Il carcere rimosso, dove si continua a morire di Massimo Congiu dirittiglobali.it, 4 novembre 2020 Il carcere diventa non il luogo del recupero previsto dall’Articolo 27 della Costituzione, ma quello della discarica sociale e della disperazione. Nei giorni scorsi, il numero dei suicidi nelle carceri campane è arrivato a nove. Nove casi (sei nel 2019) che impongono una riflessione profonda su quello che succede nei nostri istituti di pena. Ciò è avvenuto con la morte di Salvatore L., un detenuto di 22 anni che lo scorso martedì 20 ottobre si è impiccato nel carcere di Benevento. Salvatore era napoletano, e da Brindisi era stato trasferito a Benevento dove era arrivato per un’udienza. Condivideva la cella con un’altra persona. Alle 15.00 del 20 ottobre aveva parlato al telefono con la sua compagna, poi il gesto estremo. Sullo sfondo di questi episodi possiamo immaginare disperazione, lo stato d’animo di chi sente di non avere via d’uscita. “Non conosciamo il corto circuito che porta a queste tragedie - commentano Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, garanti regionale e del comune di Napoli rispettivamente - il carcere è stato rimosso, è diventato una discarica sociale che ospita detenzione sociale”. Quel che si sa è che tali episodi, almeno in Campania, riguardano nella maggior parte dei casi, giovani entrati in carcere per reati non gravi, finiti in celle di pochi metri quadrati da condividere con altri detenuti. Poi, chissà, il senso di impotenza, la convinzione crescente di essersi bruciati in modo definitivo prevalgono sulla capacità di elaborare il proprio errore, il proprio vissuto personale, la possibilità di venirne fuori. “In carcere e di carcere si muore”, denunciano i garanti i quali puntano il dito sull’assenza dello Stato negli istituti di pena; una situazione pesante per tutta la popolazione carceraria, per chi è detenuto e per chi ci lavora, come dimostra anche la casistica considerevole riguardante i suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria. Le carceri sono abbandonate a sé stesse, secondo Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, quella dello Stato è “un’assenza storica che ha le sue radici nella voluta ignoranza dei cittadini, disinformati e disinteressati. Una volontà politica che travolge i mass media che del carcere non si occupano e, se lo fanno, inducono a far ritenere che problemi non ce ne sono”. Una situazione, questa, resa ancora più complicata dal bieco giustizialismo di certa parte politica che cerca consensi scavando nello stomaco profondo dell’opinione pubblica tirandone fuori paure cui risponde con semplificazioni atroci. Così il carcere diventa non il luogo del recupero previsto dall’Articolo 27 della Costituzione, ma quello della discarica sociale e della disperazione, appunto. Così, in occasione della Conferenza dei Garanti Territoriali delle persone private della libertà svoltasi a Napoli il 9 e 10 ottobre scorsi, si è parlato della necessità di sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto a questo argomento per combattere la disinformazione e attivare un canale comunicativo tra il mondo di fuori e il mondo di dentro. I nostri istituti di pena soffrono di diversi mali, di carenze strutturali e di personale, di sovraffollamento, realtà quest’ultima sempre menzionata nell’ambito della complessa tematica carceraria. Un problema concreto e riconosciuto dagli addetti pur con la precisazione del Presidente dell’Autorità Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, secondo il quale le problematiche esistenti in tale ambito sono “più di carattere qualitativo che quantitativo e non prevalentemente di sovraffollamento”. Ciambriello e Ioia chiedono a gran voce che venga fatta chiarezza su questa recente morte a Benevento e sostengono che ci vogliono più figure sociali nelle carceri, più attività trattamentali, più attività di rieducazione senza le quali non si può parlare di una prospettiva di reinserimento sociale. Intanto la casistica nazionale del fenomeno descritto in questa sede è salita a 49 episodi dall’inizio dell’anno con l’ancora più recente suicidio di un detenuto di 35 anni che si è impiccato con una felpa nel carcere romano di Regina Coeli. Questo nuovo tragico avvenimento non fa che confermare l’urgenza di cambiamenti necessari per restituire dignità e speranza a chi sta pagando il suo debito con la giustizia. Carceri, in cinque giorni raddoppiano i contagi di Angela Stella Il Riformista, 4 novembre 2020 Secondo i dati del Dap, al 2 novembre erano 395 i detenuti positivi e 424 gli operatori penitenziari: quasi il doppio rispetto al 28 ottobre. Continua l’espansione dei contagi da covid-19 nelle carceri e non si fermano gli attacchi al Garante Mauro Palma da parte della Lega e del Sappe. Entriamo nel dettaglio: il 2 novembre erano ben 395, di cui 20 ricoverati in ospedale, i detenuti e 424 gli operatori positivi al virus, censiti dall’Ufficio Attività Ispettiva e di Controllo del Dap. I contagi sono dunque raddoppiati dal 28 ottobre scorso. A fornire i dati è stato Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Dal bollettino del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale diffuso ieri emerge che la distribuzione del contagio si addensa in sole sette situazioni con un numero a due cifre e con numeri piccoli in altri quarantacinque istituti. Problematiche sono le situazioni nella “Casa circondariale di Alessandria, dove si è registrato il decesso di una persona e una espansione a più del 14% della complessiva popolazione detenuta (29 casi su 199 persone ristrette); quella di Terni con 69 persone contagiate su 509, pari al 13,5% delle presenze, così come quella relativa a un focolaio a Latino e uno a Livorno”. Considerata questa situazione in aggravamento, il Partito Radicale con una nota sollecita le Procure a indagare per epidemia colposa. Invece, proprio dal carcere di Terni ci scrive, tramite la moglie, un detenuto, Franco, che rivolge un appello “a non essere dimenticati” indirizzato al Presidente della Corte Costituzionale, Mario Rosario Morelli: “Mi rivolgo a Lei perché siete l’unica e ultima Istituzione in Italia che ancora riveste con orgoglio e dignità il ruolo di essere imparziale, che non teme la impopolarità e che lavora in funzione di quella Carta Costituzionale che molti si sentono autorizzati a bistrattare”. Al contrario, aggiunge Franco, “il Ministro della Giustizia per il momento deve occuparsi di altro, come andare in trasmissioni televisive a controbattere a quanti mettono in discussione lo staff del suo ufficio”. Tuttavia, prosegue l’uomo, “il virus ha dimostrato che non teme né le frontiere tanto meno le sbarre, si è insediato in questi luoghi che per molti sono depositi umani, ma anche qui ci sono padri, madri, nonni che hanno diritto alla salute, che hanno il diritto di sfuggire al contagio, alla morte. Il popolo italiano non è uguale agli occhi delle istituzioni, chi ha commesso qualche errore non ha diritti o meglio ha il diritto solo di morire. di essere dimenticato. Come si può tenere in questi focolai gente che ancora non ha nemmeno affrontato il primo grado di giudizio (circa 10.000, ndr), come si può non affrontare il sovraffollamento senza tener in considerazione che i medici raccomandano il distanziamento sociale?”. Ce lo chiediamo anche noi, anche perché le proposte di sfoltimento della popolazione penitenziaria formalizzate da Bonafede nel pacchetto giustizia del Dl Ristori sembrerebbero non essere sufficienti, come spiega sempre il Garante nel report: “Le 54.894 persone oggi detenute sono attualmente ristrette nei 47.187 posti realmente disponibili. Soltanto 1.142 persone hanno un fine pena inferiore a sei mesi e non ricadono nella morsa delle preclusioni ostative, incluse quelle su base disciplinare. Coloro che invece hanno un fine pena inferiore ai diciotto mesi e che ugualmente non hanno tali preclusioni sono 2.217. Si configura una prima platea di potenziali destinatari della detenzione domiciliare (3.359) che deve però misurarsi con la gravità sociale del dato costituito dai 1.157 di essi che non ne potranno usufruire perché privi di fissa dimora”. Sempre ieri, proprio a pochi giorni dalla proroga di due anni del mandato del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, sono arrivati pesanti attacchi del capogruppo leghista in commissione Affari costituzionali della Camera. Igor lezzi: “È triste sentire durante le audizioni in merito al decreto insicurezza e clandestini il Garante dei detenuti sostenere la reintroduzione della protezione umanitaria per gli immigrati irregolari e contestare la nonna che introduce misure di contrasto all’introduzione dei cellulari nelle prigioni. Palma ancora una volta si schiera dalla parte dei delinquenti contro i cittadini che rispettano la legge e contro gli agenti della polizia penitenziaria. L’unico emendamento che va subito approvato è quello che presenteremo come Lega e che riguarda l’abolizione di questa assurda figura, quella del Garante dei detenuti”. Dello stesso parere anche Donato Capece del Sindacato autonomo polizia Penitenziaria (Sappe). “A nostro avviso l’istituzione del Garante dei detenuti non dovrebbe neppure esistere. Nell’ordinamento italiano già esiste la figura di tutela che è, per i definitivi, la magistratura di sorveglianza e, per gli altri, le singole autorità giudiziarie”. A difesa di Mauro Palma si schiera il vicepresidente dei senatori del Pd Franco Mirabelli, che definisce “gravissimo” l’attacco al Garante e aggiunge “Attaccarlo nel momento in cui è impegnato ad affrontare il tema dei contagi nelle carceri e nelle RSA è l’ennesima dimostrazione che la Lega è capace solo di fare propaganda e non è interessata a risolvere i problemi reali”. Bonafede rompe il silenzio sulla questione carceri di Paolazzurra Polizzotto ecointernazionale.com, 4 novembre 2020 Mentre le fake news sul carcere aumentano, al grido di “infinite” scarcerazioni, il contagio nelle carceri cresce vertiginosamente. Inefficaci le misure del decreto ristori. Dopo settimane di silenzio da parte del Ministro Alfonso Bonafede, anche per le carceri arrivano le misure anti covid. Fuori sì, ma con il braccialetto elettronico, chi ha una condanna fino a 18 mesi; nessuna concessione a mafiosi e protagonisti delle rivolte di febbraio. Lo annuncia con un post su Facebook il Guardasigilli Alfonso Bonafede, che però subito precisa: “È escluso chi è stato condannato per mafia, terrorismo, corruzione, voto di scambio politico-mafioso, violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e stalking, nonché chi ha subito una sanzione disciplinare, o ha un procedimento disciplinare pendente, per la partecipazione a tumulti o sommosse nelle carceri”. Sono questi i punti fondamentali previsti dal decreto legge 137/2020. Al fine di garantire il distanziamento sociale e il contenimento dei contagi, il decreto ristori riprende anche molte delle disposizioni sul c.d. processo penale telematico già previste dall’art. 83 d.l. n. 18/2020, le quali - cessate di efficacia lo scorso 30 giugno 2020 - vengono rivitalizzate per consentire quanto più possibile lo svolgimento “da remoto” di attività processuali, sia in sede di indagini preliminari, che in fase dibattimentale. I punti nevralgici di questo decreto sono tre, che ripristinano e incentivano le misure già contenute nel decreto “Cura Italia” dello scorso marzo. Nello specifico: all’articolo 28 si precisa che alle persone condannate ammesse al regime di semilibertà possano essere concesse licenze premio straordinarie, anche di durata superiore a quella prevista dalla legge, cioè 45 giorni complessivi per ogni anno di detenzione. Questo fino al 31 dicembre 2020 e “salvo che il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura”. La “straordinarietà” riguarda dunque solamente la lunghezza delle licenze, non aumenta il numero delle persone che ne potranno beneficiare: ecco quindi ancora una volta l’inconcludenza di un tale provvedimento, visto che non servirà a fronteggiare la situazione ormai critica del contagio in carcere. L’articolo 29 stabilisce, sempre fino al 31 dicembre 2020, una deroga dei permessi premio alle persone a cui siano già stati concessi e alle persone già assegnate al lavoro esterno al carcere, o ammesse all’istruzione, o alla formazione all’esterno. Questi permessi potranno dunque essere concessi anche in deroga ai limiti temporali previsti dalla legge: 15 giorni per ciascun permesso fino a un massimo di 45 giorni all’anno per i maggiorenni, 30 giorni per ciascun permesso fino a un massimo di 100 giorni all’anno per i minorenni. Questa concessione, come la successiva, sarà valida però solamente per alcuni reati. Infine, l’art 30 si occupa della spinosa questione della detenzione domiciliare: il testo del decreto ci riferisce che fino al 31 dicembre 2020 chi ne farà richiesta e ha meno di 18 mesi di pena residua, anche se si tratta di un periodo residuo rispetto a una pena maggiore, potrà scontare tale periodo a casa “o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza”. Alle persone detenute ai domiciliari sarà imposto il cosiddetto braccialetto elettronico, con l’eccezione dei minorenni o di chi ha una pena residua da scontare non superiore ai sei mesi. I domiciliari saranno concessi a meno che il magistrato di sorveglianza (che si occupa di esecuzione e modalità della pena) non “ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura”. Ma su quest’ultimo punto, bisognerebbe ricordare al Guardasigilli che è da marzo che i braccialetti tardano ad arrivare e risultano essere pochi rispetto al numero delle persone che ne potrebbero beneficiare. Infine, il decreto non si applicherà a chi è sottoposto al regime della sorveglianza particolare; ai destinatari di un procedimento disciplinare nell’ultimo anno; a tutti coloro che hanno preso parte a tumulti e sommosse negli istituti penitenziari, in particolare quelle di febbraio; ai soggetti condannati per uno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, tra cui terrorismo, mafia, corruzione, voto di scambio, violenza sessuale, oltre a delitti di maltrattamento e atti persecutori. Insomma, misure prese non per agevolare tutti, come se per tutelare un diritto costituzionalmente garantito, quello alla salute appunto, bisogna aver fatto “i bravi”. Una visione del tutto contraria rispetto allo spirito con cui il nostro ordinamento giuridico concepisce la pena e la rieducazione, ma soprattutto ad avviso di chi scrive in violazione con il diritto alla “dignità” che accompagna ogni persona privata della libertà personale, dal primo all’ultimo giorno di detenzione, e anche una volta fuori dal