Carceri, l’ingiusto prezzo di indecisioni calcolatrici di Glauco Giostra Avvenire, 29 novembre 2020 L’emergenza Covid, i nuovi appelli e ciò che non si è voluto fare. Disinnescare in modo sano la bomba-virus nelle carceri”: era il titolo dato a un mio articolo apparso su queste pagine nel marzo scorso. Se lo richiamo non è perché esprimesse una speciale lungimiranza: si limitava soltanto a constatare che vi erano le premesse di un dramma prossimo venturo e a indicare qualche possibile frangiflutto da predispone per arginare almeno in parte lo tsunami in arrivo. L’ho voluto ricordare per denunciare ancora una volta il deprecabile andazzo italico di intervenire soltanto a tragedia avvenuta, anche quando questa fosse ampiamente prevedibile. Dobbiamo ritenere che i nostri politici siano del tutto incapaci di cogliere le cause dei più allarmanti problemi sociali? Di avvertirne per tempo la preoccupante ingravescenza? Non penso che vada ricercata in ciò la spiegazione di tante colpevoli inerzie. La verità è che quando la prevenzione o il rimedio comporta scelte impopolari (o anche soltanto ritenute tali) la politica troppo spesso, pavidamente, si ritrae. La questione carceraria aveva imboccato la giusta strada nella precedente legislatura: la maggioranza dell’epoca, raccogliendo i contributi delle diverse sensibilità culturali, professionali e sociali, aveva meritoriamente promosso una riforma che intendeva responsabilizzare il condannato, prospettandogli un impegnativo, ma mai precluso percorso di graduale rientro in società. Poi, a un centimetro dal traguardo, impensierita dalle imminenti elezioni, per un miope calcolo politico, quella stessa maggioranza decise di soprassedere. La nuova, con un’operazione sciaguratamente ottusa, pensò bene di amputare la parte qualificante della riforma, immolandola sull’altare della “certezza della pena”; locuzione che in una stagione non lontana esprimeva una garanzia, mentre oggi suona come una minaccia di pena detentiva inalterabile, qualunque sia il cammino riabilitativo del condannato. Se quella riforma avesse avuto approdo legislativo, questo terribile contagio non avrebbe trovato decine di migliaia di persone accalcate in quella sorta di stabulario che negli ultimi anni è divenuto il nostro sistema penitenziario. Al suo irrompere, si è comunque immediatamente provato, appunto, a suggerire qualche rimedio emergenziale, che potesse coniugare rapidità di intervento e selettività nell’operazione di decongestionamento. Ad esempio, si propose di aumentare l’entità della riduzione di pena a quanti fosse già stata riconosciuta, anticipando così il fine pena, soprattutto per coloro comunque prossimi alla dimissione. Si propose anche di consentire alternativamente che l’ordinaria riduzione premiale della pena (45 giorni per ogni semestre di meritevole partecipazione al trattamento risocializzativo) potesse essere fruita immediatamente, tornando per un corrispondente periodo in libertà, anziché beneficiarne alla fine. Si rispose che sarebbe sembrato un cedimento alle rivolte carcerarie (per lo più dovute alla soffocante paura dei ristretti) e che il penitenziario come universo chiuso era il posto più sicuro (strano che non ci si abbandoni a tali amenità anche a proposito delle Rsa). Ma era facilmente decifrabile il sottotesto: tanta gente non comprenderebbe, perderemmo consensi. Ora che ciò che era prevedibile e previsto sta accadendo; ora che alcune conseguenze dell’inerzia si sono già fatte pesanti per il personale penitenziario e per i detenuti, si presti almeno sollecita attenzione politica alla meritoria iniziativa di Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”, condivisa trasversalmente da tanti autorevoli esponenti della migliore cultura italiana, affinché si adottino al più presto le misure che si sarebbero dovute già adottare da tempo: ci sono migliaia di persone la cui salute e la cui vita sono messe a repentaglio dal coattivo assembramento penitenziario, reso ancor più insopportabile dalle inevitabili restrizioni imposte dall’incubo pandemico. Lo sappiamo bene, in questo momento il decisore politico ha, incolpevolmente, mille emergenze cui far fronte, ma abbiamo avuto ben sette anni per restituire dignità e senso alla nostra pena detentiva, giudicata inumana dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Torreggiani). Adesso dunque risolviamo l’emergenza, ma poi torniamo sul problema di fondo: in politica, avremmo bisogno di aquile dai vasti orizzonti e dalla vista lungimirante; salvo lodevolissime, ma troppo isolate eccezioni, abbiamo invece dei forapaglie preoccupati e capaci soltanto - con becco vorace e ingannevoli richiami - di catturare elettori considerati “insetti”. Un digiuno per aprire le celle contro il virus di Giulio Isola Avvenire, 29 novembre 2020 Campagna dei Radicali sui rischi del sovraffollamento. Ma anche polemiche per le possibili scarcerazioni. I “ristretti” dovrebbero essere distanziati. La contraddizione tra prigioni e contagi è palese fin nei termini, e non a caso alcuni militanti radicali stanno praticando da giorni lo sciopero della fame “per chiedere al governo e al Parlamento di prendere misure adeguate affinché il Covid- 19 non dilaghi ulteriormente nelle carceri”. Ieri alla causa (che per la verità Avvenire aveva lanciato per primo già durante il primo lockdown, come testimonia la pagina del 21 marzo riprodotta qui a fianco) hanno dato autorevole appoggio anche alcuni intellettuali, con articoli sui principali quotidiani della Penisola. I contagi sono in continuo aumento non solo tra detenuti, ma ancor di più tra gli agenti penitenziari, e uno dei mezzi per disinnescare i focolai sarebbe appunto l’adozione di misure quali indulto o amnistia. Sempre ieri il Garante nazionale delle persone private della libertà ha comunicato i dati aggiornati: i detenuti positivi al coronavirus sono 882, distribuiti in 86 istituti (sul totale di 192 strutture penitenziarie). Ha tenuto però a smorzare i toni: “Si tratta di un numero alto ma che va posto in relazione al fatto che soltanto 65 perone presentano sintomi e 27 tra costoro sono trattate in ospedale”. La valutazione complessiva, recita ancora il Garante nel suo report, “è sostanzialmente non allarmante dal punto di vista strettamente medico, ma è invece da guardare con evidente preoccupazione dal punto di vista della gestione, sia per la necessità di spazi e quindi di una minore densità delle persone ristrette e dunque di un numero di persone detenute sensibilmente minore, sia per l’incidenza che il contagio ha sugli operatori penitenziari, il cui numero di positivi è attorno al migliaio, e che si deve misurare con un organico sempre al di sotto di quanto formalmente previsto”. Decisamente più preoccupato il Garante regionale della Campania, Samuele Ciambriello, per il quale quella del carcere luogo sicuro per non contagiati è solo una “falsa credenza”; al contrario “l’epidemia, causa sovraffollamento e promiscuità, malattie croniche e ambienti non igienizzati né sanificati, dilaga tra gli “invisibili”. Quasi da nessuna parte dispenser nei corridoi o davanti alle celle, poche mascherine, non vengono distribuiti ai detenuti prodotti igienico-sanitari (tra i quali l’amuchina) per sanificare stanze, scale e ambienti. C’è bisogno di darsi una svegliata, dalla politica alla società civile. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha lasciato soli i suoi dirigenti e operatori. Occorrono subito provvedimenti del governo, delle procure e dei magistrati di sorveglianza. Occorre superare l’omertà del silenzio e andare oltre le mura dell’indifferenza. Il carcere non è una discarica sociale”. Ovviamente il tema ha notevoli risvolti politici e nell’opinione pubblica, riscaldata anche dalle polemiche che durante il primo lockdown hanno accompagnato tante affrettate scarcerazioni di detenuti pericolosi, addirittura boss mafiosi a regime di 41bis. Così, se i radicali approfittano dell’oggettivo rischio sanitario per invocare un “indulto antiproibizionista” a favore dei detenuti tossicodipendenti (che da soli costituiscono un quarto della popolazione carceraria), lo stesso segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria (Spp) Aldo Di Giacomo sembra meno entusiasta di possibili scarcerazioni per motivi sanitari: “Al momento sarebbero oltre una decina i detenuti di alta sicurezza e 41bis che hanno inoltrato ai Tribunali di sorveglianza istanza di scarcerazione per incompatibilità tra il proprio stato di salute e il rischio di contrarre il Covid. Le domande verranno valutate entro le prossime settimane. L’allarme che questo potesse accadere di nuovo l’avevamo lanciato in tempi non sospetti; ora siamo sicuri che molti delinquenti trascorreranno il Natale con le proprie famiglie”. “Il punto” del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale di Daniela De Robert garantenazionaleprivatiliberta.it, 29 novembre 2020 Qualche doveroso numero del sistema penale - Nonostante i numeri della diffusione del contagio in carcere siano - giustamente - resi noti dal Ministero della giustizia sul proprio sito, non vogliamo deludere coloro che affidano a questa nostra più o meno settimanale pubblicazione l’informazione sull’andamento della diffusione del virus: oggi le persone detenute positive sono 882 e sono distribuite in 86 Istituti (sul totale di 192 strutture penitenziarie). Un numero alto - è vero - ma che va posto in relazione al fatto che, di esse, soltanto 65 presentano sintomi e 27 tra costoro sono trattate in ospedale. La valutazione complessiva è sostanzialmente non allarmante dal punto di vista strettamente medico, ma è invece da guardare con evidente preoccupazione dal punto di vista della gestione, sia per la necessità di spazi e, quindi, di una minore ‘densità’ delle persone ristrette e dunque di un numero di persone detenute sensibilmente minore, sia per l’incidenza che il contagio ha sugli operatori penitenziari, il cui numero di positivi è attorno al migliaio, e che si deve misurare con un organico sempre al di sotto di quanto formalmente previsto. A partire da queste considerazioni il Garante nazionale torna a sollecitare maggiore capacità di elaborare proposte normative che sappiano tutelare la salute di tutti, assicurare una positiva gestione delle strutture e della vita interna relativamente a chi in esse opera e chi vi è ristretto, garantire la sicurezza. Gli emendamenti proposti e che abbiamo illustrato nelle riflessioni de il punto delle ultime settimane vanno in questa direzione: le ribadiamo e continuiamo nella nostra interlocuzione con il Parlamento che in questi giorni lavora attorno alla riconversione in legge del decreto 137/2020. Le visite del Garante nazionale - Questa settimana, il Garante nazionale ha fatto una visita alla Casa di reclusione di Padova, in seguito ad alcune criticità segnalate nell’ambito della necessaria e proficua collaborazione tra l’Amministrazione penitenziaria e il Terzo settore operante nell’Istituto. Come è noto, la Casa di reclusione di Padova rappresenta un importante punto di riferimento per le iniziative culturali, lavorative e sociali che si svolgono al suo interno in una prospettiva di dialogo con il territorio e di reinserimento delle persone detenute: una esperienza che va preservata, valorizzata e proposta quale modello positivo. La delegazione del Garante nazionale - composta dal Presidente, da una Componente del Collegio e due membri dello staff - ha avuto modo di discutere più punti con il Direttore, il Comandante e la Vicecomandante di Reparto, con la Responsabile e diversi operatori dell’Area educativa, ribadendo tre principi essenziali per il consolidamento di una collaborazione tra i diversi ‘attori’ che operano nell’Istituto. La finalità, da tutti condivisa, è quella di una esecuzione penale pienamente ed effettivamente rispondente alla sua configurazione costituzionale. In primo punto è che la necessaria cooperazione tra chi amministra e istituzionalmente opera in un Istituto e chi in esso svolge attività volte a saldare proficuamente il rapporto con la realtà esterna a esso, deve rispondere sia all’esigenza di chiarezza della diversità dei ruoli e di rispetto della responsabilità di chi esercita la propria azione in virtù di un mandato pubblico, sia del riconoscimento di quella complementarità essenziale che l’azione di organizzazioni, cooperative, enti esterni costituisce, senza mai considerare il loro apporto come ‘ancillare’ e implicitamente di minore rilevanza. Il secondo punto riguarda la riaffermazione della rilevanza e dell’autonomia della valutazione del percorso compiuto da una persona detenuta nel corso della sua esecuzione penale. Una valutazione che soltanto chi opera a contatto con la persona può esprimere, avendone riscontrato e sperimentato direttamente la partecipazione al percorso definito, senza essere influenzata da considerazioni esterne, provenienti da altri ambiti di analisi che incideranno solo successivamente per l’adozione di conseguenti decisioni: doverose informazioni, queste, che tuttavia, nel pieno rispetto della distinzione di ruoli, non devono incidere sulle valutazioni interne poiché il rischio di una sovrapposizione e di una confusione di pareri non giova alla costruzione di percorsi di possibile reinserimento. Infine - il terzo punto del proficuo confronto avuto - riguarda il principio per cui non è possibile che si interferisca con attività di supposto controllo in locali affidati a chi nell’Istituto opera produttivamente, con continuità e da molto tempo, senza che tali operazioni prevedano la doverosa informazione degli affidatari dei locali, la loro presenza all’operazione, la regolare autorizzazione della Direzione, la conseguente reportistica. Perché il rischio è che ciò possa configurarsi come una sorta di impropria attività simile a una forma di ‘perquisizione’ chiaramente esclusa dal nostro ordinamento e da ogni accordo di affidamento dei locali. Un episodio avvenuto nell’Istituto recentemente e portato all’attenzione anche del Garante nazionale può essere letto in questa chiave ed è stato importante acquisire dati in tal senso. Casualmente la visita è avvenuta proprio nel giorno in cui la Corte costituzionale si pronunciava (sentenza 252 del 26 novembre 2020) seppure in altro contesto, circa le stringenti regole a cui deve attenersi ogni perquisizione. Nella prossima settimana, Il Garante nazionale, dopo aver già condotto quattro specifiche visite a rispettivi Istituti, invierà all’Amministrazione penitenziaria il proprio Rapporto tematico su quelle sezioni di Alta sicurezza 2 (As2) caratterizzate da una disomogeneità dei profili delle persone detenute. Una disomogeneità discendente da tre diverse tipologie di reati, legati a tre diversi macro-fenomeni: il radicalismo violento di tipo islamista, l’antagonismo politico sommariamente definito di tipo anarchico e quello residuale delle organizzazioni armate degli anni 70 e 80, costituito da un ristretto gruppo di protagonisti di allora tuttora detenuti. Nel corso delle visite alle quattro sezioni che rispondono a questa caratteristica ‘mista’ (negli Istituti di Ferrara, Terni, Rossano Calabro e Rebibbia femminile) sono emerse alcune criticità. Si tratta di situazioni diverse tra loro in cui vi è di fatto sempre una prevalenza numerica di una tipologia rispetto ad altre, rendendo così ancora più complessa la loro gestione nel pieno rispetto della finalità costituzionale della pena. Tanto più quando soltanto una o due persone di una determinata caratteristica sono poste in questo contesto del tutto diverso e distante per lingua, religione, cultura. Tale disomogeneità rende vago ogni riferimento a possibili percorsi di reinserimento. Nella settimana prossima, infine, il Garante nazionale riprenderà le visite di tipo ‘regionale’, recandosi per più giorni in strutture diverse di una stessa porzione del territorio nazionale: Istituti detentivi, strutture sanitarie e socio-assistenziali e quelle in dotazione alle diverse Forze di Polizia del territorio visitato. La prossima pubblicazione de il punto darà una prima sommaria informazione di quanto visitato. Il rinvio a giudizio per tortura - Per la prima volta, tre Ispettori e due Assistenti di Polizia penitenziaria sono stati rinviati a giudizio davanti al tribunale di Siena con l’accusa, tra le altre, di tortura: la nuova fattispecie criminosa (articolo 613-bis c.p.), introdotta nel codice penale nel 2017. Il contesto sono alcuni episodi che sono stati denunciati come avvenuti nel carcere di San Gimignano durante un trasferimento nell’ottobre 2018. La notizia ha immediatamente un sapore di tristezza perché è comunque triste ipotizzare tali comportamenti compiuti da chi ha in carico una persona in nome della collettività e nell’assicurare la sua custodia è chiamato anche ad assicurare la sua dignità e integrità fisica e psichica. È però, parallelamente, una notizia da cogliere positivamente perché indica sia la volontà di indagare a fondo la denuncia di comportamenti assolutamente incompatibili con il nostro sistema civile, prima ancora che giuridico, sia perché dimostra la fondatezza della posizione a suo tempo assunta dal Garante nazionale che ha sempre sostenuto che la nuova fattispecie, quantunque formulata in termini piuttosto involuti, rappresentava comunque un passo in avanti nell’accertamento della verità e nell’espressa volontà del nostro Paese di inviare chiari segnali d’inaccettabilità di tali comportamenti, qualora accertati. Il segnale che viene dal Tribunale di Siena va nella direzione di contrastare il rischio di impunità rispetto a tali comportamenti, impunità che talvolta può nascondersi dietro un male interpretato spirito di appartenenza a un Corpo, non più visto come espressione dei suoi valori, ma come velo difensivo anche di chi tali valori ha offeso. Nei confronti dell’Italia, infatti, negli ultimi anni erano state accertate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo diverse violazioni sia dell’aspetto “sostanziale” sia di quello “procedurale” dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta, come è noto, la tortura e i trattamenti o pene inumane o degradanti. Tuttavia, la mancanza di una previsione normativa del reato di tortura aveva