Covid, 3.300 detenuti possono chiedere i domiciliari, ma 1.100 non hanno una casa di Luisiana Gaita Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2020 Il “pacchetto giustizia”, che ha trovato spazio nel Decreto Ristori, prevede fino al 31 dicembre 2020 la possibilità della detenzione domiciliare per chi ha una pena da scontare (anche come parte di pena maggiore) non superiore a diciotto mesi. Molti però non possono usufruire di questo diritto perché non hanno un posto dove andare. Quattrocento detenuti nelle carceri italiane hanno contratto il Covid-19, così come altrettanti agenti di polizia penitenziaria. E se il ‘pacchetto giustizia’, che ha trovato spazio nel decreto Ristori, prevede fino al 31 dicembre 2020 la possibilità della detenzione domiciliare per i detenuti la cui pena da scontare (anche come parte di pena maggiore) non sia superiore a diciotto mesi, è anche vero che c’è chi, pur avendone diritto, si trova in condizione di non poter usufruire di questa possibilità. Parliamo di 1.157 detenuti che non hanno una dimora fissa e per i quali nelle ultime ore il Garante nazionale delle persone private della libertà ha chiesto da un lato di ricalibrare l’ampiezza delle misure facendo diminuire il numero delle presenze nelle celle nel più breve tempo possibile, dall’altro un coinvolgimento degli enti territoriali affinché si trovino alternative di accoglienza per chi non ha un altro posto dove andare fuori dal carcere. “I Comuni devono dare la loro disponibilità - spiega a ilfattoquotidiano.it il Garante, Mauro Palma - anche perché il carcere è il punto di arrivo di contraddizioni che nascono fuori. Bisogna trovare soluzioni diverse per quelle persone, che magari hanno commesso reati minori e che rischiano di vedersi negato un diritto”. Invece, ad oggi, la popolazione carceraria continua ad aumentare. “L’ultimo dato è quello del 31 ottobre - spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio detenzione dell’associazione Antigone - e parla di 54.868 detenuti. Il dato più basso degli ultimi mesi è stato quello di maggio (53.387) e a settembre erano 54.277. Questo significa che, nell’ultimo mese la popolazione è aumentata di circa 600 detenuti”. Gli esclusi dalla detenzione domiciliare - Secondo le stime del Garante sarebbero 3.359 i detenuti che potrebbero usufruire della detenzione domiciliare. Il decreto Ristori pone dei paletti chiari: è escluso da tale possibilità chi è condannato per una serie di gravi reati (come quelli di mafia e terrorismo), ma anche i “delinquenti abituali, professionali o per tendenza”, i detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare e quelli che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per alcune gravi infrazioni disciplinari, come la partecipazione a sommosse, tentativi di evasione e reati commessi a danno di altri detenuti, operatori penitenziari o visitatori. Ma l’esclusione che ha provocato l’intervento di Palma è quella che riguarda “i detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato”. Tuttavia, la stessa norma ammette la possibilità che, in questo caso, la detenzione si svolga in “luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza”. E allora la situazione è questa: tra le persone che devono scontare una pena inferiore a sei mesi, sono 1.142 quelle che possono usufruire della detenzione domiciliare, mentre contando quelle con una pena inferiore a 18 mesi, se ne stimano 2.217. Sono i detenuti che non rientrano in tutte le altre limitazioni imposte dal decreto. Ma di questi, oltre mille restano fuori (anzi, dentro) proprio perché non hanno un domicilio. Le alternative - Ci sarebbe la possibilità di essere ospitati in un “luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza”. Ma che significa? “Intanto significa che si potrebbe creare un paradosso” spiega a ilfattoquotidiano.it Mauro Palma, perché “in questo modo se la persona in questiona ha dei problemi psichiatrici potrebbe essere accolta da una struttura idonea, se può disporre di risorse economiche può essere ospitato da una struttura privata, ma per tutti gli altri c’è un vuoto. Ecco perché credo che su alcuni temi, sia necessario intervenire con una varietà di strumenti e risposte diverse”. Quali? “Intanto si tratta di una necessità che chiama in campo i Comuni, con cui bisogna aprire subito un dialogo e che devono dare la loro disponibilità, senza escludere il controllo da parte delle autorità, per garantire l’accesso alle misure anche per chi non ha un domicilio”. Si tratta di “trovare gli strumenti adeguati per superare quella condizione sociale di inesistenza di una dimora che rischia di penalizzare le fasce già più deboli e di rendere ancora più ristretto l’accesso alle nuove misure”. Anche per Antigone “si tratta di una strada obbligata - spiega Scandurra - perché quello dei detenuti senza una dimora è sempre stato un problema, affrontato anche durante la prima ondata. Tanto che erano stati individuati dei fondi per garantire lo spostamento ai domiciliari, risorse date alle Regioni e poi ai Comuni, perché la soluzione va trovata nella rete dei Servizi sociali dei Comuni e nelle strutture che già offrono questi servizi come, ad esempio, la Caritas. Al momento non sono stati previsti nuovi fondi”. Tutto questo in un contesto che, nel frattempo, non rimane immutato, ma continua a peggiorare. Fuori e dentro al carcere, anche se le strutture sono più organizzate. “A creare nei mesi scorsi delle tensioni - continua - era stato anche il divieto di colloqui, ma ora i penitenziari sono stati attrezzati e i colloqui non sono stati bloccati. Restano, comunque, le preoccupazioni. Il carcere è un luogo più protetto rispetto ad altri, ma se entra il virus entra, è più pericoloso, perché mantenere le distanze è difficile, i detenuti non sono autonomi e aspettano chi porta loro da mangiare, chi apre il cancello”. E il virus, infatti, continua a diffondersi. Il contagio nelle carceri - “C’è bisogno di un allentamento - aggiunge il Garante, Mauro Palma - su mascherine e misurazione il sistema penitenziario è molto più pronto rispetto alla scorsa primavera, ma il problema resta. Anche perché - aggiunge - ad oggi si isolano le persone che entrano per 14 giorni e sono quasi mille i detenuti e che in questi giorni sono sottoposte a isolamento precauzionale e occupano, come è giusto che sia, una stanza singola”. Su circa 55mila detenuti nelle carceri italiane (per poco più di 47mila posti che sarebbero effettivamente disponibili), sono 400 quelle che hanno contratto il virus, ma oggi vengono fatti molti più tamponi rispetto ai primi mesi del contagio. Solo a Terni, dove la situazione è piuttosto delicata, si registrano 69 detenuti positivi su 509 (pari al 13,5% della popolazione carceraria) oltre a cinque contagi tra il personale, mentre sono 29 (su 199, quindi con un’incidenza del 14%) i positivi ad Alessandria, dove nei giorni scorsi è morto un 82enne di Livorno. Preoccupano anche i dati di Milano, con le carceri di San Vittore e Bollate, che sono però attrezzati per le cure mediche. A San Vittore si è arrivati a quota 80 positivi, ma anche i focolai di Larino (Campobasso) con 29 infetti e Livorno (25 positivi), dove a fine ottobre era morto un altro detenuto in attesa del secondo tampone. Il ruolo della magistratura - Si tratta di numeri nei quali non si possono ancora leggere gli effetti del decreto che, sottolinea Alessio Scandurra “non riguarda solo le persone con condanna definitiva, perché in carcere ci sono anche detenuti in custodia cautelare”. Ed è per questo che il coordinatore dell’Osservatorio detenzione di Antigone sottolinea: “Il decreto non è solo un atto normativo, ma anche un segnale politico e culturale, con cui il governo sta dicendo che c’è un problema. Un segnale che spero venga accolto dalla magistratura, perché gli effetti di questo decreto, come sempre accade, sono anche nelle loro mani. La scorsa primavera i magistrati lo hanno fatto ed era diminuito il numero di detenuti in custodia cautelare, certamente per effetto del minor numero di reati commessi, ma anche per una maggior prudenza, in tempi di pandemia, dei magistrati. Pochi spazi e contagi in aumento. Ora le carceri sono dei focolai di Giulia Merlo Il Domani, 5 novembre 2020 La denuncia del Garante. Il virus corre anche nelle carceri, con una percentuale di positività che si avvicina a quella esterna (calcolata rispetto al numero di persone che si sono sottoposte al tampone). I numeri, forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dall’Autorità garante delle persone detenute, fotografano un quasi raddoppio dei malati rispetto al report del 28 ottobre scorso. Secondo il calcolo del 3 novembre i detenuti positivi sono 395, di cui 20 in condizioni gravi da richiedere il ricovero ospedaliero, mentre gli operatori sono 424. Solo una settimana fa i detenuti positivi erano 215 e gli agenti 232. Il dato è in continuo aggiornamento e crescita, con l’aggravamento della situazione in particolare nelle carceri in cui già è presente un focolaio. “La distribuzione rimane analoga, addensandosi in sole sette situazioni con un numero a due cifre”, scrive l’Autorità garante, evidenziando però che nelle carceri dove c’era anche un singolo caso positivo la diffusione è poi stata rapidissima: l’ultimo focolaio segnalato è nel carcere di Alessandria, dove si è registrato il decesso di una persona, l’espansione ora è a più del 14 per cento della complessiva popolazione, con 29 casi su 199 detenuti; oltre al caso di San Vittore dove í numeri sono alti perché c’è un hub sanitario, a Terni sono positive 69 persone su 509, pari al 13,5 per cento). Altri due focolai potrebbero presto scoppiare a Larino e a Livorno, dove è positivo il 10 per cento dei detenuti. Negli istituti con più malati, dunque, il rapporto di tamponi/positivi è in linea con quello nazionale, che si è attestato al 14,4 per cento. Il Dap nei giorni scorsi ha dato indicazione a tutte le carceri di creare un “reparto Covid”, in cui separare dai detenuti sani sia i detenuti che arrivano e che vanno testati o tenuti in quarantena che chi è già risultato positivo. Il problema, però, in molti istituti è sempre lo stesso: lo spazio, sia per gestire questi reparti speciali che per permettere il rispetto delle distanze di sicurezza a tutti gli altri. Attualmente in Italia sono in carcere 54.894 persone, i posti disponibili sono invece 47.187, con un sovraffollamento del 116 per cento, che in alcune strutture tocca anche il 170 per cento. Il problema è stato denunciato anche dai sindacati di polizia penitenziaria. “Esistono situazioni di grande criticità, sia per mancanza di spazi adeguati sia a causa di difficoltà delle Aziende Sanitarie che non riescono a supportare adeguatamente le direzioni dei penitenziari per le sanificazioni”, ha detto il segretario nazionale della Uil-pa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio. Per questo la richiesta avanzata al ministero dal Garante è sempre la stessa: “Ridurre il numero delle presenze: necessità in sé, acuita oggi dal problema dell’emergenza sanitaria”. Nel Dpcm della scorsa settimana erano contenute misure per estendere le licenze ai semiliberi ma sa lo se ammessi al lavoro esterno e per concedere gli arresti domiciliari ai detenuti che hanno un fine pena inferiore a diciotto mesi (e non hanno commesso reati considerati ostativi al beneficio o hanno subito misure disciplinari in carcere). Troppo poco, secondo il Garante che ha calcolato i numeri: la platea complessiva di chi potrebbe andare ai domiciliari è di 3.359 persone ma 1.157 - un terzo di loro - non potrà comunque goderne perché senza fissa dimora. Per questo, in sede di conversione del decreto, il Garante chiederà un ampliamento della liberazione anticipata e il rinvio degli ordini di esecuzione per pene di ridotta entità divenute definitive nei confronti di persone libere. Il nuovo Dpcm, invece, non prevede nulla in materia di giustizia. Formalmente, dunque, levisite ai detenuti in carcere continuano a essere possibili nel rispetto delle norme di sicurezza. Tuttavia le forti limitazioni di spostamento in alcune regioni rischiano di rendere questi spostamenti impraticabili per i parenti. Durante la prima ondata di pandemia, proprio la limitazione delle visite è stata la miccia - insieme al diffondersi del contagio - che ha acceso le proteste nei penitenziari. Il ministero della Giustizia, intanto, si è mosso per tamponare la situazione di emergenza nei tribunali, altro luogo in cui i contagi continuano a diffondersi nonostante lo spostamento via remoto di buona parte delle attività d’udienza e di consultazione dei fascicoli. Via Arenula ha investito 24,8 milioni di euro per “mascherine, termo-scanner, barriere “para-fiato”, gel igienizzanti. Ma anche interventi di pulizia straordinaria, sanificazione e una decisa spinta sulla digitalizzazione”. La Consulta dà ragione a Bonafede sulla verifica delle scarcerazioni di Liana Milella La Repubblica, 5 novembre 2020 Bocciati i ricorsi dei magistrati di sorveglianza di Avellino, Sassari e Spoleto che contestavano il decreto del Guardasigilli sull’obbligo di rivedere periodicamente il via libera agli arresti domiciliari. Una misura assunta per decreto dopo la scarcerazione dei boss tra marzo e aprile. Ha ragione Bonafede. E hanno torto i magistrati - di Avellino, Sassari e Spoleto - che erano ricorsi alla Consulta contro il decreto di maggio firmato dal Guardasigilli dopo i numerosi provvedimenti di altrettanti giudici di sorveglianza che avevano dato il via libera agli arresti domiciliari anche per noti boss mafiosi sulla spinta dell’emergenza Covid. Oltre duecento detenuti in alta sicurezza e quattro anche al 41 bis, avevano lasciato le patrie galere tra marzo e aprile di quest’anno. A quel punto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede era ricorso a un decreto legge per obbligare le toghe a rivedere periodicamente - la prima volta dopo 15 giorni e poi mensilmente - le condizioni sanitarie e logistiche che aveva portato alla concessione stessa dei domiciliari. Quindi non solo lo stato di salute del detenuto, ma anche la disponibilità di posti nei presidi sanitari situati all’interno delle carceri, senza ricorrere a ospedali esterni, come invece era avvenuto in primavera. Una misura che tre giudici di sorveglianza - tra cui Riccardo De Vito di Sassari che aveva concesso i domiciliari al boss Pasquale Zagaria - hanno subito ritenuto lesiva della loro autonomia di valutazione e di giudizio al punto da presentare altrettanti ricorsi alla Consulta contestandone la legittimazione costituzionale. Ma adesso la Corte - relatore il giudice Francesco Viganò - non lascia spazio a critiche e a dubbi, né tantomeno a possibili margini di incostituzionalità. Perché ritiene che “questa disciplina non sia in contrasto con il diritto di difesa del condannato, né con l’esigenza di tutela della sua salute, né, infine, con il principio di separazione tra potere giudiziario e potere legislativo”. Un giudizio che non lascia alcuno spazio a ulteriori dubbi interpretativi. Perché stabilisce che non c’è stata alcuna lesione dei principi costituzionali per l’obbligo, per i giudici di sorveglianza, di verificare periodicamente la perdurante sussistenza delle ragioni che giustificano la detenzione domiciliare per motivi di salute. Verifica che, per gli stessi giudici, comporta l’obbligo di acquisire una serie di documenti e di pareri, in particolare sia da parte del Direzione delle carceri, sia della Procura nazionale antimafia, sia delle singole Procure distrettuali antimafia. Proprio Repubblica, il 3 maggio, aveva scoperto l’esistenza di una lista di 376 nomi di altrettanti scarcerati ristretti in condizioni di alta e media sicurezza, nonché al 41bis, per i quali