I detenuti al 41bis non sono troppi? di Henry John Woodcock Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2020 Alcuni recenti casi riguardanti in particolare anziani detenuti, qualcuno dei quali dietro le sbarre da decenni, hanno riaperto - e rischiano di infiammare, sia pure di tangente - il dibattito sulla umanità del 41bis, espressione ricorrentemente usata per indicare il complesso di restrizioni e deroghe al regime carcerario ordinario, specificamente previsto per soggetti considerati particolarmente pericolosi dall’articolo 41bis (appunto) dell’Ordinamento penitenziario. I critici del 41bis giungono a definirlo un sistema sadico mirante all’annientamento di un presunto nemico, e come tale incompatibile con la nostra Costituzione che sancisce la finalità rieducativa della pena. È un regime - dicono - che impone l’isolamento e forti restrizioni ai rapporti con l’esterno, ma anche molte altre prescrizioni che non hanno niente a che vedere con la “sicurezza”. Cosa c’entra con la sicurezza, per esempio, il divieto di vestirsi come si vuole? O di usare lenzuola meno grezze di quelle fornite dall’amministrazione? O le mille altre restrizioni senza altra ragione che non sia quella di rendere la vita di alcuni detenuti impossibile? Avanzano dunque il sospetto che si tratti in realtà di un regime che vuole punire chi non “si pente”, o peggio di una sorta di tortura intesa a favorire la “collaborazione”, con ciò aggravando fortemente i profili di incostituzionalità dell’istituto. Perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta a una revisione critica del proprio passato e alla decisione di cambiare vita. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità tipica che si propone la tortura. Per conto mio, mi permetto di rilevare che il carattere comunque eccezionale attribuito dalla legge alle restrizioni dell’ordinario trattamento penitenziario sembra poco adattarsi al fatto che i soggetti attualmente sottoposti al 41bis siano tanti, oltre 600, e che le proroghe sono di fatto automatiche e senza limitazioni temporali. Circostanze, queste, che lo fanno piuttosto assomigliare a un regime “ordinario” per detenuti “speciali” o, peggio, a una sorta di pena supplementare che viene peraltro applicata da un’autorità amministrativa, in relazioni a fattispecie evanescenti e astratte come il ricorso di “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”. Il fatto poi che, per legge, i ricorsi relativi siano stati attribuiti alla competenza esclusiva del Tribunale di Sorveglianza di Roma, fa storcere il naso a molti, evocando lo spettro del “Tribunale speciale”. Al battaglione di detenuti al 41bis, fa poi da specchio l’armata dei collaboratori di giustizia, oltre 1.000, sottoposti a speciale regime di protezione. Anche qui il numero elevatissimo si adatta poco a misure concepite come “eccezionali”, facendo sorgere il sospetto che, in certi ambienti di criminalità organizzata, sia diventata prassi “ordinaria” quella di commettere reati gravissimi e poi, una volta beccati, “pentirsi” e godere dei sontuosi benefici legati alla collaborazione. Benefici che possono fruttare, nei fatti, una condanna a una pena complessiva inferiore ai venti anni di carcere (oltre ad arresti domiciliari e semilibertà), a fronte anche di una decina di omicidi da ergastolo. Anche qui, e senza alcuna considerazione di ordine morale, i critici del sistema parlano di una misura criminogena che, paradossalmente, favorisce il crimine, offrendo una prospettiva - il “pentimento” - ai più efferati assassini, messi nella condizione di delinquere senza dover subire conseguenze irrimediabili. Addirittura, c’è chi si spinge ad affermare che, in vista del “pentimento”, conviene ai criminali moltiplicare i propri reati, per avere più cose da “rivelare” e, dunque, accrescere la “rilevanza del contributo all’accertamento della verità”, cui sono commisurati i benefici di legge. Non v’è dubbio che tutto questo dibattito, e più in generale il dibattito che riguarda il sistema penitenziario, che investe punti strategici del nostro sistema penale, quale il trattamento dei detenuti e le misure premiali per i collaboratori di giustizia, meriterebbe un migliore approfondimento e una più vasta platea, che non sia solo quella degli addetti ai lavori. Per quanto mi riguarda, mi lascia tuttavia molto perplesso il fatto che in Italia chi critica il 41bis - che, per carità, entro limiti ben determinati e soprattutto se relegato all’ambito di eccezionalità per il quale era stato concepito, è pure utile e necessario in un Paese come il nostro nel quale la criminalità organizzata è particolarmente aggressiva - rischia concretamente di essere additato come “fiancheggiatore delle mafie”, e mi lascia ancor più perplesso che il dibattito sul carcere, soprattutto da parte dei media, si concentri quasi esclusivamente sul 41bis, dimenticando che ci sono altri 60 mila detenuti (circa), sovente costretti a vivere in condizioni ai limiti del disumano, tanto da essere stati per questo spesso bacchettati dall’Europa. A proposito di Europa, chi sa se una piccola parte dei soldi che arriveranno coi programmi del Recovery Fund non possa essere spesa, invece che in sussidi vari, per migliorare il sistema carcerario e dunque le condizioni di vita dei 60 mila e più esseri umani detenuti. Giubilo per la Consulta, ma sono a rischio i malati all’ergastolo e al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 novembre 2020 Sarà sicuramente interessante leggere le motivazioni della Consulta sull’infondatezza della censura al decreto antiscarcerazioni. L’ufficio stampa della Corte costituzionale ha fatto sapere che il decreto non è in contrasto con il diritto di difesa del condannato né con l’esigenza di tutela della sua salute né, infine, con il principio di separazione tra potere giudiziario e potere legislativo. Sarà interessante leggerle perché siamo sicuri che ancora una volta verrà sottolineata l’importanza del diritto alla salute anche nei confronti dei detenuti che rientrano nei reati ostativi, sia di chi è al 41bis, sia di chi è recluso nei circuiti di Alta Sicurezza. Un principio più volte ribadito dalla Corte stessa. Ed è la questione che forse non è stata colta da chi ha accolto con toni trionfalistici la decisione della Consulta, pensando che sia quindi giusto mettere più paletti possibili per evitare la “scarcerazione” (che in realtà è sempre detenzione) ai detenuti per reati mafiosi anziani e gravemente malati che, soprattutto in tempo di pandemia, rischiano la vita dietro le sbarre. Il diritto alla salute è un principio inviolabile, per questo durante la prima ondata dell’emergenza Covid, diversi magistrati di sorveglianza e Gip hanno disposto la misura alternativa per tutti quei detenuti che presentavano gravi patologie, soprattutto per il fatto che il virus si diffonde facilmente nelle carceri dove, tra l’altro, l’assistenza sanitaria è carente. D’altronde una delle prime vittime della prima ondata era stato un detenuto 76 enne, recluso per reati di mafia al carcere La Dozza di Bologna. Si chiamava Vincenzo Sucato ed era lì nonostante si sapesse che si trattava di un soggetto ad elevatissimo rischio sia di contaminazione che di morte quasi certa in caso di contagio. Tanti sono soggetti a rischio e i magistrati stessi hanno ritenuto fondati i motivi per concedere la detenzione domiciliare per motivi di salute. Ma poi è arrivato lo tsunami dell’indignazione, la “scoperta” da parte di alcuni giornali che sì, centinaia di detenuti (non boss) accusati di reati mafiosi sono stati mandati via dal carcere. In un Paese civile, informato adeguatamente da chi rispetta la deontologia professionale, non ci sarebbe stato alcuno scandalo. Un governo, sicuro delle sue azioni, manterrebbe fermo il punto, anche al costo di diventare impopolare. Ma diversi magistrati, politici, ministri, sono diventati ostaggio dei talk show. A un tratto, tranne rarissime eccezioni come appunto i magistrati di sorveglianza di Spoleto, Sassari e Avellino che hanno impugnato i decreti, c’è stato il dietrofront. Il pericolo Covid è scomparso, a un tratto sono stati trovati penitenziari che avrebbero centri clinici adatti per la cura oncologica e altre gravi patologie. Le carceri, insomma, sono diventate all’improvviso perfette per fronteggiare il Covid e qualsiasi altro fattore che può essere letale per chi ci vive. Perfino le Asl locali, all’improvviso dipingono i centri clinici come esempi virtuosi. Il Dubbio, nei mesi scorsi, aveva pubblicato in esclusiva alcuni passaggi del documento della Asl locale che dipinge il carcere di Parma ad “alta complessità sanitaria”. C’era una prima lista, la più urgente, che era composta da 51 nominativi classificati a rischio per l’età e presenza di importanti comorbidità (la coesistenza di più patologie diverse in uno stesso individuo). Tra i nomi compare anche quello di Raffaele Cutolo al quale, com’è noto, è stata rigettata l’istanza per la detenzione domiciliare richiesta per le sue drammatiche condizioni di salute e rinnovato il 41bis. Magicamente, è tutto rientrato. Il centro clinico di Parma diventa adatto per garantire la salute ai malati. Sicuri? Il Dubbio, a settembre, ha dato notizia che il 72enne pluriergastolano siciliano Carmelo Terranova, il quale a fine aprile ha usufruito della detenzione domiciliare a causa delle sue patologie ritenute inizialmente incompatibili con il carcere, era stato fatto di nuovo rientrare in carcere. Sì, perché dopo le indignazioni, improvvisamente è diventato compatibile. Inizialmente l’hanno tradotto presso la casa Circondariale siciliana “Cavadonna”, in quanto, attraverso la rivalutazione obbligatoria, hanno attestato la compatibilità delle sue condizioni di salute col regime carcerario. In realtà, tempo poco più di un mese, lo hanno tradotto nel carcere di Parma e, esattamente il 14 agosto, è stato assegnato al centro clinico del carcere. Ma ci è durato poco, perché subito dopo lo hanno ricoverato in ospedale, nel reparto detentivo, dove alla fine è morto. Ora c’è la seconda ondata, i contagi aumentano a dismisura. Altri morti per Covid, tra cui proprio un ergastolano 82enne, gravemente malato al carcere di Livorno, al quale ad aprile gli avevano rigettato l’istanza di scarcerazione. Il virus è entrato anche nel carcere di Torino infettando due bambini, ha attraversato le sbarre del 41bis del carcere milanese di Opera e ha infettato, tra gli altri, Antonio Tomaselli. Ha un grave carcinoma polmonare (dichiarato malato terminale), ma per i giudici poteva stare dentro perché non avrebbe corso nessun rischio. Ora è in terapia intensiva e lotta tra la vita e la morte. I familiari lo hanno saputo dopo giorni. Possibile che solo Il Dubbio ne parli? E tra i politici, possibile che solo il Partito Radicale, tramite l’instancabile Rita Bernardini, si sia attivato per far luce e denunciare palesi trattamenti inumani e degradanti? Decreto Ristori: ancora misure insufficienti per i luoghi di detenzione di Giusy Santella mardeisargassi.it, 6 novembre 2020 La pandemia imperversa in tutta Italia, i numeri dei contagi crescono molto più velocemente di quanto ci si aspettasse, le misure governative rincorrono il virus, raggiungendolo nella maggior parte dei casi quando ha già fatto danni e si avvia a fare i prossimi. Nuovamente, è necessario porre una particolare attenzione ai luoghi di privazione della libertà, dove la diffusione del Covid può essere facilitata dalla promiscuità cui i detenuti sono sottoposti e dal mancato rispetto delle condizioni igienico-sanitarie troppo spesso riscontrato, rischiando di appesantire i sistemi territoriali già gravemente affaticati. Al momento, risultano più di 230 casi di positività accertata tra il personale e più di 200 (215 al 30 ottobre) tra la popolazione ristretta. A spaventare, però, è la rapidissima progressione che ha più che raddoppiato i contagi in meno di una settimana. Nella maggior parte dei casi si tratta di piccoli numeri per ciascun penitenziario, ma non mancano situazioni particolarmente preoccupanti, come quella di Terni, in cui è scoppiato un vero e proprio focolaio che ha presto portato i detenuti positivi da 1 a 69 (su una popolazione totale di 514), quella del carcere di Alessandria - dove sono stati registrati 29 casi di positività - o quella del carcere di San Vittore di Milano. In Campania, invece, preoccupa molto la situazione della Casa Circondariale di Poggioreale, uno degli istituti più sovraffollati e fatiscenti d’Italia, che conta al momento 4 positivi e 6 in isolamento, ma che necessita di un intervento immediato a causa delle condizioni in cui vivono i reclusi, costretti a condividere le celle addirittura in 10 o 12, che potrebbero dar vita a una vera tragedia. È di poche ore fa la notizia della seconda vittima detenuta di questa ondata di COVID-19 che ad Alessandria ha seguito la sorte di un ultraottantenne detenuto a Livorno, la cui richiesta di differimento pena era stata respinta pochi mesi fa, nonostante l’età e le precarie condizioni di salute dovute a patologie pregresse, poi rivelatesi fatali. Resta, infatti, fondamentale salvaguardare i detenuti più anziani o affetti da particolari malattie, come sottolineato anche dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma. Pochi giorni fa, il Governo ha varato il Decreto Ristori, con il quale oltre alle misure di carattere economico - sulla cui poca utilità e ipocrisia abbiamo avuto modo di pronunciarci - ha previsto apposite disposizioni che intervengono nell’ambito della giustizia con l’obiettivo di far proseguire il lavoro giudiziario, cercando di contenere il contagio da coronavirus nei tribunali e nelle carceri. Un’impresa tutt’altro che semplice, soprattutto nel secondo caso, considerato che i luoghi di detenzione non sono affatto impermeabili, attraversati quotidianamente da centinaia di persone che provengono dall’esterno e che sono potenziali diffusori del virus. In realtà, gli articoli da 28 a 30 riproducono le misure già varate lo scorso marzo, rivelatesi in gran parte insufficienti. La diminuzione di 8mila unità della popolazione detenuta ottenuta in quel periodo, infatti, è stata possibile solo grazie alla solerzia dei magistrati di sorveglianza che hanno utilizzato in gran parte disposizioni già presenti nel nostro ordinamento - ma rimaste fino a ora inattuate, complice la mancanza di volontà politica - anziché le apposite misure del Decreto Cura Italia, che introducevano eccessive restrizioni. Anche stavolta si prevedono licenze per le persone in regime di semilibertà, con la possibilità di usufruirne anche in deroga al limite di 45 giorni complessivi stabilito per ogni anno. Una misura simile è pensata poi per i permessi premio, che potranno essere erogati anche in deroga ai limiti temporali concessi dalla legge, ma solo per coloro che ne abbiano già usufruito o che siano affidati al lavoro esterno o ammessi alla formazione o istruzione fuori dalle mura carcerarie. In quest’ultimo caso, come per la detenzione domiciliare, rimane ferma l’esclusione per alcune tipologie di reato, anche se i condannati devono scontare un residuo di pena inferiore ai 18 mesi. Altro dato da tenere in considerazione è la necessità del braccialetto elettronico per coloro la cui condanna rimanente è superiore ai 6 mesi, per la quale probabilmente ci si scontrerà nuovamente con l’assenza dei dispositivi. Ancora, come a marzo, non è possibile usufruire della misura per chi abbia ricevuto un rapporto disciplinare o abbia preso parte alle rivolte dei mesi scorsi, con