impedito all’Italia di perseguire in modo adeguato tali fatti. L’introduzione di un reato che chiaramente definisse la tortura e ne prevedesse adeguata sanzione era stata richiesta dalla Convenzione Onu contro la tortura e gli altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti: era il 1984. L’Italia l’aveva ratificata nel 1987, ma da allora e per una trentina d’anni questa richiesta era rimasta inevasa. L’adozione della legge n. 110 nel 2017 aveva sanato questa assenza, seppure con un testo controverso. Il reato di tortura, come disegnato da quella legge, ha invece dato prova ora della sua possibile contestabilità. Per la prima volta, in un luogo di privazione della libertà e nei confronti di autorità pubbliche. Del resto, è chiaro ed è anche affermato dall’articolo 613-bis del codice penale, che i fatti di tortura commessi su persone affidate allo Stato e nelle mani di Autorità pubbliche sono più gravi rispetto a quelli che possono realizzarsi in altri contesti. La condanna in primo grado del medico dell’Istituto penitenziaria per non avere visitato e refertato la persona vittima di violenze, evidenzia l’importanza del ruolo del medico nella prevenzione di fatti di maltrattamento e torture. Un ruolo centrale che il Garante nazionale ha più volte sottolineato, anche nei pareri sulla riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018. Persone migranti - Dal monitoraggio del Garante nazionale sui Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) emerge il quadro di una macchina organizzativa che ha, in parte, colmato i ritardi rilevati in occasione della prima ondata pandemica in particolare mediante una maggiore saldatura con il Servizio sanitario nazionale e la regolare realizzazione di screening e verifiche sanitarie sulla popolazione detenuta. Tutti i Cpr si sono dotati di spazi per l’applicazione di misure di quarantena precauzionale o di isolamento, anche se tali ambienti non sempre rispettano gli standard internazionali sotto il profilo della sicurezza e, in qualche caso, non consentono un pieno e libero accesso alla libertà di corrispondenza telefonica. L’ingresso nelle strutture avviene esclusivamente sempre previo tampone con esito negativo e in alcuni Cpr solo dopo un periodo di quarantena precauzionale. Tali misure sembrano aver contenuto il rischio di contagio. Infatti, solo due Cpr riferiscono di aver avuto casi di persone risultate positive. Sotto il profilo delle condizioni igienico-sanitarie, gli Enti gestori riferiscono la periodica sanificazione e igienizzazione degli ambienti detentivi. Infine, riguardo alle procedure di dimissioni, molto positiva sotto il profilo della tutela della salute individuale e pubblica è lo screening delle persone in uscita. Permangono tuttavia, alcune criticità. Prime fra tutte l’esercizio della libertà di corrispondenza telefonica all’interno delle strutture di detenzione amministrativa, anche a causa di un’ampia difformità di prassi e regole organizzative. Per quanto riguarda i sistemi di videochiamata è emerso che, nella maggior parte dei Centri, l’utilizzo è limitato alla celebrazione delle udienze, in qualche caso ai colloqui con il difensore e alle audizioni con le Commissioni territoriali asilo. Un’unica struttura ha riconosciuto la possibilità di effettuare videochiamate ai familiari: si tratta di un segnale estremamente positivo che deve far riflettere su come in linea generale l’impatto dell’emergenza sanitaria sul diritto al mantenimento dei legami familiari e affettivi non sia stato mitigato con meccanismi compensativi, peraltro facilmente realizzabili considerato l’utilizzo di dispositivi di videoconferenza per esigenze di giustizia in quasi tutte le strutture. Preoccupa, inoltre, la mancata ripresa delle attività da parte di attori fondamentali per la tutela delle persone bisognose di protezione, come le associazioni contro la tratta di esseri umani. Oggi le persone trattenute nei Cpr sono 450, un numero lievemente inferiore alle 455 presenti la settimana scorsa. Continua a salire anche questa settimana la capienza che ora si attesta a 661 posti. Sul fronte delle quarantene delle persone migranti sbarcate sul territorio italiano, sono 1195 le persone presenti a bordo delle cinque navi per la quarantena attualmente in funzione e 607 quelle alloggiate in strutture sul territorio. Infine, si registra un forte calo di persone presenti negli hotspot: 236 rispetto alle 894 della settimana scorsa, in particolare a Lampedusa dove il numero delle persone migranti (50) è sceso ampiamente al di sotto della capienza complessiva del Centro. Il diritto all’autodeterminazione delle persone anziane - Nei giorni scorsi, la trasmissione “Le iene” ha trasmesso un servizio sul caso di una persona anziana ricoverata contro la sua volontà in una struttura residenziale per anziani e lì trattenuta. Si tratta di una situazione grave, di palese violazione del suo diritto all’autodeterminazione. Al di là del clamore mediatico che la trasmissione ha sollevato, sono proprio queste le situazioni che il Garante nazionale sta monitorando e su cui esercita il proprio compito di vigilanza. La privazione della libertà di fatto di persone anziane o con disabilità è emersa in maniera evidente nel corso dell’emergenza Covid-19, con la chiusura delle strutture all’esterno e l’impossibilità per i familiari di incontrare e interfacciarsi con i propri cari. Sulla base delle tante segnalazioni giunte all’ufficio e degli esiti delle visite, il Garante nazionale ha aperto una interlocuzione con le Regioni al fine di trovare una linea che assicuri il diritto alla tutela della salute del singolo e della comunità e il rispetto dei diritti delle persone ospitate (e non trattenute) nelle strutture residenziali. Su tali problematiche sono in corso delle visite a strutture residenziali. La commissione per i diritti umani - Nel precedente il punto avevamo dato la notizia della presentazione di un emendamento alla cosiddetta “legge europea 2019-2020” che proponeva l’istituzione di una Commissione nazionale per la promozione e la promozione deli diritti umani. Tale emendamento, tuttavia, è stato ritenuto inammissibile. Il Garante nazionale ritiene importante continuare l’impegno affinché anche l’Italia si doti di tale organismo, così come previsto. Covid e carcere secondo la ricerca del Consiglio d’Europa - Il Consiglio d’Europa (Coe) ha attivato il progetto Space I-Covid-19 volto a monitorare gli effetti della pandemia su carceri, detenuti e persone sottoposte a probation in Europa, i cui risultati sono riportati sul sito dello stesso Coe (https://www.coe.int/en/web/portal/-/mid-term-impact-of-covid-19-on-european-prison-populations-new-study). Dalla ricerca emerge la complessiva diminuzione della popolazione carceraria europea nel periodo dei lockdown di primavera: dal 1° gennaio al 15 settembre il tasso di detenzione medio è sceso del 4,6% (da 121,4 a 115,8 detenuti per 100.000 abitanti) nei 35 Paesi le cui amministrazioni penali hanno fornito i dati. La riduzione è stata causata da una serie di fattori, tra cui l’uscita dal carcere di alcune fasce di detenuti per prevenire la diffusione del Covid-19. I lockdown delle popolazioni europee, che a metà aprile erano in atto da solo un mese, sembrano aver contribuito a una tendenza di stabilità o riduzione dei tassi della popolazione carceraria. Al 15 aprile, in 17 amministrazioni penitenziarie (tra cui l’Italia) il tasso di detenzione era sceso di oltre il 4%; rimaneva stabile (tra -4 e 4%) in 29 amministrazioni penitenziarie. La Svezia, che non ha attuato il confinamento della popolazione, è stato l’unico paese in cui il tasso di detenzione è aumentato nel brevissimo periodo. Il contributo dei lockdown alla riduzione della popolazione carceraria è avvalorato da un’analisi della situazione del periodo successivo. Il 15 giugno il numero di amministrazioni penitenziarie in cui i tassi detentivi erano diminuiti da gennaio è salito a 27, mentre 14 hanno mostrato trend stabili e solo Svezia e Grecia hanno riportato tassi superiori a giugno rispetto a gennaio. Durante l’estate e senza lockdown, la tendenza alla diminuzione nella popolazione carceraria si è invertita in 12 amministrazioni penitenziarie, che avevano tassi superiori il 15 settembre rispetto al 15 giugno. La Bulgaria (-13,2%) e il Montenegro (-7,7%) sono state le uniche due amministrazioni penitenziarie, tra le 36 che hanno fornito i dati, in cui il tasso di detenzione è sceso da giugno a settembre. Nel complesso, tuttavia, i tassi di popolazione carceraria a metà settembre erano generalmente inferiori a quelli dell’inizio del 2020. Nelle quattro finestre cronologiche evidenziate, la media europea del tasso detentivo (ricordiamo che si tratta di un indicatore riferito al numero di detenuti per 100.000 abitanti) è progressivamente scesa e poi leggermente risalita: 121,4 al 31 gennaio, 116 al 15 aprile, 113,8 al 15 giugno e 115,8 al 15 settembre. Quanto all’Italia, negli stessi periodi si è registrato un tasso detentivo sempre inferiore a tale media: 100,9 al 31 gennaio, 91,3 al 15 aprile, 88,9 al 15 giugno e 89,9 al 15 settembre. Secondo il direttore dello studio Marcelo Aebi, le tendenze europee possono essere spiegate da diversi fattori, tra cui la diminuzione dell’attività della macchina giudiziaria penale dovuta al lockdown, il rilascio dei detenuti come misura preventiva per ridurre la diffusione del Covid-19 e il calo della criminalità prodotto dal lockdown, che può aver ridotto le possibilità di commettere reati tradizionali. Questa spiegazione è supportata dalla tendenza opposta osservata in Svezia e dal fatto che la diminuzione della popolazione carceraria si è arrestata al termine del lockdown. Lo studio riporta inoltre che almeno 3.300 detenuti e 5.100 agenti penitenziari hanno contratto il Covid-19 entro il 15 settembre nelle 38 amministrazioni penitenziarie europee che hanno fornito i dati. Primo rapporto - Prisons and Prisoners in Europe in Pandemic Times: An evaluation of the short term impact of the Covid-19 on prison populations https://wp.unil.ch/space/files/2020/06/prisons-and-the-covid-19_200617_final.pdf Secondo rapporto - Prisons and Prisoners in Europe in Pandemic Times: An evaluation of the medium-term impact of the covid-19 on prison populations https://wp.unil.ch/space/files/2020/11/prisons-and-the-covid-19_2nd-publication_201109.pdf Mauro Palma: “Per carceri anti-Covid il numero dei detenuti deve calare” di Liana Miella La Repubblica, 29 novembre 2020 Il Garante dei detenuti: “Giusta la preoccupazione di chi vede prigioni troppo affollate, ma attenzione a non illudere chi sta dentro con promesse di sconti impossibili”. “Nelle carceri l’emergenza c’è, ma attenzione a non illudere i detenuti su sconti impossibili”. Il Garante dei detenuti, Mauro Palma, è un costante “viaggiatore nelle prigioni”. Incurante del Covid, tra un tampone e l’altro, percorre la penisola detenuta. E a Repubblica dice: “Da sempre le misure a favore di chi sconta una pena sono sempre impopolari, chi le decide però non può essere troppo sensibile alle polemiche”. Carcere e Covid, una miscela davvero esplosiva? “Tutte le situazioni chiuse sono di per sé più vulnerabili di altre. E il carcere è tra queste. Dal punto di vista strettamente medico, se è vero che ci sono 880 detenuti positivi ma solo nella metà dei 192 istituti di pena, è altresì vero che soltanto 65 di loro presentano sintomi. E tra questi 27 sono ricoverati in ospedale. Quindi la situazione è sotto controllo”. Lei sta dicendo allora che l’emergenza non c’è? “L’emergenza c’è, ma solo dal punto di vista degli spazi e della gestione: tutte quelle persone sono isolate, così come vanno isolate in via precauzionale quelle che entrano in carcere. Questo richiede numeri più bassi di persone detenute, affinché l’isolamento sia possibile e non ci si trovi di fronte a una situazione che sfugge di mano. Anche perché ci sono i contagi, circa un migliaio, tra chi lavora in carcere, in particolare tra gli agenti, e questo fa calare il numero di persone che può occuparsi dei detenuti. Per questo io considero la situazione preoccupante”. Le misure di Bonafede, in primavera e adesso, sono insufficienti come dice Saviano? “Sì, lo sono, e richiedono al più presto dei passi in più convincendo anche l’opinione pubblica che un peggioramento sanitario in carcere avrebbe conseguenze anche sulla società esterna, a partire dai posti in ospedale, per non parlare del principio che la salute di ogni persona va sempre scrupolosamente tutelata”. Scusi, ma le polemiche di maggio sulle scarcerazioni dei boss dove le mettiamo? Per capirci, questo Bonafede è uno che scarcera troppo o che scarcera poco? “Trovavo le polemiche artificiose allora rispetto a un comportamento del ministro che ho sempre trovato corretto. Forse troppo sensibile alle polemiche stesse”. Esclude misure drastiche come amnistia e indulto? In fondo non se ne fanno dal 1990 nel primo caso e dal 2006 nel secondo. “È un tema su cui bisognerà riflettere, ma non adesso. Ora bisogna lavorare su ciò che è politicamente praticabile. E sappiamo fin troppo bene che amnistia e indulto non lo sono. Bisogna stare molto attenti a non diffondere speranze tra i detenuti su ipotesi del tutto irrealizzabili. Mi capita di sentirmi chiedere, quando visito un istituto di pena, se davvero si sta lavorando in questa direzione, e ciò può provocare anche effetti dirompenti”. Pensa alle rivolte di febbraio? “All’ansia interna si deve rispondere con progetti effettivamente realizzabili”. Lo è l’ipotesi della cosiddetta “liberazione anticipata speciale”? E soprattutto, se si facesse, quanto detenuti uscirebbero? “Chiariamo innanzitutto di che stiamo parlando: coloro che già hanno ottenuto dal magistrato di sorveglianza una riduzione di 45 giorni ogni sei mesi di carcere scontato in modo positivo, così come avviene già oggi, potranno avere 30 giorni in più, quindi accorciando la pena. Sembra di poco, ma aiuta a ridurre le presenze in carcere”. Lei come Garante l’ha proposta per primo. Dai suoi sondaggi le sembra che il governo ci potrebbe stare? “La liberazione anticipata ha un brutto nome e andrebbe spiegata meglio all’opinione pubblica. Qui non stiamo parlando di tagliare la pena a qualunque detenuto. Bensì di fare uno sconto a chi sta scontando bene la pena. Sembra un gioco di parole ma non è così”. Ma le altre misure - detenzione domiciliare fino a 24 mesi e blocco del carcere per le sentenze definitive - sono politicamente praticabili? “La prima amplia di sei mesi una misura che il governo ha già previsto da marzo. L’altra riguarda solo le sentenze a pochi mesi o a pochi anni di pena per persone che sono in libertà e che proprio adesso dovrebbero andare in carcere perché è diventata definitiva una sentenza che attiene a fatti magari di molti anni fa. Tutto ciò - sia chiaro - non riguarda né i gravi reati, né la criminalità organizzata”. I boss, anche al 41bis, non potranno uscire dal carcere? “Ribadisco che la salute di tutti va tutelata, anche se nessuno ha mai prospettato misure di favore per chi ha commesso gravissimi reati, né a marzo né ora”. “Sciopero della fame come la Bernardini, indifferenza della politica è vergognosa” di Viviana Lanza Il Riformista, 29 novembre 2020 Parla Domenico De Rossi: “Ma che razza di Paese è questo che costringe allo sciopero della fame per avere diritti e rispetto della Costituzione?”. Domenico Alessandro De Rossi, presidente del Centro europeo studi penitenziari, lo dice dopo aver aderito alla staffetta dello sciopero della fame a sostegno della protesta iniziata lo scorso 10 novembre da Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, per sensibilizzare la politica sulle condizioni nelle carceri in questo periodo di pandemia. “Ho visto Rita Bernardini in momenti di grande sofferenza e grande grande fatica a seguito di questi digiuni che fa sull’insegnamento e sull’esperienza di Marco Pannella. Un giorno eravamo in viaggio verso un carcere vicino Napoli e mi colpì tantissimo vedere come si dedicasse con tanto sacrificio a una missione. È questa la motivazione che mi ha spinto ad aderire allo sciopero della fame - racconta De Rossi - Si possono fare digiuni per tanti motivi, ma il digiuno volontario, ideologico, è tutta un’altra cosa. Si soffre di più perché la motivazione è pura, teorica, filosofica, e la rinuncia è un passaggio importante”. De Rossi è critico nei confronti della politica. “Come si fa a voltare lo sguardo dall’altra parte se si ha di fronte una realtà così sconvolgente e drammatica? C’è una responsabilità gravissima per questa non azione, per questa incapacità di immaginare il futuro anche nelle problematiche che potrebbero presentarsi ed essere serissime. Se la pandemia dovesse scoppiare nel sistema carcerario impegnando migliaia di persone si rischierebbe una strage. E come pensano di fermarla? Portando i detenuti fuori dopo che sono malati, dopo che sono infetti”. Le questioni che pone De Rossi sono cruciali. “L’Italia è stata già severamente condannata e multata perché non garantiva gli spazi nelle carceri. Ora, oltre alle multe, rischia cause di servizio da parte delle vittime del Covid o dei loro parenti”. Liberare il più possibile le carceri appare l’unico segnale politico concreto. “Bisogna liberare chi ha solo un anno o due da scontare, ricorrere a misure alternative, evitare di tenere in cella chi da due o tre anni attende un processo dal quale magari verrà anche assolto” sottolinea De Rossi, evidenziando poi, da architetto e docente, l’importanza degli spazi all’interno di un istituto di pena. “Basta con provvedimenti furbeschi come la sorveglianza dinamica che tiene ammassati i detenuti nei corridoi fingendo di sanare il sovraffollamento nelle celle - dice De Rossi - È il momento di pensare, senza più rinvii, a un serio piano carceri modellato per i prossimi trenta o quarant’anni”. Tana liberi tutti di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2020 A edicole unificate, Roberto Saviano su Repubblica, Sandro Veronesi sul Corriere e Luigi Manconi sulla Stampa hanno scritto tre articolesse quasi identiche per unirsi per un paio di giorni allo sciopero della fame dei radicali e detenuti a favore di amnistia e/o indulto e/o