erano stati autorizzati gli arresti domiciliari. Boss di mafia, camorra, ‘ndrangheta. Una lista “ballerina”, lievitata fino a 498 nomi. Ancora a settembre, a quattro mesi dalla fine del lockdown, Repubblica con Salvo Palazzolo rivelava che c’erano ancora 112 mafiosi rimasti ai domiciliari per il rischio contagio, “nonostante il decreto Bonafede che doveva riportarli in cella”. Proprio quel decreto contestato dai giudici che non si sono mai “pentiti” per le misure concesse. Misure che invece la destra ha attribuito a Bonafede soprattutto per via di una circolare del 21 marzo che, dal Dap, allertava i magistrati di sorveglianza sul rischio Covid nelle celle, non solo per chi aveva patologie, ma anche per gli over 70. Dalla sua, il Guardasigilli ha sempre ribadito che “i ministri non scarcerano”. Adesso la Consulta dà il definitivo via libera al suo decreto che imporrà ai giudici di sorveglianza un continuo monitoraggio della concessione dei domiciliari. Misura però che, in tutti i decreti per il Covid, è sempre stata esclusa per gli autori di reati gravi, come quelli di mafia. Tutti rientrati in cella i detenuti usciti per Covid di Gaetano Pedullà La Notizia, 5 novembre 2020 Chi non l’ha fatto è fuori per motivi processuali diversi. Da Giletti informazioni sbagliate. I documenti lo dimostrano. Da giorni ricevo gli insulti di persone che mettono in dubbio la mia correttezza personale e professionale, evidentemente persuase dal processo mediatico che mi è stato fatto nell’ultima trasmissione di Massimo Giletti, Non è l’Arena. In quella sede sono stato accusato di aver fatto “il peggior sfregio al giornalismo”, e di questo quanto prima ne riparleremo nelle sedi competenti. Ai miei lettori però ho spiegato subito che rapporti avevo con Buzzi, all’epoca imprenditore di cui non si poteva sospettare l’associazione a delinquere emersa solo successivamente nel processo denominato Mafia Capitale. Tali rapporti nascono e finiscono in una telefonata, nella quale chiedo le prove di un reato gravissimo, a suo dire compiuto da una giudice del Tar del Lazio. Non ricevendo le carte richieste e dopo altre ricerche personali non scrissi nulla di quanto Buzzi si aspettava, tanto che lo stesso espresse il suo disappunto rivolgendosi poi ad altri giornali. Di questo, ovviamente, nella trasmissione di Giletti non si è detto nulla, mentre la telefonata con quella che era solo una fonte giornalistica doverosamente da ascoltare è stata rappresentata in modo da spingere in equivoco molti ascoltatori, come dimostrano le gravi offese che ricevo. Sempre ai miei lettori ho anche spiegato della frequentazione con Alemanno, più che logica in anni in cui lui era sindaco di Roma e io direttore di una delle più importanti televisioni regionali. Sempre in quell’epoca capitò anche che raggiungesse alcune persone, tra cui ero anch’io, in una breve vacanza, e di questo non capisco ancora perché Giletti abbia voluto parlare, come se ci sia qualcosa che io abbia mai nascosto o di cui mi debba vergognare (l’ho raccontata pure su un libro e in numerose interviste). Quella di cui non ho ancora parlato è invece la seconda parte del processo tv a cui sono stato sottoposto da Giletti, dove sostanzialmente mi si dà del bugiardo per aver detto che grazie a uno specifico provvedimento del ministro Bonafede sono rientrati in cella tutti i detenuti scarcerati in base alla prima circolare sul Covid emanata dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap). Per dimostrare la mia fandonia si è mandato in onda un servizio sui casi di Giuseppe Sansone e Stefano Contino, sicuramente due “galantuomini”, che però sono usciti dai penitenziari indipendentemente dalla circolare firmata dal dott. Basentini, oltre che dalla volontà del ministro della Giustizia, che pure i bambini sanno essere privo del potere di arrestare o liberare nessuno. Ma spieghiamo meglio i singoli casi, in modo che tutti possano vedere chi fa buon giornalismo e chi no. Giuseppe Sansone, esponente della famiglia mafiosa dell’Uditore (Palermo) era detenuto a Voghera in regime di 416 bis fino al 16 aprile scorso, quando un giudice ha deciso l’applicazione degli arresti domiciliari per una valutazione che non riguarda solo il rischio Covid, ritenendo assenti “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. Contro questa decisione il Dap si è opposto, indicando una soluzione sanitaria ritenuta adeguata, e la Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha chiesto formalmente al Gip la rivalutazione degli arresti domiciliari, ricevendo un nuovo diniego per ragioni diverse dalla pandemia. Ripetiamo: per ragioni diverse dalla pandemia, cioè l’oggetto della circolare del Dap di cui Giletti parla da mesi come di un suo scoop, nonostante lui stesso abbia mostrato in trasmissione che le maglie larghe di quella decisione dell’amministrazione penitenziaria (e non del ministro) erano state già rivelate anche da questo giornale in ben tre articoli precedenti alla trasmissione in cui parlò per la priva volta del caso. E veniamo adesso a Stefano Contino. Condannato il 10 ottobre 2019 a 12 anni di carcere e in regime di 416 bis nel penitenziario di Palermo-Pagliarelli, è stato mandato agli arresti domiciliari il 25 marzo scorso per varie patologie non curabili nella casa di reclusione in cui si trovava, priva di un centro clinico. Contro la decisione di mandarlo a casa, il Dap propose tempestivamente al giudice di sorveglianza la destinazione di Napoli-Poggioreale, ma la Corte d’Appello rigettò la richiesta per motivi diversi dal Covid e strettamente processuali. Sia il Dap che il decreto di Bonafede avevano dunque funzionato, ma il giudice - con una sua insindacabile valutazione processuale - ha ritenuto che per questo signore andassero bene gli arresti domiciliari, con una nuova valutazione che non aveva più niente a che vedere con il Covid o con la sua incongrua allocazione penitenziaria, ma solo una valutazione relativa alle esigenze cautelari. Alla luce di tutto questo, e dei documenti ufficiali che ho consultato per essere inattaccabile - al contrario di altri giornalisti con meno esperienza (se no bisogna pensare in cattiva fede) - posso affermare che da Giletti si è fatta disinformazione, prima su Bonafede e poi su di me. E questo si commenta da solo. “Decreto Ristori” e nuove misure per il contenimento del virus all’interno delle carceri di Sabrina Tirabassi penaledp.it, 5 novembre 2020 Licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà. Con la fine del periodo estivo, una nuova ondata di contagi sta interessando l’intero pianeta, generando una situazione che giorno dopo giorno è sempre meno gestibile e coinvolge ogni aspetto della società, tra cui l’ambito penitenziario. Nonostante le diverse e variegate misure adottate da mesi, rimane molto difficile arginare e contenere l’espansione del virus, soprattutto in quei luoghi, come appunto il carcere, in cui il contatto con il “mondo esterno” è un diritto del detenuto, fa parte integrante di quel programma di trattamento finalizzato alla rieducazione e alla risocializzazione e la cui limitazione costituisce indubbiamente “una pena della pena”. Molti gli interessi da contemperare in tutta la società e in particolare nella sub-società carceraria: il primo e in questo particolare momento il più importante, il diritto alla salute, cui si aggiunge il diritto alla pubblica sicurezza, alla rieducazione, al lavoro, a mantenere i rapporti familiari. Al fine di contenere il rischio di contagio all’interno degli istituti di pena e, contemporaneamente, non sacrificare le aspettative dei detenuti, si è cercato di far uso di tutti gli strumenti previsti all’interno dell’ordinamento penitenziario. I provvedimenti adottati con i precedenti decreti, tuttavia, non sono stati sufficienti a contenere il rischio di contagio e quindi, preso atto di questa nuova fase di emergenza, si è ritenuto di dover intervenire nuovamente con un provvedimento che, tra le varie tematiche, torna ad occuparsi degli istituti penitenziari. Nell’ambito del titolo III dell’ultimo d.l. n. 137 del 28 ottobre 2020 intitolato “Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19” (c.d. Decreto Ristori), sono state inserite tre norme finalizzate a contenere il rischio di espansione del Covid-19 all’interno degli istituti penitenziari. In particolare, l’art. 28 del d.l. n. 137/2020, ricalcando il precedente art. 124 contenuto nel primo decreto “Cura Italia”, prevede la possibilità di concedere licenze straordinarie per i detenuti ammessi al regime di semilibertà. Si tratta di permessi particolari attraverso i quali poter trascorrere fuori dal carcere interi periodi di durata anche superiore ai quarantacinque giorni all’anno (termine indicato dall’art. 52 ord. pen.), accordati ai detenuti già sottoposti alla misura della semilibertà, salvo che il magistrato di sorveglianza ritenga esistenti gravi motivi ostativi alla concessione della misura; permessi la cui durata potrà estendersi sino al 31 dicembre 2020. Sostanzialmente la norma in commento, così come quella indicata nel decreto n. 18/2020 all’art. 124, richiama l’art. 52 ord. pen., inserito nell’ambito del titolo dedicato al trattamento penitenziario e più specificamente alla misura della semilibertà, con l’aggiunta del limite dei gravi motivi ostativi. Come è noto, il regime di semilibertà consente al detenuto di uscire, nel corso della giornata, dall’istituto di pena al fine di svolgere attività di studio, formazione, lavoro, per poi farvi rientro a fine giornata. Si tratta di un istituto che permette al condannato di consolidare il percorso di recupero, attuato all’interno del carcere, attraverso un reinserimento graduale e controllato nell’ambiente esterno. Nell’applicazione di tale regime, la previsione di cui all’art. 52 ord. pen. consente di mitigare ancora di più quello status di detenuto al quale, nei casi in cui quest’ultimo si dimostri meritevole, viene data la possibilità di trascorrere interi periodi di tempo fuori dal carcere. In questo particolare periodo storico, proprio tale ultima caratteristica ha portato alla scelta di utilizzare lo strumento della licenza straordinaria, al fine di raggiungere un preciso obiettivo: impedire che il condannato sottoposto alla semilibertà, entrando in contatto con persone ed ambienti esterni all’istituto penitenziario e facendovi rientro a fine giornata, possa facilitare l’introduzione e la circolazione del virus, mettendo a rischio la salute degli altri detenuti e di tutte le persone, tra cui agenti di polizia penitenziaria, personale amministrativo, psicologi, esperti ecc., che prestano la loro attività professionale all’interno della struttura detentiva. Andando, tuttavia, a leggere con attenzione il testo della norma del decreto Ristori, emerge ictu oculi una differenza con l’art. 52 ord. pen., potenzialmente foriera di dubbi interpretativi. Non appare, infatti, particolarmente opportuna la scelta di inserire nella rubrica della norma il riferimento a “licenze premio straordinarie”, per poi non indicare espressamente all’interno del testo il riferimento alla licenza concessa “a titolo di premio”, così come avviene nell’art. 52 ord. pen. Non si comprende bene se il carattere di straordinarietà debba solo individuarsi nel fatto che tali licenze possono avere una durata superiore ai quarantacinque giorni all’anno, da estendersi non oltre il 31 dicembre 2020, o se debba anche essere ricondotto al fatto che, trattandosi di una previsione che deve far fronte ad una situazione di grave crisi sanitaria, necessiti di una applicazione immediata e quanto più estesa possibile, per la quale la caratteristica di essere indirizzata a condannati particolarmente meritevoli possa ritenersi superata. Per tale ultima soluzione, nonostante la rubrica della norma, farebbe propendere l’indicazione relativa alla valutazione da parte del magistrato di sorveglianza di gravi motivi ostativi: considerato, infatti, che per i detenuti ammessi al regime di semilibertà la durata della licenza possa essere superiore a quarantacinque giorni all’anno e che tale concessione non debba necessariamente presentare carattere di premialità, è quanto meno richiesta l’insussistenza di gravi motivi ostativi, rimessa alla valutazione discrezionale del magistrato di sorveglianza. Non solo. Se la licenza straordinaria dovesse essere applicata solo a titolo di premio, verrebbe meno il fine per il quale, in questo momento di grave emergenza, si è pensato ad un uso straordinario di tale misura: è chiaro, infatti, che l’esclusione dell’applicazione di questi permessi per i condannati non particolarmente meritevoli, ma comunque già sottoposti al regime di semilibertà, consentirebbe quella continua alternanza tra fuori e dentro il carcere che farebbe aumentare il rischio di contagio e renderebbe inutile l’inserimento dell’art. 28 nell’ambito del titolo dedicato alle Misure in materia di salute e sicurezza e altre disposizioni urgenti. Al di là delle questioni relative alla formulazione della norma, appare comunque realistico ipotizzare che l’utilizzo della licenza straordinaria sia idonea a limitare il contagio tra le persone all’interno degli istituti penitenziari, contribuendo a ridurre le probabilità che il virus possa “invadere” interi istituti, con tutto ciò che ne conseguirebbe in termini di pregiudizio alla sicurezza pubblica, al mantenimento dell’ordine, al diritto alla salute. Non è un caso, infatti, che la norma sia stata inserita, per la seconda volta, all’interno di quelle disposizioni con le quali si sta cercando di gestire questa seconda grave ondata di contagi. Quando una telefonata può allungare il carcere di Lorena Puccetti* cfnews.it, 5 novembre 2020 Il nuovo decreto sicurezza introduce il reato di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti. Il 22 ottobre 2020 è entrato in vigore il decreto-legge n. 130 il quale, nell’ambito di una serie di disposizioni dal contenuto eterogeneo in tema di immigrazione, protezione internazionale, utilizzo distorto del web e altri provvedimenti, apporta alcuni ritocchi al codice penale fra cui la modifica all’art. 391-bis e l’inserimento dell’art. 391-ter. Con riguardo all’art. 391-bis c.p., introdotto nel 2009 allo scopo di reprimere le condotte volte a consentire ai detenuti sottoposti alle restrizioni di cui all’41 bis dell’ordinamento penitenziario di comunicare con altri in violazione delle prescrizioni loro imposte, vengono in primo luogo inasprite le pene. In tal senso, l’art. 8 del decreto sicurezza dispone un aumento sanzionatorio sia per l’ipotesi base sia per quella aggravata, che ricorre quando il reato è commesso da pubblici ufficiali, incaricati di pubblico servizio e soggetti che esercitano la professione forense. Tali condotte sono ora punite rispettivamente con la reclusione da due a sei anni e da tre a sette anni. Inoltre, il predetto art. 8 stabilisce che la pena prevista per la condotta base, e salvo che il fatto costituisca più grave reato, si applica anche al detenuto sottoposto al carcere duro il quale comunica con altri in elusione delle prescrizioni all’uopo imposte. All’esito di tale innesto legislativo, commette un reato il detenuto soggetto alle restrizioni di cui all’art. 41-bis il quale comunica con altri eludendo le prescrizioni che gli sono state imposte. Se simili disposizioni trovano una giustificazione nell’esigenza di recidere il collegamento tra i soggetti sottoposti al carcere duro e gli altri componenti dell’associazione criminale, appare invece opinabile l’art. 9 del decreto in esame. Tale norma aggiunge l’art. 391-ter c.p., che prevede una nuova fattispecie delittuosa intitolata “Accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti”, applicabile in via residuale rispetto all’art. 