Mascherine, paura e visite cancellate. I giorni dell’epidemia vissuti in una cella di Grazia Longo La Stampa, 30 novembre 2020 Tra le emergenze del coronavirus c’è quella delle carceri. Luoghi chiusi dove il sovraffollamento è all’ordine del giorno, alto quindi il rischio che diventino focolai di contagio. Su questo fronte, già dalla scorsa primavera, sono schierati gli esperti di Medici senza frontiere. Dottori, infermieri, professionisti di igiene con una lunga esperienza nella gestione di epidemie. Come Mario Ferrara infermiere, 40 anni, da 6 in Msf, impegnato in un progetto su quattro prigioni della Lombardia: Como, Busto Arsizio, Lodi, Bollate, dopo quello di Milano durante la prima ondata. “In passato ho lavorato in Africa, in Guinea, per arginare la diffusione dell’Ebola - racconta Ferrara. Oggi faccio parte di un team che ha come obiettivo l’informazione e la prevenzione per arginare il Covid dietro le sbarre. Ci sembra fondamentale adottare tutte le misure possibili per contenere la propagazione del virus e proteggere detenuti, agenti, operatori e volontari impegnati nei vari istituti penitenziari”. Si organizzano una sorta di lezioni per aiutare a difendersi dall’infezione, “a partire dall’uso corretto delle mascherine e dei gel disinfettanti, alle modalità per sanificare i locali con l’utilizzo di alcol e cloro e alla pulizia delle lenzuola in lavanderia. Molta attenzione anche alla somministrazione dei pasti e, in generale, al rispetto di tutte le norme di igiene. Questi corsi di formazione avvengono con i rappresentanti dei detenuti, che divulgano poi i contenuti agli altri, e con gli agenti di polizia penitenziaria. “Grande attenzione va rivolta a questi ultimi perché entrano ed escono continuamente dal carcere e quindi possono essere un facile veicolo di contagio”. Le difficoltà in carcere sono principalmente legate alle strutture: “Ci sono celle da due persone, ma anche da quattro o cinque e quindi il pericolo di ammalarsi aumenta. Noi consigliamo di tenere la mascherina, ma non sempre è facile controllare che l’indicazione venga rispettata. La maggior parte di chi ha contratto il coronavirus è asintomatico o ha sintomi lievi”. Attualmente fra i 53.723 detenuti, su tutto il territorio nazionale, 882 sono positivi e sono distribuite in 86 istituti, sul totale di 192 strutture penitenziarie. E ancora: 65 presentano sintomi e 27 tra costoro sono trattati in ospedale. Mentre fra il personale ci sono 1.042 positivi, di cui 10 ricoverati. In questa seconda ondata si registrano cinque vittime. “In Lombardia - prosegue Ferrara - i detenuti con il Covid vengono trasferiti nel carcere di San Vittore, a Milano, e a Bollate”. Il progetto di Msf, che comprende anche la distribuzione di una brochure di una settantina di pagine, ha riguardato anche le prigioni di Piemonte (a Torino e Saluzzo) e Liguria (a Genova e Sanremo) durante la prima ondata. L’attività si concentra molto anche sugli aspetti psicologici. “La maggior parte dei detenuti ci chiede quando finirà la pandemia e quando sarà possibile incontrare di nuovo i propri cari. I colloqui con i parenti sono infatti stati sospesi e attualmente avvengono solo in modo virtuale attraverso le videochiamate”. E comunque, al di là degli della dimensione emotiva, anche in questa circostanza non vanno trascurati i dettagli pratici. “Com’è noto anche il telefonino è un potenziale strumento di contagio, quindi forniamo tutte le indicazioni necessarie per disinfettarlo nel modo giusto”. Carceri, Verini (Pd): “Celle affollate, puntiamo su misure sostitutive alla detenzione” di Liana Milella La Repubblica, 30 novembre 2020 Il responsabile dem alla Giustizia e tesoriere del partito: “A Saviano dico che tra i nostri emendamenti al decreto Ristori ci sono alcune delle proposte contenute nel suo appello”. Ma su amnistia e indulto: “Non ci sono le condizioni politiche, meglio non alimentare speranze”. “L’appello di Saviano sul carcere è giusto, ma questo non è il governo del ‘marciscano in galera’. Tant’è che il Pd propone misure assai simili”. Dice così Walter Verini, tuttora l’uomo della giustizia del Pd, ma dal segretario Nicola Zingaretti “promosso” a luglio tesoriere del partito. Saviano aderisce allo sciopero della fame di Rita Bernardini e chiede misure che riducano il numero dei detenuti. Un digiuno di 48 ore contro “la paralisi” degli interventi sul carcere. Ha ragione? “Credo sia da condividere il senso civile dell’appello di Saviano, ma anche di Manconi e Veronesi su Stampa e Corriere. Tuttavia non ritengo sia giusto dire che c’è stata, e c’è paralisi. E al tempo stesso sono convinto che questo stimolo vada raccolto adeguandolo alla realtà”. Lei sta dicendo che il governo si è già mosso e si è mosso bene? “Guardi, si poteva davvero fare di più e certamente meglio, come il Pd ha detto in Parlamento, e come, nell’ambito del governo, ha sempre sostenuto il sottosegretario Andrea Giorgis. E tuttavia non siamo a febbraio scorso quando c’erano oltre 62mila detenuti che oggi invece sono diminuiti di quasi 9mila unità. Questo grazie a provvedimenti adottati dal governo che il Pd vuole ancora migliorare, come per esempio sta facendo in Senato con gli emendamenti presentati al decreto Ristori”. E sarebbero? “Domiciliari senza braccialetto a chi deve scontare solo 12 mesi e ha tenuto una buona condotta. Aumento di 30 giorni rispetto ai 45 attuali ogni sei mesi a chi ha seguito percorsi rieducativi. E alla Camera, nella legge di bilancio, abbiamo proposto un emendamento per dare un’accoglienza domiciliare a chi potrebbe uscire ma non ce l’ha”. Ma queste proposte sono quelle che fa Saviano... “Mi auguro che siano accolte. Ma naturalmente stiamo sempre parlando di detenuti che non rappresentano in alcun modo un allarme sociale e che, come dice l’articolo 27 della Costituzione, escono recuperati alla società”. Le misure proposte da Saviano - liberazione anticipata, stop all’esecuzione delle sentenze, fuori chi deve scontare due anni - quindi sono possibili? “Ma sono misure in parte già in vigore oppure alcune contenute nei nostri emendamenti”. Duemila colpiti da Covid tra detenuti e personale, questi interventi non sono troppo poco? “Come ha detto a Repubblica il Garante Mauro Palma la situazione preoccupa, ma è costantemente monitorata e al momento sotto controllo, grazie anche al lavoro del nuovo Dap di Dino Petralia e Roberto Tartaglia. Ciò non toglie che la guardia debba quotidianamente essere altissima, sia per i detenuti, sia per tutelare il personale di polizia penitenziaria e tutti gli altri operatori”. Però, senza distanziamento sociale, parola ormai obbligatoria per tutti, ma impossibile in cella per il sovraffollamento, la vita in carcere è in pericolo sia per chi conta un a pena, sia per chi ci lavora. “Non c’è dubbio che il tema degli spazi sia assolutamente centrale, aggravato dalla pandemia, tant’è che tutti i provveditori e i direttori stanno lavorando per garantire il più possibile misure di prevenzione. Per questo abbiamo presentato i nostri emendamenti che potrebbero migliorare la situazione”. Però Saviano scrive che il carcere, da questo governo, è considerato un “luogo di punizione e non di reinserimento nella società” e che “i rei sono trattati come rifiuti da chiudere in discariche sociali”, tant’è che il ben noto progetto di Orlando è finito nel cestino... “No, non è così. Per due motivi. Il primo: questo non è il governo del ‘buttiamo via la chiavè e del ‘marciscano in galera’. Secondo: come Pd, ma posso dire come maggioranza, riprenderemo presto il cammino della riforma dell’ordinamento penitenziario, proprio quella su cui aveva lavorato il Guardasigilli Orlando, che non eravamo riusciti a condurre in porto nella precedente legislatura e che il governo gialloverde aveva affossato. Senza contare che anche i fondi del Recovery saranno utilizzati per migliorare le carceri e renderle più umane”. Però Saviano dice che il virus dentro le galere può portare “a una strage” e quindi “si stanno condannando a morte” gli stessi detenuti. “Dobbiamo tenere la guardia altissima, ma in questo momento non siamo, per fortuna, a questo punto”. Lo sciopero della fame di Bernardini punta all’amnistia e all’indulto, ma sono possibili? “Non ci sono le condizioni politiche e i numeri per raggiungere i due terzi del Parlamento. E quindi sarebbe consigliabile non alimentare tra le persone detenute speranze che si rivelerebbero illusorie e che potrebbero creare ulteriori tensioni. E in ogni caso, quando sarà possibile ragionare su questa ipotesi, ci dovranno essere le condizioni sociali per accogliere i detenuti da reinserire con un lavoro, una casa, e relazioni sociali. E oggi, purtroppo, tutto questo non lo vedo”. Il Covid-19 in carcere: un’emergenza nell’emergenza di Grazia Coppola extremaratioassociazione.it, 30 novembre 2020 Una panoramica sull’emergenza Covid nell’emergenza carceri. Sovraffollamento costante, assenza di spazio vitale e pandemia in corso. Ecco come l’Italia sta calpestando la Costituzione e i diritti inviolabili di migliaia di detenuti. Un’analisi sui numeri e sulle condizioni delle carceri italiane durante questa seconda ondata, a fronte del disinteresse generale e dell’assenza di seri interventi da parte del Governo. Il nostro Paese si trova di fronte alla cosiddetta “seconda ondata” di Coronavirus. Per fronteggiare la situazione di crisi, il Dpcm del 3 novembre ha suddiviso il nostro territorio in 3 diverse aree, sulla base di coefficienti determinati secondo criteri di oggettività attraverso la combinazione di diversi parametri (tra questi, indice di contagio Rt, dei focolai, della situazione di occupazione dei posti letto e della saturazione delle terapie intensive negli ospedali), all’esito del monitoraggio periodico effettuato congiuntamente dall’Istituto Superiore di Sanità, dal Ministero della Salute e dai rappresentanti delle Regioni, in condivisione anche con il Comitato tecnico scientifico. In più, tra i diversi decreti emanati, il D.L. “Ristori” (28/10/2020, n. 137, il primo della serie “Ristori”) ha introdotto diverse misure urgenti, sia per tutelare la salute dei cittadini sia per dare sostegno ai lavoratori colpiti dalla pandemia, ma non solo. Infatti, il recente decreto presenta provvedimenti anche in materia di giustizia e sicurezza: gli articoli 28, 29 e 30 si occupano specificamente di carcere. A prescindere dal Coronavirus, è indubbia la criticità della situazione carceraria italiana, dove al momento i detenuti sono 53.992 a fronte di 47.105 posti reali. Numeri allarmanti, che rappresentano una delle più importanti emergenze del nostro sistema penitenziario. Infatti, se la migliore prevenzione, come viene ripetuto da mesi, è la mancanza di assembramenti, è chiaro che, alla luce del sovraffollamento, il mantenimento della distanza non può essere garantito, e di conseguenza il rischio di diffusione del contagio è più elevato. In effetti, questo sembra diffondersi in maniera esponenziale: il 10 settembre, il numero di contagiati era esiguo, limitato a 10 detenuti e 11 agenti; due mesi dopo, alla data del 17 novembre, risultava un totale di 1694 positivi: 758 i primi, e 936 i secondi. Per concludere, ora, stando alle parole dello stesso Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ci sono 826 detenuti positivi e 1.042 positività tra gli operatori penitenziari. Cifre che segnano un tragico primato, perché superano la quantità raggiunta nel periodo di massima emergenza della scorsa primavera. In conclusione, dati alla mano, se in tre mesi si è passati da 21 contagiati a più di 1.690, solo nelle ultime settimane l’incremento dei contagi è aumentato più del 600% (basti pensare che nel lasso temporale 12-17 novembre, si è passati da 1543 positivi a 1694). Già durante la prima ondata erano stati presi, come vi abbiamo raccontato ripetutamente sui nostri canali, diversi provvedimenti volti a ridurre la popolazione carceraria con risultati che, nonostante il bonus deflattivo, non sono stati sufficienti. Per questa ragione, la necessità di ridurre il numero di detenuti è impellente, e il nuovo Decreto legge affronterà la questione con una serie di misure (attualmente) in vigore fino al 31 dicembre 2020. Noi, non possiamo esimerci dal tentativo di approfondirle, nel limite del possibile. All’art. 28 si parla dei condannati ammessi al regime di semilibertà, a cui possono essere concesse licenze premio straordinarie, anche di durata superiore ai 45 giorni per ogni anno scontato, salvo gravi motivi ostativi riscontrati dal magistrato di sorveglianza. Tuttavia, la straordinarietà della misura non va ad aumentare il numero di detenuti che potranno beneficiare della licenza, poiché riguarda solamente la durata della stessa. Con l’art. 29, invece, viene stabilita una deroga ai permessi premio per chi ne abbia già beneficiato e per le persone già assegnate a lavoro, istruzione e formazione esterni al carcere. La deroga in questione riguarda i limiti temporali previsti ex lege: 15 giorni per ciascun permesso fino ad un massimo di 45 all’anno per i maggiorenni; 30 giorni fino ad un massimo di 100 all’anno per i minorenni. Anche in questo caso, però, la misura non risulta realmente sufficiente a contenere il problema del sovraffollamento poiché, complici la crisi economica derivante dal primo lockdown e l’impossibilità di spostarsi in alcuni territori (a seconda del “colore” della Regione, gli spostamenti subiscono più o meno drastiche limitazioni), risulta poco concreta l’opportunità di lavorare al di fuori del carcere e molto difficile quella di formarsi. Infine, l’art. 30 si occupa di detenzione domiciliare: chi, con pena residua di 18 mesi, ne faccia richiesta, potrà scontare il periodo rimanente a casa “o in un altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza, accoglienza”; verrà imposto l’uso del braccialetto elettronico come strumento di controllo, ad eccezione dei minorenni e di chi abbia da scontare una pena minore di sei mesi, sempre in subordine alla mancanza di gravi motivazioni ostative ravvisate dal magistrato di sorveglianza. L’aspetto problematico di questa misura, però, risiede nelle concrete possibilità di dotarsi di braccialetti elettronici o mezzi equivalenti: ad oggi, non risulta chiaro il numero preciso di dispositivi messo a disposizione dal Governo. Eppure, alcuni mesi fa era stato vinto un bando da Fastweb per la fornitura di 15 mila dispositivi, che sarebbero stati forniti per un ammontare di 1.200 unità mensili fino al dicembre 2021. Ad oggi, quindi, l’unica certezza riguarda la loro assenza: è di pochi giorni fa la notizia di un detenuto a Secondigliano, positivo al Coronavirus, a cui erano stati concessi gli arresti domiciliari ma che, a causa della mancanza di strumenti di controllo, è dovuto tornare in carcere, dove ora è tenuto in isolamento. In generale, le misure risultano, ancora una volta, non bastevoli ad arginare il rischio di contagio, poiché di fatto non aiutano a diminuire il numero dei detenuti ad una cifra adeguata. In primis, perché negli artt. 28 e 29 risulta evidente il maggior focus sulla durata di licenze e permessi premio piuttosto che sul numero effettivo di beneficiari, ed inoltre le novità introdotte escludono diverse categorie di detenuti. Secondo l’elaborazione dei dati fornita dal Garante nazionale, soltanto 1.142 persone hanno un fine pena inferiore a sei mesi e non sono soggette alle preclusioni ostative, incluse quelle su base disciplinare, mentre i detenuti con un fine pena inferiore ai diciotto mesi e che ugualmente non incontrano le sopraddette limitazioni sono 2.217. Tuttavia, su una prima platea di 3.359 potenziali destinatari della detenzione domiciliare, bisogna considerare 1.157 che non ne potranno usufruire perché privi di fissa dimora, in un sistema in cui le case d’accoglienza (e il numero degli educatori) sono insufficienti ad ospitarli. Da questa lettura emerge chiaramente una miopia di fondo nel considerare la realtà carceraria e le sue complesse dinamiche; un intervento smussato, che ancora una volta caricherà - come già avvenuto per i decreti adottati in risposta alla prima ondata - di ulteriore responsabilità