carcere. Impreparati allora, impreparati adesso, con carceri diventate delle isole come Alcatraz (dove sono vietate persino le attività trattamentali); ecco che ci troviamo a contare il primo detenuto morto di Covid in questa seconda ondata e oltre 200 contagi tra detenuti e agenti. E mentre l’epidemia da Covid non sembra voler arretrare, mentre fuori tutti ci invitano a mantenere le distanze e a usare la mascherina per proteggerci l’uno dall’altro, in carcere i detenuti presenti in una cella possono arrivare fino a 10: un’emergenza nell’emergenza, che anche questa volta viene affrontata con i soliti proclami e le solite fake news (“5 mila detenuti”) con pene sotto i 18 mesi a casa ai domiciliari grazie ai braccialetti elettronici”, che non fanno altro che alimentare una macchina populista che avanza disastrosamente e senza freni nel nostro Paese. Liberiamo i penitenziari da virus e burocrazia, ecco come di Riccardo Polidoro* Il Riformista, 4 novembre 2020 La pur prevedibile seconda ondata del virus sta facendo naufragare l’organizzazione sanitaria di molti Paesi, tra i quali l’Italia. In otto mesi di emergenza sono stati emessi decreti “a pioggia” che, soprattutto recentemente, hanno scatenato una “tempesta” di proteste. Si ha l’impressione di una navigazione a vista, dove la rotta viene continuamente modificata, senza attendere gli esiti di quella tracciata in precedenza. E non tanto gli ordini impartiti dal comandante, ma le sue inconsuete “raccomandazioni” fanno temere il peggio. Quando un’imbarcazione è in pericolo, l’indecisione è il male peggiore. Se può essere comprensibile, ma non giustificabile, che la popolazione abbia trovato nei piaceri estivi il riscatto dopo giorni di clausura, è certamente grave che uno Stato, già colto impreparato all’indomani della prima diffusione del virus, lo sia ancora oggi sotto l’aspetto sanitario, economico e nei rapporti tra il potere centrale e quello periferico delle Regioni. Sono giorni di Babele, le previsioni non sono affatto buone e - ci dicono - potranno migliorare solo con l’agognato vaccino di cui però si sa ben poco e sul quale vi è ulteriore confusione circa l’efficacia e i tempi di realizzazione e distribuzione. I media dedicano ampi spazi al conflitto in atto tra scienziati sulle previsioni di contagio e sulle soluzioni da adottare, alle condizioni degli ospedali, alle proteste delle categorie penalizzate dai provvedimenti governativi, al mondo della scuola per il quale non ci sono scelte condivise. Dimenticati, come sempre, i circa 60mila detenuti, il cui destino è affidato allo Stato, e le moltissime persone che lavorano negli istituti di pena. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha, da alcuni giorni, ripreso la pubblicazione periodica del bollettino d’informazione sull’emergenza sanitaria nelle carceri, in quanto “riaffiora e si espande la preoccupazione per la diffusione del Covid-19 nella vita di ogni giorno e nei luoghi dove si vive in realtà ristrette e la libertà di uscirne è preclusa”. Il Garante segnala che le presenze in carcere, da maggio scorso, hanno avuto un importante incremento e che, invece, “occorre con fermezza chiarire che la necessità di spazi è ineludibile e che, quindi, non ha senso far rientrare in carcere persone che vi trascorrono soltanto la notte o mantenere la detenzione di persone condannate a pene brevi”. La storia del giovane Gaetano, riportata pochi giorni fa sulle pagine di questo giornale, è emblematica e ci fa comprendere l’urgenza di un’effettiva riforma dell’esecuzione penale e di quanto sia stato grave affossare i lavori degli Stati generali e quelli successivi delle Commissioni ministeriali, ignorando le raccomandazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e la stessa delega del Parlamento al Governo. È davvero incomprensibile che un condannato, che sta scontando la pena agli arresti domiciliari, debba, al passaggio in giudicato della sentenza, entrare in carcere al fine di richiedere nuovamente lo stato di detenzione precedente che gli sarà certamente concesso. Come è del tutto illogico non consentire al giudice che infligge la condanna di disporre, oltre la pena detentiva in carcere e/o quella pecuniaria, anche gli arresti domiciliari o altra misura alternativa. La micidiale e irragionevole burocrazia processuale prevede, invece, che il condannato debba prima entrare in carcere e, una volta ristretto, possa rivolgere istanza al Magistrato o al Tribunale di Sorveglianza per ottenere di scontare la pena con modalità differenti. Si ha, di fatto, un periodo di detenzione che si potrebbe certamente evitare, a vantaggio del recupero di spazi vitali, non solo oggi per l’emergenza sanitaria in atto, ma per diminuire il sovraffollamento che al detenuto consente, solo raramente, di mettere in atto il percorso di risocializzazione previsto dalla Costituzione e dall’ordinamento penitenziario. Sono questi solo alcuni esempi delle numerose criticità che rendono necessario un percorso sulla strada maestra della riforma, che il virus ha reso ancora più urgente e non più rinviabile, in quanto l’eventuale sviluppo esponenziale del contagio all’interno degli istituti di pena - dove per ovvie ragioni il terreno si presenta fertile - si riverserà su strutture sanitarie esterne, essendo l’amministrazione penitenziaria impotente per ragioni strutturali e organizzative. Il carcere - e l’Italia tutta - ha urgente necessità di una visione generale delle innumerevoli problematiche che l’affliggono: un serio e concreto intervento di sistema e non di una pluralità di misure che altro non sono che mattoni di un’altra torre di Babele. *Il Carcere Possibile Onlus La ricetta Salvi o l’indulto: fateli uscire prima che sia tardi di Tiziana Maiolo Il Riformista, 4 novembre 2020 Il procuratore generale della Cassazione si ricorda per la seconda volta che si deve arrestare di meno e scarcerare di più. Le iniziative di Bonafede non bastano: mancano i braccialetti e i tribunali di sorveglianza scoppiano. Nel giro di cinque giorni è raddoppiato il numero di contagiati dal virus Covid-19, detenuti e operatori penitenziari, all’interno delle carceri italiane. I tribunali di sorveglianza, in particolare quello di Milano, sono al collasso. Il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi si ricorda, per la seconda volta in un anno (gli altri 363 giorni non contano) che si deve arrestare di meno e scarcerare di più. E noi, senza pudore, vogliamo pronunciare la parola impronunciabile: ci vuole un indulto. Ci vuole un indulto per rompere la Grande Ipocrisia dei due inutili decreti che un inutile ministro ha scodellato in primavera e autunno per piccoli gesti - come la detenzione domiciliare - che renderebbero già un po’ più civile la nostra società se fossero applicati sempre. Ma che, con tutti i “tranne che” e “a meno che” ne rendono impossibile per tanti l’applicazione. Con i romantici titoli di “Cura Italia” e “Ristori” il ministro Bonafede ha concesso, bontà sua, la detenzione domiciliare per chi debba scontare meno di diciotto mesi di carcere. Tranne che per chi stia scontando o debba scontare la pena per i reati gravi previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario (se no Giletti si incazza), ma anche per chi abbia ricevuto un procedimento disciplinare ovvero sia senza fissa dimora, cioè gli stranieri e i poveri. Ostacolo, quest’ultimo, forse superabile con qualche intervento delle istituzioni in quel famoso Paese civile dei nostri sogni. Segnale che comunque non arriva da nessuna parte, neanche dalle amministrazioni locali. Ma l’ostacolo vero, quello che neppure un saltatore olimpionico riuscirebbe a scavalcare, è quello dei braccialetti elettronici, un grande scandalo su cui, incomprensibilmente, nessun pm anti-qualcosa ha ancora voluto indagare. Prima di tutto perché i braccialetti (in realtà sono cavigliere di plastica anallergica con un chip e una batteria, collegate a una centrale operativa di controllo) sono introvabili. E non a caso l’astuto ministro Bonafede nel decreto “Ristori” ne condiziona l’utilizzo ai “limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente”. Il che significa, apparentemente, che i braccialetti ci saranno se esisteranno i soldi per comperarli. Ma le cose non stanno così. Ed è assurdo che lo Stato, dal 2010, quando ci fu il primo bando del ministro dell’interno Bianco, passando per Pisanu, Cancellieri, Alfano e Minniti, fino a Salvini e Lamorgese, abbia già speso 200 milioni di euro per qualcosa che non c’è. Fastweb, che aveva vinto la gara Europea nel 2016, aveva garantito una fornitura di 1000-1200 braccialetti al mese fino al dicembre 2021. E dove sono questi braccialetti, visto che in aprile, quando si pose il problema dopo il decreto “Cura Italia”, il Dap aveva fatto sapere di averne a disposizione solo 2.600 fino al 15 maggio? E a oggi non se ne ha notizia? Niente braccialetti, niente detenzione domiciliare, quindi. Ammesso che sia sensato imporre questa vera tortura a chi non ha interesse, dovendo scontare solo pochi mesi, a darsi alla fuga. Ma la razionalità non fa parte del meraviglioso mondo del ministro Bonafede e dei suoi fedelissimi uomini che presiedono il Dap. Che sono ormai tutti magistrati “antimafia” e in quanto tali più preoccupati a castigare qualunque giudice o tribunale di sorveglianza che mandi ai domiciliari qualche boss gravemente malato o in fin di vita piuttosto che impegnarsi a tutelare la salute di tutti i detenuti, come del resto impone loro la Costituzione. Infatti, la famosa circolare che costò la testa al dottor Basentini e un po’ di piccola gogna allo stesso ministro Bonafede, che sollecitava le direzioni delle carceri a segnalare i nominativi dei detenuti ultrasettantenni o portatori di patologie che con la presenza del contagio da Covid-19 avrebbero potuto diventare pericolose, è stata buttata nel cestino. A furor di popolo del Circolo delle Manette presieduto da Marco Travaglio. E con gravi pressioni su giudici di sorveglianza denunciati al pubblico ludibrio con nomi e cognomi, tanto che alcuni avevano richiesto l’apertura di una pratica a propria tutela al Csm. Adesso che la condizione delle carceri, come denuncia anche un sindacalista degli agenti di polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio di Ulpa, sta diventando esplosiva con i contagi raddoppiati nell’arco di cinque giorni, forse qualcuno ripenserà a quella circolare, o l’esame del sangue ai detenuti malati lo faranno, al posto dei medici, i professionisti dell’antimafia? O i seguaci del procuratore Gratteri che aveva detto essere il carcere il luogo più sicuro di tutti? Il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi ritiene di aver trovato la soluzione: meglio non entrarci del tutto nelle prigioni. Ha ragione, visto che, anche se scoppiasse un incendio o un terremoto, con questi chiari di luna, sarebbe impossibile salvarsi, e anche i malati non potrebbero che uscirne defunti. Ha ragione due giorni all’anno, il dottor Salvi, quando ricorda che la detenzione in carcere è solo l’extrema ratio nell’applicazione della pena. Negli altri 363 giorni il procuratore è indaffaratissimo su altro, per esempio sull’elargire l’immunità ai suoi colleghi magistrati quando fanno un pochettino di traffico di influenze, raccomandazioni ed autopromozioni di carriera. Oggi Salvi sembra ricalcare, nelle sue raccomandazioni al Dap e ai colleghi delle procure generali di tutta Italia, la famosa circolare dello scandalo: arrestate di meno e fate attenzione alle situazioni sociali, familiari, di età e di salute. Ricordate che mai come in questo momento il ricorso al carcere deve essere l’ultima spiaggia. Quindi suggerisce di “arginare la richiesta e l’applicazione delle misure cautelari” e anche procrastinare quelle già emesse. A noi sembra un buon programma. Purtroppo solo emergenziale. E ci piacerebbe che non solo lui, ma anche tutti i procuratori d’Italia, e soprattutto quelli “anti” come i direttori del Dap Tartaglia e Petralia, magari in un bel girotondo con il procuratore Gratteri, lo facessero proprio. Ricordando che chi giura sulla Costituzione, chi indossa la toga, è obbligato proprio a quei principi e a quel programma. Il carcere dei diritti scommette sulla sessualità di Grazia Zuffa Il Manifesto, 4 novembre 2020 Un importante disegno di legge introduce e regola le relazioni affettive intime delle persone private della libertà personale in carcere. Nel settembre scorso è stato assegnato alla Commissione Giustizia del Senato un importante disegno di legge (n. 1876), che introduce e regola le relazioni affettive intime delle persone detenute in carcere. L’articolo chiave (art.2) stabilisce che “particolare cura è dedicata a coltivare i rapporti affettivi”, attraverso la possibilità offerta ai detenuti e agli internati di usufruire di “una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro, delle persone autorizzate ai colloqui”. Le visite si svolgeranno in apposite unità abitative all’interno degli istituti, senza controlli visivi e auditivi. Con questo provvedimento, finalmente si concretizza il diritto dei detenuti e delle detenute ad avere rapporti sessuali e affettivi con le persone con cui si è legati/e da relazioni significative: sancito come tale dalla Corte Costituzionale fin dal 1987 (sentenza 581) ed ancora nel 2012 (sentenza 301). L’appello al Senato è di prestare la massima attenzione a questa proposta, per il merito - trattandosi di diritti fondamentali delle persone - ma anche per la particolarità del percorso con cui è approdata in Parlamento. Come ricordano Stefano Anastasia e Franco Corleone (nel recente volume La prigione delle donne, di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa, p. 151), il testo è stato elaborato nel 2019 dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e sottoposto alle Regioni perché ne facessero oggetto di iniziativa legislativa in Parlamento. La Regione Toscana è stata la prima a rispondere all’appello dei Garanti, avviando l’iter parlamentare. È dunque un’iniziativa ampiamente partecipata che proviene da organismi di garanzia, di particolare rilievo civile ed etico. E che è stata approvata a livello di Consiglio Regionale toscano, dopo ampia discussione. Questo sforzo di coinvolgimento di vari livelli istituzionali - oltre che dell’opinione pubblica- è la risposta all’ingiustificabile ritardo del nostro paese nel garantire l’affettività e la sessualità delle persone detenute. Non solo questo diritto è da tempo riconosciuto in quasi tutti i paesi europei (Spagna, Germania, Francia, Austria, Svizzera, tanto per citarne alcuni); ci sono anche autorevoli pronunciamenti in tal senso, dalla Corte Costituzionale