391-bis c.p. Questa ipotesi delittuosa dispone che è punito da uno a quattro anni chiunque indebitamente procura a un detenuto un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni o comunque consente a costui l’uso indebito dei predetti strumenti o introduce in un istituto penitenziario uno dei predetti strumenti al fine di renderlo disponibile a una persona detenuta. Anche in questo caso, se il reato è commesso da pubblici ufficiali, incaricati di pubblico servizio e soggetti che esercitano la professione forense è prevista una pena aggravata ovvero dai due ai cinque anni di reclusione. Infine, in maniera speculare rispetto all’art. 391-bis, anche l’art. 391-ter prevede l’applicazione della pena base al detenuto comune che indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni. In buona sostanza, ricalcando il previgente art. 391-bis, la nuova norma sanziona espressamente i soggetti che procurano i cellulari ai detenuti comuni mentre, prima di questa novella legislativa, tale condotta poteva essere punibile solo qualora ricorressero i presupposti di altre fattispecie penali come ad esempio, con riguardo agli agenti carcerari, il delitto di corruzione. Inoltre, l’art. 391-ter rende penalmente rilevante l’utilizzo di cellulari da parte dei detenuti, comportamento che in precedenza, costituendo una violazione delle regole di condotta carcerarie per uso di “oggetto non consentito”, dava luogo a una sanzione disciplinare irrogata dall’Amministrazione penitenziaria. A questo proposito va ricordato che nel febbraio 2020 era stato presentato un disegno di legge con la proposta di modifica del regolamento penitenziario volta a consentire ai detenuti comuni di poter telefonare ai familiari una volta al giorno e non più solo una alla settimana. Tale disegno di legge si riprometteva in primo luogo di alleviare la sensazione di abbandono e di solitudine che affligge i detenuti e di favorire il mantenimento dei legami affettivi in vista del futuro reinserimento sociale. Al contempo, si perseguiva uno scopo pratico ovvero quello di diminuire il traffico di cellulari all’interno delle carceri e il conseguente dispendio di energie necessario alla polizia penitenziaria per la ricerca dei cellulari nascosti dai detenuti. Proprio perché, nella maggior parte dei casi, i detenuti si procurano i cellulari per comunicare più spesso con i familiari e non per servirsene a fini delittuosi. In altri termini, consentire ai detenuti di chiamare quotidianamente anche solo per pochi minuti, poteva essere il modo di far venire meno la necessità di nascondere un cellulare in cella. L’ultimo decreto-sicurezza, offuscato da una visione puramente afflittiva della pena, non si è limitato a frustrare le aspettative dei detenuti ma ha scelto addirittura di reprimere penalmente comportamenti dovuti alla naturale esigenza di stare in contatto con le persone care. L’utilizzo del cellulare per salutare la moglie o un figlio espone, d’ora in poi, il detenuto comune al rischio di una nuova incriminazione. Una telefonata allunga la vita, recitava uno spot televisivo, ma in questo caso può allungare il carcere. *Foro di Vicenza L’effetto Covid sulla giustizia di Severino Nappi Corriere del Mezzogiorno, 5 novembre 2020 Ci mancava solo il Covid a complicare ulteriormente la “questione giustizia” in questo Paese. Premesso: la seconda ondata di contagi è stata mal gestita, con un indecoroso minuetto tra Governo centrale e Regioni. Una situazione che rischia di produrre effetti pure sulla sicurezza e l’ordine pubblico. Sono giorni che, da giurista ma anche da consigliere regionale della Campania, ricevo numerose segnalazioni in merito alle decisioni di alcuni magistrati di non disporre gli arresti per gli autori di reati anche di una certa gravità adottate con la motivazione, per me singolare, di evitare un affollamento delle carceri. “No alle misure cautelari perché affollano gli istituti penitenziari e no agli obblighi di firma perché costringono ad andare in giro”: frasi come queste, non solo echeggiano ormai di frequente nelle aule di giustizia, ma in questi termini si è espresso persino il procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Eppure sono indicazioni che, di fatto, costituiscono delle deroghe alle regole, ai precedenti e alla stessa ordinaria “gestione della giustizia” che ciascun magistrato è tenuto a garantire, in nome della legge. Insomma, siccome negli istituti penitenziari vi sarebbe un forte rischio di contagio da Covid per i detenuti, questa sarebbe una buona ragione per evitare di mettere (almeno alcuni) ladri e criminali dietro le sbarre. Non sono d’accordo. In un’area già “calda” sotto il profilo sociale come la Campania, in particolar modo alcuni quartieri di Napoli, questa deroga - improvvisa e non richiesta - non ce la possiamo proprio permettere. Dobbiamo tener conto della nostra realtà dove, alla pervasività delle organizzazioni criminali, si aggiunge un disagio sociale crescente che sfocia spesso nell’illegalità. Non lasciare in libertà soggetti che delinquono abitualmente o vivono in un contesto organico alla malavita è dunque una priorità. E comunque, nel nome di un’astratta attività di prevenzione sanitaria, possono mai lasciarsi indifesi i cittadini onesti, esponendoli a nuovi rischi? Alla magistratura non è richiesto di esercitare questa (ennesima!) funzione di supplenza, rispetto a responsabilità che competono alle Istituzioni di governo, in questo caso d’intesa con le autorità sanitarie competenti. Il delicato tema del bilanciamento tra diritto alla salute individuale e pubblica e gli altri diritti costituzionalmente garantiti è materia di confronto istituzionale, e semmai oggetto di dibattito tra giuristi: non può diventare occasione per scorciatoie che producono soltanto un aggravamento delle condizioni di sicurezza sociale. Non è retorica, nè tantomeno questione politica. È un punto etico per una società complessa come la nostra: non si può derogare ai principi basilari di rispetto della legge perché lo Stato non sa dove mettere chi viene colto a delinquere oppure perché non riesce a contenere l’onda di contagi. Non se lo meritano le forze dell’ordine impegnate tutti i giorni in prima linea tra mille problemi. Non se lo meritano i magistrati che lottano contro la camorra, cercando di scardinarla e di ridurne l’influenza sul territorio. Non se lo meritano i tanti cittadini onesti che non vogliono ritrovarsi per strada potenziali criminali soltanto perché le carceri sono già piene. Troppi hanno la memoria corta in questo Paese. Eppure solo pochi mesi fa, la scarcerazione di circa 500 detenuti macchiatisi di reati di stampo mafioso, adottata in forza di una circolare del Dap assolutamente superficiale, con la “complicità” del grillino ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha già arrecato un’ulteriore offesa all’immagine della nostra Giustizia, scatenando una forte ondata di riprovazione sociale che non ci possiamo permettere. Del resto, il successivo “decretino” varato da questo governo superficiale per rimediare all’errore-orrore, con ogni probabilità cadrà sotto i colpi della Consulta per incostituzionalità. Insomma, regna il caos. Ecco perché mi permetto di chiedere che si ripristini un minimo di ordine. Anche sotto il versante dell’amministrazione della giustizia la situazione emergenziale che stiamo vivendo - a cominciare dalla nostra regione - non si può affrontare con scorciatoie lasciate alla fantasia di interpreti, sia pure in buona fede. Tutti i soggetti coinvolti nella lotta al crimine (spicciolo oppure strutturato) devono sedersi ad un tavolo istituzionale per scegliere le azioni più idonee a fornire le risposte necessarie anche a questo tipo di problematiche. Lo possono e lo devono fare, però, senza arretrare di un solo millimetro rispetto all’affermazione della legalità. Dal ministero 25 milioni per “difendere” i tribunali di Simona Musco Il Dubbio, 5 novembre 2020 Ecco le cifre impegnate da Via Arenula per mettere in sicurezza gli uffici giudiziari. Dai dispositivi di protezione alla sanificazione, passando per assunzioni e digitalizzazione: ecco gli interventi di Bonafede contro il Covid. Venticinque milioni, euro in più, euro in meno, per combattere il coronavirus negli uffici giudiziari. È questa la cifra messa a disposizione dal ministero della Giustizia, che ha stanziato 24,8 milioni per l’acquisto di mascherine, termoscanner, barriere “parafiato”, gel igienizzanti e per interventi di pulizia straordinaria, sanificazione. Ai quali si aggiungono “una decisa spinta sulla digitalizzazione” e assunzioni, sia sul piano amministrativo sia sul piano dell’immissione in ruolo di nuovi magistrati. La spesa è stata in parte finanziata grazie al “fondo” di 31 milioni ottenuto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con il decreto “Rilancio”, somme, dunque, aggiuntive rispetto a quelle già nella disponibilità di via Arenula e destinate agli interventi di prevenzione e al potenziamento della digitalizzazione. Il tutto in attesa di una nuova eventuale stretta legata al nuovo dpcm, in attesa della quale il tribunale di Milano ha già pensato di riorganizzarsi, con una “stretta” alle udienze per prevenire i rischi legati all’alto tasso di contagio registrato in Lombardia, nonché all’alto numero di positivi all’interno del Palazzo di giustizia, rafforzando lo smart working, che stando al dpcm dovrà essere “nella percentuale più elevata possibile”. Il ministero, a partire da maggio, ha autorizzato, per gli uffici che ne hanno fatto richiesta, l’acquisto di termoscanner e termocamere per 478mila euro. Per gli acquisti sotto i 5mila euro gli uffici possono procedere autonomamente, potendo usufruire di un fondo pari a 1,7 milioni di euro assegnato alle Corti di Appello e alle Procure Generali, al quale si sommano ulteriori 250mila euro. Per quanto riguarda la sanificazione dei luoghi, in aggiunta ai contratti già in essere, sono stati autorizzati gli acquisti di disinfettanti chimici e sarà possibile anche disporre pulizie straordinarie fino a 5mila euro in caso di necessità. La spesa complessiva ammonta, in tale campo, a 14,8 milioni di euro, mentre è di sei milioni quella per l’acquisto di materiale igienico- sanitario e dispositivi di protezione individuale. A ciò si aggiungono i due milioni impegnati per l’acquisto di paratie “parafiato” in plexiglass, distanziatori, piantane per gel igienizzante, segnaletica e asciugamani elettrici. In tema di assunzioni, da febbraio ad oggi sono 1.164 le unità di personale amministrativo in più, di cui 874 già in servizio, ai quali si aggiungeranno, a breve, 290 assistenti giudiziari. Sul fronte della magistratura, oltre ai 422 magistrati in più negli uffici di primo e secondo grado, è stato preparato un progetto per la creazione di determinazione di una task force di supporto agli uffici del distretto, con 176 magistrati in più. Altro tema quello della digitalizzazione, “uno dei capitoli fondamentali” per via Arenula, che a partire da settembre ha avviato la distribuzione di 16mila pc portatili per consentire al personale amministrativo degli uffici giudiziari di accedere da remoto ai registri di cancelleria. Sono calati gli omicidi. I femminicidi però no di Valentina Errante Il Messaggero, 5 novembre 2020 “La pandemia in Italia ha portato a “un calo degli omicidi ma il numero delle donne ucciso è rimasto lo stesso”. Ha riferito ieri davanti alla commissione Antimafia, Vittorio Rizzi, vicecapo della polizia e al vertice dell’Osservatorio interforze permanente per il monitoraggio e l’analisi sulla criminalità, costituito lo scorso aprile per elaborare strategie di prevenzione e contrasto delle possibili infiltrazioni nel tessuto economico-finanziario nel periodo dell’emergenza. Nell’analisi, rivolta soprattutto alle strategie per affrontare, in cooperazione con gli altri Paesi, i rischi criminali legati all’emergenza sanitaria, Rizzi ha illustrato i dati, riferendo che quasi tutti sono in diminuzione. Tranne, appunto, i femminicidi. Un fenomeno probabilmente legato alla permanenza forzata in casa, al lockdown e ai divieti di movimento, che hanno fatto esplodere la violenza nelle situazioni più difficili. Un dato che suscita allarme, soprattutto in vista di nuovi divieti e di altre limitazioni agli spostamenti in seguito ai contagi. Al 31 luglio scorso il 70 per cento dei 149 omicidi avvenuti in ambito familiare aveva come vittime donne. Ma sotto osservazione sono anche i reati in crescita negli altri Paesi durante l’emergenza sanitaria, per stabilire se si tratti di un trend che prima o poi interesserà anche l’Italia. In Francia e negli Usa, ad esempio, gli omicidi sono cresciuti. Scendono, anche se di poco, gli episodi di usura, mentre sono in crescita i reati di traffico e combustione illecita di rifiuti, un fenomeno legato alla maggiore permanenza in casa degli italiani durante la pandemia e alla necessità di smaltimento. E aumentano come era prevedibile e come avvenuto anche oltralpe, i reati commessi on line. Tra gli scenari che meritano attenzione ci sono le “dinamiche del dark web”, dove sono state create piattaforme attraverso le quali si organizzano piani criminali. E sono in crescita in Italia, come in tutti i paesi del mondo, i reati commessi on line”. In linea di massima i fenomeni osservati sono analoghi in molte parti del mondo. Tutti gli indici sono in decremento, tranne pochissime fattispecie di reato opposte. L’allarme generale riguarda invece il pericolo del riciclaggio del denaro in attività lecite, un ambito di preoccupazione diffusa è costituito dall’acquisto dei crediti deteriorati, previsto dalla normativa europea, da parte delle mafie. Crediti ceduti dalle banche a 17 centesimi per euro e che possono costituire un’occasione per le organizzazioni criminali “per rilevare in tutta Europa enormi asset patrimoniali di imprenditori che cadono in disgrazia e non sono in grado di pagare”. “Questa non è una minaccia potenziale - precisa Rizzi - ma attuale, concreta e molto sofisticata, perché a quel punto potremmo trovare denaro riciclato nei fondi di investimento. Non ci troveremo più a difenderci da un nemico individuato ma da soggetti che legalmente è intervenuti nell’economia. “C’è il rischio - aggiunge - che questi enormi crediti finiscano nelle mani della criminalità organizzata in modo perfettamente legale”. Rizzi, nel corso dell’audizione, ha auspicato che vi sia una “strettissima cooperazione” in ambito europeo nel contrasto a questo fenomeno. E cita una telefonata intercettata agli atti di un’inchiesta giudiziaria e in cui due ndranghetisti impegnati nel narcotraffico definivano “strani” i loro soci sudamericani in quanto non usavano il bitcoin. L’obiettivo, dice il prefetto, è realizzare una sorta di osservatorio al livello europeo. Un gruppo covid che esamini i fenomeni criminali, perché anche le infiltrazioni possono diventare pandemiche. Il lavoro è già stato avviato. La condivisione diventa importante, spiega Rizzi, sia per anticipare fenomeni che si presentano altrove prima che nel nostro Paese, sia come nella lotta alle mafie, per cooperare. Il primo caso è stato quello del sentimento diffuso contro le istituzioni, che in alcuni paesi, come in Francia, è maturato in anticipo. G8 Genova. Pm vs Equitalia sui risarcimenti dai picchiatori di Valeria Pacelli e Marco Pasciuti Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2020 Equitalia nel mirino per i risarcimenti che dovevano essere versati dai condannati per i pestaggi nella Diaz. “Nessuno paga”. Omissione di atti d’ufficio. È questo il reato per il quale indaga la Procura di Roma nell’ambito di un’inchiesta - finora inedita - che riguarda alcune cartelle esattoriali emesse nei confronti di alcuni degli alti funzionari della