i magistrati di sorveglianza. Come rileva il Garante nazionale, dovranno essere presi ulteriori provvedimenti per affrontare finalmente con decisione la problematica (tale ancora prima dell’emergenza pandemica) del sovraffollamento carcerario. Proprio a questo proposito, risulta insensato far rientrare persone che in carcere trascorrono solamente la notte, o mantenere la detenzione per chi sia condannato a pene molto brevi (senza considerare la quantità di detenuti che, in quanto affetti da malattie di tipo psichiatrico, non dovrebbero trovarsi in istituti penitenziari, bensì in Rems, come prevede l’art. 148 c.p.). Deve essere inoltre riaffermato il principio di tutela della vulnerabilità soprattutto delle persone anziane: a fine 2019 risultavano 986, soprattutto ergastolani al 41-bis e ultraottantenni, con diverse patologie. Sono drammatiche le numerose testimonianze dei famigliari di detenuti anziani e malati, affetti anche da Coronavirus o ad alto rischio, che non sono soggetti alle cure di cui necessitano e che, rimanendo in carcere, non solo rischiano di peggiorare ulteriormente, ma rappresentano anche una fonte di contagio per gli altri: è di pochi giorni fa la notizia di un ergastolano ultraottantenne morto nel carcere di Livorno per Covid, che ha scatenato il contagio di diversi altri detenuti. Un fatto che s’aggiunge alla denuncia della figlia di un altro carcerato, che, già con diverse patologie gravi e affetto da Coronavirus, è stato curato solo con il paracetamolo nell’istituto penitenziario di Torino. Tale situazione risulta inaccettabile, soprattutto alla luce della circolare DAP del 21 marzo con la quale, per l’emergenza sanitaria, era stato richiesto ai direttori degli istituti di segnalare all’autorità giudiziaria, “per le eventuali determinazioni di competenza”, la situazione clinica di detenuti affetti da particolari patologie e di età superiore ai 70 anni, per evitare una tragica situazione analoga alla strage nelle RSA lombarde a inizio pandemia. Circolare, questa, sospesa subito dopo le numerose polemiche televisive e l’enorme risonanza mediatica che aveva suscitato, in vista delle ricadute che avrebbe avuto su alcuni condannati per reati di stampo mafioso. Proposte che, invece, determinerebbero un reale miglioramento dell’attuale scenario provengono anche dalla politica: Roberto Giachetti, su proposta di Nessuno Tocchi Caino, ha presentato un disegno di legge che propone una liberazione anticipata “speciale”, consistente nell’introduzione della possibilità di aumentare da 45 a 75 giorni la riduzione prevista, per ogni 6 mesi di pena scontata, per i detenuti che tengono una buona condotta in cella. La diminuzione della pena in questione comporterebbe la fuoriuscita dalle carceri di migliaia di detenuti. Di fatto, come sottolinea il deputato di Italia Viva, il Decreto “Ristori” non risulta sufficiente per diminuire le presenze in carcere, e oltre al pericolo di contagio è anche presente il rischio che scoppino rivolte come a marzo. L’attuazione di queste proposte non solo porterebbe a un generale miglioramento delle condizioni quantitative delle carceri del nostro Paese, permettendo di poter fronteggiare situazioni potenzialmente disastrose; andrebbe anche a incrementare la qualità della detenzione, che, come è ricordato dalla nostra Costituzione all’art. 27 co. 3, non può avere solo una finalità punitiva e non deve mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, per poter tendere alla rieducazione del condannato. “Vi racconto l’inferno di una cella sovraffollata” di Davide Varì Il Dubbio, 30 novembre 2020 Le carceri tornano di nuovo sovraffollate e il Covid minaccia la salute di detenuti e polizia penitenziaria. “Il sovraffollamento è un problema antico, dibattuto in diverse occasioni, oggetto di condanna da parte delle istituzioni europee ma che non ha mai trovato una soluzione, visto che ad oggi ancora nelle carceri italiane vivono ammassati 54.868 detenuti con un tasso di sovraffollamento del 130%. La detenzione vissuta in queste condizioni rischia di privare, oltre che della libertà, anche della dignità di cui il diritto all’intimità è ingrediente imprescindibile. La detenzione, già imbarazzante in condizioni normali, diventa drammatica in condizioni di sovraffollamento laddove lo spazio destinato ad una persona è occupato da due persone”. Lo dice Nino Mandalà, l’ex boss mafioso, diventato romanziere, condannato a sette anni e otto mesi di carcere (scontati), che solidarizza con Rita Bernardini, membro del consiglio generale del Partito radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino, che dal 10 novembre è in sciopero della fame chiedendo amnistia, indulto, liberazione anticipata speciale per ridurre il sovraffollamento nelle carceri e in cui vi è un’alta percentuale di contagiati da covid19. A Bernardini hanno dato solidarietà e si sono affiancati Sandro Veronesi, Luigi Manconi e Roberto Saviano, oltre a centinaia di detenuti, che digiuneranno per 48 ore in una ideale staffetta. Mandalà ha un figlio condannato all’ergastolo in carcere. “C’è chi riesce ad immaginare - dice l’ex mafioso che ha scritto due libri - cosa significa vivere sopportando condizioni di vita inumane, essere stipati come in delle stie ed essere costretti a respirare gli odori, le intimità, gli aliti, le flatulenze e, in tempi di Covid, l’infezione del vicino di detenzione che contende a pochi passi il misero spazio disponibile, che cosa significa vivere oltre all’angoscia della privata libertà, della lontananza dai propri cari, delle ore che non ne vogliono sapere di trascorrere dentro le quattro mura di una cella, anche il terrore del contagio? I dati purtroppo confermano i timori: 874 positivi tra i detenuti e 1042 tra personale e polizia penitenziaria con una percentuale di contagio dieci volte superiore rispetto a fuori. A quanti considerano i detenuti figli di un dio minore, dico che essi sono esseri umani e che le loro sofferenze sono gli autentici miasmi che fuoriescono dai tombini di un mondo scellerato di cui tutti siamo responsabili”. Juri Aparo e il Gruppo della Trasgressione intervista a cura di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2020 “Il Gruppo è nato perché non volevo che i detenuti parlassero con me solo in funzione della relazione da inviare al magistrato”. Carla Chiappini, giornalista esperta di scrittura autobiografica, che si occupa da anni di comunicazione sulla realtà delle pene e del carcere, lavora con i messi alla prova e dirige la redazione di Ristretti Orizzonti a Parma, intervista Juri Aparo, psicologo, fondatore del “Gruppo della Trasgressione”. Ci racconti un po’ la tua vita “prima della galera”? Sono nato a Ragusa nel ‘51, la mia famiglia è piuttosto piccola, quand’ero bambino i pochi parenti di mio padre erano negli Stati Uniti; mia madre, invece, aveva genitori e sorelle che sono stati per me un allargamento della mia famiglia. Sono stato il primo figlio di tre sorelle e, fra l’altro, maschio in una famiglia dove abbondavano le femmine. Quando venivano le feste, Natale, Capodanno, i morti (A Ragusa i giocattoli li portano i morti e non Babbo Natale), avevo tutto l’affetto che un bambino può desiderare; insomma ho vissuto nel lusso. Sei stato in Sicilia fino a quando? Hai studiato anche in Sicilia? Ho studiato in Sicilia fino al liceo, dove ho perso un anno. Dopo il diploma sono andato in Germania a studiare, ma, tra l’anno perso e il tempo speso in Germania per gli esami di lingua, non ho fatto in tempo a chiedere il rinvio per il militare, che ho dovuto iniziare quindi quando avevo ancora 20 anni. L’ho fatto a Roma dove ho frequentato anche l’università. Dopo la laurea, a 26 anni, sono venuto a Milano, dove vivo ancora oggi. Hai cominciato la tua professione subito in carcere? Il carcere è arrivato dopo due anni che vivevo a Milano. Conclusa l’università, nel 1977, mi sono dato da fare per lavorare e, tra le tante cose, ho anche avanzato la richiesta per lavorare in carcere. Inserito nell’elenco degli esperti ex art. 80, ho cominciato a fare lo psicologo a San Vittore nel ‘79. Prima, per guadagnare qualcosa, avevo fatto ricerche di mercato e supplenze nelle scuole medie. Cosa hai trovato in carcere? Cosa ti è piaciuto e cosa no di quell’inizio del 1979? Per i primi due anni ho fatto delle ore anche nel carcere di Varese, poi solo a San Vittore. Non è che amassi particolarmente lavorare con i detenuti, ma, visto che ero là, ci parlavo e giorno dopo giorno mi sembrava di capirci qualcosa. Degli inizi ricordo qualche conflitto con un direttore, il dott. Cangemi. C’erano i vetri delle finestre rotti nella stanza dove incontravo i detenuti e dove stavo 4 ore seduto con 13 gradi a congelare, ma lui diceva che bastava mettere la maglia di lana. Per fortuna c’era una vice direttrice della quale sono stato e sono molto amico, Giovanna Fratantonio; forse è anche responsabilità sua se ho continuato a lavorare in carcere. Negli anni ho sfiorato tanti direttori con cui avevo scarsi rapporti fino a quando è arrivato Luigi Pagano con il quale sono riuscito a comunicare meglio. Tra l’altro, il Gruppo della trasgressione è nato quando c’era lui; non fosse stato così, credo che non sarebbe mai partito. In teoria, sei quello che da più tempo frequenta San Vittore quindi è importante per me capire che cosa è cambiato in questi lunghi anni. Cosa ricordi dei primi anni e come è cambiato il tuo lavoro in questi anni in carcere? Credo che il carcere sia un mondo in cui il direttore incide pesantemente su tutto; non è come un treno che, se deve fare la tratta Milano-Roma, la fa abbastanza indipendentemente dalle idee politiche del capotreno. Detto questo, c’è stato un tempo in cui qualche volta uscivo dall’ufficio e vedevo per terra un laghetto di sangue; era l’epoca in cui i conflitti fra detenuti venivano “risolti” a coltellate, ancor di più i contrasti tra detenuti comuni e detenuti per reati sessuali. I miei primi anni a San Vittore sono stati anche caratterizzati dalla presenza delle Brigate Rosse. Le BR non ammazzavano in carcere le persone, ma contribuivano a mantenere un clima “vivace”… una volta alcuni di loro mi hanno pure mezzo sequestrato per un paio ore. Poi mi hanno lasciato andare perché abbiamo concordato pacificamente che la cosa avrebbe comportato danni per tutti. Per quello che avveniva a quei tempi, nei miei primi 18 anni ho svolto il mio ruolo più o meno normalmente, cioè facevo con i detenuti dei colloqui in previsione di una relazione finalizzata al programma di trattamento; questo faceva lo psicologo ex art. 80! Oggi ci sono molti più psicologi e con i detenuti si può avere un rapporto meno frettoloso. Negli anni ho visto passare generazioni di psicologi e affini. Dico “affini” perché quelli che lavorano ex art. 80 potevano essere criminologi, psicologi e sociologi. Ma in pratica questi “esperti”, pur con professionalità nominalmente diverse, facevano la stessa cosa, o meglio, facevano quello che passava loro per la testa, senza alcuna indicazione su come procedere. Una cosa che mi ha molto colpito in carcere è che non c’è mai stato qualcuno che indicasse cosa ci si aspetta da uno psicologo. Si dovevano produrre le relazioni, ma non si è mai discusso né sono mai stati indicati i criteri per scriverle. Non credo che adesso sia molto diverso. In 41 anni di esperienza non ho mai sentito di un gruppo di studio dove ci si chiedesse come procedere nel colloquio con i detenuti e poi nella stesura della relazione. Dopo i primi 18 anni di lavoro, mi sono detto che, per cominciare a capire cosa passava per la testa dei detenuti, sarebbe stato il caso di provare qualcosa di alternativo e da lì è nato il Gruppo della Trasgressione. A un certo punto tu hai cominciato a pensare al gruppo, ma anche alla società esterna che entrava in carcere.. Quello che nei primi 18 anni di esperienza avevo sentito dire ai detenuti mi suggeriva che loro sapessero e si chiedessero ben poco in merito alla vita delle persone che lavorano, tabaccai e cassieri compresi. E dunque, sì, fra i primi obiettivi del gruppo c’era e c’è quello di favorire un confronto costante e battagliero fra detenuti e comuni cittadini. In questo sono stato avvantaggiato dal fatto che nel gruppo c’era Sergio Cusani, che era un polo di attrazione un po’ per tutti, dentro e fuori. Il gruppo era appena nato e già arrivavano persone di ogni genere, cantanti del calibro di Ornella Vanoni, Enzo Jannacci, Roberto Vecchioni; presentatori televisivi come Fabio Fazio o Chiambretti; giornalisti come Enzo Biagi, filosofi come Gianni Vattimo e Massimo Cacciari, genetisti come Edoardo Boncinelli, teologi, medici, antropologi e tanti nomi importanti di diversi settori. Diverse volte era venuto anche un virologo di cui ero amico. Ognuno di loro parlava della propria materia e cercava insieme con me e con i detenuti quali contatti si potessero cogliere, quali analogie si potessero far fruttare, in termini di conoscenza o anche solo di pura suggestione, fra alcuni aspetti delle rispettive materie e la spinta dell’uomo a trasgredire. Di certo queste persone non venivano per me; a portarli dentro erano Sergio Cusani ed Emilia Patruno, giornalista di Famiglia Cristiana. Con loro due e con un avvocato, a sua volta detenuto e molto motivato, il gruppo è partito a tutta velocità. Sergio Cusani e l’avvocato hanno avuto un ruolo fondamentale nel motivare gli altri detenuti a impegnarsi in modo sistematico. Ogni settimana loro due scrivevano il verbale delle riunioni e ogni settimana, grazie anche ad Emilia Patruno, arrivavano al gruppo nuovi stimoli importanti, spesso anche parenti di vittime: Paolucci, il padre di un bambino ucciso da un pedofilo; la Bartocci, moglie di un gioielliere assassinato; la Capalbio, sorella di un tabaccaio ucciso durante una rapina. Il carcere non ti ha mai dato obbiettivi perché non li dà mai a nessuno, però tu quando hai pensato al gruppo avevi sicuramente un obbiettivo o più obbiettivi, in particolare cosa volevi da quel gruppo in cui hai investito e investi un sacco di energie e competenze? Accanto all’obiettivo di favorire il confronto col mondo esterno, direi che il gruppo è nato perché non volevo che i detenuti parlassero con me solo in funzione della relazione da inviare al magistrato. Uno che fa lo psicoterapeuta è abituato a parlare con persone che ti confidano i loro pensieri, le loro paure perché hanno bisogno di essere aiutate, non perché hanno bisogno di uscire dal carcere. Fare psicoterapia significa aiutare le persone a dialogare con i propri conflitti e questo all’epoca in cui a San Vittore c’era uno psicologo per oltre 1000 detenuti era certamente impossibile. Per il detenuto, anche in considerazione del poco tempo che c’era per parlarsi, risultava molto più facile raccontare o inventare quello che nella sua fantasia avrebbe dovuto indurre lo psicologo esaminatore a scrivere una relazione favorevole alla misura alternativa. Mi si potrà osservare che uno psicologo bravo dovrebbe essere capace di andare oltre quello che il paziente gli dice. Sarà pure, rispondo io, ma, fin quando il detenuto è essenzialmente una persona che vuole uscire dal carcere, egli non potrà essere un paziente e lo psicologo non potrà essere uno psicoterapeuta, cioè il partner di una ricerca condotta in due. In pratica, sto dicendo che dovresti riuscire a motivare il detenuto, almeno nel tempo del colloquio, a comportarsi da paziente, nonostante le serrature che egli vede attorno a sé lo inducano a guardare il mondo da carcerato. Ma questo è molto difficile se l’unica ragione per cui detenuto e psicologo entrano in contatto è costituita dalla relazione per il magistrato e se a commissionare la relazione è la direzione del carcere. Proprio per questo, un certo giorno del settembre del ‘79, dopo avere raccolto con l’aiuto di Sergio Cusani una ventina di detenuti attorno a un tavolo, il gruppo è nato con un discorso esplicito e abbastanza rude, che suonava più o meno così: <>. In generale, l’attività del gruppo era anche un modo per far sì che il tempo del carcere non fosse solo il “tempo dell’attesa”. I 18 anni precedenti alla nascita del gruppo