Amnistia e indulto: una riforma opportuna di Danilo Paolini Avvenire, 3 novembre 2020 Senza eccessi, con equilibrio. In quattro parole un concentrato di buoni propositi oppure un programma di lavoro, dipende dalla serietà e dalle reali intenzioni di chi le pronuncia. In questo tempo tornato ansiogeno, quel programma può valere per molte attività umane. Vale anche per un tema solo apparentemente “fuori contesto”, come l’appello a favore di una riforma costituzionale in materia di amnistia e indulto lanciato venerdì dalla “Società della ragione” insieme a molte altre sigle dell’universo carcerario e giudiziario. Non si tratta, ora, di sollecitare un provvedimento di clemenza. Lo hanno ben spiegato i promotori dell’appello e i parlamentari aderenti, primi firmatari della conseguente proposta di legge costituzionale. Si tratta, invece, di cambiare il meccanismo di approvazione delle leggi di amnistia e di indulto: non servirebbe più la maggioranza dei due terzi dei membri di ciascuna Camera, ma la maggioranza assoluta. In questo modo il Parlamento avrebbe di nuovo la possibilità di deliberare un provvedimento collettivo di clemenza, possibilità di fatto negata per quasi 30 anni da un quorum troppo elevato. Ma, appunto, senza eccessi e con equilibrio. In primo luogo perché amnistia e indulto sarebbero vincolate, con norma scritta, a “situazioni straordinarie” e “ragioni eccezionali”. E poi perché la maggioranza richiesta resterebbe comunque qualificata: non è facile raccogliere il 50 per cento più uno dei consensi, non dei presenti al momento del voto, ma degli eletti in ciascun ramo del Parlamento. Non solo: con una tale soglia, la maggioranza politica del momento si assumerebbe per intero la responsabilità della decisione. Fin qui le considerazioni sul metodo. Veniamo ora al merito: è il momento per una proposta del genere? Crediamo di sì. Sarebbe innanzi tutto un segnale significativo di attenzione verso un mondo, quello “di dentro”, di cui spesso si parla solo per approssimazione e che sta vivendo l’emergenza sanitaria in maniera ancora più difficile del resto del Paese. In secondo luogo, servono strumenti concretamente utilizzabili (ovviamente in maniera selettiva, senza mettere a repentaglio la sicurezza nazionale) di fronte a quelle “situazioni straordinarie” e “ragioni eccezionali” di cui sopra. Che certo non sono mancate negli ultimi 28 anni, considerando quante volte il sovraffollamento e le condizioni di vita all’interno degli istituti si sono manifestate come autentiche pene accessorie non previste da nessuna sentenza e non stabilite da alcuna norma. Di una riforma del genere ci sarebbe stato bisogno... ieri. Per questo è da considerare non rinviabile alla prossima legislatura. Per modificare la Costituzione (in questo caso gli articoli 72 e 79) si deve tuttavia procedere con due approvazioni per ciascuna Camera (con un intervallo di almeno tre mesi) e, se si vuole evitare il referendum confermativo, con la maggioranza dei due terzi dei parlamentari nella seconda votazione. Ostacolo insormontabile? Sì, se si pensa alle posizioni che su certi argomenti hanno gran parte del centrodestra e del Movimento 5 stelle. No, invece, se si riuscisse finalmente a sottrarre il carcere e i suoi problemi allo schema della contrapposizione ideologica. Va smentita, insomma, la narrazione per anni diffusa da tanti ‘addetti ai lavori’ (alcuni ormai in pensione o passati ad altre professioni, altri tuttora in servizio) secondo cui in Italia in galera non ci va nessuno e poi, in fondo, ci si sta pure bene perché si ha perfino la tv a spese dello Stato. Al contrario: ci vanno in tanti, molti da innocenti e moltissimi prima ancora di una sentenza definitiva. Ci vanno anche quelli che dovrebbero scontare la pena in altro modo, per avere l’opportunità di cambiare il corso della propria vita. Pochi escono recuperati alla società come la Costituzione prevede: più carcere non significa più sicurezza, ma a conti fatti l’opposto. Perciò, fino al giorno in cui non avremo un’applicazione sistematica delle misure alternative ai colpevoli di reati di scarso allarme sociale, è necessario rendere davvero possibile (soltanto possibile, almeno possibile) il ricorso alla clemenza collettiva. Decreto “Scarcerazioni”, mafiosi esclusi anche prima di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 novembre 2020 La Circolare del Dap del 21 marzo revocata avrebbe potuto evitare le ultime vittime. Massimo Giletti, durante il programma “Non è l’Arena”, ha celebrato assieme a Luca Telese il risultato che secondo loro avrebbero ottenuto grazie alla campagna sulle “scarcerazioni”: nel Decreto Ristori, la misura deflattiva per quanto riguarda il carcere esclude i detenuti che si sono macchiati di reati mafiosi. In realtà, ancora una volta, non hanno approfondito. Altrimenti avrebbero scoperto che questo provvedimento è quasi l’esatta fotocopia di quello precedente, il decreto varato durante la prima ondata. Sì, perché nel cosiddetto decreto Cura Italia del 17 marzo scorso, nella parte relativa alle disposizioni in materia di detenzione domiciliare, anche in qual caso hanno escluso i “soggetti condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni e dagli articoli 572 e 612- bis del codice penale”. Chi rientra in quest’ultima categoria dei reati ostativi? Da un lato, rientrano i condannati per maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 del codice di procedura penale) e i condannati per atti persecutori (art. 612- bis c. p. p.). Dall’altro lato, sono compresi i condannati per una serie di reati indicati dall’articolo 4- bis della legge sull’ordinamento penitenziario, tra cui ci sono anche quelli per associazione di stampo mafioso (art. 416- bis c. p. p., una fattispecie dell’associazione per delinquere) o di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416- ter c. p. p.). Ma quindi cosa è cambiato con il Decreto Ristori? Semplicemente è stato aggiunto per esteso, probabilmente proprio per evitare polemiche inutili, quali sono i soggetti condannati per i delitti indicati dal 4-bis. Infatti vi troviamo scritta la seguente aggiunta, ovvero che sono esclusi i detenuti “rispetto ai delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, nonché ai delitti di cui agli articoli 416-bis del codice penale”. Una aggiunta in realtà non necessaria per gli addetti ai lavori, ma forse utile per qualche giornalista e politico che non conosce i reati che rientrano nell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Però una vittoria, reale, il conduttore di Non è L’Arena l’ha ottenuta. Il Dap, qualche tempo fa, ha revocato la famosa nota circolare del 21 marzo. Sì, quella in cui invitava le direzioni delle carceri a comunicare con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza, i nominativi dei detenuti che rientrano fra le nove patologie indicate dai sanitari dell’amministrazione penitenziaria e tutti i detenuti che superano i 70 anni. Tutte persone con patologie pregresse o più deboli per varie ragioni a partire dall’età che rischiano molto se contraggono il Covid-19. La soluzione è limitare il contagio, e nei luoghi chiusi e sovraffollati come il carcere è facilissimo. Infatti in questa seconda ondata già risultano due detenuti morti, un ergastolano ultraottantenne e un 71 enne che avevano patologie pregresse e contagiate in sezioni carcerarie dove si sono sviluppati dei focolai. La detenzione domiciliare per motivi di salute, molto probabilmente li avrebbe salvati. Ma grazie all’indignazione creata da inchieste dettate anche dalla poca conoscenza del sistema penitenziario, il governo ha deciso di sottostare a queste pressioni. Un Paese civile avrebbe subito ripristinato quella circolare, oggi nuovamente fondamentale per evitare una potenziale catacombe. Carceri, contagi da Covid raddoppiati in una settimana liguria24.it, 3 novembre 2020 “Alle ore 18.00 di ieri, 2 novembre, in tutta Italia erano ben 395 (di cui 20 ricoverati in ospedale e/o in carico al servizio 118) i detenuti e 424 gli operatori positivi al Covid-19 censiti dall’Ufficio Attività Ispettiva e di Controllo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Contagi da Coronavirus che nelle carceri sono dunque quasi raddoppiati dal 28 ottobre scorso, quando si contavano 215 detenuti e 232 operatori positivi”. A fornire i dati aggiornati sui contagi nel circuito carcerario, con molta preoccupazione, è Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, il quale poi commenta: “continuando con questo trend, che non crediamo peraltro possa essere direttamente e immediatamente influenzato dalle restrizioni e dai lockdown più o meno parziali che il Governo si appresta a varare, appare del tutto evidente che la situazione sanitaria nelle carceri, ancora stracolme e zeppe di problematiche di ogni tipo, rischierà di sfuggire di mano. Ormai i positivi al Covid si contano in ben 53 penitenziari se si guarda solo ai detenuti, ma sono interessati quasi tutti gli istituti se si volge lo sguardo anche agli operatori. Non mancano, peraltro, situazioni di grande criticità, sia per mancanza di spazi adeguati sia a causa di difficoltà delle Aziende Sanitarie che non riescono a supportare adeguatamente le direzioni dei penitenziari per le sanificazioni”. Covid-19, Anastasìa: “Nelle carceri diffusione superiore a prima ondata” di Tommaso Caldarelli sanitainformazione.it, 3 novembre 2020 “I focolai più gravi di Covid-19 negli Stati Uniti non avvengono più nelle case di riposo o nelle fabbriche di generi alimentari, ma nelle carceri. Le comunità di detenuti sono particolarmente vulnerabili alle malattie infettive come il Covid-19. A causa di fattori che includono il sovraffollamento, gli spazi confinati, l’alta variabilità della popolazione, la scarsa igiene e lo scarso accesso ai servizi sanitari”. Così, in un recente contributo, il New England Journal of Medicine che va a concentrarsi su un caso che può apparire laterale, ma che si porta dietro, oltre a rilevanti questioni di giustizia sociale, anche profili importanti di salute pubblica. A che punto sono le campagne vaccinali per l’influenza verso i carcerati? E in generale, quale è lo stato dell’epidemia di Covid-19 nei centri penitenziari? Mentre in Italia incombono nuovi provvedimenti governativi e la situazione sembra avviata su una strada non positiva, nel carcere di Terni è esploso un focolaio da quasi 70 contagiati fra i detenuti. Stefano Anastasìa è il garante per le persone private della libertà personale per le regioni Lazio e Umbria, ed è il portavoce nazionale dei garanti di tutte le regioni. Sanità Informazione lo ha raggiunto al telefono proprio mentre sta seguendo la situazione nel capoluogo umbro. Dottor Anastasìa, quale è la situazione Covid-19 nelle carceri italiane? “Se guardiamo ai numeri assoluti potrebbe sembrare poca cosa, ma i quasi 200 casi Covid-19 nelle carceri italiane, credetemi, sono una situazione abbastanza preoccupante. La diffusione della patologia è importante ed è superiore a quella della prima ondata, sia per dimensioni che per rapidità di diffusione. Ci sono problemi logistici reali nelle strutture dove si creano dei focolai, il caso di Terni è emblematico perché la diffusione del virus non è stata individuata per tempo e la situazione è sfuggita di mano. Quando il virus entra nelle sezioni detentive, è inevitabile che si crei il focolaio. In generale per fortuna, finora il sistema e i protocolli hanno retto. Per esempio, a Rebibbia la scorsa settimana c’erano solo due donne positive nella sezione di accoglienza: se la positività al virus viene rilevata all’ingresso nell’istituto penitenziario e scattano i protocolli di isolamento, il sistema funziona e la gran parte del lavoro è fatta”. Dunque la chiave è evitare che il virus entri nel sistema carcerario... “Sì, una volta che è dentro le carceri è davvero difficile gestirlo. Il paragone più calzante è quello con le strutture Rsa: le une e le altre sono comunità chiuse di convivenza dove la capacità di trasmissione del virus è fortissima. Decine di persone che usano gli stessi servizi e convivono negli stessi spazi sono una condizione ideale per la diffusione di questa malattia epidemica. Per questo la prima necessità è alleggerire gli istituti penitenziari, che diminuisca la popolazione detenuta, facendo uscire i detenuti a fine pena e quelli in gravi condizioni di salute”. Ha notizia di una campagna vaccinale per l’influenza comune verso la popolazione carceraria? “Penso e spero che da parte delle regioni questa attenzione ci sia. Io stesso l’ho sollecitata per la Regione Lazio. Gruppi di detenuti mi hanno posto la questione del vaccino antinfluenzale, ma anche da parte dei dirigenti degli istituti penitenziari questa urgenza è chiaramente percepita perché la gestione di un falso positivo Covid in carcere diventa un problema ulteriore per la vita già complessa del sistema penitenziario. Mi è stato assicurato che ci si spingerà oltre i limiti delle cosiddette categorie a rischio, vaccinando chiunque lo richieda”. Se il Paese, come pare, andasse verso un inasprimento delle misure di lockdown, quali sarebbero le priorità per i detenuti? “È imprescindibile che la persona detenuta possa avere una qualche forma di relazione, anche a distanza, con il mondo esterno in una fase che sarà inevitabilmente di rallentamento, se non di chiusura degli ingressi in Istituto. Vedo un periodo molto faticoso, tenete presente che ci sono persone in carcere che hanno figli piccoli che non vedono da otto mesi. Le proteste che ci furono a marzo accaddero proprio perché i detenuti avevano capito che questo sarebbe stato l’esito. Pensiamo che in carcere in queste condizioni si creano dinamiche di totale isolamento. Nelle situazioni di crisi sono già stati sospesi gli incontri coi volontari e le attività scolastiche, mentre la didattica a distanza in gran parte degli istituti resta una chimera”. “È necessario, quindi, il massimo sforzo organizzativo per consentire la prosecuzione di attività di trattamento, in presenza o a distanza. In modo che con Covid-19 le carceri non tornino in un regime di totale lockdown. In secondo luogo, non è rimandabile una messa a norma degli istituti penitenziari, e qui torno sul tema della salute pubblica. Il regolamento penitenziario del 2000 - di 20, quasi 21 anni fa - prescrive che in ogni camera detentiva vi sia la doccia e servizi igienici autonomi. Mentre nel 70-80% dei casi in Italia le docce continuano a essere in comune. Mi dica lei cosa pensa possa comportare questo in termini di prevenzione e diffusione del virus. Alla luce dell’esperienza che stiamo vivendo e come investimento per il futuro, questa credo che sia la priorità nella progettazione del ricorso al Recovery Fund nel penitenziario: adeguare finalmente l’intero sistema alle norme igienico-sanitarie vigenti, ma inosservate, da vent’anni”. Il Pg della Cassazione Salvi: “Arrestate soltanto se è necessario” di Luca Fazzo Il Giornale, 3 novembre 2020 Le carceri sono una prateria per i contagi da Covid. Il carcere come “extrema ratio”, da applicare solo quando ogni altra misura è insufficiente: un principio di civiltà che però i vertici della magistratura riscoprono grazie al coronavirus. Così dalla Procura generale della Cassazione parte l’appello alle toghe di tutta Italia: andateci piano con le manette, perché le carceri affollate sono una prateria per i contagi. Ridurre gli arresti in flagranza, risparmiare sulle richieste di mandati di cattura, sospendere l’esecuzione di quelli già emessi, rinviare l’esecuzione anche delle condanne definitive: inquisiti che stavano per essere spediti in cella come pericoli pubblici, verranno lasciati liberi. Fino alla fine della pandemia. L’appello viene dalla fonte più alte di tutte: Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, che il 29 ottobre - come rivela ieri sera Nicola Porro su Quarta Repubblica - ha scritto alle procure generali di tutta Italia e al Dap, la direzione delle carceri. Davanti all’avanzare del virus, Salvi chiede (non può ordinarlo, ma vista l’autorevolezza è verosimile che le procure si adeguino) che si torni indietro di sei mesi, all’inizio dell’aprile scorso, quando lui stesso aveva dato le linee-guida per ridurre al minimo indispensabile il numero degli arrestati. Sul momento l’invito venne raccolto, poi a partire dalla metà di luglio, senza che nessuno avesse suonato il “cessato allarme”, le manette tornarono a scattare: mandati di cattura fermi da settimane nel cassetto vennero eseguiti, e le carceri tornarono a riempirsi. Con immediata ripartenza dei focolai. Ora Salvi torna a invitare alla moderazione: le indicazioni di aprile, scrive “possono essere prese come orientamento anche nell’attuale fase di ritorno della situazione emergenziale, con importante aumento dei