Polizia condannati nel processo sui pestaggi e le prove false al G8 di Genova. L’indagine è alle battute iniziali: lo scorso 28 luglio la Guardia di Finanza, su delega del pm titolare del fascicolo, Rosalia Affinito, ha bussato agli uffici di Equitalia Giustizia. Quel giorno le Fiamme gialle hanno richiesto la documentazione relativa alle cartelle esattoriali emesse per i crediti di giustizia nei confronti di alcuni dei superpoliziotti. Solo pochi giorni fa Amnesty International aveva espresso “sconcerto” per le recenti promozioni di due funzionari “condannati in via definitiva” per i fatti del G8. Adesso lo scandalo riguarda i risarcimenti, anche se stavolta i fari sono accesi su Equitalia Giustizia. L’obiettivo del pm è capire se vi siano stati ritardi o altri motivi per cui l’ente riscossore in passato non abbia emesso nuove cartelle esattoriali nei confronti dei condannati di Genova, soprattutto alla luce di una imminente prescrizione (nel 2022) dei crediti processuali. Non ci sono indagati. Per capire la vicenda bisogna tornare al 5 luglio 2012, quando la Cassazione conferma le condanne per 25 persone e stabilisce che i condannati devono ripagare anche le spese legali alle parti civili, i ragazzi massacrati la sera del 21 luglio 2001 nella “macelleria messicana” in cui era stata trasformata a furia di manganellate la scuola Diaz. Gli importi sono stati anticipati, come da legge, dal ministero della Giustizia che poi ha affidato a Equitalia Giustizia il compito di recuperarli. Come raccontato dal Fatto il 26 maggio, le cartelle sono arrivate, ma i destinatari le hanno contestate lamentando tra le altre cose un “errore di quantificazione”: gli importi richiesti dall’ente sono stati calcolati in via solidale, dicono, quando l’articolo 535 del codice di procedura penale (riformulato dalla legge 69 del 2009) stabilisce che la somma deve essere richiesta “pro quota”. Un esempio: se la pretesa era di 300 mila euro e c’erano 10 condannati Equitalia chiedeva l’intera cifra a ciascuno di loro (metodo solidale) quando avrebbe dovuto chiederne 30mila a testa (pro quota). Le cartelle emesse nel 2017 cominciano a tornare indietro nel 2018. “Fino a marzo 2019 c’erano state almeno 41 impugnazioni per un totale di 1.034.902,67 euro di credito vantato dallo Stato - spiegava Francesco Cento, ai tempi capo dell’ufficio legale di Equitalia Giustizia. Finora sono arrivati 25 provvedimenti: un solo ricorso accolto, in 6 casi le cartelle sono state annullate, in 11 sono state sospese e in 8 casi è stata dichiarata cessata materia del contendere perché a pagare era stato il ministero”. Non quello della Giustizia, ma dell’interno, a cui Equitalia ha trasmesso le cartelle in quanto responsabile civile per i danni causati dai suoi funzionari. “In pratica il 70% dei provvedimenti risultano favorevoli ai ricorrenti - aggiunge il legale - e il 30% dichiara concluso il giudizio per avvenuto pagamento del Viminale”. Eppure il principio era parso chiaro fin dal giudizio vinto il 9 ottobre 2018 da uno dei condannati che aveva presentato ricorso. Il giudice Stefania Salmoria aveva stabilito: “Tale assunto - si legge, in riferimento alla quantificazione che doveva essere fatta pro quota e non in via solidale - trova conferma nella nota ministeriale del 14 luglio 2009, emessa in attuazione della richiamata legge 69/2009”. Concetto ribadito in una circolare del ministero del luglio 2015 e in una nota del capo dell’ufficio recupero crediti della Corte d’appello di Genova, inviata all’ente il 16 gennaio 2017. “Sarebbe bastato annullarle e ricalcolarle, perché anche secondo i giudici il credito restava valido ed esigibile”, aggiunge Cento. Che ad aprile è stato licenziato da Equitalia e reintegrato al suo posto il 6 ottobre dal Tribunale di Roma. Ora “gli importi sono stati pagati due volte dai due ministeri e gli unici che non hanno pagato al momento sono i condannati”. Che potrebbero non farlo mai: nel luglio 2022 scatta la prescrizione e per restituire le somme già percepite, ricalcolare e riemettere le cartelle servono almeno 15 mesi. Equitalia, il cui Cda è in attesa di nomina, ha tempo fino a dicembre per avviare il procedimento. La Corte costituzionale rigetta le censure sul decreto scarcerazioni collegate a emergenza Covid Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2020 La Corte costituzionale boccia le censure sul decreto scarcerazioni emanate per l’emergenza Covid. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Consulta comunica il contenuto della decisione e fa sapere che i giudici delle leggi, riuniti oggi in camera di consiglio, hanno esaminato le questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Sassari e dai Magistrati di sorveglianza di Spoleto e di Avellino sul decreto legge n. 29 del 2020 e sulla legge n.70 del 2020 relative alle scarcerazioni, connesse all’attuale situazione sanitaria, di detenuti condannati per reati di particolare gravità, rigettando i motivi sollevati contro le norme. La disciplina censurata impone ai giudici di sorveglianza di verificare periodicamente la perdurante sussistenza delle ragioni che giustificano la detenzione domiciliare per motivi di salute. A tal fine, i giudici sono tenuti ad acquisire una serie di documenti e di pareri, in particolare da parte dell’Amministrazione penitenziaria, della Procura nazionale antimafia e della Procura distrettuale antimafia. Una disciplina che secondo la Corte non è in contrasto con il diritto di difesa del condannato né con l’esigenza di tutela della sua salute né, infine, con il principio di separazione tra potere giudiziario e potere legislativo. Piccola posta di Adriano Sofri Il Foglio Quotidiano, 5 novembre 2020 Ho avuto una vita piena di sponde e di buche, e di persone diverse. Un giorno che ero in galera, verso il 2003, vennero in visita Denis Verdini e Sandro Bondi, che erano parlamentari per Forza Italia. Bondi, uomo credente, le cui devozioni di superficie sono via via mutate turbinosamente ma lasciando illesa quella di fondo, era più riservato e taciturno, travolto dalla cordialità impetuosa di Verdini. Attorno al quale si fece un vasto uditorio di detenuti giovani e anziani, italiani e stranieri, conquistati dal racconto di sue avventure giovanili e dalla schiettezza delle sue battute. In galera non circola denaro e per giunta alcuni di noi, io compreso, erano dentro dal tempo della lira, così chiedemmo a Verdini di mostrarci com’era fatto l’euro. Tirò fuori dal portafoglio una banconota rosa violetto da 500 euro che girò di mano in mano: vedere il primo euro della vita nel taglio più alto, una cerimonia piena di reverenza e quasi di commozione in quel pubblico di diseredati, che del resto comprendeva qualche vero intenditore, ladri, falsari o anche semplici amatori. La simpatia di Verdini incoraggiava la confidenza, sicché chiamammo la nostra suor Cecilia, curatrice angelica dei bisogni materiali e spirituali dei detenuti più disgraziati, e invitammo Verdini a consegnare a lei la banconota favolosa, in ricordo, e lui aderì prontamente. Valga, questa piccola posta, come un saluto di uno che era in galera e fu visitato a un visitatore che è andato in galera a tempo quasi scaduto. E risparmino le coscienze linde di scandalizzarsi e di ammonirmi che i 500 euro erano magari il bottino di qualche ruberia e che rapinare una banca non è niente rispetto a fondare una banca, eccetera. Conosco poco le banche, conosco bene la galera. Campania. Detenzione domiciliare, un privilegio per pochi di Viviana Lanza Il Riformista, 5 novembre 2020 Neanche il nuovo decreto svuota le carceri. A fronte di una popolazione carceraria, in Campania, di 6.475 detenuti sono poco meno di 250 quelli che stanno scontando in cella una condanna inferiore a un anno e mezzo di reclusione e se si escludono i detenuti condannati per reati cosiddetti ostativi, si deduce che la platea di possibili beneficiari delle nuove misure contenute nel pacchetto giustizia del Decreto Ristori si riduce sensibilmente. Insomma, la percentuale di chi potrebbe lasciare la cella nelle prossime settimane è troppo bassa per far pensare a una manovra capace di svuotare le carceri ed evitare che l’emergenza sovraffollamento renda più grave la gestione, già difficile, della pandemia. Non si libereranno quindi, nelle carceri campane, spazi da utilizzare per l’isolamento dei detenuti positivi al Covid. Senza contare che la previsione dell’obbligo dell’utilizzo dei cosiddetti braccialetti elettronici per i detenuti con pene da scontare superiori a sei mesi, in quanto da sempre disponibili in numero ampiamente insufficiente, costituirà un’ulteriore condizione di estrema difficoltà di accesso alla misura e produrrà un significativo allungamento dei tempi per la sua concreta applicazione, tempi del tutto incompatibili con la condizione di emergenza causata dalla pandemia. “Continueranno a esserci problemi, sia in termini di spazi sia in termini di tempi - osserva l’avvocato Sergio Schlitzer, componente della giunta della Camera Penale di Napoli - Queste misure, così come quelle di marzo scorso, non consentiranno di raggiungere l’obiettivo di svuotare le carceri a meno che non si aumenti sensibilmente il limite della pena e si diluiscano i reati ostativi”. Se a marzo, dunque, in concomitanza con il lockdown e la prima ondata della pandemia, c’era stato un calo delle presenze in carcere, “la riduzione è stata conseguenza di provvedimenti adottati dai magistrati di Sorveglianza”, osserva l’avvocato Schlitzer. Di qui la posizione dei penalisti napoletani che denunciano “l’inefficacia dell’intervento normativo” e rivolgono a tutte le forze politiche un appello “affinché in sede di conversione del decreto vengano ampliate e mutate le condizioni di accesso alla misura della detenzione domiciliare”. Intanto, prime manovre di svuotamento delle celle sono in atto a Napoli. La presidente del Tribunale di Sorveglianza, Adriana Pangia, nel corso dell’incontro con i penalisti e con i vertici dell’amministrazione penitenziaria campana, ha comunicato che saranno concesse le licenze necessarie a consentire ai detenuti in regime di semilibertà (sono 370 in Campania) di pernottare nelle proprie abitazioni fino al 30 novembre, con un’eventuale proroga fino al 31 dicembre. In questo modo, le celle normalmente destinate ai detenuti semiliberi negli istituti di Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, Benevento e Salerno verrebbero trasformate in spazi per l’isolamento dei detenuti positivi al Covid. Nel carcere di Poggioreale, il più affollato non solo della Campania ma di tutto il paese, si è arrivati a quota 2.171 detenuti, un numero che rapportato ai poco più di 1.600 da capienza regolamentare non dice molto ma rappresenta un primo passo se paragonato ai 2.200 reclusi che si registravano fino a poche settimane fa. “Sono diminuiti i nuovi giunti - spiega il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello - e proprio due giorni fa c’è stato il trasferimento di 50 detenuti da Poggioreale alle carceri di Arienzo ed Eboli”. Non è molto, ma è qualcosa. L’aumento dei contagi nelle carceri preoccupa sempre di più. E non solo quello. “C’è un altro dato che preoccupa noi garanti - spiega Ciambriello - ed è l’alto numero di persone che non hanno una fissa dimora. Da un dato diffuso dal garante nazionale sono 1.157 i detenuti in tutta Italia che scontano una pena al di sotto di un anno mezzo e non hanno una fissa dimora. In Campania - aggiunge - è il momento di utilizzare le case-alloggio previste per 65 detenuti senza dimora ma è importante che le direzioni delle carceri, le aree educative, cappellani e volontari segnalino i casi altrimenti questi detenuti, che non hanno alcuna protezione sociale, rischiano di rimanere in cella, come detenuti ignoti”. Campania. Spazi per isolare i positivi in carcere, così si evita il dilagare del Covid di Viviana Lanza Il Riformista, 5 novembre 2020 Quindici detenuti positivi nel carcere di Poggioreale, tre nel carcere di Secondigliano e uno in quello di Benevento, più oltre una settantina di agenti della polizia penitenziaria e una quindicina di operatori socio-sanitari risultati positivi al Covid nelle varie strutture penitenziarie della Campania. E i numeri, con l’aumento dei tamponi eseguiti, sono destinati ad aumentare. Nel carcere di Poggioreale sono stati finora eseguiti circa un migliaio di tamponi, quattrocento controlli sono stati fatti nella struttura di Secondigliano. Da ieri, inoltre, è partito uno screening ad ampio raggio in base al quale si prevede di eseguire i tamponi a tutti i detenuti e a tutti i dipendenti del carcere di Poggioreale. Stesso discorso per il penitenziario di Secondigliano. Nei due principali istituti di pena della Campania si prova così a fermare eventuali focolai e a contenere l’ondata della pandemia all’interno delle mura carcerarie, tenuto conto del sovraffollamento e della conseguente carenza di spazi da destinare, all’interno delle carceri stesse, all’isolamento. “Dalle verifiche sanitarie effettuate, il virus ha già varcato le porte del carcere - si legge in un documento firmato dalla giunta della Camera Penale di Napoli e dal direttivo della onlus Carcere Possibile - e, pur essendo la situazione a oggi ancora sotto controllo, è ormai indispensabile agire con la massima celerità affinché gli istituti possano disporre di spazi da destinare all’isolamento sanitario dei casi sospetti e dei detenuti risultati positivi. Spazi allo stato sostanzialmente assenti, a causa delle gravi condizioni di sovraffollamento in cui si trovano in particolare gli istituti di Poggioreale e Secondigliano”. Il tema degli spazi in carcere diventa così la nuova urgenza, assieme alla necessità di garantire la tutela della salute di chi vive e di chi lavora all’interno degli istituti di pena. Avvocati e garante concordano nel riconoscere alle direzioni dei penitenziari e dei reparti sanitari interni alle carceri gli sforzi compiuti per contenere i contagi e gestire al meglio gli effetti della pandemia che infuria sul mondo, ma si rischia di vanificare questi sforzi se di pari passo non si mettono in campo - e qui il compito è della politica - misure per contenere il flusso di presenze negli istituti di pena. Attualmente la situazione sanitaria è sotto controllo, i detenuti risultati positivi al Covid nelle carceri cittadine sono asintomatici, tranne uno che si trova ricoverato nel reparto Covid dell’ospedale Cardarelli. I positivi sono in isolamento e tenuti sotto osservazione. Parallelamente sono stati istituiti periodici tavoli tecnici per fare il punto della situazione. L’attenzione è alta. Il momento è delicato non solo per il mondo fuori ma anche per il mondo del carcere. Pochi giorni fa c’è stato un nuovo incontro tra il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, la giunta della Camera Penale di Napoli e il direttivo dell’associazione Carcere Possibile. Al vertice, che ha seguito di alcuni giorni una precedente riunione il cui tema era sempre legato all’emergenza Covid, hanno partecipato anche il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, il garante dei detenuti della Campania, i direttori dei tre istituti di pena napoletani (Poggioreale, Secondigliano e Pozzuoli), e l’associazione Antigone. Milano. Nelle carceri crescono i contagi tra detenuti e agenti di Dario Paladini redattoresociale.it, 5 novembre 2020 Lettera del Garante Francesco Maisto ai vertici degli uffici giudiziari perché prendano ogni misura per ridurre il sovraffollamento. Ci sono già 365 detenuti in isolamento sanitario e 81 agenti colpiti da covid. “La situazione milanese si è ulteriormente aggravata”. “La situazione milanese si è ulteriormente aggravata. Nelle carceri crescono il sovraffollamento, i contagi tra gli agenti