già citata, agli Stati Generali dell’ Esecuzione Penale nel 2016, al Comitato Nazionale di Bioetica col parere del 2013 “La salute dentro le mura” (dove, p.11, si raccomanda di “salvaguardare l’esercizio dell’affettività e della sessualità” nel rispetto del “principio della centralità della persona, anche in condizioni di privazione della libertà”). Allora, da dove provengono tante resistenze? Da un sotteso “operante dispositivo proibizionista”, come denuncia il giurista Andrea Pugiotto (Giurisprudenza Penale, 2019 2bis), ben radicato nella cultura carceraria corrente. La negazione della sessualità è parte di quella “sofferenza aggiuntiva” (alla privazione della libertà), che non può essere detta ma è largamente esercitata; e che ispira molti dispositivi detentivi di spoliazione identitaria del carcerato/a, imperniati sul corpo asessuato. Si pensi al corpo continuamente esposto allo sguardo dei controllori, corpo denudato e privo di eros. Nel già citato volume, molte detenute raccontano l’ingresso in carcere, l’umiliazione del doversi denudare, il trauma della perquisizione corporale. Lo stesso potenziale controllo visivo continuo sottende la perdita totale, materiale e simbolica, dello “spazio per sé”. Eppure, uno spazio “per sé”, del corpo “per sé”, è fondamentale per “rimanere se stessi e se stesse”: condizione imprescindibile per intessere relazioni valide con l’altro da sé, a sua volta elemento chiave nel processo (costituzionalmente stabilito) di risocializzazione del condannato/a. L’approvazione rapida di questa legge segnerebbe un passo avanti di civiltà, oltre le specifiche norme; e sarebbe una prova di vitalità per la nostra democrazia parlamentare. “I tribunali sono luoghi di aggregazione, sono e devono restare vivi” di Simona Musco Il Dubbio, 4 novembre 2020 La “lectio” di Patroni Griffi, presidente del Consiglio di Stato. La mancanza di un’udienza in presenza come “frattura rispetto al mondo e al processo”, perché i Tribunali “sono anche luoghi di aggregazione e tali devono rimanere”. È questa la riflessione di Filippo Patroni Griffi, presidente del Consiglio di Stato, intervenuto al webinar organizzato dalla Corte di Cassazione lo scorso 28 ottobre sulla tutela dei diritti e organizzazione della giustizia nell’emergenza. Una riflessione lunga e articolata, che partendo dall’analisi della legislazione d’emergenza vira sulla Giustizia e sulla sua smaterializzazione, male necessario in un periodo, come quello attuale, in cui il diritto alla salute risulta fortemente compromesso. È necessario, dunque, accettare una limitazione al diritto all’oralità, caratteristica tipica del processo, non solo penale, ma anche amministrativo. Un’oralità che la seconda ondata di contagi sta nuovamente compromettendo, con il ritorno, anche se in forma limitata nel penale e più strutturata nel civile e nell’amministrativo, del processo da remoto. Ciò, afferma Patroni Griffi, “indurrà a un rallentamento, l’esperienza ci dice contenuto, dei tempi dei processi, accettabile nel contemperamento con il valore della salute”. Per il presidente del Consiglio di Stato, ciò a cui il legislatore dovrebbe pensare è “un’impostazione unitaria, considerando l’unitarietà della funzione giurisdizionale anche nei sistemi a giurisdizione duale come il nostro e pur nella considerazione delle peculiarità proprie dei vari processi nel panorama delle tutele”. Ma ciò che il processo da remoto fa venir meno, aggiunge, è quella che il giurista Giuseppe Chiovenda definiva la relazione di prossimità, trasformandosi, pertanto, in un “non-processo”. Perché il luogo dove si amministra giustizia “sono le aule dei tribunali, dove le udienze sono generalmente aperte al pubblico e la pubblicità non può essere garantita che con le udienze in presenza. Perché fare giurisdizione non è sbrigare una pratica burocratica o offrire servizi online”, aggiunge Patroni Griffi, e il processo in presenza serve anche ad evitare “quello che la Presidente emerita della Corte costituzionale, Marta Cartabia, ha definito “il confronto rigido attraverso lo schermo”. Ed ecco, dunque, la necessità di tornare in aula per celebrare i processi in presenza: renderli vivi e, assieme ad essi, rendere vive le aule di giustizia, rendendo “il processo “comune” a giudici e avvocati”. Ciò in virtù della “condivisione”, motivo per cui “il ritorno alla “normalità” sarà (e dovrà essere) il ritorno alla udienza in presenza”. La proposta di Patroni Griffi, in tal senso, è innovativa: consentire “l’accesso” al pubblico anche da remoto. Il principale problema riscontrato durante l’emergenza ha riguardato la compressione delle facoltà di discussione da parte dell’avvocato, con il rischio di far retrocedere il processo amministrativo “ad una mera procedura di ricorso”. In particolare quando, con il decreto “Cura Italia”, a marzo scorso, venne introdotto una sorta di “contraddittorio cartolare coatto”, attenuato solo dalla possibilità di presentare note di udienza. Una soluzione “non compatibile” con i principi costituzionali del contraddittorio e del diritto di agire in giudizio. Da qui si è arrivati alla “oralità mediata”. Il momento dialettico, afferma Patroni Griffi, è “sicuramente irrinunciabile”, non solo per le parti, ma per gli stessi giudici. In emergenza, “pienezza del contraddittorio e pubblicità dell’udienza possono subire delle attenuazioni”, purché “tali adattamenti del processo ordinario siano compatibili con il rispetto delle garanzie fondamentali”. In tal senso, “l’udienza telematica potrebbe continuare a rappresentare una soluzione temporanea che garantisce il giusto contemperamento degli interessi in gioco”. Anm, la sfida di Silvia Albano: una donna al vertice dell’associazione dei magistrati di Liana Milella La Repubblica, 4 novembre 2020 Dopo Elena Paciotti, potrebbe essere la seconda donna presidente del sindacato dei magistrati. Sabato la votazione. Si può tingere di rosa il vertice dell’Anm? Com’è successo per la Consulta con Marta Cartabia, per l’Avvocatura dello Stato con Gabriella Palmieri, per il vertice del Consiglio nazionale forense con Maria Masi, per la Cassazione, come presidente aggiunto, con Margherita Cassano. È accaduto ormai anche per giudicesse divenute prime donne nelle correnti, Anna Giorgetti, presidente di Autonomia e indipendenza (la corrente di Davigo) e Paola D’Ovidio, segretaria di Magistratura indipendente. Dunque, adesso, con una decisione collegiale, una donna potrebbe diventare anche il simbolo del sindacato delle toghe. Un nome c’è. È quello di Silvia Albano, 59 anni, giudice civile a Roma. Ha scritto lei il provvedimento sullo scambio di embrioni al Pertini. Si è occupata prima di famiglia, e oggi lavora sui diritti degli immigrati. È di Magistratura democratica, ma iscritta anche ad Area, il gruppo di sinistra che ha vinto le elezioni dell’Anm. Con 381 voti è arrivata seconda dopo il presidente uscente Luca Poniz. Sulla rivista Questione giustizia, l’houseorgan di Md diretto da Nello Rossi, ha appena scritto una lunga riflessione sull’Anm del dopo Palamara, e delle donne ha detto: “Il sapere femminile potrà avere un ruolo fondamentale nel percorso della nuova Anm. Non si tratta solo di valorizzare i ruoli delle donne nell’associazione, ma di valorizzare quel sapere femminile che deriva da una cultura che ha radici millenarie ove le donne, proprio perché escluse dal potere, hanno affinato la capacità di cura delle relazioni, l’ascolto dell’altro, l’accoglienza”. Nella ultracentenaria storia del sindacato dei giudici è accaduto finora una sola volta che una donna riuscisse a scalare il vertice. È riuscito a Elena Paciotti negli anni Novanta. Quando presidente della Repubblica era Oscar Luigi Scalfaro, e tra i due si stabilì un dialogo importante. Comunque stiamo parlando ormai del secolo scorso. Mentre nel frattempo una rivoluzione rosa ha investito la magistratura, visto che le donne ormai hanno superato i maschi. Su 9.787 giudici, sono 4.479 gli uomini e ben 5.308 le donne. Un andamento confermato dalle presenze femminili negli ultimi quattro concorsi, dove le donne appunto vanno sempre ben oltre il 50%. Un quadro numerico che trova la sua conferma nelle recenti elezioni del parlamentino dell’Anm votato a ottobre e di cui la metà esatta, 18 componenti su 36, sono donne. Un dato che chiaramente riflette la composizione attuale della magistratura, dove molte donne hanno anche raggiunto posizioni di vertice negli uffici. È praticamente certo che sabato 7 novembre - quando si riunirà per la prima volta il nuovo parlamentino dell’Anm - sarà messa sul piatto la soluzione su cui ormai si sta ragionando dall’esito del voto, avvenuto tra il 18 e il 20 ottobre. Una giunta unitaria, che veda assieme la corrente che ha vinto, Area, cui spetterebbe anche il, o la, presidente, assieme alla seconda classificata, Magistratura indipendente, seguite da Unicost e Autonomia e indipendenza. Gli stessi gruppi che, nel quadriennio 2016-2020, hanno gestito l’Anm con presidenze a rotazione di un anno ciascuna. Tranne l’ultima, per via dell’irrompere sulla scena dell’inchiesta di Perugia su Palamara. Dopo la presidenza di Piercamillo Davigo, ecco quella di Eugenio Albamonte di Area, pm a Roma, seguita un anno dopo da quella di Francesco Minisci di Unicost, anche lui pm a Rona. Poi si arriva al giudice civile di Genova Pasquale Grasso di Mi, oggi in bilico per un posto di consigliere del Csm, che però si dimette dopo neppure un mese criticato dagli altri gruppi che gli contestano di non aver reagito con la necessaria durezza allo scandalo Palamara che ha rischiato di travolgere il Csm ma anche l’Anm, e in cui Unicost e Mi avevano un ruolo di assoluti protagonisti. Si va così all’ultima giunta, quella presieduta da Luca Poniz, storica toga di Md e pm a Milano, che guida l’Anm fino al voto, poi rinviato da marzo a ottobre per via del Covid. E che vede le dimissioni proprio di Silvia Albano, poiché lei è convinta che la situazione della magistratura richieda un rinnovamento profondo, anche sindacale, per cui è necessario votare subito. Ma alla fine le toghe optano per una consultazione online che slitta a ottobre. E adesso che succede? Di nuovo tutti assieme, in un unanimismo correntizio che fa veleggiare una barca in cui chi sta sopra a volte si agita così tanto da rischiare di farla affondare? L’ipotesi di una possibile scissione dell’Anm, che pure aveva fatto capolino nel dibattito prima del voto, pare ormai decisamente accantonata. Silvia Albano la considera un’ipotesi del tutto irrealistica, nonché gravemente dannosa: “La dissoluzione dell’Anm sarebbe una tragedia non per i componenti dei suoi organi dirigenti o per chi vuole conquistare posizioni di potere e raccomandazioni. Per quello non serve l’Anm, bastano cordate, lobby, gruppi di potere più o meno occulti, dalle quali non c’è sorteggio o legge elettorale che ci metterebbe al riparo. L’Anm non è un nostro patrimonio, dei gruppi o delle persone che oggi compongono i suoi organi dirigenti, che possiamo permetterci di dissipare, ma è parte del sistema democratico di questo Paese”. Parole forti che però non dovrebbero convincere anche Articolo Centouno, il nuovo gruppo di Andrea Reale, che è riuscito ad aggiudicarsi lo stesso numero di consiglieri davighiani, ben quattro. Drastici nel chiedere il sorteggio per il Csm, Reale e i suoi hanno posto un aut aut, o accettate integralmente il nostro programma oppure restiamo fuori. Tutto lascia pensare che gli altri rispondano con un “no, grazie”, anche se questa scelta porterà a un continuo match che potrebbe soltanto giovare a Reale in vista del voto per il Csm nel 2022. Una “svolta etica” Albano è per l’unità sì, ma rifiuta gli aut aut. La sua linea è chiara: “La magistratura non può affrontare divisa una crisi che è forse la più grande nella storia repubblicana e rischia di sfociare in un assetto costituzionale molto diverso da quello che aveva delineato una giurisdizione effettivamente indipendente”. L’Anm deve esserci, superando l’appannamento della magistratura stessa che il caso Palamara ha prodotto perché - come scrive Albano - “non si può negare che nelle chat ci sia la traccia di un sistema nel quale, a diversi livelli, tutte le componenti erano a vario titolo coinvolte e sono ora chiamate a mettersi profondamente in discussione”. Lei è convinta però che “scelte coraggiose” siano possibili, con “una profonda autocritica da parte di tutti e la capacità di mettere in campo un progetto di rifondazione etica dell’associazionismo giudiziario”. Che Albano creda profondamente nel valore della stessa Anm è evidente quando dice: “L’Anm ha alle spalle una storia gloriosa: è stata non solo l’associazione che ha dovuto sciogliersi per il rifiuto di trasformarsi in un sindacato fascista, ma quella che nei tempi più bui e difficili, unitariamente, è riuscita a difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e ne ha conquistato l’assetto egualitario che conosciamo, disegnando un modello di ordine giudiziario conforme ai valori costituzionali”. Già, proprio quei valori che tanti colleghi in cerca di poltrone sembravano aver del tutto dimenticato. Palamara: “Adesso studio come riformare la giustizia” di Emilia Urso Anfuso Libero, 4 novembre 2020 Luca Palamara, 51 anni, è stato presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati nonché membro del Consiglio Superiore della Magistratura. È stato espulso dalla magistratura a seguito dello scandalo che lo ha coinvolto. È al centro di una vicenda complessa scoppiata in seno alla magistratura, e che ha trovato - almeno apparentemente - un solo protagonista, un unico colpevole: Luca Palamara. Eppure, basta scavare un poco tra le pieghe di questa storia per capire Che non ha senso urlare allo scandalo. In queste ore circola la storia della “manina” che avrebbe passato le carte ai giornali per far saltare le trattative sul nuovo vertice dei pm di Roma. Pare una spy story… “Non sta a me stabilire se esista o meno una “manina” che avrebbe passato le carte ai giornali con riferimento a fatti e notizie che riguardavano l’indagine nei miei confronti. Ciò che è certo è che anch’io sono interessato a comprendere come e perché determinate informazioni siano state divulgate e diffuse in maniera illecita”. Perché ciò che è considerato normale in politica non lo è all’interno della magistratura? “In questo momento, e sottolineo in questo momento, è stato più facile identificare nella mia persona l’unico autore degli accordi all’interno delle correnti. Ma ciò è accaduto perché non è mai stato spiegato il meccanismo attraverso il quale le correnti operano all’interno della magistratura stessa. Questo ha creato una sorta