un chiaro intento punitivo che nulla ha a che vedere con la tutela della salute che spetta a chiunque, a prescindere dal reato commesso, trattandosi di un diritto costituzionalmente tutelato che assume nel nostro ordinamento una posizione prioritaria rispetto a qualsiasi altro fine, sanzionatorio o rieducativo che sia. Eppure, il Ministro della Giustizia Bonafede ha avuto cura di precisare immediatamente che né mafiosi né rivoltosi avranno la possibilità di beneficiare di alcuna misura, in dispregio di qualsiasi stato di diritto, e salutando con enorme soddisfazione i provvedimenti varati, mettendosi così subito al riparo dalle inutili polemiche che hanno invaso tv e giornali in occasione della detenzione domiciliare stabilita per taluni detenuti che si trovavano in regime di alta sicurezza e che soffrivano di particolari patologie. In realtà, si tratta semplicemente di un copia e incolla di quanto era già stato stabilito a marzo: pur trattandosi di un provvedimento la cui platea teorica è di 5000 detenuti, non solo esso si scontrerà con le eccessive limitazioni di carattere soggettivo e oggettivo inserite nel decreto, ma soprattutto con la difficoltà per tribunali e magistrati di sorveglianza di vagliare queste pratiche nel tempo richiesto dalla velocità di diffusione del virus. Bisogna inoltre tenere presente che, se è vero che nel mese di maggio si erano raggiunti i 53mila reclusi, essi sono già aumentati di 2mila unità poiché è stata data nuovamente esecuzione agli ordini di carcerazione sospesi, anche per pene molto brevi, e le licenze e i permessi premio, in quanto misure temporanee, hanno chiaramente esperito la loro intera efficacia. Parte del lavoro fatto dovrà, dunque, essere ripetuta, comportando un dispendio di tempo ed energie che attualmente non possiamo permetterci. Il trend al ribasso andava mantenuto anche durante gli ultimi mesi, ben consapevoli del rischio di una seconda ondata pandemica. Ciò che ora rimane necessario, dunque, è predisporre spazi appositi per l’isolamento sanitario, tenendo presente che il distanziamento in carcere è un’utopia. Inoltre, bisognerà fare uno sforzo di comunicazione maggiore per evitare di ripetere gli errori che hanno condotto alle ultime rivolte: i detenuti sono cittadini e devono, come tutti, essere preventivamente messi al corrente delle misure che li riguardano. Infine, sarà necessario assicurare, per coloro che resteranno in carcere, la finalità rieducativa della pena che necessita di un percorso trattamentale che non si può ridurre alla semplice reclusione. Molte sono state le soluzioni paventate da più parti negli ultimi giorni. Tra queste, la liberazione anticipata speciale che servì a ridurre il sovraffollamento in seguito alla condanna della sentenza Torreggiani, l’amnistia e l’indulto. In verità. questi ultimi due provvedimenti difficilmente potranno essere emanati poiché, dopo la sua modifica del 1990, l’articolo 79 della Costituzione li consente solo al raggiungimento dei voti favorevoli dei due terzi di entrambi i rami del Parlamento. Numeri a oggi irraggiungibili, stando al clima d’odio che imperversa all’interno della classe politica. Nonostante siano state stabilite misure molto blande e di difficile attuazione, infatti, non sono mancate le roboanti proteste di quella fazione che ben conosciamo e che non ha perso occasione per tuonare che il Governo chiude ristoranti e bar ma spalanca le porte delle galere per mandare i delinquenti a casa con la scusa del Covid. Forse, a questi signori sfugge che il Covid non è una scusa né l’oggetto di un complotto, ma una triste realtà che dobbiamo avere la forza di affrontare. Riguarda tutti e quindi, sì, anche i detenuti - una categoria che non aggrada certa politica -, cui comunque va garantito il diritto alla salute e alla dignità. Non bisogna dimenticare, inoltre, che la detenzione domiciliare non equivale ad alcuna liberazione poiché essa è e rimane privazione della libertà, nonostante ciò che i mezzi di informazione si ostinano a raccontare. Infine, nel nostro ordinamento, in conformità a quanto previsto a livello comunitario e internazionale, non è possibile sottoporre i condannati ad alcuna afflizione ulteriore rispetto a quella conseguente alla privazione della libertà, dunque non è consentito in alcun caso un sacrificio, neppure minimo, di diritti fondamentali come quello alla salute e all’integrità fisica. Se il carcere non è diventato una bomba a orologeria nei primi mesi di lockdown è stata soltanto fortuna: prima che sia troppo tardi, quindi, bisogna agire e bisogna farlo subito. La giustizia riparativa supera la logica della repressione di Andrea Leccese Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2020 Anche i Sindacati del comparto sicurezza possono favorirla. Nell’ottobre del 1986 entrò in vigore la legge Gozzini, che da un lato introdusse il carcere duro per i mafiosi e dall’altro le misure alternative alla detenzione. Già allora Mario Gozzini, cattolico progressista eletto in Parlamento come indipendente nelle liste del Pci, muovendo dalla consapevolezza che il carcere troppo spesso invece di “rieducare” peggiora il condannato, intuì che si potesse pensare a una giustizia diversa da quella repressiva. “Che l’uomo sia liberato dalla vendetta - è questo per me il ponte verso la più alta speranza e un arcobaleno dopo lunghe tempeste”, scriveva Nietzsche in “Così parlò Zarathustra”. E cos’altro è la pena se non vendetta - certo una “vendetta pubblica” - contro chi ha commesso reati? Lo è stata soprattutto quando, prima della legge Gozzini, appariva ancor più netta la separazione tra giudizio penale ed esecuzione penale, tra Tribunale e galera. Da una parte il piano superiore del giudice che pronuncia solennemente la sua sentenza, dall’altra il sottoscala buio e sordido dell’espiazione. Il carcere era il luogo del lavoro sporco, spesso dei trattamenti brutali, altro che della “risocializzazione”! Lo racconta bene Nanni Loy nel film “Detenuto in attesa di giudizio” (1971), dove il protagonista, Giuseppe Di Noi (Alberto Sordi), vittima per giunta di un errore giudiziario, finisce nell’inferno delle prigioni italiane, fatto di regolamenti incomprensibili, di umiliazione e di violenza. Oggi, a 34 anni dalla riforma penitenziaria dell’86, le cose senza dubbio sono cambiate, ma la strada verso un “umanesimo della giustizia” - espressione rubata a Umberto Curi - deve passare forse dal definitivo superamento della concezione retributiva della pena, cioè della sanzione come “afflizione” proporzionata al delitto, e dall’opzione per la “giustizia riparativa”, che consideri il reato non più come una condotta lesiva dell’ordine sociale da punire con la sofferenza della reclusione ma come un comportamento che provoca sofferenza alla vittima e un danno alla comunità, e che induca il colpevole ad attivarsi per la riparazione dell’oltraggio causato. Secondo l’Onu, per restorative justice deve intendersi “ogni procedimento in cui la vittima e il reo, nonché altri eventuali soggetti o comunità lesi da un reato, partecipano attivamente insieme alla risoluzione delle questioni emerse dall’illecito, generalmente con l’aiuto di un facilitatore”. La “giustizia riparativa”, superando quindi la logica della repressione, richiede al reo di acquisire piena comprensione della negatività del proprio comportamento e di adoperarsi per la riparazione del danno subito dalla vittima, nell’ambito di un percorso di reinserimento sociale, favorito da mediatori e dalla comunità, che miri alla ricostruzione del legame sociale e al riequilibrio del sistema di rapporti turbato dal delitto. La “giustizia riparativa” fa già parte da tempo del nostro ordinamento, e interviene sia in sostituzione della condanna (mediazione penale per i minori), sia sotto forma di riparazione collegata alla condanna (lavori di pubblica utilità sostitutivi della sanzione detentiva), sia come misure aggiuntive di carattere riparatorio in caso di affidamento in prova ai servizi sociali. In qualche modo, essa è stata assunta dal legislatore italiano come un dispositivo innovativo in grado di tracciare una via d’uscita di fronte alla palmare crisi del diritto penale e dell’istituzione carcere (saturazione e lentezza della macchina giudiziaria, sovraffollamento delle strutture carcerarie, effetti paradossali e negativi della pena detentiva, ecc.). Suo presupposto indefettibile è la completa coscienza del male provocato da parte del reo, con il conseguente disagio (vergogna) e il desiderio di impegnarsi per porre rimedio al danno prodotto. Su questo terreno può essere prezioso il contributo degli appartenenti alla polizia giudiziaria. La restorative justice - me lo ripete da mesi Cristina Selmi - potrà trovare proprio nell’azione dei sindacati del comparto sicurezza una nuova spinta propulsiva. I poliziotti hanno l’opportunità di guardare con occhi diversi l’autore del reato, non più come il malvivente da castigare ma come una persona alla quale offrire insieme nuove chance. Il carcere, come ha scritto Gozzini nel saggio “La giustizia in galera?” (Editori Riuniti, 1997), “non è un contenitore di rifiuti da tenere il più lontano possibile perché manda cattivo odore, ma una parte della società di cui siamo tutti corresponsabili”. Dap. Dopo le polemiche dei mesi scorsi la nomina di De Gesu: uno sgarbo alle toghe? di Massimo Malpica Il Giornale, 6 novembre 2020 Il Guardasigilli non sceglie un magistrato per un delicato ruolo al Dap. È un errore in buona fede, uno sgarbo alle toghe o una mossa strategica? Pare che il Guardasigilli a Cinque Stelle Roberto Bonafede sia incline a prendere decisioni controverse, e anche l’ultima nomina del ministero di via Arenula non sembra sottrarsi a questa regola. Dopo le polemiche per la famigerata circolare del Dap che aveva svuotato le carceri sotto lockdown e la sequela di dimissioni che avevano punteggiato la primavera, ieri il ministro della Giustizia ha riempito una di quelle caselle del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che si erano svuotate in primavera. Il posto lasciato libero era di quelli che pesano, per importanza e per delicatezza, ossia la poltrona di direttore generale detenuti e trattamento del Dap, occupata da Giulio Romano solo da febbraio a maggio e poi rimasta vacante a lungo, non senza polemiche da parte degli addetti ai lavori. Ora per quel posto è stato nominato Gianfranco De Gesu, una risorsa interna al Dap, stimato dirigente dell’amministrazione penitenziaria, calabrese, 62 anni. Ma nel suo rispettabile curriculum spicca una mancanza: non è un magistrato. Non un dettaglio, per il nuovo responsabile di un incarico che da 35 anni è appannaggio di una toga. Anche perché il dg Detenuti e Trattamento si occupa di gestire una delle materie più delicate del sistema carcerario, e il Dna naturale per ricoprire quel ruolo ricade nel profilo genetico degli appartenenti alla magistratura. Non è un caso, in effetti, che quando a luglio si lamentava del mancato avvicendamento del dimissionato Giulio Romano, il segretario generale del sindacato Sappe Donato Capece spiegava: “Mi sembra assurdo che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non abbia ancora nominato un magistrato nell’incarico di Direttore generale dei detenuti e del trattamento”. Una scelta dei termini non casuale, “un magistrato”, non “un sostituto”. Così, anche se nessuno solleva obiezioni sulle qualità personali di De Gesu, la sua nomina sembra aver rinnovato frizioni tra la magistratura e il Guardasigilli, dopo le polemiche dei mesi scorsi tra Bonafede e Di Matteo per la mancata nomina di quest’ultimo a capo del Dap (ma ad essergli preferito fu comunque un magistrato, Basentini, poi dimessosi ad aprile in seguito alle polemiche per le scarcerazioni facili causa Covid). Tra molti addetti ai lavori, e tra le toghe in particolare, la scelta del ministro pentastellato è considerata incomprensibile, considerate le specifiche competenze richieste dal ruolo, e se qualcuno si limita a fare spallucce derubricando la nomina come “stravagante”, c’è anche chi ci vede uno sgambetto deliberato alla magistratura, quasi fosse un cavallo di Troia della politica infilato nel recinto del potere giudiziario. I proclami che ledono l’autorevolezza della magistratura di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 6 novembre 2020 Troppo spesso si sentono teorizzazioni sganciate dai fatti, ma sfolgoranti dell’autorevolezza del ruolo di chi le prospettava in dichiarazioni, audizioni e persino roboanti comunicati stampa. Adesso che a Ragusa (caduta già a Catania l’associazione a delinquere) è arrivato l’ennesimo proscioglimento di una Ong - stavolta dei comandanti Open Arms dalle accuse di violenza privata al Viminale (fatto non sussiste) e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (non punibile per stato di necessità) nei soccorsi a 218 persone al largo della Libia nel marzo 2018 - viene da chiedersi dove siano silenti alcuni “tipi d’autore”. Quelli che in politica assicuravano spavaldi di avere “le evidenze” dei rapporti tra Ong e scafisti (e pazienza se negli atti poi non le si vedeva). E quelli che in toga, anziché limitarsi a istruire i processi così come ritenevano, per sovrappiù arabescavano teorizzazioni sganciate dai fatti, ma sfolgoranti dell’autorevolezza del ruolo di chi le prospettava in dichiarazioni, audizioni e persino roboanti comunicati stampa (come proprio nel sequestro della Open Arms: “L’intervento della Procura distrettuale si inscrive nell’attività più ampia intrapresa da anni da questo Ufficio per contrastare il traffico di disperati. Questo Ufficio rivendica con orgoglio l’elaborazione di interpretazioni giuridiche e modelli organizzativi recepiti da Cassazione e Direzione Nazionale Antimafia... Questa Procura distrettuale non intende sottrarsi all’obbligo di far rispettare le norme”). E, del resto, magistrati baciati dall’audience non sono poi andati a ripetere (manco fosse già Cassazione) che le Covid-rivolte di marzo nelle carceri fossero state teleguidate in tutta Italia dalla mafia per piegare a una nuova “trattativa” lo Stato? Dopo 8 mesi nessuna inchiesta sinora l’attesta, al di là delle consuete logiche di cella tra capetti, gregari e parenti. E il carcere, sempre stando alle ironie di toghe da ribalta, non doveva essere il posto più sicuro dal Covid? Al 3 novembre la nuova ondata già raddoppia (395 detenuti e 424 agenti) i contagi di 7 giorni fa, intuitivo in posti chiusi (come gli ospizi) nei quali con 54.894 detenuti in 47.187 posti il distanziamento è un miraggio. Ora in tutti questi casi il punto non è che le indagini sulle Ong siano finite con proscioglimenti, o che la realtà carceraria stia consigliando minore sbrigatività d’analisi. Il punto è che la patologia di questo modo di filosofeggiare non venga riconosciuta prima che la sua “benzina”, e cioè la pseudo-attendibilità che il singolo infondato messaggio trae dalla credibilità del ruolo istituzionale di chi lo lancia, finisca per corrodere proprio l’autorevolezza del ruolo istituzionale, a forza di così strapparlo. Anm. Poniz fuori dai giochi, in pole position Silvia Albano di Paolo Comi Il Riformista, 6 novembre 2020 La nomina, salvo imprevisti, domani in Cassazione nella prima riunione del parlamentino delle toghe. Esponente di Magistratura democratica si è battuta in particolare contro i decreti Salvini. Silvia Albano, giudice civile del Tribunale di Roma, sarà, salvo imprevisti dell’ultima ora, il nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati. La nomina è