di polizia penitenziaria, il personale sociosanitario, e ci sono già numeri crescenti di casi tra i detenuti”. Francesco Maisto, garante dei detenuti del Comune di Milano, scrive ai vertici degli uffici giudiziari del capoluogo lombardo per lanciare l’allarme sulle condizioni negli istituti penitenziari di San Vittore, Bollate e Opera. “Al 30 ottobre si registrano 365 detenuti in isolamento sanitario e 81 agenti ‘allontanati’ per covid -sottolinea Maisto-. A fronte di 2900 posti nei tre Istituti si registrano 3378 presenze”. Il sovraffollamento rende tutto più difficile e aumenta il rischio di contagio. “Gli spazi minimi nelle carceri, limitano fortemente l’applicazione dei protocolli sanitari sia per l’isolamento sanitario che i casi di contagio - aggiunge il Garante. Le pratiche virtuose attuate a S. Vittore con il primo Reparto nazionale covid, additato come benemerito dall’OMS, già non appare sufficiente. Due realtà numeriche considerevoli sono comunque a Milano (San Vittore e Bollate) che funzionano come hub, medicalmente attrezzati per accogliere anche da Istituti vicini”. Il Garante chiede quindi che siano messe in campo tutte quelle misure che possano ridurre il sovraffollamento e che sono già state sperimentate nella fase 1. “Le misure introdotte col Decreto legge (del 28 ottobre 2020, ndr) potranno consentire solo alcuni effetti deflattivi (ad esempio svuotando le sezioni semiliberi o ammessi all’art. 21), ma non sembrano destinate a mutare in modo sensibile il quadro di sovraffollamento penitenziario. Il contagio, intanto, così come all’esterno, ha un suo ritmo che non è sincronico con le previsioni del decreto legge. Alcune prime ipotesi di emendamenti in sede di conversione del Decreto legge. Stiamo preparando con il Garante nazionale, le rappresentanze del Volontariato al fine di redigere un pacchetto di proposte comuni da portare al Parlamento”. Il tempo stringe e per questo Francesco Maisto chiede che “vengano immediatamente riprese e rafforzate le misure inerenti alla gestione penitenziaria già elaborate nella prima fase della pandemia da Covid19, con particolare riferimento ai detenuti anziani e malati, e a quelli che devono espiare pene di media durata e per reati non gravi”. Milano. Malato terminale, al 41bis e con il Covid. Ma avvisano la moglie soltanto dopo giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 novembre 2020 Da giorni non aveva sue notizie. Come se fosse un desaparecidos l’uomo al 41 bis del carcere milanese di Opera, malato terminale, che solo dopo - e solo per puro caso - si è scoperto essere risultato positivo al Covid-19 e per questo ricoverato d’urgenza in ospedale. Katiuscia, la moglie di Antonio Tomaselli (così si chiama l’uomo al carcere duro), ha attraversato giorni di forte preoccupazione e angoscia nel non sapere che fine avesse fatto il marito. Solo il due novembre ha ricevuto l’informativa della direzione del carcere di Opera, in cui la si informava genericamente che il marito era ricoverato dal 31 ottobre al reparto di medicina protetta dell’Ospedale San Paolo. Il motivo? Nessuno gliel’ha detto in quel momento, né il Dap, né la direzione, né i medici. Silenzio totale. L’angoscia di Katiuscia, d’altronde, è stata più che giustificata visto che a Tomaselli avevano diagnosticato un tumore inoperabile al IV stadio al polmone destro, al polmone sinistro e al surrene, con una speranza di vita di tre anni. Lei, che è anche una infermiera, si dispera, cerca risposte, si informa. Ma nulla, persino gli avvocati si adoperano tramite pec senza ottenere alcuna risposta. Poi è subentrata la paura, anche a seguito dell’articolo con cui Il Dubbio ha dato notizia di almeno due detenuti positivi al Covid. Sì, quelli al 41 bis di Opera, di cui uno ricoverato in ospedale. A quel punto si è fatto ancor più concreto il già forte presentimento che uno di quelli fosse proprio Tomaselli. Ma il silenzio è rimasto tombale, nonostante si tratti di un ricovero effettuato già da qualche giorno e i familiari abbiano il diritto di sapere cosa accade, soprattutto quando la questione riguarda la salute. Non c’è nessuna norma, per ora, che vieti tale diritto ai familiari dei reclusi al 41 bis. Aggiungiamoci anche che Tomaselli è al carcere duro in custodia cautelare e nemmeno imputato per fatti di sangue. Resta il fatto che il Covid 19, dato assodato, può essere letale per chi presenta particolari patologie. Soprattutto polmonari, come Tomaselli. Proprio ieri, Katiuscia ha però ricevuto una lettera del marito - datata 29 ottobre - in cui la informava che il giorno prima era risultato positivo al covid, dopo aver avuto sintomi per una settimana. A quel punto le è crollato il mondo addosso: è proprio Tomaselli l’uomo al 41 bis finito in ospedale per via del covid. Lei che è infermeria e vede casi del genere in prima persona, sa che il ricovero avviene quando i sintomi si fanno più gravi. Ma non solo. Durante la prima ondata, anche per scongiurare questo pericolo, hanno fatto istanza per chiedere gli arresti domiciliari. La Giudice per le indagini preliminari di Catania però l’ha rigettata, anche tenendo conto della reclusione al 41 bis, che teoricamente lo avrebbe protetto dal contagio. Per il Gip, così come tanti altri casi analoghi, non solo Tomaselli è compatibile, ma è anche in un regime carcerario in grado di fronteggiare l’emergenza. Purtroppo, non è stato così. Solo nella tarda serata di ieri è arrivata la comunicazione da parte della direzione, che per la prima volta ha informato la donna che il marito è ricoverato per covid e le sue condizioni si sono aggravate. Rita Bernardini del Partito Radicale - la quale sulle pagine de Il Dubbio si occupò proprio della vicenda di Tomaselli in virtù del fatto che è un malato terminale - ha mandato un’amara lettera di denuncia a tutte le autorità, ministro della giustizia Alfonso Bonafede compreso. “Solo oggi (4 novembre) - scrive Bernardini - la signora riceve la lettera del marito in cui lui la informa della sua positività al Covid. Le poste italiane si sa sono lente, ma mai quanto l’amministrazione dello Stato che, mentre scrivo, non ha ancora fatto sapere ai familiari stretti (e agli avvocati) quali siano le condizioni di salute del loro congiunto. Umanità? Rispetto dei diritti fondamentali? Ditemi voi. Forse non ho letto bene la nostra Costituzione, che dovrebbe essere sacra per ogni cittadino e, ancor di più, per ciascun rappresentante dello Stato”. Torino. Sono in carcere con la madre: positivi anche due bambini di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 novembre 2020 Il Covid-19 della seconda ondata non risparmia nessuno nelle carceri. Dopo i detenuti al 41 bis, ora è la volta dei bambini dietro le sbarre. A darne notizia è Bruno Mellano, il garante delle persone private della libertà della regione Piemonte. Al carcere di Torino, in particolar modo all’Icam (Istituto a Custodia Attenuata) interno, sono risultati positivi al covid due bambini e una mamma. “Appare urgente ed improrogabile la verifica di soluzioni alternative al carcere almeno per le mamme con bambini, nell’attesa di un intervento mirato per la piena applicazione della legge 62/ 2011: realizzazione di una rete di Case Famiglia per mamme in esecuzione penale con figli al seguito”, chiede con forza il garante Mellano. Attualmente, secondo gli ultimi dati del Dap relativi al 30 ottobre, nelle carceri risultano trentuno mamme con ben 33 figli al seguito. Al carcere di Torino ci sono sei bambini, di cui - com’è detto - due risultano positivi al covid. Ancora una volta il coronavirus scopre la fragilità del sistema, in questo caso la questione irrisolta dei bimbi dietro le sbarre. In una situazione del genere, in piena epidemia da coronavirus, è ancora più intollerabile che i bambini siano costretti a vivere con le madri nelle carceri. Per questo bisogna farli uscire al più presto dalle strutture carcerarie. D’altronde, in occasione della prima ondata, c’è stata anche una specifica raccomandazione dell’Organizzazione mondiale della sanità di privilegiare l’uscita dal carcere delle persone vulnerabili e in particolare delle donne con bambini. Ed è proprio durante la prima ondata che si è avuta la dimostrazione che le alternative sono possibili. Prima della pandemia, c’erano 11 bambini e 11 mamme all’interno del carcere femminile di Rebibbia. Con l’esplodere del Covid-19, seguendo le direttive conseguenti all’emergenza, le mamme con figli al di sotto dei 18 mesi sono state trasferite ai domiciliari, una mamma è stata accolta in casa famiglia, altre mamme avevano finito i termini e sono uscite. Per un breve periodo è rimasto in carcere solo un bambino, Edward, perché la mamma ha una lunga pena da scontare. Poi cosa è accaduto? Subito dopo l’apparente fine dell’emergenza, in poco tempo, altre donne con figli sono entrate in carcere. Tutto è tornato come prima, ma i fatti degli scorsi mesi, durante la prima ondata, hanno dimostrato che si potrebbero trovare alternative. Ma ritornando ai bimbi contagiati dietro le sbarre del carcere “Le Vallette” di Torino, e per quanto riguardo la sola regione Piemonte la morte di un detenuto ultrasettantenne positivo al covid recluso nel carcere di Alessandria, il garante regionale Mellano chiede senza mezzi termini di “provvedere quanto prima a rendere possibile l’esecuzione penale esterna per tutti quelli che già ne hanno diritto e per tutti coloro che rientrano nelle fasce deboli a rischio, ovvero anziani, persone con pluripatologie, diabetici, affetti da problemi polmonari o alle vie respiratorie”. Ferrara. I suicidi in carcere e l’importanza delle misure alternative estense.com, 5 novembre 2020 Stando a quanto riportato dai quotidiani, nella notte tra venerdì 30 e sabato 31 ottobre un detenuto della Casa Circondariale di Ferrara avrebbe tentato di togliersi la vita nella cella in cui si trovava da solo. Solo il tempestivo intervento di un Ispettore e due Agenti di Polizia Penitenziaria ha scongiurato il peggio. Si tratta del secondo tentato suicidio nell’arco dell’ultimo mese per il carcere di Ferrara, poiché già il 3 ottobre scorso il personale di Polizia Penitenziaria aveva salvato la vita ad un altro detenuto, sorpreso mentre tentava di impiccarsi in cella. Questi dati, specie se rapportati al contesto della piccola realtà ferrarese, destano molta preoccupazione, poiché testimoniano la presenza, nonostante gli sforzi, di ancora troppe criticità nella gestione efficace di situazioni di pericolo, che richiederebbero il riconoscimento dei casi più ad alto rischio mediante l’implementazione di programmi di prevenzione. Costituisce oramai dato acquisito che la riduzione del numero dei suicidi (e l’ambiente carcerario non fa eccezione), passa attraverso l’anticipazione degli interventi al momento in cui si manifestano i primi segnali di disagio e gli eventi potenzialmente stressanti. Il monitoraggio e l’ascolto costante dei detenuti, mediante la collaborazione sinergica tra le varie figure professionalmente attive nella realtà carceraria, si rivelano utili strumenti per intercettare tempestivamente il malessere ed il disagio connesso all’esperienza detentiva. Si tratta di misure certamente più efficaci dei salvataggi in extremis degli aspiranti suicidi che hanno visto impegnato il personale penitenziario in quest’ultimo periodo, trattandosi di interventi che - oltre a caratterizzarsi per un considerevole rischio di insuccesso, anche legato a fattori accidentali - possono risultare anche lesivi dell’integrità fisica dei soccorritori stessi, che finiscono spesso per subire lesioni (o aggressioni) durante le manovre di aiuto. È chiaro che l’emergenza pandemica in corso e le sue connesse limitazioni alla vita di relazione abbiano inciso in maniera ancora più brutale su chi è confinato tra le mura del carcere, enfatizzando le già note carenze degli istituti di pena e, per altro verso, rendendo ancora più difficoltoso l’approntamento di una rete di monitoraggio e sostegno dei detenuti da parte del personale penitenziario. Ecco perché, ancora una volta, si ribadisce comunque l’importanza delle misure alternative alla detenzione, da sempre preziose alleate nella lotta alle criticità connesse al sistema carcerario: sovraffollamento, carenza di organico, inadeguatezze strutturali e dei servizi. Il Direttivo della Camera Penale Ferrarese L’Osservatorio Carcere della Camera Penale Ferrarese Venezia. Si parla di una decina di positivi al Covid-19 negli uffici di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 5 novembre 2020 Si parla di una decina di positivi al Covid-19 negli uffici della Procura di Venezia e la preoccupazione del personale amministrativo in servizio alla Cittadella della Giustizia di piazzale Roma aumenta di giorno in giorno. Ieri il personale ha deciso di scrivere al presidente Salvatore Laganà per chiedere maggiori misure di sicurezza, in particolare per quanto riguarda il lavoro da svolgersi in udienza, considerato che tutte le aule del nuovo Palazzo di giustizia (salvo una) sono prive di finestre e, di conseguenza, non vi è la possibilità di garantire un adeguato ricambio d’aria nel corso delle molte ore nelle quali si svolgono processi, uno dietro l’altro. Il presidente del Tribunale è però sceso in campo con un messaggio tranquillizzante: “Nella sede di piazzale Roma del Tribunale ad oggi non mi risultano casi di magistrati o personale di cancelleria risultati positivi al virus - dichiara Laganà - L’unico si è verificato una decina di giorni fa nella sede di Rialto, sono state adottate le misure necessarie, ed è stata fornita la massima informazione a tutti. Ci sono altri dipendenti in malattia, ma il Covid non c’entra”. I casi di coronavirus che preoccupano il personale si sono verificati tra i dipendenti amministrativi della Procura, in particolare quelli in servizio al Registro generale (l’ufficio che ha più contatti con il pubblico), ma vi è anche un magistrato. Nessuno di loro, fortunatamente, versa in condizioni preoccupanti. Alcuni sono asintomatici. I cancellieri sono preoccupati: lamentano una scarsa informazione e premono affinché venga attuata la disposizione che prevede la possibilità di collocare in smart working metà del personale, in modo da poter lavorare da casa e ridurre il rischio di contagio. Ma le attività lavorative possibili dalla propria abitazione sono poche e il rischio è quello di paralizzare gli uffici giudiziari. Una paralisi che andrebbe ad assommarsi al blocco verificatosi la scorsa primavera, durante il lockdown, che ha lasciato un pesante arretrato da smaltire, con effetti devastanti per la giustizia veneziana. In particolare per quella penale che si svolge necessariamente in presenza. Per il momento il ministero della Giustizia non ha dato disposizioni più restrittive e, di conseguenza, le udienze proseguono, anche con il nuovo Dpcm che entra in vigore oggi. Nel settore civile, che da tempo ha attivato il processo telematico, il presidente del Tribunale ha raccomandato il ricorso a udienze a distanza in tutti i casi possibili. Ma ciò non si può fare nel penale (dove serve i consenso delle parti) e così, per cercare di ridurre l’affollamento, Laganà ha disposto che le udienze vengano scaglionate per fasce orarie e i processi svolti a porte chiuse. “Per i processi con molti imputati stiamo pensando di utilizzare spazi più ampi, anche al di fuori del palazzo di Giustizia, come auditorium o sale congressi: stiamo cercando le soluzioni più adatte alle esigenze - anticipa il presidente del Tribunale - Abbiamo già installato 110 barriere in plexiglass per garantire il distanziamento e ne aspettiamo ulteriori 50 per completare il lavoro”. Crotone. Urgono mascherine e igienizzanti per i detenuti, nuovo appello del Garante n24tv.it, 5 novembre 2020 “Alla