Carcere, paure, chiusure e un futuro che sembra assomigliare tanto al peggio del passato di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 2 novembre 2020 “Nell’isolamento di marzo e aprile sento che ho perso un po’ di abilità sociale”: è l’osservazione fatta da uno studente durante un incontro in una videoconferenza del progetto di confronto tra le scuole e il carcere “A scuola di libertà”. Questa piccola riflessione ci è servita a fare un pensiero profondo sulla vita detentiva: se due mesi di “isolamento” hanno fatto diventare tante persone libere più chiuse, più fredde, in qualche modo più sospettose e distaccate nella loro vita di relazione, immaginarsi quanto indebolisce i legami sociali la galera, e lo fa sempre, ma doppiamente in tempi di coronavirus. “Rientrare in carcere”, dopo la chiusura iniziale che ha coinvolto i famigliari e il Volontariato, non è stato, anzi ancora non è, per niente facile. Il Volontariato da una parte è quello che sostiene individualmente, dal punto di vista materiale e morale, le persone detenute, e questo è un ruolo ben accetto all’Amministrazione, ma è anche la società civile che entra con “la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati” (art. 17 O.P.), e ha un ruolo fondamentale nel costruire percorsi che accompagnano il detenuto dalla detenzione alle misure di comunità. E non a caso, da pochi anni le “misure alternative al carcere” hanno cambiato nome, e si chiamano appunto “misure di comunità”, ma non è solo una questione di nome. Il Volontariato è impegnato proprio a spiegare, a una società sempre più impaurita, che una persona che esce dal carcere prima del fine pena, ma in un percorso di reinserimento guidato e controllato, è molto meno pericolosa di una persona che, dopo aver scontato tutta la pena in galera, esce spesso incattivita, rabbiosa, priva di relazioni, con i legami famigliari compromessi. Un estraneo per la sua famiglia, un possibile vicino di casa che fa paura. Per questo c’è così bisogno di misure che riportino le persone gradualmente dentro la società libera. Scrive Giuliano N., in carcere da dieci anni con una condanna all’ergastolo presa quando di anni ne aveva 22: “Il distacco sociale al quale i ristretti vengono sottoposti alimenta quel senso di disagio e frustrazione che non è mai stato così forte come in questo periodo di pandemia, con la differenza che oggi ogni cittadino italiano può averne un assaggio con le limitazioni imposte per fermare il virus. Pensate a cosa vorreste fare oggi o domani e non potete farlo perché siete chiusi in casa e moltiplicatelo per cento, forse anche per mille perché è questo lo stato d’animo dei detenuti, quello che oggi provate tutti voi rimoltiplicatelo non per un lasso di tempo limitato ma a volte anche all’infinito, perché in carcere ci sono pure persone che sono condannate a morirci dentro come i tanti ergastolani con fine pena 31.12.9999. A questo si deve aggiungere un fattore molto importante che voi non potete sperimentare, cioè l’assenza dei propri cari, l’impossibilità di abbracciare tua madre, tuo fratello, i tuoi figli. Pensate che con le ultime restrizioni i nostri famigliari non possono nemmeno portarci, come facevano prima, del cibo preparato con amore per noi, e allora tutto quello che voi state provando in questo momento non si può paragonare a quello che giorno dopo giorno i detenuti sono costretti a subire. Un “di più di pena” pesantissimo, perché la pena è la privazione della libertà, e non altre sofferenze che finiscono solo per incattivire e inaridire le persone”. Ecco perché ulteriori chiusure delle carceri dovrebbero far paura, e non rassicurare. Carceri: Alle Istituzioni chiediamo trasparenza, rispetto e ascolto L’art. 17 dell’Ordinamento Penitenziario autorizza a operare in carcere “tutti coloro che avendo concreto interesse per l'opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”. E sono tanti gli esponenti di questa società che hanno saputo in questi anni portare originalità e innovazione nelle attività che realizzano in carcere, dialogando e confrontandosi costantemente con le Istituzioni e anzi chiedendo pressantemente che questo confronto sia più assiduo e trasparente. In realtà la parola CONFRONTO è vista spesso come ostile se applicata alla realtà del carcere, perché il tema della sicurezza la schiaccia: non a caso, quando il Volontariato e il Terzo settore chiedono di imboccare strade nuove, buona parte dell’amministrazione penitenziaria oppone spesso molte resistenze, tanto è vero che anche un carcere come Bollate, nato e progettato come istituto sperimentale, funziona bene ma è stato utilizzato dall’Amministrazione stessa più come vetrina che come modello che avesse lo scopo di produrre ricadute positive e cambiamenti negli altri Istituti di pena. Noi volontari non abbiamo nessuno strumento per chiedere ascolto, tipo il reclamo art.35-bis O.P. per i detenuti (che comunque per i detenuti stessi non è uno strumento semplice a cui ricorrere), e rispetto ai detenuti, per i quali l’Ordinamento di recente riformato prevede di promuoverne l’autonomia e la responsabilizzazione, di autonomia e responsabilizzazione ne abbiamo, se possibile, ancora meno. Quello che chiediamo è che l’Amministrazione si comporti in modo trasparente e rispettoso con la “società libera” che entra in carcere, mettendo le persone che la rappresentano su uno stesso piano delle Istituzioni, che non vuol dire assolutamente non distinguere i diversi ruoli, vuol dire semplicemente riconoscere la dignità e la competenza del Volontariato e delle Cooperative sociali e confrontarsi stabilmente con loro. È chiedere troppo? È così difficile ascoltare il Volontariato e la società civile che entrano in carcere? Sì, forse è chiedere troppo, perché c’è una parte delle Istituzioni che si occupano dell’esecuzione delle pene che non sembra apprezzare sempre l’ascolto dei punti di vista dell’ALTRO. Leggo sul sito del Ministero della Giustizia “Le associazioni generalmente operano autonomamente, anche se molte di loro, per un migliore coordinamento, si riuniscono in organizzazioni più ampie, come la "Conferenza nazionale volontariato giustizia”, principale interlocutrice dell’Amministrazione penitenziaria in materia di volontariato”. Da mesi, come Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ho chiesto ai nuovi Capi del DAP di incontrarci. In fondo, rispetto alle carceri i volontari hanno una enorme esperienza, e a me hanno insegnato che prova di intelligenza è confrontarsi con persone che in qualche caso possono anche “saperne più di noi”, e non aver paura di accettare da loro consigli, riflessioni, buone idee. Vorrei ricordare allora all’Amministrazione penitenziaria che la nostra richiesta di essere stabilmente ASCOLTATI non è una pretesa “esagerata”, è un invito importante, a tutti gli interlocutori di questo dialogo, ad assumersi le proprie responsabilità, che per noi significa essere informati e consultati dall’Amministrazione, per a nostra volta informare la società e le associazioni impegnate in questi ambiti. È quanto ho ricordato con determinazione al Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Roberto Tartaglia, in una lunga conversazione telefonica che ha finalmente aperto un dialogo, da noi sollecitato da mesi. Questo dialogo ha bisogno di non restare un momento isolato, ma di continuare e di diventare un confronto stabile. Quando ritorneranno a una parvenza di normalità i colloqui con i famigliari? In questo mio primo confronto con il Vice Capo del DAP, ho espresso, tra l’altro, i punti di vista del Volontariato sul tema degli affetti. Oggi la graduale ripresa delle visite dei famigliari ha delle condizioni così tristi, che sono tanti i detenuti che scelgono di non far venire i loro cari a colloquio per non sottoporli all’angoscia del non potersi abbracciare, del dover parlare dietro un divisorio in plexiglass. Questa emergenza almeno dovrebbe costringere a ripensare i tempi e gli spazi tristi degli affetti, il Volontariato ha sempre avuto una piattaforma articolata su questi temi ed è disponibile a dare senz’altro un contributo forte. Abbiamo sottolineato spesso che la cosa più drammatica che potrebbe succedere è che videochiamate e telefonate “libere”, entrate di prepotenza in carcere, anche per far fronte all’epidemia di rabbia che rischiava di inquinare le condizioni di vita già difficili, vengano “buttate fuori” appena si tornerà a un po’ di normalità ripristinando del tutto i colloqui visivi. No, non si deve tornare indietro perché anche in condizioni “normali” le telefonate e i colloqui nel nostro Paese sono così pochi, che finiscono per logorare i rapporti con le famiglie. Per questo non è pensabile che questa boccata di umanità a costo zero delle videochiamate e di Skype possa finire. Servirebbero regole chiare che allargassero al massimo le opportunità di telefonare, ma abbiamo perfino paura a chiederle, perché le circolari in materia, quando cercano di uniformare le condizioni detentive, lo fanno quasi sempre al ribasso. Qui invece c’è bisogno di coraggio, e per la prima volta non sarebbe così difficile averlo, perché l’emergenza Covid è reale, non è in qualche modo “un alibi” come a volte lo è stato il sovraffollamento per giustificare condizioni detentive inaccettabili. Le videoconferenze come nuove opportunità Quanto alle attività in videoconferenza, sono state autorizzate anche nelle carceri, ma stanno funzionando poco e male, perché ancora si mettono avanti i freni della burocrazia, e lo “spettro” della sicurezza. Noi pensiamo che invece le videoconferenze siano da una parte controllabili molto più di strumenti “antichi e rassicuranti” come le lettere, dall’altra possano essere un autentico arricchimento: mettere insieme per esempio, come si sta facendo a Padova, voci di tante vittime di reato come Fiammetta Borsellino o Agnese Moro, con quelle di figli di detenuti, e ancora di persone che hanno finito di scontare una pena, che insieme dialogano con gli studenti, è una opportunità che deve coinvolgere di più e stabilmente anche il carcere e le persone detenute. In una società, che le tecnologie le dovrà mettere sempre più al centro della sua vita, chiediamo che le carceri si attrezzino rapidamente (avrebbero già dovuto farlo) per utilizzare le nuove tecnologie e per superare barriere burocratiche antiche, le risorse si possono trovare anche attraverso la Cassa delle Ammende, e per le attività da gestire il Volontariato è già pronto e disponibile. Se il Volontariato esce dal carcere, esce anche la funzione costituzionale della pena Noi volontari, assieme ai familiari dei detenuti, siamo stati le prime persone "sacrificate" in nome della sicurezza sanitaria all'interno degli Istituti penitenziari, e rischiamo di esserlo ancora, oggi che la pandemia è riesplosa. Dopo il lockdown siamo in parte “rientrati”, e non in tutti gli istituti, in modo sparso e poco coordinato, con l’appoggio forte dei Garanti e la nostra responsabilità nel rispettare condizioni di sicurezza sanitaria. Ora, che siamo ripiombati in un clima di chiusura, ribadiamo la richiesta di essere consultati e ascoltati dall’Amministrazione, perché chiudere di nuovo un luogo già “chiuso” come il carcere rischia di essere una scorciatoia pericolosa, e non una soluzione. Il reinserimento, che è l’obiettivo del nostro lavoro, significa anche ridurre i danni del “carcere chiuso” costruendo percorsi di crescita culturale che portino gradualmente all’accesso ai permessi premio e poi alle misure di comunità. Ma i permessi oggi non sono del tutto sbloccati, e quanto alle misure di comunità se già era complicato prima avere una offerta di lavoro o un domicilio per accedervi, presto diventerà una guerra tra poveri, dove chi esce dal carcere avrà ancora meno opportunità. E anche in carcere sta diminuendo l'offerta di lavoro negli istituti dove era più alta grazie alle cooperative sociali, che ora come tutte le aziende sono in seria difficoltà e stanno lottando strenuamente per mantenere le attività. Oggi il detenuto è “spaccato in due”: durante la sua detenzione è seguito dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, poi, per il suo percorso di reinserimento nella comunità esterna, è soprattutto il Dipartimento della Giustizia minorile e di Comunità che deve occuparsene. Il Volontariato è impegnato su tutti e due i fronti, ed è un Volontariato competente, che dedica energie e risorse alla formazione, in particolare sui temi della rieducazione e della Giustizia riparativa, quello che chiediamo ancora una volta è più confronto e più dialogo con le Istituzioni, e una condivisione delle iniziative di formazione. Smontare i meccanismi