mi avevano fatto capire, infatti, che per i detenuti il tempo passato in carcere veniva conteggiato principalmente in relazione alla distanza dal fine pena. Di quegli anni a San Vittore ricordo ben poche iniziative, una era quella della Patruno, Il giornale “Il Due”; ricordo anche l’associazione di “Incontro e presenza”. Ma tornando al gruppo, i primi due obiettivi erano: fare in modo che i detenuti si interessassero a loro stessi e alimentare una comunicazione tra dentro e fuori. Poi c’era anche il terzo obbiettivo, quello di fare in modo che i detenuti, conoscendo meglio se stessi, potessero contribuire a migliorare il funzionamento dell’istituzione. Un obbiettivo ambizioso, forse velleitario, un po’ da don Chisciotte. D’altra parte, come potevo sopportare che sia i detenuti sia le figure istituzionali continuassero a ripetere che dal carcere si esce più delinquenti di quando si è entrati? E così, paradossalmente, un po’ per conoscere se stessi, un po’ per cambiare il carcere, una ventina di detenuti di San Vittore si sono messi a indagare sul perché delle loro prime trasgressioni e sono diventati miei alleati e partner di ricerca molto di più delle figure istituzionali. Alcuni di quei detenuti sono ancora oggi miei amici. L’istituzione, visto che non facevo male a nessuno, me lo ha lasciato fare, pur senza mai interessarsi, almeno per i primi 10/12 anni a quello che facevo. Negli ultimi cinque o sei anni qualche piccolo sostegno è arrivato con Siciliano, fino a tre anni fa direttore del carcere di Opera, e oggi con Di Gregorio, attuale direttore di Opera. Nel carcere di Bollate, l’attività del gruppo è finanziata dall’ASST Santi Paolo e Carlo, di cui sono consulente da una decina d’anni. Chiunque stando in carcere peggiora, questo vale anche per gli operatori, i direttori. Io spesso mi pongo questa domanda, com’erano prima questi soggetti, prima di fare 10/20 anni dentro il carcere? Quello del direttore è un mestiere che rischia, anche per le persone equilibrate, di far diventare chiunque una specie di napoleone che si bea del suo potere, intanto che deve difendersi da attacchi che arrivano da tutte le parti. Ma è anche vero che di questi tempi esistono direttori che si appassionano al loro lavoro, che si adoperano per far si che il tempo del carcere sia di costruzione della propria libertà e non di attesa del fine pena. Anno dopo anno, almeno nelle carceri che frequento io, questo avviene sempre di più. Fino a una ventina d’anni fa, invece, il carcere era in prima istanza controllo, doveva innanzitutto evitare che i detenuti scappassero, si suicidassero, si ammazzassero fra di loro, introducessero all’interno oggetti illeciti, ecc. Insomma, per garantire che non succedesse nulla di male, molti direttori preferivano (e non escludo che in molte parti d’Italia sia ancora così) chiudere quante più porte possibile, pur se, in questo modo, ad essere garantita era soprattutto la morte della mente, la morte emotiva e quindi anche la morte del cittadino, dell’uomo. È chiaro che il carcere non può eliminare del tutto il controllo, ma si dovrebbe considerare che se tu affidi il compito di controllare a una persona dall’equilibrio un po’ precario, il controllo diventa una smania, una malattia autorizzata, che esaspera i rapporti e che porta al manicomio sia l’agente che controlla sia i detenuti controllati. Insomma, il carcere è stato soprattutto un mondo che induceva operatori e detenuti più a difendersi che a progettare. Oggi si sta cominciando a capire, quantomeno da parte dei direttori con i quali lavoro io, che la migliore e più duratura garanzia viene da una progettualità di cui i detenuti stessi siano interpreti e, possibilmente, registi. E io conosco, effettivamente, molti detenuti che sono diventati in carcere registi di attività e delle loro vite, contribuendo in tal modo anche alla stabilità e all’evoluzione di altri detenuti. Che cosa salvi del carcere e qual è il ricordo più positivo che hai in questi anni? Del carcere salverei il fatto che dà un confine alle persone che non sanno fare della propria libertà un uso compatibile con quella degli altri, ma trovo indispensabile che, all’interno di questo confine, ci siano dei programmi studiati, organizzati e praticati assiduamente per condurre i ristretti a vivere entro confini più ampi e non imposti dall’esterno. È indispensabile che dopo una necessaria riduzione della libertà di azione, il carcere e le istituzioni ad esso collegate trovino il modo, e facciano assidui studi in tal senso, per motivare il detenuto a interpretare la propria libertà in modo più compatibile con quanto ci viene indicato dalla Costituzione, dal buon senso e dalle ferite ricevute da chi aveva avuto in passato la disgrazia di incontrarlo. Come si fa, dopo essere diventati delinquenti, a diventare cittadini?. Dove sono gli studi che si occupano di questo? Forse si confida nell’idea che la persona che sta in galera, una volta condannata, possa cominciare a interrogarsi su se stessa e da sola trovare la risposta, ancora meglio se posta in isolamento! Ma se uno è ignorante come una capra e per giunta abituato a comportarsi come un bisonte, da dove dovrebbe arrivargli la scintilla? In altre parole, apprezzo che il carcere riduca la possibilità di scorrazzare nella prateria del delirio d’onnipotenza, ma rilevo una sua colpevole miopia quando constato che l’istituzione si comporta come se dal delirio di onnipotenza, dalla coscienza polverizzata di chi uccide il tabaccaio, si potesse guarire semplicemente stando in cella ad attendere una luce divina che si fa strada fra le sbarre. Tutto l’apparato istituzionale che si occupa del reo (dall’arresto, al giudizio in tribunale, alla restrizione in carcere) sembra partire dal presupposto che chi pratica abitualmente il reato sia completamente consapevole, responsabile e intenzionato nel fare quello che fa e confida nel fatto che il delinquente, parlando con se stesso e con quelli che stanno in cella con lui, possa trovare dentro di sé tutte le risorse per cambiare sensibilità, idee, valori, intenzioni e comportamenti. Magari nessuno lo pensa, ma nel loro complesso, sembra che le istituzioni che si occupano di devianza facciano riferimento a un adolescente che comincia a drogarsi, a odiare le divise, ad abusare del proprio potere, dopo aver deciso a tavolino che queste debbano essere le sue aspirazioni primarie nella vita. E si trascura che la pratica dell’abuso è il risultato di un complesso di fattori, fra i quali, uno dei principali è costituito da una sensazione fisica, umorale, che galleggia fra le palafitte del cervello dell’adolescente: cioè la sensazione che chi incarna il potere (il padre, chi indossa la divisa, la toga o chi viaggia in macchina blu) non sia degno del suo ruolo e, pertanto, che non esistono impegni verso se stessi, tanto meno verso gli altri, da onorare. Qualcuno, per completare il quadro, si convince che gli unici impegni che vale la pena osservare sono l’omertà e il mantenimento della contrapposizione paranoica con tutto quello che somiglia a una divisa. Per quello che a me pare di aver capito, a far diventare delinquenti sono le sensazioni di un adolescente ferito, sfiduciato, arrabbiato e rancoroso, che poi, strada facendo, diventano idee deliranti, capaci di orientare l’azione di adulti che hanno perso la libertà di sentire, pensare e decidere, già a causa del loro rancore e della conseguente smania di vivere nell’eccitazione del potere e della droga. In Italia abbiamo più di 200 carceri e ho ragione di credere che nella grande maggioranza di questi le problematiche di cui ho appena detto siano del tutto ignorate. E se questo è vero, capisco che tante persone, anche dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, finiscano per dire che il carcere non serve a nulla. Da parte mia, credo che il carcere vada cambiato radicalmente, ma in qualche modo un sistema che impone confini a chi delinque in preda al proprio delirio ci deve essere. E il delirio, lo ribadisco, non è solo quello del boss mafioso; il delirio parte dagli umori dell’adolescenza che, strada facendo, si incancreniscono nello scontro con una realtà istituzionale che non sa motivare a cambiare rotta e che, anzi, contribuisce a rafforzare il delirio e a ossificarlo. E allora quali ricordi buoni ho del carcere, visto che sono così critico? Il fatto che lo vedo cambiare! Collaboro con reciproca stima con un numero crescente di direttori, agenti e magistrati e mi sembra di condividere con loro idee e principi. Ma le cose cambiano troppo lentamente e inoltre è sempre troppo difficile individuare chi ha, in definitiva, la facoltà di decidere e attuare il cambiamento che tutti sembrano auspicare. Nel mio piccolo, ho comunque dei bei ricordi e, ancor più che bei ricordi, ho i risultati che continuo a coltivare ancora oggi in collaborazione proprio con i detenuti che ho conosciuto in questi anni. Hanno nome e cognome e sono tanti; si chiamano Romeo Martel, Luigi Petrilli, Maurizio Piseddu, Roberto Cannavò… e in questo periodo in cui il Covid 19 ci costringe a usare le piattaforme on line per comunicare, ho visto e ho ripreso a lavorare e a giocare con numerosi ex studenti del gruppo e, cosa ancora più gratificante, con questi ex detenuti, oggi nuovi cittadini, che sono passati dal Gruppo della Trasgressione nei suoi 23 anni di attività. Oggi sono questi nuovi cittadini a motivare e a fare appassionare gli studenti universitari attualmente in tirocinio con la nostra associazione: da una parte, si studiano insieme le problematiche, il divenire, la complessità degli intrecci che inducono l’adolescente a scivolare nel degrado; dall’altra, progettiamo iniziative capaci di sostenere il detenuto e l’adolescente a rischio di devianza nel cammino, nell’impegno e nella collaborazione con gli altri. Sì, la mia maggiore soddisfazione è quella di constatare che persone che hanno fatto parte del gruppo in carcere 8, 15 o 20 anni fa, oggi, pur avendo una famiglia e un lavoro e senza chiedermi soldi, collaborano con chi è ancora detenuto, con alcuni familiari di chi è morto per mano della criminalità e con gli studenti in tirocinio per trovare le parole e i mezzi per prevenire e contrastare il degrado soggettivo e ambientale che porta ad annichilire la coscienza e al reato. Ristori bis: Camere penali e Forza Italia in trincea contro l’appello da remoto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2020 L’Ucpi suggerisce la firma di Protocolli con le Corti per assicurare il giudizio in presenza; l’opposizione mira a riformare il Dl in sede di conversione. Per la riforma dell’Appello cartolare, o “a chiamata” come è stato anche irridentemente soprannominato, scatta il pressing delle Camere Penali e di Forza Italia. Le prime, nel tentativo di aggirare la norma, promuovono Protocolli specifici con i Presidenti delle Corti di appello per garantire comunque la presenza dei magistrati, il modello è Roma. L’opposizione invece ha presentato una serie di emendamenti al Dl Ristori bis, ora in sede di conversione al Senato. Fra le proposte di modifica al Ristori bis presentate da Forza Italia figurano: la soppressione della Camera di consiglio da remoto in appello, l’esclusione dell’incidente probatorio con modalità a distanza, ed il ricorso al portale telematico non una modalità esclusiva ma concorrente con la posta elettronica certificata. “Serve una precisa assunzione di responsabilità da parte di tutte le forze politiche affinché le modifiche suggerite dalle contingenti esigenze sanitarie, superata l’emergenza, non vadano a toccare i principi sui quali si fonda il giusto processo”, afferma il senatore di Forza Italia, Franco Dal Mas. “Già ora - prosegue - il ricorso a modalità telematiche si scontra con un sistema informatico che non opera uniformemente sul territorio nazionale, rendendo complicata l’attività forense”. “Il punto - conclude Dal Mas - è che non vorremmo che, di questo passo, anche la richiesta di discussione in appello fosse subordinata a una valutazione discrezionale del magistrato, come alcune frange della magistratura già stanno sostenendo”. Intanto, il Presidente dell’Uncpi, Gian Domenico Caiazza, con una lettera inviata oggi ai Presidenti delle Camere penali territoriali sottolinea l’importanza dell’accordo raggiunto dai penalisti romani con la Presidenza della Corte di Appello che impegna le parti a tenere comunque le camere di consiglio in presenza, nell’Aula della Corte, “anche in relazione ai procedimenti nei quali l’imputato ed il difensore non abbiano chiesto di comparire”. Caiazza invita i penalisti ad impegnarsi con la Presidenza delle singole Corti di Appello “per verificare la disponibilità a definire accordi analoghi”. “Un successo anche solo parziale in questo senso - spiega Caiazza - ci darebbe enorme forza nel nostro impegno, con il Ministero e soprattutto sul versante parlamentare ora decisivo, per vedere modificata la sciagurata norma che facoltizza le Camere di Consiglio da remoto anche per le udienze cui il difensore scelga di non partecipare, vista la eccezionale contingenza sanitaria”. Intanto, nei giorni scorsi, gli avvocati della Camera penale di Milano hanno denunciato “l’abominio processuale”, introdotto con l’art. 23 del Dl 149/2020, che prevede che i processi penali d’appello siano celebrati con “scambi di conclusioni e memorie in via telematica tramite la cancelleria” e con “giudici collegati tra loro da remoto”. Disposizioni che i penalisti milanesi ritengono “anticostituzionali”. Un “nuovo tran tran cartolare”, scrivono, con “avvocati, pubblici ministeri, parti e imputati ridotti ad ectoplasmi; et voilà, giustizia (non) sarà fatta”. “Con un colpo di spugna - si legge nel documento della Camera penale milanese - si è introdotta una sorta di giurisdizione penale d’appello ‘a chiamata’” che - denunciano - sarebbe l’esito non tanto della pandemia quanto piuttosto di un’ormai “conclamata insofferenza alla celebrazione dei giudizi in Corte di Appello e in Corte di Cassazione”. Da qui l’auspicio della Camera penale di Milano ad una “mobilitazione di tutti i penalisti italiani a difesa dei principi del giusto processo”. “Pur apprezzando l’iniziativa - chiosa però Caiazza - apprezzeremo ancora di più l’impegno di ciascuno di Voi per raggiungere sui rispettivi territori il risultato che intanto Roma ha saputo cogliere”. Giudici onorari: “Senza di noi processi in tilt” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 30 novembre 2020 “Il ministro della di Giustizia dice che la caratteristica del lavoro di noi magistrati onorari è la “spontaneità dell’adesione”? E allora noi questo mese, “spontaneamente”, non facciamo udienze”. Parte da Palermo e Milano la protesta dei magistrati onorari (5.000 in tutta Italia), ai quali di proroga in proroga lo Stato ha di fatto subappaltato le udienze nel 50% del civile e nell’80% del primo grado del penale monocratico, benché siano pagati a cottimo 98 euro lordi a udienza e non abbiano malattia né pensione. La mossa, soprattutto dei viceprocuratori onorari, è quella di non dare più la disponibilità per dicembre, e subito se ne vedono i contraccolpi: a Milano 16 pm togati sono stati precettati per non far saltare i processi di domani e mercoledì, e oggi il procuratore Francesco Greco ha convocato una riunione per discutere come coprire altre cento udienze nel mese, anticipando che, se necessario, egli stesso e i suoi vice faranno alcuni di questi turni. Ma è aritmetica che, se i magistrati onorari dovessero tenere duro, molte Procure non riuscirebbero a reggere. La pandemia ha esacerbato la sensazione di essere trattati - lamentano - come “schiavi” di una “classe” inferiore, visto che, mentre i pm togati stavano in smart working a casa, le uniche udienze che per legge non si sono mai fermate sono state le convalide degli arresti o le espulsioni in materia d’immigrazione, proprio quelle mandate avanti quasi solo dagli onorari, con alto rischio di esposizione al virus ma nessuna tutela in caso di malattia. A farli poi infuriare è stato i119 novembre il ministro Bonafede quando, in risposta a una interpellanza, ha detto non solo che “la