luce dell’evolversi della situazione epidemiologica e delle misure anti-Covid, richiamate nel nuovo Dpcm del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, torna a farsi sentire la necessità per i detenuti della Casa circondariale di Crotone dell’invio di strumenti di protezione individuale: mascherine e gel igienizzante”. A renderlo noto è il Garante comunale detenuti Crotone, Federico Ferraro, che lancia nuovamente un appello “alle Istituzioni tutte, alla cittadinanza, alle realtà economiche locali ed alle associazioni di settore, operative sul nostro territorio, a che si possa far fronte a questa nuova necessità da parte della popolazione carceraria di Crotone”. In primavera l’appello dei detenuti, tramite l’Ufficio del Garante comunale aveva avuto già una prima risposta concreta grazie ad un gruppo di otto donne crotonesi che avevano donato un quantitativo importante di mascherine individuali. Padova. Contrasto al degrado, primo “decreto Willy” per un pusher straniero di Andrea Pistore Corriere del Veneto, 5 novembre 2020 Per la prima volta a Padova è stato applicato il “decreto Willy” per contrastare il degrado urbano, le risse e lo spaccio, che ha preso spunto dal noto omicidio di Colleferro. Il questore Isabella Fusiello ha “daspato” un tunisino di 18 anni dopo il suo arresto del 2 novembre in Galleria San Carlo. Il giovane, noto pusher, avrà il divieto di accesso alle aree esterne e interne del centro commerciale e alle vie adiacenti oltre al parcheggio della Galleria per due anni. Se non dovesse rispettare le indicazioni rischia il carcere fino a 24 mesi e una multa fino a 20mila euro visto l’inasprimento delle pene del nuovo decreto in vigore da pochi giorni. Varese. “Tecniche di manutenzione della meccanica ciclistica”: i detenuti studiano le due ruote di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 5 novembre 2020 Da una collaborazione fra la Casa circondariale di Varese e alcuni partner è nato il corso “Tecniche di manutenzione della meccanica ciclistica”. L’iniziativa, che ha specifici scopi trattamentali, vede coinvolti 4 detenuti, i quali acquisiranno una competenza spendibile anche al di fuori delle mura del carcere. L’obiettivo finale è quello, nel prossimo futuro, di ampliare l’esperienza, sino a creare un vero e proprio laboratorio di riparazione di biciclette che sia rivolto anche alla comunità esterna. “Il progetto - sostiene la dottoressa Carla Santandrea, direttrice dell’istituto di pena - parte da una idea legata a uno sport molto presente sul nostro territorio: il ciclismo. Da queste parti ci sono numerose piste percorribili in bicicletta e tanti campioni. Abbiamo, infatti, preso contatti anche con atleti professionisti, che hanno risposto tutti con entusiasmo. Inoltre abbiamo voluto, preliminarmente, confrontarci con le associazioni sul territorio e in particolare con quelle che si occupano delle competizioni ciclistiche. Le buone idee nascono sempre dalla condivisione”. La dirigente delinea gli scopi dell’iniziativa: “Vogliamo dare ai detenuti, attraverso un corso di formazione, la possibilità di acquisire competenze professionali per la riparazione delle biciclette. Sono in programma, in tal senso, una serie di incontri settimanali che permetteranno ai partecipanti di conoscere nel dettaglio la materia”. “Abbiamo ricavato - prosegue Santandrea - lo spazio per il laboratorio utilizzando e risistemando un vecchio deposito. Verranno portate all’interno dell’istituto alcune biciclette da aggiustare, dando anche un taglio pratico alle conoscenze teoriche ottenute. L’obiettivo finale è creare uno spazio in cui si riparino e si mettano a punto anche biciclette da competizione”. Questa novità “è stata ben accolta - conclude la direttrice - anche dal personale di Polizia Penitenziaria giacché in molti praticano il ciclismo a livello amatoriale”. Velletri (Rm). I detenuti diventano vignaioli, prodotto un buon vino rosso al carcere Il Messaggero A Velletri i detenuti diventano vignaioli. Il “Rosso di Lazzaria”, è un vino rosso prodotto con le uve della grande tenuta agricola con vigna che si trova all’interno della struttura penitenziaria e infatti prende il nome dalla zona dove si trova la Casa Circondariale. Il vino è stato presentato nella cantina interna al carcere alla presenza del vescovo di Velletri, monsignor Vincenzo Apicella, del vice garante dei detenuti Sandro Compagnoni, dell’enologo che ha curato la produzione Sergio De Angelis e di numerosi altri ospiti ed esperti del settore. “È stata una battaglia vinta, ha detto la direttrice del penitenziario Donata Iannantuono, abbiamo rimesso in piedi la cantina, impegnato l’agronomo della struttura Marco De Biase, alcuni agenti di polizia penitenziaria e diversi detenuti che si sono offerti volontari. Alla fine è venuto fuori un prodotto eccellente, che va ad aggiungersi al pane di Lariano, prodotto nella Casa Circondariale di Rebibbia, con cui abbiamo stretto un’ottima collaborazione nel produrre i prodotti tipici locali, come anche l’olio d’oliva, che viene sempre prodotto qui da noi grazie ai nostri uliveti e alla collaborazione dei detenuti”. Firenze. Murale in carcere, il via libera per i detenuti gonews.it, 5 novembre 2020 La street art entra in carcere. L’assessorato alle politiche giovanili sosterrà la realizzazione di un grande murale alla casa circondariale Mario Gozzini. Il via libera con l’approvazione, ieri in giunta, della delibera presentata dall’assessore Cosimo Guccione. Il progetto della cooperativa Cat, cofinanziato dalla Fondazione CR Firenze e dal Comune e intitolato ‘La scritta che buca’, vedrà protagonisti l’artista Nico Lopez Bruchi e i detenuti del Gozzini che dipingeranno non solo un murale sui 100 metri della facciata principale esterna ma anche gli spazi interni che ospitano la didattica. “L’arte non ha barriere - ha sottolineato l’assessore Guccione - e questo progetto porta la bellezza in un luogo che ne è carente. I ragazzi detenuti, attraverso il loro lavoro, realizzeranno qualcosa che possono sentire proprio in un luogo di isolamento e separazione”. “Il carcere è parte integrante del quartiere e della città - ha rilevato il presidente del Quartiere 4 Mirko Dormentoni - questo progetto è anche frutto del percorso partecipativo “Incontri nel Giardino”, che durante lo scorso anno ha coinvolto detenuti e cittadini nell’immaginare una Sollicciano diversa e più accogliente per tutti. Il murale che sarà realizzato, anch’esso frutto del coinvolgimento di chi necessariamente abita la casa circondariale, sarà la rappresentazione plastica di questo, un ponte simbolico tra il carcere e la comunità locale”. “Con questo progetto l’arte - afferma Gabriele Gori, Direttore Generale di Fondazione CR Firenze - entra in un luogo di chiusura e isolamento come quello del carcere. La Fondazione CR Firenze crede fortemente nel potere che la produzione artistica ha di generare bene e benessere per la comunità, come per altro confermato da numerosi studi scientifici. Il nostro scopo è quello di generare un vero e proprio welfare della cultura. In questo caso saranno protagonisti proprio i detenuti che avranno un’opportunità ed esperienza importante di condivisione”. Al Gozzini i lavori cominceranno alla fine del mese di novembre. La delibera approvata ieri prevede anche la realizzazione di un murale sul chiosco de ‘Le Trippaie’, in piazza Dalmazia intitolato ‘Rifredi: La Fabbrica dei Sogni’. Anche in questo caso si tratta di un progetto partecipato dell’associazione Il Paracadute di Icaro in collaborazione con Impact Hub e Cortona on The Move, realizzato con il sostegno della Fondazione CR Firenze, che vedrà coinvolti l’artista Rame 13 e la comunità di Rifredi. L’obiettivo è dare origine ad un racconto collettivo sul tema del sogno, inteso come desiderio e aspirazione. “Vorrei ringraziare la proprietaria del chiosco di piazza Dalmazia per avere accolto un progetto della città - ha dichiarato l’assessore - cultura, arte e creatività sono gli strumenti con i quali la comunità di Rifredi potrà riscoprire un suo protagonismo comune per la rigenerazione urbana degli spazi cittadini”. “Prosegue il lavoro nel Quartiere 5 per dare ospitalità a questa forma di espressione d’arte - spiega il presidente del Quartiere 5 Cristiano Balli - con il murales in piazza Dalmazia, grazie alla volontà anche dei negozi di vicinato, si implementano i luoghi per questa forma di arte”. In piazza Dalmazia i lavori per la realizzazione del murale partiranno nei prossimi giorni. Gli artisti coinvolti nei due progetti, Nico Lopez Bruchi e Rame 13, costituiscono il collettivo Elektro Domestik Force che ha realizzato opere di arte sociale non solo a Firenze ma nel resto della Toscana. “Nessuna causa è persa”. Cathy La Torre, l’avvocata che immagina nuovi diritti Donna Moderna, 5 novembre 2020 I diritti civili e sociali nel nostro paese sono costantemente sotto attacco, mentre le leggi che cercano di includere e integrare vengono messe in discussione, procrastinate. Intanto, quasi ogni giorno le cronache raccontano di violenze e aggressioni nei confronti di chi incarna una diversità. Ma dietro ogni ingiustizia si celano sempre un volto e una storia. Cathy La Torre dà voce a queste storie, sottraendole al silenzio e all’indifferenza. E ci racconta di Michele, nato Michela, e del suo dolore di sentirsi lacerato. “Avvocato si nasce”, scrivi. Cosa ha dentro chi nasce avvocato? “L’avvocatura è una tensione interna verso la ricerca della giustizia, è la consapevolezza della sua funzione sociale. Sono cresciuta nella Sicilia degli anni 80 e 90, dove ho visto morire ammazzato chi si ribellava al pizzo e ho visto amici e parenti finire sotto scorta. Quella Sicilia mi ha insegnato che ci si può ribellare, che ci sono persone che lottano”. La tua più grande vittoria come avvocata? “Quando una persona mi dice che, grazie a una battaglia vinta, è cambiata la sua vita, ha avuto un diritto che prima le era negato. Questa è la mia più grande vittoria: il cambiamento concreto di una esistenza, nella materialità e immaterialità”. Accompagnare le persone lungo un percorso di giustizia può significare anche trasgredire le regole? “Amo i diritti e un po’ meno le regole. Ma so distinguere quando bisogna rispettare una regola per il bene comune e quando bisogna battersi perché quella regola sia cambiata. E, nel corso della battaglia per cambiarla, può essere necessario infrangerla. Quando Luca Coscioni accompagna una persona che vuole decidere il suo destino sta infrangendo una regola, ma io sono con lui, lo farei mille volte”. Ma davvero cambiare le leggi è compito di un avvocato? “Noi non cambiamo la legge, siamo solo uno strumento. Chi cambia la legge sono le persone che decidono con il loro corpo e la loro vita di prestarsi a una battaglia, chi decide di essere una causa, non solo per sé ma anche per gli altri. Senza di loro non esisterebbe il cambiamento. Adesso mi sto occupando dell’accesso all’università di una persona con autismo ad alto funzionamento: queste sono le cause pilota. Qualcuno rompe anche per gli altri”. Oggi sarai sommersa dalle cause da difendere: come le scegli? “Sono le cause che scelgono gli avvocati e non viceversa. Le persone sanno che possono rivolgersi a noi quando tante porte sono state chiuse loro in faccia, quando in troppi hanno detto che... non c’è un precedente, non c’è giurisprudenza. Noi abbiamo il dovere di batterci anche per diritti che non esistono. Io nella mia mente immagino diritti che non sono ancora stati codificati: il diritto al benessere, alla felicità, al sorriso, a respirare buona aria, a non essere soli”. Ci sono nuovi diritti che stanno emergendo adesso, in questi mesi di pandemia? “Il diritto a una corretta informazione, per esempio. Non entro nel merito del perché si stabiliscano continuamente regole nuove, ma è fondamentale che esse si capiscano. Io passo ore a rispondere alle persone che vanno in confusione”. “Le identità sono gabbie quando si spogliano del loro senso per diventare etichette. Quando invece noi viviamo la nostra identità in maniera naturale e non schiacciata da uno stereotipo, allora essa non è una gabbia ma un’affermazione di noi stessi. Sono cresciuta in un paese dove mi chiamavano “il maschiaccio” poiché ingabbiavano il mio modo di essere in uno schema binario. Mi sono dovuta riappropriare della femminilità e del fatto che la mia identità fosse riconosciuta in quanto fluida. Ecco perché lotto sia perché l’identità non diventi una gabbia sia perché ciascuno possa vivere liberamente la propria, senza discriminazioni”. A tal fine, è necessaria la codificazione di ogni singola variabile di identità di genere? Non varrebbe la pena di lottare affinché il genere non compaia più sulla carta di identità? “Ci sono Paesi, come la Svezia, in cui è stata abolita la divisione tra maschile e femminile. Ma la politica, in Italia, non è pronta. Possediamo dal 1982 una legge sul cambio di sesso che è tra le più evolute d’Europa. Ma fu approvata dal Parlamento a notte fonda, per evitare lo scandalo della materia. I cambiamenti possono avvenire solo a piccoli passi. Oggi per esempio ci battiamo perché non esistano 2 file elettorali, una per gli uomini, una per le donne. Sai quanti trans non vanno a votare per questo motivo?”. Pochi giorni fa il Parlamento ha approvato i primi 5 articoli di una legge contro l’omotransfobia, la misoginia e le discriminazioni. Cosa cambierà nel tuo lavoro di avvocata? “Lo faciliterà moltissimo. Un giudice, contro il colpevole di un pestaggio nei confronti di un gay, potrà emettere una sentenza ben più pesante che per semplici lesioni. Detto ciò, questa legge nasce antica. Oggi ne servirebbe una contro un sacco di illeciti che avvengono sulla rete: il bodyshaming, il bullismo. Mi sarebbe piaciuta una legge trasversale che punisse con più fermezza tutti i reati spinti dal fatto che si vuole mortificare qualcuno per una propria caratteristica personale, fossero anche i capelli rossi o le lentiggini”. Sei atea, eppure la domenica, a Bologna, può capitare di incontrarti a messa... “Troppo spesso la Chiesa e il mondo Lgbtq+ si sono misurati a partire da un pregiudizio reciproco. Io stessa ero immersa in quel pregiudizio, ritenevo che chiunque appartenesse al clero fosse un nemico, fino al giorno in cui ho incontrato l’arcivescovo Matteo Maria Zuppi, che oggi è il mio consigliere spirituale. Siamo vittime del pregiudizio finché ci neghiamo gli incontri che possono liberarcene. Ho scoperto che la Chiesa è piena di persone che si battono per migliorarla in nome di principi condivisibili”. usare i social per esprimerci sulle battaglie che si possono fare, ma al tempo stesso non sentirci esonerati da ogni altra forma di impegno. Io faccio ancora volontariato, aiuto le persone anziane con problemi di deambulazione… Questi gesti quotidiani concreti ci rendono persone radicate nella realtà. Alda Merini diceva: “Vivi come le cose che dici”. Omofobia, sì della Camera al ddl contro violenza e discriminazioni di Giacomo Puletti Il Dubbio, 5 novembre 2020 Proteste dell’opposizione, i parlamentari di Fratelli d’Italia si imbavagliano, Il testo ora passa all’esame del Senato, ma intanto la maggioranza incassa a Montecitorio una prima vittoria dopo un iter tormentato. La Camera ha approvato con 265 sì, 193 no e un astenuto la proposta di legge “Zan” - dal relatore Alessandro Zan, del Partito democratico - contro le violenze fisiche e verbali legate all’omotransfobia, alla misoginia e alla disabilità. La legge passerà ora all’esame del Senato ma il voto favorevole di Montecitorio è una prima vittoria per la maggioranza, dopo le polemiche con l’opposizione che nelle scorse settimane hanno parlato di “legge bavaglio”. Zan ha definito la decisione della Camera come “un