contagi nelle strutture carcerarie”. Così ecco la lunga lista di “consigli” che Salvi dirama ai colleghi: cui ricorda (cosa che evidentemente qualcuno aveva dimenticato) che ci sono situazioni “fondate su ragioni di età, familiari e di salute” in cui il carcere non può essere applicato se non in casi di “motivata eccezionalità”. “D’altra parte - scrive Salvi - mai come in questo periodo va ricordato che nel nostro sistema processuale il carcere costituisce l’extrema ratio”. Per cui bisogna “arginare la richiesta e l’applicazione delle misure cautelari”, e “procrastinare l’esecuzione delle misure già emesse”. E anche in caso di arresti in flagranza, Salvi richiama i colleghi a rispettare davvero la legge: valutando “con particolare rigore”, con “ponderazione ancora più puntuale”, e “con tutta la necessaria attenzione” se l’arresto sia indispensabile. Un richiamo che, evidentemente, Salvi ritiene necessario. E poi: evitare le camere di sicurezza della questura, evitare gli obblighi di firma che costringono a andare in giro, evitare di eseguire le condanne definitive a meno che “il condannato possa mettere in pericolo la vita o l’incolumità delle persone”. Dal ministero della Giustizia, fanno sapere che Bonafede era stato informato della lettera di Salvi: ma che si tratta di materie “su cui il ministro non deve esprimere alcun consenso”. Niente permesso per il serial killer: “È stato diabolico e resta pericoloso” di Angela Pederiva Il Gazzettino, 3 novembre 2020 L’uomo che nel giro di sei mesi uccise 17 persone, e tentò di ammazzarne un’altra, chiede di uscire a incontrare un bambino disabile. Ma prima il giudice di Sorveglianza di Padova, poi il Tribunale di Venezia e ora la Corte di Cassazione hanno detto no al permesso-premio: Donato Bilancia, il serial killer delle prostitute e dei treni, non potrà recarsi nemmeno scortato all’Opera della Provvidenza Sant’Antonio di Sarmeola, di cui è ospite il ragazzino che da tempo sostiene economicamente. Con il rigetto del ricorso presentato dal 69enne originario di Potenza, che al carcere Due Palazzi sta scontando 13 ergastoli e 28 anni per i delitti commessi fra Piemonte e Liguria, di fatto vengono confermate le precedenti valutazioni di pericolosità sociale, secondo cui all’epoca l’assassino fu “diabolicamente abile a colpire e a mimetizzarsi per depistare le indagini” e ancora adesso è un detenuto che ha condannato le proprie azioni “solo in maniera formale e meccanica”. Secondo la difesa, rappresentata dagli avvocati Roberto Afeltra e Barbara Cotrufo, ma anche per don Marco Pozza, cappellano del penitenziario, Bilancia non è più la persona che fra il 16 ottobre 1997 e il 21 aprile 1998 si macchiò di una lunga serie di delitti. Come emerge dagli atti processuali, il lucano si dice “convinto di essere colpito da una specie di malattia non controllabile ma limitata nel tempo”, dalla quale sarebbe “guarito da sé”, al punto da essere pronto per “una progressiva apertura verso l’esterno”, essendo i reati commessi riconducibili “a una serie di contingenze che mai potranno ripresentarsi”. Di qui la sua richiesta di poter “coltivare interessi affettivi” nei confronti del piccolo portatore di handicap, a cui invia periodicamente una parte della sua pensione, nonché di contattare il difensore del marito di una delle sue vittime, “al fine di comunicare personalmente la disponibilità a forme di riparazione del danno”. Un uomo diverso, dunque, con una nuova vita. La condotta penitenziaria “regolare”, l’impegno “particolare” negli studi (diploma in Ragioneria e alcuni esami universitari in Progettazione e gestione del turismo culturale), il lavoro “alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria”, i corsi “di francese e di inglese”, le attività del laboratorio “musicale e teatrale”, il percorso psicoterapeutico “con un professionista”, il permesso “di necessità” per recarsi a trovare la madre. Con il bambino, invece, non ci sarà nessun incontro. Tramite una sentenza depositata nei giorni scorsi, la Cassazione ha ribadito il diniego già espresso dalla Sorveglianza di Padova nell’agosto 2019 e di Venezia nel gennaio 2020. Come riassume la Suprema Corte, non sono stati “acquisiti elementi tranquillizzanti sotto il profilo della pericolosità sociale, avendo l’osservazione della personalità palesato una tendenza alla deresponsabilizzazione per quanto commesso”. I giudici rimarcano che Bilancia, “per pulirsi la coscienza”, ha deciso “di aiutare economicamente persone in difficoltà” e ha contattato solo una famiglia delle sue vittime, trovando “sconveniente” approcciare gli altri parenti. Un aggettivo che pesa, nella valutazione dei magistrati, in quanto “espressione utilizzata anche per definire gli omicidi commessi, in una singolare equiparazione dell’azione violenta in danno delle vittime e dell’azione riparatoria verso i loro familiari e, soprattutto, nel contesto di una valutazione legata al piano della propria convenienza, con ciò rilevandosi la distanza da una effettiva revisione critica”. Il Dl “anti-scarcerazioni” di Bonafede domani il giudizio alla Consulta di Angela Stella Il Riformista, 3 novembre 2020 Secondo magistrati e tribunali il provvedimento voluto dal Guardasigilli lederebbe la loro autonomia e il diritto alla salute e alla difesa dei detenuti. Per il Decreto “anti-scarcerazioni” del ministro Bonafede domani sarà il giorno del giudizio: la Consulta infatti dovrà decidere su tre questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito al provvedimento voluto dal Guardasigilli per rispondere alle polemiche suscitate dalle scarcerazioni durante l’emergenza sanitaria da covid-19. I giudici si riuniranno in Camera di consiglio per discutere dei procedimenti sollevati dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari, dal magistrato di sorveglianza di Avellino e da quello di Spoleto. Le norme censurate sono due: il decreto legge 10 maggio 2020, n. 29 e il decreto legge 30 aprile 2020, n. 28. Il relatore per tutti i procedimenti sarà il giudice Francesco Viganò. Facciamo un passo indietro: a causa dell’emergenza Covid, diversi detenuti hanno ottenuto i domiciliari perché le loro condizioni di salute sono risultate incompatibili con la detenzione carceraria. Tra loro anche reclusi dell’alta sicurezza e pochissimi del 41 bis. Ciò ha suscitato aspre critiche da parte di coloro che, intervenuti soprattutto a Non è l’Arena o su Repubblica, hanno lanciato un grido di allarme perché i boss sarebbero tornati così nel loro territorio a comandare. Il Ministro, sotto attacco e sopraffatto da una narrazione distorta dei fatti, ha subito preso provvedimenti con i decreti su citati. Ma questi hanno acceso non poche polemiche perché, sotto certi aspetti, vanno a limitare l’autonomia della magistratura di sorveglianza che per emettere una decisione deve, tra l’altro, attendere i pareri della Procure della Repubblica e della Direzione Antimafia. Guardiamo ora i singoli casi all’attenzione della Corte Costituzionale. Il primo è quello di Pasquale Zagaria, affetto da un tumore alla vescica, a cui il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha concesso la detenzione domiciliare a fine aprile. Attualmente è detenuto presso il carcere milanese di Opera in regime di 41 bis. Il secondo caso è quella di A. A., una detenuta settantaseienne, affetta da una grave infermità fisica, a cui è stata concessa il 20 aprile la detenzione domiciliare umanitaria da parte del magistrato di sorveglianza di Avellino. Il terzo ed ultimo caso è quello di L.T.M., ristretto nel carcere di Terni, a cui sono stati concessi a fine marzo da parte del magistrato di sorveglianza di Spoleto i domiciliari a causa di un quadro clinico compromesso a seguito di un trapianto d’organo e che sarebbe potuto peggiorare qualora avesse contratto il Covid. Vediamo le ragioni che hanno spinto magistrati e tribunali a rivolgersi alla Consulta. Secondo il quadro normativo precedente l’entrata in vigore dei decreti in oggetto, i provvedimenti di concessione della detenzione domiciliare - al di là dell’impugnazione sempre possibile - se concessi in via d’urgenza dal magistrato di sorveglianza prevedevano già anche entro poche settimane una rivalutazione dinanzi al Tribunale, se assunti dal Tribunale erano comunque sempre a tempo, per cui si aveva modo di rivalutare sia le condizioni di salute che il comportamento della persona durante la sottoposizione alla misura domiciliare. Con la nuova normativa è diventato tutto più complesso e veloce: ciò andrebbe a minare autonomia della magistratura di sorveglianza, diritto alla salute del detenuto e diritto alla difesa. Nello specifico: l’obbligo di dover ridiscutere il provvedimento di differimento pena o di concessione di detenzione domiciliare entro quindici giorni, e poi a cadenza mensile o addirittura subito se il Dap comunica la disponibilità di una struttura penitenziaria idonea ad accogliere il detenuto, invaderebbe la sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria e violerebbe il principio di separazione dei poteri. A ciò si deve aggiungere che il restringimento temporale della valutazione dello stato di salute del detenuto non consente di avere contezza dell’evoluzione del quadro clinico dello stesso, ma solo del quadro epidemiologico. Infine la norma non contemplerebbe alcuna comunicazione formale dell’apertura del nuovo procedimento di rivalutazione alla difesa, la quale non avrebbe contezza dei risultati istruttori, né facoltà di confrontarsi con i contenuti delle note pervenute e. pur volendo produrre nuove memorie difensive, dovrebbe farlo alla cieca e in pochissimi giorni. Per tutti questi motivi il decreto sarà al vaglio dei giudici costituzionali. “Dissenso radicale, uguale terrorismo”, oggi decide la Cassazione di Frank Cimini giustiziami.it, 3 novembre 2020 L’attivismo politico impostato su una critica anche dura e radicale a istituzioni pubbliche trattato come associazione sovversiva finalizzata al terrorismo. Se ne discute domani in Cassazione dove sarà esaminata la richiesta degli avvocati di un gruppo di anarchici arrestati a Roma a giugno scorso di annullare le misure cautelari in carcere poi confermate dal tribunale del Riesame. “Il costante richiamo alla vicinanza ideologica a una determinata area dell’anarchismo diviene l’unico criterio che consente al tribunale di qualificare azioni e finalità delle stesse sotto la nozione di terrorismo tralasciando tutte le altre verifiche che la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità richiede siano svolte con particolare rigore attenzione e cautela” scrive in uno dei ricorsi l’avvocato Ettore Grenci che avverte: “Cosi si verifica esattamente il pericolo da cui ci mette in guardia la Corte Costituzionale ovvero quello di perseguire non il fatto ma il tipo di autore tendenza che è storicamente rappresentata nel concetto di diritto penale del nemico non a caso formatasi proprio sulla criminalizzazione di movimenti e organizzazioni ritenute ‘anti-Stato’”. Nel motivare le misure cautelari sia il gip sia il Riesame avevano censurati in modo particolare le manifestazioni con sit-in volantinaggi e altro in relazione alle strutture carcerarie e alle condizioni di detenzione aggravate ulteriormente dalla crisi legata al Covid. Insomma domani in Cassazione si parlerà dell’infinità emergenza italiana e di una sorta di democratura che di fatto mette a rischio il dibattito politico fino a eliminarlo del tutto. Il Gip: “Legittime le proteste contro le misure sul Covid” di Errico Novi Il Dubbio, 3 novembre 2020 Rigettato a Milano il decreto di condanna per la promotrice di 3 flash mob. È certamente coraggiosa la scelta compiuta dal gip di Milano Guido Salvini in un’ordinanza emessa ieri a proposito del diritto a manifestare dissenso contro le misure anti Covid. Si tratta del rigetto di un decreto penale di condanna richiesto dalla Procura nei confronti di una donna che aveva promosso tre flash mob nel maggio scorso. La decisione del magistrato, che si conferma tra le figure più anticonformiste del panorama giudiziario a livello nazionale, si è dunque tutt’altro che appiattita sulle tesi dell’accusa. Il giudice ieri protagonista, in qualità di Gup, di un altro procedimento importante, quello che vede imputato il tifoso napoletano Fabio Manduca, accusato per la morte dell’ultras Daniele Belardinelli, ha firmato un’ordinanza destinata a fare scuola anche rispetto a quanto avviene da alcuni giorni in molte città italiane. Ha infatti rigettato il decreto di condanna, e restituito dunque il fascicolo al pm, chiesto nei confronti di una 45enne che aveva promosso tre flash mob contro il lockdown nel maggio scorso. La decisione è imperniata su due elementi. Da una parte la modestissima entità dell’iniziativa, tale da non poter essere ascrivibile, secondo il gip, alla fattispecie contestata dalla Procura, vale a dire la “manifestazione non autorizzata”. L’altro fattore che, secondo l’ordinanza, scagiona la donna è assai più significativo: la funzione comunicativa, sensibilizzatrice, e certo non sediziosa, di mobilitazioni pacifiche come quelle denunciate dalla Digos milanese, che realizzano in realtà, secondo il giudice, la libertà d’espressione costituzionalmente tutelata, tanto più in una fase difficile per la vita delle persone qual è quello delle restrizioni anticovid. Di fatto, nella pronuncia emanata dal dottor Salvini fa ingresso il principio secondo cui la durezza delle rinunce imposte dall’epidemia giustifica il malessere sociale, e le espressioni di tale malessere vanno censurate solo a condizione che, come richiamato nell’ordinanza, arrechino significative minacce alla sicurezza o all’ordine pubblico. Naturalmente non è una legittimazione per le manifestazioni violente inscenate nei giorni scorsi in molte città italiane. È casomai un invito implicito, e bene argomentato, a non affasciare in un’unica censura tutte le libere espressioni del disagio. Non si possono mettere gli ultrà armati di molotov sullo stesso piano di cittadini che protestano per la gestione delle terapie intensive. Nello specifico della vicenda, la 45enne aveva organizzato tre flash mob: una il 13, una il 15 e la terza il 25 del maggio scorso. Era la fase del faticoso passaggio dalle restrizioni assolute alla ripresa parziale delle attività. La signora organizzò, come ricostruisce il provvedimento, le iniziative spontanee per “manifestare il suo dissenso in merito alle modalità con cui la Regione Lombardia aveva affrontato la cura e la prevenzione per i cittadini esposti al Covid- 19, sia negli ospedali pubblici, sia nelle Rsa, chiedendo giustizia per le vittime e un’indagine indipendente”. La 45enne aveva innanzitutto manifestato con altre 3 persone davanti al Pio Albergo Trivulzio, casa di riposo dove il virus ha mietuto molte vittime nella prima ondata, “esponendo dei cartelli con la nota foto dell’infermiera con visiera e mascherina, a testa china su un tavolo al termine di un turno di lavoro”. La stessa cosa era avvenuta in piazza della Scala, con altre sette donne. In quella occasione la promotrice dell’iniziativa e le altre partecipanti lasciarono un biglietto alla portineria del Comune per chiedere un colloquio con il sindaco Giuseppe Sala. Mentre il successivo 25 maggio la signora accusata dalla Procura aveva radunato una decina di persone davanti a Palazzo Lombardia, sempre in modo pacifico e con lo stesso scopo. Era stata appunto la Digos a intervenire e a denunciare la donna per “manifestazione non autorizzata”, cioè la fattispecie prevista dal Testo unico per la pubblica sicurezza. Il giudice scrive però che “bisogna tenere conto anche del periodo storico in cui è stato emanato il Tulps”, ossia il ventennio fascista. Si tratta di misure entrate in vigore nell’ormai lontanissimo mese di giugno del 1931. Ci si deve dunque rendere conto, secondo il provvedimento del magistrato, di quale sia il “tipo di pubbliche riunioni o manifestazioni” a cui “possa oggi ritenersi applicabile”. La finalità di quel Testo unico, osserva il gip, consiste principalmente quella nell’evitare che “raggruppamenti di persone, in genere motivati da una comune posizione politica, provochino pericoli o disagi, o turbino la vita della città”. Ma nel caso in questione “si è trattato della presenza di pochissime persone, senza striscioni o bandiere; nessuno ha preso la parola e non è stato arrecato alcun disturbo”. Non c’è dunque neanche il “coefficiente minimo di pericolosità” per ritenere la donna responsabile di un reato. Anzi: quei flash mob rappresentano una “presenza simbolica che funziona da mezzo e forma di comunicazione e quindi rappresenta una manifestazione della libertà di espressione che non ha bisogno di particolari autorizzazioni”, conclude il giudice. Tanto più, considerando il periodo di cui si