perversi della disinformazione Noi volontari tentiamo da anni, faticosamente, di informare sui temi delle pene e del carcere, e lo facciamo in particolare con le scuole, nel progetto “A scuola di libertà”, e con i giornalisti, in seminari di formazione sull’esecuzione della pena che hanno accompagnato tanti giornalisti a confrontarsi con le persone detenute in carcere. Nei nostri seminari abbiamo uno “stile” di comunicazione particolare: partiamo dalla centralità delle testimonianze delle persone detenute, perché loro sono in grado di fare prevenzione raccontando le piccole o grandi scelte sbagliate che le hanno portate a fare il male. A loro affianchiamo “i tecnici”, che portano la loro competenza per aiutarci a capire tutta la complessità di questi temi. Vedendo come è stata devastante l’informazione sulle “scarcerazioni dei mafiosi” durante la pandemia, non possiamo non essere consapevoli che il lavoro da fare, per smontare le falsità e i luoghi comuni che hanno imperversato in televisione e sui giornali in questi mesi, è enorme. Informare è di vitale importanza per preparare la comunità ad accogliere chi “rientra” dal carcere, anche su questo mettiamo a disposizione la nostra competenza e la nostra esperienza. Ritorno al (peggio del) passato Il confronto è urgente, perché siamo preoccupati di un possibile ritorno al passato, ma parlare di “ritorno al passato” però non è appropriato, in realtà c’è il rischio di un ritorno al peggio del passato, a un’idea di carcere chiuso, impermeabile al confronto, tutto proiettato sulla sicurezza, e la recente circolare sulle violenze in carcere ci fa temere molto. Mettere al centro la sicurezza in qualche modo “fine a se stessa”, tra l’altro, penalizza pesantemente anche la Polizia Penitenziaria, su cui ricadono i malesseri crescenti, provocati da politiche che privilegiano la repressione e non disinnescano la paura e la rabbia, che già a marzo sono sfociate in distruzione e morte. Dopo la tragica esperienza delle rivolte, oggi si deve PREVENIRE, prima di tutto tornando ad allargare al massimo i contatti con le famiglie, le videochiamate e le telefonate gratuite. E forse dobbiamo ripartire proprio dalla consapevolezza che anche il tema della sicurezza andrebbe affrontato con strumenti nuovi, la mediazione è uno di questi strumenti che funziona infinitamente meglio della pura repressione. Vorrei aggiungerci però la gentilezza, per come ne parla Papa Francesco nell’Enciclica “Fratelli tutti”, qualcosa di cui in carcere c’è estremo bisogno, da parte di tutti, anche delle persone detenute, che vivono spesso una condizione pesante, fuori dalla legalità, ma è importante che esprimano il loro disagio ripulendo la loro vita e il loro linguaggio dalle parole della violenza: “La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti”. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Covid e carcere, ancora un decesso: morto un 71enne ad Alessandria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 novembre 2020 Seconda morte tra i detenuti risultati positivi alla seconda ondata. Si registra l’ennesimo focolaio nei penitenziari, questa volta nel carcere di Alessandria, la casa circondariale “Don Soria”, con 26 reclusi positivi al Covid 19 della sezione 4A. I tamponi sono stati effettuati in tutta la sezione, perché è lì che proviene il detenuto risultato positivo al tampone e poi morto in ospedale. Aveva 71 anni, patologie pregresse, ed era stato ospedalizzato perché la sua salute si era aggravata. Non ce l’ha fatta. Parliamo della seconda morte di detenuti risultati positivi alla seconda ondata. Il primo, come ha riportato Il Dubbio, riguarda l’ergastolano del carcere di Livorno. Mentre in Piemonte è il primo caso di morte avente come concausa il Covid, cosa non accaduta nemmeno nei mesi terribili della pandemia. A darne notizia è Bruno Mellano, il garante regionale delle persone private della libertà. Contatto da Il Dubbio spiega che “una settimana fa risultava un positivo, ovvero colui che poi è morto, mentre invece giovedì e venerdì ho appreso che si è verificato un focolaio con prima 15 positivi, poi hanno fatto il tampone a tutta la sezione e sono venuti fuori gli altri 10”. Bruno Mellano spiega anche che la direttrice subito si è attivata, tramite la Asl locale per effettuare i tamponi a tutta la sezione e a chi ha avuto contatti con essa. Nei prossimi giorni verranno effettuati i tamponi a tutti i detenuti del carcere di Alessandria e quindi i numeri dei reclusi positivi al covid potrebbero essere destinati a crescere. Ricordiamo che all’8 settembre la casa circondariale conteneva 187 persone, con una capienza regolamentare di 210. “Da sottolineare - spiega sempre il garante regionale Mellano - che apparentemente sembra che non ci sia il sovraffollamento, ma non tutte le celle conteggiate sono agibili, ma soprattutto parliamo di una struttura vecchia e diverse stanze vuote non sono adatte per l’isolamento sanitario nei confronti di chi ha sintomi. D’altronde continuano ad arrivare i detenuti da fuori che, come giustamente vuole il protocollo, devono essere messi in quarantena preventiva”. Mancano stanze, appunto. Un problema generale delle carceri. Alla fine della prima ondata, tanti detenuti che erano in detenzione domiciliare erano stati fatti rientrare, così come non era stato rinnovato il decreto Cura Italia che aveva contribuito, anche se in parte, alla diminuzione del numero dei reclusi. Importante per liberare posti che servono per l’isolamento sanitario, ma anche per creare quel distanziamento fisico che, a differenza del mondo libero, in carcere è pura utopia. All’ultimo momento - tramite il decreto Ristori - hanno ripristinato il provvedimento, ma con numerosi paletti, tanto da rendere difficile la misura alternativa per un numero importante di detenuti. Resta il fatto che hanno tralasciato chi è in custodia cautelare e chi è anziano e malato. Ma il governo, ostaggio delle indignazioni create da una certa informazione, non ha fatto per ora un intervento di forte impatto. Anche i penitenziari della regione Piemonte sono pieni di persone anziane e malate che potrebbero usufruire della detenzione domiciliare per motivi di salute. “Bisogna che si attivi la magistratura di sorveglianza - spiega a Il Dubbio il garante Mellano - ma nella regione Piemonte è molto rigida, in particolare c’è proprio quella di Alessandria che lo è ancor di più”. Vivere senza carcere: si può? di Stefano Allievi Confronti, 2 novembre 2020 Può una società vivere senza carcere? È interessante che questa sia una delle tipiche domande che non ci poniamo. Le diamo per scontate. Come facciamo spesso, in questa società analgesica, che il male e il dolore non li vuole vedere, ci siamo limitati a spostarlo fuori città, come tutte le funzioni infette: occhio non vede, cuore non duole. Ma, ovviamente, non è la soluzione, né la risposta a domande scomode come: quanto è efficace, rispetto alla funzione che gli si attribuisce? e quale è veramente la sua funzione? Ufficialmente, le funzioni dichiarate sono quella preventiva e di deterrenza (ribadire la norma e la sua sacralità a fronte della sua violazione), la somministrazione della pena (da cui penitenziario), e la riabilitazione. Ma poi scopri che chi va in carcere, troppo spesso ci torna, da recidivo non pentito: cioè vìola nuovamente la norma. Che tra chi va in comunità e affronta pene alternative alla detenzione, che costano infinitamente meno delle carceri, la recidiva è molto più bassa. Che troppa gente ci va in attesa di giudizio anziché per scontarlo. E, infine, che il carcere è sempre più abitato, ma solo per alcune categorie di persone. I prigionieri (da prehensus: preso), i reclusi, i “chiusi dentro” (questo del resto significa carcere: recinto) sono sempre quelli. Come diceva Goffman, c’è “un solo tipo di uomo che non deve mai arrossire”, e che può sperare, nel corso della sua vita, di non finire in galera, e costui “è il giovane, sposato, bianco, abitante nei centri urbani, proveniente dagli Stati del Nord [da noi, senza modifiche geografiche, le Regioni], eterosessuale, protestante [da noi, ovviamente, cattolico], padre, con istruzione universitaria, un buon impiego, una bella carnagione, giusto peso e altezza e dedito a vari sport”. Una società ingiusta in radice: perché si riproduce così, oltre tutto, di generazione in generazione. In origine erano case di lavoro, ‘lavori forzati’ (mentre oggi, paradossalmente, le occasioni di lavoro sono un raro miraggio), di cui si supponeva una funzione educativa, o quanto meno socialmente utile, correttiva (non a caso quelli per minori si chiamavano anche correzionali, o riformatori, perché dovevano dare nuova forma alle persone). Nel corso della sua storia, dopo tutto relativamente recente, si è posto l’accento, oltre che sulla sua funzione punitiva e repressiva, e su quella preventiva e di deterrenza, anche su quella rieducativa, riabilitativa (negli anni, con pietosa menzogna sociale, l’accento è stato sempre più messo sulle ultime, anche se continuavano a prevalere le prime). Ma ora che prevale la funzione immobilizzativa, priva di qualsiasi utilità individuale e di risvolto sociale, un mero parcheggio umano, a che cosa serve? Per alcuni svolge un ruolo o quanto meno consente una funzione di re-interrogazione su di sé, un comprendere che c’è o dovrebbe esserci un ordine sociale, che chi l’ha sconvolto deve essere punito, che “chi sbaglia paga”. Per altri è il luogo dell’incontro con le istituzioni: in cui per la prima volta (ma il problema è per l’appunto lì), lo stato, le istituzioni, si fanno presenti in forma - nonostante il fatto fisico della costrizione - positiva: come accade soprattutto al minorile, attraverso educatori, corsi di recupero, di alfabetizzazione, magari uno psicologo, una visita medica più attenta anche al benessere generale dell’individuo e non solo al sintomo, la riflessione sulla parola ‘progetto’ e sulla parola ‘responsabilità’. E la domanda diventa: non poteva accadere prima? È per questo che, insieme a nuove riflessioni e pratiche sulle forme di mediazione, di riconoscimento della colpa, di incontro guidato tra colpevole e vittima (che nel processo tradizionale non avviene e non rileva), si ricomincia, sempre troppo flebilmente, a riflettere sull’utilità del carcere. Consapevoli che “chiuderli dentro e buttare via la chiave” è una forma di populismo penale che non risolve alcun problema. Anzi, ne crea di nuovi. E si può immaginare allora che il carcere sia altra cosa, extrema ratio, per pochi. E per i molti si inventi un altro tipo di normalità punitiva e davvero riabilitativa. Perché le alternative esistono, come sanno bene le famiglie. Così com’è è soltanto una ferita. E sanguina. E non è sano per un corpo, nemmeno per un corpo sociale, portare con sé la propria malattia senza curarla, lasciando che si aggravi senza prestarle soccorso. Come sappiamo, alla lunga infetta. E a risentirne è tutto il corpo. “In molti tribunali italiani si muore per indolenza e incuria” di Davide Varì Il Dubbio, 2 novembre 2020 L’Ocf: “Necessario un piano unitario della Giustizia. Si agisca o agiremo di conseguenza”. “Con la ripresa dell’epidemia, cui si sta assistendo dallo scorso settembre, e in mancanza di un piano unitario nazionale dell’emergenza sanitaria nel settore della Giustizia, che l’Organismo Congressuale ha più volte invocato sin dall’insorgere dell’emergenza, si segnala che la molteplicità di misure organizzative è causa specifica di diffusione del contagio, cosicché può dirsi che in molti tribunali italiani si muore per indolenza e incuria”. A scriverlo, in una lettera indirizzata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al ministero della Giustizia Alfonso Bonafede e al Consiglio nazionale forense è il coordinatore dell’Organismo congressuale forense, Giovanni Malinconico, che ribadisce al Guardasigilli la sua richiesta di un piano unitario per la Giustizia. “Risulta infatti allo scrivente Organismo, per le innumerevoli segnalazioni ricevute, che in gran parte dei Tribunali Italiani quotidianamente si verificano assembramenti dovuti alla cattiva prassi di non procedere a scaglionare adeguatamente le udienze chiamate in ciascuna giornata o, laddove le udienze siano distinte per fasce orarie, di non disporre una adeguata gestione del numero di chiamate programmate per ciascuna fascia. A tale regolamentazione, in parte dovuta alla organizzazione generale dei singoli uffici e in larghissima misura alle condotte di singoli che strutturano il proprio ruolo di udienza in modo incurante delle conseguenze che ciò comporta, è da ascriversi, nei casi denunciati, l’accesso in contemporanea di un