benessere sociale. È diminuita la povertà. Tutto questo è successo mentre il rafforzamento dello Stato non arrivava a influenzare strutturalmente la grande e, ancora meno, la piccola e media proprietà privata. Questo processo espansivo, per molti versi incontrollabile da parte del governo, è sfociato anche in sprechi di risorse pubbliche, eccessiva crescita della spesa pubblica, corruzione e “malattia olandese” [la caduta della produzione manifatturiera unita allo sfruttamento delle risorse naturali, ndr]. Nel campo politico ha alimentato il caudillismo e il corporativismo, tradizionali nella società boliviana. Evo Morales, che già aveva una certa predisposizione personale alla megalomania, è finito per essere il “padre” imprescindibile del Mas. Le organizzazioni sociali sono diventate un sistema di reti clientelari complesse e sordide. Tutto questo ha generato la disponibilità del popolo a cambiare leader. Morales nel 2019 ha davvero vinto attraverso una frode elettorale? Non lo so. Sono sicuro che ci fu un’intenzione fraudolenta da parte dei membri del tribunale elettorale, i quali ordinarono la sospensione improvvisa e ingiustificata della trasmissione rapida di dati, ma non so se questo abbia implicato l’alterazione degli stessi; ovvero, se l’intenzione si sia anche convertita in azione. Non c’è ancora chiarezza, sebbene esistano una quantità davvero sospetta di irregolarità. Che ne pensa invece dell’anno di governo di Jeanine Añez? È stata una controrivoluzione restauratrice dei vecchi privilegi dell’élite tradizionale del Paese, sia sociale che politica, che era stata messa fuori dal potere nel processo diretto da Morales. Una controrivoluzione che non è arrivata a consolidarsi e creare egemonia perché, a causa delle condizioni internazionali vigenti, ha dovuto reinserirsi in un processo elettorale e perché ha disperso la disponibilità di tutte le classi sociali a un cambiamento. È entrata perciò in un ripiegamento, ma può tornare ad attivarsi a partire dalle difficoltà e dagli errori di Arce”. Lei ha scritto in passato che da sempre si vive in Bolivia una “guerra civile strisciante”. Come mai? Le basi per una guerra civile sono poste dalla disputa per gli eccedenti economici e per il potere tra un’élite e una contro- élite che si escludono mutualmente, e che rappresentano se stesse autoritariamente come le uniche destinate a governare. Un atteggiamento alimenta l’altro ed entrambi, escludendo il rivale, impediscono la costruzione della democrazia. Spingono la politica a spostarsi sul suo lato più sinistro e crudo: il potere senza compromessi. Il Mas si pone come unico governo legittimo a causa della visione di sé stesso come unico partito che vuole la giustizia sociale e per la sua concezione della democrazia come strumento della maggioranza. L’élite tradizionale si pone come l’unico governo legittimo attraverso la sua ideologia meritocratica e il suo razzismo, che la portano così a disprezzare il capitale politico degli indigeni. Lei ha scritto molti articoli sul tema del razzismo in Bolivia. Può spiegare al lettore italiano quanto le discriminazioni razziste siano profonde nel Paese oggi? Sono molto gravi. Il razzismo si produce nella vita quotidiana e assume le forme della segregazione (in quanto esistono sfere dell’attività sociale irraggiungibili per gli indigeni) e della discriminazione in tutte le relazioni interrazziali. L’idea di fondo è che gli indigeni abbiano minore valore sociale. Il razzismo inoltre è strutturale, perché di fatto esiste il “primato bianco” in tutte le posizioni di classe più profittevoli, nell’educazione e, prima del Mas, nella politica. Il razzismo in politica assume la falsa cornice della meritocrazia, cioè del governo dei più educati, tra i quali non si includono mai gli indigeni. Si esprime anche con l’odio per il Mas, che di fatto è in parte anche odio per le basi indigene di questo partito. Vediamo per esempio la dichiarazione del presidente del Comitato Civico Pro Santa Cruz, Romulo Calvo, contro i contadini che hanno bloccato le strade ad agosto. Calvo disse che i contadini erano “bestie umane”. Ripeté così la descrizione razzista più antica che possa aver mai ricevuto un indigeno americano, dato che Colombo descrisse le genti della Antille come “bestiali”. Criticato da La Paz, Calvo spiegò che “bestia” significa “senza ragionevolezza”, e che i contadini a cui aveva alluso non ce l’avevano. Ma Calvo non è stato criticato a Santa Cruz e non ha dovuto ritrattare. Questo episodio fa capire che quello che ha detto è tollerato dall’élite della sua regione, che di solito non esprime il proprio razzismo così apertamente e lo fa piuttosto nelle relazioni quotidiane con i collas, gli immigrati che arrivano a Santa Cruz dalle terre alte nell’occidente del Paese.