di diversità tra ciò che avviene in politica e ciò che avviene in magistratura. Intendo dire che, poiché mai stato reso pubblico il sistema delle nomine all’interno del Csm, quando si è iniziato a parlarne si è gridato allo scandalo. I cittadini conoscono il sistema delle nomine in politica e perciò non lo ritengono scandaloso”. Il Csm sembra non trovare pace anche sulla nomina in sostituzione del dimissionario Mancinetti... “Non ritengo di essere la persona più indicata a rispondere alla domanda. Posso dire ciò che penso: non si è raggiunto un accordo tra le correnti”. Di recente è entrato a far parte della Commissione sulla riforma della giustizia del Partito Radicale. Una giustizia giusta è possibile? “Per circa 25 anni ho operato all’interno della magistratura, e ho sempre seguito la linea dell’applicazione imparziale della legge. Avrò modo e occasione, spero, di dimostrare che mi sono sempre battuto per i principi di una giustizia giusta. Per questo motivo, ho ritenuto di voler mettere a disposizione l’esperienza della mia attività per chi si è sempre battuto per questi principi, anche se ho espresso nel corso degli anni diversità d’opinione e d’idee su determinate questioni. Però, poiché ritengo che il tema della giustizia molto importante per la vita dello Stato e dei cittadini, voglio mettere il mio bagaglio personale e professionale a disposizione di tutti”. È stato denominato “Il caso Palamara” ma sarebbe stato più corretto denominarlo “Il caso magistratura”. A un certo punto sembrava addirittura che la magistratura fosse composta di un solo elemento: lei. Mi sono fatta l’idea che tutto nasca dalla frattura tra Unicost e Magistratura democratica e la nuova alleanza con Magistratura indipendente. È così? “La mia storia politica e associativa è caratterizzata da un’alleanza tra la corrente di Unicost e le correnti della sinistra giudiziaria. Quando quest’alleanza si è affievolita, in special modo nell’ultimo periodo, in occasione della nomina del vice presidente Ermini, si è verificato uno scostamento maggiore verso l’area moderata, e sono iniziati a nascere problemi che a un certo punto hanno riguardato direttamente la mia persona”. Mi dica la verità: lei è più potente di quanto voglia far apparire? Perché tutto quest’accanimento contro di lei? Cosa può aver mai ordito che gli altri non potessero? “L’idea dell’uomo solo al comando non mi è mai piaciuta e non mi sono mai sentito tale. Sono stato semplicemente un magistrato che in una fase della sua vita ha fatto parte di un meccanismo, quello delle correnti, all’interno del quale, interfacciandomi con le altre, ho operato”. La cosa particolare è che lo scandalo non è scoppiato tanto all’interno della magistratura quanto a livello socio-politico. Ha scandalizzato gli italiani... “Ogni giorno ci sono giudici impegnati nei casi più svariati. Dall’ambito civile, come i divorzi, oppure che decidono di uno sfratto, o sono chiamati a giudicare un ladro o un truffatore. Ai cittadini va spiegato che il fatto che mi ha riguardato è interno alla magistratura, si riferisce alla gestione interna del potere, ma non intacca l’applicazione imparziale della legge. Questa situazione, quindi, non deve incrinare la fiducia che i cittadini ripongono nel sistema giudiziario”. Di recente si sono tenute le elezioni del comitato direttivo centrale: tonfo per Autonomia & Indipendenza, la corrente di Davigo, costretto però dai colleghi a lasciare la carica per decadenza a poche ore dal voto. Fatto fuori pure lui? “Davigo è stato tra i giudici che mi ha giudicato, e per tale motivo non mi esprimo su questo punto. Posso però dire che nemmeno io mi aspettavo che a distanza di pochi giorni dalla decisione che mi ha riguardato, egli sarebbe decaduto dal Csm. È però certo che la scorsa estate c’erano avvisaglie su quanto sarebbe accaduto”. Il giorno successivo all’esplosione dello scandalo sulle nomine, 5 consiglieri togati su 16 si sono dimessi e il Procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio in pensionamento forzato: un fuggi fuggi generale che potrebbe apparire come un’ammissione di colpe... “Ognuno risponde dei propri atteggiamenti e comportamenti, io rispondo per me stesso. Non voglio giudicare il comportamento degli altri”. Lei potrebbe tornare a breve a indossare la toga se le Sezioni Unite della Cassazione dovessero ammettere il suo ricorso... “Non demordo, utilizzerò tutti gli strumenti processuali che l’ordinamento mi mette a disposizione, facendo ricorso all’organo di ultima istanza, perché ho pieno interesse a far emergere tutta la verità su come sono andate le cose. Voglio anche far comprendere perché in quel periodo storico la corrente di sinistra della magistratura era fortemente ostica nei confronti del Procuratore Viola. Per tale motivo il ricorso sarà funzionale in attesa della decisione della sezione disciplinare, per continuare a far valere i miei diritti fino a che mi sarà possibile, passando per le Sezioni Unite e la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, per ristabilire la verità dei fatti. G8 di Genova, promossi i due poliziotti delle molotov alla Diaz di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 novembre 2020 La denuncia di Amnesty. Due funzionari di polizia condannati per fatti relativi al G8 di Genova del 2001 sono stati recentemente promossi a vicequestori. La notizia, fatta circolare lunedì da Amnesty International, ha immediatamente sollevato polemiche politiche. Pietro Troiani e Salvatore Gava parteciparono all’irruzione nella scuola Diaz la sera del 21 luglio. Il primo introdusse due molotov nell’edificio e il secondo ne accertò il “ritrovamento”. Per questo furono condannati a 3 anni e 8 mesi e all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Il 28 ottobre scorso la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il capo della polizia Franco Gabrielli li hanno promossi entrambi a vicequestori. I fatti della Diaz sono ricordati come la “macelleria messicana”. L’espressione fu utilizzata nel 2007 in un’aula di tribunale da Michelangelo Fournier, che partecipò all’irruzione come vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma. Quella notte nell’edificio dormivano manifestanti legati al Genoa Social Forum. L’operazione portò all’arresto di 93 persone. Di queste 63 finirono in ospedale. Tra loro c’era anche il giornalista inglese Mark Covell, che ci arrivò in coma. Il “ritrovamento” delle molotov servì a giustificare l’intervento, che si configurò come una vera e propria mattanza. Per quella vicenda la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia in due diverse occasioni, nel 2015 e 2017, stabilendo che le forze dell’ordine avevano commesso veri e propri atti di tortura. Il regista Daniele Vicari ha ricostruito l’episodio nel film-denuncia “Don’t Clean Up This Blood” (2012). “Desta sconcerto che funzionari di polizia condannati per violazioni dei diritti umani restino in servizio e, anzi, vengano promossi a ulteriori incarichi”, ha dichiarato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia. La decisione ha provocato reazioni tra gli esponenti di diversi partiti politici. “Lamorgese e Gabrielli revochino la promozione - ha detto il senatore del Movimento 5 Stelle Gianluca Ferrara - Chi è stato condannato per reati così gravi dovrebbe essere radiato”. Di “insulto allo stato di diritto e alle tante persone che hanno subito la brutale violenza poliziesca” ha parlato Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, partito che prese parte alle proteste. “Questa incomprensibile promozione non può che minare la fiducia già precaria verso lo Stato”, hanno scritto in una nota Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, dei Radicali italiani. Per il parlamentare di Liberi e Uguali Erasmo Palazzotto: “È grave che siano concesse promozioni e avanzamenti a membri delle forze dell’ordine già condannati per violazione dei diritti umani. Serve introdurre i codici identificativi per le forze dell’ordine”. L’esponente di LeU presenterà un’interrogazione parlamentare alla ministra Lamorgese. Liberazione condizionale a ergastolano ostativo: è la prima volta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 novembre 2020 Decisiva la sentenza della Consulta sulla retroattività della “spazza-corrotti”. Per la prima volta un ergastolano ostativo ha ottenuto la liberazione condizionale nonostante la sua mancata collaborazione con la giustizia. Una concessione che ha tenuto conto degli effetti della storica sentenza numero 32 della Corte costituzionale, quella sulla incostituzionalità degli effetti retroattivi della riforma “spazza-corrotti” voluta dal ministro Bonafede. Per essere più chiari. L’ergastolano, attualmente difeso dall’avvocato Michele Passione e Gianfranco Giunta, ha avuto una condanna per i delitti commessi nel 1990. Prima del 1992 - o meglio prima del decreto post strage di Capaci sul 4 bis che ha inasprito la formula originaria voluta da Falcone -, l’accesso ai benefici non era subordinata all’obbligo di collaborare con la giustizia. Quindi anche per i condannati ostativi vale il divieto di retroattività sancito dall’articolo 25 della Costituzione. Un concetto ribadito dalla Consulta nel dichiarare appunto incostituzionale la retroattività della legge “spazza-corrotti”. L’avvocato Passione, nell’istanza, ha fatto riferimento proprio a questo. Il magistrato di sorveglianza di Firenze, nel concedere il beneficio, ha preso in considerazione l’evoluzione giurisprudenziale sul tema della retroattività delle norme in materia di esecuzione penale. L’ergastolano ha commesso reati antecedenti alla data in vigore della disposizione che ha introdotto quei paletti (ora messi in discussione dalla recente sentenza della Consulta sul 4 bis) che rende inammissibile la concessione di taluni benefici, compresa la liberazione condizionale. L’ergastolano è detenuto fin dal 1993 per il duplice omicidio commesso al luglio del lontano 1990. Degno di nota - onde evitare le polemiche strumentalizzando le vittime - è il fatto che il condannato ha inviato una lettera di scuse nel 2018 ai familiari delle due persone uccise: costoro hanno risposto affermando sostanzialmente di accettarle e di non aver alcuna rivendicazione nei suoi confronti comprendendo il “contesto” in cui era avvenuto l’efferato delitto. Un contatto epistolare che il magistrato di sorveglianza stesso, ritiene umanamente significativo. L’ergastolano, fin dal 2011 ha cominciato a fruire dei permessi premio e dal 2016 il tribunale di Firenze lo ha ammesso alla misura di libertà visto che nel tempo - come si leggono nelle relazioni di sintesi - “ha consolidato atteggiamenti collaborativi ed autocritici nel rapportarsi e nella disamina articolata sulle circostanze correlate alla commissione del reato”. Non solo, nelle relazioni risulta verificata “l’assenza di pericolosità sociale, né elementi concreti in ordine al mantenimento di collegamenti con la criminalità organizzata”. D’altronde, lo stesso tribunale di sorveglianza di Firenze che gli ha concesso la liberazione condizionale, ha fatto i dovuti accertamenti. Infatti - scrive il giudice nell’ordinanza - “dalle informazioni dell’organo di polizia e del comitato prefettizio non emergono elementi concreti e specifici dai quali desume la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e/ o eversiva”. Il giudice ha anche potuto constatare che la relazione del gruppo di osservazione della casa circondariale “Mario Gozzini”, dà conto dell’impegno nell’attività lavorativa, cambiata nel corso del tempo. Tanti sono gli elementi che hanno permesso di ritenere che, sotto il profilo del sicuro ravvedimento, nel caso di specie ricorrono le condizioni per l’accoglimento dell’istanza, “considerata l’irreprensibile condotta, la piena revisione critica del fatto, il buon esito de permessi premio”. Resta sullo sfondo che tale ordinanza potrebbe aprire un varco per tutti gli ergastolani che sono stati condannati per delitti commessi prima del 1992. D’altronde ciò è cristallizzato nella sentenza della Consulta che si è dovuta pronunciare sulla riforma Bonafede. Ergastolano ostativo esce anche se non ha collaborato di Angela Stella Il Riformista, 4 novembre 2020 Il Tribunale di sorveglianza ha concesso la liberazione condizionale: la norma sul requisito della collaborazione non può essere retroattiva. È la prima volta. Ieri il Tribunale di Sorveglianza di Firenze (estensore Claudio Caretto, Presidente Marcello Bortolato) ha emesso una ordinanza in cui si concede per la prima volta la liberazione condizionale ad un ergastolano ostativo non collaborante. In base alla condanna ricevuta (reato ostativo) l’uomo non avrebbe potuto accedere al beneficio secondo l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario che richiede l’accertamento della collaborazione. Il detenuto non ha mai collaborato né ha ottenuto dichiarazione di collaborazione impossibile o inesigibile. Tuttavia il reato è stato commesso prima del 1992, anno in cui veniva introdotto il requisito della collaborazione; le sentenze 32/2020 e 193/2020 della Corte Costituzionale hanno però “statuito - si legge nell’ordinanza - il principio di irretroattività delle norme penali incriminatrici anche in relazione alle norme disciplinanti l’esecuzione penale quando queste abbiano natura giuridica più sostanziale che procedurale”, ossia quando incidono sulla pena. In particolare secondo la sentenza 32/2020 della Consulta, che aveva dichiarato l’incostituzionalità di parte della legge “spazza corrotti”, l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale è incompatibile con il principio di legalità delle pene. In pratica la collaborazione, per ottenere benefici, si deve richiedere soltanto a chi ha commesso reati dopo il 1992. Il caso da cui è scaturita l’ordinanza è quello di un detenuto condannato alla pena dell’ergastolo per delitti di associazione mafiosa, e duplice omicidio di stampo mafioso. e recluso dal 1993. Ha espiato più di 26 anni di carcere e dal 2011 ha cominciato a fruire di permessi premio, mentre nel 2016 è stato ammesso alla misura della semilibertà. Il detenuto, come si legge nella richiesta di liberazione condizionale, “si è laureato in architettura e iscritto a Filosofia, lavora con contratto a tempo indeterminato alle dipendenze di una cooperativa, nel 2018 si è messo in contatto con i parenti delle vittime del reato omicidiario”. Come ci spiega il suo legale, l’avvocato Michele Passione, “questa decisione è molto importante innanzitutto per i numerosi ergastolani ostativi ante decreto legge del 1992 perché apre la possibilità di accesso alla liberazione condizionale, fatta salva la valutazione nel