numero incontrollato di persone negli uffici giudiziari e la conseguente ingestibilità delle udienze in compresenza fisica che, per contro, costituiscono comunque una modalità ampiamente praticata in modo sicuro, sebbene con comprensibili difficoltà e disagi, negli Uffici in cui si agisce in modo virtuoso”. Si tratta, aggiunge Malinconico, “di una prassi dalla quale è derivato, in numerosi centri italiani, una significativa diffusione del contagio tra Avvocati, Magistrati, personale di cancelleria e utenti della Giustizia. Al riguardo, al di là della ipotizzabile rilevanza penale dei fatti denunciati, l’Organismo congressuale forense ribadisce la necessità che si intervenga immediatamente affinché, data la eccezionale gravità della situazione, si disponga un piano nazionale dell’emergenza che consenta di ristabilire responsabilmente nei Tribunali Italiani una uniformità di misure organizzative in merito alla modalità di strutturazione e smaltimento dei ruoli di udienza, con chiamata per ciascuna fascia oraria di un numero ponderato di cause, così da porre un freno alla babele di misure organizzative cui si sta assistendo in via di fatto”. Tali misure, da assumersi in via di prioritaria urgenza “date le gravissime conseguenze che le prassi denunciate stanno producendo, consentirebbero che, nei casi in cui risulti necessario per le ineliminabili esigenze di tutela dei diritti, possano tenersi anche udienze in compresenza fisica oltre alle pur apprezzabili modalità alternative (udienza da remoto e trattazione cartolare) - conclude Malinconico. Si segnala peraltro che, ove non saranno prontamente disposte adeguate misure uniformi, l’Organismo congressuale forense non potrà assistere inerte al drammatico evolversi degli eventi e assumerà tutte le iniziative idonee a contrastare il fenomeno denunciato. Nell’auspicio di un pronto riscontro alla presente, si inviano distinti saluti”. Dl Ristori, Flp Giustizia: “È l’inizio di un’innovazione durevole di tutto il settore” Il Dubbio, 2 novembre 2020 Il segretario della Federazione dei Lavoratori pubblici: “Ora investire in infrastrutture e risorse umane”. Esprime soddisfazione il Coordinamento nazionale Flp Giustizia per le norme adottate con il recente Dl Ristori che recepiscono le istanze oggetto di molte iniziative portate avanti dalla Federazione dei Lavoratori Pubblici in tema di funzionamento del sistema giustizia, come l’utilizzo dei collegamenti da remoto per le indagini preliminari, lo svolgimento di udienze penali e la trasmissione telematica della documentazione da parte degli avvocati penalisti. “È l’inizio di un iter volto ad un’innovazione durevole di tutto il settore”, afferma Flp. Tuttavia, lo stato del procedimento di digitalizzazione del rito penale ancora in corso crea il cosiddetto fenomeno dell’informatizzazione a macchia di leopardo, così come è carente la dotazione di hardware per il personale. Per Marco Carlomagno - segretario generale della Flp - “oltre a proseguire gli investimenti in termini di infrastrutture e di risorse umane, condizione ineludibile per ripristinare gli organici falcidiati da un decennio di blocco delle assunzioni, è necessario che il processo di innovazione e modernizzazione coinvolga in modo attivo i dipendenti dell’amministrazione giudiziaria che sono, al pari degli avvocati e della magistratura, attori principali del funzionamento dell’organizzazione giudiziaria”. “È ormai ineludibile - conclude Carlomagno - il coinvolgimento di questo settore, decisivo per il funzionamento della giustizia, e la valorizzazione del personale che passa attraverso il pieno riconoscimento giuridico ed economico delle sue specificità lavorative. Un mix di innovazione, riorganizzazione e valorizzazione delle risorse, che è l’unica condizione per rendere la giustizia sempre più efficiente e al servizio del sistema Paese”. Per molti collaboratori di giustizia rifarsi una vita è un’impresa impossibile di Carmine Gazzanni linkiesta.it, 2 novembre 2020 Il sistema italiano che tutela i pentiti e i loro familiari è vecchio di 20 anni e dovrebbe essere aggiornato, perché non permette alle persone protette dallo Stato di ripartire da zero con la nuova identità che gli viene assegnata. Anzi, spesso sono costretti a utilizzare quella precedente a loro rischio e pericolo. Da 17 anni Elisa (nome di fantasia) vive sotto copertura. Era il 23 dicembre 2003 quando da un piccolo paese della Calabria, insieme ai suoi due figli che allora avevano 7 e 2 anni, fuggiva e cambiava per sempre identità. La sua “colpa” era - ed è - semplicemente quella di essere sorella di un collaboratore di giustizia. Elisa, invece, non ha mai avuto rapporti con la ‘Ndrangheta. Eppure, la sua vita da 17 anni è in pericolo, come lo era quella di alcuni suoi familiari rimasti uccisi in un agguato solo poco tempo fa. “Da quella notte del 2003 racconta oggi - nulla è cambiato, ci sentiamo abbandonati”. Le preoccupazioni di Elisa sono quelle di una mamma in apprensione per i figli: “Le pare possibile che, se a me e al mio secondo figlio è stato dato un documento di copertura, al primo che oggi ha 24 anni è stato concesso soltanto due anni fa?”. La ragione? “Dimenticanza”. E anche quando c’è, il documento fittizio rischia di tramutarsi in un incubo. Come quando il primo figlio di Elisa finisce suo malgrado al centro di una lite. Le vengono messe le mani al collo, tanto da avere segni visibili di violenza. “Quando i carabinieri mi hanno chiamato - racconta la mamma - mi hanno detto che se avessi voluto denunciare, avrei dovuto specificare che siamo nel programma di protezione e quindi ci avrebbero dovuto spostare. Alla fine, per il bene dei miei figli, ho dovuto rinunciare alla denuncia”. La storia di Elisa è la storia di tanti. Gli ultimi numeri disponibili (2018) parlano di 1.189 collaboratori di giustizia e 4.586 familiari che vivono sotto il programma di protezione. Parliamo, dunque, non solo dei classici “pentiti” ma anche dei loro familiari che non hanno mai avuto a che fare con la criminalità. E di minori che, dai dati, risultano essere addirittura il 40% della popolazione sotto protezione. Nel corso degli anni, però, i fondi sono stati sistematicamente tagliati. È lo stesso Viminale a riconoscerlo: nel secondo semestre 2018 i fondi a disposizione per i circa 6.700 soggetti sotto protezione sono stati circa 44 milioni di euro; il punto, però, è che per alcune voci di spesa come i canoni di locazione, l’assistenza legale o le spese mediche “le tempistiche di erogazione vengono individuate nel quadro di una programmazione di spesa mutevole in base alla disponibilità di volta in volta accertabile in bilancio”. Incontriamo Claudia (nome di fantasia) in una cittadina pugliese. “Mi sono sposata nel 2000 - racconta a Linkiesta - e nel 2001 mio marito è diventato reggente di ‘Ndrangheta, ma la cosa era tenuta nascosta alla nostra famiglia. Io avevo un’attività legale, tanto che anche dopo la collaborazione di mio marito le indagini hanno accertato che non fosse un’attività in alcun modo riconducibile alle mafie”. Suo marito decide di dissociarsi nel 2005 e dal 2007 la famiglia entra nel programma di protezione: “Io, i miei figli, i miei genitori e i miei fratelli siamo ad “alto pericolo” come riconosciuto dal Consiglio di Stato”. Rifarsi una vita, però, è impossibile: “Noi avevamo un nome di copertura quando siamo entrati nel programma di protezione. Il punto, però, è che se prima avevi un titolo di studio, una laurea, un diploma, un curriculum importante, tutto questo non serve a nulla perché lo Stato non è in grado di passare i tuoi titoli sul nome di copertura. Se vuoi lavorare “sfruttando” la tua esperienza, devi andare fuori regione col tuo nome originale, a tuo rischio e pericolo”, spiega Claudia. Esperienza simile ha vissuto anche Rita, altra moglie di un pentito: “Io ho sempre studiato e lavorato. Mi sono trovata a non fare nulla, chiusa in una casa, stavo impazzendo. Dopo pochi mesi sono andata in un’agenzia interinale e mi hanno chiesto il curriculum, che io non avevo col mio nome di copertura. Mi hanno chiesto una licenzia media, ma io neanche quella avevo. Mi sono sentita umiliata, un verme. Eppure, sono una cittadina che ha fatto semplicemente il suo lavoro”. È a questo punto che Rita, a distanza di anni, decide di riprendere il nome originale, ma anche così trovare un lavoro diventa un’impresa. “Se io vivo in questa regione, in questa provincia, in questa città non posso iscrivermi all’ufficio di collocamento. Questo perché con i nomi originali mantieni comunque un indirizzo fittizio e a quell’indirizzo fittizio, che è la sede di una questura, arriva la nostra posta. Qualcuno mi ha detto che, per iscrivermi al collocamento o avere un contratto basterebbe il domicilio: peccato che io ho l’obbligo di non darlo, pena la revoca del programma”. Un cortocircuito che tocca anche i minori. “A iscrivere i bimbi a scuola - racconta ancora Elisa - è direttamente il nucleo operativo e, dunque, i vertici di una scuola sanno chi siamo, i nostri veri nomi, la nostra storia. Spesso i ragazzi hanno paura di socializzare e finiscono con l’abbandonare gli studi”. A terminare il percorso scolastico è stato, invece, Nemo, il figlio di Luigi Bonaventura, ex boss della cosca Vrenna-Bonaventura, collaboratore di giustizia da svariati anni di ben 14 procure italiane e straniere. Avrebbe voluto intraprendere la carriera universitaria ma, di fatto, gli è impossibile, come ha spiegato in una lettera inviata a tutte le autorità, da Sergio Mattarella a Luciana Lamorgese passando soprattutto per Vito Crimi, oggi a capo della Commissione centrale che si occupa del sistema di protezione. Nella lettera, che Linkiesta ha potuto visionare, il ragazzo sottolinea che “di recente mi è stata comunicata l’impossibilità di frequentare l’università nella località protetta. Le possibili opzioni date sono tanto confusionarie quanto pericolose. Dovrei sfoggiare il mio cognome originale addirittura al di fuori della provincia e quindi senza alcuna protezione. In alternativa io e tutta la mia famiglia dovremmo nuovamente trasferirci ed utilizzare un documento di copertura non definitivo”. Una carta che però “ha funzionalità limitata all’azione per cui è stata emessa: per esempio sarei Rossi dietro al banco dell’università e Bonaventura fuori dalla provincia universitaria. Ho già vissuto così, con due nomi a seconda dell’evenienza, e posso assicurare che, con la confusione, l’irrealtà ed il sospetto che ciò porta, il fattore sicurezza è danneggiato. In entrambi i casi non verrebbero sostenuti né i costi di spostamento né di alloggio. Ho quasi 20 anni, sono obbligato ad essere un peso e non posso diventare un uomo autonomo: tutto ciò di cui ho bisogno mi è negato”, lamenta il giovane. Che, per questa ragione, ha deciso di andare via dall’Italia per ricominciare da zero. L’esempio di cosa possa significare vivere sotto protezione, d’altronde, è testimoniato proprio dal padre, Luigi Bonaventura. Nonostante oggi sia attivo in collaborazioni determinanti per varie procure, nel 2013 ha deciso di uscire dal programma di protezione. È tutto riportato in una lettera inviata dal legale del pentito alle istituzioni. Nel documento si ricostruisce il soggiorno di Bonaventura, a Termoli, in provincia di Campobasso: “Il collaboratore - si legge - ha ricevuto, solo dopo diversi mesi dal suo arrivo […] un documento personale con il limite di utilizzo nella sola regione Molise, contrariamente a quanto previsto dalla legge, che non ha consentito una concreta possibilità di inserimento socio-lavorativo”. Stando alla denuncia di Bonaventura non sarebbe stato garantito nemmeno il giusto grado di anonimato e mimetizzazione, dato che i contratti di locazione venivano stipulati direttamente da personale del Nop (Nucleo Operativo di Protezione). Da qui la decisione di uscire, a suo rischio e pericolo, dal programma. Oggi, però, Bonaventura è preoccupato soprattutto per le sorti del figlio (che invece vive ancora sotto copertura): “La lettera è stata inviata a settembre: da allora nessuno ci ha risposto”. Il problema, ovviamente, non è di facile soluzione. Ne è convinto anche Luigi Gaetti, ex sottosegretario dell’Interno (Conte 1) e in passato presidente della Commissione centrale, che si è sempre interessato al mondo dei collaboratori di giustizia, tanto da elaborare quando era in carica una poderosa riforma del sistema di protezione: “Il punto - spiega a Linkiesta - è che bisognerebbe intervenire su tanti aspetti e in parte si sta già facendo. Il limite principale è che il nostro sistema di protezione ha 20 anni, dovrebbe essere aggiornato, anche nella formazione del personale”. Bisognerebbe, spiega Gaetti, “da una parte evitare che rientri nel programma chi non ne ha motivo e rischia di svilire il sistema stesso, diventando da testimone un testimonial”. Dall’altra, però, “occorre rendere efficace soprattutto la fase iniziale della protezione: una volta che una famiglia viene spostata si dovrebbero creare le condizioni affinché quel nucleo trovi una sistemazione stabile e non venga più portato altrove”. Cosa che ad oggi non è quasi mai garantita. Custodia cautelare, sospesi in lockdown i termini del riesame di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2020 Il lockdown della scorsa primavera ha bloccato i termini di scadenza delle misure cautelari anche nel procedimento dinanzi al Tribunale della libertà. E se l’interessato aveva presentato l’istanza di riesame, che deve essere decisa entro 15 giorni, a pena di inefficacia della misura, il computo non deve tenere conto del periodo tra 1’8 marzo e maggio, salvo che il detenuto non abbia chiesto espressamente la trattazione del giudizio. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza 29208 del 21 ottobre scorso, respingendo un ricorso che deduceva la sopravvenuta inefficacia della misura cautelare impugnata con istanza di riesame, deliberata oltre i termini di legge. Era accaduto che il Tribunale aveva fissato udienza per la trattazione di una richiesta di riesame di un’ordinanza di custodia cautelare ma, prima di quella data, era intervenuto il decreto legge li dell’8 marzo 2020 che per contrastare la diffusione del Covid-19 aveva disposto il rinvio d’ufficio di tutte le udienze, fatta eccezione per alcuni procedimenti. Secondo il difensore, tra queste eccezioni si doveva considerare compreso il procedimento di riesame, che coinvolge persone sottoposte a misure coercitive e che è scandito da termini rigorosi di decadenza: entro cinque giorni dalla presentazione della richiesta, il Tribunale deve ricevere gli atti dal giudice che ha applicato la misura ed entro dieci giorni dalla ricezione degli atti deve adottare la decisione. La violazione di uno di questi termini comporta l’inefficacia della misura. Ma la Cassazione ha affermato che il testo del decreto legge 11 del 2020 non consente questa interpretazione. L’articolo 2, comma 2, numero 2, prevedeva in via d’eccezione la trattazione solo delle udienze di convalida di arresto odi fermo, di quelle dei procedimenti nei quali nel periodo di sospensione scadevano i termini massimi di custodia cautelare previsti dall’articolo 304 del Codice di procedura penale e di quelle dei procedimenti in cui erano state richieste o applicate misure di sicurezza detentive. Mentre non aveva indicato tra le eccezioni i procedimenti in cui erano state richieste o applicate misure cautelari. Che, invece, dovevano essere trattati solo se i detenuti, gli imputati o i loro difensori lo avessero richiesto espressamente. Il procedimento di riesame doveva considerarsi disciplinato da questa disposizione. E poiché non risultava che per l’udienza fissata, ricadente nel periodo del lockdown, il detenuto o il suo difensore avessero avanzata quella specifica istanza con le formalità previste dal decreto legge, il rinvio d’ufficio disposto dal Tribunale si doveva considerare legittimo e i termini perentori si dovevano ritenere sospesi. Il difensore aveva anche lamentato che il Tribunale non li aveva avvisati della possibilità di richiedere la trattazione in deroga alla sospensione. Ma la Cassazione evidenzia che un tale avviso non era previsto dal decreto legge e che invece quella facoltà era prevista da una norma pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, che si presume pertanto conosciuta da tutti i cittadini. Alessandria. Detenuto col Covid-19, probabile focolaio anche a Voghera alessandriaoggi.info, 2 novembre 2020 Ci sono 56 positivi tra i detenuti delle carceri piemontesi, a Torino, Alessandria e Saluzzo. Venerdì ne è morto uno al Don Soria di Alessandria dove esiste un focolaio con 26 detenuti positivi al Covid19. Quello che preoccupa è che ad Alessandria non si sono fatti i tamponi, come denuncia senza tanti fronzoli Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti che spiega: “C’è da tener conto che la situazione di reclusione il panico arriva prima. Poi mancano stanze per isolare chi ha sintomi, o arriva da fuori. A questo punto torna d’attualità la discussione sulle condizioni dei penitenziari. Appare ovvio che il contagio, oltre ai detenuti, colpisca anche gli agenti di polizia penitenziaria. “Per questo la gestione dell’emergenza dovrebbe essere affrontata in maniera molto più efficace e organica da molti punti di vista, sia per la parte che riguarda l’utenza detenuta, che sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro e delle misure a protezione degli operatori e, di rimando, per gli stessi reclusi”, dice Gennarino De Fazio, del sindacato Uil-pa Polizia Penitenziaria. A questo proposito pubblichiamo una segnalazione del padre di un detenuto nel carcere di Voghera che ci è giunta in redazione: “Sono stato appena informato che ieri sera (24 ottobre; n.d.r.) nel carcere di Voghera un detenuto è stato trovato positivo al Covid-19, compagno di cella di mio figlio S.S. Il compagno di cella nei giorni precedenti aveva avuto un episodio febbrile. Allo stato sembrerebbe che oltre all’isolamento di mio figlio non sia stato disposto ancora il tampone per verificare il suo eventuale contagio al Covid-19, e sino ad ora i detenuti non hanno avuto alcun contatto con i medici. Mio figlio ha riferito quanto accaduto telefonicamente alla famiglia, alla quale ha riferito i fatti che le ho narrato, spiegando che anch’egli ha sintomi sospetti. Livorno. Covid alle Sughere: almeno 25 positivi e tamponi a tutti i detenuti livornopress.it, 2 novembre 2020 Dopo il decesso di un detenuto per Covid, una nostra fonte riservata ci ha confermato le preoccupazioni testimoniate; da alcune famiglie di detenuti per i congiunti sottoposti ai test. Sempre secondo la nostra fonte. Inizialmente si è provveduto a fare i tamponi ai circa 115 detenuti di alta sicurezza, dai quali è emerso il dato di almeno 25 positivi. Visti questi risultati venerdì sono stati estesi i tamponi anche ai detenuti di media sicurezza. Il problema però ora è isolare le persone che sono risultate positive, magari allestendo una sezione Covid. Se consideriamo il fatto che siamo in un istituto di detenzione la situazione non è semplice da affrontare. L’Aquila. Covid, aumenta il numero del personale positivo. Cgil minaccia sit-in di protesta di Marinella Bezzu ondatv.tv, 2 novembre 2020 Sono otto gli agenti di Polizia penitenziaria ed un’addetta mensa nel supercarcere dell’Aquila positivi al Covid 19. “La situazione sta diventando grave e si corre il rischio di un vero e proprio focolaio, con consequenziali preoccupazioni per le compromissioni di ordine e sicurezza. Abbiamo inviato un atto ai Nas Carabinieri, Prefetto, Questore, Sindaco, Autorità sanitarie ed istituzionali, affinché si intervenga con impellenti attività preventive a salvaguardia dell’incolumità di tutta la comunità pubblica e penitenziaria”, dichiarano Francesco Marrelli (Cgil L’Aquila), Anthony Pasqualone (Fp Cgil L’Aquila) e Giuseppe Merola (Fp CgilAbruzzo Molise), annunciando lo stato di agitazione con un sit-in di protesta davanti la Casa Circondariale o la Prefettura dell’Aquila. “I lavoratori sono costretti a fare i test diagnostici a pagamento, nonostante le richieste fatte dalla Direzione dell’Istituto all’ASL e le disattese rassicurazioni accusate dall’Assessorato regionale alla Salute” denunciano i sindacalisti. “Siamo stanchi di assistere a questi abbandoni e i nostri lavoratori hanno paura. La curva epidemiologica è in continua e costante crescita in tutto il Paese, con ripercussioni su diversi carceri che, inevitabilmente come le Rsa, per la loro vulnerabilità logistica e di utenza, potrebbero diventare pericolosi per la salute. Esprimiamo la nostra solidarietà e vicinanza, non arretrando minimamente nella lotta” conclude il sindacato. Barcellona P.G. (Me). Sette detenuti si barricano in cella per non essere trasferiti di Ivan Mocciaro La Repubblica, 2 novembre 2020 Il provvedimento preso dopo una rissa avvenuta all’ora d’aria. I sindacati della polizia penitenziaria: “Situazione grave, mancano almeno 40 agenti”. Rivolta nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, sette detenuti si sono barricati in cella per evitare il trasferimento. Per loro era stato predisposto il trasferimento in altre carceri a seguito di una rissa avvenuta nei giorni scorsi durante l’ora d’aria. Ieri sera hanno cercato prima di ostacolare l’ingresso degli agenti penitenziari delle scorte utilizzando olio bollente e poi bloccando le serrature delle celle. Una resistenza che è durata 12 ore, sino all’arrivo dei rinforzi degli agenti dei nuclei traduzione di Messina e Barcellona. Sembra che da tempo nel penitenziario del messinese vi sono delle fazioni tra detenuti, bande che più volte si sono scontrate ed affrontate. A comunicare la situazione che rischia di diventare esplosiva è stato lo stesso sindacato “FS Co.S.P. Comparto Sicurezza e Difesa”, che ha denunciato i gravi atti. “La situazione, pur apparendo sotto controllo - afferma il delegato nazionale Lillo Letterio Italiano - destabilizza l’ordinaria quotidiana serenità del carcere, già messo a dura prova in questi ultimi giorni a causa di faide interne tra reclusi di opposta criminalità e territorialità, che si sono scontrati nel cortile passeggio senza risparmiarsi nulla. E nei reparti mancano almeno 40 agenti”. Roma. Al Papa le mascherine realizzate dai detenuti laliberta.info, 2 novembre 2020 Giornata intensa quella di mercoledì 7 ottobre per la carpinetana Anna Protopapa, referente dell’associazione Gens Nova per l’Emilia-Romagna e per il gruppo di amici che insieme hanno partecipato all’udienza generale del Santo Padre Francesco. Al termine dell’udienza, infatti, Anna ha potuto consegnare al Papa le mascherine realizzate con alcuni detenuti reggiani, rappresentati dal Comandante commissario capo dottoressa Rosa Cucca. Mascherine donategli in segno di riconoscenza per le incoraggianti parole che il Santo Padre aveva inviato alla carpinetana nel mese di maggio, quando la ringraziava per le diverse iniziative benefiche intraprese sul nostro territorio e che avevano incoraggiato anche i detenuti e la comunità. La pandemia e il senso di comunità perduto di Piero Sorrentino Il Mattino, 2 novembre 2020 Parlare o scrivere su quello che potrebbe accadere il giorno dopo, ormai, è diventato difficile. Viviamo schiacciati dentro un orizzonte di tempo che si fa sempre più sottile e indecifrabile. Tuttavia, quello che sarebbe successo era già chiaro da molti mesi. Sapevamo da tempo della seconda ondata. Paventavamo gli ospedali pieni e la diffusione incontrollata del virus. Paradossi della vita al tempo della pandemia. Stiamo scivolando con una velocità incontrollabile su un piano inclinato, al termine del quale c’è però qualcosa che conoscevamo da tempo. Tutto è veloce e tutto, contemporaneamente, è immobile. Tutto è ignoto e tutto è risaputo, già visto, già sentito. Ad ogni modo, è probabile che alla fine di questa giornata saremo tutti davanti al televisore acceso ad ascoltare, con il solito misto di angoscia e incredulità, i contenuti del nuovo provvedimento di chiusura. Quali che ne saranno i contenuti, Dpcm e ordinanze regionali troveranno ad accoglierli una Napoli slabbrata, chiusa e incattivita. Non canteremo dai balconi, non esporremo striscioni coi colori dell’arcobaleno e no, non diremo che andrà tutto bene e ne usciremo migliori. Se è innanzitutto la politica a cadere a pezzi sotto i colpi della indecisione, del traccheggiamento, della confusione, della molta voglia di parlare e della poca voglia di decidere, in una colpevole immobilità della quale rischiamo di pagare pesanti conseguenze, va detto che in questo secondo giro la crisi sembra aver investito anche l’idea stessa di cittadinanza, di collettività, di unione tra diversi, di mutua solidarietà. Le condizioni della politica sono un fatto grave e preoccupante. Ma altrettanto grave e preoccupante è che troppi cittadini si stanno convincendo dell’immodificabilità di tali condizioni perché le vedono fondersi ai segnali di un degrado più generale, al cui centro c’è un dato nuovo e inquietante: la latitanza della responsabilità personale. Molti cittadini, in altri termini, si stanno convincendo dell’idea che possono contare solo su sé stessi e sulla loro famiglia, sui loro affetti più prossimi, su quello che ricade esclusivamente sotto il dominio del sé, del proprio