parla, immediatamente successivo alla fase più pesante del lockdown: quelle settimane in cui molte libertà erano state compresse per tutelare il diritto alla salute, e senza che neppure il Parlamento, espressione del popolo sovrano, potesse effettivamente esprimersi sulle decisioni. Covid: legittimo impedimento per i legali, la mossa del Tribunale di Torino di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2020 Il Presidente Massimo Terzi invita a riconoscere con “ampia disponibilità” rinvii motivati dalla emergenza sanitaria. È una svolta “fai da te” ma segna comunque un importante cambio di passo. Il Tribunale di Torino, con una nota firmata dal Presidente Massimo Terzi - ed inviata al Coa, alla Camera penale ed a tutti i magistrati - apre al “legittimo impedimento” per motivi sanitari legati alla pandemia. Il documento - rubricato: “Deduzioni di legittimi impedimenti e richieste di rinvio in relazione alle problematiche epidemiologiche” - arriva all’esito di un confronto con le diverse Sezioni ed ha la finalità di garantire il diritto di difesa. Si invitano così i magistrati - tutte le volte in cui la richiesta non sia palesemente strumentale - a riconoscere “con ampia disponibilità” i rinvii richiesti per motivi legati all’emergenza sanitaria. E ciò anche in considerazione delle difficoltà di relazione con le strutture sanitarie e nei rapporti tra difensori e clienti qualora uno dei due sia sottoposto a restrizioni. Scrive Terzi: “La peculiarità della situazione suggerisce - a mio avviso impone - impregiudicata la autonomia di ciascun Giudice - una interpretazione che fondandosi su un principio di realtà valuti le norme - sulla base del fatto notorio della crisi pandemica e delle difficoltà di rapporto con l’Autorità Sanitaria da parte dell’utente - sulla base del doveroso principio di garantire i diritti di difesa - ove non si ritenga (esplicitandone i motivi) che la deduzione sia una evidente strumentale violazione del principio di lealtà e collaborazione - con conseguente ampia disponibilità a riconoscere, ove non vi siano immediate e imprescindibili conseguenze processuali per il richiesto differimento, l’uso più ampio possibile della concessione dei rinvii richiesti”. “Anche, e soprattutto - conclude - in considerazione della obiettiva difficoltà di rapporto tra cliente e difensore ove l’uno o entrambi si deduca siano soggetti e restrizioni per motivi sanitari”. Sul tema è ripetutamente intervenuta l’Aiga. “È un errore - afferma l’Associazione dei giovani legali - da parte del legislatore non intervenire proprio nella durissima fase che l’intero sistema giudiziario sta affrontando: arginare la diffusione del contagio deve essere una priorità che va coniugata con la effettiva tutela dei diritti dei cittadini, la cui forma più alta è certamente il diritto di difesa”. Invece, denunciano i legali: “Sono quotidiani i provvedimenti di rigetto delle istanze di legittimo impedimento presentate dai difensori, motivate per l’isolamento fiduciario o addirittura per il periodo di quarantena obbligatoria”. L’Associazione ha redatto un disegno di decreto legge che “è già sul tavolo del Ministro della Giustizia” ma “non incluso nel pacchetto di norme del nuovo D.L. Ristori”. L’invito dunque “è quello di introdurre in sede di conversione le modifiche all’istituto del legittimo impedimento da tempo sollecitate dall’Aiga”. Milano. C’è il Covid, ma le carceri non si svuotano di Luca Fazzo Il Giornale, 3 novembre 2020 Uno svuota-carceri che non svuota niente: il decreto annunciato dal ministro della Giustizia per fronteggiare l’emergenza Covid all’interno degli istituti penitenziari si sta rivelando, alla prova dei fatti, quasi ininfluente sulla situazione di San Vittore, Opera e Bollate, le tre strutture detentive milanesi. Le prime due sono state investite anche dalla seconda ondata, ma dovranno continuare a fare i conti con la situazione di affollamento che è il più micidiale brodo di coltura per il virus. Anche se sia in cella che all’ora d’aria è obbligatorio l’uso della mascherina (che viene tra l’altro sostituita ogni giorno), il contatto ravvicinato, soprattutto durante i pasti, è un fattore di rischio quasi insormontabile. Il focolaio più recente è stato quello scoppiato nel reparto di Opera che ospita i cosiddetti “articoli 21”, detenuti che escono di giorno per lavorare. Dopo la positività di uno di loro, sono stati tamponati tutti, e i cinque risultati positivi sono stati trasferiti a San Vittore dove con il riesplodere dell’epidemia è stato riaperto l’hub per i malati di Covid che fa da centro di accoglienza per tutta la regione. Nel frattempo il reparto di Opera (e quello contiguo che ospita i semiliberi) è stato blindato, con sospensione delle uscite fino al secondo tampone. Proprio i semiliberi saranno però tra i pochi ad avere vantaggi concreti dal decreto che giovedì scorso il ministero ha varato per limitare l’impatto della seconda ondata sulle carceri. La norma prevede che i semiliberi possano chiedere una serie di licenze anche sopra il tetto massimo previsto, e di fatto trasferirsi nella propria abitazione fino alla fine dell’anno. Già sabato scorso il tribunale di sorveglianza ha ricevuto una ondata di richieste provenienti da Opera, e una volta verificata l’assenza di controindicazioni i detenuti potranno abbandonare il carcere. Il reparto semiliberi sarà praticamente svuotato. Decisamente più modesto si annuncia l’impatto della seconda misura, che prevede la concessione degli arresti domiciliari a chi ha meno di diciotto mesi di pena ancora da scontare. In realtà si tratta di un rinnovo della norma che, raccogliendo anche le richieste dei detenuti, era stata varata in primavera e che già allora nelle carceri milanesi aveva inciso poco. Chi poteva uscire è uscito allora, così adesso le uniche domande a venire esaminate dal tribunale saranno le istanze dei detenuti che hanno maturato nel frattempo il requisito dei diciotto mesi di pena residua. Ma qua si andrà a sbattere contro un altro ostacolo: la disponibilità dei braccialetti elettronici, che il detenuto deve accettare per ottenere i domiciliari. Ma i braccialetti scarseggiano, e la lista d’attesa per vedersene assegnare uno a Milano dura in genere parecchie settimane, e fino ad allora l’aspirante resta in carcere. Per questo il decreto prevede che entro dieci giorni si faccia il censimento dei braccialetti necessari, per avviare l’approvvigionamento; se i tempi saranno i soliti, arriveranno (si spera) a pandemia finita. Torino. Le detenute: “Siamo isolate dall’esterno e ammassate in carcere” di Mauro Ravarino Il Manifesto, 3 novembre 2020 La denuncia ad Amnesty. Si respira aria di sofferenza mista a rabbia per l’essere inascoltati, ultimi tra gli ultimi. Siamo come un malato a cui vengono vietate le cure dal proprio medico. Isolate nel sovraffollamento, distanziate dagli affetti e strette tra gli estranei. Il paradosso della pandemia vissuta in carcere è intriso di sofferenza. E viene raccontato in prima persona nella lettera aperta ad Amnesty International scritta da alcune detenute della Terza sezione femminile della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, che chiedono al governo di prendere in esame misure meno afflittive (indulto, libertà anticipata di 75 giorni, misure alternative), “non come un regalo di clemenza, ma come un diritto acquisito”. Perché, anche nei casi in cui per le misure alternative ci sarebbero le “carte in regola”, si contano - sostengono le firmatarie - “più rigetti che accoglimenti delle nostre istanze”. È il caso di Dana Lauriola, No Tav, in carcere dal 17 settembre alle Vallette, dove deve scontare una pena di due anni di detenzione per un episodio avvenuto nel 2012 durante un’azione dimostrativa pacifica sull’autostrada Torino-Bardonecchia, quando al megafono spiegava le ragioni della manifestazione. Una vicenda su cui si era espresso anche il presidente di Amnesty Riccardo Noury (“Esprimere il proprio dissenso pacificamente non può essere punito con il carcere”), con un appello per la scarcerazione, a cui hanno aderito le detenute di Torino. Tra le firmatarie della lettera aperta diffusa ieri c’è anche Dana. “Nonostante l’esistenza di leggi che propongano un’alternativa alla carcerazione e quindi una risoluzione sia al problema del sovraffollamento, sia a quello del reinserimento sociale, troppo spesso - scrivono le detenute - non vengono applicate poiché soggette alla discrezionalità del magistrato competente”. Ritengono di scontrarsi “con il muro della severità di alcuni magistrati, che tendono a non applicare le misure alternative sminuendone così l’importanza e sminuendo inoltre i percorsi rieducativi che un detenuto intraprende”. In una situazione già complicata si intrecciano gli effetti della pandemia dietro alle sbarre. “Le regole di distanziamento per evitare il contagio sono impossibili da rispettare, pur volendo, all’interno del carcere a causa del sovraffollamento, delle celle non a norma, delle docce comuni. Ma anche del fatto che, pur essendo un ambiente “chiuso ed isolato”, questo vale solo per noi detenuti perché in realtà gli operatori entrano ed escono. Eppure, il rigoroso rispetto dei protocolli sanitari viene imposto quando effettuiamo un colloquio con i nostri familiari. E c’è un semplice calcolo che descrive in modo elementare qual è il nostro diritto all’affettività: 6 ore al mese di colloquio consentite per 12 mesi, pari a 72 ore l’anno, tre giorni. Questo vale per i detenuti comuni. Chi è al 41bis ne ha ancora meno”. I tre giorni “durante questo anno sono stati ridotti e durante il lockdown sostituiti da videochiamate di 25 minuti”. Le firmatarie della lettera, “certe di riportare il pensiero dei nostri compagni nei padiglioni maschili e nelle altre carceri”, sottolineano: “La gestione della prima ondata qui dentro è stata fallimentare. Il ministero ha applicato misure insignificanti dal punto di vista sanitario, ma improntate solo sul rispetto della “sicurezza”. Si sta creando una bomba sociale. Si respira aria di sofferenza mista a rabbia per l’essere inascoltati, ultimi tra gli ultimi. Siamo come un malato a cui vengono vietate le cure dal proprio medico. Veniamo trattati come numeri di matricola, non come persone, così è controproducente sia per noi, sia per lo Stato stesso, che accoglierà gente più sfiduciata”. Terni. Covid-19, si estende il focolaio nel carcere: 69 positivi solo tra i detenuti umbria24.it, 3 novembre 2020 Sappe: “Situazione ingestibile, tra carenza di personale e di dispositivi protettivi”. Lettera al provveditorato e alla direzione. Duplice missiva a firma del segretario generale del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Fabrizio Bonino, una indirizzata alla direzione del carcere di Terni, l’altra al provveditorato di amministrazione penitenziaria, generale e territoriale sul territorio Toscana e Umbria; lettere di denuncia e richieste per quanto sta avvenendo all’interno dell’istituto ternano di Sabbione, dove l’urto della seconda ondata del virus si sta rivelando decisamente violento: il focolaio Covid-19 si è così esteso che i positivi sono 69 solo tra i detenuti mentre il dato dei poliziotti non sarebbe ancora disponibile. Ma è proprio a difesa del personale che il Sappe interviene. Covid-19, carcere di Terni a rischio collasso Nella lista delle criticità la mancanza di dispositivi di sicurezza, tra i quali tute monouso in sostituzione dell’unica in molti casi, in dotazione che tra un turno e l’altro non c’è possibilità di lavare; poi la carenza di sanificazioni. Il sindacato denuncia quindi una mala gestione dell’emergenza all’interno del carcere e ancora una carenza di personale che in questo particolare momento emerge con tutta la sua evidenza. “La situazione - scrive Bonino - rischia di collassare sia sotto il profilo sanitario che della sicurezza. La chiamata del ministro della giustizia per esprimere solidarietà non basta. Servono azioni concrete e immediate per far fronte alla situazione”. Napoli. Carceri, sono 21 i detenuti positivi tra Poggioreale e Secondigliano Il Mattino, 3 novembre 2020 Sono ventuno i detenuti finora positivi al coronavirus, tra il carcere di Poggioreale, quello di Secondigliano e la casa circondariale femminile di Pozzuoli. Sono asintomatici e sono sotto osservazione per evitare la diffusione del contagio, secondo quanto emerso dal confronto tra la camera penale (rappresentata dai penalisti Sabina Coppola e Sergio Schlitzer), la Onlus il Carcere possibile (Annamaria Ziccardi e Elena Cimmino), il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, i responsabili dei tre penitenziari, il presidente del Tribunale di Sorveglianza Adriana Pangia. Questa mattina sono previsti i tamponi per gli agenti di polizia penitenziaria e per i detenuti tracciati come possibili contatti dei positivi. Spiega l’avvocato Coppola: “Vanno limitati al massimo i nuovi ingressi, consentendo che i semiliberi restino a dormire presso le loro abitazioni”. Roma. La Garante Stramaccioni: a 80 anni riportato a Rebibbia in pieno Covid di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 novembre 2020 Gabriella Stramaccioni racconta che l’uomo, con problemi mentali, era in detenzione domiciliare per diffamazione e finirà la pena ad aprile del 2021. Ha quasi 80 anni con problemi mentali, era in detenzione domiciliare per un reato di diffamazione, ma il 15 ottobre scorso lo hanno tradotto nel carcere di Rebibbia nuovo complesso perché non ha rispettato alcuni obblighi imposti dal giudice. La denuncia arriva da Gabriella Stramaccioni, la Garante delle persone private della libertà per il Comune di Roma. Lui si chiama Marco, è del 1941 e ha subito, com’è detto, una condanna definitiva per diffamazione con una pena che finirà di scontare ad aprile del prossimo anno. Non aveva neanche capito di essere ai domiciliari - In piena pandemia, quando si stanno adottando provvedimenti per ridurre il sovraffollamento onde evitare che non ci sia posto per isolare e curare i malati di Covid 19, accade che fanno entrare in carcere un anziano che molto probabilmente, proprio per il suo stato psichico, nemmeno si è reso conto di ciò che ha fatto. “Il signore ha problemi mentali - denuncia la Garante Gabriella Stramaccioni - e la moglie non aveva neanche capito che fosse ai domiciliari. Mi hanno cercata per capire il perché il marito fosse stato portato in carcere. Mi chiedo e chiedo: si possono evitare queste assurdità?”. Una storia che ha destato stupore tra il personale dell’area educativa del carcere, anche perché ci troviamo nuovamente nel periodo in cui, oggi più che mai, va ricordato che nel nostro sistema il carcere costituisce l’extrema ratio. Nelle carceri è impossibile assicurare il distanziamento fisico - Come ha detto il Procuratore generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi, tramite un documento del primo aprile scorso, “occorre dunque incentivare la decisione di misure alternative idonee ad alleggerire la pressione dalle presenze non necessarie in carcere: ciò limitatamente ai delitti che fuoriescono dal perimetro predittivo di pericolosità”. Sì, perché chiunque conosca la realtà carceraria italiana sa bene che è impossibile assicurare dentro le carceri quel distanziamento fisico, nonché le altre misure essenziali di profilassi. I detenuti dividono le camere fra più persone, condividono i servizi, consumano pasti insieme nelle celle, gli spazi comuni sono limitati. 