altre tre misure svuota-carceri per “far uscire qualche migliaio di persone”: bloccare l’esecutività delle condanne definitive (cioè lasciare a spasso i nuovi pregiudicati); estendere a tutti i condannati, senza distinzioni di reati, la detenzione domiciliare speciale del dl Ristori (cioè mandare a casa anche i mafiosi e i terroristi, saggiamente esclusi dal governo); allungare la liberazione anticipata dagli attuali 45 giorni l’anno a 75 (cioè cancellare due mesi e mezzo da ogni anno di pena da scontare). Il tutto per scongiurare la presunta “strage” da Covid, con tanto di “condanne a morte” decise dal governo cattivo. I tre si dipingono come intellettuali scomodi, censurati ed emarginati dai media, alfieri di una battaglia che richiede “una grossa dose di coraggio”: infatti occupano tre pagine sui tre principali quotidiani italiani. Noi pensiamo che i detenuti, a parte le restrizioni previste dalla legge, debbano godere degli stessi diritti degli altri cittadini. Quindi, se davvero la situazione fosse l’apocalisse descritta dal trio, ci assoceremmo immantinente al grido di dolore. Per fortuna i dati - quelli veri, non i loro - dicono l’opposto: le carceri restano il luogo più sicuro, protetto e controllato del Paese: 5 morti da febbraio su 54.363 (contro i 29 reclusi morti in Gran Bretagna). E solo una mente disturbata può pensare di difendere i detenuti dal Covid mandandoli a casa (per chi ne ha una). Che, trattandosi di gente perlopiù povera, è di solito un ambiente altrettanto esiguo, promiscuo, sovraffollato, ma per giunta incontrollato. Già nella prima ondata i “garantisti” all’italiana strillavano all’”olocausto” nelle carceri, accusando il ministro Bonafede di non metter fuori nessuno, mentre altri geni gli imputavano di metter fuori centinaia di boss (che poi erano tre). Risultato: 3 morti da marzo a maggio e picco massimo di 140 contagiati sui 51mila detenuti di allora. Un’inezia, in rapporto ai dati nazionali. Del resto, bastava un po’ di buonsenso: contro un virus che si combatte con l’isolamento, chi è già isolato è avvantaggiato rispetto a chi non lo è; e rimetterlo in circolazione non riduce il rischio che si contagi, ma lo aumenta. Ora che la seconda ondata è più diffusa e uniforme in tutta Italia, anche le carceri ne risentono. Sugli attuali 53.720 detenuti (dati del 24 novembre: chissà dove Saviano ne ha visti “oltre 60mila”), i morti sono 3 e i positivi 826 (l’1,5% del totale). Di questi, 772 sono asintomatici, cioè non malati (93,5%), 32 paucisintomatici curati nelle strutture carcerarie e 22 sintomatici in ospedale. Poi ci sono gli agenti penitenziari: 970 positivi su circa 36mila, di cui 871 asintomatici (90%) e 99 sintomatici (10%). Ma sommarli ai detenuti, come fanno i tre tenori per raddoppiare i positivi in carcere, non ha senso, perché gli agenti positivi non mettono piede in carcere: 941 sono isolati in casa (97%), 19 in caserma e 10 in ospedale. Idem per il personale amministrativo e dirigenziale (72 positivi). Chi conosce i dati sul Covid (quelli veri) noterà la percentuale enorme di positivi asintomatici in carcere (93,5%) rispetto a chi sta fuori (55-60%). Il perché è presto spiegato: in carcere chiunque entri per iniziare la detenzione (“nuovo giunto”) viene sottoposto a tampone, resta isolato per 10-14 giorni e va in cella con gli altri solo dopo il secondo test negativo; per chi invece è già lì, appena si scopre un positivo scatta il tampone per tutti gli ospiti dell’istituto. Quindi la copertura di screening è pressoché totale, cosa che ovviamente non avviene per chi sta fuori: su 60 milioni di italiani, ogni giorno ne vengono testati 200-220 mila, spesso gli stessi che fanno il secondo tampone o più coppie di test. Il che rende ridicola la tesi del trio Saviano-Veronesi-Manconi, secondo cui si rischia il Covid più dentro che fuori. È vero il contrario: su 51mila detenuti, l’indice di positività è dell’1,5%, mentre sui 220-200 mila cittadini liberi testati al giorno è dell’11-12% (che sale addirittura al 23-24 escludendo i secondi tamponi e quelli ripetuti dagli stessi soggetti). Il che smentisce platealmente la tesi di Saviano-Veronesi-Manconi. È falso che le carceri registrino “un tasso di infetti circa 10 volte superiore a quello, già pesante, che c’è fuori” (Veronesi), anche perché nessuno sa quanti siano i positivi fuori. Ed è falso che il governo - in particolare Bonafede e il Dap - se ne freghi per “indifferenza”, “ottundimento”, “paralisi”, “disumanità” e sadica sete di “tortura”. Anzi i protocolli finora adottati, con i test, i triage, gli isolamenti hanno circoscritto i contagi. E il sovraffollamento endemico delle carceri (che dipende dalla carenza di posti cella in rapporto al numero dei delinquenti, non certo da un eccesso di detenuti, il cui numero è inferiore alle medie europee) è stato alleviato senza tana liberi tutti, ma con misure equilibrate: la semilibertà prolungata (chi deve rientrare la sera dorme a casa) e la detenzione domiciliare speciale (con braccialetto elettronico per i casi più gravi, esclusi mafiosi e altri soggetti pericolosi). Se i numeri cambieranno, ne riparleremo. Per ora l’unica strage in corso nelle carceri è quella della verità. In carcere studia, ma che futuro attende chi si laurea in cella? di Viviana Lanza Il Manifesto, 29 novembre 2020 L’università Federico II è entrata in carcere per garantire il diritto allo studio, ma cosa fanno per i detenuti le altre istituzioni in Campania? C’è un burrone dopo lo studio in cella e manca un ponte tra il mondo fuori e quello dietro le sbarre. Tra i detenuti iscritti a Scienze erboristiche e scarcerati nell’ultimo anno, nessuno ha proseguito gli studi nonostante i docenti del Polo universitario federiciano abbiano dato massima disponibilità. Il problema è che spesso il mondo fuori non concede alternative e non dà concretezza a una seconda possibilità. Chi esce di prigione torna, il più delle volte, nel proprio ambiente di origine dove l’impegno universitario viene ostacolato più che incoraggiato e dove la necessità di trovare un lavoro per vivere diventa l’unica esigenza da soddisfare. L’Italia ha il più alto numero di iscritti all’università, ma il minor numero di laureati in Europa e in carcere il diritto allo studio è garantito in 75 istituti penitenziari su 190. Ci sono 69 detenuti laureati e 514 diplomati, ma anche più di 390 analfabeti. A Napoli il Polo universitario penitenziario della Federico II, all’interno del carcere di Secondigliano, è una delle esperienze più virtuose di sinergia tra le istituzioni università, provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e direzione dell’istituto di pena. Ed è un progetto su cui il rettore Matteo Lorito, di recente eletto alla guida dell’università Federico II, e la professoressa Marella Santangelo, responsabile del Polo, hanno promesso di continuare a investire: il Polo universitario per le detenute donne è già un progetto concreto, quello minorile rivolto ai reclusi più giovani è un’idea a cui si sta lavorando e una maggiore sinergia tra studenti fuori e dentro il carcere è uno step solo rimandato a causa della pandemia. Resta, tuttavia, il nodo legato alle opportunità una volta fuori dal carcere di cui si è discusso in occasione della Notte dei ricercatori. Quel “ponte tra dentro e fuori” di cui parla Nello, detenuto del carcere di Secondigliano e studente in Scienze erboristiche. “Siamo studenti come altri - dice intervenendo alla Notte dei ricercatori per la prima volta aperta anche agli studenti che vivono reclusi negli istituti di pena - Uno scambio farebbe bene sia a noi sia a chi sta fuori e non conosce il carcere, per abbattere i pregiudizi che ancora ci sono sul carcere”. “L’opinione pubblica ci guarda sempre con pregiudizio e la politica pensa più alle prossime elezioni che alle prossime generazioni” dice Alessandro, studente detenuto. “L’università in carcere è come una cattedrale nel deserto” osserva Diego che in cella studia Economia e Commercio. “Studiare in carcere serve ad accrescere il proprio bagaglio culturale ma rischia di essere qualcosa fine a se stesso se una volta fuori non si riesce a metterlo in pratica” commenta Sebastiano, detenuto e studente al terzo anno di Giurisprudenza. L’inserimento lavorativo è una nuova sfida. “Partendo dalle criticità di oggi si può puntare più in alto - sottolinea la professoressa Santangelo - Non devono esserci lauree di serie A e lauree di serie B”. Lo studio in carcere non è solo una bella storia. “È parte della nostra missione - ribadisce il rettore Lorito. Ogni laureato per noi è importante, porta evoluzione sociale. Andremo avanti con questo progetto, abbiamo le risorse per farlo”. L’obiettivo per il futuro è un ulteriore salto di qualità. “E mandare a sistema la programmazione” aggiunge la direttrice del carcere di Secondigliano, Giulia Russo. “Lo studio in carcere è ancora a macchia di leopardo, bisognerebbe estenderlo a più istituti di pena - osserva il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello - Solo con la cultura si può garantire al detenuto il diritto a ricominciare, a ricostruire, a ricollegarsi con la società” Il Covid ferma la Carovana di don Mazzi: “Ma non ci arrendiamo” di Franco Taverna* Corriere della Sera, 29 novembre 2020 Il nuovo progetto di Fondazione Exodus pensato per minorenni che devono scontare una pena si sperimentare le regole di convivenza, facendo musica e teatro, camminando dalle Alpi al mare e imparando anche ad andare in barca a vela. Il giorno 23 ottobre tutti i componenti della “Carovana Pronti, Via!” di Exodus (progetto selezionato da Con i Bambini), educatori e ragazzi, si sono sottoposti al tampone dopo che nei giorni precedenti si erano manifestati alcuni sintomi preoccupanti nel gruppo. Risultato: 9 persone positive su 13. Fino a quel giorno la pandemia era un racconto pure terribile ma separato dalle nostre storie, la burrasca stava fuori, alla radio, ora improvvisamente occupava tutto in maniera confusa. La Carovana è una avventura senza rete e l’impatto del virus faceva vacillare le poche sicurezze che come gruppo e come individui si erano conquistate nei primi tre mesi di fatica, di cambiamento di progressi personali. Come se si fosse spenta di colpo la luce ci siamo trovati investiti dal dubbio su cosa fare, ma prima ancora da un vago senso di colpa. Forte tensione e disorientamento. Nel nostro compito di educatori proviamo a darci due dritte per rimanere a galla. Per prima cosa diciamo che non si può negare la situazione, scappare o far finta di niente, serve invece saper stare nell’incertezza. Ma anche stare nella noia, stare fermi, cosa che sembra impossibile per Andrea, che da quando era piccolo non è mai riuscito a stare al banco in classe e per questo motivo ha accumulato una serie di sospensioni. È il primo passo ed è indispensabile. Non si può vivere trattenendo il fiato finché passi la tempesta, stare sospesi maledicendo tutto e tutti aspettando di riprendere le vecchie abitudini come crede di fare subito Jack, inseguendo una sicurezza che non esiste, cercare di trovare espedienti per cavarsela alla meglio. Stare nell’incertezza significa saper accettare il peso del dubbio, significa non attendersi solo dagli altri la ricetta giusta su come agire. Il secondo passo consiste nel saper attraversare l’incertezza. Non si sta seduti aspettando che piova. L’incertezza si affronta camminando. E quando non si può camminare con le gambe si deve camminare con il cuore e con la testa. Qui, specialmente per i ragazzi partecipanti ma anche un po’ (tanto) per tutti noi, attraversare l’incertezza vuol dire affrontare quei piccoli o grandi ostacoli interiori che ci bloccavano alcune importanti relazioni, e ci si illudeva di procedere riempiendo le giornate di impegni e di rumori. Ma c’è Mourad che vive nella periferia di un grosso paese e che sa bene che non appena atterrato a casa gli ronzeranno intorno i suoi vecchi amici dai quali non è capace di prendere le distanze. E anche Paolo che è sempre in chat non riesce ancora a scrollarsi di dosso la maschera del bullo. Stare in quarantena per questi “nostri” ragazzi è una prova difficile, costretti gomito a gomito con dinamiche mai risolte, gli educatori lo sanno ed è indispensabile mantenere viva una relazione positiva, essere pronti a sostenere. Ma dobbiamo affrontare i divieti, le regole, siamo tornati in Lombardia, zona rossa. Sembra tutto in salita ma rimaniamo educatori con il dovere di continuare a seminare e sperare. *Fondazione Exodus Il rumore del carcere è il rumore del ferro. Spettacolo e progetto Avvenire, 29 novembre 2020 Iniziativa dell’associazione Ti con Zero tra narrazione, arte e viandanze. È una questione di tempo. Rallentato, allungato, dilatato. Minuti che si trasformano in ore, giorni in mesi, anni in generazioni. Un tempo così vuoto e così lento da fermarsi. Vite immobili consumate in surplace. È quello che, tutti, oggi, un po’, almeno un po’, stiamo vivendo nel confinamento, nell’isolamento, nella solitudine, nella clausura. E che dà un’idea, per quanto superficiale e approssimativa, della dimensione psichica di chi viene privato della libertà. Gabriele Benedetti, attore e autore di spettacoli teatrali (e anche televisivi e cinematografici) da trentun anni (“Meno uno, l’ultimo, rimasto sospeso, anch’esso immobile e consumato in surplace”), per obbedire ai provvedimenti contro la diffusione del Covid-19, ha tradotto la performance “live” in un video “costruito”: “Il rumore del carcere è il rumore del ferro”. Tema, argomento, materia: la solitudine. “Il luogo è diventato l’ex manicomio di Udine, nelle sue parti più abbandonate ma agibili, i padiglioni femminili, le celle segnate dal degrado. I testi sono quelli dei detenuti, un viaggio dentro, nel profondo, nell’intimo”. Non è nuovo, Benedetti, a lavori che scavano in chi è stato spogliato e chiuso. “Tre anni fa, nel carcere di massima sicurezza a Tolmezzo, uno spettacolo con i detenuti - ricorda -. C’erano 14 cancelli che separavano corridori e garitte. E 14 orologi che scandivano e sillabavano il tempo. I 14 cancelli aperti e subito sprangati. E i 14 orologi fermi, ma tutti a orari diversi. I 14 cancelli, con quel clangore metallico di chiavi. E i 14 orologi, muti”. Ancora Benedetti: “Ai detenuti domandai che cosa volessero da quello spettacolo. La risposta all’unanimità: allegria”. “Il rumore del carcere è il rumore del ferro” è dedicato a Maurizio Battistutta: “Da volontario a garante dei diritti umani dei detenuti, fondatore dell’associazione Icaro, morto nel 2017. Lui voleva restituire dignità, rispetto, il giusto senso dello scorrere del tempo”. E fa parte di “Alla fine della città”, il progetto triennale dell’associazione Ti con Zero tra narrazione, arte e viandanze, fino al 30 novembre, stavolta - causa Covid-19, in versione digitale, con video e tutorial, incontri virtuali e racconti radiofonici. Il primo anno c’è un verbo che coniuga le diverse iniziative: accendere. Accendere un gesto, un’idea, un’emozione, un registratore, un territorio. Nel caso dell’opera di Benedetti, accendere una luce. Tutti vanno difesi: il dogma che salva l’intera democrazia di Errico Novi Il Dubbio, 29 novembre 2020 Nel mirino dei giustizialisti, dietro i “mostri” dei reati violenti, c’è in realtà il principio di rappresentanza. Scrisse una mail al Dubbio. Dopo quasi un anno e mezzo possiamo raccontarlo. L’avvocato di Rosario Greco, l’uomo alla guida del suv che falcidiò i piccoli Alessio e Simone, si vide assediato dall’indignazione dei suoi stessi colleghi. Dopo la devastante tragedia dei due bimbi falciati a Vittoria, in Sicilia, il penalista dovette fare i conti con l’estremo auspicio di diversi esponenti dell’avvocatura ragusana, e non solo, che nessuno fosse disposto a difendere Greco. Lui, quasi con timidezza, arrivò a ringraziare il Dubbio che aveva affrontato in un articolo l’impossibilità di subordinare il diritto di difesa a qualsivoglia eccezione: “Il vostro commento, da solo, è stato sufficiente a restituirmi quella serenità professionale che parte dell’opinione pubblica e alcuni colleghi hanno cercato di mettere in discussione”, scrisse. Ebbene, la questione non riguarda solo il codice deontologico, che lascia al difensore la libertà di sottrarsi a uno specifico patrocinio. Casomai si tratta di comprendere il valore politico e civile della battaglia per il diritto di difesa, che poi è la missione straordinaria caduta sulle spalle dell’avvocatura in questo tempo paradossale. Da anni in circola in Italia un virus, forse meno mortale di quello che speriamo venga debellato presto ma non meno devastante: il giustizialismo. Nel rifiutarlo, nel battersi affinché anche al più feroce dei “mostri” venga assicurato il diritto alla tutela in giudizio, l’avvocatura non esalta solo il valore della propria funzione: rende un solenne omaggio alla democrazia. Massacrare l’indagato o l’imputato, negare il diritto di difesa, se non di parola, al farabutto, al farabutto potente, è la malattia che delegittima la politica, e che così disarma i cittadini al cospetto di altri poteri. È, in ultima analisi, il segreto dell’anticasta. Il populismo anticasta è proprio fatto di questo: di delegittimazione preventiva della classe politica, realizzata attraverso il pregiudizio sulla sua necessaria e intrinseca disonestà. L’intera democrazia rappresentativa: ecco il vero bersaglio. Di volta in volta condannata dal caso singolo del presunto corrotto. Poi, per estensione, l’ignominia della colpevolezza “a prescindere”, che non richiede processi, è estesa anche ad altre tipologie di indagati. A persone accusate di reati che non c’entrano con la politica, la pubblica amministrazione o la corruzione. Ma in fondo il giustizialismo panpenalista che criminalizza i presunti responsabili di omicidi, come i presunti autori di altri reati violenti, rappresenta solo un riverbero di quella caccia alle streghe tutta rivolta verso la politica e le istituzioni. Una tempesta d’odio e di ansia punitiva perfettamente in grado di spogliare le istituzioni della loro autorevolezza. Di spianare un deserto in cui sciamano altri poteri, non controllabili attraverso il principio di rappresentanza. Nella meccanica feroce del giustizialismo, l’avvocatura