benessere, della propria sicurezza e del proprio divertimento. Una parte per nulla trascurabile di cittadinanza - certo, con tutte le luminose eccezioni del caso - tenuta insieme dalla ricerca della felicità privata, che non sembra più convocata a sacrificare se stessa in nome di ideali comunitari o politici, assecondando ormai in massa una tentazione che era stata perseguita in molti tempi e in molti luoghi, ma che in poche epoche - forse nemmeno all’epoca della guerra - era riuscita a diventare così visibile ed egemone. Sennò. in che altro modo dare un senso alle immagini delle strade affollate, del lungomare inondato di gente, dei ristoranti affollati? Al centro storico, sabato, era tutto un affollarsi di gruppi per il brunch di Halloween, cominciato intorno a ora di pranzo. E come leggere l’irritazione più o meno mascherata, quando non le vere e proprie opposizioni, di inquilini e amministratori di condominio che si lamentano delle code di persone potenzialmente positive in attesa di sottoporsi al tampone presso i centri privati, la gran parte dei quali si trovano appunto nei condomini? E la sensazione di questo ripiegamento ciò che oggi - nella città offesa dal virus e umiliata dalla crisi sociale, dalla Whirpool che chiude senza troppi complimenti e manda per strada centinaia di famiglie, nella Napoli mortificata e incarognita dei tantissimi microimprenditori, commercianti, lavoratori regolari e in nero che stentano la vita, nella Napoli del cosiddetto Paese reale, è questa sensazione che più contribuisce a moltiplicare ogni egoismo ma anche a far scricchiolare ogni fiducia sul fatto che, da tutto questo, se ne possa uscire non migliori, ma nemmeno con le ossa rotte e con l’umore sotto i tacchi. Se è vero che oggi Napoli sente in questi termini, se percepisce su di sé la latitanza della sfera pubblica, un vuoto e una confusione di indirizzo, di controllo, o viceversa un troppo pieno di Stato, con una incontrollata e contraddittoria superfetazione di interventi, ordinanze, regolamenti, non è perché sia impazzita di colpo. Ma perché sente che, nella bufera del virus, c’è stata una progressiva perdita di identificazione emotiva e culturale con gli altri - i più deboli, gli svantaggiati, i poveri, gli anziani, i disabili, i non-garantiti - con la conseguente, inevitabile rinuncia a portarne la responsabilità. “C’è sì la guerra fredda che non è finita, e continuano anche alcuni spargimenti di sangue locali, ma la gente che è al riparo li guarda come grandinate estive in un giorno di sole” scriveva in un suo saggio del19 61 Italo Calvino. Si riferiva all’inattesa e imprevista ripresa economica che si era aperta nel dopoguerra. Sembra che parli di noi, oggi, tentati di guardare al riparo delle nostre garanzie e dei nostri piccoli egoismi i chicchi fatali della grandine chiamata Covid. Il virus dell’ipocrisia. Lo scaricabarile delle istituzioni di Michele Ainis La Repubblica, 2 novembre 2020 Le parole sincere possono cambiare il mondo, diceva Buddha. Durante questa crisi, possono evitare quantomeno che il mondo cambi in peggio. Invece un altro morbo s’è aggiunto a quello che già circola nell’aria: il virus dell’ipocrisia. Ne è stata infettata la politica, e da lì il contagio si propaga nelle istituzioni, s’allarga alle leggi cui siamo sottoposti. Giacché i nostri governanti ci trattano come un popolo bambino, e allora ci propinano mezze misure, giustificandole con mezze verità. Esempio: i ristoranti. Stavano per chiuderli, come accadde in primavera. Per non spaventare gli italiani, per non destare troppe proteste nei diretti interessati, per queste o altre recondite ragioni, li hanno lasciati aperti fino alle 18. Ma in favore di chi? A pranzo, con gli uffici deserti causa smart working, non ci va quasi nessuno. Dunque i ristoranti sono stati messi in quarantena senza dirlo. E nel frattempo molti ristoratori chiudono i battenti, tanto non ne vale più la pena. Decisione loro, mica del governo. L’Italia non ha il cuore di pietra come la Francia o la Germania, che ne hanno appena decretato la serrata. Il nostro governo è più che permissivo, per 13 ore al giorno non pone alcun divieto. Sicché va in scena l’antica strategia dello scaricabarile. Non solo fra le istituzioni e i cittadini, anche fra le stesse istituzioni. La prima versione del primo Dpcm della seconda serie (sembra Netflix, ma purtroppo non è un film), quello del 18 ottobre, scaricava sui sindaci la responsabilità del lockdown. Ora è la volta del rimpiattino fra Stato e Regioni: chiudi tu, no tu. Nel frattempo l’esecutivo finge di tendere la mano all’opposizione, ma in realtà tende il telefono, informando i suoi leader cinque minuti prima della conferenza stampa del premier. L’opposizione finge disponibilità a collaborare, dopo di che mitraglia ogni provvedimento del governo, forse anche un panettone gratis per Natale. Questa fiera delle menzogne si ripete pure nelle relazioni fra governo e Parlamento. Dopo le polemiche sull’abuso dei Dpcm, il primo aveva promesso di recepire gli indirizzi del secondo, prima di varare l’ennesimo decreto. L’ha fatto una volta, poi non più. Ne mancava il tempo, questa la giustificazione. Ma ogni Dpcm è per definizione un atto urgente, e l’urgenza o c’è o non c’è, non funziona a intermittenza come le frecce di un’autovettura. Inoltre gli ultimi Dpcm sono stati preceduti da lunghe riunioni con le delegazioni dei partiti, delle categorie economiche, degli enti locali. Fuori dal Parlamento, non dentro le sue sale. Quindi è mancata la voglia, non il tempo. Viceversa in altri casi la voglia c’è, però difettano gli accordi. È l’apologia del “vorrei ma non posso”, consacrata nel Dpcm del 24 ottobre. Dove s’affaccia una nuova fauna di prescrizioni normative, oltre i diritti e gli obblighi, le facoltà e i divieti: la specie dei consigli. Vi s’incontrano difatti 3 raccomandazioni e 5 “forti raccomandazioni”, che spaziano dall’uso delle mascherine dentro casa all’esigenza di limitare i viaggi, di non incontrare estranei, e via raccomandando. E perché non obbligando? In parte perché sarebbe impossibile piazzare un poliziotto in ogni abitazione, in parte per contrasti fra i partiti. Da qui la formuletta ipocrita, a costo di scivolare verso lo Stato etico, che s’intrufola negli stili di vita individuali. E se i cittadini disobbediscono alla raccomandazione? Subiranno un rimprovero semplice, oppure un forte rimbrotto, a seconda dei casi. Ma i casi sono dubbi, tanto che una circolare del ministero dell’Interno ha dettato chiarimenti. Ecco infatti il frutto di questa politica bugiarda: l’incertezza. Nessuno sa più che pesci prendere, né noi né tantomeno loro. Covid. Per medici e infermieri senza solidarietà è tutto più difficile di Sergio Harari Corriere della Sera, 2 novembre 2020 Il personale sanitario è ridotto all’osso, spossato e decimato dai contagi e dalle quarantene, e gli attuali turni massacranti non potranno prolungarsi in eterno. “Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”, dice un vecchio aforisma che dovrebbe far molto riflettere in questi giorni. Sono settimane che la curva dei contagi, dei ricoveri e dei morti conosce una crescita costante e che le proiezioni degli epidemiologi parlano chiaro sui futuri scenari. Così come è ormai evidente da tempo che il tracciamento dei casi si è perso, i numeri sono diventati troppo importanti per poterlo garantire. Eppure si indugia sulle misure da prendere come se non vi fosse nessuna fretta. Come se i drammi vissuti per i colpevoli ritardi di soli pochi mesi fa non ci avessero insegnato nulla. Assistiamo a un continuo rimpallo di competenza tra le diverse istituzioni, mentre i pronto soccorso si affollano e le corsie dei nostri ospedali sono già in evidente crisi. La seconda ondata della spagnola fu la peggiore, fu quella che registrò più vittime e falcidiò più vite; così probabilmente non sarà con il Covid 19, molto verosimilmente la mortalità sarà inferiore alla scorsa primavera, ma il numero di contagi e la diffusione del virus è ancora maggiore di allora. Anche al netto del diverso numero di tamponi, il virus oggi circola molto di più. Qualsiasi lettore può rendersene conto direttamente: quante persone fra le vostre amicizie avete conosciuto che la scorsa primavera avevano contratto l’infezione? E in queste settimane? Anche se la stragrande maggioranza dei contagiati non necessita di ricovero una piccola percentuale sì, e se il numero dei positivi aumenta, il conto è presto fatto. Ma non è solo per questo che la seconda ondata rischia di essere ben peggio della prima. Oggi, oltre ai malati di Covid, nei nostri ospedali abbiamo anche tutti quei pazienti con malattie serie ma negativi al virus: oncologici, cardiopatici, e altri ancora. Le nostre risorse però non ci consentono di raddoppiare i reparti, il personale sanitario è ridotto all’osso, spossato e decimato dai moltissimi contagi e dalle necessarie quarantene, mentre gli attuali turni massacranti non potranno prolungarsi in eterno. Medici e infermieri non sono più sostenuti da quel senso di solidarietà nazionale che garantì il morale e l’adrenalina utili a superare certi momenti di stanchezza. Sia la storia passata che quella molto recente ci insegnano che ogni esitazione, ogni ritardo si paga, abbiamo bisogno di fermare la crescita dell’epidemia subito, non è più il tempo del domani. Terrorismo. Non è solo il terrore a tagliare le lingue di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 2 novembre 2020 C’è qualcosa di più profondo, un insieme di fattori culturali e psicologici che ci impedisce di vedere ciò che in realtà si presenta con un’evidenza clamorosa. Ci devono essere ragioni molto solide se tante persone, solitamente attente e intellettualmente oneste, non riescono proprio a dare un nome e una definizione al terrorismo dei decapitatori e degli sgozzatori che stanno insanguinando la Francia “infedele”. Certo, c’è molta paura di pronunciare quella parola che inizia per “I” e che in forma cautelativa qui si evita di scrivere nero su bianco, c’è il terrore che taglia le lingue e cerca di non aizzare i fanatici che in nome di quella indicibile “I” di cui è meglio non svelare le lettere immediatamente successive, uccidono senza pietà, e dunque basta con la satira, da riservare eventualmente alle religioni di questi tempi meno inclini alla vendetta. No, c’è qualcosa di più profondo, un insieme di fattori culturali e psicologici che ci impedisce di vedere ciò che in realtà si presenta con un’evidenza clamorosa. C’è la legittima e comprensibile resistenza a farsi rigettare nel contesto di una per noi inconcepibile e anacronistica “guerra di religione”. C’è il senso di colpa, per così dire europeo e occidentale, per i crimini commessi nel passato e che oggi i “dannati della terra” vogliono farci pagare con gli interessi. C’è una forma di ottusità ideologica che ci impedisce di vedere come la fede religiosa possa avere un qualche ruolo nella modernità secolarizzata. C’è una profonda stanchezza per alcuni valori, in primis la libertà d’espressione e l’eguaglianza tra donne e uomini che invece, agli occhi di fondamentalismi ostili di matrice religiosa, sono il simbolo della peccaminosità dell’Occidente liberale, meritevoli perciò di una purificatrice condanna a morte. C’è l’ecumenismo relativista che vede in ogni rivendicazione di (“nostra”) identità l’anticamera della sopraffazione nei confronti delle minoranze deboli e schiacciate, e che oggi sarebbero animate da un senso di rivalsa, certo criminalmente distorto e tuttavia indotto da motivazioni diverse da quelle del fanatismo religioso. C’è la scarsa, chiamiamola così, voglia di combattere per la difesa di valori che un tempo consideravamo irrinunciabili, e oggi forse non più. C’è la paralisi culturale del “cui prodest”, quella paura di dirsi verità sgradevoli per non regalare argomenti agli avversari da cui l’eccesso di edulcorazione che porta alla vera a propria autocensura. Quindi, certo la paura. End Impunity Day: dal 2000 uccisi 1.500 giornalisti. Troppi ancora senza giustizia di Antonella Napoli articolo21.org, 2 novembre 2020 Una stampa libera è essenziale per una democrazia. Un’informazione vigorosa può denunciare la corruzione, far luce sugli abusi dei diritti umani e fornire al pubblico notizie essenziali durante emergenze e crisi, come quella della pandemia di Covid 19 in corso. In molti luoghi, i giornalisti rischiano attacchi da parte di regimi autoritari e organizzazioni criminali che cercano di reprimere la libertà di stampa e la libertà di espressione. Dall’inizio del secolo sono stati uccisi più di 1.500 operatori dell’informazione in tutto il mondo e nell’85% dei casi gli