distinzione tra magistrati professionali e onorari è basata sulla spontaneità dell’adesione di soggetti impegnati in altre occupazioni, e sulla precarietà e temporaneità delle funzioni esercitate”, ma anche che la loro esistenza “è legata altresì alla finalità di contenere il numero dei togati, pena la perdita di prestigio e la riduzione delle retribuzioni della magistratura professionale”. Nasce il “microcredito di libertà”, un aiuto alle donne vittime di violenza di Barbara Ardù La Repubblica, 30 novembre 2020 L’obiettivo è rendere le donne vittime di violenza indipendenti da un punto di vista economico. Perché tra i motivi che le incatenano alle mura domestiche c’è anche lo stato di necessità. Il memorandum è stato sottoscritto da Abi, Caritas italiana, Ente nazionale per il microcredito e Abi. Il governo ha anche istituito un Fondo che avrà una dotazione iniziale di tre milioni. Prendere figli, se ci sono, aprire la porta e andarsene. Questo dovrebbero fare le donne vittime di violenza tra le mura domestiche. Molte però sono anche vittime della dipendenza economica dei loro partner, non lavorano. Incatenate dalla necessità. Ora però hanno una possibilità in più. Il governo ha istituito un fondo che alimenterà quello che è stato definito il “microcredito di liberta”, con una dotazione iniziale di circa 3 milioni di euro. E Federcasse, Abi, Caritas italiana ed Ente nazionale per il microcredito hanno firmato un memorandum per farlo partire. È in pratica lo strumento finanziario per l’emancipazione economica delle donne che hanno subito violenza e funziona sulla falsariga del microcredito sociale: un piccolo prestito per consentire a chi non può accedere a un finanziamento bancario, di uscire dalla povertà e dalla necessità. Si vuole offrire alle donne maltrattate la possibilità di garantirsi un futuro lavorando, magari mettendo su una piccola attività. La ministra delle Pari Opportunità e della Famiglia Elena Bonetti, lo aveva lanciato un anno fa in occasione della giornata internazionale della violenza sulle donne e oggi la proposta è realtà. L’obiettivo è supportare e accompagnare le donne assistite dai centri antiviolenza in un percorso di re-introduzione nelle comunità attraverso l’emancipazione economica. “Si tratta di una iniziativa che sin dall’inizio ci ha visto convinti sostenitori - ha commentato Augusto Dell’Erba, presidente di Federcasse - per trovare una possibile soluzione a un fenomeno poco conosciuto, ma drammatico, come la non autosufficienza economica di donne vittime di violenza. Come credito cooperativo - prosegue Dell’Erba - ci attiveremo con le federazioni locali delle banche di credito cooperativo e con le capogruppo dei gruppi bancari cooperativi per individuare quanto prima i più efficaci canali di coinvolgimento delle 250 banche di credito cooperativo, casse rurali e casse Raiffeisen nel progetto”. Due i canali: il microcredito “imprenditoriale”, garantito dal fondo di garanzia per le Pmi nella misura massima prevista dalla legge (ad oggi, per il 90%) e il microcredito “sociale” garantito al contrario al 100% dal Fondo di garanzia, cioè dallo Stato. Lo schema definito nel memorandum per l’avvio del ‘microcredito di libertà’ prevede da parte dei centri antiviolenza una fase iniziale di selezione delle richieste avanzate dalle donne affidandole a ‘tutor’ specializzati individuati all’interno dell’albo gestito dall’ente nazionale per il microcredito. Sarà poi sempre il tutor a seguire l’istruttoria delle domande da sottoporre all’intermediario finanziario convenzionato prescelto dalla donna beneficiaria. Le banche e gli intermediari aderenti all’iniziativa valuteranno a loro volta la concessione del finanziamento alle migliori condizioni. “Una donna che ha subito una violenza fisica o psicologica è una donna che pensa di non valere nulla” ha osservato la ministra Bonetti - il microcredito di libertà è “una proposta che va nella direzione opposta, quella di restituire fiducia alle donne e di tutelarle”. Il Credito Cooperativo nel 2019 attraverso il Fondo di garanzia delle Pmi aveva garantito finanziamenti erogati dalle BCC per 2,5 miliardi di euro e di questi, oltre 387 milioni erano stati destinati a imprese femminili (per un totale di circa 6.937 imprese). Oggi la componente femminile nel Credito Cooperativo rappresenta il 41 % del personale BCC. In crescita la presenza femminile nei board ed ai vertici delle BCC (a dicembre 2019 erano 584 le donne amministratrici, sindaci, direttrici, vice direttrici e rappresentano il 15% del totale). La proroga per il deposito della sentenza solo se notificata incide sui termini per impugnare di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2020 In assenza di tempestiva comunicazione alle parti il dies a quo decorre dalla notificazione dell’avviso di deposito. Non incide il mancato avviso di deposito della motivazione se alla parte è stato notificato il provvedimento presidenziale che proroga il tempo entro cui il giudice deve depositare la sentenza. È quindi legittimo il deposito, oltre il termine previsto in sentenza per la redazione della motivazione, ma entro quello prorogato per il deposito. Ed è solo a partire dal decorso di quest’ultimo che si computa il termine a impugnare e non dall’avviso di deposito avvenuto oltre il termine indicato in sentenza, ma entro quello prorogato. Così la Corte di cassazione penale con la sentenza n. 33581/2020 ha confermato il superamento del precedente orientamento di giurisprudenza che aderiva a una rigida regola - secondo cui il termine per impugnare decorre dalla scadenza di quello stabilito dalla legge o fissato dal giudice, come prevede l’articolo 585 del codice di procedura penale. Veniva perciò affermato che il termine di deposito della sentenza non cambia anche se per decreto presidenziale è stata concessa al giudice una proroga per la redazione della motivazione. Da ciò veniva tratta la conseguenza che il giorno in cui inizia il decorso del tempo per impugnare non è quello del deposito aumentato dei giorni di proroga, ma quello della notifica dell’avviso di deposito della sentenza. La Cassazione smentisce l’orientamento precedente perché - ritenendo il provvedimento presidenziale ininfluente sul termine a impugnare - si basa su una norma di procedura che infatti proprio non contempla l’ipotesi di fissazione di un termine di proroga da parte del presidente del tribunale o della corte di appello (che rispetto al processo non sono tecnicamente giudici). La norma delle disposizioni di attuazione sulla proroga presidenziale era considerata da tale orientamento pregresso idonea solo a tutelare il giudice estensore da eventuali conseguenze disciplinari. E dalla previsione della comunicazione della proroga al Csm si confermava la sua irrilevanza sui termini per impugnare. Lombardia. Allarme in carcere: “Ora la pandemia colpisce di più” di Francesco Gastaldi Corriere della Sera, 30 novembre 2020 Medici senza frontiere: 9% di detenuti positivi. In squadra sono due, un infermiere per i servizi sanitari e un esperto di igiene, più (nei primi giorni) un’epidemiologa. Arrivano in carcere, lo visitano, incontrano la direzione. Poi fanno formazione: a guardie penitenziarie e portavoce dei detenuti indicano le regole per proteggersi dal Covid. Infine i colloqui con i carcerati. C’è chi li ascolta con attenzione, fa domande. C’è chi invece mostra insofferenza e chi nega l’evidenza, rifiutando perfino la mascherina. “Pochissimi per la verità, la maggior parte è ben informata sui rischi del virus”, affermano Federico Franconi e Mario Ferrara, il team che Medici Senza Frontiere ha inviato nelle strutture penitenziarie lombarde per arginare i focolai della seconda ondata. Non si occupano direttamente dei malati, ma di prevenire il contagio in strutture complesse e diverse tra loro: “Molti pensano che il carcere, come struttura di isolamento, sia meno permeabile al contagio ma non è così”, spiegano Franconi e Ferrara. “Le case circondariali sono ambienti “porosi” - aggiunge l’epidemiologa della Ong, Silvia Mancini - per lo scambio che avviene fra interno ed esterno, soprattutto da parte del personale. Sovraffollamento e scarsa areazione sono fattori che alimentano il rischio di diffusione”. Il problema è stato più eclatante durante la prima ondata, con rivolte e proteste, ma il Covid ha colpito di più durante la seconda. Sono 267 i detenuti nelle carceri lombarde attualmente positivi (la metà nei due hub Covid di San Vittore e Bollate), più 368 casi tra il personale secondo i dati messi a disposizione dal garante regionale Carlo Lio. Quasi una struttura colpita su due e circa il 9 per cento di sintomatici. I ricoverati, al momento, sono una decina. L’intervento di Msf - gli esperti si sono fatti le ossa con Ebola in Africa e Medio Oriente - è ora concentrato nelle carceri periferiche. A Lodi, il 19 novembre, è esploso un focolaio con trenta positivi (dieci detenuti e venti agenti) e a Busto Arsizio sono 22 i detenuti contagiati con un decesso “sospetto” nei giorni scorsi. “Ma anche altre carceri come Como e Pavia presentano situazioni complesse”, aggiungono. Msf stavolta insiste soprattutto sulla prevenzione: “Zone di disinfezione, zone filtro, circuiti, regole ferree su vestizione e disinfezione degli ambienti ma anche videochiamate per incontrare i parenti e limiti all’ora d’aria. Inoltre - rincara la Mancini - vanno fatte valutazioni costanti del rischio, monitoraggio incessante e individuazione precoce, seguiti da isolamento dei soggetti colpiti e tracciamento dei contatti”. Nelle carceri abbassare la guardia è un pericolo: “Sono luoghi più a rischio per problemi cronici - afferma il garante regionale Lio - come il sovraffollamento che tuttora viaggia in media tra il 25 e il 3o per cento in più rispetto alla capienza. Serve un intervento riformatore”. Piemonte. Covid e carceri: “Non è stato previsto screening per polizia penitenziaria e detenuti” di Barbara Cottavoz La Stampa, 30 novembre 2020 Il caso sollevato dal vicepresidente regionale della commissione Sanità. La seconda ondata della pandemia è entrata nelle carceri in modo pesante, anche in Piemonte. Due dei cinque decessi di detenuti avvenuti in Italia risultano ad Alessandria e Saluzzo e gli operatori penitenziari piemontesi contagiati sono già 187. Ma per loro la delibera regionale non prevede lo screening stabilito per le altre forze dell’ordine e ogni Asl si muove in solitaria: Novara esegue i tamponi gratuitamente, Torino li fa pagare. Non c’è poi un piano per monitorare le condizioni dei detenuti e infatti la commissione regionale intende visitare il carcere di Torino, che risulta la struttura più in difficoltà. Alla fine della prima fase dell’emergenza Covid in Italia si erano registrati circa 280 detenuti e 200 operatori contagiati, il 22 novembre il loro numero complessivo era salito a 1.850. Nelle tredici carceri del Piemonte sono detenute 4.263 persone (alla data del 24 novembre) su una capienza teorica di 3.783 posti e i reclusi positivi al Covid erano 40 curati all’interno delle carceri e 2 ricoverati in ospedale a Biella. Secondo l’associazione Antigone, in questa seconda ondata sono stati registrati cinque decessi tra i detenuti italiani di cui due in Piemonte: Alessandria e Saluzzo. Ma un vero e proprio screening di massa su chi vive e lavora negli istituti di pena non c’è, anche perché la delibera della giunta regionale del 3 novembre 2020 che prevede programmi di controlli a cura delle Asl elenca “personale della Polizia, dei Carabinieri, della Guardia di finanza, della Polizia municipale, dell’Esercito, dei Vigili del fuoco e degli Uffici giudiziari” e non cita la Polizia penitenziaria. Se ne discuterà nel question time di martedì su interrogazione presentata da Domenico Rossi, vicepresidente della commissione Sanità: “Un’altra falla, l’ennesima, nel sistema per la gestione dell’emergenza Covid in Piemonte e questa volta l’allarme arriva dalle organizzazioni sindacali della Polizia penitenziaria. Ma manca un piano anche per lo screening dei detenuti, come invece è stato previsto per le altre comunità chiuse”. E proprio per verificare la situazione la commissione Sanità presieduta dal dottor Alessandro Stecco sta organizzando un sopralluogo con il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà: si comincia da Torino, che risulta la situazione più preoccupante. Ma anche a Novara si sono registrati momenti di tensione: per cinque giorni e cinque notti i detenuti hanno battuto le sbarre delle celle per chiedere di poter comunicare con le famiglie dopo la sospensione delle visite per l’entrata in vigore del Dpcm. La direzione ha assicurato che sarà utilizzato Skype e la protesta è rientrata, per ora. Il Garante dei detenuti del Piemonte, Bruno Mellano, sottolinea comunque: “La comunità penitenziaria è una sola (detenuti, agenti, operatori) e dunque ben vengano gli screening ma ad essi vanno aggiunte politiche reali di decongestionamento delle strutture, in modo da poter permettere una efficace gestione degli spazi e intervenire con efficacia qualora dallo screening emergessero delle criticità importanti”. Marche. Covid, il Garante Nobili: “Colloqui ridimensionati in carcere” di Alessandra Napolitano centropagina.it, 30 novembre 2020 “I detenuti sentono la mancanza dei familiari”. Nei sei Istituti penitenziari marchigiani al momento non si registrano casi di positività al Coronavirus tra i carcerati. Nelle carceri marchigiane l’impegno è massimo per evitare contagi tra i detenuti e al momento non si registrano casi di positività. Il Coronavirus mette a dura prova non solo il sistema penitenziario, ma anche gli stessi detenuti che in questo periodo di emergenza sanitaria vedono ridotte sia le possibilità di avere colloqui con i propri familiari, sia le attività trattamentali. Il Garante regionale dei diritti Andrea Nobili, che segue scrupolosamente la situazione con costanti monitoraggi e visite, fa il quadro della situazione nelle sei carceri marchigiane: la Casa circondariale Montacuto e la Casa di reclusione Barcaglione ad Ancona, Villa Fastiggi a Pesaro, la Casa di reclusione di Fossombrone, la Casa circondariale di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno e la Casa di reclusione di Fermo. Avv. Nobili, com’è attualmente la situazione sanitaria negli istituti penitenziari marchigiani? “Al momento non si registrano casi di detenuti positivi in nessuna delle sei carceri marchigiane. Contagi sporadici, fortunatamente non gravi, si sono verificati tra gli operatori di polizia penitenziaria. Ad ogni modo, sono stati effettuati tutti i controlli necessari e non si sono determinate situazioni di trasmissione del virus all’interno degli Istituti. Il livello di attenzione è molto alto, i controlli sono rigorosi e anche recentemente gli operatori di polizia penitenziaria sono stati sottoposti a tampone. Le carceri sono luoghi da seguire con particolare attenzione perché un’eventuale diffusione del virus sarebbe davvero problematica”. Che misure vengono adottate all’interno delle carceri? “Gli operatori di polizia penitenziaria indossano sempre la mascherina. Nella cella i detenuti non la portano in quanto hanno poche occasioni di contatto con soggetti provenienti dall’esterno. Tutti coloro che invece entrano in carcere vengono monitorati, viene fatto il controllo della temperatura. Se qualche detenuto è uscito perché magari ha avuto un permesso o ha dovuto fare delle visite mediche, al rientro viene sottoposto a controlli e messo in quarantena. Quarantena di 14 giorni e tampone anche per chi è in custodia cautelare o per chi proviene da altre carceri”. Come vivono la situazione Covid i detenuti? “Quello che soffrono di più è la compressione delle opportunità di relazioni affettive. I colloqui con i familiari si sono fortemente ridimensionati, basti pensare che le misure del Dpcm non consentono di spostarsi dal Comune di residenza e le visite ai detenuti non sono un’eccezione, a riguardo c’è proprio una specifica Faq del Governo. È vero che è aumentata la possibilità di fare chiamate e videochiamate- prima quest’ultima opzione non era prevista- ma ciò non sostituisce