è l’unico granello di sabbia in grado di far saltare l’ingranaggio. Perché l’avvocatura, con le proprie battaglie, incide sullo snodo decisivo in cui tutto il marchingegno populistico- giustizialista può finire sbriciolato: il diritto di difesa. Se spetta a tutti, non ci sono “colpevoli a prescindere”, ma solo presunti innocenti. E se tutti, prima del processo, sono presunti innocenti, la menzogna della casta cattiva o dei mostri infiltrati come alieni nella comunità degli onesti cade come un castello di carte false. Certo, l’avvocatura deve fare i conti con pericoli. Con minacce. Favorite dal web, dal suo linguaggio apodittico, dalla sua dialettica senza regole. Ne sanno qualcosa professionisti come quelli che a Pomezia hanno assunto la difesa dei presunti omicidi di Willy, il ragazzo morto col torace sfondato dalle botte per aver detto “ah”. Quei penalisti sono stati minacciati di morte. Non sono certo i primi. E in casi simili la battaglia degli avvocati deve farsi più intensa, ed è più difficile. Perché la gravità delle accuse, e delle condotte eventualmente accertate da un processo, è carburante per i professionisti della giustizia sommaria. Vale lo stesso nei casi in cui il penalista assiste indagati o imputati di mafia: casi in cui pure si realizza l’assurda e perfida sovrapposizione tra la figura dell’avvocato e il reato contestato al suo cliente: è l’arma letale dei giustizialisti. Ma nelle loro mani, gli avvocati hanno un’altra arma, forse imbattibile: i secoli di civiltà dietro le loro spalle, la forza della ragione su cui si basa il principio della democrazia e del rispetto dei diritti. L’avvocatura ha la missione di restituire ai cittadini la civiltà del diritto, e con essa, in ultima analisi, il principio di rappresentanza su cui si basano le nostre democrazie, la verità delle nostre stesse vite. Offese di Morra alla Santelli. Nordio: “Lascio l’Antimafia” di Paolo Calia Il Gazzettino, 29 novembre 2020 Quelle parole non potevano lasciarlo indifferente. Ha aspettato che qualcosa accadesse, che ci fosse un vero ravvedimento, poi ha deciso di prendere in mano la situazione. E durante un’intervista a Radio Radicale l’ex giudice Carlo Nordio è stato molto chiaro: “Sto pensando di dare le dimissioni dal ruolo di consulente della commissione parlamentare antimafia perché non me la sento di frequentare una Commissione presieduta da una persona che si è espressa come si è espressa su Jole Santelli”. Qualche ora dopo riduce lo spazio del dubbio: “Magari sono stato troppo impulsivo ad anticipare la mia decisione alla stampa. Ma ormai è presa. La confermerò anche davanti alla commissione. Se invece l’attuale presidente decidesse di lasciare il suo incarico, allora cambierebbe tutto”. Il suo obiettivo è Nicola Morra, senatore eletto tra le fila del Movimento 5 Stelle, presidente della commissione, che qualche giorno fa ha sollevato un vespaio parlando di Jole Santelli, governatrice della Calabria morta il 15 ottobre scorso per un tumore. “Il mio è un rimprovero - aveva detto Morra - sarò politicamente scorretto, ma era noto a tutti che la presidente della Calabria Santelli fosse una grave malata oncologica. Umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli, politicamente c’era un abisso. Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev’essere responsabile delle proprie scelte: hai sbagliato, nessuno ti deve aiutare, perché sei grande e grosso”. Concetti ruvidi, criticati aspramente da tutti, letti come un attacco ingiustificato verso una persona fiaccata dal male ma, nonostante questo, ancora così forte da accettare la sfida di guidare una regione a dir poco difficile. Morra si era poi scusato per essere andato così oltre le righe, ma non si è dimesso dal suo incarico come invece gli veniva chiesto da più parti. E Nordio adesso vuole andarsene, non tanto come segno di protesta, ma per rispetto. I suoi principi, la sua storia di magistrato e giudice che ha lottato a lungo contro la malavita organizzata, quasi glielo impongono. E le dimissioni non date di Morra sono un peso insopportabile: “Se Morra si debba dimettere o meno è affare della sua coscienza - sottolinea - ma io sono rimasto addolorato e sbalordito da quelle parole, insensate. “Non potrei stare allo stesso tavolo con lui”. E poi ricorda i suoi rapporti con la Santelli che, prima di prendere in mano le redini di una fetta d’Italia così complessa come la Calabria, è stata parlamentare occupandosi di Giustizia: “Quando presiedevo la commissione per la riforma del codice penale - ricorda Nordio - e frequentavo il ministero della giustizia, pur continuando a fare il magistrato a Venezia, avevo avuto rapporti molto frequenti con l’onorevole Santelli, che era sottosegretaria alla Giustizia. Era diventata quasi un’amica e la consideravo una grande professionista e una bellissima persona”. E le parole corrosive di Morra lo hanno colpito: “La sua morte così drammatica e in un’età così giovane mi ha addolorato - ammette - e mi ha addolorato sentire il presidente della commissione antimafia pronunciarsi in modo cosi improprio”. Una presa di posizione così forte non poteva passare inosservata. L’eventualità che una personalità come Nordio possa lasciare la commissione Antimafia ha alzato la tensione. E dato nuova forza a chi ha già da tempo messo Morra nel mirino. Per esempio Matteo Salvini, leader della Lega. Il numero uno del Carroccio ha preso la palla al balzo per impallinare nuovamente il senatore pentastellato: “Le vergognose parole di Morra su Jole Santelli e sui malati oncologici avrebbero dovuto provocare le dimissioni immediate del presidente della Commissione Antimafia”, attacca. Poi ci mette il carico da novanta: “Invece lui resta aggrappato alla poltrona alimentando un imbarazzo che ferisce le istituzioni e favorisce i clan. E ora rischiamo di perdere una personalità come Carlo Nordio che medita di lasciare il ruolo di consulente Antimafia. Morra è una sciagura che si fa scappare un magistrato esperto e specchiato, si dimetta immediatamente. Meno Morra, più Nordio”. Campania. Covid in carcere, 158 i detenuti positivi nelle carceri regionali ottopagine.it, 29 novembre 2020 L’allarme del Garante Ciambriello: “Nessuna tutela, non ci sono mascherine e disinfettanti”. Secondo gli ultimi dati raccolti, I detenuti positivi al Covid 19 nella regione Campania sono 158 di cui 89 a Poggioreale su una popolazione di 2091 detenuti, 65 a Secondigliano su 1.186 detenuti, 3 a Benevento, 1 a Salerno. I detenuti positivi che si trovano ricoverati presso presidi ospedalieri esterni sono 3, di cui uno in gravi condizioni. Tra polizia penitenziaria, personale amministrativo e sociosanitario ci sono 218 positivi. Il Garante delle persone private della libertà personale della Regione Campania, Samuele Ciambriello dichiara: “Mentre si consuma la falsa credenza che il carcere sia il luogo più sicuro per non contagiati dal Covid 19, l’epidemia, causa sovraffollamento e promiscuità, malattie croniche e ambienti non igienizzati né sanificati, dilaga tra gli “invisibili”. “Quasi da nessuna parte dispenser nei corridoi o davanti alle celle, poche mascherine - fa sapere ancora il garante. Non vengono distribuiti ai detenuti prodotti igienico sanitari, tra i quali l’amuchina, per sanificare stanze, scale e ambienti. C’è bisogno di darsi una svegliata, dalla politica alla società civile. Il Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria ha lasciato soli i suoi dirigenti ed operatori penitenziari. Occorrono subito provvedimenti del Governo, delle Procure e dei magistrati di sorveglianza. Il carcere non è una discarica sociale! Occorre superare l’omertà del silenzio e andare oltre le mura dell’indifferenza.” conclude Ciambriello. Lazio. Progetto europeo Conscious contro la violenza sulle donne: l’evento finale es-com.it, 29 novembre 2020 La prevenzione della violenza di genere: è un diritto esigibile? La rete intersistemica - il trattamento degli autori di violenza per la riduzione della recidiva. Il prossimo 16 dicembre 2020 alle ore 14.00 è in programma la conferenza conclusiva di Conscious, il progetto per introdurre in ambito carcerario ed extra carcerario un modello di trattamento e supporto, finalizzato alla riduzione della recidiva per gli autori di abusi sessuali e violenza domestica che vede come capofila il Dipartimento di salute mentale e patologie da dipendenza della Asl di Frosinone, in partenariato con il Garante dei detenuti del Lazio, e in partnership con il Centro nazionale studi e ricerche sul diritto della famiglia e dei minori e la Wwp (European network for the work with perpetrators of domestic violence), l’organizzazione internazionale che raggruppa 64 membri in 32 paesi, impegnati nel contrasto alla recidiva. In fondo alla pagina sono indicati i link per scaricare alcuni outputs di progetto. È prevista la partecipazione dell’assessore alla Salute della Regione Lazio, Alessio D’Amato, dell’assessora alle Pari opportunità, Giovanna Pugliese, il Garante dei detenuti, Stefano Anastasìa, la direttrice generale della Asl di Frosinone, Pierpaola D’Alessandro e il direttore del direttore di dipartimento di salute mentale della stessa Asl, Fernando Ferrauti, e la direttrice del carcere di Frosinone, Teresa Mascolo. A illustrare i risultati dei trattamenti realizzati presso le carceri di cassino e Frosinone, interverranno Antonella D’Ambrosi e Nicola De Rosa. Ci si potrà iscrivere entro il 15 dicembre 2020 compilando l’apposito form online. Gli organizzatori fanno sapere che durante la conferenza conclusiva sarà possibile interagire mediante la chat. Le domande saranno selezionate, per la discussione finale. Nel corso dell’evento conclusivo saranno illustrati il modello di intervento, i risultati ottenuti e le lezioni apprese. L’obiettivo degli attuatori del progetto è quello di contribuire allo sviluppo e alla diffusione di un approccio intersistemico che sintetizzi i diversi vertici di osservazione e intervento - clinico, criminologico, socioeducativo, avviando programmi di prevenzione della recidiva delle condotte lesive e violente e stimolare il dibattito tra governo regionale e nazionale, le istituzioni carcerarie e sanitarie, i professionisti e la rete no profit, e che vengano condivise responsabilità, strategie e future iniziative europee. Guarda il video sul canale youtube dedicato: https://youtu.be/19f2lIy6WW0 Conscious Project - Conscious, co-finanziato dal programma europeo Diritti Uguaglianza e Cittadinanza, introduce in ambito carcerario ed extra carcerario, un modello di trattamento e supporto, integrando attività trattamentali, percorsi di rieducazione e reinserimento sociale nonché attività d’aggiornamento per operatori. Capofila è la ASL Frosinone, Dipartimento Salute Mentale e Patologie da Dipendenza, in partenariato con il Garante dei Detenuti del Lazio, con l’European Network for the Work with Perpetrators of Domestic Violence e il Centro Nazionale Studi e Ricerche sul diritto della Famiglia e dei Minori. Operatori di polizia penitenziaria, amministratori penitenziari, educatori, operatori Uepe, personale ASL e i rappresentanti delle istituzioni associate, hanno preso parte ad attività di formazione e capacity building, di apprendimento reciproco e all’implementazione di protocolli e metodi di lavoro. Protocolli d’intesa sono stati siglati tra gli attori della rete. Nelle attività di trattamento sono stati coinvolti detenuti sex offenders e colpevoli di maltrattamenti in famiglia detenuti presso la casa circondariale di Cassino e Frosinone, mentre un servizio esterno è attivo presso l’ASL di Frosinone per perpetrators ex detenuti o sottoposti a misure alternative segnalati all’ASL dal Tribunale di Sorveglianza o dagli avvocati. Attraverso le attività previste nel programma di trattamento specialistico, le relazioni di sostegno e la possibilità di sperimentare modalità di giustizia riparativa con un piano di reintegrazioone sociale, gli autori di reato potranno acquisire strumenti concreti per la gestione del proprio comportamento ed un migliore controllo degli impulsi violenti riducendo il rischio di commettere nuova violenza. Il progetto prevede, tra l’altro, la realizzazione di un impact assessment economico-finanziario derivante dall’applicazione del modello al contesto locale e uno studio sulla replicabilità a livello europeo. Un gruppo di esperti sta valutando l’impatto degli interventi previsti in termini di riduzione del rischio di recidiva per i detenuti trattati. Un ampio network europeo rappresentato da WWP En e la Regione Lazio svolgono l’attività di comunicazione e disseminazione dei risultati del progetto che ha visto già lo svolgimento di 3 infodays, 1 networking meeting, 2 conferenze, 1 workshop internazionale. Core del progetto è la replicabilità del servizio trattamentale a beneficio dei detenuti/perpetrators nonché la continuazione dei trattamenti anche al di fuori del carcere. Rovigo. Nel carcere cittadino i detenuti AS del Triveneto con il Covid-19 rovigooggi.it, 29 novembre 2020 La Fp-Cgil Penitenziari lancia l’allarme, a Rovigo in arrivo detenuti di “alta sicurezza” con il coronavirus, ma non ci sono sufficienti agenti della polizia penitenziaria, inoltre l’infermeria non ha il personale operativo h24, e non è l’unico problema. Problema cronico di personale, accentuato da un piano operativo per la prevenzione e il contenimento emergenza sanitaria Sars - Covid-19 negli Istituti Penitenziari del Triveneto, che vede Rovigo e Trento come strutture di detenzione per i positivi. Lo ha appreso la Fp Cgil che chiede un intervento del Prefetto e del Sindaco di Rovigo, affinché il piano non sia calato all’interno del carcere di Rovigo, senza una valutazione più approfondita da parte del Prap di Padova. Carcere che deve necessariamente avere dei locali adibiti ad infermeria, con un sistema assistenziale h24, dove all’interno degli stessi vi possono essere collocati detenuti positivi al Covid-19. “A Rovigo i reparti non hanno una divisione netta - sottolinea Fp Cgil - come indicherebbe il protocollo anti Covid. Uno è diviso da due cancelli divisori, dove nel mezzo vi è un’unica rotonda. Altra cosa in comune tra i due reparti sono le vie d’ingresso, poiché i poliziotti e gli infermieri salgono e scendono per la stessa scala, quindi ci si trova che chi svolge servizio all’interno del reparto Covid sale o scende con chi svolge servizio nel reparto non Covid”. La situazione di mancanza di personale nella Casa Circondariale di Rovigo, con l’assegnazione di ulteriori detenuti di “alta sicurezza” (reati gravi, ndr), positivi al Covid-19, provenienti da altri carceri del Triveneto, comporta un impiego maggiore, rispetto all’attuale, di unità di polizia penitenziaria nei vari turni di servizio peri assicurare la vigilanza. “Da non perdere di vista è il numero dei poliziotti penitenziari positivi al Covid - sottolinea la Fp Cgil - che attualmente sono 7, ma possono aumentare. Una situazione così appena rappresentata incide negativamente sul buon andamento del servizio, come già incide negativamente il numero di personale che frequenta corsi universitari, ben 19 unità, e personale che fruisce di Legge 104/92, sono 9 unità. Sommate tutte queste situazioni e con l’aggiunta di detenuti positivi ad alta sicurezza, minando i diritti minimi del personale restante, è facile capire che non verranno sempre garantiti, anzi. Esiste anche il problema dei tamponi da far svolgere a tutto il personale del carcere, spinoso problema poiché essi vengono svolti con ritardo, circa due mesi tra un tampone e l’altro, anche per i detenuti”. Ma non è tutto. “Il personale infermieristico non è garantito nell’arco delle 24 ore. Mancano apposite apparecchiature di ventilazione qualora il paziente abbia difficoltà respiratorie. Va anche in questo caso evidenziato che l’Ospedale di Rovigo, rispetto ad altre strutture, risulta essere insufficientemente attrezzata a contenere al proprio interno reparto covid, detenuti classificati “AS”. Questo pone il problema del piantonamento da parte del personale della polizia penitenziaria”. Viterbo. Carcere Mammagialla: detenuti in protesta contro il sovraffollamento di Simona Tenentini lamiacittanews.it, 29 novembre 2020 Sciopero della fame e scodelle contro le sbarre. I detenuti protestano contro il sovraffollamento delle carceri e l’aumento dei positivi nelle celle dove si sta tutti stipati, in spazi ristretti. Un quadro altamente preoccupante, che riguarda tutto il Lazio. I detenuti in sciopero della fame. Di sera battono pentole e scodelle contro le sbarre della cella, per far sentire la loro protesta al mondo libero. Oppure rifiutano il cibo del carcere per urlare la loro rabbia e chiedere diritti e sicurezza contro il Covid. Che ormai ha portato a nudo il problema cronico delle carceri laziali: il sovraffollamento nelle celle. I detenuti protestano a Regina Coeli e Rebibbia, a Latina e adesso anche nel carcere di Viterbo, dove oltre alla battitura (le proteste con pentole e scodelle) stanno rifiutando il vitto e lo donano alla Caritas: accettano solo zucchero, caffè, acqua e tabacco, e due rappresentanti per ogni sezione del carcere viterbese sono entrati in sciopero della fame. Al ministero dell’interno l’allarme è rosso: si sta tornando al punto di non ritorno di marzo, quando le proteste infiammarono le carceri del paese. In tutto sono poco più di 30 i detenuti positivi nel Lazio ma si tratta solo dei casi accertati: il timore, fondato, è che ce ne siano altri. Il virus è entrato di nuovo dentro il carcere dove la sua diffusione è facilissima. Anche le visite sono in sostanza sospese: niente volontari né familiari. Gli occhi della polizia penitenziaria sono puntati sulle carceri più affollate: il carcere di Viterbo ha 440 posti ma 513 detenuti: difficile convivere in cella, rispettare i turni per farsi una doccia o curarsi dal medico o telefonare alla famiglia. Ed è impossibile mantenere il distanziamento. “I detenuti manifestano in maniera non violenta - spiega il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia - chiedono la riduzione del sovraffollamento: speriamo che le Camere potenzino le misure alternative. Come ha indicato il procuratore generale Salvi, occorre ridurre gli ingressi in carcere