merito degli stringenti requisiti dell’istituto e del loro comportamento e percorso trattamentale. Del resto di recente vi è stato un caso di rigetto. Questa decisione è diversa rispetto a quella che la Corte Costituzionale dovrà assumere tra qualche mese in merito alla concessione della liberazione condizionale per coloro i quali dopo il 1992 abbiano riportato condanne all’ergastolo ostativo e non abbiano prestato collaborazione”. Niente riciclaggio su somme restituite per false fatture di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2020 Non si configura il profitto del reato fiscale e manca la provenienza delittuosa Antonio Iorio La restituzione delle somme precedentemente pagate da parte di coloro che hanno ricevuto fatture false non configura il reato di riciclaggio in quanto tali importi non rappresentato il profitto del reato fiscale e quindi non possono considerarsi di provenienza delittuosa. A fornire questa indicazione è la Cassazione sezione 2 penale con la sentenza 30206/2020 depositata il 3o ottobre. Il giudice per l’udienza preliminare emetteva sentenza di proscioglimento nei confronti di alcune persone imputate di riciclaggio e reimpiego (articoli 648-bis e 648-ter del Codice penale). La contestazione traeva origine da alcuni assegni che un coimputato accusato di avere emesso fatture inesistenti consegnava agli imputati a giustificazione degli importi fittizi. Secondo il giudice tali somme non costituivano il profitto del reato fiscale, che doveva invece essere individuato nel risparmio di imposta. Pertanto le condotte di “gestione” di tali assegni (riconsegna tramite girata o sostituzione con assegni circolari) non potevano integrare i reati di riciclaggio e reimpiego, dato che tali illeciti avrebbero dovuto avere come oggetto il “profitto” del reato fiscale. La sentenza veniva impugnata dal pubblico ministero che non contesta nel solo risparmio di imposta nel profitto dei reati fiscali, tuttavia riteneva legittimo l’inquadramento giuridico ipotizzato dalla Procura essendo innegabile l’ausilio fornito dagli imputati alla consumazione degli illeciti tributari. La Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso. Secondo i giudici è incontestato che il profitto del reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di false fatture (articolo 2 del Dlgs 74 del 2000) sia costituito dal risparmio di imposta e, segnatamente dall’utilità che si ricava dalla indicazione di tali fatture nella dichiarazione. Non costituiscono invece il profitto le somme fittiziamente fatte pervenire per dare parvenza di effettività all’emissione di fatture per operazioni inesistenti. Di conseguenza, non trattandosi di somme di provenienza delittuosa, non è configurabile il reato di riciclaggio La sentenza evidenzia poi che si tratta di un orientamento consolidato anche attraverso la pronuncia (Cassazione 41499/2013) secondo la quale non integra il delitto di riciclaggio l’operazione consistita nel versamento sul proprio conto corrente di un assegno bancario giustificativo del pagamento di una fattura ed il successivo prelievo di una parte della somma versata con la restituzione all’emittente il titolo, funzionale ad ostacolare l’identificazione del delitto di fatture per operazioni inesistenti. La Corte ha così rilevato la carenza del presupposto per ritenere configurabile il delitto di riciclaggio e cioè la provenienza da delitto del denaro versato sul conto. Nella specie le condotte contestate non si risolvevano nella manipolazione del profitto a fini di dissimulazione o di reimpiego (articoli 648-bis e 648-ter del Codice penale), essendo piuttosto funzionali a consentire la consumazione del reato previsto dall’articolo 2 del Dlgs 74 del 2000. In astratto, sarebbe stato quindi ipotizzabile un concorso nel reato di dichiarazione fraudolenta da escludere nella vicenda in esame stante il decorso del termine di prescrizione. Piemonte. Garante dei detenuti: “Il Covid corre anche in carcere, necessarie azioni urgenti” atnews.it, 4 novembre 2020 Ad Asti un operatore positivo, focolaio ad Alessandria e contagiati anche 2 bambini e una mamma all’Icam di Torino. Si inseguono voci sui crescenti contagi nel mondo penitenziario. Anche il Garante dei detenuti della Regione Piemonte, per avere un quadro realistico, cerca di raccogliere i dati da varie fonti: una fonte - rilanciata dai social - della Uil-Pa Polizia Penitenziaria riferisce che oggi i positivi sarebbero 395 detenuti e 424 lavoratori (agenti e operatori vari). I detenuti positivi sarebbero concentrati in 53 dei 189 istituti penitenziario per adulti presenti in Italia, mentre i positivi tra gli operatori sarebbero distribuito un po’ovunque nel Paese. I dati sono confermati dal Garante nazionale che nel suo “Il punto”, newsletter bisettimanale registra che “il numero dei positivi è più che raddoppiato” dal 28 ottobre (quando erano circa 150 detenuti e circa 200 operatori) al 3 novembre. In Piemonte (fonte PRAP) al 30.10.20 risultavano positivi 28 agenti/operatori: 9 Alessandria Don Soria, 1 Alessandria San Michele, 1 a Ivrea, 2 a Novara, 3 a Saluzzo 10 a Torino 1 a Vercelli e 1 ad Asti. I detenuti piemontesi positivi secondo i dati di venerdì 30 ottobre erano anche essi 28, la stragrande maggioranza (26) ad Alessandria Don Soria, mentre 2 a Torino. Alla Casa circondariale di Alessandria Don Soria purtroppo si è registrato un decesso, il secondo in Italia dall’inizio della seconda fase della pandemia (detenuto italiano di 71 anni con patologie pregresse morto sabato scorso presso la Clinica “Salus”, dopo una degenza in Ospedale). La situazione alessandrina è alla ribalta delle cronache nazionali ed è stata attenzionata anche dal Garante Nazionale che scrive, nel suo ultimo report: “Più problematiche appaiono quelle dove a partire da un singolo caso si è realizzata una rapida diffusione: è stata riportata anche dalla stampa la situazione della Casa circondariale di Alessandria, dove si è registrato il decesso di una persona e una espansione a più del 14% della complessiva popolazione detenuta (29 casi su 199 persone ristrette)”. I dati sui contagi nella Casa di Reclusione di Saluzzo sono però, nel frattempo, diventati di 8 agenti contagiati, mentre per ora i detenuti sono stati risparmiati. Il Garante Nazionale ricorda come “in questo contesto, gli isolamenti precauzionali, doverosamente attuati per coloro che entrano in carcere, incidono numericamente in maniera consistente - oggi quelli in stanza singola sono ben quasi mille - e anch’essi vanno considerati nel valutare l’efficacia concreta che i provvedimenti adottati potranno avere […] il dato nazionale di questi giorni nel Paese indica una percentuale di 16,5 positività per ogni cento persone testate”. I dati aggiornati all’ultima ora però aumentano anche i casi di Torino a 4 detenuti dell’Alta Sicurezza, dove continuano ad essere contagiati dal virus anche 1 mamma e 2 bambini minori all’Icam (Istituto a Custodia Attenuata per mamme con bambini).Quest’ultimo allarmante dato e la morte del detenuto ad Alessandria riportano alla ribalta la necessità di provvedere quanto prima a rendere possibile l’esecuzione penale esterna per tutti quelli che già ne hanno diritto e per tutti coloro che rientrano nelle fasce deboli a rischio (anziani, persone con pluripatologie, diabetici, affetti da problemi polmonari o alle vie respiratorie, ecc). Infine appare urgente ed improrogabile la verifica di soluzioni alternative al carcere almeno per le mamme con bambini, nell’attesa di un intervento mirato per la piena applicazione della legge 62/2011: realizzazione di una rete di Case Famiglia per mamme in esecuzione penale con figli al seguito. Napoli. “Ora svuotate le carceri”, l’appello della Camera penale di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 4 novembre 2020 Il tribunale di sorveglianza incrementerà i permessi. È urgente ridurre il più possibile il numero delle persone detenute in carcere: è questo l’appello che rivolgono ai capi degli uffici giudiziari la Camera penale di Napoli e la Onlus “Il carcere possibile”. Gli avvocati si rivolgono anche “a tutte le forze politiche affinché, in sede di conversione del decreto, vengano ampliate e mutale le condizioni di accesso alla misura della detenzione domiciliare”. Il documento è stato elaborato dopo l’incontro di lunedì scorso con il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria cui erano presenti anche il presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, il garante regionale per le persone private della libertà personale, i direttori dei tre istituti napoletani di Poggioreale, Secondigliano e Pozzuoli e l’associazione “Antigone”. “Nel corso della riunione - si legge nella nota - si è appreso che negli istituti penitenziari di Napoli si stanno sottoponendo a tampone tutti i detenuti e tutto il personale sanitario e di polizia penitenziaria. Ad oggi sono stati eseguiti già 300 tamponi nel carcere di Poggioreale e nei prossimi giorni verranno eseguiti tamponi, a tappeto anche nell’istituto di Secondigliano. Dalle verifiche sanitarie effettuate è emerso che il virus ha già varcato le porte del carcere e, pur essendo la situazione ad oggi ancora sotto controllo, in ragione del numero contenuto dei contagiati (circa 20), è ormai indispensabile - ritengono i penalisti - agire con la massima celerità affinché gli istituti possano disporre di spazi da destinare all’isolamento sanitario dei casi sospetti e dei detenuti risultati positivi. Spazi allo stato sostanzialmente assenti, a causa delle gravi condizioni di sovraffollamento in cui si trovano in particolare gli istituti di Poggioreale e Secondigliano”. Qualcosa si muove: il presidente del Tribunale di Sorveglianza, Adriana Pangia, ha riferito che saranno concesse le licenze necessarie a consentire ai detenuti in semilibertà di poter restare a dormire presso le proprie abitazioni fino al 30 novembre, con provvedimento eventualmente prorogabile almeno fino al 31 dicembre. Questa disposizione consentirà di utilizzare, ai fini dell’isolamento, gli spazi detentivi riservati ai semiliberi. Tuttavia, denunciano Camera penale e Onlus, è ancora troppo poco: “A causa delle numerose condizioni ostative all’accesso alla detenzione domiciliare per coloro che devono espiare pene o residui di pena non superiori a 18 mesi, risulta particolarmente contenuto il numero di detenuti che potranno beneficiare della misura alternativa alla detenzione (ad una prima analisi certamente inferiore a circa 250 detenuti per tutti e tre gli istituti cittadini)”. Si ripresenta poi un vecchio problema legato alla detenzione domiciliare: “Senza contare - si legge ancora nel documento - che la previsione dell’obbligo dell’utilizzo dei braccialetti elettronici per i detenuti con pene da scontare superiori a sei mesi, in quanto da sempre disponibili in numero ampiamente insufficiente, costituirà un’ ulteriore condizione di estrema difficoltà di accesso alla misura e produrrà un significativo allungamento dei tempi per la sua concreta applicazione; tempi del tutto incompatibili con l’attuale situazione emergenziale”. Milano. La denuncia dei penalisti: “Sistemi non adeguati e rischio contagi nelle carceri” Il Dubbio, 4 novembre 2020 La Camera penale scrive al ministro Bonafede: “Tribunale di Sorveglianza in sovraccarico”. “Il Tribunale di Sorveglianza di Milano in questo momento più di altri deve poter continuare a funzionare, anzi dovrebbe essere ancora più efficiente di prima”, perché “deve farsi carico di tutte le decisioni che s’impongono con urgenza in ragione dell’effetto dirompente che può avere il rischio pandemico” nelle carceri. I problemi che si stanno verificando alla Sorveglianza sono uno dei temi affrontati dagli avvocati della Camera penale di Milano in una lettera al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il Tribunale di Sorveglianza milanese, spiegano i penalisti, “ha un enorme carico di attività da gestire. L’arretrato è sempre stato significativo, tant’è che ad esempio l’esecuzione delle pene sospese, per le quali soggetti liberi abbiano chiesto di fruire di misure alternative, sopraggiunge dopo diversi anni”. Oggi, aggiungono, “la situazione rischia di peggiorare ulteriormente”. E ancora: “Da quel che abbiamo appreso dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza i sistemi informatici di tale Ufficio appaiono non adeguati per affrontare l’emergenza”. Appare anche “necessario dotare il Tribunale di Sorveglianza di Milano di ulteriori aule di udienza, adeguatamente attrezzate (anche per le videoconferenze), in modo da consentire la prosecuzione della sua indispensabile attività, in un periodo in cui il rischio di contagio in carcere va scongiurato con ogni strumento”. I legali nella lettera apprezzano il recente decreto che ha portato alla “introduzione dello strumento telematico per il deposito degli atti da parte dei difensori nei processi penali”. È indispensabile, però, “che i funzionari di cancelleria e segreteria possano collegarsi ai sistemi” anche “da remoto, perché altrimenti il rischio di paralisi del sistema amministrazione della Giustizia diviene altissimo”. Milano. Il Covid è arrivato anche al 41bis: due detenuti contagiati a Opera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 novembre 2020 Il Covid 19, per la prima volta dall’inizio della pandemia, è entrato nel 41bis. Non è accaduto durante la prima ondata, ma ora il coronavirus circola così tanto all’interno dei penitenziari che - secondo fonti interne de Il Dubbio - ha contagiato almeno due reclusi al 41bis del carcere milanese di Opera, ma il numero potrebbe essere maggiore. Un detenuto che non presenta particolari sintomi è rimasto al carcere duro, mentre l’altro è stato trasferito in ospedale. Dopodiché ci sono decine di detenuti in attesa di tamponi e messi in isolamento precauzionale. I casi precedenti, quelli conclamati, sono stati invece trasferiti nel reparto Covid del carcere di San Vittore. Ricordiamo che l’epidemia ha richiesto l’applicazione di misure particolarmente stringenti anche sulla popolazione detenuta, allo scopo di contenere l’espandersi del contagio in una comunità ad alto rischio quale è quella del carcere. La Asst Santi Paolo e Carlo, in collaborazione con Regione Lombardia e Amministrazione Penitenziaria, a maggio scorso ha predisposto un reparto attrezzato per la cura del Covid-19 presso l’Istituto di San Vittore, creando a supporto, presso l’Istituto di Bollate, anche un reparto per i casi più leggeri, asintomatici o convalescenti. Secondo l’ultimo aggiornamento, oramai relativo a due giorni fa, risulta che nel reparto attrezzato di San Vittore ci siano circa 82 detenuti in