prevista domani in Cassazione nella prima riunione del rinnovato Comitato direttivo centrale dell’Anm, il “parlamentino” delle toghe. L’endorsement nei confronti della magistrata è arrivato questa settimana dai piani alti di largo Fochetti con un lungo articolo pubblicato su Repubblica. L’investitura di Albano, toga storica di Magistratura democratica, viene presentata dal quotidiano romano nel segno delle donne: dopo la Corte Costituzionale con Marta Cartabia, l’Avvocatura dello Stato con Gabriella Palmieri Sandulli, il Consiglio nazionale forense con Maria Masi, la Cassazione con Margherita Cassano, l’Anm è l’ultimo baluardo ancora nelle mani degli uomini. Un retaggio decisamente superato dai numeri. Le donne sono da anni maggioranza in magistratura: 5.308 su un organico di 9.787 toghe. Molte di loro, oltre alla citata Cassano, sono anche ai vertici di importanti uffici giudiziari. Ad essere penalizzato dell’elezione di Albano sarebbe il pm milanese Luca Poniz, presidente uscente dell’Anm e magistrato più votato all’ultima tornata elettorale. Poniz, anch’egli esponente di Md, aveva deciso di ricandidarsi all’Anm, precludendosi così la possibilità di concorrere fra due anni, eventualmente, per il Csm. Lo statuto dell’Anm vieta, infatti, il passaggio senza soluzione di continuità dall’associazione all’organo di autogoverno delle toghe. L’appoggio di Repubblica, quotidiano da sempre vicino agli ambienti progressisti della magistratura, è un viatico molto importante per la giudice Albano. Va detto, però, che la diretta interessata aveva in qualche modo avanzato la propria candidatura con un lungo post giorni addietro su Questione giustizia, la rivista di Md, dal titolo: “L’Anm davanti alla sfida dell’unità”. Nel suo articolo aveva ripercorso quanto accaduto dopo lo scoppio lo scorso anno del Palamaragate, sottolineando la necessità di ricostruire la “fiducia” nell’associazionismo giudiziario. Albano, comunque, non sarebbe la prima donna a ricoprire l’incarico di presidente dell’Anm. Prima di lei tale onore toccò, dal 1994 al 1995, ad un’altra toga di Md, Elena Paciotti, successivamente eletta al Parlamento europeo con i Ds. Di Albano si ricordano, in particolare, le battaglie contro i decreti Salvini, la legge Pillon, e quella sulla riforma degli uffici della giustizia minorile. Già componente della giunta uscente dell’Anm, aveva chiesto che venisse messa in votazione l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla gestione del fenomeno migratorio da parte del governo. Nessun problema sul fronte dei voti. A suo favore, oltre alle toghe progressiste, gli ex centristi di Unicost che hanno da tempo archiviato il loro padre-padrone, il signore delle nomine Luca Palamara, e gli ex “davighiani” di Autonomia & Indipendenza, da qualche settimana orfani del loro fondatore, Piercamillo Davigo, andato in pensione per raggiunti limiti di età. Incertezza su cosa farà Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, secondo molti ancora “teleguidata” dal magistrato Cosimo Ferri, parlamentare di Italia viva, per anni leader indiscusso del gruppo e di cui è in corso il procedimento disciplinare al Csm. Sul nome della giudice Albano i maldi pancia in Mi sono numerosi. Nel Palamaragate erano coinvolti diversi magistrati di Mi ed Albano, all’epoca, aveva usato parole dure nei loro confronti chiedendo a tutti “discontinuità”. Il primo a farne le spese era stato il giudice Pasquale Grasso, presidente dell’Anni in quota Mi, sfiduciato proprio per questo motivo. Le toghe di destra temono poi, in caso di un voto pro Albano, di dover archiviare le storiche rivendicazioni “sindacali” per lasciare il passo ad una gestione più “politica” dell’associazione. Non voteranno Albano e rimarranno all’opposizione le toghe di Articolo 101, il gruppo che si batte contro la deriva correntizia. Albano ha già manifestato la contrarietà ad ogni ipotesi di sorteggio dei componenti del Coni e di rotazione dei vertici degli uffici giudiziari, i due cavalli di battaglia di Articolo 101. Bonafede: “Rinviare le prove scritte degli esami da avvocato” Il Dubbio, 6 novembre 2020 La doccia gelata del guardasigilli: “L’aggravamento della situazione sanitaria e la conseguente necessità di ridurre, quanto più possibile, le occasioni di diffusione del virus impongono il rinvio delle prove scritte degli esami d’avvocato”. “L’aggravamento della situazione sanitaria e la conseguente necessità di ridurre, quanto più possibile, le occasioni di diffusione del virus impongono il rinvio delle prove scritte degli esami d’avvocato, programmate per il 15-16-17 dicembre. Mi dispiace dover dare questa comunicazione ai tanti aspiranti avvocati che si apprestano ad affrontare questa importante tappa della loro vita professionale”. Ad annunciarlo in un post su Facebook è il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “La decisione ha richiesto il tempo necessario per vagliare e confrontare tutte le possibili soluzioni - spiega il ministro - compresa quella di una maggiore “parcellizzazione” degli esami su tutto il territorio, che permettessero di evitare lo slittamento: tuttavia, di fronte all’evoluzione del quadro epidemiologico, il rinvio rappresenta purtroppo una scelta obbligata supportata anche dal ministero della Salute”. Si tratta, chiarisce ancora Bonafede, “di una decisione in linea con il nuovo Dpcm, che ha previsto la sospensione e il rinvio dei concorsi pubblici e degli esami di abilitazione alle professioni fino al 3 dicembre. Chiaramente, le esigenze logistiche e organizzative non consentono di attendere oltre, anche per venire incontro alle esigenze di programmazione di chi deve sostenere l’esame”. “Per cercare di ridurre i tempi della procedura, il ministero, confrontandosi con gli altri interlocutori coinvolti, sta già lavorando a tutte le soluzioni organizzative che possano consentire di accelerare la correzione delle prove scritte e diminuire quanto più possibile gli effetti di questo rinvio - assicura Bonafede - A breve indicheremo la nuova data dell’esame: al momento, sembra ragionevole ipotizzare che la prova si possa tenere nella primavera del 2021. Per coloro che hanno superato gli scritti svolti nel 2019, invece, le prove orali proseguiranno perché è possibile, al momento, implementare modalità che garantiscano la sicurezza e la salute dei candidati e dei membri delle commissioni”. G8 di Genova. Parigi non estrada l’antagonista, bocciata la giustizia italiana di Frank Cimini Il Riformista, 6 novembre 2020 Vincenzo Vecchi è stato condannato per devastazione e saccheggio in relazione al G8 di Genova. Per i giudici francesi le accuse non reggono. Sul reato di devastazione e saccheggio già la Grecia aveva lasciato ampiamente intendere che non c’era trippa per gatti rifiutando l’arresto e l’estradizione in Italia di quattro anarchici accusati in relazione alla manifestazione anti Expo del primo maggio 2015 a Milano e scegliendo di processare davanti alla corte di Appello di Atene i suoi cittadini che furono condannati a 2 anni e 6 mesi. In Italia avrebbero rischiato tra gli 8 e i 15 anni di reclusione. Pene così alte sono previste solo in Albania e in Russia oltre che da noi. Adesso la storia si ripete. Non sarà estradato in Italia Vincenzo Vecchi il militante antagonista condannato per devastazione e saccheggio in relazione alle manifestazioni del G8 a Genova e per un corteo a Milano. Lo ha deciso la corte di Appello francese di Angers perché il reato non fa parte del codice d’Oltralpe come è assente dal codice penale greco. I giudici hanno ritenuto validi delle accuse italiane solo l’aggressione a un fotografo e il possesso di una molotov fatti per i quali c’è una pena di 1 anno, 2 mesi e 23 giorni che bisognerà decidere successivamente se Vecchi dovrà scontare in Italia o in Francia. Questo dipende dall’accettazione o meno da parte dell’Italia della sentenza di Angers. Per la giustizia italiana si tratta di una sconfitta grave dipesa anche dal fatto che le nostre autorità non vollero scorporare i reati. Una sconfitta giuridica e politica che dimostra come la credibilità dei nostri tribunali all’estero sia abbastanza scarsa. Dice l’avvocato Eugenio Losco: “Si tratta di un importante precedente perché stavolta la giustizia francese è entrata nel merito accogliendo uno dei rilievi principali delle difese sollevato fin dall’inizio per il mancato rispetto della procedura. Il reato di devastazione e saccheggio è una fattispecie incostituzionale con delle pene incongrue spropositate e non conformi alla normativa di altri stati europei. La sua contestazione deve essere limitata a casi particolari assimilabili a eventi bellici e non certo alle contestazioni di piazza”. Vecchi che vive e lavora in Francia da otto anni era stato arrestato su richiesta dell’Italia, poi le udienze per decidere erano slittate anche a causa del Covid e nel frattempo il militante no-global era stato rimesso in libertà perché la corte di Rennes, allora competente, non aveva ravvisato pericoli di fuga smentendo anche su questo le pretese italiane. I media nostrani hanno ignorato la brutta figura rimediata dal nostro paese in ambito internazionale eccezion fatta per un articolo peraltro equilibrato del Corriere della Sera nel fascicolo di Bergamo città in cui Vecchi è molto conosciuto per la sua attività politica. Non si vuole riflettere insomma su una legislazione emergenziale che genera ingiustizie. La decisione della corte francese in realtà stride con il dibattito politico italiano dove in materia di sicurezza non manca chi vuole addirittura introdurre il reato di terrorismo di strada in riferimento alle manifestazioni e ai cortei dove si verificano incidenti. E riguardo all’ordine pubblico e alla cosiddetta sicurezza il passaggio tra il governo con ministro dell’Interno Matteo Salvini e quello con dentro il Pd non fa registrare differenze. Dice Oreste Scalzone: “Non ci sono “meno peggio”... Tutti in solido si uniscono per volere la pelle dei Vincenzo Vecchi”. Va detto che sull’argomento è la Cassazione che cerca di porre limiti alla trasformazione di problemi politici in questioni meramente penali. In questi giorni ci sono state per esempio due importanti decisioni. È stata rimandata al Riesame di Roma l’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo per quattro anarchici arrestati a giugno. Gli indagati restano per ora detenuti. All’origine della scelta pare vi sia una carenza di motivazione. Sempre la Cassazione ha rigettato il ricorso della procura di Bologna contro le scarcerazioni di altri anarchici arrestati a maggio e poi liberati dal Riesame. Nei loro ricorsi gli avvocati richiamavano precedenti in cui la stessa Suprema Corte metteva dei paletti ben precisi affinché non venisse criminalizzato il dissenso politico. Il rischio è che il richiamo alla vicinanza ideologica a una certa area dell’anarchismo diventi l’unico criterio alla base degli arresti perseguendo non il fatto ma il tipo di autore. Si tratta della tendenza storicamente rappresentata dal diritto penale del nemico. Del resto al centro degli arresti di questi ultimi mesi c’erano una serie di manifestazioni, sit-in, volantinaggi contro il carcere come istituzione e per denunciare le condizioni di detenzione aggravate dall’emergenza Covid. Prossimamente la Cassazione dovrà esaminare il ricorso dell’avvocato Ettore Grenci per una questione molto significativa del clima carcerario. Il detenuto anarchico Nico Aurigemma si era visto negare il colloquio con i genitori e la sorella. Tra i motivi del no spiccava il parere contrario del pm perché Aurigemma nell’interrogatorio di garanzia dopo l’arresto si era avvalso della facoltà di non rispondere. Dunque per aver esercitato un suo diritto di indagato vedeva lesi i suoi diritti di detenuto. Lombardia. Covid, 131 detenuti positivi nelle carceri regionali Il Giorno, 6 novembre 2020 A San Vittore allestito un reparto Covid in grado di accogliere i propri detenuti positivi e con sintomi e quelli provenienti da altri istituti lombardi. Sono 131 i detenuti positivi al Covid che si trovano attualmente nelle carceri lombarde sulla base dei dati inviati dal Prap (Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria) al Garante dei detenuti del Consiglio regionale, Carlo Lio. Di questi, 82 si trovano nel Centro Covid di San Vittore e 45 in quello di Bollate. Ci sono poi due detenuti nel carcere di Voghera e due in quello di Pavia che risultano positivi ma senza sintomi e in isolamento. Quanto ai centri Covid all’interno degli istituti penitenziari, sono stati attivati anche per evitare l’ospedalizzazione, e che qui arrivano i detenuti con sintomi che necessitano di cure. “Lo scorso marzo - ha spiegato oggi Carlo Lio, difensore regionale e garante dei detenuti in Consiglio Regionale - nella prima fase dell’emergenza sanitaria, il carcere di San Vittore ha allestito un reparto Covid in grado di accogliere i propri detenuti positivi e con sintomi e quelli provenienti da altri istituti lombardi. L’azione preventiva e di isolamento dei contagi con la realizzazione di un reparto Covid, collaudato da San Vittore ad inizio pandemia è stato un intervento coraggioso ed efficace e ha permesso di non allargare la zona contagio di provenienza”. Lazio. Covid, sedici detenuti positivi e preoccupa il sovraffollamento regione.lazio.it, 6 novembre 2020 Sedici positivi al Covid-19 in sette dei quattordici istituti penitenziari del Lazio. Zero casi nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. È questo il dato che emerge dal monitoraggio effettuato dalla struttura a supporto del Garante delle persone private della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasìa. Una situazione che appare, in termini statistici, meno critica rispetto all’esterno, ma comunque preoccupante rispetto alla possibilità che si manifestino veri e propri cluster nelle sezioni più affollate. La popolazione carceraria infatti è tornata ad aumentare: 5.839 detenuti al 31 ottobre, con un tasso di affollamento pari al 112 per cento sulla capienza ufficiale, superiore al tasso medio italiano che è del 106 per cento. Ben più alto il tasso di affollamento calcolato sui posti effettivamente disponibili nelle carceri del Lazio, che è pari al 128 per cento, a causa di lavori di ristrutturazione o indisponibilità di intere sezioni o reparti. Si tratta del valore più alto raggiunto da aprile, dopo che, per le misure emergenziali di prevenzione della diffusione del Covid-19, c’era stato un decongestionamento abbastanza generalizzato, anche se ancora insufficiente a garantire in tutti gli istituti tassi di affollamento inferiori al 100 per cento. “Anche se i numeri mi spingono a congratularmi con gli operatori sanitari e penitenziari, per l’impegno profuso nella prevenzione della diffusione del virus, si conferma la situazione di estrema precarietà e difficoltà delle condizioni di detenzione nella nostra regione, con ulteriori gravi rischi connessi alla diffusione dei contagi da Covid-19 che in questa seconda ondata ha colpito diversi istituti”. Così il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa. “Tuttavia, non posso nascondere la mia preoccupazione per l’affollamento e per quell’unico piccolo cluster di Frosinone”, - prosegue Anastasìa, riferendosi ai casi rilevati nel carcere del capoluogo ciociaro, per il quale annuncia lo screening di tutti i detenuti e di tutto il personale che la Asl farà prossimamente, attraverso un accordo specifico con l’istituto Spallanzani. “Il problema del sovraffollamento - prosegue Anastasìa - può essere