ai casi gravi e potenziare la rete di accoglienza dei detenuti con pene brevi”. Ascoli. Carcere e Covid, quali i cambiamenti? di Stefano Bernardi picenonews24.it, 29 novembre 2020 Il Garante dei detenuti: “Carenza di personale, videochiamate ed un nuovo progetto”. La pandemia ha stravolto la nostra quotidianità, ma esistono dei luoghi in cui questi cambiamenti hanno una ricaduta estremamente più fragorosa. La Casa Circondariale del Marino del Tronto è sicuramente uno di questi. In quest’ottica, abbiamo contattato il Garante regionale dei diritti della persona, Andrea Nobili, anticipando la sua visita presso il carcere, calendarizzata per lunedì. “Innanzitutto, ad oggi, possiamo dire che non si riscontrano casi di positività tra i detenuti - afferma Nobili -, lo stesso non lo possiamo affermare per gli operatori, che hanno una propria vita privata fuori. Qualche caso c’è stato. Il tutto viene svolto con un monitoraggio meticoloso, ma che ha comportato una compressione dei diritti dei carcerati. La casa circondariale ha al suo interno circa 130 detenuti, con 40 che provengono dal “rivoltoso” istituto penitenziario di Modena. E’ anche presente, nel computo totale, una buona parte di persone di nazionalità straniera. Questo mi permette di toccare una tematica importante: la struttura di Ascoli ha la peculiarità di avere molti carcerati fuori Regione. Ciò, naturalmente, ha delle ricadute sulle visite familiari - modalità che è mutata, ma ne parleremo più avanti. Nella struttura ascolana, da ben prima dello scoppio della pandemia, non sono più presenti i detenuti sotto regime carcerario disciplinato dall’articolo 41bis. Al tempo stesso, la struttura del Marino, fu progettata per accogliere prevalentemente quella tipologia di detenuti, guadagnandosi l’appellativo di carcere di “massima sicurezza”. Ora, quegli spazi, pensati per chi ha pochissimi “diritti”, sono riservati ad un’altra tipologia di detenuti, comportando non pochi lamenti da parte degli stessi. Le disposizioni nazionali valgono anche all’interno del carcere, soprattutto quando si è chiarito che la visita, presso un Comune diverso dal proprio, ad un familiare non è motivo lecito per lo spostamento. Tutto ciò vuol dire una riduzione della fascia preposta per questo tipo di attività. Per permettere un contatto con i propri cari si è ricorsi alle videochiamate via Skype o telefono. L’unica via che potesse rispettare i dettami vigenti ed il contatto coi parenti. Anche i vari laboratori sono sospesi. L’attività rieducativa ha sempre avuto un ruolo preminente nel regime di carcerazione, che deve tendere sempre al “reinserimento sociale”, costituzionalmente garantito. Anche Ascoli, come quasi tutte le strutture nazionali, soffre per la carenza di personale. Nella fattispecie: operatori della Polizia Giudiziaria, educatori e, soprattutto, la figura dello psicologo o psichiatra. Molti dei detenuti soffrono di malattie psicologiche, meritando particolare attenzione e particolari cure”. È anche notizia recente la firma del protocollo d’intesa. Questo avrà come obiettivo l’utilizzo dei carcerati in lavori di pubblica utilità ed a bassa responsabilità. “Recentemente è avvenuta questa firma - continua Nobili -. Rispetto a questo tema specifico, deve essere riconosciuto il merito al procuratore generale Sottani, il primo a caldeggiare ed attivarsi per questo piano. “Mi riscatto per il futuro” è un progetto che vedrà l’utilizzo dei detenuti per lavori di manutenzione ordinaria degli uffici, per attività di front-office, cura delle aree verdi di pertinenza delle sedi giudiziarie. È un disegno che verterà sull’attuazione piena dell’articolo 27 della Carta Costituzionale, favorendo progetti animati da uno scopo di “reinserimento sociale”. Ma avrà anche una importante ricaduta sociale su chi, nel carcere, non è mai entrato”. Torino. Stasera pizza o teatro, andiamo al carcere minorile di Pierfrancesco Caracciolo La Stampa, 29 novembre 2020 Parte il progetto per creare un teatro e una pizzeria all’interno del Ferrante Aporti. L’idea finanziata con il crowdfunding. Sarà un teatro di quartiere, aperto a tutti. Ma sorgerà all’interno del Ferrante Aporti, il carcere minorile in via Berruti e Ferrero, quartiere Lingotto. Sarà realizzato in un salone dell’istituto penitenziario, ampio 150 metri quadrati, con ingresso dedicato, che sarà ristrutturato e riadattato con l’aiuto dei detenuti. E saranno loro a gestirlo, quando tutto - palco, quinte, muri insonorizzati - sarà pronto. È il progetto Wall Coming dell’associazione Aporti Aperte, che da quindici anni opera in favore dei minori ristretti. È partito a settembre, selezionato in una call di Bottom Up, il Festival dell’architettura. Per realizzarlo occorrono 80 mila euro: i primi 17 mila sono stati raccolti in due mesi con un crowdfunding completato nei giorni scorsi, cui la Fondazione per l’architettura ha dato un robusto contributo (più di 10 mila euro). L’obiettivo, Covid permettendo, è aprire il nuovo spazio entro fine 2021. Un ponte verso l’esterno - “Vogliamo creare un ponte tra i detenuti e il mondo esterno”, spiega Eleonora De Salvo, referente del progetto, che vede coinvolta la direzione dell’istituto. Si realizzerà un luogo in cui accogliere le compagnie teatrali in arrivo “da fuori”, ma anche presentazioni di libri o conferenze. In cui i ragazzi del Ferrante Aporti avranno principalmente il compito di occuparsi di aspetti tecnici: le luci, il suono. Ma non solo. Grazie ai laboratori dell’associazione, i cui volontari dal 2005 propongono attività didattiche e culturali (teatro, musica, primo soccorso) all’interno del carcere, saranno gli stessi detenuti ad andare in scena. La rieducazione - Perché chi varca l’ingresso del Ferrante Aporti “spesso si sente un emarginato, un cittadino di Serie B”, spiega la direttrice dell’istituto, Simona Vernaglione. Sono ragazzi tra i 15 e i 25 anni, il più delle volte stranieri, molte volte senza famiglia o provenienti da contesti difficili. Attesi da mesi o anni di detenzione, isolati dal mondo. Soprattutto ora che, complice la pandemia, i colloqui con i parenti si fanno su skype o whatsapp: “Ma non devono sentirsi di Serie B anche quando usciranno - aggiunge -. E la chiave per la rieducazione e il reinserimento sociale è il contatto col mondo esterno”. I ragazzi del Ferrante Aporti, istituto in grado di ospitare fino a 46 detenuti (ma oggi ce ne sono una trentina), saranno coinvolti nella progettazione e realizzazione del nuovo spazio. Sarà ristrutturata quella che oggi è la “sala fumo”, in cui i detenuti possono accendere una sigaretta tra sedie, tavolini e due calcio balilla. “Ma non diventerà solo un teatro”, chiarisce Eleonora De Salvo, che al progetto lavora con le associazioni Artieri, Rigenerazioni, Codicefionda, Inforcoop e la Fondazione Teatro Ragazzi, con il sostegno di Monica Gallo, la garante dei detenuti della Città. “Sarà una sala polifunzionale, che nei weekend si trasformerà in una pizzeria. Sempre aperta al territorio”. A gestirla saranno i ragazzi del carcere anche quando ci sarà da servire ai clienti una Margherita. E anche da prepararla: proprio accanto alla “sala fumo”, nel carcere, sorge infatti il laboratorio in cui loro imparano a impastare la pizza. I passi del progetto - Il progetto, sul piano economico, è stato diviso in 4 step. Con i primi 17 mila euro sarà insonorizzata la sala e saranno coperti i finestroni con maxi tende. Operazione che - in ritardo sulla tabella di marcia causa Covid-19 - sarà completata appena i volontari potranno rientrare nel carcere, off limits da quando il Piemonte è zona rossa. A Natale scatterà la seconda raccolta fondi, per progettare e costruire pedane e sedute rimovibili: “Occorreranno 31 mila euro”, spiega Eleonora De Salvo. Più avanti partiranno il terzo e il quarto crowdfunding. Uno per mettere insieme i fondi per dare visibilità al teatro, con un’insegna ad hoc e un percorso per i visitatori; l’altro per fare l’ultimo step: “Coinvolgere i ragazzi affinché diventino co-creatori degli eventi culturali”. Napoli. Scrittura creativa con 20 detenuti per reati sessuali: lunedì presentazione del libro cronacheagenziagiornalistica.it, 29 novembre 2020 Venti detenuti del reparto “Sex Offenders” del carcere di Secondigliano imbarcati sul galeone “Seizeronove” dello psichiatra Adolfo Ferraro: gli autori si sono immedesimati nel “Visconte dimezzato” di Italo Calvino in un laboratorio di lettura e scrittura creativa: “Lupus in Fabula”. Lunedì 30 novembre, alle ore 19, il “Caffè Letterario” delle Pari Opportunità del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Santa Maria Capua Vetere, presenterà in diretta streaming su Facebook il libro dello psichiatra Adolfo Ferraro “Seizeronove” - galeoni e galeotti, con l’autore. Introduce e conclude l’avvocato Fiorentina Orefice, componente del comitato Pari Opportunità del Consiglio dell’Ordine Avvocati di Santa Maria Capua Verere. Interverranno quindi la dottoressa Marinella Graziano, magistrato della Sezione Misure Prevenzione Antimafia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere; l’avvocato Renato Iaselli, vice presidente dell’Ordine degli Avvocati di Santa Maria Capua Vetere; l’avvocato Francesca Della Ratta, componente del Comitato Pari Opportunità del Consiglio dell’Ordine di Santa Maria Capua Vetere e lo scrittore e cronista giudiziario dottor Ferdinando Terlizzi. Modera l’avvocato Giovanna Barca componente del Comitato Pari Opportunità del Consiglio dell’Ordine di Santa Maria Capua Vetere. “Seizeronove” nasce da un laboratorio di lettura e scrittura creativa: “Lupus in Fabula”, tenuto nel Carcere di Napoli Secondigliano da un gruppo di volontarie e da uno psichiatra, con venti detenuti responsabili di reati sessuali. Dopo la lettura collettiva de “Il Visconte dimezzato” di Italo Calvino si è lavorato sul testo e sui suoi personaggi, utilizzando i meccanismi della creatività, della riflessione, dello psicodramma e della scrittura. La pubblicazione è arricchita oltre che dal Ferraro anche dagli interventi critici e metodologici di Giuliano Balbi, Maria Pia Daniele, Amalia Fanelli, Davide Iodice e Luigi Romano. Da qui l’elaborazione di una storia, prima individuale poi comune, che inevitabilmente rappresenta anche le proprie condizioni, con lo scopo di acquisire una consapevolezza che non nega e non giustifica, non è né complice e non è accusatore, ma aiuta a comprendere. Adolfo Ferraro è autore di diverse pubblicazioni a carattere scientifico e divulgativo (“Delitti e Sentenze Esemplari” - con prefazione di Ugo Fornari - Centro Scientifico Editore, 2005; “Materiali dispersi”, storie dal manicomio criminale, con prefazione di Massimo Picozzi - Tullio Pironti Editore, 2010; “Le Evasioni Possibili”, Arte Reclusa, Rogiosi Editore - 2019) e si occupa di formazione come docente a contratto di Psichiatria Forense Criminologia Clinica e nei corsi di formazione e di aggiornamento del Ministero della Giustizia. È stato per molti anni Direttore dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, contribuendo al suo superamento. Vive e lavora a Napoli. Verona. Nove anni di giuria detenuti di Montorio al Festival del Cinema Africano veronanetwork.it, 29 novembre 2020 Sono nove anni che il Festival di Cinema Africano di Verona entra nella Casa circondariale di Montorio per vedere, insieme ai detenuti e alle detenute, accompagnato dai volontari e volontarie dell’Associazione La Fraternità, i film in concorso di una delle sezioni del Festival, quest’anno Viaggiatori & Migranti. Sono nove anni che il Festival di Cinema Africano di Verona entra nella Casa circondariale di Montorio per vedere, insieme ai detenuti e alle detenute, accompagnato dai volontari e volontarie dell’Associazione La Fraternità, i film in concorso di una delle sezioni del Festival, quest’anno Viaggiatori&Migranti. Lo fa con la direzione artistica, esperti e registi che cambiano ogni anno, in base alla programmazione. Quest’anno, causa pandemia, la composizione della Giuria è stata diversa: non erano presenti le due sezioni del carcere, maschile e femminile, e neanche tutti i settori. Nonostante le restrizioni si è riusciti comunque a selezionare un gruppo di giurati del settore maschile di eterogenea provenienza geografica, e seppur numericamente ristretto rispetto gli anni precedenti, ugualmente motivato. Il Festival rappresenta da sempre un ponte verso l’esterno per chi vive il carcere, e anche l’occasione per poter esprime la propria voce con la consapevolezza che verrà ascoltata fuori da quelle mura. Quella del cinema africano è una proposta culturale unica, non solo perché offre ai detenuti la possibilità di vedere delle opere cinematografiche che provengono da un continente che spesso appartiene a chi le visiona, ma anche di essere accompagnati verso una comprensione della cinematografia da esperti e registi. La comprensione dell’opera poi si mescola a quello che spesso il film rappresenta per chi guarda e riconosce parte del proprio vissuto, avendo poi l’occasione di raccontarlo. Una possibilità di evasione dalla quotidianità verso un altrove che fa parte di sé. Il Festival di Cinema Africano di Verona diventa così il mezzo per tornare a essere presenti in un mondo esterno che spesso non prende in considerazione chi vive dentro le carceri e, come sostiene la stessa direttrice della Casa circondariale di Montorio, Maria Grazia Bregoli, l’occasione di essere “considerati cittadini a pieno titolo”, vivendo questa esperienza culturale come riscatto individuale, in cui si è protagonisti di un momento che altre giurie ufficiali ed esterne stanno vivendo. La Giuria detenuti della Casa Circondariale di Montorio dopo aver visto tutte le 10 proiezioni dei cortometraggi e lungometraggi della sezione dedicata alla tematica delle migrazioni, Viaggiatori & Migranti, ha scritto e letto la sua motivazione dell’assegnazione del Premio “Cinema al di là del muro” al film Il mondiale in piazza di Vito Palmieri. Per raccontare questa ricca esperienza in carcere, che ogni anno sa sorprendere gli organizzatori per l’intensità degli interventi dei partecipanti, e la scelta della Giuria detenuti della Casa Circondariale di Montorio, è stato realizzato un video visibile sul canale YouTube del Festival, AfricafestVerona. Bari. “Prigionieri delle nostre paure e della solitudine” La Repubblica, 29 novembre 2020 Il Covid in carcere vissuto dai detenuti di Bari. L’Università di Bari ha realizzato un cortometraggio la cui sceneggiatura è basata sul materiale raccolto nell’ambito del progetto ‘Spazi Aperti’ che, in collaborazione con l’Università degli studi di Brescia, ha coinvolto oltre 100 detenuti del solo carcere di Bari. Durante l’iniziativa, promossa per “La notte Europea dei ricercatori”, è stata creata una bacheca virtuale con indirizzi di posta elettronica messi a disposizione dalle carceri e dai dipartimenti universitari di Bari e Brescia coinvolti. Studenti, docenti, personale amministrativo e famigliari del corpo universitario hanno poi inviato alla casella mail diversi contenuti, come scritti, disegni, foto, poesie e pensieri. L’obiettivo del progetto, attivato nel mese di aprile 2020 con l’esperienza “L’università va in carcere”, era proprio quello di creare una via di comunicazione tra chi è privato della libertà perché in carcere e chi non può uscire di casa a causa delle restrizioni imposte per contrastare la diffusione del coronavirus. Il cortometraggio si è sviluppato sulla base delle risposte date dai carcerati agli stimoli degli universitari. La regia e la sceneggiatura sono state curate dalla professoressa Claudia Attimonelli. https://video.repubblica.it/edizione/bari/il-covid-in-carcere-vissuto-dai-detenuti-di-bari-prigionieri-della-nostre-paure-e-della-solitudine/371985/372590?ref=search Gli errori da non ripetere nella lotta al coronavirus di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 29 novembre 2020 Il Nord produttivo ha ottenuto uno sconto sulla fiducia che suona anche come un’apertura di credito, se non di dialogo, della maggioranza di governo verso le opposizioni. Ci preoccupiamo del Natale, e manca un mese, o del cenone di Capodanno, idem, o di stabilire se rendere obbligatorio o meno il vaccino della speranza, quando il vaccino testato e validato ancora non c’è. Ci preoccupiamo meno del fatto che veniamo da settimane disperanti: per numero di contagi, ricoveri e morti. Ma appena il flagello sembra avere concesso un po’ di tregua nella sua implacabile moltiplicazione, la barriera posta saggiamente dal governo al 3 dicembre, un tempo ragionevole per valutare lo stato della pandemia, ha cominciato ad aprirsi scolorando dall’oggi al domani tre regioni, Calabria, Piemonte e Lombardia, passate dal rosso relativo (i controlli nella fase di quasi lockdown non sono stati severissimi) a un arancione acceso, illuminato soprattutto dalle insegne dei negozi e dei centri commerciali. Il Black Friday, il venerdì degli sconti, si prende una domenica insperata, e forse anche un lunedì e un martedì, il che è sicuramente un bene per i consumi ma insieme anche un rischio, non si sa bene quanto calcolato, sul fronte della guerra a un virus abilissimo a sfruttare qualsiasi crepa si apra nel nostro apparato difensivo. Tutto il resto, a parte gli studenti delle seconde e terze medie che torneranno alla scuola in presenza, resta come prima. Licei e università, bar e ristoranti, cinema, teatri e musei: continuazione di serrate difficili da motivare, specie a fronte di brecce che invece sono state concesse forse in maniera un po’ frettolosa, forse nei pezzi d’Italia meno adatti all’alleggerimento dei divieti. La Calabria fa storia a sé, ha problemi assai più urgenti di un cambio di colore sulla mappa, e tantissimi auguri al nuovo commissario alla Sanità, l’ex prefetto di ferro Guido Longo, insediato dopo tre tentativi andati a vuoto in modo sconcertante. Un bel po’ differente la situazione di Lombardia e Piemonte. Sono in testa, primo e secondo posto, sia nella classifica dei nuovi positivi sia in quella generale dei contagiati e dei defunti da inizio pandemia. Se tutte le regioni, tranne Molise e Basilicata, hanno un tasso di occupazione delle terapie intensive dal 30 per cento in su, chi si aggiudica la triste