il rapporto diretto con i familiari. I detenuti risentono anche della riduzione delle iniziative trattamentali”. Quali sono le criticità maggiori riscontrate nelle carceri marchigiane? “Innanzitutto le strutture penitenziarie avrebbero bisogno di manutenzione straordinaria. Ci sono edifici che accusano il logorio del tempo e non hanno spazi adeguati per la socialità. Non sempre tutto funziona: a volte manca l’acqua calda, a volte gli impianti di riscaldamento hanno dei problemi. Altre criticità sono un leggero sovraffollamento; la carenza di organico degli operatori di polizia penitenziaria e le limitate iniziative trattamentali che se già prima erano poche, ora si sono ridotte ulteriormente. A fronte poi di un numero importante di detenuti con problemi psicologici o psichiatrici mancano gli psicologi. Sarebbero necessari anche dei miglioramenti sanitari come una maggiore presenza di dentisti. Comunque, rispetto ad altre regioni le carceri marchigiane presentano difficoltà minori”. Garante Nobili, è quasi arrivato al termine del suo mandato. Ha visto dei miglioramenti in questi anni nelle carceri marchigiane? “Non direi. Il sistema penitenziario vive una condizione molto difficile ed ha bisogno di una grande riforma. Piuttosto ho visto dei sensibili peggioramenti dovuti al fatto che il Provveditorato- l’organo di amministrazione penitenziaria- non è più presente nelle Marche ed è stato trasferito a Bologna. Inoltre, gli uffici che si occupano di esecuzione penale esterna lavorano in condizioni difficilissime perché c’è una carenza di personale importante”. Busto Arsizio. Promoter uccisa per soldi, il killer si toglie la vita in carcere La Repubblica, 30 novembre 2020 Vito Clericò, 64 enne di Garbagnate Milanese (Milano) condannato in secondo grado all’ergastolo per l’omicidio nel 2017 dell’amica Marilena Rosa Re, promoter 58enne uccisa per soldi, fatta a pezzi e sepolta nell’orto, si è suicidato nel tardo pomeriggio di oggi nel bagno comune del carcere di Busto Arsizio (Varese). A quanto emerso ha ingoiato sacchetti dell’immondizia fino a soffocarsi. L’uomo ha lasciato una lettera nella quale ha spiegato il suo gesto criticando l’operato della giustizia. Reo confesso dell’omicidio, Clericò mangiava poco e sosteneva di patire la detenzione. A dare l’allarme è stato il suo compagno di cella che, non vedendolo tornare dai bagni comuni, ha pensato si fosse sentito male. Immediato l’intervento di medici e agenti di polizia penitenziaria, ma per l’uomo non c’è stato nulla da fare. Marilena Re scomparve da casa nel luglio del 2017 e solo nel settembre successivo Clericò, interrogato dagli inquirenti, ammise che il suo cadavere si trovava nel suo orto. Del delitto aveva però incolpato un misterioso uomo corpulento. Successivamente, dopo aver cambiato otto volte versione, ammise di averla uccisa e poi decapitata e fatta a pezzi e di aver nascosto il corpo nel suo terreno e la testa in un campo di Garbagnate, dove fu ritrovata dagli investigatori in un sacco, tra i rovi. Movente del delitto sarebbe stata una somma di denaro non dichiarata che la vittima aveva chiesto a Clericó e a sua moglie di tenere nascosta in casa, per poi richiederla indietro. Rovigo. La Casa circondariale trasformata in hub Covid del Triveneto di Francesco Campi Il Gazzettino, 30 novembre 2020 A sottolinearlo, evidenziandone le criticità, sono, in una nota inviata anche a sindaco e Prefetto di Rovigo, il coordinatore regionale della Fp Cgil Penitenziari Gianpietro Pegoraro e Franca Vanto della segreteria regionale sempre della Fp Cgil. I sindacalisti spiegano che il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto il 23 novembre ha diramato una nota con il piano operativo per l’emergenza Covid sul quale, sottolineano, “non vi è stato confronto con le organizzazione sindacali” e che “si discosta da quanto previsto dalla circolare che prevede all’interno di ogni istituto un reparto isolamento in cui collocare detenuti appena arrestati, detenuti provenienti da altri istituti di pena e in attesa dell’esito del tampone, e detenuti positivi al Covid”. Questo piano, evidenziano Pegoraro e Vanto, “prevede diversi scenari possibili in un’ottica di progressivo peggioramento della situazione e vengono individuati i due istituti di Trento e Rovigo per contenere i detenuti positivi. Ciò significa che i detenuti positivi di altri istituti, se la sezione individuata come isolamento da Covid non riesce più a contenerli, vanno trasferiti in base alle classificazioni di pericolosità: per Trento solo detenuti e detenute a media sicurezza, mentre per Rovigo ad alta e media sicurezza”. Per rendere questo possibile, a Rovigo si individua un reparto da 34 posti, dedicato ai reclusi positivi, creando già, secondo i sindacalisti, un problema di accessi. “È diviso dall’altro reparto, il lato B, da due cancelli, ma nel mezzo vi è un’unica rotonda. Altra cosa in comune tra i due reparti sono le vie d’ingresso: poliziotti e infermieri salgono e scendono per la stessa scala, quindi ci si trova che chi svolge servizio all’interno del reparto Covid sale o scende con chi svolge servizio nel reparto non Covid”. Altro problema, che aggrava una situazione già difficile per l’appunto segnalata dalla Cgil appena una settimana fa con un’apposita nota, è quello legato alla dotazione di personale. “Pieno di incertezze è il modo con cui dovrà funzionare il reparto Covid: oltre alla sua collocazione, vi è anche il problema dell’avvicendamento del personale che sarà chiamato a svolgere il proprio servizio all’interno del reparto. Avere o meno il personale è molto importante in questa delicata fase, cosa che nel piano non è presa in considerazione. Anzi, si prevede l’assegnazione nel carcere di Rovigo di ulteriori detenuti, oltre a quelli già presenti, classificati di alta sicurezza, positivi al Covid provenienti da altri carceri del Triveneto, che comporta un impiego maggiore di unità di polizia penitenziaria nei vari turni. Nel piano non esiste alcuna indicazione di come reperire le risorse umane per dare man forte al carcere di Rovigo e di assicurare i diritti al personale”. Pegoraro e Vanto proseguono spiegando che “da non perdere di vista è il numero dei poliziotti penitenziari positivi al Covid, attualmente 7, ma possono aumentare. Una situazione che incide negativamente sul buon andamento del servizio, come già incide negativamente il personale che frequenta corsi universitari, ben 19, mentre 9 fruiscono della legge 104/92 (la legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate che prevede speciali permessi di lavoro per chi assiste familiari, ndr). Esiste anche il problema dei tamponi poiché vengono svolti con ritardo, sia al personale che ai detenuti: circa due mesi tra un tampone e l’altro. Il personale infermieristico non è garantito nell’arco delle 24 ore, come mancano apparecchiature di ventilazione. Va anche evidenziato che la struttura ospedaliera di Rovigo, rispetto altre strutture, risulta non attrezzata a contenere nel reparto Covid detenuti classificati di alta sicurezza e questo pone il problema del piantonamento”. Venezia: Covid in carcere, contagi tra gli agenti penitenziari di Laura Berlinghieri La Nuova Venezia, 30 novembre 2020 Quattro poliziotti positivi a Santa Maria Maggiore, direttrice e agente malate alla Giudecca. Clima teso dopo l’ultima protesta. Quattro agenti positivi nella casa circondariale di Santa Maria Maggiore e poi la direttrice e un’altra agente, sempre positive, nel carcere femminile della Giudecca. Il Covid torna a penetrare negli istituti penitenziari di Venezia, questa volta non interessando però i detenuti. Ma è comunque una situazione che va ad aggravare ulteriormente il fragilissimo equilibrio delle nostre carceri. L’esempio emblematico consiste nella rivolta di mercoledì pomeriggio, quando i detenuti del carcere maschile hanno sbattuto per mezz’ora vari oggetti sulle porte e sulle inferriate, per richiamare l’attenzione degli esterni. Deflagrazione - fortunatamente, senza conseguenze - di una miccia accesasi poco prima, con le minacce (rimaste tali) rivolte da alcuni reclusi alle infermiere della struttura. Infermiere che, per questo, hanno deciso di “scioperare”, posticipando di un’ora la quotidiana consegna dei farmaci. Ignari della decisione, i detenuti hanno iniziato a protestare, costringendo gli agenti a un’affannosa corsa tra le celle e l’infermeria, nel tentativo di capire cosa fosse successo. “Se fosse stato presente lo staff dirigenziale, probabilmente tutta questa situazione si sarebbe potuta facilmente evitare”, commenta Sergio Steffenoni, garante dei detenuti, in proroga fino al 15 gennaio, quando sarà nominato il successore. “Le infermiere delle cooperative fanno un lavoro complesso e sottopagato. E ora devono anche fare i tamponi. Meritano maggiore considerazione e aiuto”. Le condizioni nelle due carceri veneziane appaiono estremamente delicate. Entrambe le strutture sono momentaneamente prive delle relative guide, con la gestione che è ora nelle mani dei direttori delle carceri di Treviso e di Belluno. E poi la carenza si registra anche tra gli educatori: uno per ciascuna sede, invece dei tre che dovrebbero esserci. Questioni a cui aggiungere il ben noto problema del sovraffollamento. “Un conto è godere di una continuità, altra storia è essere perennemente in sostituzione” spiega Steffenoni, nel provare a motivare quanto accaduto mercoledì. Ma la situazione di Venezia ripete quella delle altre realtà della regione (e non solo), con difficoltà che si ripercuotono, a effetto domino, sulle altre strutture. “Il provveditore delle carceri del Triveneto, Enrico Sbriglia, è andato in pensione sei mesi fa. Il posto è ancora vacante, ma dovrebbe presto essere coperto da una persona in arrivo da Ancona. La casa circondariale di Padova è priva del direttore, così come le carceri di Vicenza, Rovigo e Trieste. A queste condizioni è evidente che il clima sia esasperato” conclude il garante Steffenoni. Sulmona (Aq). Allarme Covid nel carcere, finora 16 detenuti positivi di Claudio Lattanzio Il Centro, 30 novembre 2020 Il numero dei contagiati è destinato a crescere: attesi i risultati di 42 test e da fare ne restano 280 Ricoverato un boss della ‘ndrangheta (sorvegliato a vista), gli altri reclusi si trovano tutti in isolamento. Situazione esplosiva nel carcere di Sulmona. A creare tensione e allarme è l’alto numero di reclusi che sono rimasti contagiati dal Covid 19. Al momento sono 16 i detenuti risultati positivi al tampone molecolare. Un numero che però sempre destinato a salire, visto che finora sono stati processati 78 tamponi su 120 somministrati. I risultati degli altri 42 test sono attesi in queste ore e dall’esito si potrebbe tracciare già una prima valutazione. Al momento la situazione sembra essere sotto controllo dopo la decisione del responsabile sanitario del carcere di isolare dal resto della struttura il reparto dove si registrano più contagi, quello dei detenuti di Alta sorveglianza, i più pericolosi. Tutti i detenuti vengono tenuti in isolamento per 24 ore al giorno in attesa del completamento dello screening. La preoccupazione resta tuttavia altissima e i vertici del penitenziario tengono le dita incrociate nella speranza che il contagio resti circoscritto ai numeri attuali. Restano infatti ancora da sottoporre a tampone circa 280 detenuti, operazione che dovrebbe essere ultimata entro mercoledì prossimo. Al momento un solo detenuto è stato trasportato in ospedale dopo che aveva manifestato sintomi più marcati, con difficoltà respiratorie, dissenteria e febbre alta. Si tratta di un noto boss di 67 anni della ‘ndrangheta che è stato sistemato nel vecchio pronto soccorso dell’ospedale cittadino in attesa che si liberi un posto Covid in un altro ospedale della regione con uno spazio protetto adatto a gestire un detenuto di alta sicurezza. In queste ore il recluso è sorvegliato 24 ore su 24 da una squadra di tre agenti di polizia penitenziaria per turno. Tutto è iniziato il 12 novembre, con sei operatori dell’area sanitaria positivi al tampone molecolare. Poi il 23 novembre il virus è entrato dentro le celle con il contagio accertato su 15 detenuti del reparto di Alta sicurezza. Un fronte che ha subito fatto salire alle stelle la preoccupazione perché i 15 contagi sono stati accertati solo su 38 tamponi somministrati. Poi ieri la tensione si è allentata quando è risultato positivo un solo detenuto su 40 tamponi effettuati. In tutto fino a tarda sera erano stati eseguiti 120 test molecolari. Nelle prossime ore si procederà a somministrare i tamponi a tutto il resto della popolazione carceraria in modo di avere un quadro epidemiologico più certo per poter intervenire con più efficacia. Un lavoro certosino e non facile che sicuramente impiegherà tempo agli operatori coinvolti, che rassicurano però sulle operazioni da mettere in campo, soprattutto dopo la visita di venerdì del provveditore per l’Abruzzo e il Molise del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Il carcere di Sulmona diretto da Sergio Romice è stato inaugurato nel 1992 e attualmente ospita circa 400 detenuti in attesa dell’ultimazione del nuovo padiglione che ne potrà contenere altri 200. Tre le tipologie di reclusi sistemate in altrettanti padiglioni contraddistinti da un colore. Nel settore verde vengono custoditi i detenuti di Alta sicurezza, ex 41bis, e se ne contano circa 150. Nel settore blu sono reclusi gli As3, sicuramente più tranquilli degli altri, in particolare si tratta di associati di mafia e se ne contano circa 240. Nel settore giallo, ex sezione femminile, sono sistemati i collaboratori di giustizia e ne sono una quindicina, in un reparto che ne potrebbe contenere una ottantina. Rovigo. Ex carcere, Nencini chiede lo stop al minorile Il Gazzettino, 30 novembre 2020 Il senatore Riccardo Nencini, presidente della commissione Cultura, ha proposto una interrogazione a risposta scritta al ministro della Giustizia Bonafede. Tiene conto del fatto che già dal 2000 il ministro Fassino e il sindaco Fabio Baratella avevano pianificato che con il trasferimento del carcere fuori dal centro di Rovigo, si sarebbe creata la possibilità di realizzare una vera cittadella della Giustizia con l’allargamento delle competenze del Tribunale di Rovigo a diversi comuni del Basso padovano. Ricorda anche, tuttavia, che già nel 2017 è stato proposto all’amministrazione della città il trasferimento del carcere minorile di Treviso nella sede in cui esisteva il vecchio carcere e che era situata in adiacenza al Tribunale. Nel frattempo questo aveva accorpato le competenze di altri quaranta comuni della Bassa padovana ed era distribuito in diverse sedi sparse in altre cinque zone della città. L’interrogazione ricorda, inoltre, che nonostante tutto ciò è stata bandita una gara per la realizzazione del carcere minorile impedendo, di fatto, la logica e organica unificazione del Palazzo di Giustizia con il suo allargamento verso l’area della vecchia Casa circondariale. Ricorda al ministro, infine, che già il consiglio comunale di Rovigo aveva approvato alla unanimità l’esigenza di consentire l’ampliamento del Palazzo di Giustizia con un netto diniego alla realizzazione del carcere minorile in quel contesto. Chiede, inoltre, se il ministro non ritenga opportuno e doveroso prevedere un intervento finalizzato a interrompere il trasferimento dell’istituto penitenziario minorile da Treviso. Partito socialista italiano, Federazione di Rovigo Torino. A scuola di rap per frenare il disagio di Dario Basile Corriere Torino, 30 novembre 2020 Il rapper Rico Mendossa dalla strada e la condanna ai progetti di volontariato. In molti hanno intravisto una correlazione tra l’assalto al negozio Gucci di via Roma dello scorso ottobre e il desiderio di alcuni giovani di periferia di emulare gli idoli del rap e della trap, che nei loro video sfoggiano i capi firmati come simbolo del riscatto sociale e del successo. Eppure, nel rap non ci sono solo cantanti che sventolano banconote appoggiati a una Lamborghini. Quel linguaggio musicale può anche servire a veicolare dei messaggi positivi e aiutare i ragazzi a tirarsi fuori