395 detenuti e 424 agenti penitenziari positivi - Insomma, in carcere l’assembramento, che tutti dobbiamo evitare, è inevitabile con i numeri che ci sono. Poi ci sono gli anziani e malati, proprio quelli che sono i soggetti più vulnerabili al Covid 19, che in carcere non dovrebbero proprio starci. L’equilibrio all’interno degli istituti penitenziari affollati è molto precario e bisogna intervenire velocemente con provvedimenti efficaci per evitare i contagi. A ieri i detenuti positivi nelle carceri italiane sono 395, contro i 145 del 27 ottobre, mentre gli agenti sono 424 rispetto ai 199 di una settimana fa. La stessa garante Stramaccioni ha fatto recentemente un appello alla magistratura di sorveglianza affinché “verifichi di nuovo, come è stato fatto durante il lockdown, tutti i casi di incompatibilità con il regime detentivo da parte di coloro che soffrono di particolari patologie. E parliamo di tante persone”. Da garante visita frequentemente le carceri romane ed ha evidenziato che ci sono troppe criticità, “troppi ritardi da parte della Magistratura di Sorveglianza a dare risposte alle istanze che riguardano la liberazione anticipata, la incompatibilità per malattie alla detenzione, alla concessione dei permessi o dei benefici permessi per legge. Le cancellerie sono in forte difficoltà e molte pratiche non vengono lavorate, nei tempi opportuni”. In tutto questo, accade che mandano a Rebibbia un anziano signore, con problemi mentali e per un reato non grave. “Per cortesia, facciamolo uscire subito!”, chiede a gran voce la Garante Stramaccioni. Santa Maria C.V., il processo per le violenze sui detenuti e lo scontro tra poteri dello Stato di Luigi Romano e Riccardo Rosa napolimonitor.it, 3 novembre 2020 L’11 marzo scorso - due giorni dopo le rivolte che hanno coinvolto i detenuti nella maggior parte delle carceri italiane e durante le quali sono morti tredici tra questi - il ministro della giustizia Bonafede si presenta in parlamento per una “informativa sull’attuale situazione nelle carceri”. Nel suo discorso Bonafede appare in balia degli eventi. Condanna con generica retorica le violenze dei detenuti, elenca una serie di provvedimenti che avrebbe preso nei primi giorni di emergenza Covid l’amministrazione penitenziaria, ringrazia il personale degli istituti e prova a lavarsi le mani rispetto alle criticità del sistema, addossando le colpe delle condizioni delle prigioni italiane alla cattiva gestione dei decenni passati. Tra i provvedimenti che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria avrebbe dovuto prendere nei giorni dell’emergenza ce ne sono alcuni che, ancora oggi, a distanza di mesi, non hanno visto la luce. Il più rilevante riguarda quella che viene definita, in una nota del 26 febbraio, una necessaria e “capillare attività di informazione e sensibilizzazione della popolazione detenuta perché […] questa possa condividere eventuali disposizioni da adottare, soprattutto con riferimento alla temporaneità delle stesse, per limitare le occasioni di contagio o lo sviluppo e la diffusione del virus negli istituti”. Il riferimento è alla condivisione con i detenuti, e alla comunicazione tempestiva (entrambe mai avvenute), della transitorietà e delle motivazioni emergenziali alla base del provvedimento sulla restrizione dei colloqui con le famiglie. L’intera informativa del ministro si configura come una difesa d’ufficio del capo del Dap dell’epoca, Basentini (poi defenestrato dopo le polemiche televisive sulla scarcerazione dei capi mafiosi durante l’emergenza Covid), mentre la morte di quattordici detenuti viene liquidata con poche parole e derubricata come una questione della quale si occuperà la magistratura. Sette mesi dopo, Bonafede viene nuovamente chiamato in causa - dopo non aver risposto all’”interrogazione urgente” della senatrice Nugnes del 20 aprile -, questa volta da un’interpellanza firmata dal deputato radicale Riccardo Magi e dall’autonomista trentino-tirolese, presidente del gruppo misto, Manfred Schullian. I deputati chiedono conto degli eventi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere un mese dopo le rivolte di marzo, e per la precisione tra il 5 e il 6 aprile 2020. In riferimento alle violenze ai danni dei detenuti commesse da un plotone di oltre trecento agenti penitenziari provenienti dall’esterno del carcere, l’interpellanza chiede al ministro se fosse informato di una perquisizione che ha avuto le fattezze di un blitz punitivo, e se il Dap avesse avviato delle indagini interne sui pestaggi dopo aver ricevuto numerosi esposti dell’associazione Antigone e dopo la pubblicazione di alcuni articoli di stampa, ben prima che la magistratura si interessasse alla vicenda. All’interrogazione risponde il sottosegretario per la giustizia Vittorio Ferraresi. La sua relazione è un lungo riepilogo, nemmeno troppo dettagliato, degli eventi avvenuti a Santa Maria, ma senza entrare nel merito del ruolo avuto dal ministero e dalle varie catene di comando sulla mega-perquisizione, né sul conflitto in corso tra due poteri, ovvero la magistratura di sorveglianza e la polizia penitenziaria. Poche ore prima della perquisizione, infatti, il carcere di Santa Maria Capua Vetere era stato visitato dal magistrato di sorveglianza Marco Puglia, successivamente alle tensioni registratesi il giorno precedente, quando circa cento detenuti avevano protestato, avendo appreso la notizia del primo positivo al Coronavirus nel carcere campano. La presenza “di garanzia” del magistrato a Santa Maria sembrava aver abbassato la tensione e scongiurato ulteriori strascichi. Eppure, poche ore dopo la sua uscita dal carcere, trecento agenti di polizia penitenziaria, interpellati (da chi?) dopo le tensioni del giorno precedente, sono entrati a volto coperto fin dentro le celle dei detenuti, dando vita a quella che da subito non abbiamo esitato a definire una “mattanza”. Una vera e propria vendetta per le proteste del giorno precedente, che oggi sembra essere destinata a dar vita al più importante processo ai danni dell’amministrazione penitenziaria nella storia della Repubblica. Non c’è forse bisogno di sottolineare che nella sua risposta - durante la quale il sottosegretario utilizza un lessico estremo per condannare le proteste dei detenuti, mentre mai si esprime sull’eventualità di gravissime violenze operate dal personale di polizia - Ferraresi non cita in alcun modo la presenza in carcere del magistrato Puglia, cercando di smorzare l’evidente contraddizione di due poteri - la magistratura e la polizia penitenziaria - che scendono in conflitto su un terreno concreto. L’assenza di una prospettiva politica della pena, e l’abbandono di qualsiasi forma di intervento trattamentale negli istituti, hanno reso il carcere uno spazio esclusivamente votato alla contenzione. Le spinte dei sindacati di polizia hanno trovato così terreno fertile, in un sistema che secondo l’ordinamento penitenziario dovrebbe mantenere equilibrio tra l’area giuridico-pedagogica e quella della sicurezza, entrambi elementi dell’esecuzione della pena supervisionati dalla magistratura di sorveglianza. Persino la Fp-Cgil in un comunicato che riguarda Santa Maria Capua Vetere ha sottolineato come il regime delle celle aperte debba essere gestito secondo i criteri della premialità, accedendovi solo i più meritevoli (secondo quali valutazioni?) e ribadendo implicitamente che la norma deve essere la chiusura delle celle. Il risultato di queste spinte è che a oggi, stando alle ultime visite dell’Osservatorio di Antigone, il regime chiuso sembra tornato a essere la normalità, prassi che riporta indietro nel tempo il modello carcerario. Al di la degli esiti del procedimento sulle violenze di Santa Maria, sono importanti alcune riflessioni che tralasciano le posizioni dei singoli soggetti che hanno agito quel pomeriggio e che vanno inquadrate in una visione d’insieme del sistema. Le dichiarazioni del ministero sul ripristino della legalità in seguito a una protesta, sono contraddittorie, avendo constatato sul campo le modalità di recupero delle gerarchie interne durante la rivolta al carcere di Fuorni (Salerno), il primo istituto a insorgere. In quell’occasione l’ordine interno dell’istituto si era sgretolato e i reparti celere della polizia e dei carabinieri riuscirono a ripristinare il controllo solo dopo alcune ore. Le violenze di Santa Maria colpiscono invece “a freddo”, il 6 aprile, quando la protesta del giorno prima era già ampiamente rientrata. Per questo, chi ha agito quel pomeriggio lo ha fatto per rappresaglia con l’intento di ristabilire i rapporti di dominio. È stata un’azione di guerra che rispecchia in parte il modello di gestione del penitenziario. Qualche ragionamento è lecito anche rispetto all’attenzione mediatica che in questa fase viene riservata al processo, a fronte della grande reticenza (come sempre quando si parla di carcere, e ancor più dei casi riguardanti violenze da parte delle forze dell’ordine) che si era registrata nelle prime settimane dopo i fatti. L’articolo in cui denunciavamo gli avvenimenti di Santa Maria, insieme al documento audio che riportava le registrazioni di alcune telefonate in cui i detenuti raccontavano ai propri familiari le violenze subite, ebbe nei giorni di marzo una diffusione importante (oggi viene citato dal senatore Manconi sulle colonne di Repubblica). All’epoca, però, pochissimi media nazionali, persino su nostro sollecito, ritennero opportuno approfondire la vicenda, come stanno invece facendo oggi, per esempio con gli articoli pubblicati da Domani e il Riformista. Questo diverso atteggiamento ci dà la portata dell’importanza del processo che sta per iniziare e che coinvolgerà, secondo le informazioni che abbiamo a disposizione (e considerando l’alto numero di avvisi di garanzia recapitati), anche alcuni profili dirigenziali del sistema carcerario. Allo stesso tempo, però, è necessario comprendere da quali impulsi e con quali scopi (non necessariamente la tutela dei diritti dei detenuti) prendono corpo determinate campagne di stampa, in una contesa che più che mirare alla ricostruzione della verità potrebbe configurarsi come uno scontro tra forze istituzionali che, verosimilmente, cercheranno di esporsi il meno possibile. Parma. I detenuti? Collegati in videoconferenza per i processi Gazzetta di Parma, 3 novembre 2020 Intatto, almeno finora, il calendario dei processi. Ma a Parma, come nel resto del Paese, detenuti collegati in videoconferenza dal carcere quando vorranno prendere parte alle udienze. È uno dei provvedimenti inseriti nel decreto legge “Ristori”, firmato nei giorni scorsi, per cercare di far proseguire il lavoro giudiziario con maggiore sicurezza dopo la risalita dei contagi un po’ ovunque. Come già sperimentato durante i mesi di lockdown, i detenuti potranno partecipare da remoto attraverso Teams, la piattaforma utilizzata dal ministero della Giustizia. Sono previste alcune eccezioni, per esempio nel caso di discussioni finali, a meno che le parti acconsentano. Ma anche nella fase delle indagini sarà possibile mandare avanti le attività pur sedendo in stanze separate e anche a molti chilometri di distanza. Il decreto prevede che l’indagato e la persona offesa possano essere sentiti dal pm anche in collegamento dallo studio del difensore che li assiste, mentre i consulenti o gli esperti di cui si avvalgono il pubblico ministero e la polizia giudiziaria potranno essere ascoltati anche dal loro stesso ufficio. Una modalità a cui, tuttavia, il difensore dell’indagato potrà opporsi, se è prevista la sua presenza. Tutte novità a termine, naturalmente. Finché la nuova emergenza non sarà rientrata. Treviso. Il Covid entra anche in Procura: accessi solo per le emergenze Corriere del Veneto, 3 novembre 2020 Il virus entra anche nella procura di Treviso facendo scattare le misure di sicurezza. A fronte di tre contagi al terzo piano del palazzo di giustizia (dove ci sono gli uffici dei magistrati), il sostituto procuratore Massimo De Bortoli, ha deciso di limitare gli accessi agli uffici alle sole forze dell’ordine e agli avvocati per eventuali emergenze. “Fortunatamente stanno tutti bene e sono praticamente asintomatici” spiegano dalla procura, ma intanto l’Usl ha avviato il tracciamento dei colleghi e dei familiari dei positivi per contenere possibili focolai. Il virus infatti non sembra arrestarsi e ieri, in sole 24 ore, sono stati 34 i ricoveri in più in ospedale e uno in più in terapia intensiva. Treviso comincia così la settimana decisiva per il lockdown e per l’istituzione delle “province zona rossa”, con quasi settemila persone attualmente positive al virus. L’Usl 2 continua ad aveNell’Usl re il record regionale di contagi da inizio epidemia, 12.306 trevigiani. Ieri è stato registrato anche un decesso: è un paziente dell’ospedale di Vittorio Veneto di 90 anni, morto dopo il contagio da Covid e con più patologie pregresse. Le vittime nella Marca diventano quindi 380. Il dato su cui si concentrano i sanitari oggi è però quello dei ricoveri. dell’infezione. La prima settimana di chiusure alle 18 nei locali, senza palestre e senza piscine, si è conclusa con un leggerissimo rientro dei numeri dei contagi, ma i sintomatici gravi sono in aumento. I 338 casi positivi in più di ieri sono l’esito di circa cinquemila tamponi nei drive-in: “Ma aggiungendo quelli che facciamo periodicamente al nostro personale e nei centri servizi arriviamo almeno a 6.500 al giorno”. E oggi parte anche il Covid-point di Casier: una giornata di test per vedere se la Dogana di Treviso sarà effettivamente sgravata dei pazienti in arrivo dall’area sud della provincia. Gli ospedali cominciano ad essere oberati di lavoro. “L’attività negli ospedali continua, non siamo ancora in emergenza - ribadisce Benazzi. Chi ha prenotato visite o esami specialisti non deve temere che saltino. Anche se Vittorio Veneto è Covid-hospital continuiamo a fare le attività oncologiche, i tumori alla laringe e il pronto soccorso. Le visite specialistiche sono al piano terra quindi con un percorso differenziato. Il San Camillo continua con le visite specialistiche, il personale oggi gestisce un massimo di 40 posti Covid ma 9 sono impegnati”. Catanzaro. Rems di Girifalco, manca poco per il via al progetto di Massimo Pinna lanuovacalabria.it, 3 novembre 2020 Il Comitato Emergenza Sanità: “Per il personale concorsi pubblici trasparenti”. Rems, prende corpo l’apertura e si avvicina la data del via ufficiale. Girifalco sarà sede di una delle cinque residenze italiane per l’esecuzione delle misure di sicurezza, dopo la soppressione ed il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Un progetto che nasce da un’idea lungimirante (pochi ci avrebbero scommesso nel 2011) del Comitato Emergenza Sanità e di Salvatore Vonella, ex vicesindaco di Girifalco. Una campagna crescente di mobilitazione e di pressione popolare che trovò riconoscimento e suggello nel decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale, il 9 ottobre 2013. Con un finanziamento di 5 milioni e 890 mila euro. Il 16 settembre del 2015 ci fu l’aggiudicazione definitiva dei lavori alla ditta, con la contestuale approvazione del programma regionale per la realizzazione, a latere, di strutture sanitarie extra ospedaliere per il superamento degli Opg. Iniziati i lavori, sulla strada verso la realizzazione definitiva del progetto, alcune vicende. Tra le quali, il ricorso contro la ditta, poi vinto. Poi il 22 gennaio 2017, il clamoroso crollo della strada della circonvallazione cittadina che porta al liceo scientifico, esattamente a monte del cantiere Rems. Con tutti i noti corollari, il sequestro del cantiere, le indagini, i rimpalli di responsabilità. Ma, Comitato Emergenza in primis, non si mollò certo la presa. Ed ecco, di seguito la ripresa dei lavori. Il responsabile nazionale delle Rems, il senatore Franco Corleone diede pure una data, il 2 giugno 2019 per l’avvio. Ma ulteriori ritardi dovuti a oggettivi ostacoli tecnici, come lo spostamento di alcuni pali per l’elettrificazione ne hanno posticipato la data. E siamo al 2020, con l’emergenza Covid che dura in pratica da otto mesi ormai. Ma la recente visita del garante regionale per i detenuti, Agostino Siviglia, e il suo pressante invito a percorrere gli ultimi metri in vista del traguardo, trovano il plauso e il sostegno del Comitato Emergenza Sanità. “Grazie ad Agostino Siviglia per il suo interessamento, ormai ci siamo, manca poco all’apertura. Soprattutto - ribadiscono ancora una volta - abbiamo l’ufficialità sul fatto che le assunzioni del personale che lavorerà alla Rems avverrà attraverso procedure concorsuali pubbliche e trasparenti”. Insomma, “nessuno spazio ad altre forme di reclutamento di tipo privato”. Ed ancora: “quando siamo ormai prossimi all’apertura, vogliamo ringraziare il senatore Corleone che è stato attore principale, paziente e tenace del progetto seguito passo passo durante le tante visite a Girifalco, il responsabile regionale della sanità penitenziaria, Luciano Lucania, i direttori generali dell’Asp di Catanzaro, l’architetto Carlo Nisticò, direttore dell’U.O attività tecniche dell’Asp di Catanzaro che ha seguito passo passo i lavori, l’allora sindaco Mario Deonofrio per la sua disponibilità, il professore Mario Nicotera per la sua consulenza tecnico-psichiatrica, infine, non per ultimi, la commissione prefettizia dell’Asp di Catanzaro, la ditta Brugellis esecutrice seria, professionale e puntuale dei lavori, la C.b.l. costruzioni di Catanzaro”. In conclusione, “Girifalco si candida ad essere centro di rilievo nazionale per la Psichiatria, con un progetto che si segnalerà come un esempio di buone pratiche sanitarie, trasparenti e che diano davvero servizi alla cittadinanza” Porto Azzurro (Li). Studenti e detenuti insieme a raccogliere le olive di Stefano Bramanti Il Tirreno, 3 novembre 2020 Nei giorni scorsi l’iniziativa del corso di agraria dell’istituto tecnico portoferraiese che si è tenuta nei terreni all’esterno della Casa di reclusione di Porto Azzurro. Il “Progetto Idea” dell’istituto tecnico Cerboni prosegue. E, nei giorni scorsi, è avvenuta la raccolta delle olive degli studenti