vetta, con un 64 per cento di ricoverati? Lombardia e Piemonte, nell’ordine. Vero che nessuno ha regalato niente a nessuno e che i 21 parametri stabiliti per rientrare in una certa fascia di colore sono stati formalmente rispettati. Vero che il Paese è provato, anche dal punto di vista emotivo, e ogni segnale di attenuazione dell’angoscia collettiva è senz’altro utile. Ma è vero anche, purtroppo, che la seconda ondata non è affatto esaurita (4.800 decessi nell’ultima settimana) e ogni imprudenza, ogni concessione anche motivata da fini comprensibili, può tornare a infiammarla. Lo abbiamo imparato sulla nostra pelle, dopo lo sciagurato liberi tutti estivo, e sulla pelle dei nostri medici e infermieri, richiamati d’urgenza in prima linea a salvare il salvabile, rinunciando spesso a salvare se stessi. Nessuno aspira al ruolo di Cassandra. Ma lo dice con chiarezza il ministero della Salute: “Per la prima volta da molte settimane, l’incidenza dei casi è diminuita a livello nazionale, tuttavia rimane ancora troppo elevata per permettere una gestione sostenibile dell’epidemia”. Perché la gestione sia sostenibile, secondo esperti super partes come Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler di Trento, i nuovi casi al giorno dovrebbero stare in una forbice compresa tra i 5 mila e i 10 mila al massimo. La scelta di allentare la guardia, oltretutto in zone tormentatissime dal virus, avviene con quasi il triplo dei contagi quotidiani (poco sotto la soglia dei 30 mila) e con più di 800 decessi nelle ventiquattr’ore. Non era meglio aspettare che la curva di decrescita si consolidasse? Non conveniva, se l’interesse è quello di rimettere quanto prima in sicurezza il Paese, resistere ancora un po’ alle pressioni dei presidenti di Regioni forti, a loro volta pressati dai territori di competenza a rimettere in moto la macchina dei consumi? La Lombardia garantisce circa il 20 per cento del Pil nazionale, con 60 mila imprese soltanto nel comparto delle vendite al dettaglio. La paura diffusa che i guasti da coronavirus possano inceppare la locomotiva d’Italia non ha bisogno di avvocati difensori, né partitici né amministrativi, per essere compresa e tenuta nel conto che merita. Stesso discorso per Piemonte e Veneto, con percentuali differenti d’incidenza ma con la stessa fretta di recuperare la competitività e il lavoro perduto. Il Nord produttivo ha ottenuto uno sconto sulla fiducia che, al netto dei parametri su cui molto di discute, suona anche come un’apertura di credito, se non di dialogo, da parte della maggioranza di governo verso le opposizioni (Lombardia e Veneto, Lega; Piemonte, Forza Italia), in continuità con le prove di cooperazione andate a buon fine con il voto congiunto sullo scostamento di bilancio. Sconto sulla fiducia che però non è stato concesso all’industria dello spettacolo e della cultura, e nemmeno a quella parte fondamentale rappresentata dal mondo dell’istruzione, almeno dalle medie in avanti. Uno slalom tra nuovi permessi e vecchi divieti non facile da decifrare, e forse neanche da spiegare. E questo, insieme al fantasma di ricadute nel baratro da cui stiamo faticosamente emergendo, è il rischio maggiore delle variazioni cromatiche di questi giorni: che la gente non capisca, che passi il principio che la clausura è finita o stia finendo, che il virus venga dato in estinzione, e sarebbe la seconda e imperdonabile volta, quando è invece ancora molto presente e altrettanto attivo. Il futuro della nostra Nazione non passa tanto da un rimpasto di governo né da altre alchimie della politica e dei politici. Il nostro futuro passa attraverso la consapevolezza che l’ora più buia non è terminata e che qualsiasi compromesso, qualsiasi ambiguità, qualsiasi scelta che non metta come priorità la protezione degli italiani dal nemico virus, è destinata ad avere conseguenze rilevanti. Abbiamo sbagliato una volta. Ne paghiamo un prezzo, umano ma anche economico, salatissimo. Sappiamo che il virus continuerà a riprovarci. Concedergli altri vantaggi, oltre che irresponsabile, sarebbe un suicidio civile. Ad alta voce, ecco i volontari della cultura di Annarita Briganti La Repubblica, 29 novembre 2020 Hanno tra i sette e i novant’anni, si riuniscono in circolo e leggono per altri. In questi giorni si sono dati appuntamento in rete per decidere le prossime iniziative, come una rete telefonica per ascoltare storie. La carica dei giovani lettori ad alta voce, per gli altri, come forma di volontariato culturale. Succede nell’ambito del movimento “LaAV - Letture ad Alta Voce”, una rete di circoli di lettori ad alta voce, presenti in tutta Italia, fondata undici anni fa ad Arezzo dal professore Federico Batini, docente di Pedagogia Sperimentale all’Università di Perugia, studioso degli effetti cognitivi della lettura ad alta voce. La quota associativa annuale è di 10 euro, 2 euro per i minorenni. Tutti possono aprire un circolo. Nessuno percepisce alcun compenso per le sue letture. Su settecento volontari LaAV, dai 7 ai 90 anni, duecento sono bambine e bambini e ragazze e ragazzi e gestiscono in modo autonomo i circoli “Teen”, da Milano, da Torino e dal Veneto a Roma, a Catania, alla Puglia e alla Toscana da dove è partito tutto. Come ci spiega Martina Evangelista, formatrice ed esperta di lettura, altra esponente di LaAV, i lettori ad alta voce “junior” hanno libertà totale. Possono costituire un circolo con chi vogliono, con una base minima di due, tre persone, e possono scegliere i libri che preferiscono, da leggere poi ad alta voce nelle scuole, negli ospedali, nelle residenze per anziani, nelle carceri e nelle altre iniziative del movimento. Così, oltre ai classici - da Gianni Rodari a J.K. Rowling - i giovani LaAV propongono anche tante opere fantasy e autori nati in rete, come la poetessa, esplosa su Instagram, Rupi Kaur. “I più giovani/più piccoli sono equamente divisi tra donne e uomini, mentre tra gli adulti dominano le donne, e quando ci contattano, sul nostro sito o sulla nostra pagina Facebook, sono già lettori forti, curiosi di fare anche questa esperienza” dice Evangelista, che ci porta dietro le quinte dell’iniziativa. È necessario riunirsi una volta alla settimana, di pomeriggio, dopo la scuola, o il sabato pomeriggio, magari seduti in circolo come in un gruppo di autoaiuto. Le letture, in queste riunioni, possono essere libere, qualche minuto a testa dal libro che si sta leggendo in quel momento, o a tema. Gli incontri devono durare almeno un’ora e servono anche per organizzare i turni per le missioni vere e proprie, chi deve andare dove a leggere cosa. Un format che, a causa del Covid, si è spostato in rete, usando qualsiasi piattaforma e le videochiamate per continuare le attività dei circoli Teen e dei circoli, in generale. Esisteva già una web radio letteraria, Radio LaAV, e durante il Seminario nazionale di formazione di LaAV - in formato digitale, aperto a tutti, fino a oggi sul canale Youtube di LaAV e sulla relativa pagina Facebook - sono state lanciate altre iniziative compatibili con l’emergenza sanitaria, come “LaAV in LOV (Letture Online dei Volontari)” e “Read Line”. Nel primo caso si tratta di appuntamenti settimanali in streaming con letture di romanzi a puntate, in particolare di classici. Nel secondo caso è una linea telefonica per ascoltare storie. Chiamando, risponderà un volontario, compresi quelli più giovani, per letture ad alta voce sicure, dal punto di vista del virus, e più utili che mai, considerando la solitudine e l’isolamento che molti stanno sperimentando in questo passaggio della Storia. “Come da uno studio che sta per uscire sulle riviste scientifiche di tutto il mondo, abbiamo suddiviso, con Giunti Scuola, 1.500 bambini in 7 gruppi in base al livello cognitivo di partenza, per vedere l’effetto della lettura ad alta voce. Mentre nel campione che ha continuato con la didattica “normale” sono cresciuti solo alcuni gruppi cognitivi, tra i bambini che hanno beneficiato della lettura ad alta voce sono cresciuti tutti i gruppi, indipendentemente dal livello di partenza. La lettura ad alta voce fa bene e compie un’azione democratica, perché include tutti. Sarebbe una riforma della scuola a costo zero, fornendo ai bambini e ai ragazzi, da 0 a 19 anni, un’ora di lettura ad alta voce al giorno” dichiara il professore Batini, al grido di “Io leggo per gli altri”, slogan, e hashtag, del suo movimento. Moratoria su spese per nuove armi nel 2021: 6 miliardi da destinare a Sanità e Istruzione di Coordinamento Campagne Rete Italiana Pace e Disarmo Il Manifesto, 29 novembre 2020 Secondo i dettagli della Legge di Bilancio attualmente in discussione in Parlamento nel 2021 l’Italia spenderà oltre 6 miliardi di euro per acquisire nuovi sistemi d’armamento: cacciabombardieri, fregate e caccia torpedinieri, carri armati e blindo, missili e sommergibili. Una cifra complessiva che è in forte aumento rispetto agli ultimi anni, e che deriva dalla somma di fondi diretti del Ministero della Difesa e di quelli messi a disposizione dal Ministero per lo Sviluppo Economico. Per la Campagna Sbilanciamoci! e la Rete Italiana Pace e Disarmo si tratta di una scelta inaccettabile. “Mentre siamo impegnati a trovare risorse per la Sanità e l’Istruzione pubblica ci troviamo a sprecare 6 miliardi di euro per prepararci alla guerra - sottolinea Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci! - ma la sfida realmente importante oggi è un’altra: quella alla pandemia, quella affrontata quotidianamente negli ospedali che non hanno abbastanza posti di terapia intensiva o medici ed infermieri a sufficienza. Quella per un’istruzione di qualità per tutti, mentre invece più di 10.000 scuole hanno strutture che cadono a pezzi e non rispettano le normative di sicurezza”. Le due organizzazioni della società civile italiana sottolineano ancora una volta, come già fatto durante la prima fase della pandemia, che negli ultimi anni le spese militari sono andate aumentando mentre la Sanità pubblica è stata definanziata e le risorse per l’Istruzione pubblica sono ad un livello più basso della media europea. Purtroppo questa tendenza sembra essere confermata anche per il 2021, se il Parlamento non deciderà di modificare la proposta di budget avanzata dal Governo. Nel 2021 il solo bilancio del Ministero della Difesa prevedrebbe infatti al momento un aumento di 1,6 miliardi (quasi tutti per spese investimento) arrivando ad un totale di 24,5 miliardi di euro. Se non è poi facile valutare con precisione la spesa complessiva di natura prettamente militare (ai fondi della Difesa vanno aggiunti quelli di altri dicasteri mentre vanno sottratte le funzioni non militari) è invece più semplice delineare il quadro delle risorse destinate all’acquisto di nuove armi: analizzando i capitoli specificamente legati all’investimento troviamo poco oltre i 4 miliardi di euro allocati sul Bilancio del Ministero della Difesa e circa 2,8 miliardi in quello del Ministero per lo Sviluppo Economico, a cui vanno aggiunti i 185 milioni per interessi sui mutui accesi dallo Stato per conferire in anticipo alle aziende le cifre stanziate per specifici progetti d’arma pluriennale. Ciò porterebbe dunque ad un totale di ben 6,9 miliardi che probabilmente è una sovrastima (nei Documenti Pluriennali di programmazione il Ministero della Difesa esplicita la cifra di 5,9 miliardi) ma che ci consente di confermare la nostra valutazione di 6 miliardi spesi nel 2021 per nuove armi. Risorse che peraltro vengono decise e destinate in un quadro di opacità e mancanza di trasparenza: nei documenti del DDL di Bilancio non vengono infatti fornite informazioni di dettaglio sui sistemi d’arma acquisiti, esplicitate dalla Difesa solo a mesi di distanza. Si chiede dunque ai Parlamentari di votare al buio. Per questo Sbilanciamoci e Rete Italiana Pace e Disarmo avanzano a tutte le forze politiche la proposta di una moratoria per il 2021 su tutte le spese di investimento in armamenti: 6 miliardi da destinare alla Sanità e all’Istruzione in un momento di emergenza ed estrema necessità come quello che stiamo vivendo. È questa la scelta di cura di cui oggi ha bisogno realmente l’Italia, e di cui hanno bisogno soprattutto i cittadini che stanno drammaticamente soffrendo questa crisi. Da oggi dunque parte una nuova mobilitazione, con iniziative online e materiali informativi, che punterà a far crescere la pressione dell’opinione pubblica sulle forze politiche. “L’analisi che abbiamo potuto realizzare preoccupa e pone ancora una volta il quesito sulle priorità della spesa pubblica nel nostro Paese - evidenzia Sergio Bassoli a nome della Rete Italiana Pace e Disarmo - Mai come in questo momento tutti siamo chiamati a fare sacrifici ed agire in modo responsabile e solidale per contrastare il contagio ed uscire al più presto dalla pandemia con meno danni umani, sociali ed economici possibili e consapevoli che il debito pubblico peserà come un macigno negli anni a venire. La moratoria di un anno per sospendere l’acquisto di nuovi sistemi di arma è un atto dovuto all’Italia, a chi lotta quotidianamente per salvare le vite, a chi ha perso il reddito e forse domani il lavoro, a chi è costretto a chiudere la propria attività. Ogni euro speso deve rispondere alla coscienza del Paese. Chiediamo al Governo e al Parlamento di essere anche loro pienamente responsabili e sospendere queste spese oggi insostenibili”. Cosa ci difende meglio oggi dalla pandemia? Un nuovo cacciabombardiere o 500 posti di terapia intensiva in più e 5mila infermieri e dottori che potrebbero essere assunti per tre anni con gli stessi soldi? Per noi è chiaro: più Sanità ed Istruzione, meno armamenti! Traffici, donazioni via web, bitcoin e moschee: ecco come si finanzia il terrorismo di Floriana Bulfon L’Espresso, 29 novembre 2020 L’Europa credeva che Daesh non fosse più un problema. Sconfitto sul terreno in Siria e in Iraq, l’autoproclamato Califfato pareva incapace di organizzare azioni in altri continenti. Invece Parigi, Nizza e Vienna sono state colpite: attacchi che - secondo i primi risultati delle indagini - sono opera di lupi solitari inquadrati in una rete in grado di guidarli e soprattutto finanziarli. La sfida contro i tentacoli della piovra jihadista si combatte su due fronti. C’è il web, che permette di seminare propaganda e odio senza confini. Ma c’è soprattutto il denaro: l’attenzione degli inquirenti si sta concentrando sulle riserve economiche, nella convinzione che solo prosciugando le casse si riuscirà a stroncare ogni piano di rinascita, fisica e digitale. L’ultimo rapporto dell’Onu stima che Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi, l’erede di Al Baghdadi, abbia a disposizione una sorta di forziere centrale con banconote per cento milioni di dollari. A questo si aggiungono oro e pregiati reperti archeologici nascosti in rifugi sicuri più altri investimenti in alberghi, ristoranti, aziende agricole e rivendite di automobili affidati a prestanome fidati. Sono i resti dell’immenso bottino depredato quando le bandiere nere controllavano gran parte della “Mezzaluna fertile” - come veniva chiamata una volta nei libri di geografia - ossia la terra più ricca del Medioriente. Stando ad alcuni analisti, nel momento di massima espansione, tra tasse, estorsioni, furti nei musei e soprattutto vendite di petrolio il sedicente Califfato aveva raggiunto un budget di 6 miliardi di dollari. Una stima che appare credibile: lo scorso anno in un solo raid nella periferia di Baghdad l’intelligence irachena ha recuperato 500 milioni di dollari. La solerte burocrazia di Daesh aveva creato un dipartimento riservato per la gestione dei fondi, che smistava pagamenti e si occupava di trasferire le scorte in tutto il pianeta, nascondendole agli occhi degli 007. Oggi il denaro deve muoversi per finanziare i progetti di risurrezione dello Stato islamico. Deve arrivare nelle tasche dei predicatori itineranti che diffondono il verbo fondamentalista in Asia, cercando reclute in Bangladesh, Pakistan, Afghanistan, Indonesia, Malesia e Sri Lanka, spingendosi fino alle comunità musulmane dell’ex Unione Sovietica. Deve contribuire alla crescita delle bandiere nere in Africa centrale, che le vede dilagare dal Mali al Niger, dal Burkina Faso al Mozambico. Deve sostenere le centrali di propaganda, che saltano da una piattaforma web all’altra riuscendo a proseguire il loro lavoro. Deve aiutare le stazioni logistiche che nel Maghreb, nei Balcani, in Turchia aiutano i fuggitivi e formano nuove reclute. E deve fare arrivare i rifornimenti alle brigate nascoste nei monti iracheni e siriani che ogni giorno conducono imboscate per dimostrare di esistere. L’Espresso può rivelare il quadro allarmante emerso in un recente incontro riservato della Financial Action Task Force che ha raccolto le delegazioni di 26 Paesi, dall’Algeria agli Usa, dal Pakistan all’Italia, uniti dalla volontà di troncare i flussi del denaro jihadista. Le conclusioni sono chiare. Daesh continua a generare e movimentare introiti da attività criminali attraverso i network clandestini in Iraq, mentre Al Qaeda nella provincia di Idlib in Siria mantiene il monopolio di gas e petrolio. Ma sono soprattutto i finanziamenti che arrivano dall’estero con metodi sempre più raffinati a preoccupare. Una miriade di trasferimenti, ciascuno di poche centinaia di euro, raccolti nelle moschee o su Internet. Ci sono le donazioni inviate tramite Hawala - il trasferimento di valori tra persone basato sull’onore attraverso una ragnatela di mediatori - e soprattutto i money transfer. Scaturisce da queste sorgenti il 50 per cento delle segnalazioni di operazioni sospette in Italia, con collettori spesso in Belgio o in Turchia che ricevono denaro da tutta Europa e lo smistano a chi è ancora in Siria o Iraq. E poi la nuova frontiera della criptovaluta. Al Qaeda e Daesh richiedono l’obolo con questo sistema in ogni parte del mondo. La Francia ha monitorato di recente un sistema con codice di messaggistica diretto ai reclusi nei campi di concentramento siriani. La rete operava principalmente attraverso l’acquisto di coupon i cui riferimenti erano dati a jihadisti in Siria e poi accreditati su conti Bitcoin. Qualche mese fa il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha sequestrato