fronteggiato anche con alcuni progetti d’inclusione sociale destinati ai condannati senza fissa dimora e dei posti di accoglienza domiciliare messi a disposizione dai progetti Uiepe e Cassa Ammende, ma diventa estremamente urgente che vengano adottate tutte le possibili misure, per consentire a chi ne ha i requisiti di scontare la pena detentiva al di fuori delle mura carcerarie. I detenuti con residui di pena inferiori a un anno nel Lazio il 30 giugno erano 722, giusto i detenuti in eccedenza rispetto ai posti regolamentari effettivamente disponibili: potrebbero essere scarcerati senza danni - conclude Anastasìa - utilizzando al meglio le misure approvate dal governo nel decreto Ristori e quelle che - speriamo - le Camere vorranno aggiungervi in sede di conversione”. Umbria. “Assicurare la didattica a distanza anche negli istituti penitenziari” regione.umbria.it, 6 novembre 2020 Bori (Pd) annuncia un’interrogazione. Nel corso della seduta della Terza commissione consiliare, dedicata oggi all’audizione del Garante dei Detenuti, il consigliere regionale del Partito democratico Tommaso Bori ha annunciato la presentazione di un’interrogazione sulla didattica a distanza presso gli Istituti penitenziari della Regione Umbria. “Assicurare la didattica a distanza (Dad) anche negli istituti penitenziari umbri, per dare piena realizzazione alla finalità rieducativa della pena prevista dalla Costituzione”: è quanto ha chiesto, annunciando un’interrogazione sul tema, il capogruppo Pd in Regione Tommaso Bori nel corso della seduta della Terza commissione consiliare, riunita oggi per l’audizione del Garante dei Detenuti. “La situazione delle carceri umbre - sottolinea Bori - merita maggiore attenzione, così come ho già avuto modo di ricordare in occasione della visita alla Casa circondariale di Capanne effettuata a Ferragosto scorso, ed è ancor più necessaria oggi a causa degli effetti di questa nuova emergenza sanitaria che sta alimentando ulteriori problematiche sanitarie e di sicurezza interna. Tenuto conto che tutte le iniziative di educazione, formazione e lavoro destinate alla popolazione carceraria, rese possibili attraverso l’accesso di operatori e docenti esterni sono state temporaneamente sospese, causa Covid, è fondamentale che sia almeno assicurata la didattica a distanza al fine di assicurare spazi di apprendimento e crescita culturale e sociale. A tal fine ho appena presentato una interrogazione alla Giunta Regionale per conoscere quali intendimenti si pensa di assumere date le gravi criticità che ad oggi rendono quasi impossibile un’effettiva attuazione della didattica a distanza presso gli Istituti penitenziari della Regione Umbria”. “Già durante la prima fase dell’emergenza sanitaria - continua Bori - è emersa la difficoltà ad implementare la DAD a causa dell’insufficienza della strumentazione informatica (personal computer, tablet) da destinare alle attività di istruzione, dell’assenza di cablaggio nelle aule scolastiche presenti nelle carceri e della presenza di una rete di portata insufficiente a supportare le esigenze di traffico dati. Con l’attuale seconda ondata dell’emergenza sanitaria, che non sta risparmiando gli istituti penitenziari, in particolare la Casa circondariale di Terni, le lezioni in presenza sono state nuovamente interrotte e la DAD ancora non attivata. Peraltro, le criticità legate all’indice di contagio della Regione Umbria rendono ancor più necessario il proseguimento delle attività del nuovo anno scolastico e dei corsi universitari in modalità DAD. Ma per renderne possibile il prosieguo è dunque necessario risolvere nel più breve tempo possibile le attuali difficoltà, che non permettono una legittima ed adeguata risposta ai bisogni educativi degli studenti attualmente costretti in carcere”. “In questa fase molto critica - conclude - che lascia immaginare un periodo abbastanza lungo in cui non sarà possibile una ripresa delle lezioni in presenza, è prioritario dunque definire un piano specifico per l’istruzione negli Istituti Penitenziari umbri, con l’inevitabile e preminente coinvolgimento delle Istanze Ufficiali di rappresentanza del territorio regionale”. Torino. “I detenuti positivi al Covid non vengono isolati, i parenti in visita a rischio contagio” di Claudio Laugeri La Stampa, 6 novembre 2020 L’esposto alla procura e la segnalazione dell’avvocato difensore al ministero: “Ne va della salute di tutti”. Un detenuto va al colloquio con i parenti. Vicino a lui, c’è un altro recluso nel carcere “Lorusso e Cutugno”. Anche lui è a colloquio con i parenti. Finito il colloquio, arriva l’ambulanza e porta via quel detenuto. Ricovero per Covid-19. “Vorrei fare un tampone per sapere se anch’io sono positivo, in modo da avvisare la mia famiglia. Ma qui non lo fanno agli asintomatici”. Giovanni è richiuso nel Blocco A, dove sono già stati individuati cinque casi di Covid-19. Nessuno è stato isolato. Nessuno è stato sottoposto alla prova del tampone, perché non hanno sintomi. “Tutto questo forse poteva essere evitato”, sostiene Giovanni, che ha messo nero su bianco le sue rimostranze in un esposto inviato alla procura, alla direzione del carcere e al difensore, l’avvocato Caterina Biafora. E lei, ha rimbalzato la questione al Tribunale di Sorveglianza, all’Asl, alla direzione sanitaria, aggiungendo una segnalazione al ministero della Giustizia e al garante regionale dei detenuti. Tra i suoi assistiti, quattro sono proprio in quella sezione. “Gli infetti sono nella zona cosiddetta “ad alta sicurezza”. A differenza di altre categorie di detenuti, non possono uscire dal carcere per andare agli arresti domiciliari, come prevede il decreto”, spiega l’avvocato. E aggiunge: “Anche se sono in quella sezione, hanno il diritto di essere curati, di sapere se sono infetti. Questo va a tutela loro, ma anche della polizia penitenziaria, dei familiari, degli avvocati. Tutte persone che vivono in mezzo ad altre e possono a loro volta essere veicolo di proliferazione della pandemia. Il problema dei detenuti non è un problema soltanto del carcere, ma di tutta la società”. Napoli. Carceri, lettera a Bonafede. I penalisti: rischio sanitario Corriere del Mezzogiorno, 6 novembre 2020 Sovraffollamento e altri nodi, appello al Guardasigilli. La Camera penale di Napoli e la Onlus “Il carcere possibile” hanno scritto al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per sensibilizzarlo sul tema del contagio nelle carceri e sollecitarlo a farsi promotore di alcuni correttivi al decreto legge 137. Secondo i penalisti, infatti, alcuni articoli del decreto “così come oggi formulati non consentiranno di conseguire l’obiettivo di una sensibile e celere diminuzione delle presenze negli istituti. Il contenutissimo limite di pena e le numerose ipotesi ostative alla concessione della detenzione domiciliare impediscono il conseguimento di tale risultato”. A riprova di ciò, al ministro sono state fornite alcune cifre: “Con riferimento agli istituti penitenziari napoletani, il numero dei detenuti che potranno usufruirne è di circa 250 a fronte di quella riduzione di circa 800 unità necessaria per allineare il numero delle persone recluse alla disponibilità dei posti. Senza contare - si legge ancora nella lettera - che, com’è noto, la cronica indisponibilità dei braccialetti elettronici rallenterà notevolmente l’efficacia del provvedimento anche per quei pochi che potranno usufruirne”. Tra le richieste avanzate da Camera penale e Onlus c’è quella di estendere l’applicazione della detenzione domiciliare “quantomeno ai detenuti la cui pena da scontare non superi i due anni in luogo dei previsti 18 mesi”. Un’altra modifica al decreto proposta riguarda il braccialetto elettronico: si chiede infatti di “eliminare integralmente” la previsione che impone l’obbligo di farvi ricorso. “Il drammatico pericolo di una ulteriore diffusione del contagio - sottolineano gli avvocati - desta elevatissima preoccupazione nella stessa amministrazione penitenziaria”. Mancano, in particolare, gli spazi da destinare all’isolamento sanitario dei casi sospetti e delle persone risultate positive al Covid. Genova. Coronavirus, nel carcere di Marassi contagiati 20 detenuti e 11 poliziotti genova24.it, 6 novembre 2020 Sarebbero ben 20 i detenuti e 11 i poliziotti penitenziari che sono risultati positivi al Covid-19 nel Carcere Marassi di Genova, dato che emerge dal censimento dell’Ufficio Attività Ispettiva e di Controllo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Contagi da Coronavirus che nelle carceri sono dunque quasi raddoppiati dal 28 ottobre scorso. A fornire i dati aggiornati sui contagi nel circuito carcerario, con molta preoccupazione è Fabio Pagani, Segretario regionale della Uil-pa Polizia Penitenziaria: “Continuando con questo trend, che non crediamo peraltro possa essere direttamente e immediatamente influenzato dalle restrizioni e dai lockdown più o meno parziali che il Governo ha varato - sottolinea - appare del tutto evidente che la situazione sanitaria nelle carceri, ancora stracolme e zeppe di problematiche di ogni tipo, rischierà di sfuggire di mano”. Secondo il sindacato non mancano situazioni di grande criticità, sia per mancanza di spazi adeguati sia a causa di difficoltà delle Aziende Sanitarie che non riescono a supportare adeguatamente le direzioni dei penitenziari per le sanificazioni. “Il personale delle strutture è lasciato da solo ad affrontare questa crisi - spiega Pagani - rischiando errori madornali come per esempio l’individuazione di area/sezione per allocare i detenuti positivi, come successo a Marassi nella terza sezione”. A fronte di questi numeri, per i rappresentanti dei lavoratori risulta chiaro che le misure introdotte con il decreto ristori siano insufficienti sul fronte detentivo. “Per l’ennesima volta, dunque - conclude il segretario della Uilpa - facciamo appello al presidente Conte, al Governo, al ministro Bonafede e al ministro Speranza affinché si pensi in maniera tangibile anche alle carceri e a chi vi lavora, prima che la situazione divenga irrecuperabile”. Genova. “La mia prima volta in carcere, ecco cosa ho visto” Il Riformista, 6 novembre 2020 Sporcizia, disumanità, arbitrio, psicofarmaci. E neppure un regolamento per far valere i propri diritti: meno i detenuti sanno e meglio è. Il racconto di un ex recluso del carcere Marassi nella lettera inviata a Rita Bernardini. “Onorevole Rita Bernardini, sono un ex detenuto del carcere Marassi di Genova. Sono uscito una settimana fa dopo quattro mesi di reclusione. Per fortuna è la prima volta che mi succede, ma le illustrerò che cosa ho dovuto vedere con i miei occhi lì dentro. Sono entrato e subito mandato in isolamento causa Covid, e in 14 giorni nessun tampone mi è stato fatto, così come agli altri detenuti. Cella che definire affollata è dire poco. Ho vissuto 2 anni in Repubblica Dominicana e le cabanas sono più pulite. Materassi datati 2012, assenza di cuscini. Assistenti che non assistono per niente, anzi spesso ti deridono e farlo con una persona che sta vivendo uno stato particolare della propria vita che per alcuni è una tragedia, è a dir poco disumano oltreché ignobile. Per avere una scheda telefonica ci sono voluti due mesi perché le domandine vengono perse, oppure ti senti rispondere che non sarà stata compilata nel modo giusto e altre scuse di ogni tipo. La posta arriva sistematicamente a tutti in media in 20gg, un’altra vergogna. I soldi sul conto corrente mancano sempre, certo parliamo di qualche euro, ma moltiplicato per 700 detenuti... Le ore d’aria sono pressoché a discrezione degli assistenti i quali ogni giorno ci sottraggono dai 20 ai 30 minuti. Non esiste un regolamento interno a disposizione di tutti e perciò è difficile far valere i propri diritti: meno i detenuti sanno, meglio è per gli assistenti alcuni dei quali hanno un livello di istruzione davvero basso. Sul vitto ci sarebbe da scrivere un libro: pasta scotta tutti i giorni e razioni insufficienti. Un giorno nella mia cella sovraffollata di sei persone abbiamo fatto uno sciopero perché nella pasta abbiamo trovato delle unghie e addirittura un tagliaunghie! La maggior parte dei detenuti vengono imbottiti di psicofarmaci, terapie e altre porcherie, in modo che nessuno disturbi le guardie. Personalmente non ho mai preso nulla, ma ho conosciuto ragazzi entrati in carcere normali e, dopo qualche settimana, li ho trovati irriconoscibili con lo sguardo perso e la bocca aperta come spesso ci capita di vedere i tossicopendenti. La gran parte sono ragazzi extracomunitari, che non sanno leggere, scrivere e non conoscono i loro diritti, quindi sono difficili da gestire. Non sono mancate tragedie sfiorate: marocchini e tunisini che si tagliano le vene, gente che tenta di strangolarsi con le lenzuola, fermate in tempo dai compagni. C’è chi vorrebbe che tutto questo non uscisse dalle celle. L’impressione è che la gente fuori pensi che più gente c’è dentro e più al sicuro si trovano quelli fuori. Niente di più sbagliato! Nella sezione dov’ero io, eravamo tutti giudicabili. È il sistema italiano: ti mettono dentro, dando per scontata la tua colpevolezza. Ho conosciuto ragazzi giovanissimi che hanno passato le pene dell’inferno per arrivare in Italia e che sono finiti in prigione per essere stati trovati in possesso di 0,2 gr di hashish, altri portati in prigione per essersi trovati in luoghi dove sono stati commessi furti in abitazioni. Senza che gli siano stati trovati strumenti da scasso o refurtiva si sono visti affibbiare 1 anno e 8 mesi; ho letto verbali, quindi ne sono testimone. Ora le domando: che futuro possono avere questi ragazzi così giovani dopo l’esperienza del carcere? Sinceramente non credo sia un deterrente la custodia cautelare, tutt’altro! Credo che al contrario si creino dei nuovi delinquenti in questo modo. Se finiscono in prigione per niente, la prossima volta commetteranno dei reati per davvero. Ma per tornare all’argomento per il quale le ho scritto e cioè le condizioni del carcere di Marassi, ripeto, ci sarebbe da scrivere un romanzo: minacce, abusi. In carcere entra di e per tutto intendo “tutto”. Ho visto giudici di sorveglianza che vengono a fare sopralluoghi e vengono puntualmente portati nelle sezioni dove tutto deve funzionare, così possono scrivere nei loro rapporti dove scrivono che è tutto a posto. L’idea che mi sono fatto dopo questa esperienza è che il carcere è solo un business, un business vergognoso dove tutti i sistemi che ruotano intorno alla giustizia ci guadagnano e se è vero che per ogni detenuto l’Italia paga 137€ al giorno, beh io ho viaggiato parecchio e posso assicurarle che con meno euro si alloggia in stanza d’albergo a 4 stelle in posizione centrale, quindi che la smettessero con tutta questa ipocrisia. Finché in questo paese non ci sarà una riforma della giustizia e una riforma carceraria sarà sempre così.. Ci sono paesi in Europa dove appena entri ti danno subito la scheda telefonica, c’è il supermercato all’interno e con una scheda ricaricabile puoi fare la spesa, oltre che avere colloqui non sorvegliati con i propri familiari, intimi con le mogli. Questi sono paesi civili, ma il nostro, dove per autorizzare le telefonate alla propria famiglia ci vogliono due mesi come è successo a me, è una vergogna! Per tutte queste ragioni ho deciso di scriverle, scusi lo sfogo ma in questo momento ho bisogno di esternare a qualcuno che è sensibile sull’argomento come lei, onorevole. Conto in un suo interessamento in merito e le faccio i miei cordiali saluti”. Lettera firmata Siena. Torture