del corso di agraria, un impegno realizzato insieme agli alunni del carcere di Porto Azzurro di forte San Giacomo, diretto da Francesco D’Anselmo. Pure loro seguono lo stesso piano didattico e sono ormai giunti al traguardo finale del percorso di riabilitazione per il reinserimento nella società. Idea è un acronimo sta per Impresa didattica elbana agricola ed è condotto dalla docente Brunella Righetti che insegna “trasformazione dei prodotti”, nella scuola superiore di Piazzale Buttafuoco diretta dalla preside Alessandra Rando. Righetti agisce pure all’interno del carcere dove vanno avanti i medesimi corsi di agraria rivolti a detenuti che frequentano dalla prima classe alla quinta, e quindi quest’anno scolastico qualcuno di loro conseguirà il diploma di maturità. Insieme a Righetti opera l’altro docente dell’Itcg Alessandro Petri, professore di Produzioni vegetali ed entrambi si confrontano con la classe quarta agraria composta da nove giovani studenti che sono Federico Anselmi, Caterina Castelli, Lorenzo Colandrea, Luca Concu, Lorenzo Inglese, Jacopo Medici, Leonardo Paoli, Francesco Petito, Leonardo Soria. “Il Progetto Idea è partito due anni fa - spiega la professoressa Righetti - varato dalla Regione Toscana che si avvale di fondi europei. I nostri ragazzi del Cerboni collaborano, al Forte San Giacono, con gli altri studenti della casa di reclusione guidati dai responsabili dell’Azienda agricola carceraria, Marco Tessieri e il suo vice Mauro Conte e 150 ore sono dedicate alle attività pratiche di agraria”. Quindi Anselmi e company hanno agito nelle aree coltivate della casa di reclusione elbana, poste attorno alla fortezza, ma sono intervenuti pure nelle tenute agricole di Porto Azzurro di Antonio Arrighi e quella di Italo Sapere, che sono tutor aziendali degli studenti. “E quest’anno- conclude Righetti - ci sono state 15 ore in cui gli alunni hanno fatto la raccolta di olive presso la struttura carceraria. L’anno scolastico scorso avevano potato i vigneti anche nelle aziende agricole portoazzurrine. E oltre la raccolta delle olive hanno agito negli agrumeti e la raccolta è proseguita nell’oliveto della tenuta di Antonio Arrighi. Il progetto fu avviato dalla preside, ora in pensione, Grazia Battaglini, che lo formalizzò; in seguito lo ha reso operativo la nuova preside Rando. La finalità di questi impegni è quella di arrivare a vedere la produzione dell’olio extravergine d’oliva e quando saranno maturi i frutti degli agrumeti carcerari nasceranno marmellate che saranno preparate con i macchinari della ditta Armando a Porto Azzurro e gli alunni seguiranno anche tutto l’aspetto gestionale e commerciale di questi prodotti. Il frantoio usato è quello compensandole di Portoferraio, ma è stato visitato pure un frantoio di Pilade che esiste al bivio tra Porto Azzurro e Capoliveri, tutto automatizzato dove vengono consegnate le olive e si produce l’olio extravergine, grazie all’intervento dei dipendenti di quella struttura, che alla fine del processo riempiendo taniche di acciaio”. Volterra (Pi). Il carcere cerca un tecnico per dirigere la sartoria La Nazione, 3 novembre 2020 Al via la selezione, domande entro il 13 novembre. L’incarico sarà incentrato soprattutto sulla formazione professionale dei detenuti. Al via una procedura di selezione comparativa per l’affidamento dell’incarico di direzione tecnica della lavorazione industriale della sartoria del carcere. L’incarico pone al centro prestazioni d’opera per la direzione tecnica della sartoria all’interno dell’istituto penitenziario di Volterra. Le prestazioni riguarderanno principalmente le commesse per conto dell’amministrazione penitenziaria: l’incarico dovrà riguardare, in particolare, la formazione dei detenuti-sarti, avviandone o incrementandone la qualificazione professionale. Ulteriori indicazioni su prestazioni richieste ed obblighi per il soggetto incaricato saranno specificati nella convenzione che sarà stipulata con il professionista che vincerà la selezione. L’avviso sarà pubblicato sul sito web del ministero della giustizia e della casa di reclusione di Volterra, sul sito della Regione Toscana, sull’albo pretorio del Comune di Volterra e trasmesso alla Camera di Commercio di Pisa. La durata della prestazione è prevista per il periodo dal primo gennaio 2021 al 31 dicembre 2022,0 con la possibilità di una proroga tecnica per il tempo strettamente necessario per l’individuazione del nuovo contraente. Il compenso, da corrispondersi mensilmente, è stabilito nella misura di 20,42 euro orari, Iva inclusa, per una prestazione settimanale che non potrà essere superiore a 30 ore, con esclusione di ogni altra gratificazione o indennità e di ogni trattamento previdenziale e assicurativo. Il pagamento verrà corrisposto periodicamente, previa verifica della regolarità della prestazione resa, secondo le modalità previste dallo schema di convenzione. Ecco i requisiti richiesti: possesso della cittadinanza italiana o di uno degli stati membri dell’Unione Europea; godimento dei diritti civili e politici; possesso di titoli comprovanti una valida esperienza maturata nel settore e/o attestati di specifici corsi frequentati con superamento di esami finali; non aver riportato condanne penali con sentenza passata in giudicato, né avere procedimenti penali pendenti a proprio carico e non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di prevenzione o di provvedimenti iscritti nel casellario giudiziale e non essere sottoposto a procedimenti penali; possesso di valida esperienza nei mestieri afferenti le attività sartoriali, idonee all’esercizio delle funzioni relative all’incarico oggetto del bando e possesso o impegno ad aprire una partita Iva. Le domande dovranno essere presentate entro il 13 novembre a “Casa di reclusione di Volterra, via Rampa di Castello, 4, 56048, Volterra”, a mano o per raccomandata, o all’indirizzo pec cr.volterra@giustiziacert.it. Rai Storia: “Senza distinzione di genere”, il carcere femminile askanews.it, 3 novembre 2020 I principi della Costituzione non conoscono muri, nemmeno quelli delle carceri dove, lì più che mai, sono necessarie parole di giustizia a salvaguardia della dignità umana. In particolare per i soggetti più vulnerabili: le donne con i loro bambini. A partire dall’analisi dell’articolo 27 della Costituzione, dove si specifica che le pene devono tendere alla rieducazione, la quinta puntata di “Senza distinzione di genere”, il programma di Rai Cultura con Stefania Battistini, in onda martedì 3 novembre alle 22.10 su Rai Storia (canale 54), offre un viaggio nel tempo all’interno dei penitenziari italiani, dove le riforme dell’ordinamento carcerario sono legate a doppio filo con le storie delle detenute. Un tema delicato che spesso pone all’attenzione del legislatore anche i diritti dei figli, soggetti terzi incolpevoli, che subiscono indirettamente la pena inflitta al genitore. Le sentenze principali individuate a tal proposito sono la n.350 del 2003 e la n. 239 del 2014. In entrambi i casi si cerca un bilanciamento tra le esigenze punitive dello Stato, anch’esse di livello costituzionale, e le esigenze del maggiore interesse del minore. Nella prima sentenza viene affrontata specificamente la condizione di un figlio portatore di handicap, nella seconda invece il tema discusso riguarda le forme della detenzione domiciliare. “Ci sono tanti modi - spiega Marta Cartabia - per permettere alle donne con figli di espiare la loro pena attraverso delle modalità che non pregiudichino una crescita di questi figli in un rapporto sano con le madri”. Proietti, quando disse ai detenuti: “Sono uno di voi” adnkronos.com, 3 novembre 2020 “Mi è venuta voglia di fare una mandrakata per tutti loro, perché vivano qui dentro al meglio”. Così un commosso Gigi Proietti, il grande attore romano scomparso stamane, commentò la calorosa accoglienza riservatagli dai detenuti della casa circondariale di Rebibbia il 5 gennaio 2015, quando fu ospite d’onore del pranzo natalizio organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. Non era la prima volta che l’attore entrava in un carcere: qualche anno prima aveva preso parte a un evento a Regina Coeli e nel 2011 prestato il suo volto al calendario della Polizia Penitenziaria. A raccontare l’episodio a Gnewsonline, il quotidiano web del ministero della Giustizia, è l’ispettore di Polizia penitenziaria Luigi Giannelli, che accompagnò l’attore e sua moglie Sagitta durante la visita nel carcere romano. “I ragazzi della Comunità di Sant’Egidio per il tradizionale pranzo organizzato durante le festività natalizie avevano contattato vari personaggi dello spettacolo che tardavano a dare la loro disponibilità. Proietti invece accettò subito con entusiasmo. Arrivò molto prima del pranzo, alle 10.30, e volle vedere alcuni ambienti dell’Istituto. Tra questi, inevitabilmente, la sala teatro che apprezzò molto”. A tavola i detenuti gli chiesero di esibirsi in una delle scene cult di Febbre da Cavallo. “Ma lui - continua Giannelli - si sottrasse con eleganza all’invito dicendo che quello non era il posto adatto per parlare di truffatori”. Sorprese tutti la scelta di Proietti di sedersi vicino ad alcuni detenuti durante il pranzo che, per poter ospitare più di 150 persone, fu organizzato nei locali della falegnameria. Fabio Gui, dell’Osservatorio Salute in carcere, che partecipò in qualità di volontario di Sant’Egidio, così ricorda quei momenti: “Dopo aver ascoltato con attenzione le vicende dei suoi commensali, Proietti ripeté spesso questa frase: ‘La vita è complicata’… Mi colpì particolarmente l’incontro con Marcel, un detenuto anziano originario del Tufello, la borgata romana dove Proietti aveva trascorso infanzia e parte della sua adolescenza. Rievocarono insieme luoghi e fatti, vissuti da punti di vista molto diversi. Disse di essere venuto come romano, “uno di voi che ha fatto incontri e poi scelte diverse”. “In quell’occasione - aggiunge Gui - il grande artista si fermò a parlare a lungo anche con i giovani volontari, esordendo così: ‘Ma che davero non ve pagheno’?… Poi si mostrò colpito e ammirato dalla gratuità del loro impegno”. Tra i vicini di tavolo dell’attore quel giorno c’era anche Marco, che stava vivendo un momento importante della sua vita: aveva appena pubblicato il suo primo libro, scritto in carcere. Oggi Marco è libero, lavora, è autore di tre libri e vuole ricordare così Proietti: “Gli regalai una copia del libro e fui subito colpito dal suo interesse vero, non di circostanza. Quando lesse le prime righe di uno dei racconti vidi una lacrima scendere dai suoi occhi. Non dimenticherò mai quel momento così autentico che mi ha fatto pensare che i grandi artisti si riconoscono anche dalla sensibilità e dalla capacità di continuare a emozionarsi”. Titolo V della Costituzione, ovvero la madre di tutti i conflitti tra poteri di Francesco Damato* Il Dubbio, 3 novembre 2020 Storia di una riforma nata male che rischia di finire anche peggio. Fra gli effetti di questa maledetta pandemia virale c’è il fallimento che più clamoroso non poteva rivelarsi della riforma del titolo quinto della Costituzione voluto nel 1999, in vista delle elezioni ordinarie del 2001, dal centrosinistra d’edizione ulivista. Che aveva avuto in quella legislatura ben quattro edizioni, in barba alla semplificazione, maggiore governabilità e altre meraviglie ancora promesse al popolo con l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica. Il cui esordio tuttavia non era spettato al centrosinistra ma, a sorpresa, al centrodestra improvvisato da Silvio Berlusconi, con la sua Forza Italia, alleandosi al Nord con la Lega di Umberto Bossi e al Centro- Sud col Movimento Sociale di Gianfranco Fini in evoluzione verso Alleanza Nazionale. Rottosi subito il rapporto fra Berlusconi e Bossi, basatosi sull’idea di trasformare in senso federale la Repubblica aumentandone le autonomie locali come antidoto alla secessione padana, quei geni della sinistra trascorsero il loro tempo, mentre Lamberto Dini guidava un governo simil- tecnico per portare avanti il più possibile una legislatura azzoppata, a studiare il modo in cui rendere la rottura nel centrodestra la più profonda e meno recuperabile possibile. Come? Facile: inseguendo Bossi sulla strada del federalismo, ciò promettendogli più di quanto Berlusconi avesse potuto e voluto fare. Vinte le elezioni politiche anticipate del 1996 grazie alla rottura del centrodestra, provò la svolta federalista per primo Romano Prodi da Palazzo Chigi, ma quell’altro geniaccio di Fausto Bertinotti lo fece cadere a metà legislatura. Ci provò allora non con uno ma con due governi Massimo D’Alema in persona, che era considerato il più abile, il più furbo, il più tutto della coalizione ulivista. Ma non ci riuscì neppure lui perché commise l’imprudenza di scommettere su un turno elettorale regionale che perse, dimettendosi con un sentimento di orgoglio di cui va ancora fiero. E passò la mano a Giuliano Amato, sfidando a suo modo quella parte dell’ex Pci e, più in generale, della sinistra che non perdonava allo stesso Amato di essere stato il braccio destro, il “dottor Sottile”, il grande consigliere dell’odiatissimo Bettino Craxi, nel frattempo liquidato giudiziariamente dalla scena politica e costretto alla fuga, o addirittura latitanza, o all’esilio, secondo le preferenze, nella sua casa delle vacanze in Tunisia, finendo lì i suoi giorni amari. Toccò dunque al povero, sventurato Amato improvvisare una riforma costituzionale del titolo V per aumentare le competenze regionali, trattenere Bossi sulla strada che aveva già intrapreso di ritorno all’alleanza con Berlusconi, a dispetto delle resistenze di Fini, e rivincere le elezioni ordinarie del 2001, come quelle anticipate del 1996. L’operazione fu di tale spregiudicatezza politica e parlamentare che lo stesso Amato dopo qualche anno se ne sarebbe pubblicamente pentito, soffrendo soprattutto dei pochi voti di scarto con cui la legge passò soprattutto al Senato, alla faccia delle larghe convergenze auspicate a parole quando si mettono le mani sulla Costituzione. Da quella legge, che superò lo scoglio referendario tra l’indifferenza generale, e col centrodestra nel frattempo tornato al governo, fece le spese a tal punto lo Stato che l’attività della Corte Costituzionale s’intasò con un’infinità di ricorsi, o di inseguimenti fra le regioni che volevano sempre di più e il governo di turno che voleva dare sempre di meno, pur con i leghisti e il loro federalismo dentro. Fu insomma un pasticcio, dal quale peraltro il povero Amato non era riuscito a ricavare nel 2000 neppure l’investitura a candidato, per l’anno dopo, a Palazzo Chigi. La sempre troppo composita coalizione di cosiddetto centrosinistra gli aveva preferito Francesco Rutelli. Che avrebbe poi avuto l’onore, orgogliosamente rivendicato, di perdere onorevolmente col Cavaliere, tanto preoccupato in effetti della concorrenza del giovane “Cicciobello” da negargli alla fine della campagna elettorale un confronto diretto. Ai guasti creati da quella sciagurata riforma voluta solo per motivi di concorrenza o inseguimento politico, non certo per definire con la necessaria chiarezza i nuovi, maggiori poteri delle Regioni e la sopravvivenza dello Stato, il centrosinistra cercò nel 2005- 2006 di rimediare con una nuova riforma. Che ebbe la sola sfortuna, o il solo inconveniente di portare il nome di Matteo Renzi. Il quale di suo aggiunse quel tantino di esuberanza e impazienza, volontà di sfida e quant’altro, da perdere il referendum confermativo. E così, oltre alla salvezza della già fallita riforma del titolo V si aggiunse quella dell’ormai quasi defunto Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. E fu perduta anche l’occasione di una riduzione dei parlamentari abbinata ragionevolmente ad una modifica del cosiddetto, paralizzante e ripetitivo bicameralismo perfetto, come lo definiscono i costituzionalisti. Ora che con la pandemia i conflitti di ogni giorno, di ogni notte, di ogni ora e di ogni minuto fra il governo e le Regioni, sempre al plurale per carità, si sono rivelati rovinosi come più chiaramente non poteva apparire e avvenire, c’è anche chi vorrebbe addirittura non riformare davvero e finalmente il titolo V ma tornare ancora più indietro e chiudere l’istituto regionale, di cui tutti hanno peraltro scoperto i costi cresciuti a dismisura, assieme alle spartizioni partitiche, correntizie e quan’altro di ogni angolo di potere e sottopotere. Speriamo che a pandemia sconfitta, chissà a quale prezzo, si capisca anche l’opportunità di rinunciare a Regioni e relativi governatori, ha titolato in prima pagina uno dei giornali più filogovernativi e filo-grillini del mercato editoriale profittando del gigantesco errore - va riconosciuto- compiuto da Giovanni Toti in Liguria, Che è stato