beni di criptovaluta per un valore di milioni di dollari. “È un’enorme scappatoia perché è difficile, se non impossibile, individuare con certezza i beneficiari finali”, nota Hans-Jakob Schindler, direttore del Counter Extremism Project, tanto che siti che diffondono la propaganda hanno cambiato le richieste di donazioni da Bitcoin all’altra valuta virtuale monero perché “assicura un maggior anonimato”. Ovunque il Covid ha chiuso le persone in casa, incollate davanti ai pc, e i network del jihad si sono adattati: piattaforme open source per la collaborazione di team di lavoro, chat usate dai gamer, app di messaggistica che usano la tecnologia blockchain trasformate in canali per fare proseliti e intascare quattrini. Dopo la decapitazione nella scuola, la strage di Nizza. Mentre la pandemia sembra fuori controllo. Ora iIl Paese dovrà dimostrare di saper far fronte a una pericolosa sovrapposizione di emergenze Ma il segreto della loro resilienza sta nella flessibilità. Nei nuovi avamposti africani come il Niger o il Mali il finanziamento segue canoni tradizionali: diamanti, oro, droga. Dominano il contrabbando, prendono il controllo delle zone chiave per i traffici e conquistano il consenso delle popolazioni offrendo acqua e assistenza medica. Ogni strada è utile per finanziare la causa: la polizia algerina ha addirittura smascherato una filiera per importare auto dall’Iran. E il terrorismo ai tempi della pandemia cerca di trarre profitto anche con la vendita di mascherine Ffp2. Le autorità statunitensi hanno scoperto le modalità con cui Murat Cakar, membro di Daesh e responsabile di numerosi attacchi informatici per conto di formazioni salafite, avrebbe realizzato e gestito FaceMaskCenter.com, un sito per vendere mascherine non certificate. Ci sono meccanismi più sofisticati, con frodi fiscali complesse come quella messa in piedi da Jameleddine B. Brahim Kharroubi. Arrivato dalla Tunisia a Torino, ha aperto un negozio di tappeti e grazie a una commercialista italiana compiacente è accusato di essersi dato da fare per sfornare fatture false. Due milioni di euro sarebbero arrivati ad Al Nusra passando prima a un imam in Abruzzo e poi triangolando in Germania e Turchia. I pilastri del riciclaggio jihadista sono stati illustrati dal capo della polizia Franco Gabrielli in un’audizione alle Camere lo scorso 3 novembre: “Lo schema è speculare a quello del reimpiego dei capitali illeciti ed è articolato in tre fasi. Nella prima i fondi di origine sia lecita sia illecita vengono raccolti e convogliati verso un collettore unico. Nella seconda le risorse economiche vengono occultate e trasmesse a gruppi o soggetti affiliati facendo ricorso a mezzi di pagamento sotterranei paralleli al circuito bancario e convenzionale. Nella terza i medesimi fondi vengono materialmente impiegati in attività preordinate al compimento di atti terroristici. A differenza di quanto accade nel riciclaggio della criminalità organizzata, il finanziamento del terrorismo può assumere forme più subdole e difficili da intercettare”. È un fiume carsico, che si disperde in tanti rivoli sotterranei per alimentare sempre nuove fonti. Spesso con coperture insospettabili, come quelle di ong islamiche al servizio dei piani salafiti. Quest’estate i Paesi membri del Terrorist Financing Targeting Center (Tftc) - Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (Uae) e Usa - hanno inserito nella lista nera quattro entità con base in Turchia e Siria, accusate di fornire aiuto logistico ed economico a Daesh. Ma soprattutto hanno messo nel mirino la Nejaat Social Welfare Organization: una ong caritatevole che faceva la questua in Qatar e Iraq, ma invece di sponsorizzare programmi di sviluppo consegnava il denaro ai capi dell’Isis a Kabul e Jalalabad. Soldi serviti all’espansione delle bandiere nere nel Nord dell’Afghanistan. L’Italia non è immune. Anzi. La Penisola è sempre stato un ponte nel Mediterraneo, sfruttato per la logistica di ogni sigla fondamentalista. La Guardia di Finanza ha creato il Gruppo Investigativo Finanziamento Terrorismo. Nel 2019 hanno ricevuto 982 segnalazioni di operazioni sospette: l’anno prima erano state 1.282, il segno di un flusso in calo. I sospetti sono concentrati nelle regioni settentrionali, dove si è registrato il 60 per cento delle notifiche. Anche in questo caso, gli importi più significativi venivano gestiti da un’associazione caritatevole, che poi li trasferiva a un’altra ong islamista in Turchia e da lì ai terroristi in Siria. A Cagliari è stata aperta la più importante inchiesta sull’oro nero del Califfato. Riguarda la raffineria Saras che tra il 2015 e il 2016 ha ricevuto venticinque navi di greggio proveniente dall’Iraq del Nord: ben 12 milioni di tonnellate. I carichi sono stati smistati dalla Petraco Oil company, con sede legale a Londra e filiale operativa a Lugano. Dalla ricostruzione risulta che ha acquistato dalla Edgwaters Falls, società di comodo alle Isole Vergini di proprietà della stessa Petraco, che a sua volta ha ottenuto le forniture da un’azienda turca che l’aveva acquistato in un non specificato sito in Iraq. Le contestazioni della procura sarda riguardano la legittimità delle vendite: solo il governo di Baghdad può esportare petrolio, mentre in questo caso pagamenti per quattro miliardi di dollari sono arrivati all’autorità curda di Erbil. E le consegne di greggio sono proseguite anche quando i pozzi sono finiti nelle mani di Daesh. I curdi - come evidenziano i magistrati - hanno infatti respinto una parte dei bonifici: 60 milioni di dollari, relativi a maggio e giugno 2016. Proprio mentre gli impianti erano sotto l’occupazione del Califfato. La Saras, controllata dalla famiglia Moratti, ha respinto gli addebiti: “Abbiamo avuto un comportamento inappuntabile. Nessun illecito: abbiamo fornito tutta la documentazione alla magistratura, a cui ribadiamo fiducia e collaborazione”. Le indagini proseguono, perché - scrivono i pubblici ministeri - nella contabilità della Edgwater Falls ci sono “pagamenti internazionali per importi considerevoli, pari a 3,6 miliardi di dollari, senza indicazione del reale beneficiario, verosimilmente perché era inconfessabile”. Una pista inquietante per arrivare alla caverna del tesoro. *Inchiesta realizzata con il sostegno di Journalism Fund. Ha collaborato Giulio Rubino. Libia. I pescatori italiani ostaggi del silenzio da 90 giorni. Il ricatto del generale Haftar di Nello Scavo Avvenire, 29 novembre 2020 Una partita a poker sulla pelle della povera gente con troppi interessi in gioco, dal gambero rosso all’oro nero. I negoziati però procedono senza sosta e senza clamore. È una storia di gambero rosso e di oro nero. Di ostaggi usati come bottino da mettere all’asta in una partita a poker con troppi giocatori. Dal generale Haftar che cerca un appiglio per non finire definitivamente scaricato dai protettori russo-egiziani, alla Francia che può incassare la gratitudine dell’Italia dopo anni di contrapposizione in terra libica. Da novanta giorni 18 pescatori siciliani sono prigionieri del signore della guerra Khalifa Haftar. E nel negoziato, non sapendo più a che santo votarsi, anche la diplomazia maltese si offre per dare una mano e trovare una soluzione entro Natale. La mediazione è difficile. Ad ogni apparente punto di svolta sembra che i negoziatori debbano ricominciare daccapo. Il generale ribelle, che dopo aver fallito l’assalto a Tripoli sta tentando di riguadagnare peso, sta giocando la carta dello scambio di prigionieri, assicurando di voler riportare a Bengasi quattro libici arrestati in Sicilia cinque anni fa, condannati a 30 anni ciascuno in primo e in secondo grado a Catania per la morte in mare di 49 migranti nel 2015. Uno scambio impraticabile per l’Italia. All’inizio sembrava solo un modo per alzare il prezzo del rilascio, ma ora lo stesso Haftar è ostaggio delle sue promesse alla popolazione. Il governo di Tripoli ne approfitta per regolare i conti con Roma, accusata di aver scelto la politica del piede in due scarpe: le trattative riservate con le milizie e i trafficanti fedeli a Tripoli, intanto cercando con Haftar il dialogo sui pozzi petroliferi; l’inutile e costoso vertice di Palermo nel 2018 e le missioni navali che non contrastano per davvero il traffico di armi destinate ad Haftar e non proteggono neanche i pescatori siciliani. Non è un caso che a perorare la causa di un plateale scambio di prigionieri, certo più imbarazzante di un qualsiasi segreto pagamento in denaro o di concessioni politiche da non sbandierare, sia proprio il vicepresidente del consiglio presidenziale di Tripoli, Ahmed Maitig. “Credo la direzione sia quella dello scambio con i calciatori libici condannati al carcere in Italia”, ha dichiarato al Corriere della Sera. La polizia di Haftar, dopo avere minacciato l’incriminazione per traffico di droga a danno dei pescatori, al momento sembra avere desistito. In gioco c’è altro. L’Italia, ha ricordato Maitig ai negoziatori di Roma, conserva un vantaggio nel giocare da mediatore nel dialogo multilaterale tra Egitto, Turchia, Grecia e Libia. Un “dialogo”, viene fatto notare anche da fonti diplomatiche maltesi, “che può essere decisivo per la spartizione, l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti nel Mediterraneo”. Non è un caso che quasi mai venga citata la Francia, le cui acquisizione energetiche e il ruolo sul campo a danno dell’Italia non sono messe in discussione. Tuttavia proprio Parigi può rivelarsi l’alleato dell’ultima ora. Haftar deve la vita ai medici militari francesi, che lo hanno salvato da un ictus. Niente di sentimentale, naturalmente. Ma uscire dall’impasse converrebbe a tutti. La trattativa passa anche da Malta, che in questi anni ha mantenuto rapporti assidui con tutte le parti in Libia. Del resto non c’è affare o malaffare libico che non passi da La Valletta. I servizi segreti maltesi hanno buone fonti e ottime ragioni. Negli ultimi anni una nutrita schiera di fuggiaschi, avventurieri, esuli e faccendieri di entrambe le sponde hanno trovato riparto al di qua o al di là del Mediterraneo, a seconda che dovessero fuggire da Tripoli o sfuggire agli investigatori europei. Anche in queste ore la marineria dell’isola continua a spingersi nel “mammellone”, quel pescoso tratto di mare in acque internazionali che prima il dittatore Gheddafi e poi il generale Haftar hanno dichiarato unilateralmente come area esclusiva. Tuttavia a venire ostacolati sono esclusivamente i pescherecci siciliani e tunisini. Un anno fa si era trovato un accordo. L’italiana “Federpesca” e la “Libyan military investment authority”, un ente vicino all’esercito di Haftar, avevano siglato un patto. Attraverso una società maltese, che avrebbe incassato una provvigione, i pescherecci italiani avrebbero pagato una “tariffa” per ogni chilo di gambero rosso. In cambio gli armatori avrebbero potuto rifornirsi di carburante a basso costo nei porti controllati dal generale di Bengasi. Haftar ci avrebbe guadagnato due volte: il “dazio” per il pesce e le entrate per il gasolio. Su pressione del governo di Tripoli, che non vedeva di buon occhio quella concessione al nemico di Bengasi, Federpesca fu costretta a indietreggiare. Argomenti tornati sul tavolo del negoziato per far tornare a casa i 18 pescatori prigionieri entro il Natale. Gran Bretagna. Il caso Assange ci riguarda da vicino di Sabrina Pignedoli articolo21.org, 29 novembre 2020 ll caso di Julian Assange, artefice delle rivelazioni di WikiLeaks nel 2010 e ora detenuto in un carcere di massima sicurezza in Gran Bretagna, a grandi linee è ben noto a tutti. Quello che colpisce negli ultimi due anni è il silenzio quasi totale sulla sua vicenda, soprattutto sul processo iniziato il 7 settembre scorso a Londra, in cui si sta decidendo la sua estradizione negli Stati Uniti, dove rischia 175 anni di carcere. Un giornalista trattato come un capo terrorista. E il processo britannico è ben lungi dall’apparire equo e indipendente, viste anche le forti pressioni degli Stati Uniti. Al Parlamento europeo il 25 novembre è stata votata dai deputati collegati in remoto una risoluzione non legislativa sulla libertà di stampa. È stata approvata con 553 voti favorevoli, 54 contrari e 89 astensioni (tra queste ultime anche quelle di Lega e Fratelli d’Italia). Ma sempre in plenaria era stato presentato dal gruppo Gue (sinistra) un emendamento, il 44, alla relazione sui diritti fondamentali nell’UE per gli anni 2018 e 2019 che citava espressamente il caso di Assange. A sostenere l’emendamento, tra gli italiani, solo il Movimento 5 stelle. L’emendamento non è passato perché altri gruppi - S&D e Renew - hanno presentato un emendamento alternativo molto più blando dove il nome di Assange non veniva fatto. Come M5S abbiamo sostenuto entrambi gli emendamenti, prima il 44 e poi quello di S&D e Renew. Non capisco che cosa abbia spinto a tutta questa cautela. Non si trattava certo di una presa di posizione rivoluzionaria. Era un accenno al caso Assange, un sostegno, in concomitanza di un processo che si svolge in un Paese uscito da poco dall’Unione Europea e su cui gli Stati Uniti stanno facendo evidentemente molta pressione. La cosa mi ha colpito ancora di più perché quello stesso giorno ho parlato in plenaria delle querele temerarie come attacco e ricatto nei confronti dei giornalisti anche in Paesi democratici. Ma il caso del cofondatore di WikiLeaks, in termini di attacco alla libertà di stampa, è gigantesco. Va detto a voce alta. L’arresto, la tortura psicologica, le arbitrarie e sospette manovre legali e governative per incastrare Assange, probabilmente costituiscono il caso più eclatante di violazione della libertà di stampa nel mondo degli ultimi dieci anni. Contro il trattamento subito dal giornalista e attivista australiano sono del resto già intervenute altre autorevoli istituzioni. Il 28 gennaio scorso, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, nella risoluzione 2317 (2020) approvava all’unanimità un emendamento con cui chiedeva ai Paesi membri di considerare la detenzione e i procedimenti penali contro Assange un precedente pericoloso per i giornalisti. L’anno scorso, Nmils Melzer, inviato speciale dell’Onu contro la tortura ha accusato senza mezzi termini di tortura psicologica Gran Bretagna, Svezia, Ecuador e Stati Uniti. Anche per le Nazioni Unite, l’estradizione di Assange negli Stati Uniti dev’essere vietata. E la sua detenzione è ingiusta e ingiustificata. Diritti umani violati in Egitto. Al-Sisi rimane l’amico di tutti di Francesca Mannocchi L’Espresso, 29 novembre 2020 Abbiamo visto Gasser portato via, fuori dalla procura, su un furgone della polizia. Ha fatto in tempo a gridare alla moglie: Miriam, saluta i ragazzi, ti amo”. A scrivere queste parole lo staff di Eipr, Egyptian Initiative for Personal Rights, dopo l’ondata di arresti che li ha investiti nelle ultime settimane. L’uomo portato via dalla polizia è Gasser Abdel-Razek, direttore esecutivo dell’organizzazione che svolge attività di ricerca in difesa delle libertà civili, con cui collaborava anche Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna detenuto al CaIro da febbraio con l’accusa di propaganda sovversiva. Le forze di sicurezza hanno arrestato prima Mohamed Basheer, direttore amministrativo di Eipr, poi è stata la volta di Karim Ennarah, direttore della giustizia penale. Abdel Razek ha subito denunciato gli arresti: “Sono la risposta all’incontro tenuto dall’organizzazione il 3 novembre con 13 diplomatici occidentali”. Il giorno dopo è stato arrestato anche lui. Accusati di appartenere a un’organizzazione terroristica e diffondere false notizie minacciando la pubblica sicurezza, si trovano ora nella prigione di Tora, dormono su letti di ferro, senza materassi né abiti invernali e vanno ad aggiungersi ad altri 60 mila detenuti politici egiziani. Prima di essere arrestato Abdel Razek aveva dichiarato di “essere scioccato che le forze di sicurezza si sentissero minacciate da un incontro con degli ambasciatori”, soprattutto perché i delegati rappresentano paesi con cui l’Egitto ha ottimi rapporti: Francia, Germania, Canada, Svizzera, Regno Unito. Dopo gli arresti il ministro degli Esteri francese ha espresso “profonda preoccupazione”, così il portavoce dell’ufficio consolare britannico “i difensori dei diritti umani dovrebbero essere in grado di lavorare senza timore di rappresaglie”. Anche l’Ue ha comunicato la sua “significativa preoccupazione” e così Antony Blinken, nuovo segretario di Stato americano scelto da Joe Biden. Ma l’Egitto rilancia, confermando le accuse all’Ong. Al-Sisi dichiara che in Egitto non ci siano prigionieri politici e che la stabilità e la sicurezza vengano prima di tutto. Il messaggio degli arresti, è tutto qui. Non solo un’intimidazione agli attivisti ma un avvertimento alle diplomazie occidentali: sedetevi a negoziare sui giacimenti e sulla vendita di armi, ma sugli affari interni non mettete bocca. Fa la parte del duro, al-Sisi, perché il tempo gli ha dimostrato che nonostante le dichiarazioni allarmate dopo ogni ondata di arresti, le diplomazie occidentali non sono state in grado di fare alcuna pressione. Lo sa bene l’Italia che aspetta la verità di Regeni e la scarcerazione di Zaki. Il 24 novembre Matteo Renzi, premier quando Regeni è stato sequestrato e torturato al Cairo, ha tenuto un’audizione nella commissione d’inchiesta che si occupa dell’assassinio del ricercatore: “Se avessimo saputo prima, forse, avremmo potuto intervenire”, ha detto. Non si è fatta attendere la precisazione della Farnesina: “Le istituzioni governative italiane furono informate sin dalle prime ore successive alla scomparsa di Giulio, il 25 gennaio 2016”. Secondo la Farnesina il governo sapeva, così come l’ambasciata al Cairo. Renzi ha anche rivendicato la mediazione affinché al-Sisi accettasse di farsi intervistare da Repubblica “abbiamo preteso che fosse il presidente a rispondere”. Delle risposte pretese siamo ancora in attesa, ma Renzi continua a difendere l’azione del suo governo. D’altronde era stato il primo capo di governo occidentale a fare visita a Sisi nel 2014 e a definirlo nel 2016 “un grande leader”. La strage di piazza Rabia’a c’era già stata. Era l’estate del golpe, l’estate del 2013. Novecento