cura, mentre al reparto di Bollate ce ne sono 45. Fondamentale i due reparti attrezzati, in maniera tale che si possa prestare un’assistenza al livello ospedaliero a tutti i pazienti detenuto positivi. Ma il virus oramai galoppa nei penitenziari e, com’è detto, per la prima volta dall’inizio della pandemia vengono colpiti anche i reclusi al 41bis. Quindi ha avuto ragione il giudice di sorveglianza di Sassari Riccardo De Vito, quando in un provvedimento lungo otto pagine aveva disposto la detenzione domiciliare per Pasquale Zagaria, malato di tumore, sottolineando tra le altre cose che “sotto questo profilo occorre rilevare che benché il detenuto sia sottoposto a regime differenziato e dunque allocato in cella singola, ben potrebbe essere esposto a contagio in tutti i casi di contatto con personale della polizia penitenziaria e degli staff civili che ogni giorno entrano ed escono dal carcere”. A differenza di altri magistrati di sorveglianza che, per motivare il diniego delle istanze, hanno sottolineato il fatto che essere ristretto in regime di 41bis e quindi in celle singole e con tutte le limitazioni del regime differenziato, c’è protezione dal rischio di contagio. La notizia del contagio al 41bis non è riassicurante, soprattutto per tutti quei detenuti - se pensiamo al carcere di Parma - ultraottantenni e malati che sono già di per sé a rischio vita. Il pensiero non può non andare all’ottantenne Raffaele Cutolo, tumulato nel carcere duro fin dal 1992, con uno stato patologico conclamato. Più volte è stato mandato urgentemente in ospedale, per poi riportarlo al 41bis. Situazione come le sue, non sono però nemmeno una eccezione. Un problema diffuso e a questo si aggiunge il Covid che è sempre in agguato e può essere letale per chi è anziano e malato. D’altronde, dall’inizio della seconda ondata, sono già due i detenuti morti dopo aver contratto il virus. Parliamo di un ergastolano al carcere di Livorno e di un detenuto comune alla casa circondariale di Alessandria. Entrambi erano anziani e malati. E le misure adottate dal decreto Ristori non bastano. I contagiati continuano ad aumentare sia tra i detenuti che tra il personale penitenziario. A dirlo è il Garante nazionale delle persone private della libertà tramite il suo bollettino quotidiano. Ha infatti sottolineato che “il contagio, intanto, così come all’esterno, ha un suo ritmo che non è in sincronia con quello della attuazione di ciò che il decreto legge ha previsto”. Per questo il Garante avanzerà in sede di conversione la proposta che sia previsto per il 2020- 2021 un ampliamento della liberazione anticipata, così come fatto in passato, peraltro allora per un periodo di tempo ben più ampio (cinque anni). Proporrà, inoltre, che per pene detentive di una contenuta fascia, divenute definitive nei confronti di persone attualmente in libertà, sia rinviata l’emissione dell’ordine di esecuzione. Alessandria. Covid: focolaio nel carcere, contagiati una trentina di detenuti di Sarah Martinenghi La Repubblica, 4 novembre 2020 Allarme del Garante dei detenuti: “C’è stato anche un decesso”. Positivi in Piemonte anche 36 agenti di custodia. Sono 29 i detenuti positivi al Covid ad Alessandria, dove sabato si è registrato anche un decesso: si tratta di un italiano di 71 anni che aveva patologie pregresse e dall’istituto penitenziario Don Soria era stato trasferito alla clinica Salus. Altri detenuti positivi sono al carcere delle Vallette: secondo il garante dei detenuti sarebbero almeno 4, e desta preoccupazione il blocco “A”, quello di massima sicurezza, dove ora sono stati sottoposti a tampone anche diversi altri reclusi. Sono stati contagiati dal virus anche una mamma e due bambini che si trovano all’Icam 8 l’istituto a custodia attenuata per le mamme con figli piccoli). “Quest’ultimo allarmante dato e la morte del detenuto ad Alessandria riportano alla ribalta la necessità di provvedere quanto prima a rendere possibile l’esecuzione penale esterna per tutti quelli che già ne hanno diritto e per tutti coloro che rientrano nelle fasce deboli a rischio (anziani, persone con pluripatologie, diabetici, affetti da problemi polmonari o alle vie respiratorie, ecc.) - è il commento del garante dei detenuti Bruno Mellano - Infine appare urgente ed improrogabile la verifica di soluzioni alternative al carcere almeno per le mamme con bambini”. Crescono anche i numeri dei contagi tra gli agenti di polizia penitenziaria: 36 in totale. Così ripartiti: 9 ad Alessandria Don Soria, 1 Alessandria San Michele, 1 a Ivrea, 2 a Novara, 3 a Saluzzo 10 a Torino, 1 a Vercelli, e 1 ad Asti. Mentre nella Casa di reclusione di Saluzzo sono diventati di 8 gli agenti positivi, mentre per ora i detenuti sono stati risparmiati. Ascoli. Allenamenti con istruttori qualificati: “Tutti in forma” nel carcere di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 4 novembre 2020 L’attività fisica con fini trattamentali è lo scopo del progetto “Tutti in forma”, promosso dalla casa circondariale di Ascoli Piceno. Per alcuni giorni a settimana i detenuti possono allenarsi, rigenerando fisico e mente, con il coordinamento di istruttori qualificati. “L’iniziativa prende il via da un accordo con il Centro Sportivo Italiano - spiega Eleonora Consoli, direttrice dell’istituto di pena - con cui è stata stipulata una convenzione. Un istruttore del C.S.I. si reca presso la nostra struttura due volte a settimana. All’interno del campo sportivo vengono svolti gli incontri con i detenuti”. Il programma di allenamenti sta riscuotendo successo. “I detenuti - afferma la direttrice - che partecipano alle attività sono circa quaranta e gli incontri durano almeno un’ora”. Buone notizie anche da un punto di vista trattamentale: “Abbiamo avuto riscontri ottimi, - continua Consoli - giacché abbiamo rilevato una diminuzione dell’utilizzo della terapia farmacologica, in particolare per i detenuti psichiatrici. Chiaramente, vanno considerati anche tutti i benefici che l’attività all’aria aperta comporta”. “L’attività non ha al momento un temine di decadenza - conclude Eleonora Consoli -. La nostra intenzione, visti i risultati, è andare avanti quanto più possibile”. Lecce. Le mamme detenute protagoniste della “Filastrocca delle mani” bonculture.it, 4 novembre 2020 Alcune mamme detenute nella Casa circondariale Borgo San Nicola di Lecce sono le protagoniste di “Filastrocca delle mani”, nata da un laboratorio curato dall’associazione Fermenti Lattici per Storie cucite a mano, progetto triennale selezionato dall’impresa sociale Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, che coinvolge anche le città di Moncalieri e Roma. Gli incontri sono stati ideati con lo scopo di preservare il legame genitoriale anche in questi tempi difficili in cui genitori e figli sono, purtroppo, distanti. Questa “Filastrocca delle mani” insegna quali sono i comportamenti da adottare per proteggerci dal Covid19 e lo fa con le parole e i gesti premurosi delle mamme e con quel carico d’amore che resta inalterato anche quando si è lontani. Grazie a Storie cucite a mano, l’associazione Fermenti Lattici ha proseguito il lavoro già avviato nel carcere di Lecce con il progetto “Giallo, rosso e blu - I bambini colorano Borgo San Nicola” sostenuto da “Infanzia Prima”, promosso da Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione con il Sud, e grazie alla collaborazione e al sostegno con il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Puglia. Attraverso attività ed eventi, da alcuni anni vengono coinvolti in maniera attiva bambini, genitori detenuti e liberi, accompagnatori. La Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti (Roma, 6 settembre 2016 - Ministero di Giustizia), alla quale il progetto aderisce, riconosce formalmente il diritto dei minori alla continuità del proprio legame affettivo con il proprio genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità dei detenuti. La condizione di svantaggio, che a Lecce riguarda circa 250 bambini che non hanno la possibilità di instaurare un rapporto quotidiano con il genitore, costruire ricordi e condividere un’esperienza gratificante con la propria famiglia, è ancora più complessa da qualche mese a causa della pandemia da Covid19. Al momento tutte le attività previste in carcere da Storie cucite a mano sono state sospese in presenza e rimodulate in versione “online” come lo sportello d’ascolto psicologico a cura di Psy Psicologia e Psicoterapia cognitiva integrata e i laboratori che coinvolgono minori e detenuti. Il progetto Storie Cucite a Mano - coordinato dalla Cooperativa Sociale Educazione Progetto di Torino (capofila), dall’Associazione 21 luglio Onlus di Roma e da Fermenti Lattici di Lecce, con il monitoraggio della Fondazione Emanuela Zancan e la comunicazione a cura della Cooperativa Coolclub - è stato selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e coinvolge numerosi partner nei vari territori. Oltre alle amministrazioni comunali di Moncalieri e Lecce e all’Unione dei Comuni di Moncalieri, Trofarello e La Loggia, il progetto vede tra i partner Associazione Teatrulla, Cooperativa Sociale Pier Giorgio Frassati, Istituto Comprensivo Statale “Santa Maria” (Moncalieri), ABCittà società cooperativa sociale onlus, Associazione Garofoli/Nexus, Digiconsum, Istituto Comprensivo Giovanni Palombini, Fondazione per l’educazione finanziaria e al risparmio, In.F.O.L Innovazione formazione orientamento e lavoro (Roma), Casa Circondariale “Borgo San Nicola” di Lecce, ABCittà, Istituto Comprensivo “P. Stomeo - G. Zimbalo”, Principio Attivo Teatro, Psy Psicologia e Psicoterapia cognitiva integrata (Lecce). Il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile nasce da un’intesa tra le Fondazioni di origine bancaria rappresentate da Acri, il Forum Nazionale del Terzo Settore e il Governo. Sostiene interventi finalizzati a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori. Per attuare i programmi del Fondo, a giugno 2016 è nata l’impresa sociale Con i Bambini, organizzazione senza scopo di lucro interamente partecipata dalla Fondazione Con il Sud. Info su www.conibambini.org. Flick: “Il virus non è l’alibi per Dpcm ai limiti della Costituzione” di Errico Novi Il Dubbio, 4 novembre 2020 Parla il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick: “I divieti anti-covid sono legittimi per decreto legge, non con i Dpcm”. Non serba acredine verso l’onorevole Borghi, “non foss’altro perché è anche lui un collega e si è per giunta laureato alla Cattolica come il sottoscritto”. Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick viene importunato dal Dubbio sulla boutade iperbolica del deputato leghista, fiduciario di Salvini per l’economia: “Il diritto al lavoro”, ha detto l’altro ieri Borghi, “dovrebbe essere prioritario persino rispetto al diritto alla salute: viene anche prima, nella sequenza di articoli della Costituzione”. Paradosso o cantonata non ha importanza: da lei, presidente Flick, ci si poteva aspettare una bella bacchettata sulle dita... “E invece l’onorevole autore di quella frase ha il dovere di conoscere la sua materia, che mi pare sia l’economia, ma non l’obbligo di competenza sulle sentenze della Corte costituzionale. Gli economisti non sono tenuti a conoscere le pronunce con cui la Consulta scioglie il presunto conflitto fra i principi nell’equilibrio tra i diversi interessi, nel necessario bilanciamento che non consente la “tirannia di un diritto sull’altro”. Però Flick, cortesia a parte, va oltre. Approfitta del caso per evocare una splendida verità della nostra Carta: “La gerarchia, se c’è, non si riflette nell’ordine degli articoli ma nelle diverse garanzie poste a presidio dei diversi principi”. Cioè, ci sono “beni” che la Costituzione tutela di più? Come accennato, la Consulta, con due pronunce sull’Ilva, ha ribadito che non può esserci alcuna tirannide esercitata da qualche diritto sugli altri. È vero che il diritto alla salute è il solo al quale i costituenti abbiano accostato l’aggettivo “fondamentale”. Allo stesso modo è vero che esiste un’altra distinzione, che riguarda i diversi limiti previsti per la libertà personale da un lato e per libertà come quella di circolazione dell’altro. Ebbene, la limitazione della libertà personale è presidiata da una duplice garanzia: la legge e il giudice verifica se vi siano le condizioni per applicarla in concreto. Quindi la libertà di circolazione, per esempio, può essere sottoposta a compressioni più disinvolte, come avviene a causa del covid? Un momento: non ci sarà la garanzia del giudice, ma quella della legge sì. Mentre nella contingenza attuale siamo di fronte a limitazioni sistematicamente imposte, e in un primo momento sanzionate, non per legge ma con provvedimenti regolatòri del governo, a volte difficilmente comprensibili. E invece la possibilità di comprendere le norme è essenziale per la democrazia, oltre che per giustificare un’eventuale sanzione. I Dpcm? I Dpcm appunto. Siamo ai confini della Costituzione. Si può limitare la libertà, anche in nome del fondamentale diritto alla salute, ma a condizione che le limitazioni avvengano attraverso un provvedimento avente forza di legge. Un decreto legge? Certo. Un provvedimento che, seppur assunto in via emergenziale dal governo, deve essere sottoposto al controllo del Parlamento, e non in modo soltanto formale. Presidente Flick, non è la prima volta che contesta la plausibilità dei Dpcm come strumento di limitazione delle libertà. Però lei dice che il discorso si incrocia eccome con la cosiddetta gerarchia dei principi costituzionali. Ci spiega perché? Lei usa la parola gerarchia. Io no. È bene ricordare, soprattutto da parte di un tecnico della materia, cosa c’è scritto in due importanti pronunce della Corte costituzionale. Entrambe riguardanti l’Ilva di Taranto. La prima è la sentenza numero 85 del 2013. Contiene innanzitutto un elemento chiarificatore sul diritto al lavoro: si configura il lavoro con riferimento all’opportunità che lo Stato deve adoperarsi a favorire con tutti gli sforzi possibili. Non nel senso che si debba provvedere a procurare a ciascun cittadino un certo lavoro anziché un altro, ma in termini di massimo impegno a creare le condizioni che determinano occasioni di lavoro per tutti. Insieme con una pronuncia più recente, del 2018, la sentenza del 2013 ricorda però che nessun diritto costituzionalmente tutelato può essere tirannico rispetto agli altri. Va sempre conseguito il miglior bilanciamento possibile fra i diversi beni giuridici richiamati nella Carta, che possono anche essere diversi tra loro. Non in conflitto: nel senso che il potere legislativo, il potere esecutivo, il giudice, devono trovare sempre l’equilibrio