quello di proporre, pur a titolo “protettivo”, gli anziani anche perché “non produttivi” Un giornale di centrodestra come Libero, non di sinistra, ha tradotto l’idea nella rovinosa, drammatica immagine dei vecchi chiusi negli armadi, non si sa se più per allontanarli o avvicinarli alla destinazione finale delle bare. *Giornalista, analista politico I giochini pericolosi della politica di Massimo Franco Corriere della Sera, 3 novembre 2020 Per contrastare il Covid-19 non si deve temere l’”impopolarità” nel senso migliore del termine: spiegare e far comprendere all’opinione pubblica anche quello che non vuole sentirsi dire. Governo e Regioni faticano a capire che la seconda fase della pandemia da coronavirus non regala né promette rendite di posizione politiche ma esige maggiori responsabilità. Nella primavera scorsa si poteva pensare di avere di fronte un’Italia spaventata e pronta a quasi tutto per uscire a un’ondata di contagi sconosciuta e terribile. Con senso di responsabilità e disciplina, sei mesi fa pochi hanno rinunciato a fidarsi di una maggioranza governativa e di presidenti di Regione colti alla sprovvista e senza un piano. Le restrizioni inedite della libertà sono state accettate su uno sfondo di unità e di coesione motivate dall’emergenza sanitaria. Ora non più. L’ottica è cambiata. Il rimpallo degli errori e dei ritardi non viene percepito come quasi inevitabile conseguenza di un contagio non previsto da nessuno. Lo stato di necessità di allora era figlio della sorpresa; quello che si sta delineando chiama in causa anche l’imprevidenza e la disorganizzazione. Per questo il cosiddetto scaricabarile rischia di assumere in pieno il suo significato offensivo. Diventa l’emblema di una ricerca di colpe attribuite in apparenza agli “altri”, intesi come livello diverso di potere e di maggioranza politica; di fatto pagate dalla popolazione. E finisce per sottolineare un’assenza insieme di coraggio e di trasparenza, che promettono di incidere in profondità sul rapporto di fiducia costruito faticosamente fino all’estate. A forza di inseguire i sondaggi di popolarità, Palazzo Chigi comincia a rendersi conto che cosa significhi provare il morso doloroso dell’impopolarità. Non, però, perché ha preso decisioni sgradite ma efficaci; semmai per una ragione opposta. A pesare negativamente è il senso di inutilità delle misure prese, di mesi buttati via, e di mancanza di controllo della situazione da parte di chi doveva governarla; sono le divisioni all’interno della maggioranza sui tempi e sui modi delle chiusure, e i conflitti e l’incomunicabilità tra il premier Giuseppe Conte, e l’opposizione e le regioni. Probabilmente è vero che gli enti locali in prevalenza a guida leghista o comunque di centrodestra aspettano soltanto di puntare il dito contro l’esecutivo; e che in Parlamento le richieste di dialogo sono strumentali. Si è visto anche ieri. Ma tutto questo non può diventare un alibi per non provare ad aprire seriamente un confronto. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, insiste da due giorni su un’unità non di facciata. È emblematico il suo colloquio di ieri con due governatori, uno di sinistra, Stefano Bonaccini dell’Emilia-Romagna, l’altro di destra, Giovanni Toti, della Liguria. Serve a dare un segnale se non altro di metodo a chi si fa scudo dello scontro per non decidere; e a chi evoca l’autonomia delle regioni o il primato dello Stato solo quando sembrano un presagio di disastri. Il governo ha il dovere di prendere in mano la situazione; di indicare le priorità; e di ottenere il consenso di tutti oppure di spiegare perché va avanti comunque. Per contrastare il Covid-19 non si deve temere l’”impopolarità” nel senso migliore del termine: spiegare e far comprendere all’opinione pubblica anche quello che non vuole sentirsi dire. Dovrebbe essere facile, se il riflesso dell’autodifesa furba cedesse il passo a un autentico spirito di collaborazione. La difficoltà maggiore nasce da una diffidenza reciproca così radicata da cristallizzare i conflitti, mentre peggiorano condizioni economiche, rapporti sociali e contagi; e mentre la babele dei suggerimenti prodotti dai virologi aumenta l’incertezza. È indubbio che l’Italia condivide con il resto dell’Europa un rimbalzo dei contagi tale da mettere in mora intere classi dirigenti. Di nuovo, però, attenti a non utilizzare l’omologazione come salvacondotto. Bisogna chiedersi come mai in pochi mesi il “modello italiano” così celebrato e autocelebrato sia diventato un deprimente “mal comune, mezzo gaudio” europeo. E soprattutto, è urgente rimediare prima che il nostro Paese diventi una pietra di paragone in negativo. Fino a qualche settimana fa i cantori del grillismo di governo, in sintonia con chi dall’opposizione minimizzava i rischi, ironizzavano su chi temeva proteste e scontento. Forse è il caso che tutti smettano di irridere e bastonare i critici, e si facciano un rapido esame di coscienza, agendo di conseguenza. Se il rilancio non ha un piano di Elsa Fornero La Stampa, 3 novembre 2020 Torna la tragica emergenza del Covid e torna l’Italia delle contrapposizioni: tra governo e governatori, tra maggioranza e opposizione, tra le forze politiche di maggioranza, tra garantiti e non garantiti, tra risarciti e non risarciti e, da ultimo, tra giovani e anziani, questi ultimi “non più produttivi” e quindi chiudibili in casa. L’unità “patriottica” della prima fase del Covid è scomparsa per lasciare il posto a un crescendo di voci dissonanti, accompagnate, in ambito politico, da una fuga dalle responsabilità nel timore della perdita di consenso a seguiti di decisioni impopolari. Ci sono molte ragioni per questa crescita delle “partigianerie” (come le ha chiamate, stigmatizzandole, il presidente Mattarella) ma credo che su tutte sia da considerare proprio l’assenza di un “senso di direzione” che la politica non riesce più a dare, ridotta com’è a navigare a vista, inseguendo il virus. La politica è ripiegata sull’immediato, per mancanza di visione e di coraggio, e ciascuno si richiude in sé, in attesa del vaccino e di una qualche forma di (temporaneo) ristoro. E in questo ripiegamento generale emergono risentimenti, frustrazioni, rivalità: in mancanza di una prospettiva comune, ognuno si aggrappa alla sua, in una nuova manifestazione dell’”uno vale uno”, dove anche la capacità di ascolto soccombe. Arrestare questo crescendo di negatività è non solo necessario, ma anche possibile. Si tratta di ritrovare, e percorrere, lo stretto sentiero tra la lotta al virus e obiettivi di crescita sostenibile e inclusiva. E di chiarire questi ultimi in modo preciso, stabilendo un programma e quadro di priorità che vadano oltre il contrasto emergenziale al Covid. Nella prima ondata è stato non solo opportuno ma anche relativamente facile “chiudere tutto”, dato il robusto salvagente europeo: la possibilità di indebitarci in maniera massiccia senza dover affrontare il nodo gordiano della riduzione della spesa pubblica o il ricorso a una “patrimoniale” che in altri frangenti sarebbero stati inevitabili. Ed è questa la verità che occorrerebbe anzitutto dire con chiarezza ai cittadini: la gestione della prima emergenza la dobbiamo in gran parte all’Europa che, sospendendo il patto di stabilità e dandoci la possibilità di emettere debito a tassi molto bassi (o addirittura negativi), ci ha permesso di tamponare le conseguenze più devastanti del lockdown su famiglie e imprese. Mentre ci affannavamo a cercare “tamponi sanitari”, l’Europa ci ha offerto un grande “tampone finanziario”. Non è poco e forse un briciolo di ravvedimento da parte di chi voleva portarci fuori dall’Europa non sarebbe male; fornirebbe un tassello per ricostruire un po’ di fiducia. Anche perché la Commissione europea un’idea di direzione ce l’ha, e l’ha dimostrata con il Next Generation Eu, 750 miliardi che l’Europa prenderà a prestito e che trasferirà, a fondo perduto o come credito, ai singoli Paesi (209 dei quali all’Italia) non già per sostenere ogni tipo di spesa corrente, ma per investire in attività e beni durevoli che rafforzino l’economia, rendano più coeso il sistema sociale, più inclusivo il welfare, più verde il modo di produrre, più resistente il territorio. Per il nostro Paese, si tratta di affrontare problemi antichi, che il virus ha aggravato ma non creato: far tornare la nostra produttività almeno al livello medio europeo; adottare la digitalizzazione, per governare e non subire gli effetti della rivoluzione tecnologica; combattere gli abbandoni scolastici e aumentare la qualità dell’istruzione e il numero dei laureati; investire nella formazione professionale e nell’apprendimento in ogni fase della vita; valorizzare la ricerca, cui destiniamo metà delle risorse di Francia e Germania. Su tutto, poi, vi sono gli investimenti in sanità, secondo un piano a cui il Mes avrebbe già potuto fornire le risorse finanziarie ma che non è stato preparato (o almeno presentato), nelle more di una discussione surreale su questa fonte di finanziamento. Delle ingenti risorse che l’Europa metterà a disposizione, gli italiani sono stati informati, e con grande enfasi, che arriveranno già nella prima parte del prossimo anno. Ma non sanno come saranno spesi, per chi e in quali tempi. Non hanno un’idea dei progetti, né delle priorità. È in questo grande vuoto di programmazione, di ricerca di un buon punto di equilibrio tra bisogni immediati e programmi che si alimenta il malcontento generale, che neppure i “ristori” riescono a placare. È ciò che il governo dovrebbe invece fare, coinvolgendo anche l’opposizione, e lasciando che eventualmente essa si isoli da sola. No al muro tra generazioni. Oltre il Covid e il devastante individualismo di Eugenia Roccella Avvenire, 3 novembre 2020 Chiudere gli ‘anziani’ in casa - non solo gli over settanta, ma forse anche gli ultrasessantenni e persino gli ultracinquantenni - e lasciare che gli altri vivano la vita di sempre, senza più smart working e smart learning, e con i bar, i ristoranti, i cinema, i teatri, e tutte le attività aperte. Quest’ipotesi, che circola da un po’ di tempo, ma finora solo timidamente, è approdata sulle prime pagine dei giornali, grazie a un ponderato studio dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale, al quale si è poi aggiunta un’ipotesi analoga, elaborata su ‘lavoce.info’ da tre studiosi: Favero, Ichino e Rustichini. Questi ultimi sono i più radicali: orari di accesso ai negozi rigidamente separati per chi ha più o meno di 50 anni, vietati pranzi in famiglia e ogni forma di commistione generazionale. I giovani che abitano con ultracinquantenni potrebbero essere forniti di voucher per ristorante e albergo, al fine di interrompere la ‘rischiosa’ convivenza, lasciando genitori e nonni alla propria solitudine. Tutto questo, si dice, per tutelare gli ‘anziani’. Ma si intravede dietro lo scopo sbandierato la volontà di alleggerire la sanità pubblica e di tornare alla normalità lavorativa ed economica nel modo più semplice: togliendo di mezzo, come un ostacolo ingombrante e fastidioso, le persone fragili e statisticamente più a rischio. Un po’ la ricetta iniziale di Boris Johnson: salutare i “cari vecchietti”, e tirare diritto. Sappiamo com’è finita. E lo stesso premier britannico, già scosso dal contagio subito personalmente e duramente, ha proclamato un mese di parziale lockdown nel Regno Unito. Sono, quelli che viviamo, tempi di insicurezza e di spaesamento. Il Covid-19 non solo fa paura, ma fa saltare certezze accumulate in decenni di benessere e tranquillità. Dal dopoguerra a oggi il mondo occidentale non ha più attraversato eventi angosciosi come conflitti bellici, carestie e pandemie; ha costruito un welfare rassicurante, e vissuto uno sviluppo economico e tecnologico impetuoso. Le nuove generazioni sono cresciute nella cultura dei diritti individuali, che sembravano destinati ad allargarsi ogni giorno di più. Abbiamo coltivato l’illusione che, sia pure nel disagio prodotto da una lunga crisi economica, il nostro stile di vita, orientato a consumare esperienze ed emozioni oltre che beni concreti, sarebbe durato indefinitamente. Trovarsi improvvisamente chiusi in casa, privati di cinema, ristoranti, teatri, concerti, spettacoli ed eventi di ogni genere, è stata una dura sorpresa, ed è apparso a molti, soprattutto ai giovani, come un insostenibile sacrificio. Il sociologo Luca Ricolfi lo ha spiegato con chiarezza: “La nostra è una società moderna, che della società moderna possiede il tratto fondamentale: la divinizzazione dell’individuo e dei suoi diritti” a scapito del bene comune; “il rispetto dell’autorità e la capacità di affrontare rinunce sono tratti normali, se non costitutivi, delle società tradizionali, ma sono merce rarissima nelle società moderne”. Se il primo lockdown è stato subìto ma anche accettato, stretti come eravamo nella morsa della paura e con le immagini di morte che ci assediavano, il secondo lo è molto meno. L’estate, e i messaggi sbagliati, ci hanno fatto credere che il virus fosse in via di esaurimento, e che comunque si era trattato di una parentesi che potevamo archiviare. Ora invece si comincia a capire che non è così, che il vaccino non è la soluzione mitica che ci immaginavamo, che dovremo convivere con il contagio ancora a lungo. Le reazioni di rabbia e rifiuto, e non solo di chi è economicamente danneggiato, cominciano a vedersi nelle strade e nelle piazze. A questo si aggiunge un coro di opinionisti che ripete che sono i giovani i più colpiti dalle misure di contenimento sociale, è a loro che si chiedono sacrifici e rinunce. Come se i giovani dovessero essere esentati da qualunque sacrificio e rinuncia, come se dovessero essere protetti dalla consapevolezza che la vita non è sempre facile né priva di problemi e sofferenze. È anche su questa falsa coscienza che è cresciuta l’emergenza educativa, sull’idea che la vita sia qualcosa da consumare e non da costruire. Tocca a noi insegnare ai nostri figli e nipoti che la vita è anche altro, che i modelli di felicità possibili sono molti, che si può ricavare gioia anche dalla rinuncia, dal bene degli altri, dalla solidarietà, dall’amore oblativo. All’apericena, la birretta con gli amici, il weekend sulla neve, si può rinunciare senza problemi se questo serve al bene di tutti. Chiudere le persone fragili (o presunte tali) in casa, abbandonarle alla solitudine per vivere e produrre fingendo di “essere sani in un mondo malato”, vuol dire illudersi che il mercato possa funzionare comunque e far declinare quelle persone più o meno anziane e giudicate a rischio, togliere loro deliberatamente anche poche e prudenti occasioni di compagnia e condivisione, così preziose per chi non è più giovane. Quando si afferma che muoiono ‘solo’ gli ultrasettantenni o che, comunque, i vulnerabili sono soprattutto gli ultracinquantenni, magari con più patologie, come se queste constatazioni riducessero il danno, la logica brutale dell’eutanasia ha già vinto. La cura della fragilità, la difesa della vita sono parole vuote se non si traducono in scelte concrete, di vera solidarietà. L’unità nazionale possibile di fronte all’emergenza di Mario Monti Corriere della Sera, 3 novembre 2020 Dopoguerra, terrorismo, crisi finanziaria: l’Italia ha superato altri tre momenti difficili perché alcuni leader politici hanno saputo far prevalere l’interesse collettivo. Nella vita di un Paese ci sono momenti in cui la competizione tra le forze politiche, essenziale per la democrazia, deve sapersi autolimitare dando vita ad un impegno unitario per salvare il Paese da gravi minacce. Dopo la Seconda guerra mondiale la politica italiana ha trovato la forza per unirsi, con un soprassalto di responsabilità, di fronte a tre grandi emergenze. In tutti e tre i casi, la politica ha avuto ragione dell’emergenza. Tra il 1945 e il 1947, il governo Parri e i primi tre governi De Gasperi iniziarono a risollevare il Paese facendo leva sulla coesione tra i protagonisti della Liberazione, pur nettamente divisi sui temi economico-sociali e sulla collocazione internazionale dell’Italia. Nel 1976, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer decisero di combattere il terrorismo unendo le forze politiche nel governo Andreotti 3 (governo di solidarietà nazionale). L’avvicinamento tra Dc e Pci in funzione antiterroristica sfociò in un vero e proprio governo di unità nazionale nel marzo 1978 (Andreotti 4), ma venne travolto dal rapimento di Aldo Moro nel giorno stesso del dibattito sulla fiducia. Il travagliato percorso di quegli anni verso la coesione fu comunque un fattore determinante per la sconfitta del terrorismo. Nel 2011, dopo la Grecia, i mercati finanziari avevano identificato l’Italia come prossima preda degli attacchi speculativi sia per l’elevato debito pubblico, sia per la constatata