al carcere di Ranza, il pm chiede cinque rinvii a giudizio La Nazione, 6 novembre 2020 Udienza fiume davanti al gup Malavasi sulle violenze in carcere. Ascoltato per oltre quattro ore un ispettore indagato. Non ha dubbi il pm Valentina Magnini: i cinque operatori della polizia penitenziaria del carcere di Ranza hanno commesso un reato molto grave nei confronti di un detenuto che è poi stato spostato in un istituto diverso: tortura. E per questo devono essere rinviati a giudizio. Ecco la richiesta del pm arrivata ieri pomeriggio dopo aver parlato per oltre un’ora. Anche se l’udienza davanti al gup Roberta Malavasi era iniziata alle 10 ascoltando per più di 4 ore un ispettore, dalla procura già sentito nei mesi scorsi, che è al centro del troncone bis dell’inchiesta. Quest’ultima, come anticipato da La Nazione il 16 ottobre scorso, annovera altri dieci indagati, sempre per tortura. Probabile, dunque, che il pm Magnini chiederà di riunirla comn quella madre. L’ispettore, assistito dall’avvocato Stefano Cipriani, è stato ascoltato nell’ambito dell’incidente probatorio ottenuto dall’accusa per ricostruire quanto avvenuto cristallizzando le sue dichiarazioni. Anche se si sarebbe trovato in una posizione più lontana rispetto all’evento per cui non aveva una percezione visiva diretta. Comunque sia non ci sarebbe stata alcuna tortura. Al mattino il suo racconto è stato interrotto brevemente per consentire, in base alle regole dell’emergenza sanitaria, di cambiare l’aria all’interno dell’aula al piano terra, in quanto c’erano numerose parti. Concluso l’incidente probatorio, si è ripreso alle 15,30 con le richieste della procura al termine delle quali hanno preso la parola alcune delle sette parti civili, associandosi alla necessità che si celebri un processo. L’udienza, alle 17,30 passate è stata rinviata al 12 novembre quando parlerà l’avvocato Manfredi Biotti, difensore di quattro dei cinque operatori della polizia penitenziaria accusati di tortura. Il legale ha svolto importanti indagini difensive argomentate in 2mila pagine. E dunque annuncia ora battaglia. Il 19 toccherà invece all’avvocato Fabio D’Amato di Roma, che assiste il quinto operatore carcerario, discutere il caso. In tale udienza ci sarà anche il giudizio con rito abbreviato chiesto dall’avvocato Roberta Gialli per il medico di Ranza che risponde invece, in questa vicenda, di omissione di atti di ufficio. Vedremo se il gup darà al pm la possibilità di replicare. Non è comunque da escludere che la decisione del giudice arrivi proprio in questa data. Vibo Valentia. Callipo assume 6 detenuti del penitenziario avveniredicalabria.it, 6 novembre 2020 Un progetto di inclusione sociale che va oltre la solidarietà, per rendere la detenzione un’occasione di recupero delle persone. Con questo obiettivo si rinnova la collaborazione tra Callipo, azienda calabrese con una storia di 107 anni nelle conserve ittiche di qualità, e la casa circondariale di Vibo Valentia per assumere e formare anche quest’anno 6 detenuti meritevoli. Per il quinto anno consecutivo il lavoro arriva dietro le sbarre con Callipo che affida ai detenuti la responsabilità del confezionamento di 11.000 idee regalo che saranno messe in vendita per le prossime festività natalizie. L’emergenza covid-19, che ha colpito duramente diverse strutture penitenziarie in Italia, non ha fermato questa iniziativa. In un anno in cui la vita detentiva è stata, infatti, severamente condizionata dalla pandemia in atto è stato possibile portare avanti questo progetto di risocializzazione dei detenuti grazie alla disponibilità e all’impegno costante del Corpo di polizia penitenziaria di Vibo Valentia guidato dal comandante Domenico Montauro. La consapevolezza del valore che la formazione e di lavoro rappresentano per i detenuti hanno portato a Vibo Valentia all’attivazione di un protocollo di massima sicurezza per tutelare sia la salute dei detenuti che quella del personale Callipo incaricato all’affiancamento durante tutto il periodo di attività. “Lo sforzo di non sospendere una occasione importante, che ogni anno Callipo offre agli ospiti di questa struttura, è stato massimo. Si spera di poter continuare fino alla fine e formulo i miei più sentiti auguri all’azienda Callipo e ai detenuti selezionati”, dichiara la Dott.ssa Angela Marcello, Direttore del Penitenziario di Vibo Valentia. Il lavoro e la formazione in carcere rappresentano uno dei pilastri della rieducazione dei detenuti per acquisire una nuova consapevolezza di sé, per aumentare il senso di responsabilità e la fiducia in un futuro migliore, per investire in una società più sicura. “Agire concretamente, soprattutto nel nostro territorio, fa parte da sempre della nostra filosofia. Da cinque anni, con questo progetto di collaborazione con il Penitenziario di Vibo Valentia, cerchiamo di creare per i detenuti un’opportunità concreta di “rieducazione” attraverso il lavoro, di recupero della dignità e di riscatto sociale. Per la durata del progetto i detenuti coinvolti, infatti, diventano parte integrante della nostra azienda, lavorano insieme ai nostri dipendenti in un’area dedicata del penitenziario, scoprendo la visione ed i valori che ispirano ogni nostra azione e condividendo un clima di lavoro positivo. Anche per i nostri dipendenti è un’esperienza molto toccante perché permette loro di scoprire cosa accade quando nella vita si sbaglia e allo stesso tempo percepire la forza di queste persone di recuperare agli errori commessi. Lavorare fianco a fianco con i detenuti, ascoltare le loro storie di vita personale e le loro esperienze all’interno del penitenziario li emoziona molto e crea dei legami che molto spesso perdurano anche dopo la fine del progetto. Diversi detenuti, infatti, negli anni, ci hanno mandato lettere in azienda per salutare affettuosamente i “colleghi” che avevano lavorato con loro. È questa la nostra più grande soddisfazione!”, commenta Giacinto Callipo, quinta generazione della famiglia. Callipo ha affidato anche quest’anno a Openjobmetis SpA la gestione delle assunzioni dei detenuti. Openjobmetis SpA, attiva da oltre 19 anni nella ricerca, somministrazione, ricollocazione e formazione del personale, è la prima e unica Agenzia per il Lavoro quotata in Borsa italiana. Napoli. Niente braccialetto elettronico, torna in carcere con il Covid di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 novembre 2020 Detenuto a Secondigliano, era in quarantena a casa. Il giudice di sorveglianza accoglie l’istanza e concede i domiciliari, manca il braccialetto elettronico e viene riarrestato e messo in isolamento. Ha avuto cinque giorni di permesso premio, nel frattempo è risultato positivo al Covid con tanto di sintomi, lui e tutta la sua famiglia. L’Asl quindi lo ha messo in quarantena, anche per monitorarlo visto che presenta diverse patologie, ma per la mancanza di un braccialetto elettronico è stato fatto ritornare nel carcere di Secondigliano, nonostante la concessione della detenzione domiciliare, sia per il Covid che per il fatto che gli rimanevano solo otto mesi da scontare. Una vicenda, questa, denunciata dall’associazione Yairaiha Onlus. Parliamo di B. S., che ha finito di espiare il reato ostativo e gli rimane appunto una pena residua per reati comuni. Il magistrato di sorveglianza gli ha concesso i domiciliari - Per questo, il magistrato di sorveglianza - grazie all’istanza presentata dall’avvocata Gabriella Di Nardo - gli ha concesso la detenzione domiciliare per i rimanenti otto mesi di detenzione, ma con l’applicazione del braccialetto elettronico. A questo punto i Carabinieri competenti hanno contattato B. S. invitandolo a recarsi in carcere per la notifica del provvedimento e per ritirare i suoi effetti personali. Ma nel pomeriggio del 3 novembre, lui comunica all’avvocata Di Nardo che gli agenti del penitenziario lo stavano trattenendo poiché non aveva il braccialetto elettronico, né era disponibile, pertanto veniva nuovamente arrestato e messo in isolamento all’interno della struttura penitenziaria. La denuncia dell’associazione Yairaiha Onlus - “Riteniamo scandaloso - denuncia l’associazione Yairaiha Onlus con una missiva rivolta alle autorità - che in questo momento, una persona in condizioni di salute critiche e con elevatissimo grado di probabilità di positività da Covid 19, già in quarantena poiché a contatto strettissimo con soggetti risultati positivi, sia stato rimesso in carcere nonostante, oltretutto, vi sia un provvedimento dell’A.G. che gli concede la detenzione domiciliare mettendo a rischio se stesso e tutti coloro con cui è entrato, ed entrerà, in contatto all’interno del carcere quando le normative internazionali impongono (vedi raccomandazioni del Cpt del Consiglio d’Europa e linee guida dell’Oms) lo snellimento della popolazione carceraria”. Napoli. “È un detenuto ma resta un essere umano, curatelo!”, il grido della figlia di Viviana Lanza Il Riformista, 6 novembre 2020 Non sempre il carcere riesce a svolgere appieno la sua funzione rieducativa e a garantire al meglio il diritto alla salute dei detenuti. Ma quando questo accade perché interrompere il percorso? È l’interrogativo che si apre davanti alla storia di Francesco Barivelo, tarantino di 45 anni. Il suo nome è associato a una delle pagine più buie della Taranto dei primi anni Novanta. Era il 1994 e Barivelo, all’epoca 19enne, partecipò all’omicidio di Carmelo Magli, un agente della polizia penitenziaria colpito a caso tra gli agenti che avevano appena terminato il turno di lavoro perché il clan della zona voleva una detenzione più morbida per i suoi uomini in cella. Poco tempo dopo il delitto Barivelo fu arrestato e da allora è in carcere. Ha trascorso da recluso più della metà dei suoi anni e ha davanti a sé un fine pena mai, perché sconta una condanna all’ergastolo. Nel carcere di Sulmona, dove è stato ininterrottamente per 20 anni, è passato dall’alta sicurezza all’articolo 21, cioè tra i pochissimi ammessi al lavoro esterno, diventando un detenuto modello. Negli ultimi cinque anni aveva avuto permessi per recarsi dalla famiglia a Taranto e fare rientro da solo nella struttura penitenziaria di Sulmona senza che mai fosse riscontrata una violazione. Insomma, la sua storia di detenuto è stata per anni l’esempio di come il carcere possa offrire una seconda opportunità a chi ha commesso un reato, seppur grave. Barivelo lavorava sia dentro che fuori il carcere di Sulmona come addetto alla manutenzione e alle riparazioni elettriche. Era anche pronto a lavorare nella scuola di polizia penitenziaria della cittadina abruzzese: ironia della sorte, direbbe qualcuno; esempio di un carcere che funziona e rieduca, sono i fatti. Ma scoppia la pandemia e il Covid-19 stravolge vite e progetti in tutto il mondo e sfuma anche il progetto di un lavoro nella scuola di polizia penitenziaria di Sulmona. Intanto l’emergenza sanitaria impone al Paese mesi di lockdown e il governo vara misure per ridurre il sovraffollamento negli istituti di pena. Siamo a marzo scorso e il criterio seguito è quello di trasferire agli arresti domiciliari i detenuti più a rischio sotto il profilo sanitario. Francesco Barivelo è tra quelli, perché nel 2012 si era ammalato di tubercolosi e da allora i suoi polmoni e, in generale, il suo stato di salute richiedono periodici e specifici controlli. Il 29 marzo Barivelo viene quindi trasferito agli arresti domiciliari nella sua casa a Taranto. Ci resta fino al 26 maggio, perché nel frattempo in Italia si apre un dibattito sulle scarcerazioni in tempo di Covid e le posizioni giustizialiste fanno leva su una parte di politica e opinione pubblica al punto che quelle scarcerazioni vengono in larga parte revocate e i detenuti che per motivi di salute avevano ottenuto i domiciliari vengono riportati in cella. Accade anche a Barivelo. Ma nel suo caso tornare in carcere equivale a tornare indietro di anni, a una situazione detentiva che sembra aver cancellato con un colpo di spugna i risultati della sua buona condotta e del suo lungo percorso di reinserimento. E così, da giugno, Barivelo è rinchiuso nel carcere di Secondigliano dove divide la cella con un altro detenuto in una sezione affollata come lo sono quasi tutte quelle delle carceri napoletane. Non ci sono attività o lavori da svolgere e trascorre le sue giornate tra ozio forzato e costanti timori per le sue condizioni di salute, tenuto conto che nel carcere di Secondigliano il virus è entrato e ci sono detenuti positivi al Covid. “Non so perché mio padre sia stato portato in quel carcere, nessuno ce lo spiega - dice la figlia Rosaria, raccontando questi mesi trascorsi in attesa di una risposta dal Dap - Sono preoccupata per lui. Non dico che deve essere scarcerato né messo ai domiciliari, ha commesso un reato ed è giusto che sconti la condanna. Ma anche se è un detenuto resta un essere umano. E io chiedo solo che sia messo al sicuro, in una struttura dove la sua salute non sia a rischio”. Torino. La comunicazione della Garante dei detenuti in una nuova veste della pagina Web di Roberto Tartara comune.torino.it, 6 novembre 2020 La comunicazione dell’ufficio della Garante delle persone private della libertà personale di Torino si arricchisce grazie alla nuova veste del sito internet. Oggi pomeriggio durante i lavori in seduta congiunta delle Commissioni Legalità, Smart City e della Conferenza dei Capigruppo la Garante Monica Cristina Gallo ha raccontato la genesi del luogo ‘virtualè per eccellenza nel quale sono ora inserite tutte le informazioni utili a raccontare l’attività dell’ufficio a partire dal 2015. “Abbiamo deciso di procedere con un’analisi delle informazioni da inserire in piattaforma prima di chiederci quale tipologia grafica ed espositiva potesse essere più adatta per informare al meglio i cittadini” ha spiegato Gallo ai Commissari. “Il sito - ha precisato - potrà essere implementato e aggiornato in ogni momento grazie alla collaborazione fattiva della redazione Web che ci ha supportato nell’opera di rinnovo della pagina”. E proprio il direttore del Web della Città, Franco Carcillo, ha spiegato ai Commissari le modalità di ideazione della piattaforma: “La pagina si presenta con un’immagine seriosa in linea con le caratteristiche dell’opera della Garante. Sarà un strumento che rispecchierà l’anima dell’attività dell’ufficio, tant’è che il sito sarà aggiornato dai dipendenti della struttura. Creare siti web non è un lavoro ripetitivo date le peculiarità di ciascun interlocutore, di certo continueremo a promuovere il sito della Garante con gli strumenti a disposizione sui social network della Città”. Per vedere la nuova pagina della Garante clicca questo link: comune.torino.it/garantedetenuti/ Modena. Convegno online “Dal disagio al riscatto”: il futuro incerto dei 200 detenuti di Laura Solieri Gazzetta di Modena, 6 novembre 2020 Dopo la rivolta dell’8 marzo è partito un percorso per il reinserimento e la crescita delle persone recluse al Sant’Anna. Avviare un percorso di sensibilizzazione sulla condizione carceraria, per attivare gruppi di lavoro autonomi nell’elaborazione di micro-progetti sui diritti dei detenuti e sull’avvio di esperienze di lavoro per gli stessi. È questo l’obiettivo del convegno online “Dal disagio al riscatto”, che si terrà domani dalle 17 alle 19 per riflettere sulla condizione carceraria e sulle prospettive di reinserimento dei detenuti nella società. “Questo convegno nasce da un percorso avviato durante il lockdown, anche a seguito della rivolta dell’8 marzo che ci ha molto colpiti - spiega Emanuela