in grado di risolvere il potenziale conflitto in un ragionevole contemperamento degli interessi. Ciascuno per la parte di sua competenza. Inutile dire che col bilanciamento non c’entra nulla l’ordine sequenziale degli articoli della Carta... Ha ragione, non foss’altro perché il diritto al lavoro, inteso nel senso ricordato dalle sentenze costituzionali, ricorre non solo nell’articolo 4, come diritto e dovere, ma anche più avanti, negli articoli 35 e seguenti. All’articolo 36 per esempio, si precisa che al lavoratore spetta sempre una retribuzione in grado di assicura- re un’esistenza dignitosa a lui e alla sua famiglia. Ma ripeto, immagino che con la frase sull’ordine degli articoli si volesse dare enfasi a un certo discorso. Borghi voleva sostenere che le limitazioni imposte per ragioni sanitarie non possono prevaricare il diritto al lavoro... La salute, tutelata all’articolo 32, è come detto il solo bene giuridico che la Costituzione qualifichi al punto da definirlo “fondamentale”. Diritto alla salute che si concretizza anche nel divieto di sottoporre una persona a trattamenti sanitari contro la sua volontà. Ma il diritto alla salute va inteso anche nel senso che il bene di ciascuno deve specchiarsi nel diritto alla salute di ciascun altro. Il che può anche tradursi in limitazioni della libertà. Come la vaccinazione o l’obbligo di indossare la mascherina, in quanto espressioni del dovere inderogabile di solidarietà sociale. Ecco: allora le limitazioni anti contagio sono legittime? Qui ci soccorre la distinzione di cui pure ho fatto cenno all’inizio. C’è da una parte la libertà personale, la prima libertà, a cui la Costituzione assegna una doppia garanzia: può essere limitata solo sulla base di norme stabilite per legge e, in più, solo quando vi sia il provvedimento di un giudice. Il secondo presupposto è indispensabile: il giudice deve verificare che nel caso specifico ricorrano effettivamente le condizioni previste da una legge per limitare la libertà personale. Riguardo le limitazioni di altre libertà, come quella di circolazione, sancita all’articolo 16, non c’è bisogno che un giudice si pronunci ma c’è comunque bisogno di una legge. E tale legge, afferma proprio l’articolo 16, può introdurre limiti solo per ragioni di sicurezza o, guarda un po’, di sanità. Vuol dire che le restrizioni anti covid vanno introdotte solo con atti aventi forza di legge oppure sono fuori dalla Costituzione? Evidentemente non si può andare contro la Costituzione. Se da essa discende una riduzione di libertà di circolazione per cause di sanità o sicurezza possibile solo se introdotta per legge, c’è poco da fare: vista l’urgenza di casi come la drammatica pandemia in cui siamo, si deve ricorrere allo strumento previsto dalla Costituzione per legiferare in condizioni di necessità e urgenza, cioè il decreto legge. Semplice. Le obietteranno: se dobbiamo modificare ogni settimana quelle restrizioni, il ricorso a decreti legge seriali paralizzerebbe il Parlamento e le restrizioni stesse... No, mi spiace. Se non si distorce lo strumento normativo, se in fase di conversione non si introducono milioni di postille e di modifiche, sarà un impegno sì gravoso, ma tollerabile. Facciamolo pure lavorare, il Parlamento. La democrazia lo prevede. Il punto casomai è un altro. Quale altro? La zona grigia fra libertà personale e libertà di circolazione. Attenti. Non si può arrivare a proibire che all’interno di un domicilio si siedano a tavola più di 6 commensali. Né si può pretendere che quei commensali siano tutti uniti da un legame stretto, qualunque cosa questo significhi. Sarebbe una limitazione della libertà personale. Servirebbe dunque non solo una legge ma anche un giudice che emetta un provvedimento. Vede, limitare la libertà personale significa sottoporre un individuo al pieno potere dell’altro. Entra in gioco un’infrazione della dignità della singola persona. Ecco perché la Carta richiede la doppia garanzia sopra ricordata. Si tratta di realizzare un atto coercitivo. La libertà di movimento invece non chiama in causa la dignità, perché la sua limitazione può dare luogo a un obbligo, non a una coercizione nei confronti del singolo individuo. Se chiudo una strada o un’area del territorio nazionale, impongo una restrizione a una molteplicità di soggetti. La dignità personale dunque non è chiamata in causa. Ma allo stesso modo non si può adottare un atto coercitivo per far osservare il divieto di circolazione. Non c’è un giudice, dietro, ad autorizzarlo. Però mi lasci evocare un’ultima amnesia. Ce ne sono davvero troppe... Riguarda i detenuti. In un contesto in cui imponiamo restrizioni per impedire il contatto fra le persone, costringiamo in una condizione opposta la sola categoria dei reclusi. Costretti all’assembramento, se così si può dire. Siamo ai limiti del costituzionalmente tollerabile, come ricordo in un libro da poco alle stampe. E siamo stati finora fortunati. Ci è andata bene. Di contagi nelle carceri ce ne sono stati pochi. Ma non sfidiamo oltre il destino, per piacere. Politica e diritto: invasioni di campo e lo stordimento di chi è escluso dal gioco di Fabrizio Borasi* Il Dubbio, 4 novembre 2020 La giudiziarizzazione della politica, cioè la crescente ingerenza da parte degli organi giudiziari in decisioni fino a poco tempo pacificamente considerate di competenza di quelli politici (che riguardano argomenti quali i limiti all’immigrazione, la regolamentazione delle scelte di vita famigliari e sentimentali, la disciplina delle prestazioni sociali e delle attività economiche ecc.) è un fatto che interessa tutte le società occidentali. Essa riguarda in ultima analisi il rapporto tra due fondamentali settori della vita pubblica, quello del diritto e quello della politica, e le eventuali “invasioni di campo” di uno ai danni dell’altro. Al di là delle analogie di forma e di contenuto, il rapporto tra politica e diritto è però molto diverso nei vari Paesi, per cui i conflitti tra la prima e il secondo assumono caratteri differenti a seconda della relazione esistente tra i due “contendenti”. La distinzione fondamentale all’interno della comune famiglia dei Paesi occidentali è quella tra Stati di tradizione anglosassone (Gran Bretagna, Usa) e Stati europei continentali (Italia, Francia, Germania): nei primi diritto e politica sono separati e contrapposti tra loro quanto al contenuto e alle finalità, mentre nei secondi essi sono sì distinti quanto alle modalità di gestione, ma complementari tra loro, essendo entrambi parte dell’unica attività statale. Nei Paesi anglosassoni il diritto riguarda i rapporti tra i singoli soggetti (compresi ovviamente quelli pubblici), mentre la politica riguarda lo svolgimento delle attività di interesse generale (differenza di contenuto): entrambi seguono una logica possibilista e ammettono applicazioni di parte (semplificando, conservatrici o progressiste), rese evidenti dalla presenza nelle sentenze delle opinioni dissenzienti. In quelli europei continentali invece sia il diritto che la politica si occupano da punti di vista diversi di combinare tra loro la disciplina dei rapporti individuali e gli scopi di interesse generale, solamente che il primo lo fa tramite delle decisioni che seguono una logica escludente, “legittimo/ illegittimo”, mentre la seconda lo fa per mezzo di scelte basate su una logica possibilista “opportuno/ inopportuno” (differenza di modalità di gestione). Solamente la politica ammette diverse possibili applicazioni di parte, mentre le decisioni giuridiche, anche quanto scopertamente partigiane sono pur sempre basate sulla logica escludente. Le leggi (e in primis le costituzioni) nei Paesi anglosassoni sono solo una messa per iscritto dei diritti individuali già esistenti a monte (tale è la Costituzione americana) e possono anche mancare (come accade in Gran Bretagna, Paese senza una Costituzione formale); in quelli europei continentali invece le leggi e, soprattutto le Costituzioni sono la fonte dei diritti individuali che se non sono previsti delle norme in sostanza non esistono. Tutto ciò ha una precisa origine storica nella diversa evoluzione dei due tipi di Stato a partire dalla comune realtà della monarchia medievale che riconosceva al sovrano due fasci di poteri, quelli di iurisdictio (di amministrare il diritto) e quelli di imperium (di gestire la politica). Mentre nella monarchia britannica a potere limitato, e negli Stati da essa derivati, imperium e iurisdictio sono sempre rimasti separati a partire dalla Magna Charta sino ad oggi, essi si sono uniti in capo al sovrano nelle monarchie assolute continentali e tale unione si è mantenuta per tanti aspetti anche negli attuali stati democratici che da quelle sono derivati. Così, laddove (oltreatlantico e oltremanica) diritto e politica sono separati, i contrasti e reciproche invasioni di campo, per quanto importanti e capaci di segnare ampi settori della società, non sono mai tali da stravolgere il funzionamento della vita civile che si basa sulla loro separazione. Le decisioni giudiziarie che “cassano” una determinata linea politica contenuta nei programmi di governo o nelle leggi approvate dagli organi parlamentari si limitano infatti a creare delle aree di libertà non toccate, “immuni” dalle conseguenze delle decisioni politiche giudicate (a torto o a ragione) contrarie al diritto, che possono riguardare gruppi più o meno ampi di persone (gli omosessuali legittimati a contrarre matrimonio, i cittadini a cui è riconosciuto il diritto di accogliere gli immigrati irregolari ecc.), ma non vanno mai a intaccare il ruolo delle scelte politiche per quanto riguarda la valutazione dell’interesse generale da perseguire. Nei sistemi anglosassoni, diritto e politica, anche quanto fanno a pugni, alla fine di ogni round ritornano sempre nel loro angolo, e per rimanere alla metafora pugilistica, nel lungo periodo la vittoria dell’uno o dell’altra è sempre solamente “ai punti”. Nel vecchio continente invece, dove anche se distinti tra loro (in maniera più netta in Francia e Germania, in modo più indeterminato in Italia) diritto e politica si completano a vicenda, i loro contrasti portano spesso la parte prevalente a mettere “fuori combattimento” l’avversario e ad occupare stabilmente il terreno di gioco comune, finendo per decidere unicamente secondo la propria logica di funzionamento sia l’interesse generale che la tutela dei diritti individuali riguardo ad ampi settori della vita sociale. Così la giudiziarizzazione della politica al di qua della Manica, oltre ai problemi sul contenuto specifico delle decisioni, presenta un ulteriore pericolo: quello di sottoporre i cittadini a un potere pubblico simile ad un ircocervo che da un lato si basa su scelte di parte (conservatrice o progressista poco importa) e dall’altro agisce secondo la logica escludente legittimo/ illegittimo che stronca sul nascere ogni discussione (e minaccia di stroncare ogni dissenso) sulle decisioni prese dagli organi giudicanti (o tecnocratici). Una possibilità che deriva dalla diversa cultura civile e dalla diversa storia dei Paesi europei continentali e della quale è giusto tenere conto. *Saggista, esperto di storia del pensiero giuridico Migranti. Lega scatenata contro il Garante dei detenuti Mauro Palma Il Manifesto, 4 novembre 2020 Durante l’audizione sul nuovo Decreto immigrazione. Il Carroccio: “Presenteremo un emendamento per cancellare il suo ruolo”. Leghisti scatenati contro il Garante nazionale per i detenuti Mauro Palma, colpevole solo di aver sottolineato alcune criticità del decreto immigrazione all’esame della commissione Affari costituzionali della Camera. Nel mirino di Palma non sono finite solo alcune parti riguardanti i migranti che arrivano in Italia, ma anche la parte penale del provvedimento e in particolare le nuove misure di contrasto alla possibilità di introdurre cellulari nelle carceri. Parole che hanno scatenato la reazione del capogruppo del Carroccio nella commissione, Igor Iezzi, che ha annunciato un emendamento per cancellare la figura del Garante: “Palma ancora una volta si schiera dalla parte dei delinquenti contro i cittadini che rispettano la legge e contro gli agenti di Polizia penitenziaria”, ha tuonato il leghista. In realtà le osservazioni avanzate dal Garante al provvedimento che sostituisce i decreti sicurezza di Matteo Salvini hanno riguardato soprattutto l’opportunità di stabilire misure restrittive nelle comunicazioni - anche grazie ai cellulari - dei detenuti con l’eterno senza fare alcuna distinzione. Questa comunicazione, ha spiegato, “può avere due profili: o del reato criminale oppure delle relazioni affettive. Credo che questa norma vada introdotta solo dopo aver potenziato le possibilità di comunicazione con i propri familiari. Qui non parliamo solo di alta sicurezza, ma di tutti i detenuti. Molte delle conversazioni sono relative all’ambito familiare”, ha proseguito Palma suggerendo di cancellare la norma in questione dal decreto e di “posporla a quando l’amministrazione sarà in grado di fornire strumenti per facilitare la comunicazione tra detenuti e loro familiari”. Il garante si è poi soffermato sui alcuni degli articoli del decreto che riguardano più direttamente l’immigrazione e in particolare le strutture nelle quali dovrebbero essere trattenute le persone in attesa di essere identificate. “Rimane un punto dolente” come lo era nei decreti salviniani, ha spiegato Palma. “Manca un elenco definitivo dei luoghi cosiddetti idonei al trattenimento dei migranti. Noi non abbiamo un elenco di quali sono. Quindi chiediamo che di questi locali ci sia una definizione precisa e dei registri di presenza ben definiti”. Con in più la possibilità per quanti si ritroveranno rinchiusi in queste nuove strutture, di presentare reclamo al Garante, possibilità prevista oggi solo per i migranti che si trovano negli hotspot. In difesa di Palma si è schierato il Pd: “Il tentativo di delegittimare la figura del Garante denuncia un atteggiamento irrispettoso dei diritti delle persone detenute e trascura l’importante lavoro di tutela della legalità svolto da Palma”, ha commentato il capogruppo dei senatori dem Franco Mirabelli. “Attaccarlo nel momento in cui è impegnato ad affrontare il tema dei contagi nelle carceri e nelle Rsa è l’ennesima dimostrazione che la Lega è capace solo di fare propaganda e no è interessata a risolvere i problemi”. Omicidio Rocchelli, assolto in appello l’ucraino Markiv: “Non ha ucciso lui il reporter” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 4 novembre 2020 Il giornalista e il suo interprete erano morti nel 2014 nella regione del Donbass mentre seguivano il conflitto russo-ucraino. La