incapacità della maggioranza di adottare i provvedimenti sui quali il governo (Berlusconi 4) si era impegnato con la Bce per ottenerne il sostegno ai titoli italiani. Di giorno in giorno i mercati assegnavano una probabilità crescente al default della Repubblica italiana, che avrebbe messo a rischio la stessa sopravvivenza dell’euro. Venuta meno la sua maggioranza Berlusconi si dimise. Ma, invece di trincerarsi con sdegno all’opposizione, accolse l’invito del presidente Napolitano a sostenere con il Pdl un governo di unità nazionale insieme con l’avversario di sempre, il Pd di Bersani, e la quasi totalità delle forze in Parlamento. Dopoguerra, terrorismo, crisi finanziaria. L’Italia ha superato queste tre gravi emergenze senza ricorrere a sospensioni della Costituzione o a misure straordinarie. Le ha superate perché la coscienza del Paese e alcuni leader politici hanno saputo far prevalere l’Interesse Nazionale (quello serio e drammaticamente reale, non quelli strumentali che si sprecano nei tweet). L’attuale crisi pandemica è stata finora gestita, con alcuni interventi efficaci ed altri inefficaci, senza fare ricorso a nessuna forma di unità nazionale. Eppure, per sua natura, questa crisi richiede misure incomparabilmente più intrusive di quelle che in passato, per essere introdotte, avevano richiesto l’unità nazionale. Limitazioni estreme delle libertà individuali; chiusura d’imperio delle attività economiche; corresponsione dei “ristori”, certo necessari, ma a carico di una collettività certo inconsapevole. Questa emergenza riassume in sé il ricordo sinistro delle tre precedenti. C’è guerra, coprifuoco. C’è terrore, del virus. C’è disastro economico, da chiusure; quello finanziario, da “ristori”, seguirà. Finora, senza unità nazionale, la crisi pandemica è stata gestita grazie all’unità della paura. Ma non si potrà andare avanti così, come il direttore di questo giornale Luciano Fontana e Antonio Polito hanno chiaramente spiegato nei giorni scorsi. Ma l’unità nazionale, oggi indispensabile, è oggi possibile? A mio parere è possibile una forma leggera di unità nazionale, che a ben vedere è anche l’unica richiesta dalla situazione attuale. In questo momento sono frustrati sia il Parlamento sia le opposizioni. La loro frustrazione è giustificata, perché né l’uno né le altre, anche se volessero, avrebbero la possibilità di dare contributi propositivi. Hanno, sì e no, il diritto di mugugno (come i marinai genovesi). Che loius murmurandisia esercitato nelle aule parlamentari o sulle piazze, esso riduce la credibilità del governo e accresce la rabbia nel Paese. In questi giorni le opposizioni hanno dato segnali di disponibilità al dialogo. Anche in questa occasione, il maggiore senso di responsabilità è venuto da Silvio Berlusconi: i suoi voti sono disponibili per aiutare l’Italia, ha detto, non certo per aiutare il governo; ma questo è sufficiente. Giorgia Meloni e perfino Matteo Salvini hanno dato qualche segno di disponibilità. Sarebbe un grave errore se il governo non raccogliesse questi segni, in modo sostanziale. E non ha nulla da temere. Se tutti noi saremo presto locked-down, il presidente Conte, nel bene e nel male, è locked-in. Nessuno gli toglierà quella poltrona. Elezioni, o anche solo una crisi di governo per cambiarne rapidamente il capo, non sono verosimili per ragioni ben note. E poi, a quale scopo? Io per esempio non vedo nessuno, politico o tecnico, disponibile o meno, che sia chiaramente più adatto di Conte a gestire questa crisi. Né vedo la necessità di creare un nuovo organo - una cabina di regia, una commissione bicamerale - come luogo istituzionale in cui cercare di forgiare un minimo di unità nazionale. Dunque: non c’è da cambiare il direttore d’orchestra, non ci sono da introdurre nuovi strumenti; c’è solo da modificare lo spartito. In una recente trasmissione televisiva (L’aria che tira, 28 ottobre) ho suggerito che il presidente del Consiglio solleciti l’attivazione, in via permanente, delle Commissioni competenti di Camera e Senato per gli Affari costituzionali e Sanità (in questa fase; più avanti anche quelle per il Bilancio e gli Affari europei, quando si tratterà di utilizzo dei fondi europei), le coinvolga nella fase preparatoria dei provvedimenti, ne raccolga i contributi. Non dovrà sottostare a veti e dovrà imporre ritmi veloci. Se impiegherà un paio di giorni in più rispetto alla sua attuale modalità di decisione, saranno però giorni risparmiati in termini di aggiustamenti successivi e di disorientamento del Paese. In una fase in cui molti parlamentari sono essi stessi in lock-down, le commissioni presentano, a differenza dell’aula, anche il vantaggio di consentire la sostituzione con colleghi dello stesso gruppo, senza alterare così il peso dei partiti. Per avviare questa nuova modalità di lavoro, che accrescerà in tutti il senso di responsabilità verso il Paese e metterà la gestione di questa terribile emergenza un po’ al riparo dalle manovre politiche di parte, sarebbe sufficiente che il presidente del Consiglio si accordasse con i presidenti di Senato e Camera. Se il presidente del Consiglio e i capi delle opposizioni considerassero seriamente questa prospettiva, si muoverebbero lungo la linea più volte autorevolmente sollecitata dal presidente Mattarella. Quella di affrontare questa drammatica sfida in uno spirito di unità nazionale. Pandemia mors tua, Italia senza speranza di Filippo Barbera Il Manifesto, 3 novembre 2020 Peggio dell’epidemia c’è solo la reazione che ne è conseguita in un paese diviso, in una comunità politica priva di consistenza incapace di unirsi perfino davanti a un nemico comune. Trattative estenuanti e discussioni interminabili, videoconferenze e negoziazioni. Senza che Governo e Regioni siano riusciti a trovare un accordo. La non-decisione sul nuovo Dpcm, rinviata nel fine settimana, è il segno della volontà dei diversi livelli di Governo di non voler pagare il costo politico della scelta. Un costo insostenibile in un ambiente politico iper-conflittuale e privo di coesione istituzionale, dove tutti aspettano che sia l’altro a fare la prima mossa, dichiarando senza se e senza ma: dobbiamo chiudere. In questo modo la situazione non potrà che peggiorare, fino a rendere tanto più drastiche, lunghe e intransigenti le nuove misure che dovranno essere decise e attuate. Anzi, si potrebbe sostenere, il costo politico sarà tanto minore quanto più il quadro pandemico e il sovraccarico sul sistema sanitario non potranno che indicare un lockdown, più o meno parziale, come unica possibile scelta. Un insieme di misure a livello nazionale generate dall’assenza di qualsiasi spirito unitario. Una scelta che riguarderà tutta la collettività proprio perché questa o, meglio, le forze che la rappresentano, è incapace di pensare e agire in modo organico anche di fronte a una pandemia. Il nemico esterno non è sufficiente per unire una collettività ridotta a un assemblaggio di poteri e livelli di governo che corrono una disperata e solitaria gara. Scaricando il costo delle scelte sull’altro e additandolo come il colpevole delle decisioni prese. Questo in un’arena politica dove le forze di opposizione sono pronte a utilizzare ogni possibile evento, scivolone, incertezza, per attaccare frontalmente la maggioranza. Il rifiuto di entrare nella “cabina di regia” ne è la prova plastica: la tenuta del Paese è questione che riguarda il Governo, l’opposizione ha solo il compito di approfittare delle conseguenze della scelta, soffiando sul fuoco e cavalcando, se non organizzando, la protesta di piazza. Debolezza della politica, certo, ma non surrogata dalle forze sociali che, con ben poche eccezioni, si posizionano sullo scacchiere solo per chiedere risorse e salvaguardie per i propri iscritti, ben attente a non concedere nulla a misure che potrebbero intaccare il loro campo di influenza o che le metterebbero di fronte alla necessità di innovare la loro stanca azione. Politica e società miseramente frammentate e divise, incapaci di visione collettiva. Prive di qualsiasi capacità di futuro. Il sapere esperto, in un ambiente tanto conflittuale e frammentato, non può innocentemente identificarsi con le regole della scienza. Non può essere percepito, semmai ciò fosse veramente possibile, come consigliere esperto in posizione di terzietà rispetto ai contendenti. La voce della scienza è così interpretata come la voce di una delle parti in gioco nel conflitto politico e istituzionale. Chi ha l’ha capito non attende di essere classificato come pro o contro il Governo, ma sceglie sin da subito da che parte stare. Così anche il campo scientifico, mai veramente immune alla tentazione del posizionamento politico, diventa teatro di scontri, guerre e accuse, che ne sminuiscono l’autorevolezza agli occhi dell’opinione pubblica. I giornali, in questo contesto, nuotano nell’acqua che più gli è familiare: la polemica politica come principale guida e criterio per la costruzione della notizia. La pandemia Covid-19 è così lo specchio del Paese, fredda superficie che riflette senza filtri la frammentazione della sua classe dirigente, l’inconsistenza dei suoi corpi intermedi, la pochezza dei suoi mezzi di comunicazione di massa. La ricerca del capro espiatorio - i giovani irresponsabili, gli anziani fragili, i dipendenti pubblici che “vogliono il lockdown” perché così lavorano meno, le mamme che vogliono le scuole aperte - è nulla più che la conseguenza della guerra di tutti contro tutti. Peggio della pandemia è solo la reazione che ne è seguita. Sintomo di una comunità politica priva di consistenza, saltuariamente illuminata da poche voci autorevoli ma isolate, tenuta assieme da organizzazioni della cittadinanza attiva che tentato di soccorrere i più fragili, nobilitata da chi sceglie la via dell’impegno quotidiano, nel pubblico come nel privato, a ridosso dei bisogni di individui e famiglie. Risorse preziose ma non inesauribili che, presto o tardi, si depaupereranno lasciando spazio alla rabbia e al risentimento. Gli imprenditori della paura non aspettano altro. Terrorismo. Quell’Europa ferita che vive nell’incubo dello scontro tra civiltà di Francesca Sforza La Stampa, 3 novembre 2020 In tutto il Continente nel mirino i valori di democrazia e libertà. “Speravo di non dover fare questo discorso”, diceva ieri pomeriggio il presidente austriaco Alexander Van der Bellen in un accorato appello alla nazione. Chiedeva agli austriaci di essere all’altezza della situazione: “Mostriamo che appartenere a una comunità non è un’espressione priva di senso”, e di prepararsi a sopportare l’arrivo di un nuovo e duro confinamento: coprifuoco notturno, alberghi e ristoranti chiusi, così come i cinema, i musei, le associazioni sportive. Due ore dopo, l’inferno. Un attacco terroristico diretto al cuore dell’Europa ed entrato dall’Austria dopo aver colpito la Francia, con una consequenzialità che è tanto più raggelante nella misura in cui non ne venisse confermata l’effettiva contiguità. Sì perché sarebbe il segno di qualcosa di più profondo, che attacca le società democratiche nelle loro libertà, ovvero in ciò che vi è di più fragile da difendere con la forza. La seconda ondata della pandemia ha ridato fiato al processo corrosivo che era già stato sperimentato l’inverno scorso, facendo sollevare uno scontento comprensibile, ma più rabbioso. E la corrosione, a guardar bene, era cominciata anche prima della pandemia, con i tanti appelli all’intolleranza, con le chiamate alla chiusura dei confini - quando ancora non sapevamo veramente cosa significava chiuderli sul serio - e con le politiche che soffiavano sul fuoco delle disuguaglianze. Con il virus la situazione è peggiorata: ci siamo dovuti chiudere per davvero, il distanziamento sociale è diventato un obbligo, ci siamo dovuti fare stranieri gli uni agli altri, per poterci salvaguardare. E oggi, con la seconda ondata - prevista e al tempo stesso sottovalutata, come se il non credere alle evidenze fosse ormai diventata un’abitudine - è tornato lo scontro di civiltà, tanto prepotente da far pensare che in fondo non fosse mai stato superato. Era lì che covava, proprio come il virus. I modelli di integrazione sperimentati dalle società europee hanno sostanzialmente fallito, e l’errore, di nuovo, è stato pensare che si potessero risolvere entro i confini, non dialogando con i Paesi di origine. Ma la realtà è che lo scontro nella lontana Siria, con tutti i ricaschi avuti nell’intera regione in termine di sofferenze e profughi e campi rifugiati e fili spinati non è stato senza conseguenze. Così come non lo è stato il mancato dialogo con Erdogan, capace solo di allontanare la Turchia dall’Europa e non di avvicinarcela. E certo che il dialogo è complicato, e che sarebbe bello parlare solo con quelli che ci sono amici e capiscono la nostra lingua, ma la sfida dell’integrazione è affrontare tutta questa scomodità, e renderla abitabile. L’alternativa va in scena a Vienna, così come è andata in scena a Parigi e a Nizza. L’Europa deve trovare il modo di rendere il linguaggio della solidarietà una lingua parlata, così come ha fatto mettendo in atto il “Next Generation Eu”, altrimenti a prendere la parola saranno la violenza e l’odio, e la casa europea rischierà di andare in fiamme. Migranti. Il tragico accordo con la Libia che Conte non ha mai riformato di Matteo De Bellis* Il Domani, 3 novembre 2020 Un anno fa, in questi giorni, il governo si trovava a un crocevia: poteva rinnovare il memorandum d’intesa con la Libia, firmato tre anni prima e ormai in scadenza, o metterlo da parte. Appena insediatosi, il governo Conte bis era sotto pressione. Voleva mantenere l’accordo, la cui attuazione aveva garantito -mediante il rafforzamento delle autorità libiche con motovedette, formazione e assistenza nel coordinamento delle operazioni - un calo impressionante nel numero di rifugiati e migranti sbarcati in Italia. Ma le prove delle violenze nei confronti di donne, uomini e bambini, sottoposti a detenzione arbitraria, omicidi, torture e stupri nei centri di detenzione in cui venivano rinchiusi a seguito della loro intercettazione in mare e del loro sbarco in Libia, erano ormai troppe per far finta di non vederle. Perciò, se da una parte il governo decise di mantenere il memorandum, dall’altra dovette promettere dei cambiamenti. “Il governo intende lavorare per modificare in meglio i contenuti del memorandum, con particolare attenzione ai centri e alle condizioni dei migranti”, dichiarò alla Camera il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. A un anno di distanza, occorre chiedersi che ne è stato di quell’impegno. Effettivamente, nel febbraio scorso, il governo italiano ha inviato a Tripoli una proposta di modifica del memorandum. C’erano alcune belle parole, ma era una proposta all’acqua di rose: proponeva soltanto il “progressivo superamento” e parallelo “adeguamento” dei Centri di detenzione, legittimandoli piuttosto che pretendendone l’immediata chiusura, e rimestava la solita promessa di facilitare il lavoro delle agenzie Onu, come se queste potessero fermare gli abusi. Nei mesi successivi il governo di Tripoli ha però rifiutato la pur timida proposta italiana. E a fronte di tale rifiuto, l’Italia ha fatto spallucce, continuando l’assistenza con la fornitura di nuove motovedette, la proroga delle missioni militari, e lo stalking delle Ong impegnate in mare. Nei fatti, la strategia di esternalizzazione della frontiera in Libia è stata portata avanti con tale continuità da far pensare che le promesse in materia di diritti umani fossero poco più di un esercizio retorico. La situazione di rifugiati e migranti in Libia non è migliorata. Le persone intercettate in mare dalla Guardia costiera Libica continuano a venire sbarcate in Libia e trasferite nei centri di detenzione. Centinaia di persone sono state trasferite in centri semi-clandestini, mentre di altre centinaia si sono perse le tracce. Chi è passato dai centri di detenzione continua a raccontare di sevizie e torture. L’intervento della Turchia La situazione si è aggravata a causa del conflitto civile, che per mesi ha visto Tripoli assediata, prima che il governo turco furbescamente intervenisse in sua difesa, scalzando l’Italia nel ruolo di alleato preferito. Ora il presidente turco Recep Tayyp Erdogan potrebbe usare le partenze dalla Libia come spauracchio - come già fa nell’Egeo - mostrando i limiti di politiche che, fondandosi sulla collaborazione di governi autoritari, espongono chi le pratica a ricatti permanenti. Il Covid-19 ha complicato il quadro, tra l’altro offrendo al governo italiano una scusa per limitare ulteriormente lo sbarco in Italia. Oggi c’è un governo diverso da quello che aveva congegnato la cooperazione con la Libia, ma le differenze stentano a mostrarsi. L’architetto di quella