Carta, presidente di Csi Modena Volontariato, promotore del convegno patrocinato dai Comuni di Modena e Castelfranco, insieme a numerose altre realtà - il gruppo si compone di volontari penitenziari, operatori sportivi, ex detenuti, familiari di detenuti, insegnanti. Il confronto di domani è solo il punto di partenza: la volontà è mantenere viva l’attenzione sul tema del carcere in città, in termini propositivi. Il carcere - aggiunge la presidente di Csi Modena Volontariato - è un luogo in cui vivono delle persone che in situazioni “attive” possono diventare una ricchezza per il territorio, se impegnate in attività lavorative a beneficio della collettività, se coinvolte in percorsi di reinserimento e di crescita personale. Sarà importante lavorare anche sul tema della sicurezza, per capire come questa viene percepita dalla collettività”. Sono numerose le realtà di volontariato che da sempre portano avanti diverse attività all’interno del carcere, affiancandosi al personale interno. “Ad oggi, al Sant’Anna ci sono 204 detenuti, di cui una quindicina di donne - spiega Paola Cigarini del gruppo Carcere e Città, tra le voci che interverranno domani al convegno - in questi anni le carceri e i carcerati sono molto cambiati: un tempo le pene erano molto più lunghe, c’erano più persone del territorio con cui ti capivi più facilmente a livello di linguaggio, mentre ora ci sono molte più persone con usi, lingua e costumi diversi. Un tempo era anche più facile avere dei rapporti con le famiglie - incalza Cigarini - e con il detenuto si instaurava una vera e propria relazione, mentre ora la nostra si limita spesso ad essere una risposta ad un bisogno immediato, poiché spesso queste persone non hanno letteralmente niente e fuori non hanno alternative”. Il grande obiettivo è cercare di rendere la pena qualcosa di utile: la persona nel periodo trascorso in carcere deve trovare l’opportunità per ragionare su se stessa e sulle motivazioni che l’hanno portata lì. In questo senso, la pratica sportiva svolge un ruolo significativo, favorisce forme di aggregazione sociale e modelli relazionali positivi di sostegno ad un futuro percorso di reinserimento. È da 17 anni che il Csi porta le sue attività sportive e ricreative al Sant’Anna a Modena e dal 2007 anche nella Casa di Lavoro a Castelfranco, che ha 77 detenuti. “I detenuti coinvolti si sono sempre mostrati educati e rispettosi, richiedono a gran voce di poter aumentare le ore di attività - dice Carta - è gratificante osservare gli sguardi sereni e distesi, i sorrisi, seguiti dall’immancabile domanda “Ci sarete anche sabato prossimo?”. Torino. Cambia la vita con un fiore: vivai in carcere di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 6 novembre 2020 C’è tempo fino al 30 novembre - in sintonia con quanto stabilito da Papa Francesco che, a causa della pandemia Covid-19 per evitare assembramenti nei cimiteri, ha prorogato per tutto il mese di novembre le indulgenze plenarie per i fedeli defunti che si ottengono visitando i cimiteri - per portare un fi ore “speciale” sulle tombe nei nostri cari. Si tratta dei crisantemi coltivati nel vivaio del carcere torinese “Lorusso e Cutugno”: acquistandoli si può contribuite a sostenere un progetto di riscatto per i ristretti della Casa Circondariale delle Vallette curato dalla cooperativa Ecosol che gestisce “Terra e Aria Vivaio di Orizzonti” all’interno del penitenziario. “In occasione del 2 novembre e per tutto il mese” spiega Valentina De Luca, responsabile del progetto, nato grazie all’esperienza della cooperativa Ecosol scs e la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus impegnata nella formazione professionale all’interno degli Istituti Penitenziari del Piemonte, “vendiamo i fiori coltivati dietro i cancelli del ‘Lorusso e Cutugno. Si tratta di vasi (21 cm. di diametro) di crisantemi gialli, bianchi, arancio, porpora e rosa coltivati da un gruppo di detenuti che seguono un corso di formazione coltivando all’interno del carcere piante da appartamento o da esterni, adatte a tutte le esigenze. In occasione della Commemorazione dei defunti abbiamo avuto numerose richieste ma ci sono ancora molte piante disponibili per chi non si è ancora recato alla tomba dei propri cari”. I vasi costano 5 euro ciascuno: si possono prenotare inviando una mail a info@terraearia.org o un messaggio al 320.6953243. Le consegne si effettuano a domicilio aggiungendo due euro oppure ai cancelli dell’Istituto penitenziario concordando preventivamente giorno e orario. Ma nel vivaio del carcere torinese non si coltivano solo crisantemi: il percorso formativo a cui partecipano gruppi di 20 detenuti seguiti da 6 insegnanti della Casa di carità Arti e Mestieri, coordinati dagli operatori della Ecosol, prevede lavori di giardinaggio nel vivaio interno al carcere presente dagli anni 70 e fatto rinascere qualche anno fa dalla cooperativa che ha messo a punto un percorso di avviamento al lavoro per i ristretti con un valore sociale e terapeutico. “I reclusi che partecipano al progetto che prevede 200 ore di stage” prosegue Valentina De Luca “imparano il mestiere di giardiniere, vivaista e della riproduzione e coltivazione di piante che può poi, una volta scontata la pena, diventare un’occupazione anche già durante il periodo di detenzione tramite le misure alternative previste dall’articolo 21. Alcuni ex detenuti sono stati assunti dalla nostra cooperativa e tutti, durante lo stage fanno un’esperienza di lavoro completa: spesso veniamo chiamati ad allestire le decorazioni floreali per diverse fi ere e convegni cittadini, un’occasione che permette ai ristretti di uscire dal carcere con un permesso speciale per misurarsi professionalmente in un “lavoro vero”, non solo nel vivaio o nella serra interna al penitenziario”. La responsabile del progetto informa che da 4 anni nel vivaio allestito nel blocco C, vicino alla caffetteria del penitenziario, si coltiva lo zafferano e il luppolo, produzioni a cui hanno preso parte anche alcune detenute. Acquistare le piante prodotte nel vivaio del carcere torinese contribuisce a finanziare i corsi per i detenuti e soprattutto a dare una speranza di occupazione a fine pena per chi desidera reinserirsi nella società “all’onore del mondo”: un fiore in questo caso può davvero cambiare una vita. Per saperne di più www.terraearia.org. Roma. Menzione d’onore per “The women of Rebibbia. Walls of stories” regione.lazio.it, 6 novembre 2020 Si distingue agli International Photo Awards 2020 il reportage sul carcere femminile di Rebibbia della fotografa romana Francesca Pompei. “È grazie all’ufficio del Garante dei detenuti del Lazio che è stato possibile realizzare l’indagine fotografica nella sezione femminile del carcere di Rebibbia”. Così Francesca Pompei, autrice del reportage “The women of Rebibbia. Walls of stories” che ha ottenuto la menzione d’onore agli International Photo Awards 2020. Il concorso annuale per fotografi professionisti, non professionisti e studenti su scala globale, è organizzato dalla Lucie Foundation, fondazione senza scopo di lucro, la cui missione è onorare i maestri fotografi e scoprire i talenti emergenti. “Nell’immaginario collettivo - spiega la fotografa romana specializzata in immagini di arte e architettura - la vita carceraria è alimentata da film ed immagini che trattano quasi sempre la questione da un punto di vista maschile. Nell’era del movimento #MeToo e di una generale rivalsa della questione femminile avevo deciso d’indagare cosa sia la detenzione per una donna: il problema della maternità, la relazione con la famiglia e il partner, la dura condizione di convivenza con le compagne di cella spesso di culture e paesi diversi”. “A Roma, la mia città - prosegue Pompei - la sezione femminile del carcere di Rebibbia è la più grande d’Europa. La sua gigantesca architettura, mutuata sul modello del Panopticon di Jeremy Bentham, è divisa in due corpi principali, il Camerotti (inaugurato nel 1979) e il Cellulare, le cui mura scandiscono inesorabili i tempi quotidiani della prigionia. Così, ho lasciato che questi spazi parlassero per le loro abitanti: le celle, il nido, l’infermeria, gli spazi comuni per le attività sociali ed educative, l’azienda agricola, la sala colloqui, tutti ambienti dove le prigioniere consumano la loro vita per anni. Dato che in carcere non esiste privacy e ogni momento è sotto controllo, ho mutuato le singole prospettive personali in uno sguardo collettivo che avvicina dolore e sollievo in un’unica dimensione, in bilico nella sottile separazione tra violenza e redenzione, solidarietà e dramma. Scoprendo un mondo molto diverso dalle mie aspettative e quasi mai raccontato, questo progetto ha cambiato la consapevolezza sul mio essere e vivere il mio status di donna libera. Magari - conclude Pompei - grazie al potere della fotografia, può farlo anche in qualcun altro”. Breve storia di un medico rovinato dai pm di Angela Stella Il Riformista, 6 novembre 2020 “Solo danni collaterali” del romanziere Pier Bruno Cosso (Marlin Editore, pp. 208, 14,90 euro) racconta la vicenda, ispirata a una storia vera ma con l’uso di nomi di fantasia, “di un onesto medico di famiglia vittima di un magistrato in delirio di onnipotenza”. Siamo a Sassari, in un tranquillo sabato mattina: è l’alba e il protagonista, il dottor Enrico Campanedda è ancora a letto con la moglie, mentre la figlia dorme nell’altra stanza. All’improvviso rumori forti arrivano dalla strada, motori di auto al massimo stridono davanti al suo portone, qualcuno si attacca in modo maleducato al campanello. Quel sabato si trasformerà da porto sicuro in un incubo: carabinieri armati di mitra irrompono nell’appartamento per una lunga perquisizione, senza dare spiegazioni e senza mostrare rispetto per le persone e gli oggetti. “Le conviene collaborare” gli dice subito il maresciallo, “lei ha già fatto processo e condanna” gli urla Campanedda. Mentre l’indagato viene trasferito in caserma, la Procura sta già tenendo una conferenza stampa. Il capitano dei carabinieri che accoglie Campanedda per notificargli l’avviso di garanzia con l’accusa di esercizio abusivo della professione lo illumina così: “Il giorno migliore per fare un’importante azione di polizia giudiziaria è il sabato, in modo che poi se ne parli nei giornali di domenica con il massimo risalto. È una fissazione del magistrato Ferdinando Ferdinando che ha curato le indagini”. Proprio in quel momento il pm entra nella stanza, mentre il protagonista è frastornato da tutto quello che sta accadendo: “La conferenza stampa è andata benissimo, adesso le redazioni avranno tutto il tempo per trovare il giusto spazio sui giornali”. Campanedda finisce ai domiciliari: “privato della libertà per molti mesi, del lavoro, dello stipendio, e infine degli affetti familiari, il medico, aiutato da un’amica giornalista, si lancia in un’indagine serrata per comprendere l’origine delle accuse infondate di cui è fatto oggetto”. Si scoprirà, attraverso una trama avvincente tipica di un thriller, un vero e proprio complotto ai danni di Campanedda, ordito da alcuni personaggi insospettabili. Il magistrato, pur se l’inchiesta verrà smontata, otterrà una promozione: il desiderio del protagonista, scagionato perché “il fatto non sussiste”, è quello di portarlo in giudizio in base alla norma sulla responsabilità civile dei magistrati ma il suo stesso avvocato gli sconsiglia di intraprendere quella strada: “Accusare un magistrato è pericoloso e inutile, un giudice darebbe fuoco alla sua toga prima di sentenziare contro un collega”. Il libro verrà presentato sabato 7 novembre alle ore 18:00 sulla pagina Facebook della casa editrice e dell’associazione “Yairaiha Onlus”, che si occupa dei diritti dei detenuti: parteciperanno, con l’autore, l’avvocato e membro del direttivo di Nessuno Tocchi Caino Simona Giannetti, Sandra Berardi e Giusy Torre di “Yairaiha Onlus”. Modererà un nostro giornalista. Lagioia: “Vi porto con me nella Roma eterna e cinica dell’omicidio Varani” di Fulvio Paloscia La Repubblica, 6 novembre 2020 Il 6 marzo del 2016 l’Italia è scossa dalla morte di un ragazzo romano, Luca Varani, ucciso dopo una notte di violenze e sevizie inferte da altri due giovani, Manuel Foffo e Marco Prato, rei confessi. Il corpo senza vita di Varani viene trovato in un appartamento di via Giordani, nel Collatino, quartiere dormitorio di una capitale in putrefazione, dilaniata dall’invasione di topi e da Mafia capitale. Ma cosa ha portato a quell’omicidio a sfondo omosessuale? Cosa è accaduto nelle teste dei due assassini? Quanto la morte di Varani ha che fare con con i segni e i simboli sempre più storti della modernità, con la crisi identitaria che sembra essere uno dei tormenti delle nuove generazioni? Ne “La città dei vivi” (Einaudi), lo scrittore barese Nicola Lagioia (a sei anni da La ferocia, premio Strega) ricostruisce il percorso e il retroscena facendo suo il romanzo d’inchiesta che dal Capote di A sangue freddo ci conduce a Carrère, a Cercas, ai grandi della non-fiction (ma anche a Compulsion di Meyer Levin). Roma, fin dal titolo, è la coprotagonista del romanzo. In qualche modo, è anche complice di Foffo e Prato? “È il contesto di un delitto che, altrove, sarebbe stato diverso, proprio come non è immaginabile Jack lo Squartatore fuori da Londra. La bellezza e la deriva di Roma ormai s’intrecciano fino a confondersi, ma è anche una città bifronte: invivibile e traboccante vita, dominata da un cinismo scoraggiante per chi non vuole lasciarsi vivere (qualunque cosa tu voglia fare non vale la pena d’essere fatta) e la cui eternità la fa essere consapevole che tutto passa, tutto è transitorio. Cosa saggia, in un mondo che rimuove l’impermanenza. Ma Roma è anche la città dove le classi sociali sono sempre state permeabili: dalle mogli degli imperatori che si prostituivano nella suburra a Marcello e i suoi amici che, nel film La dolce vita, svanivano nella notte per ritrovarsi in una borgata o in un palazzo nobiliare. “Roma è una giungla tiepida in cui ci si può nascondere” diceva Mastroianni nel film di Fellini; oggi è diventata ribollente, le liane putrefatte ci cadono addosso e il sentimento di libertà è affrancamento dai doveri”. La permeabilità sociale connota anche il delitto Pasolini, avvenuto in ben altri tempi... “Credo che sia più forte la tentazione di trovare collegamenti tra l’omicidio di Varani e il delitto del Circeo. In quel caso agiatissimi rampolli pariolini si accanirono su due figlie del popolo, ma fu proprio Pasolini a scombinare le carte mettendo in luce come i due strati sociali non fossero poi così diversi: il borgataro aspira a essere figlio di papà. Anche le parti in causa del delitto Varani provengono da classi sociali diverse; mentre però i massacratori del Circeo erano ben determinati nel compimento dell’azione malvagia, Foffo e Prato si descrivono come soverchiati da una forza superiore che li spinse a compiere un gesto impensabile. Se negli assassini del Circeo c’era un farneticante delirio di onnipotenza, nel caso Varani ci sono fragilità e debolezza. Per questo, penso sia un forte segno dei nostri tempi”. La letteratura riscatta la cronaca nera dai meccanismi di gossip televisivo in cui si è incagliata, restituendole la sua forza simbolica? “Oggi nessun essere umano è all’altezza di un evento tragico. Perché la tragedia contiene un elemento che nascondiamo sotto il tappeto: l’irreversibilità della vita. Essere soli di fronte all’irreversibile ci è insostenibile, quindi rimuoviamo il senso del tragico. La letteratura invece rimette