grande passo avanti contro discriminazioni, odio e violenze”, mentre il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, auspica l’approvazione in breve tempo anche al Senato, “per un’Italia più umana e civile”. Il ddl modifica alcuni punti della legge “Mancino” che puniva la discriminazione razziale, etnica e religiosa. Cambia così l’articolo 604 bis del codice penale, aggiungendo tra i reati di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, punibili con la detenzione, anche gli atti di violenza o incitamento alla violenza e alla discriminazione “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. Ma la reazione dell’opposizione è stata veemente, il centrodestra ha parlato di “legge liberticida” ed Edmondo Cirielli, deputato di Fratelli d’Italia, ha detto che sarà la prima legge che verrà abrogata una volta che la coalizione formata da Lega, Fdi e Forza Italia andrà al governo. I deputati leghisti hanno gridato “libertà” al momento dell’approvazione mentre quelli di FdI e i forzisti hanno indossato un bavaglio. C’è stato spazio anche per il voto contrario rispetto al proprio gruppo da parte di alcuni deputati azzurri. Giusi Bartolozzi, Renata Polverini, Stefania Prestigiacomo, Elio Vito e Matteo Perego, di Forza Italia, hanno votato a favore della legge, scostandosi dall’indicazione di partito. Un punto di scontro tra maggioranza e opposizione è l’istituzione della “Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”, introdotta dalla legge con particolare riferimento a iniziative da portare avanti nelle scuole primarie e secondarie. Su questo, il centrodestra teme la propaganda cosiddetta “gender” sui più piccoli, un tema sul quale soprattutto Lega e Fratelli D’Italia stanno conducendo un’aspra battaglia. Un altro punto di accesa polemica durante tutta la discussione generale, iniziata il 3 agosto alla Camera, è stato il pericolo che la legge imponesse dei limiti alla libertà d’espressione, eventualità richiamata a gran voce da tutto il centrodestra. E così la commissione Affari Costituzionali ha chiesto la riscrittura dell’articolo 3, che ora prevede la punibilità solo in caso di “concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. La libertà di opinione e di espressione viene dunque tutelata, purché non istighi al compimento dell’atto discriminatorio. Negli scorsi mesi, oltre all’opposizione politica era arrivato anche il parere contrario della Conferenza episcopale italiana, la quale ritiene che una legge contro l’omofobia “non serva”. Secondo la Cei “esistono già gli strumenti per reprimere ogni comportamento violento o persecutorio” e il ddl potrebbe dar adito a “derive liberticide”. La palla passa ora a palazzo Madama, dove i numeri della maggioranza sono risicati. Ventisette imbarcazioni di migranti arrivate nelle ultime 48 ore di Fabio Albanese La Stampa, 5 novembre 2020 Il mare davanti a Lampedusa da alcuni giorni è tornato a riempirsi di barche di migranti, dalla Libia o dalla Tunisia. Nell’hotspot dell’isola si è arrivati ad ospitare anche 1350 persone anche se poi una parte, completati i controlli anti-Covid 19, sono stati trasferiti su due delle navi quarantena che il governo ha messo in mare già dalla scorsa estate. Altre decine di partenze di disperati sono segnalate dalla Libia ma in questi casi i migranti sono stati riportati indietro dalla Guardia costiera libica e da quella tunisina. Ieri si è pure sfiorata la tragedia quando un gommone sul quale c’era un centinaio di persone, tra loro anche donne e bambini, ha urtato uno scoglio nel tentativo di avvicinarsi a Cala Pisana, a Lampedusa. Un tubolare si è squarciato e l’imbarcazine ha rischiato di affondare rapidamente. L’incidente è stato notato dai militari della Guardia di finanza che hanno fatto subito intervenire una motovedetta anche se per la maggior parte il soccorso è avvenuto da terra, con finanzieri e soccorritori che si sono sporti dalla banchina per tirare fuori dall’acqua i naufraghi. “Durante il salvataggio - ha poi fatto sapere la Guardia di finanza - uno dei militari è caduto sbattendo su una bitta metallica e un collega ha evitato che cadesse in mare. Entrambi i militari infortunati sono stati medicati in ospedale”. Nella notte, poi, altre 114 persone sono arrivate con tre diverse imbarcazioni. Tutti sono stati portati nell’hotspot di contrada Imbriacola per i controlli mentre stamattina un gruppo di 77 ha lasciato la struttura per essere imbarcato sulla Gnv Allegra, una delle navi quarantena dove entro oggi si calcola potranno salire 500 persone. Tra ieri e lunedì a Lampedusa, e in parte anche a Linosa, erano arrivate 27 imbarcazioni, “complice” il tempo buono e il mare calmo. Non solo barchini con poche persone a bordo ma anche barche e gommoni più grandi con decine di migranti, che hanno rapidamente saturato le strutture di accoglienza dell’isola. Dall’altro lato del Mediterraneo centrale, la Guardia costiera libica ha riportato indietro circa 575 migranti nell’ultima settimana, come reso noto dall’Oim, l’organizzazione delle Nazioni unite per i migranti; altri 31, sempre provenienti dalla Libia, li ha recuperati ieri la Guardia costiera tunisina e li ha trasferiti a Zarzis. Anche Alarm Phone, il “centralino dei migranti”, segnala la presenza di barche nel Mediterraneo centrale, solo ieri 5 con 360 persone a bordo. Partenze vengono segnalate anche dall’Algeria, per la rotta del Mediterraneo occidentale che porta verso la Sardegna: da domenica a ieri ne sono arrivati 135, ora nel centro di accoglienza di Monastir. Anche la rotta del Mediterraneo orientale è attiva: nella notte scorsa un veliero con 39 persone, iracheni e iraniani ma anche due russi (forse gli scafisti) è arrivato a Marzamemi, nei pressi di Porto Paolo, parte sud orientale della provincia di Siracusa. Migranti soccorsi e ora la prefettura di Siracusa sta cercando la struttura in cui ospitarli. Migranti. “Nessun reato, hanno salvato vite”. Non luogo a procedere per Open Arms di Simona Musco Il Dubbio, 5 novembre 2020 La decisione del Gup di Ragusa a due anni dallo sbarco a Pozzallo. Non luogo a procedere per Marc Reig Creus e Ana Isabel Montes Mier, rispettivamente comandante e capo missione della Open Arms, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violenza privata. È quanto ha deciso il tribunale di Ragusa nell’udienza preliminare che si è svolta ieri, al termine della quale il giudice ha stabilito che il fatto non sussiste per il reato di violenza privata e che non punibile per stato di necessità per il reato di favoreggiamento. Insomma, impossibile processare l’Ong per aver messo in salvo persone la cui vita era a rischio. “Ancora una volta - ha dichiarato Open Arms attraverso una nota - è stato dimostrato che il nostro agire è sempre stato dettato dal rispetto delle Convenzioni internazionali e dal diritto del mare, quello che ci muove è la difesa dei diritti umani e della vita, principi fondativi delle nostre Costituzioni democratiche”. I fatti finiti al centro dell’indagine risalgono al 15 marzo 2018, quando il rimorchiatore della Ong soccorse al largo della Libia 218 persone, fatte sbarcare a Pozzallo dopo l’evacuazione urgente di una donna e di un neonato a Malta. Secondo l’accusa, Open Arms avrebbe impedito alla guardia costiera libica di terminare il soccorso, dopo che la stessa aveva assunto il coordinamento dell’operazione Sar. Coordinamento che l’Ong rifiutò, in virtù dell’impossibilità di riconoscere la Libia come porto sicuro, così come confermato dalla comunità internazionale. Open Arms, dunque, per la procura aveva commesso reato per il “rifiuto di consegnare i profughi salvati a una motovedetta libica” e perché, “nonostante la vicinanza con l’isola di Malta, la nave proseguì la navigazione verso le coste italiane, come era sua prima intenzione”. Dopo lo sbarco a Pozzallo, la Procura distrettuale di Catania guidata da Carmelo Zuccaro aveva aperto un’inchiesta per violenza privata e associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. In quell’occasione la procura dispose anche il sequestro della nave perché, “l’obiettivo primario era salvare migranti e portarli in Italia, senza rispettare le norme, anzi violandole scientemente”. Per il gip non c’erano però elementi per ritenere contestabile il reato associativo, evidenziando però che “non poteva essere consentito alle Ong di creare autonomi corridoi umanitari al di fuori del controllo statuale e internazionale, forieri di situazioni critiche all’interno dei singoli paesi sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza”. Da qui l’ipotesi di accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di violenza privata e la trasmissione del fascicolo, per competenza, alla Procura di Ragusa, che aveva chiesto il loro rinvio a giudizio. Ma per il giudice Creus e Mier non sono colpevoli: hanno “solo” salvato delle vite. “In Ucraina tempesta mediatica. Ma la verità su Andy emergerà” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 5 novembre 2020 Alla fine, chi ha ucciso Andy Rocchelli? Mentre Vitaly Markiv se ne va dall’Italia abbracciato ai suoi cari e vola a Kiev in alta uniforme e viene ricevuto come un eroe nazionale al Palazzo del presidente, in una casa del Pavese i genitori di Andy sono ancora increduli. E scrollano sul pc i commenti all’assoluzione dell’unico imputato. “Viva la giustizia giusta”. (Igor Boni, presidente dei Radicali italiani). “La richiesta di verità e giustizia non sarà mai archiviata” (Federazione nazionale della stampa). “I miei complimenti al sistema giudiziario italiano” (Arsen Avakov, ministro dell’Interno ucraino). “Mi dispiace per la madre di Rocchelli, ma sono contenta per mio figlio” (Oksana Maksymcmuk, la mamma di Vitaly). Markiv era sulle colline di Sloviansk, quel 24 maggio 2014, e probabilmente fu la sua unità ucraina a tirare i trenta colpi di mortaio sul fotoreporter pavese e sull’interprete Andrej Mironov. Ma testimoni e intercettazioni non bastavano, hanno deciso i giudici di secondo grado, e nessuno ha potuto dimostrare che fu davvero il sergente della Guardia nazionale ad ammazzare due giornalisti che volevano solo raccontare la guerra del Donbass. “Leggeremo le motivazioni e vedremo il da farsi”, dice la professoressa Elisa, ordinario di Storia contemporanea, costretta dalla vita a occuparsi di vicende prima lontane e ora vicinissime: “Non possiamo guardare a queste morti - disse un giorno, presentando le ultime foto del suo Andy - come a effetti collaterali e normali dei conflitti. Gli antichi dicevano de re nostra agitur, si tratta di noi”. Signora Rocchelli, che cosa l’amareggia di più in questa sentenza? (Silenzio) Appena uscito dal carcere, martedì sera, il soldato Markiv ha dichiarato che la giustizia italiana gli ha tolto tre anni di vita, prima che si decidesse ad assolverlo... (Silenzio) Non pensa che ci siano state lacune, nell’inchiesta italiana, sull’uccisione di suo figlio? Alla fine d’un dolore infinito e d’un lungo ripensamento, Elisa Signori parla con gentilezza. Abituata com’è, da questi sei anni di silenzi sempre composti: “Guardi, ci sono domande a cui mio marito Rino e io evitiamo di rispondere. Credo che capirà il perché”. Ma questa sentenza, cancellando le molte certezze dell’accusa e la condanna a 24 anni inflitta in primo grado, dice che non fu il sergente ucraino a commettere il reato... “Sono convinta che la ricostruzione della dinamica fattuale, compiuta dagli inquirenti italiani, sia stata corretta. Questa sentenza d’appello ha solamente scagionato un condannato in primo grado. Ma non può certo smentire le prove e le testimonianze raccolte in sei anni d’eccellente lavoro investigativo”. Ma perché questo processo ha avuto un’attenzione politica, e mediatica, relativamente bassa? Se si pensa a che cosa fu il caso Ilaria Alpi... “Voci importanti del migliore giornalismo hanno seguito con impegno la vicenda. Il presidente della Camera, Fico, ci ha dato la sua solidarietà. La rissa sui social, invece, l’abbiamo giustamente evitata. Quanto al governo italiano, in uno Stato di diritto la sepaSloviansk razione dei poteri e l’indipendenza della magistratura non sono optional”. Il ministro dell’Interno di Kiev ha presenziato alle udienze. E laggiù il processo è stato molto seguito. L’Ucraina ha collaborato all’accertamento dei fatti? “Il loro governo, del tutto disinteressato a chiarire la dinamica dell’uccisione, ha sempre eluso le domande di collaborazione degli inquirenti italiani. L’interesse per l’uccisione di nostro figlio s’è risvegliato solo con l’arresto del sergente della Guardia nazionale. Quanto al ministro Avakov, che dirigeva proprio a e proprio a inizio maggio 2014 le operazioni cosiddette “Ato”, sigla che sta per antiterrorismo, beh, lui è un referente diretto della Guardia. E il suo impegno è stato davvero rilevante, nell’alimentare in Ucraina e altrove una vera tempesta mediatica intorno a questa vicenda giudiziaria”. A un certo punto, è diventato un processo politico? “Il processo esaminava un reato, l’uccisione di giornalisti civili inermi. E dunque la dimensione politica e geopolitica non doveva interferire. Sono certa che le pressioni politiche e mediatiche esercitate dalla tifoseria ucraina, dentro e fuori dal tribunale, non hanno influenzato la corte”. Lei però ha parlato di pressioni esercitate sulla sua famiglia... “Gli insulti dei network ucraini e di taluni social italiani non stupiscono: la rete è aizzata da hater di mestiere. Più gravi appaiono gli attacchi giunti da portavoce istituzionali ucraini. Uno fra tutti: Anton Gerashenko, viceministro degli Interni. Ha detto che la nostra famiglia era a caccia di risarcimenti in denaro. Le minacce e gli insulti ai nostri avvocati, li abbiamo raccolti in un dossier”. Martedì, anche la pm ha accennato ad attacchi diffamatori alla giustizia italiana... “Basta leggere le trascrizioni delle arringhe della difesa, per cogliere queste affermazioni sconcertanti e oltraggiose. La gravità delle espressioni usate suona davvero ingiustificabile sulle labbra di uomini di legge, da cui ci si aspetterebbe il rispetto delle istituzioni. Anche nei confronti dei giornalisti sono state usate parole assai pesanti”. Ma si saprà mai chi ha ucciso Andy? “Confido che la verità emerga in piena luce. È solo questione di tempo”. Stati Uniti. Anche un voto per dire basta “guerra alla droga” di Marco Perduca* Il Riformista, 5 novembre 2020 Non solo presidenziali: il 3 novembre in diversi stati si sono svolti referendum popolari. L’Oregon ha depenalizzato uso e possesso personale di tutti gli stupefacenti. In New Jersey, Arizona, Montana e South Dakota legalizzata la cannabis per uso ricreativo. L’incertezza che ha caratterizzato le elezioni presidenziali negli Stati Uniti non ha toccato la voglia di dire basta alla “guerra alla droga” in quel paese. Grazie a varie proposition, iniziative popolari, a livello statuale votate il 3 novembre scorso, alla legalizzazione della cannabis per uso medico e non, in Oregon si è aggiunta la depenalizzazione dell’uso e possesso personale di tutti gli stupefacenti proibiti. Ha votato a favore quasi il 60 per cento. Per un lettore italiano attento, o di una certa età, la riforma dello Stato della Costa occidentale dovrebbe suonare familiare: nel 1993, infatti, un referendum promosso nel nostro Paese dal Coordinamento Radicale Antiproibizionista fu vinto con percentuali leggermente inferiori a quelle di questo martedì (53 per cento) e, per la prima volta nella storia delle Nazioni unite, la depenalizzazione delle droghe avvenne per via popolare. Se il 34,8% dei detenuti in Italia lo è per violazioni della legge sugli stupefacenti - la media europea è del 18% quella mondiale del 20% - nessun paese batte gli Usa, escludere il carcere per consumo potrebbe essere l’inizio