assassini sono rimasti impuniti. I giornalisti di tutto il mondo devono affrontare molestie, minacce, detenzioni arbitrarie e procedimenti penal ??politicamente motivati. Durante la pandemia, i governi autoritari in Cina, Venezuela, Iran, Egitto ma anche in Europa, su tutti il caso Ungheria, hanno usato il Covid-19 come scusa per intimidire, attaccare e arrestate i reporter scomodi. Nella Giornata internazionale per porre fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti, Articolo 21 insieme alle altre organizzazioni per la difesa del diritto alla libertà di informazione chiede ai governi di intraprendere indagini indipendenti e trasparenti su minacce, attacchi e omicidi quando si verificano; porre fine ad abusi da parte di forze di sicurezza e polizia che maltrattino i giornalisti; e aboliscano le leggi e le pratiche che limitano la loro azione. In Italia, grazie al segretario di Usigrai Vittorio di Trapani, la Rai ha proiettato sulla facciata della sede di viale Mazzini i nomi degli 80 giornalisti assassinati è ancora in attesa di verità e giustizia. Mai come quest’anno, alla vigilia della sentenza per il processo per la morte di Andrea Rocchelli e Andrej Mironov, uccisi in Ucraina nel 2014, e dopo l’uccisione di Jamal Khashoggi, fatto a pezzo nel consolato saudita a Istanbul, e.di Daphne Caruana Galizia, fatta saltare in aria nella sua auto a Malta, l’End Impunity Day indetto dall’Onu acquisisce un significato e una rilevanza ancor maggiori. Daphne, Jamal, Andy e Andrej erano colleghi liberi, coraggiosi ma non sprovveduti. Nonostante questo sono caduti vittime di chi ha voluto porre fine al loro impegno nelle inchieste contro corruzione e violazioni dei diritti umani. Per tutti loro, 77 colleghi assassinati semplicemente per aver fatto il proprio mestiere, giustizia non è ancora compiuta. Per alcuni non lo sarà mai. Una vera e propria emergenza che dovrebbe mobilitarci tutti a sostenere lo stato di diritto mettendo in campo ogni sforzo comune, a livello globale, per chiedere ai governi di porre fine alle impunità per questi crimini. Per Jamal, Daphne, Andy e tutti gli altri colleghi sacrificati sull’altare del giornalismo libero e indipendente. Francia. La rete italiana del terrorista di Nizza. C’è un secondo uomo di Giuliano Foschini e Anais Ginori La Repubblica, 2 novembre 2020 Brahim Aoussaoui aveva progettato l’attentato di Nizza in Italia. Aveva deciso di punire la Francia, dopo che Charlie Hebdo aveva ripubblicato le caricature di Maometto, alla vigilia del processo per gli attentati del 2015. Non ha fatto tutto da solo: qualcuno - questa per lo meno è la convinzione dei servizi di intelligence - lo avrebbe guidato a distanza, attraverso un canale Telegram. E certamente in Francia non è arrivato da solo: Aoussaoui - le cui condizioni fisiche sono migliorate nelle ultime ore, ma non è ancora in grado di rispondere alle domande degli inquirenti francesi - era a Nizza con Ahmed Ben Amor, tunisino anche lui di 29 anni. Con il quale aveva fatto la traversata via mare dalla Tunisia. Con lui era arrivato a Lampedusa, con lui era stato trasferito a Bari. E con lui aveva raggiunto Nizza, probabilmente da Roma. È questa la novità emersa nelle ultime ore, dopo l’ennesimo scambio di informazioni tra la nostra procura antiterrorismo e quella francese. A Grasse, 45 chilometri da Nizza, è stato fermato, insieme con altri due cittadini algerini, Ben Amor, con il quale Aoussaoui era stato visto parlare il giorno prima dell’attacco alla Basilica. Nel frattempo la Polizia italiana, sotto il coordinamento dell’Ucigos, ha ricostruito alcuni passaggi di Aoussaoui in Italia. È arrivato a Lampedusa lo scorso 21 settembre. A bordo di un barchino con 21 persone. Immediatamente la polizia ha cercato di rintracciare le persone che viaggiavano con lui: si tratta di due nuclei familiari e di altre 11 persone. Tutti, dopo l’arrivo in Italia, sono stati caricati sulla nave Rhapsody, per passare i 15 giorni di quarantena. Nave che il 9 ottobre è arrivata a Bari. Delle undici alcuni sono stati sistemati nei Cpr, i Centri di permanenza per il rimpatrio. È stata una scelta casuale: i primi migranti scesi dalla nave sono stati sistemati nei centri mentre gli altri, tra cui Aoussaoui, sono stati rilasciati con un ordine di espulsione firmato dal questore. Sulla procedura la procura di Bari ha aperto un’indagine conoscitiva che ha certificato la correttezza dei passaggi. La Polizia sta cercando di rintracciare tutte le 21 persone. All’appello mancherebbero in quattro. Uno di loro è appunto Ben Amor, fermato in Francia. Secondo quanto è stato ricostruito, il ragazzo sarebbe andato direttamente da Bari a Roma. Mentre Aoussaoui da Bari è tornato in Sicilia. Al momento sulle motivazioni del viaggio ci sono punti interrogativi: avrebbe raggiunto il figlio di un amico dei genitori ma alla procura Antiterrorismo non sfugge che proprio tra Palermo e Alcamo, dove l’attentatore è stato, è attiva un’organizzazione che offre supporto logistico ai clandestini. Da quanto hanno ricostruito Aoussaoui ha raggiunto poi Roma. E da Roma, probabilmente insieme con Ben Amor, ha raggiunto in bus Nizza 36 ore prima dell’attentato. La Polizia italiana sta analizzando i filmati delle telecamere di stazioni ferroviarie e di bus per capire se i due fossero soli. Mentre i tabulati telefonici nelle prossime ore potrebbero dare riscontri importanti. Non dovrebbero avere, invece, alcun ruolo i due fermati dalla Gendarmerie francese nelle scorse ore: sono stati visti parlare con Aoussaoui prima dell’attentato, ma avrebbero solo scambiato banali informazioni. Un consiglio su un croissant, una bottiglia d’acqua. “Al momento la cosa certa è che Aoussaoui è arrivato in Francia per uccidere”, ha detto il Ministro dell’Interno francese Gérard Darmanin. Ucraina. Una condanna da cancellare per l’assassinio di Rocchelli di Iuri Maria Prado Libero, 2 novembre 2020 Senza prove, il tribunale di Pavia inflisse 24 anni di carcere a un militare ucraino. Sull’accusa di aver ucciso il fotoreporter hanno pesato le motivazioni ideologiche. Un soldato ucraino con cittadinanza anche italiana, Vitaly Markiv, è stato condannato a ventiquattro anni di prigione per l’assassinio, nel 2014, del giornalista Andrea Rocchelli. La difesa, sostenuta dall’avvocato Raffaele Della Valle, già difensore di Enzo Tortora, sostiene che la condanna è stata inflitta senza il conforto di prove appaganti. La Federazione Nazionale della Stampa, che si è costituita parte civile perché con l’uccisione di Rocchelli sarebbe stato violentato il diritto all’informazione dei cittadini, si è compiaciuta di quella sentenza perché un omicidio è stato punito, e pace se l’obiettivo del processo - di qualsiasi processo - non è ottenere una condanna ma accertare i fatti e le responsabilità che la giustificano. Rocchelli è rimasto ucciso nel conflitto tra separatisti filo-russi e l’esercito regolare ucraino. Il fatto è avvenuto nei pressi di una collina dove l’accusa ha collocato Markiv il quale, da mille ottocento metri di distanza, avrebbe identificato Rocchelli e gli altri con lui e, da soldato semplice, avrebbe ordinato il fuoco dei mortai che infine ha ucciso i poveretti. Nessuno ha visto Markiv sparare. Nessuno ha spiegato come potesse discernere da quella distanza che si trattava di quei giornalisti. Nessuno ha chiarito come un militare di basso rango possa assumere la regia di un’operazione con l’uso di armi pesanti. Ci si è concentrati su altro. E cioè sulla vera o presunta impostazione ideologica di Markiv, un fascista punto e basta. Su fotografie che lo ritraggono in pose spavalde o in altre dove compare qualche simbolo nazista. Ancora, è stato dato notevole rilievo al profilo ultranazionalista di Markiv, e al fatto che la sua vicenda è stata vissuta con partecipazione e solidarietà da parte di ambienti di destra. Una buona quota di queste circostanze, pur chiaramente irrilevanti per giustificare una condanna per omicidio, è finita nel calderone motivazionale della sentenza pavese che ha chiuso il primo grado del giudizio con quella forte sanzione. Può compiacersene la burocrazia sindacale della stampa corporata che scambia un’aula di giustizia per un’agenzia di rivendicazione socio-politica, così come il garantismo progressista che fa il suo manifesto sul nazista che ammazza il reporter democratico: ma il diritto sta da un’altra parte, e si spera che il giudizio di appello sappia riconoscerlo. Turchia. Chiesta condanna per 38 giornalisti e Osman Kavala inizia il quarto anno di carcere di Antonella Napoli articolo21.org, 2 novembre 2020 In Turchia almeno 90 giornalisti sono ancora in carcere altri in libertà vigilata e in attesa di essere giudicati per crimini mai commessi. C’è chi ha raccontato l’anomala scalata al potere di un ministro, chi ha portato avanti inchieste sulla corruzione nelle amministrazioni pubbliche, altri hanno semplicemente espresso critiche sull’operato del governo o raccontato le difficolta del sistema economico turco. Come i 38 giornalisti finiti sul banco degli imputati accusati di diffondere notizie false e che danneggiavano l’economia del Paese in violazione della “legge sui mercati dei capitali. Kerim Karakaya, Fercan Yal?nk?l?ç, Mustafa Sönmez, Merdan Yanarda?, Sedef Kaba?, Orhan Ayd?n, e altri 32, redattori e collaboratori di testate turche e internazionali come Bloomberg, Halk TV, Tele1 TV ma anche economisti, editorialisti e volti noti della televisione turca, sono a processo davanti alla Corte del Tribunale ?stanbul 3 ripreso la scorsa settimana e rinviato al 20 febbraio del 2021 dopo che il procuratore ha chiesto per tutti la condanna. In particolare i primi sei giornalisti e l’attore e editorialista del portale di notizie SolHaber,Orhan Ayd?n, rischiano le pene più pesanti, dai 2 ai 5 anni. I giornalisti di Bloomberg Yal?nk?l?ç e Karakaya sono accusati per un articolo pubblicato il 10 agosto 2018 in cui si parlava del più grande shock valutario nel paese dal 2001 e di come le autorità e le banche stavano rispondendo all’emergenza. L’autorità di regolamentazione bancaria turca Bddk aveva presentato una denuncia per la diffusione delle notizie accusando gli autori di tentare di minare la stabilità economica della Turchia. Gli altri imputati avevano invece commentato la notizia sui social. Il 14 giugno 2019, quasi un anno dopo i fatti contestati, l’ufficio del pubblico ministero ha presentato l’atto d’accusa contro i 38 imputati che è stato accolto dal tribunale penale che ha istruito il processo. La prima udienza si è svolta il 20 settembre 2019. Durante l’audizione, entrambi i giornalisti di Bloomberg, i principali accusati, hanno rilasciato delle dichiarazioni spontanee rigettando le accuse. Kerimkaya, giornalista di economia con esperienza ventennale e che ha collaborato alla stesura della Legge sul mercato dei capitali, ha sottolineato come l’articolo in cui affermava che il dollaro USA fosse cresciuto del 24% rispetto alla lira turca e che gli organismi di controllo economico turchi si erano riuniti per studiare una strategia di contenimento, raccontasse fatti. “Le cose che avevo scritto non rappresentavano in alcun modo la condizione preliminare per configurare il reato di “benefici finanziari da speculazioni via stampa” che invece ci viene contestato - ha affermato il giornalista in aula - Io e il collega cofirmatario dell’inchiesta non abbiamo ottenuto alcun vantaggio, né si trattava di speculazioni per influenzare il mercato dei capitali”. Dichiarazione che Yal?nk?l?