la tragedia al centro della cronaca nera, e quindi anche la complessità. Perché la letteratura non giudica, ma è un’istruttoria mai finalizzata ai gradi di giustizia, risponde alle domande con altre domande e soprattutto comprende, togliendo dall’eccezionalità sia il carnefice che la vittima, per ricondurli a qualcosa di molto vicino a noi. Sì, a noi che, è comprensibile, allontaniamo i carnefici definendoli mostri oppure diamo alle vittime una natura fantasmatica, terrorizzati dall’essere prima o poi gli uni o gli altri. Però gli omicidi non sono interessanti per morbosità, ma perché gettano luce sui nostri meccanismi più profondi, sul nostro rapporto con l’istinto di prevaricazione, su quanto non siamo ancora riusciti a svincolarci dallo stato di natura”. Domenico Quirico: “Lo Porto, eroe rimosso per la ragion di Stato” di Gioacchino Amato La Repubblica, 6 novembre 2020 Il giornalista ha presentato al Festival letterature migranti il libro “Morte di un ragazzo italiano”, che è un’orazione funebre per il cooperante palermitano ucciso due volte. “Il mio libro non è un saggio, è un’orazione funebre in memoria di un eroe negato. Un ragazzo che, in un Paese e in un mondo nei quali chiunque diventa un eroe, è stato dimenticato, cancellato dalla memoria. Mentre lui sì che era un vero eroe”. Domenico Quirico non usa giri di parole e sembra ridare persino il loro valore a parole spesso usurate perché spese troppo facilmente. L’inviato di guerra del quotidiano La Stampa ha presentato al Festival delle letterature migranti il suo “Morte di un ragazzo italiano” dedicato all’uccisione del cooperante palermitano Giovanni Lo Porto avvenuta nel 2015 al confine fra Afghanistan e Pakistan durante il bombardamento di un drone degli Stati Uniti. Lo Porto era stato rapito a Multan nel gennaio del 2012 mentre lavorava con la Ong tedesca Welt Hunger Hilf nella città pakistana. Rapito come lo era stato Quirico, prima per due giorni in Libia nell’estate del 2011 e poi in Siria nell’aprile del 2013. A elencare brevemente questi fatti e le date sembra che il suo interesse per la storia di Lo Porto nasca subito dopo il suo rilascio... “Iniziai a sentire la madre telefonicamente, durante il suo sequestro. Non avevo possibilità concrete di potere intervenire in qualche modo. Ma andai a trovarla, in fondo il fatto stesso che io fossi tornato vivo dava la speranza che anche suo figlio si potesse salvare. Ci fu un fitto colloquio fra noi fino a quando arrivò la tragedia, nel senso proprio di tragedia greca: il rapito che non viene ucciso dai suoi rapitori ma da chi avrebbe dovuto salvarlo. E fu il momento della rabbia, perché di tutto si può parlare tranne che di una fatalità”. Lei parla di omicidio, con un reo confesso, che è il presidente Barack Obama. Una esagerazione voluta? “Semplicemente la verità. Soprattutto dopo l’11 settembre c’è una logica nell’azione dei governi americani che considera certe cose più importanti di altre, la logica della “sicurezza collettiva” per la quale per ammazzare i terroristi di Al Qaeda vale la pena che altri periscano. Una logica infame perché nessuno può decidere chi può essere sacrificato. Nessuno può essere sacrificato. A questa logica si sposa la tecnica del bombardamento con il drone che ancor di più dei normali bombardamenti accetta implicitamente le vittime civili. Se accetti questa logica come uomo politico di un paese democratico ne accetti la responsabilità e quindi sei colpevole. Non sei sopra il diritto e il diritto. Per il diritto, Obama è il colpevole dell’omicidio di Lo Porto”. Con questa teoria anche l’ex ministro degli esteri Matteo Salvini è colpevole di sequestro di persona per il caso dei migranti trattenuti nella “Gregoretti”? “Con le dovute differenze fra reati, il principio è lo stesso. Non ci si può far forti di una logica superiore al diritto per violarlo. Perché così non c’è più lo stato democratico”. Nel caso Lo Porto lei indica anche i “complici” del presidente degli Stati Uniti. Ci spiega? “Ci sono una serie di punti oscuri in tutta la vicenda ma soprattutto gli Usa hanno liquidato tutto con un tweet, un “ci dispiace” e un risarcimento. Il nostro Paese non ha fatto nulla per saperne di più. Per capire cosa è successo, se si sapeva che c’era il rischio di uccidere civili e in particolare gli ostaggi. Per questo scrivo che Giovanni è stato ucciso due volte, dagli americani e dal suo Paese. Se la stessa cosa l’avesse fatta Trump credo che almeno una parte degli italiani avrebbe fatto chiasso su questa vicenda ma con Obama nulla. E così è scattata la censura, consapevole e inconsapevole”. Censura sul comportamento degli Usa? “Non solo sugli Usa e l’uccisione di Lo Porto ma anche su di lui. Anche noi giornalisti non abbiamo fatto molto per mettere in luce la figura di questa madre che voleva giustizia per un figlio che era andato lì per lavorare, per aiutare gli altri. Con altri genitori di rapiti e di uccisi ci siamo comportati diversamente, forse perché “funzionavano” di più in televisione e sui giornali. Lui sarebbe stato l’eroe perfetto ma non c’era, non c’era più. I familiari e il contesto non sono stati considerati buoni per una narrazione: non “bucavano lo schermo”. E anche la stessa sua città, i ragazzi delle scuole palermitane mi hanno sorpreso per l’indifferenza verso questo loro eroe”. Continua a ripetere “eroe”... “Lui è un giovane che si è costruito da solo, ha studiato per potere aiutare in modo professionale gli altri in luoghi del mondo terribili. Si è riscattato dalle sue origini. È una storia straordinaria, un eroe moderno da portare da esempio ai ragazzi”. In Libia adesso sono prigionieri anche 18 pescatori siciliani... “Di rapimenti di pescatori ce ne sono stati tanti, finivano in piccole notiziole e i sequestri finivano in pochi giorni. Qui c’è qualcosa di diverso, molto diverso e dietro c’è anche la nostra inconsistente politica estera che ha scontentato sia il “nostro amico” al Serraj che il generale Haftar che sono tutt’altro che politici. Gheddafi in fondo lo era, loro sono due criminali con i quali noi facciamo affari e intratteniamo colloqui diplomatici. Temo che i pescatori siano diventati una delle garanzie per Haftar adesso che ha i suoi problemi con i suoi Paesi sponsor”. Lei è stato rapito due volte, che effetto le fa sentire parlare di lockdown, di diventare prigionieri nelle proprie case per un virus? “Noi qui ci dimentichiamo che in alcune parti del mondo si muore per il morso di un cane, per un morbillo, per Ebola. Ma questo virus alimenta la paura collettiva e questo può favorire la tentazione di cedere parte della propria libertà a chi prometterà di liberarci dalla paura. E quando ci sarà un vaccino la sua distribuzione riproporrà le diseguaglianze del mondo”. Covid, Regioni in rivolta contro il lockdown. Il ministro Speranza: governatori irresponsabili di Federico Capurso La Stampa, 6 novembre 2020 Mai così tante vittime da maggio. Il ministro a chi contesta i lockdown: “Surreale, ignorano la gravità dei dati”. Criticano i dati, contestano i criteri, annunciano ricorsi. Insomma, non ne vogliono sapere i governatori di Lombardia, Piemonte e Calabria, di essere imbrigliati dall’ultimo Dpcm nella zona rossa. Scatta oggi per loro il primo giorno di lockdown soft, ma già nelle prossime ore, probabilmente sabato, con l’arrivo del nuovo report settimanale dell’Istituto superiore di sanità, altre regioni potrebbero veder aggiornata, e in peggio, la loro classifica. Nel mirino, secondo i tecnici che lavorano a stretto contatto con il ministero della Salute, ci sono Campania, Veneto, Liguria e Toscana, che potrebbero veder cambiato il colore del proprio territorio da giallo ad arancione. Non confortano i dati di ieri: 34.505 i nuovi casi di contagio su 219.884 tamponi, con 445 morti e 99 nuovi pazienti in terapia intensiva, che portano il totale a 2.391. A livello regionale, poi, è ancora una volta la Lombardia a far segnare il maggior incremento con 8.822 casi, seguita da Campania (+3.888), Veneto (3.264) e Piemonte (3.171). Il governatore lombardo Attilio Fontana, in mattinata, sembra arrendersi all’inevitabile zona rossa, ma tra i suoi colleghi molti puntano ancora il dito contro i dati che hanno determinato le zone rosse e arancioni: “Difficili da decifrare”, dicono alcuni, “discriminatori”, accusano altri. E soprattutto “vecchi”, perché risalenti alla scorsa settimana. Motivi sufficienti, per il presidente in pectore della Calabria Nino Spirlì, per impugnare il provvedimento. Sono le Regioni, però, a fornire quei dati. E nella cabina di regia che elabora quei 21 parametri, decisi mesi fa insieme ai presidenti di regione, ci sono tre rappresentanti indicati dalle stesse Regioni. Il fatto poi che i dati siano vecchi è “inevitabile” ribatte il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, perché c’è un “tempo necessario per stabilizzarli”. Ma sono “condivisi e validati da 24 settimane con le regioni”. Dunque, se non erano “scaduti” prima, non lo sono neanche ora. A difendere le scelte dell’ultimo Dpcm intervengono anche ministri e membri della maggioranza. “È surreale”, sferza il ministro della Salute Roberto Speranza, “che alcuni governatori anziché assumersi la loro parte di responsabilità, fingano di ignorare la gravità dei dati che riguardano i loro territori”. Ancora più duro il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Alcune Regioni, cambiando idea sulle misure da adottare, stanno offrendo uno spettacolo indecoroso”. Il governo scende in trincea, ma il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia, dopo le stoccate dei suoi colleghi, chiede di abbassare i toni: “Non possiamo permetterci divisioni”, dice dopo una Conferenza Stato-regioni tutt’altro che serena. D’altra parte è vero - come sottolineano durante la Conferenza i governatori di centrodestra, spalleggiati da Salvini - che in una condizione di caos come quella che stanno affrontando ospedali e Asl, la raccolta dei dati diventa complicata. Ad ammetterlo è anche il direttore Prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza: “La Val d’Aosta ha difficoltà e in Campania potrebbe esserci un certo ritardo, come in altre Regioni”. Così, tra mezza ragione da una parte e mezza dall’altra, proseguono le tensioni. Ma tanto è il trambusto che all’interno del governo torna a riaffacciarsi con forza l’idea di intervenire sulle competenze delle regioni, con una modifica del titolo V della Costituzione, quando l’emergenza sarà alle spalle e la polvere delle polemiche, forse, si sarà posata. Il Viminale teme per la sicurezza: “Ci aspetta un inverno pericoloso” di Francesco Grignetti La Stampa, 6 novembre 2020 Tre i fronti aperti: terrorismo, controlli anti-Covid e ordine pubblico. Il report: l’isolamento incide sulla devianza. Lo scenario peggiore. Si potrebbe definire la tempesta perfetta. Sulle forze di polizia si sta per abbattere una molteplicità di emergenze: terrorismo, controlli anti-Covid, ordine pubblico. Tre fronti che si sono aperti tutti assieme di colpo. E quindi al Dipartimento di Ps si sente dire: “Sarà molto peggio di marzo”. A marzo, infatti, pur con tanti mugugni, gli italiani si sono adeguati alle ordinanze sanitarie, anche le più restrittive. Stavolta, no. Stavolta si arriva alla seconda ondata con animo molto diverso. I segnali ci sono stati. Tante aggressioni di giovani a singole pattuglie che cercavano di far rispettare gli obblighi di mascherina e distanziamento. La Direzione centrale della polizia criminale ha realizzato un report proprio sul fenomeno della devianza in epoca di Coronavirus: “Solitudine e blocco emotivo - scrivono - sono tra gli effetti collaterali che hanno colpito principalmente i giovani. L’isolamento, in particolare, incide sulla devianza minorile”. Poi però sono venute le rivolte violente, a Napoli come a Roma, Torino, Milano, Firenze. E ora si torna ai lockdown, sia pure differenziati per regioni. Perciò la polizia è preoccupata. Tanti i fronti, tante le tensioni. E il personale è poco, stanco, sotto pressione da mesi. Come se tutto ciò non bastasse, il terrorismo islamista rialza la testa. il Capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, ha appena diramato una circolare che invita i questori ad aumentare i controlli per i siti a rischio di attentato. E questa ripresa del terrorismo “davvero non ci voleva - si fa notare - perché distoglie forze”. Forze che dovranno far rispettare i nuovi divieti, quali il coprifuoco nazionale, il blocco alla circolazione nelle regioni rosse, o la chiusura anticipata di bar e ristoranti. C’è comunque la massima attenzione a ogni segno premonitore: è stato appena accompagnato a casa sua un egiziano d i 43 anni, residente in Italia dal 1999, che in carcere aveva confidato a un compagno di cella che avrebbe voluto imitare Anis Amri e compiere una strage tra i mercatini di Natale. Di questo intreccio venefico, cioè terrorismo islamista più ordine pubblico più immigrazione clandestina, ha parlato la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, al comitato parlamentare sulla sicurezza. Ha spiegato perché c’è allarme, ma non è stato innalzato il livello di sicurezza. I casi di Nizza e di Vienna vengono tenuti ben distinti. Non ci sarebbe un piano di attacco all’Europa, bensì emulazione. Occorre poi fare di più per frenare le partenze dalla Tunisia, sia per una gestione più razionale degli sbarchi in epoca di pandemia, sia per meglio studiare i profili di chi sbarca sulle nostre coste ed evitare che sfugga qualche potenziale terrorista, ma senza la collaborazione del governo tunisino c’è poco da fare. E proprio per esercitare pressioni congiuntamente su Tunisi, oggi arriva a Roma il ministro francese dell’Interno, Gèrald Darmanin. Kosovo. Il “serpente” incriminato. La Nato tace di Alessandra Briganti Il Manifesto, 6 novembre 2020 La storia. La Corte dell’Aja conferma le accuse di crimini di guerra e contro l’umanità per il presidente del Kosovo Hashim Thaqi, che si dimette. Venne legittimato dalla guerra “umanitaria” del 1999. Era il 29 aprile 1999 quando il manifesto pubblicava una prima pagina bianca con in calce una frase: i bambini non ci guardano. Le bombe della Nato piovevano dai cieli della Serbia da poco più di un mese. Era la denuncia forte e solitaria pensata da Luigi Pintor contro una guerra mascherata da intervento umanitario - con tanti”effetti collaterali” vale a dire stragi di civili - che avrebbe segnato la storia degli Stati sorti dalle ceneri dell’ex Jugoslavia. Ieri dopo più di vent’anni su quella pagina bianca è stata scritta una parola a lungo invocata: giustizia. Giustizia per i crimini di guerra e contro l’umanità di cui è accusato il presidente del Kosovo ed ex comandante dell’Esercito di Liberazione Nazionale (Uck) Hashim Thaqi (Il Serpente). La Corte speciale istituita per indagare i crimini commessi dall’Uck durante e dopo il conflitto del 1999 ha infatti confermato le accuse a suo carico: omicidi, sparizione forzata di persone, persecuzione e tortura, crimini perpetrati contro oppositori politici, albanesi kosovari, serbi, rom e di altre etnie. A dare notizia della conferma dell’incriminazione all’Aja è stato lo stesso Thaqi che in una breve conferenza stampa ha poi annunciato le dimissioni con effetto immediato e invitato i cittadini a mantenere la calma e a non rispondere a eventuali provocazioni. Sempre nella mattinata di ieri era arrivata la conferma dell’incriminazione del braccio destro di Thaqi, Kadri Veseli, ex presidente del parlamento del Kosovo, che ha rassegnato le dimissioni dalla carica di presidente del Pdk, il principale partito d’opposizione nel Paese. Nel pomeriggio Thaqi e Veseli sono stati trasferiti all’Aja con un aereo speciale decollato dall’aeroporto internazionale di Pristina. A inchiodare le due personalità politiche più rilevanti della storia recente del Kosovo era stato il rapporto redatto nel 2011 dal senatore svizzero Dick Marty su mandato del Consiglio d’Europa. Il rapporto risultato di due anni di indagini, indicava il padrino del gruppo di Drenica, così veniva chiamato Thaqi nel rapporto, ed altri ex guerriglieri dell’Uck quali responsabili o mandanti di “una serie di omicidi, incarcerazioni, aggressioni e interrogatori in diverse regioni del Kosovo e nello specifico (…) durante le operazioni condotte dall’Uck in territorio albanese negli anni 1998-2000”. Tra le accuse più gravi, anche quella di traffico di organi che passava dalla clinica di Fushe Kruje, la cosiddetta “casa gialla”, in Albania, una storia denunciata precedentemente anche da Carla del Ponte, la ex procuratrice del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia nel suo importante libro di denuncia La caccia. Io e i criminali di guerra. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e ciò che prima sembrava impensabile, ora non lo è più. Nell’ultimo anno si è assistito a un’accelerazione delle indagini da parte della Corte speciale che ha portato all’incriminazione di diversi ex guerriglieri dell’Uck, tra cui Sali Mustafa, ex capo dei servizi segreti del Kosovo, Jakup Krasniqi e Rexhep Selhimi, questi ultimi due arrestati mercoledì a Pristina e trasferiti all’Aja. Eppure l’operato del Tribunale speciale rischia di essere invalidato dalle intimidazioni verso i testimoni, come già accaduto in passato e come lascerebbe intendere la fuga di notizie riservate avvenuta a inizi settembre. Quattromila documenti riservati della Corte sono stati infatti recapitati all’associazione dei veterani dell’Uck, fascicoli contenenti tra l’altro anche i nomi dei testimoni protetti. Un attacco alla Corte che ha portato all’arresto di Hysni Gucati e Nasim Haradinaj, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’associazione dei veterani di guerra dell’Uck, che dovranno rispondere di reati contro la giustizia. La stessa Corte poi ha denunciato a più riprese la “campagna segreta” condotta da Thaqi e Veseli per sabotarne il lavoro e assicurarsi così l’impunità, non ultimo il tentativo delle settimane scorse del presidente del Kosovo di emendare la legge che istituisce il Tribunale. Ancor più spinosi sono i risvolti politici della vicenda giudiziaria. È come se ci si trovasse di fronte a un cortocircuito della Storia con un’Europa che in parte ha partecipato a quella guerra sciagurata e che oggi invece smentisce il proprio passato affermando il pieno sostegno al Tribunale e dicendosi soddisfatta del fatto che Thaqi abbia accettato di cooperare con la giustizia. Quella stessa Europa che oggi chiede a un Kosovo sempre più isolato di scendere a compromessi con la Serbia, imponendogli l’istituzione dell’associazione dei comuni a maggioranza serba, finora rimasta lettera morta per il timore delle autorità di Pristina che vedono in quel compromesso un cavallo di Troia del nemico serbo per rendere ingovernabile il Paese. E cosa dire dell’Alleanza atlantica che proprio con la guerra in Kosovo ha mutato pelle proprio durante i radi “umanitari” trasformandosi da alleanza difensiva a potenza offensiva, e che ora rischia sempre nei Balcani di mostrare la profondità della crisi che sta attraversando. E che dire degli Usa, che in Kosovo hanno edificato la più grande base militare d’Europa a Camp Bondsteel, e che con tutti i presidenti degli ultimi 20 anni ha sostenuto l’indipendenza del Kosovo e legittimato Hashim Thaqi. Intanto la pax americana auspicata da Trump negli anni della sua amministrazione è naufragata miseramente e ha contribuito al contrario ad esacerbare ancora di più tensioni mai sopite nell’area, ridando fiato e lustro a nazionalismi che ci illudevamo di vedere sepolti. Etiopia. Il Nobel per la pace Ahmed va alla guerra di Marco Boccitto Il Manifesto, 6 novembre 2020 Precipita la crisi nel Tigray. “Sovranità nazionale minacciata”, il premier sceglie l’opzione militare per regolare i conti con il Tplf. I colpi di artiglieria pesante che ieri mattina risuonavano al confine tra l’Amhara e il Tigray, nel nord dell’Etiopia, hanno fatto eco alle dichiarazioni rese in tv la sera prima dal primo ministro etiope Abiy Ahmed, secondo il quale l’operazione militare avviata mercoledì contro le forze del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), in risposta all’attacco contro una base dell’esercito federale a Dalsash che ha provocato “molti martiri, feriti e danni”, sta avendo “successo”. Quindi prosegue e anzi è destinata ad estendersi, ha detto il premier, a dispetto dei timori diffusi che l’escalation possa presentare un conto pesante di vittime, oltre che un’imprevista ondata di profughi. “La linea rossa è stata superata” ha detto Ahmed, senza aggiungere dettagli sui combattimenti in corso e riservandosi di fornire tutte le informazioni una volta che l’operazione sarà conclusa. Il governatore del Tigray Debretsion Gebremichael, che ieri ha dichiarato lo “stato di guerra”, denuncia viceversa l’”aggressione congiunta” dell’esercito federale e delle forze speciali della confinante regione Amhara. Ma al tempo stesso ostenta una bellicosa sicurezza: “La popolazione tigrina non dovrebbe essere attaccata nel Tigray. Ora siamo bene armati, forse meglio di loro”. Gli scontri hanno coinvolto anche la capitale tigrina, Mekelle, alla cui periferia si trova in effetti la sede del Comando nord dell’esercito federale, con il deposito d’armi meglio fornito della regione. Ieri le forze speciali locali mantenevano il controllo della struttura. Fin qui gli sviluppi drammatici e in evoluzione di una crisi che ha origini lontane e cause scatenanti più recenti. Lo strappo dello scorso settembre, quando in Tigray si sono svolte le elezioni regionali a dispetto della decisione presa dal governo centrale di Addis Abeba di rimandare il voto per l’emergenza Covid, ha segnato un punto di non ritorno. E così Ahmed, cui è stato assegnato lo scorso anno il Nobel per la pace grazie al modo brillante con cui ha chiuso l’annoso conflitto con l’Eritrea, non ha esitato a indossare la mimetica per regolare i conti con il Tplf. Ovvero per “difendere la sovranità nazionale e la pace”. In questo il premier etiope ha l’appoggio degli altri stati della federazione: a cominciare dalla “sua” Oromia, il cui presidente, Shemelis Abdissa, nell’esprimere pieno sostegno alla risposta militare del premier è tornato ad accusare il Tplf di armare le frange più estreme del Fronte di liberazione oromo (Olf), rilanciando la teoria di un’alleanza tra forze storicamente nemiche al fine di destabilizzare il paese, alimentare gli scontri interetnici e bloccare la spinta riformatrice di Ahmed. Denuncia che ha ripreso vigore dopo i sanguinosi scontri seguiti all’omicidio, nel giugno scorso, del celebre cantante oromo Hachalu Hundessa. La pressione internazionale più energica per ora arriva dal Dipartimento di stato Usa: in pieno pandemonio elettorale Mike Pompeo ha trovato il tempo di esprimere tristezza per le vittime e invocare una tregua. Addis Abeba resta un alleato strategico di Washington sullo scacchiere africano. Ma la recente uscita di Trump sulla Diga della Rinascita etiope - è di ieri l’ennesimo fallimento delle trattative in corso sulla mega infrastruttura che dovrebbe risolvere i problemi energetici dell’Etiopa ma è vista dall’Egitto come una minaccia alla sua produzione agricola -, l’idea della Casa bianca secondo cui al Sisi potrebbe perdere la pazienza e bombardare la diga sul Nilo Azzurro, hanno raffreddato parecchio i rapporti. Anche per questo Ahmed tira dritto. Ora diteci dov’è Akram Aylisli. Coscienza (rinnegata) degli azeri di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 6 novembre 2020 Lo scrittore, 83 anni, ha denunciato le violenze del suo popolo sugli armeni. Era atteso a ottobre a un evento internazionale, poi annullato e rinviato al 4 dicembre. Che fine ha fatto Akram Aylisli che sei anni fa fu candidato al Nobel per la pace come una sorta di “Sakharov dei Balcani”? Hanno provato in tanti, da quando un mese fa è riesplosa la sanguinosa guerra nel Nagorno-Karabakh, a cercare un contatto col grande scrittore azero accusato dai suoi compatrioti nazionalisti d’aver “tradito” l’Azerbaigian narrando la decimazione di un secolo fa degli armeni nel suo villaggio d’origine, Ajlis, in quella che oggi è la Repubblica autonoma di Naxcivan, l’exclave azera stretta tra l’Iran, l’Armenia e la Turchia. Niente da fare. Vaghe rassicurazioni. Pare che… Forse… Probabilmente… L’ultima traccia, anzi, ha lasciato nuovi dubbi. Il 16 ottobre scorso infatti, dopo anni di silenzi, l’ottantatreenne e malandato autore di Sogni di pietra, pubblicato la prima volta in Occidente nel 2015 da Guerini, avrebbe dovuto partecipare, sia pure in remoto da Baku, la capitale azera dove vive come fosse in domicilio coatto, alla presentazione di Farewell, Aylis, Addio Aylis, la trilogia uscita due anni fa negli Stati Uniti. Trilogia che comprende appunto, con Yemen e Un fantastico ingorgo, il bellissimo Stone Dreams tradotto dalla poetessa Katherine E. Young. Era tutto pronto, all’Harriman Institute della Columbia University, che aveva organizzato l’evento con l’Institute for the Study of Human Rights e la Pen International, l’associazione di poets (poeti), essayists (saggisti) e novelists (romanzieri) fondata nel 1922 per proteggere gli scrittori di tutto il mondo. Titolo dell’evento: “Libri in fiamme: Akram Aylisli, letteratura e diritti umani nell’Azerbaigian di oggi”. All’ultimo istante, stop: tutto annullato. Rinviato al 4 dicembre. C’è da sperarci? Ma partiamo dall’inizio. Akram Najaf oglu Naibov noto come Akram Aylisli, riassume la Pen in un’appassionata difesa del 2019, è “un drammaturgo, romanziere e traduttore considerato per decenni uno degli scrittori più apprezzati dell’Azerbaigian. I suoi libri erano letti nelle scuole e nel ‘98 aveva ricevuto il titolo ufficiale di Scrittore del Popolo, oltre a due dei più alti premi statali. Dal 2005 al 2010 era stato inoltre deputato al Parlamento azero”. Tutto precipitò nel 2012. Quando lo scrittore decise di tirar fuori dal cassetto dove stava da anni il manoscritto di quel romanzo, Sogni di pietra, dove affrontava il tormentato rapporto tra la sua anima azera e il senso di colpa per gli armeni uccisi negli eccidi del 1919 nel paese natale da cui aveva tratto il suo stesso nome, Aylis, che gli armeni chiamavano Verin Agulis e che fino alla pulizia etnica seguita al caos della Rivoluzione d’Ottobre aveva una fortissima presenza armena, testimoniata tra l’altro dal monastero di San Tommaso fondato nel I secolo, pare, da san Bartolomeo apostolo. A scuoterlo fu l’indignazione per il trionfale ritorno in patria (folla all’aeroporto, banda musicale, omaggi floreali, grazia presidenziale, nomina a “uomo dell’anno”) d’un ufficiale azero, Ramil Safarov, condannato all’ergastolo in Ungheria per aver decapitato a colpi d’accetta, durante un master Nato, un pari grado armeno che dormiva. “Ero sotto choc - avrebbe raccontato -. Speravo di risparmiare alla mia gente l’immagine di un popolo di tagliagole”. Scelse dunque di pubblicare Da? yuxular (Sogni di pietra) non in patria ma sulla rivista russa “Druzhba Narodov”. Convinto, spiegherà al “New York Times”, di poter così “conquistare un’audience un po’ più aperta”. Macché. Appena se ne accorsero in Azerbaigian scoppiò il finimondo. Il presidente Ilham Aliyev accusò Aylisli di “deliberata distorsione della storia dell’Azerbaigian”, gli revocò il titolo di Scrittore del Popolo, gli tolse la pensione concessa come autore illustre. La moglie e il figlio furono licenziati. Il National Drama Theatre di Baku cancellò i suoi lavori. Centinaia di manifestanti bruciarono in piazza a Gjandža, la seconda città azera, i suoi libri prima amatissimi. Il presidente del Consiglio del Caucaso islamico lo dichiarò “apostata”. Alcuni deputati proposero di fargli un’analisi del Dna per accertare se fosse “geneticamente” armeno. E il leader del partito nazionalista Muasir Musavat offrì 13 mila dollari a chiunque gli avesse mozzato un orecchio. “Se si accendesse almeno una candela per ogni armeno ucciso violentemente, la luce di queste candele sarebbe più viva di quella della luna”, si legge in Sogni di pietra. Sperava di spingere tutti a una riflessione: non gli è mai stato perdonato. Tanto più che Heydar Aliyev, già capo del Kgb azero, pluridecorato all’Ordine di Lenin, ultimo rais comunista dal lontano 1969, primo presidente nazionalista dal ‘91 e padre dell’attuale autocrate al potere, era nato lì, a Naxcivan, la capitale dell’omonima enclave azera, vicino all’antica Aylis. Insomma: per la famiglia al potere era un dito nell’occhio. A fine marzo del 2016, qualche lettore ricorderà, Akram Aylisli fu bloccato all’aeroporto di Baku mentre stava per imbarcarsi verso Venezia, dov’era invitato al festival letterario “Incroci di civiltà”. Dissero che aveva picchiato (lui: un ottantenne!) un giovane poliziotto. Arrestato, ricondotto a casa, ridotto a una sorta di domicilio coatto in attesa del processo, resta di lui il discorso che avrebbe voluto leggere nella città serenissima, storica patria di tanti senzapatria. Discorso pubblicato da “Index on Censorship” (la prestigiosa rivista londinese per la difesa della libertà d’espressione su cui hanno scritto Arthur Miller, Nadine Gordimer, Samuel Beckett, Mario Vargas Llosa...) dove attaccava quelli che “si nascondono dietro le cosiddette visioni nazionali e se la cavano seminando semi di odio tra popoli e nazioni che non molto tempo fa vivevano insieme in pace”. E se la prendeva con quanti “hanno l’audacia di proclamarsi gli unici portatori di verità e i veri e propri campioni della felicità nazionale”. Per rivendicare, da azero: “Col mio libro ho salvato molti armeni dall’odio verso il mio popolo. Ho capito che in questo sanguinoso conflitto né gli armeni né noi dobbiamo incolpare le persone che non farebbero mai la guerra senza le interferenze della politica. E ho trovato conferma che mentre le nostre nazioni sono buone da sole, insieme sono magnifiche”. Un’apertura che sperava fosse raccolta, come nota nella prefazione a Farewell, Aylis il saggista americano Joshua Kucera, da scrittori armeni che riconoscessero a loro volta errori e crimini contro gli azeri. “Richiesta ignorata. L’Armenia non è più pronta a esaminare le proprie colpe di quanto lo sia l’Azerbaigian”. Peggio: accolse Sogni di pietra solo come una prova delle proprie ragioni. Mollando lo scrittore azero nella sua solitudine col passare degli anni sempre più amara. Tanto più in un Paese scivolato nel 2019 al 168º posto (su 180) nella classifica mondiale sulla libertà di stampa di Reporters sans frontières. Ecco, nell’appello firmato da Pen Russia e intellettuali americani ed europei perché il Nobel per la pace 2014 fosse dato a lui, con un richiamo a “uomini rari” quali Martin Luther King e Andrej Sacharov capaci di “abbattere i muri che dividono le nazioni”, c’era appunto la volontà di rompere quella solitudine: “Solo la voce di figure onorate può incoraggiare entrambe le nazioni a perdonarsi a vicenda per raggiungere infine un accordo. Il signor Aylisli ha avuto il coraggio di essere il primo a fare questo passo e tendere la mano”.