di una nuova era. Secondo un recente studio della Drug Policy Alliance, ogni 23 secondi negli Stati Uniti una persona viene arrestata per motivi di droga, si tratta di afro-americani, latinos, nativi e generalmente di persone con basso reddito. Quello dell’Oregon diventa quindi anche un esperimento che potrebbe non solo evitare violazioni di diritti umani - le carceri Usa sono tristemente famose per la violenza che le caratterizza - ma anche fornire spunti per riforme generali dell’amministrazione della giustizia. Tra le sostanze il cui possesso di piccole quantità non sarà più perseguito penalmente ci sono anche i cosiddetti psichedelici. Quella dei funghi psicoattivi e delle metanfetamine, per uso terapeutico o di microdosaggi per accompagnare la quotidianità, sta diventando la nuova frontiera delle modifiche delle leggi sugli stupefacenti. Il cambiamento è iniziato a Denver che nel maggio 2019 è diventata la prima città statunitense a depenalizzare quelle sostanze, Oakland e Santa Cruz in California hanno seguito a ruota. Non si può ancora parlare di effetto domino come per la cannabis, ma la nuova tendenza riformatrice è ampliare le modifiche legislative a tutte le sostanze illecite partendo specie da quelle che non danno dipendenza come gli psichedelici. Quel che inizia in California diventa poi movimento a livello nazionale. Sempre il 3 novembre, il New Jersey ha votato a maggioranza per legalizzare la marijuana per i maggiorenni, idem in Arizona, Montana e South Dakota portando a 15 gli Stati che, più la capitale Washington, regolamentano la pianta per uso non medico. Il Mississippi si unisce ai 33 stati che ne consentono l’uso terapeutico. Ci sono voluti 10 anni ma la strategia che ha portato alla legalizzazione della recreational marijuana alla fine ha dimostrato di essere vincente: raccogliere (molti) soldi, coinvolgere schiere di giuristi per definire, spesso in modo creativo, i quesiti da porre al voto, inondare gli Stati di informazioni on e off line (e nei campus), promuovere eventi e piccole reti di attivisti a livello locale per far crescere la consapevolezza dell’importanza delle riforme. Se all’inizio del Terzo Millennio i riformatori più attivi erano prevalentemente i libertarian, mai troppo ben organizzati e comunque inadatti a collaborare con altri, e miliardari filantropi come George Soros o Peter Lewis, col passare del tempo la base di militanti e le disponibilità economiche si sono ampliate coinvolgendo persone direttamente colpite dalla “guerra alla droga” - donne, persone di colore e immigrati - e imprenditori della cannabis. Queste riforme stanno tra l’altro confermando, numeri alla mano, le previsioni dell’antiproibizionismo di Marco Pannella che dalla fine degli anni Sessanta, oltre a denunciare il carattere liberticida e criminogeno della limitazione di una libera scelta, proponeva la totale legalizzazione per consentire decisioni informate e aiutare chi sviluppa un rapporto problematico coi propri consumi, sottraendo il commercio delle droghe dalle mani della criminalità organizzata. Anche se nessuno dei due possibili inquilini della Casa Bianca s’è mai distinto per spirito riformatore, né il Congresso ha mai dato segni di particolare interesse a riforme federali in materia, negli USA è ancora possibile attivare strumenti di democrazia diretta. Là dove non arrivano i legislatori o le Corti può ancora arrivare il “popolo”, non è una misera soddisfazione ma un dato di fatto contro l’inerzia della politica. *Associazione Luca Coscioni Stati Uniti. Legalizzazione della cannabis, altri cinque Stati danno il via libera di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 5 novembre 2020 Referendum sulle droghe ricreative e teraupetiche, a sorpresa il no al proibizionismo fa breccia anche nelle roccaforti dei repubblicani. Nelle ore in cui tutto il mondo è con il fiato sospeso per il risultato delle presidenziali, gli elettori di cinque Stati Usa hanno consegnato risultati, a loro modo straordinari, su cannabis, psilocibina e decriminalizzazione del possesso di droghe. Tutti i referendum sulle droghe sono infatti passati, molti di loro con margini considerevoli. Arizona (favorevoli al 60%), New Jersey (67%), Montana (57%) e South Dakota (53% per la ricreativa, 69% per la terapeutica) hanno legalizzato la cannabis per uso ricreativo. Il Mississippi ha approvato con il 68% dei voti il quesito che apre all’uso terapeutico della cannabis. Salgono così a 34 gli Stati che hanno attivato programmi di marijuana medica e a 15 quelli che hanno legalizzato la cannabis per tutti gli usi (più il Distretto della Capitale Washington). Si è definitivamente chiusa la catena ovest, che parte dal Canada e arriva al Messico, prossimo anche lui alla legalizzazione. Anzi, la cannabis legale comincia a far breccia anche nel cuore profondo dell’America: in Montana, South Dakota e Mississippi. Vince anche in Stati solidamente repubblicani: pare essere l’ennesima dimostrazione che laddove si tocca con mano gli effetti positivi della riforma delle politiche sulle droghe, a partire dalla cannabis, sono i cittadini stessi a chiedere di continuare nella riforma delle fallimentari politiche proibizioniste. Ad est la strada sembra ormai spianata: il referendum del New Jersey è stato richiesto dal parlamento e sostenuto personalmente dal governatore democratico Phil Murphy. Manca ancora New York, il cui governatore Cuomo ha più volte dichiarato di voler legalizzare la cannabis, nonostante il nulla di fatto della sessione dello scorso gennaio. Non c’era solo la cannabis in questo election day: in Oregon ha ottenuto un ottimo risultato la regolamentazione legale della psilocibina, approvata con il 56% dei voti. Anche Washington D.C. - con il 76% dei favorevoli - ha depenalizzato il consumo di psilocibina: si apre così una nuova strada riformatrice per i movimenti antiproibizionisti e psichedelici d’oltreoceano. In Oregon fondamentale successo per un secondo quesito (59%) che depenalizza il possesso di qualsiasi droga (sanzionabile ora solo con una multa di massimo 100$). Lo stesso quesito prevede di aumentare i finanziamenti ai programmi di assistenza alle persone che usano sostanze, grazie alle imposte della cannabis (legale in Oregon dal 2014). “Un passo enorme che va verso un approccio umano e basato sulla salute”, ha commentato Kassandra Frederique, Drug Policy Alliance. Le politiche sulle droghe sono lo strumento della repressione delle minoranze negli Usa, come numerosi rapporti hanno dimostrato. La presa di coscienza collettiva, anche all’interno del movimento #blacklivesmatter, del ruolo centrale di queste sulla società e sulla stessa essenza della democrazia, è importante e fa ben sperare per il futuro. Negli Stati Uniti come nel mondo. Il risultato delle presidenziali influenzerà certamente il futuro delle politiche sulla cannabis, come del resto lo farà il risultato al Senato, che sinora si è dimostrato il più forte ostacolo per le riforme. Il More act, il provvedimento che rimuove la cannabis dalle sostanze controllate a livello federale, anche se approvato dalla Camera, laddove fosse confermata la maggioranza democratica difficilmente riuscirà a passare lo scoglio del Senato. Che peraltro ha perso il senatore repubblicano Cory Gardner nello scontro con l’ex governatore del Colorado, il democratico Hickenlooper. Gardner aveva battagliato contro l’Attorney General Jeff Sessions, che voleva soffocare sul nascere l’onda verde delle legalizzazioni statali, bloccando a lungo al Senato alcune nomine del Ministero della Giustizia. Questa tornata elettorale apre come detto nuove strade e nuovi orizzonti: sullo sfondo il voto sulla cannabis all’Onu del prossimo dicembre, che potrebbe rappresentare un ulteriore passo verso la riforma delle politiche sulle droghe basata sulle evidenze scientifiche e il rispetto dei diritti umani. Attacco a Vienna, il prof che rieduca i jihadisti: “Il killer? I giudici l’avevano liberato” di Marco Imarisio Corriere della Sera, 5 novembre 2020 Moussa Al-Hassan Diaw, direttore dell’associazione Derad: “Se un sistema non funziona, è sbagliato dare la colpa agli anelli più deboli della catena, come il volontariato”. “Internet batte realtà 2-0”. E tra gli sconfitti, Sarah ci mette anche se stessa. Non ci sono insegne, non c’è neppure il nome sulla targhetta del citofono. L’ufficio di “Donne senza frontiere” ai confini del quartiere Favoriten è il più anonimo possibile. Non ci sono indicazioni, non ci sono manifesti alle pareti. Anche la porta blindata è poco appariscente, si capisce che è tale solo dall’interno. “Dobbiamo fare molta attenzione”, quasi si giustifica la giovane volontaria dell’associazione, una delle più grandi Ong d’Austria, che da ormai otto anni ha sviluppato e gestisce un programma rivolto alle madri di giovani che sembrano aderire al radicalismo islamico. Per dissuaderli, per convincerli a non partire. “Da quando cominci, hai tre mesi di tempo. Se non riesci a convincere il ragazzo entro quel tempo, le sirene del salafismo hanno la meglio. Questo ci dice la nostra esperienza. Bisogna convincerli che il loro posto è qui. Ma non è facile”. Le strade sporche e mal tenute del quartiere con il più alto tasso di criminalità della capitale non sono certo un invito a restare. Pochi mesi fa a Favoriten, che si trova nella zona sud, quasi attaccata alla vecchia città operaia, sono state chiuse due moschee gestite dai Lupi grigi, l’organizzazione turca di estrema destra, e altre due dove risuonavano appelli alla Jihad. “Ma quel ragazzo che ha fatto l’attentato non si è fatto plagiare dagli imam, ma dai messaggi sbagliati sui social. Voleva quelli, li cercava, li ha trovati. Esistono due realtà, ormai. E quando finisce la nostra lezione, noi non possiamo più controllare nulla. Per questo ci rivolgiamo alle madri”. Alla fine, un capro espiatorio ci vuole sempre. Ieri, il ministro dell’Interno Karl Nehammer ha speso i primi due minuti della sua conferenza stampa per dire che i video mandati dalle telecamere di sorveglianza dei locali dimostrano in modo definitivo che Kujtim Fejzulai ha agito da solo. Altri due minuti per aggiungere che i servizi di sicurezza austriaci non hanno gestito bene la segnalazione giunta dalla Slovacchia dopo che l’aspirante terrorista aveva cercato di comprare armi in quel Paese. E il resto del tempo lo ha usato per sottolineare come il giovane austriaco di origine macedone abbia “perfettamente aggirato” il programma di reintegro dei jihadisti nella società austriaca. “Non funzionano quasi mai, quindi rischiano di creare confusione e fare danni ulteriori”, ha concluso. A Vienna, città cattolica con il più alto numero europeo pro capite di Foreign fighters, esistono cinque associazioni che a vario titolo lottano contro il radicalismo islamico. Quella chiamata in causa dal ministro si chiama Derad, nome programmatico, ha sede nel municipio, e ha un compito improbo, perché si occupa solo di estremisti appena usciti dal carcere. Tra il 2015, anno di nascita, e il 2020, ha seguito 155 persone. Moussa Al-Hassan Diaw, il suo direttore, è un professore universitario figlio di immigrati, nato e cresciuto a Favoriten. “Le accuse che ci vengono rivolte sono strumentali, perché nessuno di noi aveva mai presentato Fejzulai come un soggetto pronto al reinserimento nella società. Era in libertà condizionata per i benefici di una legge statale, concessi da un tribunale. Se un sistema non funziona, è sbagliato dare la colpa agli anelli più deboli della catena, come il volontariato”. Le storie a lieto fine pareggiano quelle andate male. Uno su due. “Noi lavoriamo per far accettare una società pluralista e democratica a persone che vengono indottrinate in senso contrario. Cerchiamo di neutralizzare una polarizzazione già avvenuta, per questo il rischio di una recidiva è sempre presente”. Mentre parla davanti al palazzo del Comune, due poliziotti in borghese si aggirano discreti nella piazza svuotata dal lockdown in corso. L’Associazione dei musulmani austriaci (Iggo) ha denunciato negli ultimi due anni il taglio ai finanziamenti deciso dal governo per questo tipo di progetti. Sia Diaw che la giovane volontaria di “Donne senza frontiere” vivono da reclusi per le minacce che arrivano in egual misura da sostenitori della Jihad e da ambienti della destra radicale. Entrambi usano spesso la parola Damm, che significa argine. È solo che certe volte anche loro hanno la sensazione che l’argine possa crollare da un momento all’altro. Bielorussia. Maxi-inchiesta contro oltre 200 manifestanti pacifici di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 novembre 2020 I promotori della manifestazione del 1° novembre nella capitale Minsk l’avevano chiamata “Marcia contro il terrore”. Ne avevano tutte le ragioni. Le autorità giudiziarie della Bielorussia hanno deciso di avviare una maxi-inchiesta nei confronti di 231 manifestanti pacifici arrestati nel corso e dopo la marcia. Negli atti si legge che gli indagati hanno preso parte a “un’azione non autorizzata” che “ha causato danni all’infrastruttura cittadina e a un veicolo della polizia” e “ha ostacolato i mezzi del trasporto pubblico e il lavoro delle organizzazioni”. I 231 manifestanti pacifici rischiano ora fino a tre anni di carcere per “organizzazione o preparazione di attività che violano gravemente l’ordine pubblico”, ai sensi dell’articolo 342 del codice penale. Amnesty International ha descritto l’iniziativa giudiziaria “del tutto assurda” e “un pericoloso precedente”, sollecitando l’immediata archiviazione”. Afghanistan, torna l’incubo della guerra civile di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 5 novembre 2020 Lo scorso febbraio gli americani hanno raggiunto un accordo con i talebani. Ma adesso i colloqui tra governo di Kabul e talebani sono in piena crisi. Questi ultimi rifiutano di firmare il cessate il fuoco. Se sino a qualche giorno fa cresceva l’incertezza sulle possibilità reali di pace con i talebani, adesso è la paura che domina per le strade dei maggiori centri urbani afghani. Il grave blitz terroristico lunedì mattina nel principale campus universitario di Kabul ha rinfocolato l’incubo della crescita di Isis e dei gruppi jihadisti. Il fantasma della guerra civile degli anni Novanta torna più minaccioso che mai. I morti sono stati almeno 22, i feriti 27, tutti studenti. “I tre terroristi ci hanno sparato uno a uno. Prima miravano a chi cercava di fuggire dalle finestre, poi nel mucchio. Volevano causare il maggior numero di vittime”, raccontano i sopravvissuti. Non è un caso che il segretario generale della Alleanza atlantica, il norvegese Jens Stoltenberg, abbia condannato nello stesso comunicato l’attentato di Vienna e quello di Kabul. Se infatti in Europa rischiamo il ritorno della minaccia jihadista, è proprio in Afghanistan che Isis potrebbe ricostruire quella dimensione territoriale del Califfato che due anni fa perse dopo le sconfitte a Raqqa e lungo la valle dell’Eufrate. La verità è che il prospettato ritiro di 4.500 soldati americani e 6.100 dei contingenti Nato (tra cui il migliaio di italiani) entro il maggio 2021 rischia di lasciare un Paese profondamente destabilizzato. Isis ha storicamente approfittato del caos negli “Stati falliti”. Lo fece nelle violenze dell’Iraq post-invasione americana del 2003 e ancor più nella Siria lacerata dalla “Primavera araba” del 2011. Lo scorso febbraio gli americani hanno raggiunto un accordo con i talebani. Ma adesso i colloqui tra governo afghano e talebani sono in piena crisi. Questi ultimi rifiutano di firmare il cessate il fuoco. E pare non rispettino neppure la clausola fondamentale dell’impegno a negare asilo ad Al Qaeda e a quelle forze che utilizzano l’Afghanistan come base per le loro operazioni all’estero.