ç ha condiviso e ribadito nel suo intervento. Nella seconda udienza che si è tenuta il 17 gennaio, il tribunale dopo aver ascoltato gli altri imputati ha rigettato le richieste di assoluzione. A causa della sospensione di tutti i procedimenti giudiziari dall’inizio di marzo al 15 giugno per la pandemia di Covid-19, il processo è stato ristato al 23 ottobre per le conclusioni dell’accusa. A febbraio il verdetto. Sentenza che per alcuni è già scritta. I giornalisti di questo processo, come tutte le decine di altri colleghi arrestati e sottoposti a giudizio, alcuni stanno già scontando le pene, come Ahmet Altan, opinionista televisivo e scrittore di fama internazionale condannato all’ergastolo aggravato, pagano per non aver smesso di fare il proprio mestiere liberamente e per aver criticato apertamente il presidente Recep Tayyip Erdogan e il suo governo. Come paga con la privazione della libertà, esattamente da tre anni oggi, Osman Kavala. Il filantropo e imprenditore Kavala è stato arrestato il 1 novembre del 2017 con l’imputazione di “tentato rovesciamento del governo” finanziando le manifestazioni di Gezi Park del 2013, poi quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ordinato alla Turchia di rilasciarlo per l’infondatezza del processo e la Corte costituzionale lo ha assolto, nei suoi confronti è stata formulata una nuova feroce accusa, quella di aver appoggiato la rete di Fethullah Gulen accusata del fallito colpo di stato del 15 luglio del 2016. Alla sbarra per i fatti di Gezi Park in tutto ci sono ancora 16 accademici, giornalisti, artisti e imprenditori - alcuni in contumacia - che rischiano l’ergastolo. Un caso su cui hanno espresso grandi preoccupazioni Amnesty International a Human Rights Watch che denunciano come questo processo sia stato istruito senza “uno straccio di prova”. Prima che dai giudici, Kavala era stato accusato da Erdo?an in persona di aver cospirato contro di lui sostenendo economicamente il movimento pacifico che nel 2013 animò una serie di manifestazioni di dissenso contro il governo, iniziate con il sit-in di una cinquantina di persone che si opponevano alla costruzione di un centro commerciale al posto di un parco vicino piazza Taksim, in pieno centro. Cortei e dimostrazioni vennero repressi con la forza dalle squadre antisommossa della polizia, il bilancio fu di 9 morti e 8163 feriti. Il rinvio a giudizio con l’accusa di ‘tentata eversione dell’ordine costituzionalè di tutti gli imputati è maturato sulla base di un’ordinanza di 657 pagine, in cui compaiono anche i nomi dell’ex direttore di Cumhuriyet, Can Dündar, e del giornalista e opinionista Mehmet Ali Alabora, colpevoli di aver raccontato e commentato l’onda delle proteste. Leggendo l’atto di accusa è evidente che non esistano prove a sostegno della tesi del procuratore ma teorie senza base giuridica, elemento che solleva dubbi sul rispetto della giustizia turca delle norme internazionali ed europee. L’inchiesta sul movimento di Gezi Park non è ancora chiusa, altri esponenti della società civile sono sotto indagine. Non perché siano responsabili delle proteste ma semplicemente per aver esercitato il proprio diritto alla libertà di espressione. Un “clima di paura” teso a scoraggiare lo svolgimento di assemblee pacifiche e a imporre bavagli ai media, imposto dalle autorità in Turchia nel silenzio colpevole di un occidente che disattende, con la propria indifferenza, principi su cui ha bassato la propria struttura democratica. Oggi più che mai Articolo 21, insieme alla rete delle organizzazioni internazionali dell’Advocacy Turkey Group, continua a chiedere la liberazione di giornalisti, artisti e altre figure del mondo della cultura ancora in carcere in Turchia. Donne e bambini, così il Maghreb occulta la strage di Rachida El Azzouzi* Il Fatto Quotidian, 2 novembre 2020 Marocco, Algeria e Tunisia. Nei tre Paesi da anni vengono compiute violenze e uccisioni su donne e bambine. Ogni volta si torna a parlare di pena di morte pur di porvi rimedio Ma in realtà è solo ricerca di consenso politico. Si chiamava Chaïma Sadou e aveva 19 anni. È stata trovata morta il 3 ottobre scorso vicino a Boumerdes, in Algeria, in una stazione di servizio abbandonata. È stata picchiata, violentata e bruciata viva da un uomo contro il quale aveva già sporto denuncia. Rahma Lahmar, 29 anni, è stata trovata morta il 25 settembre in un fossato nella periferia nord di Tunisi. Rientrando a casa dal lavoro ha incrociato un uomo già condannato due volte per tentato omicidio e furto. Infine, Adnane Bouchouf, è stato trovato morto l’11 settembre, sepolto sotto un albero poco lontano da casa sua, in un quartiere popolare di Tangeri, in Marocco. Aveva solo 9 anni ed è stato violentato e ucciso da un vicino. La violenza contro le donne e i bambini è una piaga profonda in Maghreb. Come già successo in passato, anche dopo questi tre crimini, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, si è acceso il dibattito sulla pena di morte. In Marocco la pena capitale è ancora in vigore, ma non è applicata dal 1993. La sua abolizione non fa l’unanimità e il re Mohammed VI evita di prendere posizione. Da parte sua, il presidente tunisino, Kaïs Saïed, non ha mai nascosto di sostenere la pena di morte e si è detto favorevole a ricorrervi nei casi di femminicidio, sollevando l’indignazione dei difensori dei diritti umani. In Tunisia non ci sono esecuzioni dalla moratoria decisa nel 1991 dal defunto dittatore Ben Ali. In Algeria, la pena di morte, che non è applicata dal 1993, è ampiamente sostenuta dall’opinione pubblica. In un video diventato virale, la madre di Chaïma Sadou implora il presidente Tebboune di far giustiziare l’assassino di sua figlia applicando “el Qissas”, la legge del taglione prevista dal diritto musulmano. “La pena capitale non impedirà ai criminali di agire”, osserva l’avvocato Nadia Aït Zaï, nota figura del femminismo in Maghreb, che si batte da decenni scontrandosi con una potente corrente patriarcale e conservatrice e con l’apatia della classe politica. Secondo la docente di diritto della famiglia all’università di Algeri, la legislazione in vigore oggi è troppo debole, malgrado dei passi siano stati fatti con l’articolo 40 della nuova Costituzione, che garantisce maggiore protezione delle donne contro la violenza. Nadia Aït Zaï chiede condanne più dure, fino all’ergastolo, e la creazione di un tribunale speciale: “Le donne non denunciano in modo sistematico per paura di ritrovarsi per strada. Se l’assassino di Chaïma Sadou fosse stato posto sotto sorveglianza dopo la prima denuncia, il crimine si sarebbe potuta evitare”. “Non è chiedendo la pena di morte che renderemo giustizia a Chaïma Sadou. Sono le leggi che devono essere cambiate e applicate”, si legge sul sito Féminicides Algérie che, in assenza di statistiche ufficiali, si occupa di censire i femminicidi in Algeria. All’origine del sito, due giovani femministe, Narimene Mouaci Bahi e Wiame Awres: “Le donne assassinate non sono solo numeri, avevano un nome, delle vite, a volte dei bambini - osservano le due giovani -. Non le dimentichiamo”. Il sito ha contato almeno 41 femminicidi nel 2020, una sessantina nel 2019, ma i numeri sono di molto inferiori alla realtà. In un clima di repressione, ma sulla scia del #Metoo e della rivolta popolare del movimento Hirak, l’8 ottobre due manifestazioni femministe senza precedenti in omaggio a Chaïma Sadou si sono tenute a Algeri e Orano. “In Marocco, Tunisia e Algeria, la donna è stata confinata nello spazio privato. In questo modo è stata ostacolata la sua piena partecipazione alla vita pubblica e sono stati limitati i suoi diritti. In questi paesi è la legge musulmana a decidere il posto che le donne devono occupare”, spiega ancora l’attivista Nadia Aït Zaï. “Dietro un discorso protettivo, che nasconde l’ipocrisia collettiva, la donna è stata considerata sempre solo come sorella, figlia o moglie, raramente come una persona a pieno titolo - scrive in un editoriale il caporedattore di Liberté Algérie, Hassan Ouali. Dietro parole affettuose, si cela un desiderio di sottomissione e dominio”. Anche la Tunisia, presentata come “laboratorio della democrazia” nel mondo arabo dalla caduta di Ben Ali nel 2011, non è immune a forme estreme di conservatorismo. Il presidente Kaïs Saïed ha firmato il 13 agosto un grande passo indietro seppellendo l’uguaglianza tra uomo e donna in caso di eredità, riforma portata avanti dal suo predecessore sotto la pressione dei movimenti femministi, e reintroducendo la lettura letterale del Corano. “La questione dell’eredità è centrale perché tocca il potere materiale degli uomini, sottolinea la teologa marocchina Asma Lamrabet, figura di spicco del femminismo musulmano. Mettere in discussione questo principio religioso significa scalfire i fondamenti del patriarcato arabo- musulmano, dunque l’autorità assoluta degli uomini sulle donne”. In Tunisia la morte di Rahma Lahmar ha rimesso sul tavolo la questione della pena capitale, in un contesto di crescente insicurezza. Nel 2018 il tasso di criminalità è aumentato del 13% rispetto al 2017. Secondo il sito Inkyfada, nel 2019 In Algeria i femminicidi sono stati 41 nel 2020 In Tunisia nel 2019 3.000 le violenze In Marocco sono 30 mila i bambini violentati ogni anno sono state registrate quasi 3.000 denunce per violenza sessuale e 13.679 per violenza verbale. Durante il lockdown di marzo, sono stati segnalati quasi 4.000 casi di violenze sulle donne, secondo il ministero tunisino della Giustizia. “L’emozione popolare dopo la morte di Rahma Lahmar è stata alimentata dal sostegno del presidente Saïed alla pena di morte e il dibattito ha preso una dimensione a e politica”, ha spiegato il sociologo Zouheir Ben Jeannet, docente all’università di Sfax. Pochi giorni dopo l’omicidio della giovane donna, il 9 ottobre, il tribunale di Tunisi ha condannato a morte un uomo che nel 2018 aveva accoltellato la madre e le sorelle. “La ripresa delle esecuzioni sarebbe un duro colpo per i progressi fatti nel campo dei diritti umani in Tunisia”, ha osservato Amna Guellali di Amnesty International. Molti attivisti temono che il dibattito sulla pena di morte offuschi le vere problematiche sociali, tra cui l’impunità di stupratori e assassini. Nel 2016 quasi 34 femminicidi sono stati censiti dal ministero tunisino della Salute, una cifra molto inferiore alla realtà. In Marocco è lo stupro e omicidio del piccolo Adnane Bouchouf, in un quartiere operaio di Tangeri, a riaprire i dibattiti sulle violenze. “Queste atrocità non sono fatti di cronaca, ma sintomi delle nostre società maghrebine dove la violenza inflitta a donne e bambini non si riesce a contenere”, osserva Houria, attivista femminista di Tangeri. In una lettera aperta, Abdellah Taïa, primo scrittore musulmano marocchino ad assumere pubblicamente la propria omosessualità, punita nel paese dove l’islam è la religione di Stato, sottolinea l’incapacità collettiva ad affrontare il problema in profondità: “Si denuncia, ma non si fanno azioni serie per spalancare il vaso di Pandora. Tutti i marocchini che conosco hanno subito violenze sessuali da bambini. Ogni giorno ci sono decine di piccoli Adnane”. In un’intervista a Jeune Afrique, lo scrittore, che nei sui libri ha raccontato le ripetute violenze da lui stesso subite durante l’infanzia, denuncia le leggi liberticide e retrograde vigenti: “Finché esisteranno leggi ipocrite che proibiscono il sesso al di fuori del matrimonio, punendolo con la prigione, esisteranno violenza e omicidio”. La violenza contro le donne è radicata nelle mentalità, legittimata e socialmente accettata. Da dati ufficiali, i due terzi delle violenze sessuali avvengono nello spazio pubblico in Marocco. In oltre il 90% dei casi si tratta di stupro o tentativi di stupro e le vittime sono principalmente donne di età inferiore ai 30 anni. Fino al gennaio 2014 lo stupratore poteva sfuggire alla prigione sposando la sua vittima se minorenne. La pedofilia è un flagello e un tabù in Marocco. Ong, come la Amdh, l’associazione marocchina per i diritti umani, denunciano da anni condanne troppo clementi nei confronti dei predatori sessuali. L’associazione Touche pas à mon enfant stima a quasi 30.000 i bambini violentati ogni anno. *Traduzione di Luana De Micco Afghanistan. Bitani, ex torturatore afghano: “Così allo stadio lapidavano le adultere” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 2 novembre 2020 Fondamentalista, capo militare corrotto, figlio di un generalissimo di Kabul: fuggito ai talebani e riparato in Italia, oggi Farhad racconta tutto in un libro e va nelle scuole. “Le bambine continuavano a gridare, a chiamare la loro mamma, ma le loro voci erano coperte dalle ovazioni provenienti dagli spalti. Il primo a lanciare la pietra fu il marito della donna. Dopo averne soppesate alcune tra le mani, scelse la più grossa dal mucchio. Un silenzio improvviso e irreale invase lo stadio, mentre l’uomo, ad alta voce, augurava l’inferno a sua moglie e le scagliava la pietra contro. La colpì a una spalla e le ossa fecero un rumore secco. La poveretta emise un urlo straziante... Tornato a casa, quella sera, mi infilai a letto senza cenare, le mani premute sugli occhi nel vano tentativo di imprigionare l’orrore. Ma era impossibile”. Quel venerdì sulle tribune, da testimone - Il prima e il dopo, allo stadio di Kabul. Un venerdì del 1997. Prima di quel pomeriggio, Farhad Bitani era stato solo un bimbo ignaro: figlio privilegiato d’un potente generale afghano, quindi ragazzino ridotto alla fame per via del padre caduto in disgrazia, infine adolescente sopravvissuto ai talebani saliti al potere. Quel pomeriggio, Farhad s’era lasciato portare da un amichetto alla pubblica lapidazione di un’adultera (in Afghanistan basta dare un’informazione stradale a un passante, per passare da