dai margini. Ne è convinto Gabriele Stazzone Manazza, in arte Rico Mendossa, il rapper di Barriera di Milano che, grazie al contratto con un’importante etichetta milanese, si sta affermando sulla scena nazionale. Mendossa nel suo nuovo singolo “10100”, in uscita in questi giorni, mette in musica i problemi delle periferie torinesi pur cantando che “Torino non è Gomorra”. In molti hanno intravisto una correlazione tra l’assalto al negozio Gucci di via Roma dello scorso ottobre e il desiderio di alcuni giovani di periferia di emulare gli idoli del rap e della trap, che nei loro video sfoggiano i capi firmati come simbolo del riscatto sociale e del successo. Eppure, nel rap non ci sono solo cantanti che sventolano banconote appoggiati a una Lamborghini. Quel linguaggio musicale può anche servire a veicolare dei messaggi positivi e aiutare i ragazzi a tirarsi fuori dai margini. Ne è convinto Gabriele Stazzone Manazza, in arte Rico Mendossa, il rapper di Barriera di Milano che, grazie al contratto con un’importante etichetta milanese, si sta affermando sulla scena nazionale. Mendossa nel suo nuovo singolo “10100”, in uscita in questi giorni, mette in musica i problemi delle periferie torinesi pur cantando che “Torino non è Gomorra”. Non è una storia facile la sua. Come in un volume a fumetti, i tatuaggi che ricoprono il suo corpo (a partire da un’enorme Mole Antonelliana impressa sulla schiena) sembrano raccontare la sua travagliata biografia. I problemi incominciano a dodici anni, quando il padre se ne va di casa. La madre, ritrovatasi da sola, passa le giornate a lavorare per poter crescere i due figli. Rico è attratto dalle sirene della strada e dalle bande di quartiere, così finisce per sfogare la sua rabbia nel modo sbagliato. Negli anni della sua gioventù in Barriera iniziano ad arrivare i primi ragazzi arabi e non mancano gli scontri con quei nuovi arrivati. Ma, superata la diffidenza iniziale, quei giovani di quartiere, diventano amici. Nella proverbiale solidarietà della strada conta ciò che fai e non da dove vieni. Finite le scuole medie, Mendossa intraprende una strada sbagliata: prima la piccola criminalità e poi la tossicodipendenza. Quegli anni sono per lui un incubo e, per combattere i suoi fantasmi, durante le notti insonni mette in versi la sua rabbia e le sue paure. Quelle poesie saranno una via di uscita da quella realtà perché diverranno i testi delle sue canzoni. Inizia a cantare il rap e poi apre uno studio di registrazione in Barriera di Milano. Si concretizza così anche il suo impegno con i ragazzi del soprattutto stranieri, grazie a progetti musicali che servono a tenerli lontani dalla strada. Due anni fa Mendossa mette in rete una canzone dedicata al suo idolo, il calciatore Franck Ribéry. Nel video si vedono dei ragazzi che giocano nei campetti accerchiati dai palazzoni di periferia. Mendossa canta: “Giocando per le strade, abbiamo le menti più grosse e allenate. Insieme alle facce tagliate. Come chi? Mmmh, Ribéry”. Il fuoriclasse francese è colpito positivamente dal filmato e, oltre a ripostarlo sui suoi canali social, decide di contattare il cantante torinese. Nasce così un’amicizia. A Ribéry, già impegnato in progetti benefici per i ragazzi delle banlieue, piace discutere con Mendossa dei problemi dei giovani dei quartieri popolari. E, per suggellare la loro amicizia, accetta anche di partecipare a un nuovo video di Mendossa, “Franck”, sempre a lui dedicato. Nel frattempo, però, la giustizia fa il suo corso e a ottobre arriva per Mendossa una condanna per fatti accaduti dodici anni fa, quando aveva diciott’anni. I giudici gli infliggono una pena di due anni e undici mesi per rissa con lesioni aggravate, più rapina. È per lui un colpo al cuore. Decide di raccontare ai suoi fan la sua esperienza giudiziaria su Instagram e dice: “Un vero ragazzo di strada cerca di aiutare gli altri. Tutti questi gangsta che continuano a sventolare soldi sui social non vi porteranno da nessuna parte. Cercate di costruirvi un futuro il prima possibile, perché questo vuol dire essere uomini”. Mendossa dovrà scontare a casa della madre gli arresti domiciliari dalle dieci di sera alle sette del mattino. Ma è riuscito a ottenere la messa alla prova, grazie al suo impegno da volontario nel progetto “Laboratorio Rap Terapeutico”, nato dall’intuizione dell’artista rapper torinese Marco “Zuli” Zuliani, a seguito dell’incontro con Don Domenico Cravero. Dal 2016 ad oggi il Laboratorio Rap ha coinvolto circa 1.600 ragazzi, provenienti da contesti molto diversi di tutto il territorio della città metropolitana di Torino. Racconta Zuliani: “Svolgiamo i nostri laboratori di rap in contesti svantaggiati e incontriamo ragazzi di centri diurni, educative territoriali, minori a rischio. Grazie a questo genere di musica riusciamo a coinvolgere dei giovani che, diversamente, sarebbero difficilmente avvicinabili”. Lo scopo dell’attività è quello di rendere protagonisti i ragazzi. I brani realizzati vengono poi diffusi online attraverso un digital store dell’associazione. I giovani cantano le loro storie: l’esclusione sociale, la rabbia, la timidezza. Aggiunge Zuliani: “Noi promuoviamo il rap come la narrazione del sé. Perché quando riesci a raccontarti ti metti in relazione con gli altri. In qualsiasi contesto di difficoltà sociale ed economico c’è sempre un potenziale ed è importante che non vada sprecato”. Quelli che “più carcere per tutti” di Carlo Crosato Left, 30 novembre 2020 È un manifesto dello Stato di diritto e del garantismo il nuovo libro di Luigi Manconi e Federica Graziani, “Per il tuo bene ti mozzerò la testa”. Un manuale di resistenza contro il giustizialismo morale, il populismo penale e la retorica securitaria che avvelenano un clima sociale già molto stressato. Impopolare, spesso incompreso, sempre impegnativo, il garantismo è una delle prospettive cardine dello Stato di diritto. Tanto prezioso quanto complesso, a esso frequentemente si preferisce il più semplice giustizialismo, capace di appagare l’urgenza di riscatto e sicurezza ma anche di minare le giuste tutele che a ogni cittadino, anche quello più fragile e quello che ha sbagliato, devono essere assicurate. Non è dunque superfluo tornare a insistere una volta di più su tale valore, ricalcando per un breve tratto il percorso di “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” (Einaudi), libro pungente e riflessivo firmato da Luigi Manconi, sociologo e già presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, e Federica Graziani, ricercatrice in filosofia e letteratura e attivista dell’associazione A buon diritto. Proponendo casi concreti, che hanno certamente sollecitato le emozioni e le riflessioni di tutti noi, i due autori infatti impegnano il lettore in un autoesame per comprendere il proprio livello di rispetto dei diritti, e per apprendere il valore spesso trascurato delle garanzie. Manconi e Graziani liberano il garantismo dall’immagine distorta di privilegio da salotto. Un’immagine diffusa dai vari autoeletti paladini della giustizia o, meglio, fautori del populismo penale, che considerano tutti colpevoli fino a prova contraria, e al tentativo di reinserire il reo in un clima di pacifica convivenza preferiscono la soddisfazione della sete di vendetta. Quella garantista non è impresa facile, considerata la semantica che circonda la pena, come afflizione fisica che il giusto infligge al reo al fine di ristabilire l’ordine perturbato dalla colpa. La retorica securitaria, indifferente ai numeri in calo dei crimini nel nostro Paese, si affianca a prospettive che osservano l’amministrazione pubblica con spirito persecutorio: irrompe nella vita quotidiana un’immagine irreale del mondo, che spaventa e che giustifica una stretta sui diritti di tutti. Si approfitta dello scontento per proporre le soluzioni facili del giustizialismo e del securitarismo; rare sono le occasioni per comprendere come tali scorciatoie siano le condizioni per replicare, più che per risolvere, lo scontento e l’ingiustizia. Sebbene questo sia un fenomeno che germina in uno scenario politico e mediatico perverso, ciò che esso mobilita è tutto un senso comune, che stritola la dimensione solidale, dialogica, polemica, ed esalta la percezione di tranquillità che deriva dal mettere alla porta chiunque si palesi appena sospetto. Obiettivo critico centrale del volume è il populismo penale, l’illusione che ogni problema sociale possa essere risolto attraverso lo strumento della legge; e di una legge utilizzata come una clava, a colpi di proibizione e obbligo, a colpi di processi che radiografano l’individuo fino al midollo, fino a che non si sarà finalmente trovato modo di portarlo in carcere. Ma a coronare l’obiettivo critico dei due autori c’è l’iter extra-giudiziario perfettamente rodato, che accompagna l’iter giudiziario con la chiacchiera, gli scoop, l’infamia: il giustizialismo morale, che degrada la morale a strumento di lotta tribale. Il garantista prende le distanze da queste storture non per favorire privilegi o trattamenti benevoli ai propri alleati, alla propria parte; egli, anzi, procura giustizia a sé e ai propri amici garantendo le giuste tutele innanzitutto agli avversari o a quegli “indifendibili” che maggiormente ecciterebbero un’atavica risposta vendicativa, oppure all’emarginato che, rappresentando l’anomalia destabilizzante, sarebbe (ed è!) ben più facile spingere oltre la soglia del carcere. E, come ne “I miserabili” di Hugo l’irreprensibile ispettore Javert è alla fine salvato dal Jean Valjean che ha inseguito per l’intero libro, il garantista si spende anche per tutti i giustizialisti che scorrazzano fra politica, giornali e le piazze in cui furoreggia la folla. “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” è un manifesto del garantismo, delle tutele incondizionate dei diritti e delle garanzie, di una postura le cui ragioni sono spesso confuse con connivenza e complicità. Questo libro è anche un’occasione per prendere contatto con la complessità della vita collettiva, per educarsi a una pratica di confronto equo nei confini dello Stato di diritto, entro cui all’immigrato e a Matteo Salvini deve essere riservato medesimo trattamento. In questo libro si trovano strumenti per affrontare con equanimità la lotta politica, senza abbattere l’avversario, ma di certo senza venir meno a convinzione e fermezza. Questo libro, infine, è un’occasione per conoscere ambienti come quello delle carceri, cui è dedicato l’ultimo capitolo: luoghi che, lontani dal centro città, con alte mura, grate e filo spinato, generano l’idea di essere il “fuori” della società, ma che a ben vedere sono legati con l’interno della società da una specie di nastro trasportatore. Come e più di altre situazioni di marginalità, senza che ce ne accorgiamo il carcere degrada i diritti dei cittadini liberi senza nemmeno sfiorarli, limitandosi semplicemente a svilire la vita dei cittadini privati della libertà, e preparando così le condizioni di accettabilità per soprusi contro chiunque. Ambienti chiusi che alcune e poco visibili realtà associative, come Antigone, A buon diritto, il Partito Radicale, Nessuno tocchi Caino, hanno il merito di aprire; e rispetto ai quali anche il libro di Graziani e Manconi concorre a farci prendere coscienza contro la nevrosi giustizialista. Virus e incertezza economica frenano le nascite in Italia di Danilo Taino Corriere della Sera, 30 novembre 2020 I Paesi ricchi, che avrebbero bisogno di una primavera della natalità, vanno verso un inverno della fertilità. Molti Paesi poveri sono indirizzati verso un’ulteriore crescita. Juan Antonio Perez III stima che, a causa della pandemia, quest’anno nelle Filippine nasceranno 214 mila bambini in più di quelli prevedibili prima dei lockdown: almeno un milione e 900 mila. Perez è il direttore esecutivo della Commissione sulla Popolazione e sullo Sviluppo di Manila e considera che tra le 400 e le 600 mila filippine siano uscite dal programma di pianificazione familiare nei mesi scorsi: non hanno avuto accesso ai farmaci e agli strumenti contraccettivi che il governo distribuisce. In Italia, invece, il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo ha previsto pochi giorni fa che il numero dei nuovi nati potrebbe scendere da 420 mila nel 2019 a 408 mila quest’anno e a 393 mila nel 2021. Filippine e Italia illustrano una realtà generale: la Covid-19 sta radicalizzando anche la demografia. I Paesi ricchi, che avrebbero bisogno di una primavera delle nascite, vanno verso un inverno della fertilità; molti Paesi poveri, la maggior parte dei quali avrebbe beneficiato di un raffreddamento, sono in molti casi indirizzati verso una stagione se non di baby-boom almeno di ulteriore crescita rispetto agli anni passati. Con risultati qualche volta solamente negativi, qualche altra volta disastrosi. In Occidente e nelle Nazioni avanzate il periodo 2020-2021 segnerà un gradino all’ingiù che a lungo potrebbe mantenere più bassa del dovuto la tendenza demografica già negativa. Negli altri Paesi potrebbe vedere messo sottosopra l’impegno di molti governi nella pianificazione familiare e portare a ondate di aborti non ufficiali, a nascite premature, a un aumento della mortalità infantile. All’inizio della circolazione del virus in Europa, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, tre demografi italiani - Francesca Luppi, Bruno Arpino, Alessandro Rosina - hanno utilizzato dati del Rapporto Giovani dell’Istituto Giuseppe Toniolo per stabilire come le persone tra i 18 e i 34 anni hanno reagito alla pandemia quando si tratta di maternità e paternità. E li hanno poi confrontati con pari età di Germania, Francia, Spagna e Regno Unito. Tra gli italiani che prima del virus avevano intenzione di procreare, il 26% era deciso ad andare avanti con il progetto, il 38% intendeva rinviarlo, il 36% aveva deciso di abbandonarlo. Tra i cinque Paesi, la quota di abbandoni degli italiani era decisamente la più alta: 14% tra i tedeschi, 17% tra i francesi, 29% tra gli spagnoli, 19% tra i britannici; i quali preferivano mantenere l’obiettivo o si limitavano a posporlo. “Abbiamo continuato a studiare la situazione - dice Francesca Luppi. A ottobre la quota degli italiani decisa ad abbandonare è calata di qualche punto, mentre è aumentata quella di chi rinvia”. Le persone hanno preso maggiore confidenza con la pandemia, commenta la demografa, sono forse meno ansiose ma il dubbio se diventare genitori o meno resta forte. “Ora, non è tanto il timore del virus in sé a frenare la decisione di avere figli - sostiene Alessandra Kustermann, primario alla clinica Mangiagalli di Milano. È il clima di incertezza economica e sociale a influire sui programmi di vita e in molti casi anche sui rapporti interni alla coppia”. Dati ufficiali su cosa stia accadendo nel mondo a causa della pandemia ovviamente non ci sono: la gran parte dei bambini concepiti lo scorso marzo nascerà in dicembre e solo nei prossimi mesi si potrà quantificare la tendenza. Al momento si possono fare previsioni. La Brookings Institution stima che l’anno prossimo negli Stati Uniti nasca mezzo milione meno di bambini di quanti sarebbero nati senza la pandemia. Uno studio britannico prevede un calo del 15% dei nati in America tra novembre 2020 e il prossimo febbraio. Il minor numero di nuove nascite, il maggior numero di morti e il rallentamento dell’immigrazione potrebbe portare al tasso di crescita della popolazione Usa più basso da cento anni. Il Giappone è in una crisi demografica endemica (un abitante su quattro ha più di 65 anni) e le gravidanze sono scese dell’11% tra marzo e maggio: il governo è così preoccupato da avere alzato il contributo ai nuovi nati a 600 mila yen (4.800 euro) e da avere introdotto i trattamenti della fertilità nell’assistenza sociale. L’Australia calcola un chiaro calo delle nascite, così come altri Paesi sviluppati del Pacifico: Singapore promette tremila euro a chi avrà un figlio nei prossimi due anni. È che nei momenti d’incertezza le persone preferiscono non programmare il futuro. La crisi dell’economia, l’aumento della disoccupazione, le cattive prospettive che i giovani ritengono di