strategia ne conosceva i rischi: “Nel momento in cui dovesse stabilizzarsi il dato dell’azione di controllo delle acque territoriali libiche da parte della guardia costiera, si pone una questione di grandissimo rilievo, e cioè il tema delle condizioni di vita di coloro che vengono salvati dalla guardia costiera e riportati in Libia”, disse nell’agosto 2017 l’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti. “Come voi sapete questo è l’assillo personale mio, ed è l’assillo dell’Italia”, concluse. Quell’assillo non si è dimostrato poi così pungente. Se così fosse, vedremmo il governo impegnato nella chiusura dei centri di detenzione e nell’evacuazione di qualche migliaio di rifugiati. Ma così non è, purtroppo. A un anno dalla promessa di modificare i termini della cooperazione con la Libia, tradita e abbandonata come le persone scaricate aldilà del mare, è tempo che il governo ne dia conto. Possibilmente con i fatti, più che a parole. Omicidio Rocchelli, ultima udienza in appello. L’Ucraina fa pressioni per ribaltare la sentenza di Giuliano Foschini La Repubblica, 3 novembre 2020 Per la morte del reporter, ucciso nel 2014 nel Donbass mentre lavorava con il collega Mironov, il sergente italo-ucraino Markiv è stato condannato a 24 anni dal tribunale di Pavia. Ma il governo di Kiev preme su politica e magistrati per inquinare il processo e scagionare il militare. La storia, purtroppo, è nota: un reporter italiano, Andy Rocchelli, ucciso in Ucraina nel 2014 insieme con un collega, Andrej Mironov, mentre svolgevano il loro lavoro in Dobass. Scattavano fotografie ai civili disperati dal conflitto quando furono colpiti da militari, appostati su una collina. Forse uno scambio di persona, forse chissà. Tra loro - questo per lo meno ha stabilito il tribunale di primo grado di Pavia - il sergente Vitalij Markiv, cittadino ucraino ma anche italiano, condannato a 24 anni per concorso in omicidio. Oggi si terrà l’ultima udienza di quel processo di Appello, al tribunale di Milano. Un processo che è diventato però qualcosa di diverso. Un qualcosa che attiene più alla politica che alla giustizia. L’avvio del processo è stato preceduto da conferenze stampa organizzate in difesa dell’imputato svolte in luoghi istituzionali italiani - una delle quali nell’estate 2019 ancor prima del deposito delle motivazioni della sentenza, poi il 14 febbraio e il primo settembre 2020, tutte al Senato a Roma, infine l’11 settembre 2020 alla Regione Lombardia a Milano. Le autorità ucraine, fin dal primo grado, in realtà, stanno facendo pressioni importanti sulla politica italiana. E anche sugli stessi magistrati. Nelle ultime udienze sono successe molte cose, infatti: la Corte ha raccontato di aver ricevuto “in modo un po’ irrituale” una mail dal ministero della Giustizia ucraino nella quale per questioni di giurisdizione si fa notare che Markiv è cittadino ucraino. Ma anche italiano, e per questo è processato in Italia. Il ministro degli Interni ucraino, Arsen Avakov, è stato in aula. “Sono qui per proteggere e sostenere Markiv - ha detto - ci sono prove che dicono che è innocente. Di questo caso giudiziario il nostro Presidente ha parlato con Conte e abbiamo avuto dei contatti coi ministri italiani”. Sono state fatte pressioni affinché fosse usato come prova un docu-film realizzato da quattro giornalisti - tre italiani e un’ucraina, - con tanto di ringraziamento nei titoli di coda del Governo ucraino e della Guardia Nazionale. Una testimone ha raccontato di essere a conoscenza delle minacce e di una richiesta di ritrattazione di un’ucraina che avrebbe tradotto le deposizioni di due senatori, nel corso del processo di primo grado. E ancora: il sostituto procuratore generale ha chiesto che fosse trascritta un’intercettazione, sfuggita in primo grado, in cui Markiv avrebbe pronunciato in carcere la frase: “Nel 2014 abbiamo fottuto un reporter…”. Nel mezzo c’è il dolore composto e orgoglioso dei genitori di Andy, Elsa e Rino Rocchelli. Che fin dal principio non si sono arresi e hanno perseguito la verità. Ci sono le minacce ricevute dal loro avvocato, Alessandra Ballerini. “In questi mesi - dice Articolo 21 - si è messa in moto una campagna a favore di Markiv, per provare a dimostrare la sua estraneità. Legittimo. Non altrettanto l’uso di insulti - tra lo sguaiato e il ridicolo - lanciati contro i legali della famiglia Rocchelli, contro la magistratura e contro la Federazione Nazionale della Stampa che ha voluto essere parte civile per affermare che i giornalisti non vanno mai lasciati soli”. Badalamenti jr. contro la Procura: “vogliono consegnarmi al Brasile” di Marco Bova Il Riformista, 3 novembre 2020 Il figlio del boss mafioso fu arrestato a San Paolo nel 2007 per aver trasportato 50 grammi di coca. Ma dopo 10 anni il pg chiede l’estradizione nonostante la situazione carceraria laggiù sia esplosiva. Voleva riappropriarsi di una casa dissequestrata. Ma adesso Leonardo Badalamenti, il figlio di “don Tano seduto”, rischia di essere estradato nell’inferno delle carceri brasiliane per 50 grammi di cocaina trovati nella sua auto, quasi dieci anni fa. Nonostante l’allarme delle Nazioni Unite e di una sfilza di ong che hanno definito la condizione carceraria in Brasile simile a un “inferno da girone dantesco! “Sono vittima di un complotto”, ha detto ai giudici della Corte d’Appello, che da quest’estate stanno valutando la sua estradizione, in virtù di un trattato tra i due paesi che prevede la possibilità di rifiutare la consegna, qualora ci sia il “rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti”. In questi giorni la procura generale (sostituto pg Carlo Marzella) è tornata a chiedere la sua estradizione, i suoi legali, avvocati Baldassare Lauria e Nino Ganci, invece hanno presentato un’istanza per opporsi alla richiesta. “È affetto da alcune patologie che lo rendono a rischio covid, un eventuale trasferimento in quel paese sarebbe devastante a causa del dilagare dell’epidemia e al già atavico sovraffollamento”, dice l’avvocato Lauria. La Corte si è riservata di decidere, anche dopo aver acquisito report e dossier sull’attuale condizione carceraria in Brasile. In Italia la sua fedina penale è del tutto illibata, ma agli inizi di agosto l’erede di sangue del boss Gaetano Badalamenti è stato arrestato “ai fini estradizionali” dagli agenti della Dia, in esecuzione di una condanna a 5 anni e dieci mesi per “traffico di sostanza stupefacente” emessa dal Tribunale di San Paolo. Si tratta di un episodio che risale al marzo 2007, quando venne fermato per aver “trasportato con la sua autovettura un pacco del peso di 55,2 grammi contenente cocaina destinata alla vendita”. L’Interpol lo aveva registrato con “tre nomi differenti” e per questo riconosceva il “pericolo di fuga”. Da quest’estate è detenuto al carcere Pagliarelli di Palermo, in regime di alta sorveglianza. Per lungo tempo aveva vissuto in Brasile e i carabinieri del Ros nel 2009 lo arrestarono per associazione mafiosa mentre si trovava nel paese latinoamericano, nel blitz “Mixer-Centopassi” ma presto tornò in libertà e assolto da ogni accusa. Da quattro anni viveva a casa della madre, a Castellammare del Golfo, dove la mattina del 4 agosto lo hanno trovato gli investigatori dell’Antimafia, senza molte difficoltà. Nei giorni precedenti all’arresto Badalamenti jr era finito al centro di una piccola querelle con il comune di Cinisi. Il 2 luglio, a distanza di tredici anni dal primo sequestro, la corte d’Assise di Palermo aveva dissequestrato un casolare, restituendolo al figlio di “don Tano”, che agli inizi di agosto cambiò il lucchetto. Scontrandosi con il sindaco di Cinisi, perché il comune in questi anni ha ristrutturato con dei fondi europei il bene confiscato, che dovrebbe diventare un mercato ortofrutticolo e un centro per la valorizzazione della vacca cinisara. Due giorni dopo fu arrestato. Argentina, dittatura alla sbarra: parte il processo ai “ladri di bambini” di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 3 novembre 2020 Quattrocento testimoni saranno chiamati a deporre con i loro ricordi di quanto accadde nel centro di detenzione detto El Infierno. Le accuse per i 18 imputati vanno dalla privazione illegale della libertà, agli stupri fino all’occultamento dei figli delle recluse poi dati a famiglie fedeli alla giunta militare. Ne hanno identificati 500 finora ma solo 130, al giugno del 2019, hanno ritrovato i loro nonni e scoperto di chi erano realmente figli. Con loro torna in un’aula del Tribunale di La Plata, in Argentina, uno dei capitoli più truci e vergognosi della dittatura militare, quella che governò con il terrore il Paese sudamericano tra il 1976 e il 1983. La giurisprudenza argentina la cataloga come Appropriazione di minori, più efficacemente noto come “Piano sistematico”: bambini, spesso neonati, figli di coppie di arrestati - torturati nei centri segreti di detenzione, perché sospettati di simpatie con la sinistra, fatti sparire in fosse comuni o lanciati dagli aerei nel Rio de la Plata - affidati ai carnefici e da questi adottati. Un orrore, tra i tanti commessi dalla giunta guidata dal generale Jorge Rafael Videla e dai suoi successori. Grazie al lavoro instancabile e costante delle Nonne di Plaza de Mayo che si misero subito alla ricerca dei propri figli e nipoti, si riuscì a smascherare una pratica che la giunta militare aveva sempre negato o ammettendo, davanti all’evidenza, solo alcuni casi considerandoli comunque un’eccezione, il gesto illegale di qualche ufficiale che non confermava ciò che i parenti invece denunciavano. Ci vollero 16 anni, al termine di un braccio di ferro tra i vertici militari messi sotto processo per le atrocità commesse durante la dittatura e i nuovi governi della ritrovata democrazia, per scoprire una realtà che andava oltre l’immaginazione. E ce ne vollero altri tre per mandare alla sbarra i responsabili di questo traffico di piccoli esseri umani e comminare la prime sentenze. Nonostante gli indulti concessi sulla base delle leggi della Obediencia Debida e del Punto Final, con le quali si riconobbe la tesi che i quadri inferiori delle Forze Armate avevano obbedito agli ordini superiori nella lotta al comunismo e al terrorismo di sinistra, gli autori di queste mattanze e di queste adozioni forzate vennero individuati. E fu grazie alla creazione di un Centro di raccolta del Dna se i bambini allevati da chi aveva torturato e ucciso i loro genitori scoprirono l’amara verità. Uno shock per questi ragazzi diventati adulti e per l’intera Argentina costretta a guardarsi dentro in un viaggio catartico che sembrava un incubo. Adesso il Tribunale di La Plata apre un capitolo di questa orrenda storia. Riguarda quello che avvenne nei centri di detenzione di Pozo da Banfield, Pozo de Quilmes e Brigada Lanús, noto come El Infierno: tre centri di detenzione dove centinaia di detenuti vennero sottoposti a sevizie e violenze. Ci sono 18 imputati: ufficiali, medici, psicologi, alti dirigenti dell’amministrazione che hanno avuto ruoli diversi nella mattanza e nell’affidamento illegale dei piccoli superstiti. Quattrocento testimoni saranno chiamati a deporre con i loro ricordi. Moltissimi i sopravvissuti che potranno raccontare quello che videro e ascoltarono. Le accuse vanno dalla privazione illegale della libertà, agli abusi sessuali all’occultamento di bambini nati da recluse e poi prelevati per essere affidati a famiglie fedeli alla giunta militare. Tra gli imputati c’è Miguel Etchecolatz, 91 anni, già in carcere per una condanna a 4 ergastoli. Era il responsabile della polizia giudiziaria di Buenos Aires. Con lui ci saranno l’ex ministro degli Interni della provincia di Buenos Aires, Jaime Lamont Smart, già condannato in un giudizio separato nel 2012 all’ergastolo per crimini contro l’umanità. Quindi Juan Miguel Wolk, che gestiva il centro di detenzione di Pozo Banfield e Jorge Bergés, medico impiegato nelle sale di tortura. Spagna. Detenuto basco in sciopero della fame e della sete di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 3 novembre 2020 Nel maggio dell’anno scorso, il caso del detenuto basco Inaki Bilbao Goikoetxea (Txikito, originario di Lezama) aveva suscitato un certo scalpore (se pur modesto, compatibilmente con i tempi che corrono). Nel carcere dove è rinchiuso (a Puerto III, una prigione ritenuta tra le più dure della penisola iberica) veniva costretto a portare le manette anche durante le visite. Esasperato per quello che considerava un trattamento eccessivo, il prigioniero aveva dichiarato che - se le autorità carcerarie perseveravano - da quel momento si sarebbe rifiutato di presentarsi alle visite. Nato nel 1956, Txikito viene considerato come il prigioniero basco che sta in carcere da più tempo. Ormai da ben 36 anni se pur in due fasi. Avendone scontato solo 12 della sua ultima condanna a oltre 68 anni (per l’uccisione del consigliere comunale del Pse Juan Priede), dovrebbe uscire non prima del 2070. Ha poi accumulato una serie di altre condanne per aver in più occasioni minacciato giudici e magistrati durante i processi. Secondo le associazioni di sostegno ai prigionieri baschi, le autorità starebbero adottando nei suoi confronti metodi particolarmente duri come ritorsione per le sue posizioni critiche sull’abbandono della lotta armata da parte di Eta. Dopo aver già condotto una protesta della fame e della comunicazione di 50 giorni, dal 9 settembre al 30 ottobre (e sospesa per non essere sottoposto all’alimentazione forzata), il 2 novembre ha iniziato un nuovo sciopero sia della fame che della sete. Per rivendicare, stando alla sua dichiarazione «un Paese basco indipendente, socialista, riunificato (in riferimento - presumo - alla separazione tra Hegoalde e Iparralde; rispettivamente: Paese basco «spagnolo» e Paese basco «francese») e bascoparlante». Talvolta Inaki Bilbao è stato presentato dai media come il «referente dei duri». Ossia dei militanti contrari al processo di soluzione politica adottato da Eta nel 2011 (e per questo espulsi dall’organizzazione). In realtà si ha l’impressione che, non avendo ben colto la portata storica dei cambiamenti sociali e politici degli ultimi anni, sia rimasto in qualche modo imprigionato (e non solo metaforicamente) in una visione del mondo forse ormai improponibile. Tuttavia va anche segnalato che durante il suo ultimo sciopero della fame nel settembre-ottobre 2020 (ne aveva condotto un altro, durato oltre un mese, nel 2017), molti cittadini baschi avevano espresso vicinanza e solidarietà con la sua protesta. In particolare il 10 ottobre 2020, a Bilbao, quando era stata convocata una manifestazione nazionale. Una conferma che la questione dei prigionieri politici - fondamentale per una definitiva soluzione politica - è tutt’altro che morta e sepolta. Polonia. Tre attiviste a processo per “offesa ai sentimenti religiosi” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 novembre 2020 Amnesty International, Campaign Against Homophobia, Freemuse, Front Line Defenders, Human Rights Watch e Ilga-Europe hanno chiesto al procuratore generale della Polonia di annullare l’accusa di “offesa ai sentimenti religiosi” per la quale tre attiviste andranno a processo il 4 novembre nella città di Plock. El?bieta, Anna e Joanna sono accusate di violazione dell’articolo 196 del codice penale per aver affisso, in vari luoghi pubblici di Plock, dei poster raffiguranti la Vergine Maria e il Bambinello con l’aureola dipinta con i colori dell’arcobaleno, simbolo del movimento Lgbti. Secondo l’atto d’accusa, le tre attiviste hanno “insultato pubblicamente un oggetto di culto religioso mediante una raffigurazione che ha offeso i sentimenti religiosi di altre persone”. Dopo l’arresto della sola El?bieta, eseguito nel maggio 2019 di ritorno da una serie di conferenze sulla situazione in Polonia organizzate da Amnesty International in Belgio e Olanda, nel luglio 2020 tutte e tre le attiviste sono state incriminate ufficialmente. Se giudicate colpevoli, rischiano fino a due anni di carcere semplicemente per aver esercitato il loro diritto alla libertà di espressione, in questo caso artistica. Il loro caso non è isolato. Negli ultimi anni molti attivisti e difensori dei diritti umani sono stati ripetutamente perseguitati per aver svolto attività legittime e pacifiche. El?bieta, insieme ad altre 13 attiviste per i diritti umani, era stata picchiata per aver preso posizione contro l’odio in Polonia durante la Marcia dell’indipendenza del 2018. Insieme ad Anna e Joanna, El?bieta lotta pacificamente contro l’odio e la discriminazione. Le tre attiviste sono impegnate da anni per una Polonia di giustizia e uguaglianza. Finora, circa 14.000 persone hanno aderito alla campagna internazionale che chiede al procuratore generale della Polonia di annullare le accuse nei loro confronti.