Corte d’Assise d’Appello di Milano ha assolto Vitaly Markiv, l’ex soldato ucraino condannato in primo grado a Pavia a 24 anni per aver fornito un “contributo materiale determinante” all’omicidio di Andy Rocchelli, il reporter italiano rimasto vittima di un attacco nella regione ucraina del Donbass nel maggio 2014. L’Appello ha annullato la condanna di primo grado e disposto l’immediata scarcerazione per “non aver commesso il fatto”. Il giornalista si trovava con il suo interprete Andrej Mironov, morto nello stesso attacco, lungo il fronte per documentare gli scontri tra i separatisti filo-russi e l’esercito ucraino. Markiv, 29 anni, italo ucraino, ed ex soldato della guardia nazionale ucraina, era stato arrestato nel 2017 e condannato nel luglio 2019 perché considerato dai giudici pavesi (città d’origine di Rocchelli) la persona che aveva individuato come sospetti i giornalisti e dato il via libera ai colpi di mortaio che li avrebbero uccisi: l’italo-ucraino era al comando della milizia che sparava. Rocchelli, che lavorava per l’agenzia Cesura, con sede a Pianello, aveva un figlio di due anni. “Vedremo le motivazioni della sentenza e vedremo il da farsi, continuiamo a ritenere corretta la ricostruzione del Tribunale di Pavia e della Procura generale di Milano, a loro e a nostri avvocati va la nostra riconoscenza” ha Elisa Signori, madre di Andrea Rocchelli, dopo la sentenza d’appello. Austria, i millennial del jihad di Gianluca Di Feo La Repubblica, 4 novembre 2020 L’attentatore di Vienna è uno dei tanti ragazzini sedotti in Austria dallo Stato Islamico. Figli delle guerre balcaniche, rimasti ai margini della società, hanno scelto di dare la vita per il Califfato. Ecco le loro storie. Kujtim, che a diciassette anni è stato arrestato per terrorismo ed è morto ieri sparando tra le strade di Vienna. Merktan, che a soli quattordici anni voleva far saltare in aria la stazione centrale della capitale asburgica. Samra e Sabina, occhi chiarissimi e lunghi capelli biondi, che a meno di sedici anni sono andate a Raqqa per “servire Allah e morire per lui”. All’indomani della strage l’Austria si trova a fare i conti con i millennial del jihad cresciuti nelle sue città. Lo Stato islamico li ha sedotti e trascinati al suo servizio, come il moderno pifferaio magico di Hamelin. A Mosul li chiamavano “i cuccioli del leone”, esaltando l’animale che per Maometto incarnava la forza. A Vienna invece le leggi dello stato di diritto non sono riuscite a salvare questi giovani dal diventare la carne da cannone dell’Isis. Kujtim, Samra, Sabina e Mektan sono figli delle guerre balcaniche e della povertà. Sono nati in Austria o ci sono arrivati da piccoli, inseriti nel sistema scolastico ma mai integrati nella società. Sono rimasti ai margini e sono caduti in pasto alla propaganda del Califfato. L’epicentro è Sankt Polten, la cittadina dove già nella notte si sono concentrate le ricerche della polizia, con perquisizioni e fermi. Un tempo cuore della valle dei monasteri, negli ultimi vent’anni ha visto innalzarsi i minareti di tre moschee: una riservata ai profughi bosniaci, una per gli immigrati albanesi, la terza per i turchi. Gli unici punti di riferimento per una comunità senza più patria, né radici. Abilmente sfruttati dai reclutatori dello Stato islamico. Kujtim Fejzulai, che i compagni di lingua tedesca chiamavano Kurtin, era nato a Vienna nel 2000. I genitori di etnia albanese venivano dalla Macedonia del Nord. Un’infanzia senza particolari problemi, poi verso i sedici anni comincia a frequentare assiduamente una scuola coranica. A diciott’anni lo arrestano in un aeroporto della Turchia: era in viaggio per raggiungere il Califfato. Estradato e processato, lo condannano a 22 mesi di carcere. Esce dopo un anno, con la condizionale e l’obbligo di frequentare un corso di “de-radicalizzazione”. “Veniva da una famiglia assolutamente normale. Per me si tratta di un giovane che è finito in un giro di amici sbagliati”, ha dichiarato il suo avvocato Nikolaus Rast, un legale molto noto in Austria: “Se non avesse frequentato la moschea e avesse fatto per esempio boxe, sarebbe diventato un pugile. Non avrei mai ritenuto possibile che commettesse un attentato”. Proprio la denuncia dei genitori sulla sua scomparsa aveva determinato l’arresto in Turchia: questi ragazzi hanno seguito il percorso che si erano scelti, cercando un’identità nella violenza islamista. In carcere Kujtim ha fatto tanta palestra, gonfiando i bicipiti; forse, come spesso accade nelle prigioni europee, ha estremizzato ancora di più il suo credo violento. E una volta in libertà, invece delle lezioni sui valori della Costituzione austriaca, si è dedicato a tempo pieno a preparare il suo attacco. Qualcuno lo ha addestrato a usare un kalashnikov. In un poligono o in un centro di softair, gli hanno insegnato i rudimenti del combattimento urbano: restare sempre in movimento, per offrire un bersaglio difficile agli avversari, poi quando serve fermarsi e sparare. Le tattiche che ha utilizzato per scatenare il terrore nelle strade di Vienna. Il vero problema è che qualcuno gli ha fornito anche le armi. Un Ak-47, una pistola, centinaia di proiettili. Negli ultimi tre anni nessuno degli attentatori in azione in Francia, Germania e Belgio era più riuscito a procurarsi dei fucili mitragliatori. Le indagini ricostruiranno l’origine del kalashnikov: se proveniva dal mercato legale europeo, dove sono venduti per la caccia e il tiro sportivo e dove si erano riforniti gli stragisti di Charlie Hebdo e del Bataclan. O se invece è partito dagli arsenali accumulati nei Balcani, l’incubo peggiore dei servizi di sicurezza occidentali: lì ci sono giacimenti di ordigni letali e reti logistiche pronti a trasferirli ovunque, l’Eldorado del jihad. La storia di Kujtim ricorda quella del coetaneo Merktan G., arrivato a sei anni a Sankt Polken dalla Turchia. Anche nel suo caso, il primo reclutatore è rimasto sconosciuto: si ritiene che fosse un predicatore itinerante, transitato da una delle moschee della città. Merktan è stato arrestato a scuola, nell’ottobre 2014, con l’accusa di volere far saltare in aria la stazione centrale di Vienna. Aveva soltanto quattordici anni. Il telefonino e il computer sono zeppi di video di propaganda jihadista: immagini sanguinarie di esecuzioni e battaglie condotte dalle bandiere nere. Pure la console della Playstation pullulava di materiali islamisti: un particolare che all’epoca non insospettii gli investigatori. Più tardi si è scoperto che le chat dei videogiochi venivano usate per le comunicazioni dell’Isis: l’attacco del Bataclan è stato organizzato sfruttando questo canale. Lo studente jihadista ammette di volere realizzare un attentato, anche se il suo avvocato cerca di minimizzare: “Aveva solo l’idea di farlo, nulla di concreto”. Secondo i giornali, per la sua missione gli era stato promesso un premio di 25 mila euro. Vista la giovane età, viene rilasciato in attesa di processo con l’obbligo di recarsi tutti i giorni alla polizia. A gennaio 2015 scappa e si mette in marcia per il Califfato: assieme a lui c’è un amico dodicenne. Vengono bloccati e questa volta Kujtim finisce in cella. Il processo si apre nel maggio 2015. Il massimo della pena prevista dal codice minorile è di cinque anni, lui se la cava con la condanna a ventidue mesi: dodici in cella, in resto di riabilitazione. Di cui non si conoscono gli esiti. Tra le duecento persone che dall’Austria hanno scelto di raggiungere per lo Stato Islamico la maggioranza erano millennial. Samra Kesinovic e Sabina Selimovic, di 15 e 17 anni, nell’aprile 2015 hanno mandato un messaggio video alle loro famiglie: “Smettete di cercarci. Siamo venute a servire Allah e morire per lui”. A Vienna vivevano come normali teenager, scambiandosi selfie in cui valorizzavano gli occhi azzurri e i capelli alla moda. A Raqqa hanno fatto da testimonial dell’Isis, posando in mimetica e capo velato davanti a schiere di combattenti in tuta nera. “Qui ci possiamo sentire veramente libere, possiamo praticare la nostra religione. In Austria non era possibile”, hanno ripetuto in più interviste. Secondo l’intelligence europea, il pifferaio magico che ha trascinato questi ragazzi in Siria e in Iraq si chiama Mohammed Mahmoud, uno dei registi della propaganda del Califfato. Emigrato in Austria con la famiglia dall’Egitto, nel 2007 è stato arrestato per avere diffuso proclami inneggianti ad Al Qaeda. Dopo la condanna a quattro anni, è rimasto a lungo a predicare nelle moschee del Paese. I servizi segreti tedeschi ritengono che sia uno degli ideologi che hanno partorito il concetto di Stato Islamico. Nella primavera del 2014 parte per la Siria ma viene arrestato dalla Turchia: invece di estradarlo in Austria, misteriosamente ottiene il rilascio e ricompare a Raqqa. Lì giura fedeltà ad Al Baghdadi e sposa Ahlam Al-Nasr, la “poetessa dell’Isis”. Dall’autunno 2014 comincia a inondare il web di video in tedesco. Tuta mimetica e kalashnikov a tracolla, nel primo brucia il passaporto austriaco. Di settimana in settimana, le immagini si fanno più cruente: in una delle sue prediche è circondato di corpi decapitati. Al suo fianco compare un rapper ventenne, un ghanese cresciuto a Berlino: Denis Cuspert, in arte Deso Dogg. Convertito nel 2010, da Raqqa diffonde filmati in cui partecipa all’esecuzione di prigionieri e poi solleva le teste amputate: “Questa è la fine che fanno i nemici dell’Isis”. Sempre in tedesco, sempre per conquistare giovani reclute in Austria e Germania. Si ritiene che alla fine del 2018, quando le sorti del Califfato cominciano a segnare disfatta, Mahmoud abbia avuto uno scontro con i suoi capi. Secondo un comunicato dell’Isis, sarebbe morto nel bombardamento di un campo di prigionia. Impossibile averne certezza. Le ultime notizie sul rapper tedesco lo danno in fuga: una foto lo ritrae ancora in armi, ancora pronto a uccidere e a convincere ad uccidere. Samra e Sabina invece sono sopravvissute alla guerra. Hanno sposato dei miliziani ceceni e sono diventate madri. Adesso sono detenute in un campo di concentramento sotto sorveglianza curda e, secondo i media, hanno minacciato causa al governo austriaco per potere tornare a Vienna. Senza però mostrare il minimo rimorso per le loro azioni. Medio Oriente. I 100 giorni di Maher, il digiuno più lungo. L’Onu a Israele: liberalo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 4 novembre 2020 Sempre più gravi le condizioni del prigioniero politico palestinese in sciopero della fame contro la detenzione amministrativa, senza accuse formali né processo. Anche la Ue chiede il rilascio. “A causa della carenza di sali e fluidi nel suo corpo, Maher ha crisi frequenti, mal di testa acuti, vista e udito deboli, oltre a un forte dolore in tutte le parti del corpo, in particolare al petto”. Così lunedì Addameer, storica ong palestinese per la tutela dei prigionieri politici, descriveva le condizioni fisiche di Maher al-Akhras. Detenuto in un carcere israeliano dal 27 luglio scorso, Maher non tocca cibo da allora. Ieri sono trascorsi 100 giorni dall’inizio dello sciopero della fame del 49enne, sei volte padre, allevatore di Silat al Daher (vicino Jenin), ricoverato da settimane nel centro medico Kaplan della prigione israeliana di Ofer. La situazione sta degenerando, avvertono da tempo i palestinesi, alla cui voce si sono unite negli ultimi giorni anche quelle delle istituzioni internazionali. Il 23 ottobre scorso il relatore speciale delle Nazioni unite per Israele e Palestina, Michael Lynk, ne ha chiesto l’immediato rilascio per la mancanza di accuse chiare contro di lui, mentre la Ue si è detta preoccupata per l’uso eccessivo della detenzione amministrativa da parte israeliana. Una settimana fa era stato l’inviato speciale Onu Nickolay Mladenov a riportare al Consiglio di Sicurezza la necessità di fare pressioni su Israele per cessare il ricorso alla misura cautelare. Ieri è intervenuto Osama Saadi, deputato della Knesset israeliana per la Lista araba unita: “Lo sciopero di al-Akhras è diverso dai precedenti. Rifiuta le vitamine, il sale e ogni forma di trattamento medico. È il più lungo sciopero di questo tipo”. Da Israele, al momento, non giungono aperture: lo scorso 25 ottobre la Corte suprema israeliana ha rigettato l’appello presentato dall’avvocato di al-Akhras per un rilascio immediato. O meglio, ha mosso una sorta di controproposta: il congelamento dell’ordine di detenzione amministrativa (che dovrebbe scadere il prossimo 26 novembre) ma non la sua cancellazione. Il significato lo spiega, ancora, Addameer: “La decisione della Corte non elimina il rischio di un rinnovo dopo la scadenza dei quattro mesi di detenzione amministrazione e dimostra l’intenzione di prolungare la detenzione a ogni costo”. Da cui la decisione di Maher di continuare a rifiutare il cibo, per uscire dal circolo vizioso del carcere: dal 1989 al-Akhras è stato arrestato quattro volte e ha speso in detenzione amministrativa quasi cinque anni della sua vita. Stavolta l’accusa è di essere un membro della Jihad Islamica, accusa che lui rigetta. La richiesta dell’uomo è la stessa dal 27 luglio: la fine della sua detenzione amministrativa e dell’uso strutturale della misura da parte di Israele. Introdotta nel 1967 e ripresa dal sistema legislativo del mandato britannico, la detenzione amministrativa permette il carcere senza processo e senza accuse formali, ordinata dall’esercito sulla base di file segreti in cui si dice convinto dell’insita pericolosità di una persona nei confronti dello Stato di Israele. Una minaccia teorica che si traduce nel carcere a tempo indeterminato: l’ordine di detenzione amministrativa è rinnovabile senza limiti, per questo il diritto internazionale ne autorizza l’uso solo per tempi brevi e in caso di estrema emergenza. Il caso di Maher non è affatto un’eccezione, dal 1967 - anno di inizio dell’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est - Israele ha emesso oltre 50mila ordini di detenzione amministrativa. A oggi sono 350 i detenuti amministrativi palestinesi. Negli ultimi due decenni in media ogni mese 400-500 palestinesi ne sono stati vittima, raggiungendo i picchi nei primi Duemila, durante la Seconda Intifada, con oltre mille casi al mese. Come non è un’eccezione la protesta, collettiva e individuale. Il movimento dei prigionieri palestinesi, a partire dagli anni Settanta, ha fatto dello sciopero della fame una delle sue armi principali, capace di sottrarre all’occupazione militare il monopolio della violenza e il controllo dei corpi. È da allora che nelle celle inizia una battaglia nuova per il rispetto dei diritti umani e il riconoscimento della prigionia politica.