avere sono alla base della crisi demografica che si annuncia. A questo si aggiunge la difficoltà ad accedere alla fertilizzazione in-vitro durante i lockdown, una procedura che, per esempio negli Stati Uniti, ogni anno porta a più di 80 mila nascite. In teoria, lo stesso dovrebbe valere per i Paesi poveri o a medio sviluppo, soprattutto tra le popolazioni che abitano le città. In realtà, il caso delle Filippine non è unico. In India, lo scorso maggio 25 milioni di coppie non hanno potuto accedere ai contraccettivi, calcola la Foundation for Reproductive Health Services di Delhi. E durante i lockdown le cliniche Marie Stope International - i maggiori fornitori di servizi di pianificazione familiare non statali in India e Nepal - hanno dovuto chiudere. In Indonesia, dieci milioni di donne in aprile e durante i confinamenti non hanno avuto accesso alla contraccezione. Il Gutmacher Institute ha calcolato che, in 132 Paesi a reddito basso o medio, un calo del 10% dell’utilizzo dei servizi di controllo delle nascite a causa delle restrizioni Covid-19 provocherebbe più di 15 milioni di nascite non volute: il problema è che gli operatori “sulla frontiera” dicono che la quota di donne senza accesso a questi servizi in certi casi arriva all’80%. La demografia dei Paesi ricchi è da tempo preoccupante: si va verso società con sempre più pensionati e sempre meno lavoratori che sostengono il peso delle pensioni e creano ricchezza. La demografia dei Paesi poveri è più articolata ma in molti Paesi l’alto numero delle nascite e i cattivi servizi sanitari mantengono alta la mortalità delle madri durante il parto e quella infantile. La pandemia non cambia le tendenze, le radicalizza: inverno della fertilità al Nord, stagione sempre calda al Sud. Fiducia alla Camera per le modifiche al decreto Sicurezza di Serena Riformato Il Domani, 30 novembre 2020 All’ombra della legge di Bilancio e dei provvedimenti prenatalizi, il cosiddetto decreto Migranti verrà approvato oggi pomeriggio alla Camera con un voto blindato dalla fiducia. A quel punto, il già annunciato ostruzionismo del centrodestra potrà solo di poco allungare i tempi con una lunga sequela di ordini del giorno da discutere in aula. Il provvedimento che modifica i decreti Sicurezza dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini arriverà però non prima della settimana prossima al Senato dove, fanno sapere dal ministero per i Rapporti con il parlamento, lo attende un altro probabile giro di fiducia. La motivazione ufficiale è quella consueta: i tempi stretti, strettissimi prima della scadenza del decreto, il 20 dicembre. Una ventina di giorni per chiudere la partita a Palazzo Madama già ingolfato dai decreti Ristori. Cinque stelle divisi Anche se nessuno lo dice ufficialmente, l’ennesima questione di fiducia ha un’altra utilità, tutta politica. Contenere, e possibilmente nascondere sotto il tappeto, l’insofferenza di una parte del Movimento 5 stelle che considera il nuovo testo sull’immigrazione troppo morbido. La frattura si è resa visibile durante i lavori della commissione Affari costituzionali alla Camera. In due occasioni, più diventi deputati Cinque stelle hanno presentato emendamenti identici alle proposte del centrodestra. Il primo voleva eliminare l’articolo del decreto che consente di convertire alcune tipologie di permessi di soggiorno in permessi di lavoro, il secondo puntava a reintrodurre la confisca e il sequestro delle navi Ong, com’era previsto dal secondo decreto Sicurezza. Sono stati entrambi bocciati dalla maggioranza in commissione, ma alcune voci di malcontento potrebbero tornare a farsi sentire oggi pomeriggio in aula. O ancora peggio al Senato, dove i numeri di Partito democratico e Movimento 5 stelle sono sempre più ballerini. “Darò la fiducia al governo, non al provvedimento - dice Alvise Maniero, deputato Cinque stelle fra i firmatari degli emendamenti “dissidenti” - non so alla fine in quanti voteranno contro, ma penso che molti nel Movimento non siano contenti di questo decreto che riapre i confini indiscriminatamente”. Sotto traccia, va in scena l’ennesimo inciampo sulla collocazione politica di una forza di governo che non vuole dirsi né di destra né di sinistra e in cui, ciclicamente, qualcuno rimane con il mal di pancia. “Non c’è stata una sintesi all’interno del Movimento - dice Maniero - il decreto è solo il risultato della volontà del Pd e di quei parlamentari Cinque stelle da sempre vicini alle loro posizioni”. Dopo più di un armo, il secondo governo Conte ha rispettato la promessa di rivedere i decreti Sicurezza, su cui pesavano i rilievi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il nuovo testo introduce la protezione speciale, simile alla protezione umanitaria cancellata da Matteo Salvini, ripristina il sistema di accoglienza diffuso e ridimensiona le multe alle Ong. Si allargano le possibilità di convertire i permessi di soggiorno in permessi di lavoro. I richiedenti asilo potranno nuovamente essere iscritti all’anagrafe dei comuni italiani, cancellando così il divieto introdotto dal primo decreto Sicurezza e ritenuto incostituzionale a luglio 2020 dalla Consulta. Cos’è cambiato alla Camera Il decreto è stato modificato dalla commissione Affari costituzionali in quella che sarà probabilmente la forma definitiva. I tempi per ottenere una risposta alla domanda di cittadinanza, innalzati a quattro anni dal primo decreto Sicurezza, sono stati riportati a due (erano tre in una versione iniziale del decreto). Un’altra novità significativa introdotta dalla commissione riguarda il cosiddetto decreto Flussi, il provvedimento con il quale l’esecutivo stabilisce ogni anno le quote di ingresso dei cittadini non comunitari che possono entrare in Italia per motivi di lavoro. Il governo non dovrà più rispettare il tetto dell’anno precedente nel caso non emanasse un nuovo decreto entro il 30 novembre. E con un emendamento delle due deputate Laura Boldrini e Barbara Pollastrini si impedisce esplicitamente l’espulsione di un migrante che nel Paese di origine sia a rischio per motivi legati al suo orientamento sessuale o all’identità di genere. Combattere la pena di morte per non perdere l’umanità di Mario Giro Il Domani, 30 novembre 2020 Il 30 novembre è la giornata mondiale delle città per la vita. La data ricorda il giorno in cui nel 1786 il Granducato di Toscana abolì la pena capitale, primo stato a farlo nella storia. Grazie al noto scritto Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria si determinò una corrente di pensiero che in Toscana giunse a ripudiare la pena di morte come strumento di giustizia. Da quel momento inizia il lungo processo per l’abolizione giunto ora a coinvolgere la gran maggioranza dei paesi del mondo: 114 stati l’hanno abolita (8 solo per i reati comuni). Alcuni fra gli abolizionisti, tra cui l’Italia, si sono fatti promotori della campagna mondiale per la moratoria della pena capitale, primo passo in vista dell’abolizione. Hanno presentato all’Assemblea generale delle Nazioni unite una risoluzione in questo senso, e viene permanentemente rinnovata ogni due anni. Molti stati stanno riflettendo sull’abolizione e ciò ha prodotto 28 abolizionisti de facto: sono quei paesi che non applicano la pena da tempo (talvolta da decenni) e de facto o de jure sono in moratoria. Nel corso del tempo, in particolare dal 2007, la lista dei mantenitori si è ridotta. I paesi dell’Unione europea rappresentano l’avanguardia della battaglia per l’abolizione: per aderire all’Ue infatti occorre abolire la pena capitale. Se l’Europa è il primo continente senza pena di morte, l’Africa potrebbe divenire il secondo, soprattutto se si guarda alla sua parte subsahariana. Il dibattito in seno all’Onu è molto acceso: ciò è dovuto anche al fatto che tra i mantenitori vi sono paesi influenti come Stati Uniti, Cina, Giappone, India, Nigeria, Iran, Pakistan o i paesi arabo-islamici. Tuttavia la spinta degli abolizionisti ottiene successi anche tra questi ultimi, come si osserva dal sempre maggior numero degli stati americani che aboliscono la pena o dalla riduzione che la Cina ha recentemente fatto dei reati punibili con la pena capitale. “Non si può insegnare a un popolo a ripudiare l’omicidio, se lo stato stesso ne fa uso”, scriveva il Beccaria. Abolire rappresenta un segnale in controtendenza con lo spirito del tempo presente. Nel mondo attuale, attraversato da passioni e da violente emozioni, tutti gli aspetti della vita quotidiana sono coinvolti, anche la giustizia, la sicurezza e le pene. Come accade in politica, le percezioni su giustizia e sicurezza sono attraversate da ondate emozionali. Processi spettacolarizzati, avvocati come star televisive, accesi dibattiti sulle sentenze, percezioni di insicurezza slegate dalla realtà dei dati: il bisogno di sicurezza appare una nuova medicina davanti allo spaesamento e alla paura. Prevale emotivamente una cultura della punizione. Il dibattito sulla pena di morte soffre di simili parossismi e qualcuno prova a rievocarla. Così come la guerra torna ad essere popolare, anche la pena di morte rischia la stessa deriva. Terrorismo, guerre incessanti e reti criminali globali riecheggiano una diffusione sempre più ampia delle condanne a morte extragiudiziali, cioè non ufficiali. Gli stati non sono gli unici detentori del monopolio della violenza: ci sono anche le mafie e i terrorismi che in certi territori vogliono “farsi stato”. Nell’incertezza torna un’idea di retribuzione simile a quella favorevole alla pena capitale. Il jihadismo contemporaneo manipola tale ragionamento tentando di convincere il mondo islamico che la sua cruenta battaglia rappresenta la legittima retribuzione per i torti subiti. Papa Francesco l’ha dichiarata sempre inammissibile (come la guerra) ma la pena di morte e la mentalità che l’accompagna rischiano di tornare in maniera ambigua, incentivate dalla paura del terrorismo. I returnees (i foreign fighters di ritorno) incutono un terrore tale da far sembrare accettabile il venire meno di un principio fondamentale della nostra civiltà. Il terrorismo dell’Isis -pur sconfitto - ci sta forse contagiando, lasciando in eredità qualcosa di orrendo che non ci appartiene? Guerre senza nome e senza senso a cavallo tra paura e estrema difesa dell’identità, funestano il nostro mondo e nessuno se ne scandalizza più tanto. Condannare a morte intere città non ha provocato forti manifestazioni di sdegno, il never again di un tempo. L’uomo del presentiamo è schiacciato dalle proprie preoccupazioni e si arrabbia solo per sé stesso. Davanti alla vendetta dei “dannati della terra”, si invocano soluzioni armate: un’idea micidiale di reciprocità. Quasi nessuno dice apertamente di volere la guerra ma si seminano dappertutto le sue premesse: discorsi d’odio, insulti, ricerca del nemico, stigmatizzazioni. Dal sottosuolo dei peggiori sentimenti riemerge un sentimento di vendetta e ritorsione: occhio per occhio. L’inasprimento generalizzato delle politiche poliziesche, giudiziarie e penitenziarie che si osserva attualmente risente di una trasformazione del carattere giudiziario degli stati, decuplicandone la rete penale dappertutto. È in atto una svolta punitiva in tutte le civiltà. Se qualche anno fa ad esempio il fatto che le carceri in Italia fossero sovraccariche creava almeno disagio nella pubblica amministrazione, oggi alcuni politici se ne fanno vanto. Allo stesso modo in molti paesi le migrazioni e il Covid hanno provocato l’instaurarsi di una gestione dell’insicurezza sociale che tende a dimenticare o addirittura a criminalizzare la povertà. Nell’era del lavoro frammentario e discontinuo e della crisi del welfare, la regolamentazione della vita quotidiana non passa più attraverso la figura materna e disponibile dello stato-previdenza ma si poggia su quella virile e autoritaria dello stato-giudice e sulla cultura del merito e della punizione. Lo notiamo con l’aumento vertiginoso della popolazione carceraria in certi paesi o con la privatizzazione delle carceri in atto in altri. Lo osserviamo nelle annose polemiche tra sanità pubblica e privata. Si istituzionalizza il divergente, lo si isola perché non “produttivo”: quindi non vale la pena occuparsene. La gestione politica degli eventi è divenuta la gestione degli stati d’animo. La maggioranza dei cittadini si adegua se le istituzioni o i leader divengono più aggressivi, la gente segue. D’altra parte nella globalizzazione tutti sono più soli (in occidente anche più vecchi) e reagiscono in maniera allarmata. I muri sono il risultato di tale necessità rabbiosamente espressa o difesa. Si murano le frontiere, le vie di uscita o di entrata, si dividono le città, si separano i quartieri e ciascuno va all’ossessiva ricerca di quelli uguali a sé, che paiono più rassicuranti. Allo stesso tempo, si abbandona l’idea della riabilitazione in carcere o dei diritti umani per tutti. Figlie di un clima punitivo, emergono le culture del sospetto, del complotto, dell’interminabile ricerca di sicurezza. In tale clima ci si potrebbe chiedere perché insistere nuovamente sulla pena di morte. Davanti al terrorismo non sarebbe il caso di parlare d’altro? Perseverare contro la pena di morte è invece il modo per opporsi ad ogni cultura di morte, sia essa istituzionale che non. È un modo per contrastare ogni scorciatoia punitiva e per riaffermare quanto la pena capitale rappresenti la disumanizzazione a cui resistere. Si tratta infatti di una pena irreversibile che assomiglia troppo alla vendetta perché basata sulla reciprocità con il male. La nostra civiltà del diritto non può cedere alla tesi della legittimità della ritorsione. La giornata mondiale delle città per la vita è un’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio in alleanza con molte realtà associative che lottano contro la pane di morte nei paesi mantenitori, nei corridoi della morte e nelle carceri di tutti i continenti. Nella serata del 30 novembre le città aderenti (ad oggi 2.363) sono invitate ad illuminare un monumento significativo della propria storia. A Roma viene tradizionalmente illuminato il Colosseo, un tempo teatro delle condanne a morte. Quest’anno sarà illuminato anche il parlamento europeo. La scelta delle città permette di coinvolgere amministrazione comunali degli Stati mantenitori. È un gesto simbolico che accompagna il lavoro diplomatico e di dialogo nei confronti degli stati mantenitori per affermare ovunque la cultura della vita. I diciotto pescatori italiani dimenticati in Libia di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 30 novembre 2020 Da novanta giorni sono sotto sequestro ma per loro nessuno si mobilita. Eppure siamo gonfi di indignazione, di vibrante protesta per la scandalosa detenzione in Egitto dello studente Patrick Zaki. Da novanta giorni, non da due, ma da novanta, diciotto pescatori di Mazara del Vallo sono sotto sequestro con accuse vaghe e incomprensibili in Libia dalle milizie di Haftar. Insomma sono ostaggi, catturati e usati come merce di scambio con l’Italia. Ma l’Italia non ha alcuna intenzione non dico di scambiare alcunché, ma di prendere in considerazione l’idea stessa di una trattativa per liberare diciotto nostri connazionali nelle grinfie di bande armate cui è difficile riconoscere dignità statale. Colpa di un governo palesemente inadeguato come quello italiano, certamente, senza una leadership, un minimo di peso internazionale, uno straccio di profilo che possa incutere rispetto. Ma colpa anche di un’opinione pubblica silente, indifferente, messa a tacere da un misto di fatalismo, di disattenzione, di assuefazione. E c’è davvero da domandarsi perché. Perché la sorte di diciotto pescatori non ci muova a un minimo di solidarietà. Guardiamo la notizia, non ne veniamo toccati, la prendiamo come una noiosa incombenza. Siamo gonfi di indignazione, di vibrante protesta per la scandalosa detenzione in Egitto dello studente Patrick Zaki, conosciuto all’Università di Bologna, e facciamo bene a protestare, a firmare appelli, a richiamare l’attenzione su questo sopruso. Ma perché niente, il nulla assoluto, il mutismo illimitato sui diciotto pescatori. Facciamo sentire il nostro plauso