adultera) e qualcosa cambiò, dopo l’urlo nero di quella madre: mai più, si disse. Mai più sarebbe entrato in quello stadio e un giorno, in qualche modo, sarebbe uscito da quegli incubi. Per la verità ci volle molto tempo, perché Farhad smettesse davvero d’intrupparsi nella folla eccitata dalle esecuzioni, di passeggiare fra le mani mozzate e appese agli alberi, di restare in quella macelleria. “È stato un cammino lungo dodici anni”, racconta oggi nel retro d’un ristorante di Torino, rifugiato politico, due carabinieri discreti che ci monitorano: “Qui in Italia non ho voluto una scorta, perché questa è una vita che mi sono scelto io. La scelta d’aver vissuto nell’ipocrisia e d’avere, adesso, un tremendo bisogno di verità. Soltanto la verità può liberare il mio Paese e rendere puri uomini come me”. Un esempio poco seguito - Di uomini come lui ce ne sono ancora pochi, in Afghanistan. A 34 anni, Farhad è un ex di tutto. Ex capo militare pashtun che s’intascava soldi e potere. Ex fondamentalista per nulla riluttante che sputava sulle donne e sognava d’uccidere tutti i cristiani. Ex d’una vita fanatica che “non potevo non vivere, perché c’era un muro che mi circondava e tutto il resto non era altro che il mondo degli infedeli. Se vivi nel male, non lo capisci. E credi che quella violenza sia la normalità”. Per il giovane e arrogante Farhad era normale bloccare un tizio per strada e prendersi la sua macchina, solo perché era troppo bella. O che i mullah sbattessero la testa agli scolaretti fino a sfigurarli, e solo perché avevano chiesto a che cosa servisse leggere il Corano. O far finta di niente alle simpatiche festicciole dove gli adulti pedofili mettevano i bambini in mezzo e li facevano ballare - “muovete meglio il culo!” - truccati da femmine. O incappare nei posti di blocco dove le milizie si divertivano col raqs morda, il ballo del morto: fermavano un tizio, accendevano la musica, gli tagliavano la testa e versavano nel corpo l’olio bollente, battendo le mani a ritmo mentre il corpo del decapitato ancora s’agitava per i riflessi nervosi. Ripudiato e condannato a morte - Il nuovo Farhad è altro. Inseguito da una condanna a morte dei talebani, tornati a contare. Abbandonato da parenti e amici che gli promettono di bere il suo sangue. Scampato a un attentato nelle strade di Kabul. Additato come apostata e spia d’Israele. Col divieto di mettere piede in Afghanistan, Iran, Arabia Saudita, Dubai, ovunque ci sia un’autorità islamica pronta a eseguire la fatwa. Col padre che quasi non gli rivolge più la parola, da quando Farhad ha rotto il silenzio e narrato la propria vita: L’ultimo lenzuolo bianco, libro potente e sincero, appena ripubblicato da Neri Pozza, tradotto in inglese e in spagnolo, presentato in più di trecento scuole, già riadattato per il teatro e per farci un film. Il percorso di chi ha viaggiato al termine della notte afghana, senza perdersi un solo orrore, senza omettere un solo dettaglio, e alla fine ritrovandosi. Dall’alcol alla penna, per non dimenticare - “All’inizio è stata durissima. Restavo chiuso in una stanzetta, bevevo fino a stordirmi. Poi ho preso dei fogli e ho cominciato a scrivere tutto il dolore che avevo passato”. Le librerie sono piene di titoli sull’Afghanistan, “ma c’è molta robaccia”, sostiene Farhad. “Io comunque non sono uno scrittore, sono un testimone. Ci ho messo tre anni, a trovare un editore. Faccio paura, mostro dall’interno quel mondo d’ipocrisia e di falso Islam. Tanti ragazzi s’identificano nella mia storia: capiscono che è possibile cambiare destino, anche il più segnato. Ero un musulmano estremista, ora sono aperto a tutte le religioni. Papa Francesco parla sempre di quest’apertura, il rapporto con Dio passa per l’accettare le differenze. E il problema non è l’Islam, che ci vuole liberi e accoglienti: il problema sono quei musulmani, come i talebani, che non hanno nemmeno letto il Corano”. Futuro Afghanistan, i timori - Tutto è cambiato in Farhad, nulla in Afghanistan. E non promette niente di buono il Trump che vuole ritirare le truppe dalla più lunga guerra mai condotta dagli Usa: “Bombardare i talebani nel 2001 fu giusto, e chi non ha vissuto quelle cose non può capire. Ma andarsene ora, significa ricreare il caos”. Noi italiani ci abbiamo speso sette miliardi di euro, laggiù... “E si potevano fare grandi cose, invece di costruire scuole senza insegnanti o elargire borse di studio solo ai figli di afghani potenti”. Ma non contano solo i soldi: “A cambiare l’Afghanistan, non son bastati miliardi d’aiuti. E invece sono bastati i piccoli gesti d’accoglienza, la scoperta che si può amare l’altro senza combatterlo, a cambiare me”. Carta d’identità - La vita - Farhad Bitani (Kabul, 1986) ex capitano dell’esercito afghano, è fondatore di GAF, Global Afghan Forum, e vicepresidente di Hands for Adoptions. Ha vissuto la guerra sotto il regime dei mujaheddin e poi dei talebani. Ha compiuto studi in Italia, prima all’Accademia Militare di Modena e poi alla Scuola di Applicazione di Torino. Trasferitosi definitivamente come rifugiato politico in Italia, dedica la sua vita al dialogo interculturale. Il libro - In “L’ultimo lenzuolo bianco” (Neri Pozza), racconta la sua storia: da guerriero islamista a uomo del dialogo per la pace e osservatore privilegiato della storia dell’Afghanistan, un Paese passato dal governo dei mujaheddin a quello dei talebani, fino alla velata democrazia di oggi sotto l’ombrello occidentale. Sudan. Tra gli sfollati per le inondazioni le speranza per un Paese nuovo e più libero di Antonella Napoli La Repubblica, 2 novembre 2020 Le donne e gli uomini scampati alle inondazioni nella stagione delle piogge, la più devastante degli ultimi 100 anni, consapevoli però di una svolta epocale nel loro Paese. Come ogni giorno Miryam Abdelgadir prepara le taniche da riempire con l’acqua potabile del pozzo più vicino alla sua capanna, che dista circa tre chilometri. Si carica sulle spalle l’ultima nata dei suoi cinque figli, che sta ancora allattando, e si incammina lungo la strada sterrata che parte dal campo di Mayo. Per lei e le donne degli insediamenti nella periferia di Khartoum che accolgono gli sfollati scampati alle inondazioni causate dalla stagione delle piogge, la più devastante degli ultimi 100 anni, la rivolta del pane non ha portato grandi cambiamenti. Ma tutte loro sono consapevoli che abbia favorito una svolta epocale nel Paese. Un deciso cambio di passo che ha convinto anche gli Stati Uniti a riprendere le relazioni con il Sudan, come testimoniano la visita di fine agosto e la telefonata nei giorni scorsi del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, che ha chiamato il primo ministro sudanese Abdalla Hamdok per esprimere le condoglianze per le vittime delle alluvioni, oltre 300 morti e 500 mila case distrutte, e annunciare aiuti da parte di Washington. Il malcontento dell’ala islamista. Ma, soprattutto, ha rinnovato l’impegno a rimuovere le sanzioni con la cancellazione del Sudan dall’elenco dei Paesi fiancheggiatori del terrorismo. Una decisione che passa per il compimento della transizione, ma anche per i rapporti con Israele. Dall’incontro a sorpresa in Uganda nel febbraio di quest’anno tra Benjamin Netanyahu e il generale Abdel Fattah Al Burhan, capo del consiglio sovrano sudanese, la Casa Bianca sta incoraggiando Khartoum a normalizzare le relazioni con il governo israeliano. Non mancano però le frizioni, dovute al malcontento dell’ala islamista, che ancora si annida nei palazzi del potere. Ne è consapevole anche Miryam, che nel 2019 ha partecipato assieme a suo marito alle proteste che hanno determinato la caduta del presidente - dittatore Omar Hassan al Bashir. “Siamo soddisfatte delle riforme fatte finora”. “Ma non vogliamo - aggiunge Miryam - che il governo sia influenzato dai militari. Il cambiamento non si compirà fino in fondo se viene permesso a chi faceva parte del regime precedente di rimanere al potere. Deve essere un consiglio tutto civile a dirigere la transizione”. Dopo il golpe e l’istituzione di una Giunta militare, con la firma il 17 agosto dello scorso anno della dichiarazione costituzionale, è nato un governo transitorio guidato da un economista. Una transizione che si è tinta di rosa con l’abrogazione di leggi vessatorie nei confronti delle donne, come gli articoli del codice penale relativi all’abbigliamento e alle libertà personali, norme basate sulla Sharia estremamente restrittive per le sudanesi succubi di un sistema maschilista e patriarcale. La domanda di democrazia e libertà. “Nonostante le intimidazioni e le vessazioni che fin dalla nascita subivamo - spiega Amira Abdelgadir, avvocato e attivista politica, che durante le rivolte era stata arrestata e tenuta in carcere una settimana per aver partecipato a una manifestazione a Omdurman - siamo scese in piazza in migliaia: almeno il 70% della popolazione femminile. Chiedevamo democrazia e libertà ma anche politiche di tutela e di protezione delle donne. E proprio grazie a questo oggi il governo sta portando avanti un cambiamento radicale nei confronti della condizione femminile, che va dalla cancellazione del divieto di viaggiare senza il permesso di un maschio della famiglia, alla criminalizzazione delle mutilazioni genitali femminili” La rimozione di usanze arcaiche. Con l’approvazione del testo di legge che Amira stessa ha contribuito a scrivere, il governo sudanese ha trasformato in reato un’usanza arcaica. La nuova norma punisce tanto la pratica clandestina quanto gli interventi effettuati in strutture mediche. “Stiamo cambiando il Sudan, questo nuovo articolo del codice penale contribuirà a sconfiggere una delle pratiche sociali più pericolose, l’infibulazione costituisce una chiara violazione dei diritti delle donne” dice soddisfatto il ministro della Giustizia Nasredeen Abdulbari sottolineando che “l’87% delle bambine sudanesi era vittima della terribile usanza”. Oltre agli interventi a favore della popolazione femminile, voluti dal premier Hamdok, sono state approntate altre importanti riforme destinate a cambiare il volto del Paese africano che un anno fa avviava il suo percorso democratico dopo mesi di rivolte e centinaia di vittime. Soppresso il reato di apostasia. L’esecutivo ha disposto in questi mesi anche la soppressione del reato di apostasia, di sodomia, punibili con la pena di morte, e del consumo di alcol, ma quest’ultimo solo per i non musulmani che rappresentano il 3% della popolazione sudanese. Hamdok, che esaurirà il suo compito con la convocazione delle elezioni previste nel 2022, ha avviato anche un piano di salvataggio economico sostenuto da un iniziale prestito della Banca Mondiale di 2 miliardi di dollari. Uno dei punti chiave del programma, presentato dal Ministero delle Finanze sudanese lo scorso autunno, la cancellazione dei sussidi per il pane e il carburante, tra i fattori scatenanti delle rivolte che avevano portato alla caduta del regime. La decisione ha suscitato nuove proteste, represse con lacrimogeni e arresti. Il trasferimento diretto delle risorse alle famiglie. Il primo ministro del Sudan, che per anni ha prestato servizio nella Commissione economica delle Nazioni Unite, ha voluto trasformare gli aiuti di Stato in trasferimenti diretti di denaro alle famiglie più povere. “Risollevare le sorti di un’economia in profonda crisi e con un debito spaventoso si sta rivelando impresa ardua quasi quanto porre fine ai conflitti interni dopo 17 anni di guerra” rivendica il vicepresidente del Consiglio sovrano Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come ‘Hemetti’, ex comandante delle Forze di Supporto Rapido, milizie paramilitari prima denominate ‘janjaweed’, letteralmente ‘diavoli a cavallo’. A lui, che ha guidato per anni la repressione violenta del dissenso in Darfur, classificata dalla Corte penale internazionale come “crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio”, è stato affidato il compito di annunciare l’abolizione della legge che aveva istituito in Sudan l’Islam come religione di Stato. La speranza della fine di un conflitto lungo 17 anni. La scelta è stata resa pubblica durante i negoziati di pace tra il governo sudanese e i ribelli. Un’intesa raggiunta in due fasi. La prima: la firma il 31 agosto a Juba, capitale del Sud Sudan, dell’accordo di pace con i rappresentanti del Sudan Revolutionary Front, alleanza che riunisce 17 gruppi armati delle regioni del Darfur e del Sud Kordofan. La seconda: che coinvolgerà anche il Movimento di liberazione del popolo del Sudan - Nord, che non aveva sottoscritto la prima intesa. Un risultato storico, impensabile fino a qualche mese fa, che pone fine a conflitti durati oltre 17 anni.