quando qualche cooperante, o qualche giornalista, viene liberato dopo lunghe e onerose trattative, ma del destino di diciotto pescatori sequestrati non ci importa niente, come se l’umanità di diciotto sconosciuti non ci riguardasse, o ci riguardasse molto meno, o fosse meno “di tendenza” occuparsene, protestare, chiedere la loro liberazione. E questa volta nemmeno l’opposizione di destra, un tempo combattiva e indignata per i due marò prigionieri in India, sembra commuoversi. Come se fossero italiani di un’Italia minore, appartenenti a una categoria troppo umile per alimentare la nostra coscienza morale incostante, spaventosamente ipocrita, di un’ipocrisia così incistata nel nostro modo strabico di vedere le cose che forse nemmeno riusciamo a rendercene conto. Perché i pescatori non contano niente, non fanno opinione, non invitano alla mobilitazione. E se ne stanno lì, sotto sequestro da novanta giorni, nel silenzio del mondo. Perché la Francia adesso ha paura della sua polizia di Marc Lazar La Stampa, 30 novembre 2020 I rapporti dei francesi con la loro polizia sono stati raramente del tutto sereni. Ancora meno da qualche anno. Le manifestazioni dei gilet gialli nel 2018 e nel 2019, spesso di una rara violenza, sono state duramente represse. Incidenti ricorrenti e talvolta drammatici oppongono i giovani delle periferie alle forze dell’ordine. In questi ultimi giorni dei video che mostrano la brutalità estrema esercitata da quattro poliziotti, proferendo anche insulti razzisti, su un produttore nero di musica, hanno suscitato un’emozione considerevole nel paese. Il presidente della Repubblica in persona ha condannato quest’”aggressione inaccettabile” e tre di questi poliziotti sono stati messi in carcerazione preventiva. Sabato, a Parigi, alla fine di un’imponente manifestazione, convocata per protestare, fra le altre cose, contro le “violenze della polizia”, scontri sono scoppiati fra alcuni gruppi di estremisti e le forze dell’ordine. E queste hanno ferito seriamente un fotografo. La Francia sarebbe malata della sua polizia? In effetti lo si può pensare. A condizione di restare ragionevoli. Da un lato, la popolazione ne diffida sempre più. I giovani, soprattutto nei quartieri più difficili, si sentono discriminati dalle forze dell’ordine e le temono. Il dialogo sul campo fra la polizia e i cittadini si ritrova a un punto morto: ognuno sospetta dell’altro. Attivisti di estrema sinistra come pure numerosi gilet gialli soffiano su questi fuochi e sviluppano un vero odio della polizia, come lo dimostrano lo slogan “tutti detestano la polizia” e l’ingiunzione che rivolgono sistematicamente ai poliziotti (“suicidatevi”), sapendo che la polizia nazionale ha registrato 59 suicidi nel 2019 (il 60% in più che nel 2018). Da parte loro, i poliziotti si preoccupano di questo disgusto, dei rifiuti a obbedire sempre più numerosi, del livello crescente di violenza nei loro confronti durante le manifestazioni e in certe zone urbane (in particolare dove c’è il traffico di droga), degli insulti e delle minacce sui social, se non di aggressioni fino nei loro domicili, che li obbligano spesso a nascondere ai vicini la propria attività professionale e a consigliare ai figli di non rivelare la loro professione. Tuttavia, attenzione a non tirare conclusioni affrettate. La maggioranza dei francesi sostiene la sua polizia, che li protegge dalla delinquenza e dalla minaccia terroristica. C’è, però, la necessità di ricostruire una relazione di maggiore fiducia fra le forze dell’ordine e i cittadini. Fiducia? Questa è la parola chiave. Perché quello che succede con la polizia è solo il sintomo di un fenomeno più generale. Tutte le inchieste dimostrano l’esistenza di un contrasto impressionante fra un livello molto alto di soddisfazione privata e una sfiducia generalizzata nei confronti di tutte le istituzioni politiche e pubbliche, al pari dei loro rappresentanti. La Francia del 2020 è felicità privata e sfiducia pubblica. Preoccupante per lo stato della democrazia francese. Tre sorelle dividono la Russia: uccisero il padre che le violentava di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 30 novembre 2020 Picchiate e violentate per anni, mercoledì avrà inizio il processo. Caso che a lungo ha diviso l’opinione pubblica, difficilmente avranno clemenza: la pena potrebbe oscillare fra 8 e 20 anni. Saranno processate per omicidio premeditato le sorelle Khachaturyan che poco più di due anni fa uccisero il padre-padrone che da anni le sottoponeva, secondo il loro racconto, a incredibili violenze fisiche e sessuali. Mercoledì prossimo, dopo numerosi rinvii, avrà inizio la procedura che porterà a dibattere davanti a una giuria popolare uno dei casi che maggiormente ha diviso l’opinione pubblica russa, visto che la violenza familiare e in particolare quella sulle donne è argomento caldissimo e che vede parti della società schierate su fronti diametralmente opposti. Anche le autorità che hanno in mano il caso hanno avuto problemi a prendere una posizione univoca. In un primo momento, dopo che Mikhail, 57 anni, era stato trovato in una pozza di sangue sul pianerottolo di casa (colpito con decine di coltellate e colpi di martello), l’accusa aveva parlato di premeditazione. Poi il viceprocuratore generale aveva deciso di riformulare l’accusa, riconoscendo che le sorelle avevano ucciso per difendere se stesse. Alla fine, dopo pressioni da parte di ambienti legati alla Chiesa e ai settori più conservatori, nuova modifica: le Kachaturyan si erano mosse “spinte da una forte ostilità nei confronti del padre” e avevano agito con premeditazione. La possibile pena oscilla tra gli 8 e i 20 anni. Ed è bene ricordare che in Russia la percentuale di cause penali che si chiudono con il rigetto delle tesi dell’accusa è irrisoria. Mikhail, che non aveva una vera e propria occupazione, era estremamente superstizioso e aveva riempito la casa di immagini religiose. Era stato pure in pellegrinaggio a Gerusalemme. Probabilmente per questo ancora oggi c’è chi parla bene di lui e non accetta la posizione della difesa. Secondo quanto è emerso nel corso dell’inchiesta, lui era stato già denunciato per le violenze dalla moglie Aurelia che a un certo punto era stata cacciata di casa assieme al figlio maschio Sergej. Così Mikhail era rimasto solo con le tre figlie, Angelina, Krestina e Maria che nel 2018 avevano 19, 18 e 17 anni. Le trattava come schiave, con un atteggiamento da padrone o da antico patriarca. Impediva loro di uscire di casa e le picchiava e le violentava in continuazione. Il 27 luglio di due anni fa Mikhail era tornato a casa alterato, dopo una seduta in un centro di igiene mentale, e subito se l’era presa con le figlie, accusandole di aver sperperato dei soldi e di tenere in disordine la casa. Le aveva fatte entrare una alla volta in una stanza e aveva spruzzato loro in faccia del gas urticante. Esasperate per l’ennesima angheria, mentre Mikhail sonnecchiava su una poltrona, le ragazze avevano deciso di ucciderlo e l’avevano aggredito con un coltello e un martello. La tragedia, che si era svolta in un appartamento nella periferia della capitale, aveva subito suscitato grande emozione nell’opinione pubblica. Anche perché proprio in quei mesi era incandescente il dibattito sugli abusi nelle famiglie. Una legge che avrebbe reso più pesanti le pene non era riuscita a passare alla Duma. Invece nel 2017 una parlamentare conservatrice, Yelena Mizulina, era riuscita a far approvare una norma per depenalizzare i reati minori commessi nell’ambito familiare. Forme di violenza che non provocano “seri danni corporali” sono puniti da allora solo con una multa di circa 300 euro e 15 giorni di “arresto”. Fino a qualche anno fa le statistiche del ministero dell’Interno fornivano un quadro terrificante della situazione nelle famiglie russe. Nel 1999 il governo inviò all’Onu un rapporto nel quale denunciava che 14 mila donne venivano uccise ogni anno fra le mura di casa. Poi, dopo le critiche a queste statistiche della stessa Mizulina, i dati sono cambiati. Nel 2015, secondo il ministero, gli omicidi in famiglia sarebbero stati mille e le vittime femminili solo trecento. Un quadro ben diverso da quello presentato da associazioni indipendenti. Il centro Anna contro la violenza sulle donne, ad esempio, fornisce cifre più in linea con quelle ufficiali del passato: 9.600 vittime femminili ogni dodici mesi. Iran. Gli ultimi disperati tentativi per salvare lo scienziato Djalali dall’esecuzione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 novembre 2020 Quando, dopo un mese di silenzio, il 24 novembre ha squillato il telefono nell’abitazione di famiglia a Stoccolma, Vida Merhannia ha ascoltato parole che non avrebbe mai voluto ascoltare. Suo marito, lo scienziato in Medicina dei disastri di passaporto iraniano e svedese Ahmadreza Djalali, l’ha avvisata che lo stavano trasferendo in isolamento, che l’esecuzione della condanna a morte sarebbe stata imminente e che quella avrebbe potuto essere l’ultima telefonata. Vida ha immediatamente avvisato Amnesty International, gli amici e colleghi e i giornalisti ed è partita l’ultima disperata campagna per salvare la vita a un innocente, un imparziale uomo di Scienza, arrestato il 26 aprile 2016 e condannato a morte in via definitiva per spionaggio contro l’Iran per non aver voluto spiare per l’Iran. Djajali è l’ennesima vittima della reazione di Teheran alle politiche ostili occidentali promosse e portate avanti dagli Usa e dai governi alleati: negli ultimi quattro anni sono stati tanti gli iraniani con doppio passaporto arrestati per spionaggio o minaccia alla sicurezza nazionale. L’Università del Piemonte Orientale, presso la quale Djalali trascorse un periodo di ricerca, è mobilitata; i premi Nobel hanno rilanciato l’appello del 2019 e così sta facendo Amnesty International, la cui petizione online sta per raggiungere le 200.000 adesioni solo in Italia. L’hashtag #saveahmadreza sta circolando ovunque, le pagine dei social si stanno riempiendo di candele accese. Le autorità iraniane dovrebbero approfittare dell’esperienza di Djajali e affidargli la guida delle politiche di contrasto alla pandemia da Covid-19, che sta colpendo pesantemente il paese. E invece sembra avviarsi a metterlo a morte. Il recente omicidio del capo del programma nucleare iraniano, con le successive accuse di Teheran a Israele, rischiano di avviare una reazione di cui l’innocente Djajali potrebbe essere la prima vittima. Sri Lanka. Rivolta in carcere contro il Covid: 8 morti e 55 feriti ansa.it, 30 novembre 2020 Una rivolta violenta è scoppiata in un carcere di massima sicurezza in Sri Lanka: finora sono otto le vittime e 55 i feriti. All’interno della struttura, dove è scoppiato il caos per un’ondata di contagi di Covid-19, sono stati uditi alcuni spari. La struttura di Mahara, appena fuori dalla capitale Colombo, è stata circondata da centinaia di agenti mentre all’interno le guardie tentano di ripristinare l’ordine. I detenuti si sono scontrati con le guardie ieri e nella notte hanno appiccato il fuoco alle cucine e preso in ostaggio, per un po’ di tempo, due agenti. “Sono stati soccorsi e ricoverati in ospedale”, ha dichiarato il portavoce della polizia, Ajith Rohana. “La situazione è sotto controllo”, ha aggiunto. Intanto seicento agenti, inclusi duecento commando della polizia, sono stati dispiegati lungo il perimetro. Non è ancora chiaro, tuttavia, se le autorità carcerarie abbiano ripreso il controllo dell’intero complesso. Le carceri dello Sri Lanka hanno visto settimane di disordini poiché il numero di casi di Covid-19 all’interno delle strutture ha superato i mille. Due detenuti sono morti a causa della malattia. Quelle giapponesi che non vogliono più vivere di Elena Loewenthal La Stampa, 30 novembre 2020 In un mese superati i 2000 suicidi. Più delle vittime del coronavirus dall’inizio della pandemia. L’incremento maggiore è tra le donne. L’esperta: “Qui non c’è stato un vero lockdown l’impatto della pandemia è minimo”. Sebbene il dolore non sia una questione di genere ma soltanto di anime, il fatto che siano soprattutto donne suscita sgomento: in Giappone solo nell’ultimo mese sono morte più persone suicide che per il Covid in tutto l’anno corrente, 2153 contro 2087. E a togliersi la vita sono state soprattutto donne, di età diverse. In ottobre il tasso di suicidi femminili in Giappone è aumentato dell’83% in rapporto allo stesso mese dell’anno scorso, mentre gli uomini che hanno rinunciato volontariamente alla vita sono “soltanto” il 22% in più, nello stesso schema temporale. Il Giappone, proprio uno fra i Paesi al mondo che ha retto meglio la tempesta della pandemia. “Non abbiamo neanche avuto un vero e proprio lockdown, l’impatto del Covid nella nostra vita è stato minimo, se paragonato a molte altre nazioni” spiega, anzi non si spiega Michiko Ueda, docente alla Waseda University di Tokyo, esperta di suicidi. È vero, questo Paese è da sempre funestato da un alto tasso di rinunce volontarie alla vita, ma è anche la nazione dove da tempo si fa più trasparenza statistica su questi dati. Però osservare, calcolare, stimare non significa affatto capire. Meno che mai quando si tratta di ritenere la vita talmente dolorosa e difficile da non sopportarla più. Che cosa passi nella testa e nel cuore di chi prende una decisione (decisione?) del genere è impossibile saperlo. Ma questi dati giapponesi inquietano, sembrano quasi incredibili anche se sono reali come i numeri che esprimono. E il fatto che siano aumentati di così tanto i suicidi femminili dovrà, deve assolutamente dirci qualcosa. Non basta rifugiarsi nella (fittizia il più delle volte) convinzione che le donne siano più fragili. Anzi, forse c’è nel loro campo visivo emotivo una prospettiva più ampia, uno sguardo che si spinge un poco più in là, alla generazione futura cui poter dare o negare la vita. Forse, la depressione femminile ha sempre un che di esogeno, oltre che endogeno. È sempre anche un poco, come dire, transitiva: per questo, sotto la cappa della pandemia, in Giappone si è moltiplicata tanto di più. Perché il Covid-19 ha scoperchiato tante cose. Quasi tutto, in fondo. Ha disorientato l’umanità ai quattro angoli del mondo, liberando dietro lo sciame virale un senso di incertezza così profondo che non si riesce neanche a dargli un nome. È una sensazione nuova per molti di noi, forse per quasi tutti. Se c’è un’unica cosa che sappiamo tutti molto meglio di prima, è il sapere di non sapere, come diceva Socrate millenni fa. Non sapere quello che ci può aspettare dietro l’angolo dello spazio e del tempo. Tutto il mondo è stato posto di fronte a questa abissale ignoranza che riguarda la vita - quella vita che prima ci pareva tutto sommato abbastanza saldamente incanalata in un futuro prevedibile. Il virus ci ha dimostrato che malgrado tutto non siamo troppo dissimili da quell’uomo delle caverne che al calar del buio si spaventava e sperava - solo sperava perché di certezza non ne aveva - che giungesse una nuova alba. Abbiamo sì il progresso dalla nostra, e la fiducia in una scienza che avanza giorno per giorno e che ci metterà al sicuro. Ma questa così nitida percezione della nostra incertezza ce la porteremo dietro, almeno per un bel pezzo di strada. E forse è proprio questa la falce che ha mietuto così tante vite femminili in Giappone, in quest’ultimo dannato mese malgrado il virus sia, almeno lì, sotto controllo. Quella falce è la paura del tempo che verrà, la depressione abissale che viene quando tutto diventa nero, anzi grigio - dietro e davanti a sé. In Giappone è ancora un tabù parlare della propria solitudine, ammettere di non starci comodi. “Non è cosa di cui si possa chiacchierare in pubblico, e nemmeno con gli amici o i parenti”, racconta Koki Ozora, uno studente universitario che insieme a un gruppo di volontari a marzo scorso ha avviato una linea d’ascolto attiva 24 ore su 24 sul disagio mentale e in questo periodo riceve centinaia di chiamate al giorno. Migliaia di storie che raccontano di una sofferenza apparentemente inspiegabile, legata a stretto filo con la pandemia e i suoi effetti a larghissimo spettro.