persone, sostenitori del governo eletto di Morsi, furono massacrate dalle forze di sicurezza egiziane sotto il comando di al-Sisi. La difesa dei diritti umani in Egitto si scontra, spesso, con gli investimenti da difendere. Si scrive 60 mila detenuti politici, si legge giacimenti di petrolio. La doppia faccia della politica estera. Diplomazie abili a condannare la repressione, ma ben più abili nel non menzionare abusi e violazioni ai tavoli delle trattative economiche con un regime sempre più autoritario. Ma tollerato. Medio Oriente. L’assassinio “preventivo” di ogni pace di Alberto Negri Il Manifesto, 29 novembre 2020 Medio Oriente. Il premier israeliano dovrà trattare con Biden, convincerlo a mantenere le sanzioni a Teheran e vendergli il patto di Abramo con le monarchie dEl Golfo, esteso dal Medio Oriente al Mar Rosso, al Corno d’Africa, come il più grande obiettivo strategico della coppia Usa-Israele per soffocare l’Iran, limitare la Turchia e frenare l’espansione cinese tra Africa e Medio Oriente. Siamo ormai arrivati all’assassinio “preventivo”, con la solita licenza di uccidere incorporata nel Mossad. L’anno si chiude - almeno per il momento - come si era aperto, quando il 3 gennaio gli Usa ammazzarono a Baghdad con un drone il generale iraniano Qassem Soleimani. Con l’uccisione in Iran di Mohsen Fakhrizadeh, definito sui nostri media il “padre dell’atomica iraniana” - una bomba che Teheran non ha mai avuto ma Israele sì - in Occidente si incrociano pericolosamente false notizie come questa, con la politica della terra bruciata intorno alla repubblica islamica voluta da Trump e Netanyahu. In realtà Trump ce lo siamo meritato scrivendo scempiaggini che rischiano di fare apparire giustificato un eventuale attacco diretto all’Iran. Ed ecco che Netanyahu e il Mossad hanno anticipato Trump e dato il via libera a far fuori un altro scienziato iraniano, antica specialità dei servizi israeliani. Colpire direttamente l’Iran, come vorrebbe Trump per uscire dalla Casa Bianca da effimero trionfatore e non da sconfitto qual è, potrebbe causare una reazione troppo pericolosa anche per Israele. Trump, che ha riconosciuto Gerusalemme capitale, l’annessione del Golan e gli insediamenti illegali in territorio palestinese con l’ultimo viaggio di Mike Pompeo, ha dato molto a Israele ma una guerra aperta contro l’Iran è troppo anche per Netanyahu: con dei processi sulle spalle e al governo in condominio con l’ineffabile Gantz (per altro mai al corrente di nulla) non può permetterselo. Il premier israeliano dovrà trattare con Biden, convincerlo a mantenere le sanzioni a Teheran e vendergli il patto di Abramo con le monarchie del Golfo, esteso dal Medio Oriente al Mar Rosso, al Corno d’Africa, come il più grande obiettivo strategico della coppia Usa-Israele per soffocare l’Iran, limitare la Turchia e frenare l’espansione cinese tra Africa e Medio Oriente. È la vecchia strategia del “doppio contenimento”, un tempo applicata a Iran e Iraq, che fa leva sui conflitti regionali. Ma con delle varianti. Tra i democratici di oggi alla segreteria di Stato c’è Blinken, legato a filo doppio a Israele, favorevole nel 2011 ai bombardamenti in Libia e Siria, uno dei complici del disastro di Hillary Clinton, e che negli omicidi mirati troverà appoggio nella nuova capa dei servizi, la signora Avril Haines, specialista in droni. Con loro c’è pure Jake Sullivan, nuovo consigliere della sicurezza nazionale, clintoniano e consulente di Obama sul nucleare iraniano. Questa è la prima linea di Biden, definita dalla stampa Usa quella degli gli “interventisti liberali”: sono loro che dirigeranno eventuali negoziati con Teheran. Ma l’agenda di Biden per la ripresa delle trattative sull’accordo abbandonato e stracciato da Trump nel 2018 deve fare i conti con la tattica della terra bruciata e il pericoloso avventurismo del presidente uscente, oltre che con la diffidenza dell’Iran dove il presidente Hassan Rohani è alle strette con la Guida Suprema Ali Khamenei e l’ala dura dei pasdaran. Trump è diventato un cane sciolto. Due settimane fa ha fatto fuori il capo del Pentagono Mark Exper, contrario a uno “strike” contro Teheran, mentre un portavoce della Difesa esprimeva la preoccupazione che il presidente potesse avviare “operazioni coperte”, espressione orwelliana per dire che il presidente potrebbe colpire direttamente l’Iran. Poi Washington ha tirato fuori la notizia che il 9 agosto scorso agenti israeliani avrebbero ucciso a Teheran Al Masri, storico capo di Al Qaeda: la “pistola fumante” che l’Iran appoggia il terrorismo. Quindi Trump ha inviato in Medio Oriente Abram Elliot, consigliere negli anni’80 dei governi massacratori del Salvador e del Guatemala, per definire nuove sanzioni a Teheran e accordo con Israele e le monarchie del Golfo. Sanzioni puntualmente arrivate con il viaggio del segretario di stato Pompeo in Medio Oriente e che hanno colpito la Fondazione degli Oppressi, il maggiore conglomerato economico che risponde direttamente alla Guida Suprema. A questo punto l’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh era già stato programmato. La testa dello scienziato iraniano con ogni probabilità è stata gettata sul tavolo del principe saudita Mohammed bin Salman (MBS) che a Noem sul Mar Rosso qualche giorno fa ha incontrato Pompeo e Netanyahu accompagnato dal capo del Mossad Yossi Cohen. Gli israeliani stanno facendo di tutto per invogliare Riad a entrare nel Patto di Abramo con Emirati e Bahrain. Ma sia il principe che suo padre, il declinante re Salman, si tengono stretta la carta della normalizzazione con Israele per giocarsela con l’amministrazione Biden, insistendo su un improbabile accordo di pace con palestinesi ma soprattutto sulla fine delle pressioni negli ambienti liberali di Washington per una democratizzazione del regno saudita che si è distinto per la repressione brutale di ogni dissenso e il macabro assassinio del giornalista Jamal Khashoggi. Ma, perdinci, 450 miliardi di dollari di commesse saudite di armi agli Usa valgono pure qualche omicidio. Sarà Biden a rinunciarci? Ecco a che servono gli assassini preventivi: è l’eredità del duo Trump-Netanyahu, sono le “linee guida” per la nuova amministrazione. Tutto questo aspettando Biden. O forse Godot. Caschi bianchi in Siria: quel suicidio provocato dalle bugie dei russi di Martin Chulov* Corriere della Sera, 29 novembre 2020 “Menzogne costruite per distruggerci”. Parla la vedova del fondatore del gruppo umanitario: “Mio marito si è tolto la vita perché travolto da false accuse”. Un fiume di fango. Bugie e documenti falsi per demolire la reputazione dei volontari che aiutavano la popolazione in Siria. Un giornalista del Guardian ha raccolto per la prima volta i ricordi della moglie di James Le Mesurier, 48 anni, co-fondatore dell’organizzazione impegnata nel soccorso ai civili nelle zone devastate dalla guerra. Era stato ingiustamente accusato di pedofilia e traffico di organi. Si è suicidato un anno fa. Ecco i retroscena di una terribile campagna di disinformazione. L’11 novembre 2019, poco prima che il sole facesse capolino sulla città di Istanbul, Emma Winberg venne svegliata, dopo un breve sonno, dal bussare insistente sulla porta d’ingresso in ferro. Con gli occhi appannati allungò la mano nel letto vuoto, infilò un paio di pantaloni facendosi luce con l’abat-jour e attraversò di corsa il monolocale fino a raggiungere la porta della cucina. “James non c’era”, affermerà in seguito. “È in quel momento che ho capito”. Winberg era riuscita a dormire un po’ dopo una notte agitata. Verso le 4.30, mentre stava per appisolarsi, aveva visto suo marito vicino alla finestra della camera da letto del loro appartamento al terzo piano che la fissava. Dopo essersi svegliata di soprassalto si era precipitata nello stesso punto, con la paura che cresceva a ogni passo. “Ho guardato in basso e ho pensato: “Grazie a Dio non c’è nulla”. Poi però ho guardato a sinistra”. Le accuse infamanti e il suo corpo sull’asfalto - Di sotto, disteso nudo nell’oscurità, c’era il corpo di James Le Mesurier, 48 anni, co-fondatore dei Caschi bianchi, l’organizzazione impegnata nel soccorso alla popolazione civile nelle zone devastate dalla guerra in Siria (...). Winberg si precipitò giù dalle scale e aprì la prima delle due porte di sicurezza. Stava per raggiungere la seconda, quando cinque agenti di polizia le andarono incontro di corsa. “Qualcuno mi ha poi detto che continuavo a urlare “No, no, no, no, no”,” mi ha raccontato Winberg di recente, parlando pubblicamente per la prima volta della morte del marito. “Ho afferrato un lenzuolo perché volevo coprirlo. Riuscivo a vederlo attraverso la porta, ma non me lo lasciavano toccare. Ho cercato di dar loro il lenzuolo per coprirlo, ma si sono rifiutati e mi hanno spinta su per le scale. Da lì tutto ha avuto inizio. È stato il momento più brutto della mia vita”. Appalti gonfiati per la sicurezza che non c’era - Già dalla fine del 2013, Le Mesurier aiutava nel coordinamento delle squadre di volontari nella Siria nordoccidentale, dove si trovava la maggior parte degli oppositori del presidente siriano Bashar al-Assad. La regione era irraggiungibile dai soccorritori statali e così, spinta dalla disperazione, la gente del posto - insegnanti, falegnami e altri civili - aveva iniziato a organizzarsi in gruppi per estrarre i membri della propria famiglia o i vicini dalle macerie causate dai bombardamenti aerei. Alcuni dei soccorritori avevano chiesto aiuto ad Ark, una società di consulenza umanitaria degli Emirati Arabi Uniti, per cui lavorava a quel tempo Le Mesurier. Dopo un decennio in Medioriente, aveva sviluppato una certa disillusione nei confronti delle società di sicurezza straniere, che disponevano di ingenti budget che, secondo lui, non facevano altro che gonfiare le tasche degli appaltatori esteri invece di sostenere le comunità locali. Pensava che le organizzazioni locali, che impiegavano i civili sul campo, potessero fare di meglio. Il lavoro dei soccorritori civili siriani sembrava la soluzione ideale. Il successo di Mayday Rescue nel 2014 - Così Le Mesurier, con il suo progetto in tasca, lasciò Ark e si trasferì in Turchia. L’idea prese piede velocemente. Le Mesurier, che aveva prestato servizio come ufficiale nell’esercito britannico negli Anni 90, aiutava a formare i soccorritori volontari e ad assicurare finanziamenti internazionali per il loro lavoro. All’inizio del 2014 fondò l’organizzazione Mayday Rescue per fornire assistenza ai soccorritori, che diventò poi la sua principale attività per i successivi cinque anni. Ben presto l’idea diventò un marchio. I Caschi bianchi, non appena iniziarono a essere conosciuti, cominciarono a usare fotocamere montate sul casco per registrare cosa succedeva sul campo. In tutto il mondo iniziarono a circolare le immagini dei volontari siriani con indosso caschi bianchi, maschere antigas e torce frontali, mentre si inerpicavano tra le rovine per salvare vite umane. I filmati dei 4 mila Caschi bianchi - Filmati di neonati estratti vivi dagli edifici crollati sotto i bombardamenti e di bambini tirati fuori dalle macerie fumanti delle loro abitazioni riuscirono ad aprire un varco nell’indifferenza generale causata dalla guerra. I Caschi bianchi sono stati celebrati da registi, star del cinema e leader mondiali. Al suo apice, l’organizzazione sovvenzionava 200 squadre in tutta la Siria, per un totale di 4.000 soccorritori e medici. Inoltre forniva mezzi di soccorso, ambulanze e attrezzature di scavo. I finanziamenti arrivavano a frotte: Gran Bretagna, Danimarca, Germania, i Paesi Bassi, il Qatar e il Canada donavano in totale circa 30 milioni di dollari all’anno, mentre centinaia di migliaia di persone ammassate nella Siria nordoccidentale venivano bombardate dai jet siriani e russi. A metà 2015 erano già circa 500.000 le vittime del conflitto. La candidatura al Nobel per la pace - L’attività dei Caschi bianchi ha presto guadagnato lodi a livello mondiale. L’organizzazione è stata candidata diverse volte per il Nobel per la Pace. Nel 2016, Le Mesurier ha ricevuto l’Obe, la più alta onorificenza dell’Ordine dell’Impero britannico, per il suo impegno a favore della “protezione dei civili in Siria”. Il documentario di Netflix Caschi bianchi ha vinto un Oscar l’anno seguente. Ma se da un lato la fama internazionale dell’organizzazione aumentava, dall’altro quest’ultima attirava nemici potenti, intenzionati a distruggerne la reputazione e a perseguitare chi ne faceva parte. Mentre gli specialisti forensi si occupavano del corpo di Le Mesurier, altri agenti di polizia arrivarono negli uffici di Mayday Rescue, un piano sotto il monolocale dell’uomo. In poco tempo le stanze iniziarono a brulicare di agenti. Al piano di sopra, alcuni detective trattavano Winberg come una sospetta omicida, prendendole le impronte digitali e prelevandole il Dna. Dall’altra parte della città, negli uffici dei Caschi bianchi, i dipendenti appresero la scioccante notizia della morte di Le Mesurier alle prime luci dell’alba. La notizia cominciò a circolare anche su Internet, dove fin dall’inizio imperversavano le critiche contro il lavoro dell’organizzazione e di Le Mesurier. Blogger filo Assad e media di destra - Negli anni precedenti la morte di Le Mesurier, l’uomo e i Caschi bianchi erano diventati bersaglio di una campagna di disinformazione condotta da funzionari russi e siriani e promossa da blogger filo-assadisti, personaggi dei media di destra e sedicenti anti-imperialisti. Con l’aumento della sua attività in Siria, l’organizzazione era diventata una delle più controllate e diffamate del mondo. Non è difficile capirne la motivazione. Era un gruppo che lavorava unicamente in aree della Siria controllate dall’opposizione antigovernativa per aiutare a salvare le vittime degli attacchi perpetrati dai sostenitori di Assad. Allo stesso tempo, le immagini delle missioni di salvataggio minavano i racconti del regime e rendevano umane le sue vittime. Queste provocazioni erano considerate inaccettabili (....). La campagna di disinformazione crebbe rapidamente, con lo scopo di insinuare dubbi sui Caschi bianchi e le prove fotografiche che raccoglievano. Con l’avanzare della guerra, la Siria nordoccidentale aveva iniziato ad attrarre estremisti determinati a sfruttare il caos per lanciare una jihad globale. I propagandisti approfittavano della confusione sul campo. Ben presto, secondo alcune notizie online, i Caschi bianchi avrebbero subito l’infiltrazione di al-Qaeda, che avrebbe presumibilmente sfruttato il gruppo per ottenere fondi esteri. Secondo altre accuse, invece, il gruppo sarebbe stato creato dai governi determinati a rimuovere Assad dal potere e i volontari dei Caschi bianchi sarebbero stati in realtà “attori della crisi” incaricati di rappresentare una messa in scena per screditare la Russia e la Siria. Teorie complottiste su YouTube e Twitter - I canali mediatici russi e siriani hanno dato visibilità e massiccia copertura a utili idioti, promotori di teorie complottiste su YouTube, Twitter e sui loro siti di posizione radicale. Lo stesso Le Mesurier è stato oggetto di attacchi di Stato quasi quotidiani perpetrati sui canali tv e attraverso social media russi: terrorista, spia, pedofilo e trafficante di organi, sono solo alcuni degli insulti da copione che gli sono stati rivolti. È stato accusato di essere un agente dell’intelligence occidentale che utilizzava un’organizzazione di soccorso come cavallo di Troia per sovvertire il regime. Gli insulti sono arrivati fino al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, attraverso un panel istituito da Mosca. L’obiettivo era quello di riversare nell’ecosistema mediatico delle falsità che avrebbero eroso la fiducia dei sostenitori, in particolare dei governi donatori. Tutto questo ha sicuramente avuto un prezzo, sia per la reputazione dei Caschi bianchi sia per lo spirito di volontari e sostenitori. Il peso dello stress raggiunge l’apice - A settembre 2018, quando l’ho incontrato per la prima volta, Le Mesurier mi ha parlato del peso crescente e dello stress della campagna di disinformazione. Da quel momento ho iniziato a seguire da vicino la sua storia (....) Per tutto il 2019, l’organizzazione Mayday venne sottoposta a una pressione diffiusa. I diplomatici che si occupavano dell’organizzazione si trovavano sempre più ad affrontare politici che chiedevano dove e come venivano spesi i loro soldi. Ogni singolo centesimo donato doveva essere giustificato, ma si temeva che Mayday non avesse sistemi e strutture adeguati a tenere sotto controllo tutti i flussi di finanziamento e i conti. A fine 2018 venne richiesto un controllo (i cui esiti vennero resi noti a giugno 2019) da parte del Dipartimento per lo sviluppo internazionale (DfID), il dipartimento del governo britannico allora responsabile per gli aiuti umanitari. Nell’ultima settimana di vita di Le Mesurier, lo stress accumulato nel corso degli anni raggiunse l’apice. L’oltraggio contro chi aveva svelato le atrocità - Il 7 novembre, quattro giorni prima della morte, si era riunito con una nuova squadra di revisori per un incontro decisivo. Se ne andò via temendo di avere in qualche modo perso il controllo di Mayday Rescue. Nella sua mente, tutto ciò per cui aveva lavorato stava per essere improvvisamente e oltraggiosamente contestato in maniera incomprensibile. Ancora peggio era che fosse a repentaglio la reputazione della sua fondazione e dei Caschi bianchi. La vita e la morte di James Le Mesurier sono la storia di un uomo che è diventato il parafulmine in una guerra di narrative sul conflitto siriano, una persona che ha contribuito alla creazione di uno tra i più iconici gruppi attivi in territori di conflitto, diventando involontariamente una figura al centro di una guerra di informazione globale sulle rovine di un ordine mondiale sul punto di sfasciarsi. È anche la storia del crollo di un’organizzazione che ha svolto una delle più importanti attività di collaborazione e aiuto degli ultimi tempi, e di come, nei suoi ultimi giorni, Le Mesurier abbia ceduto sotto il peso di dichiarazioni che si sono poi rivelate false. Il timore di un effetto tsunami - Le accuse, se provate, avrebbero avuto per Mayday l’effetto di uno tsunami, con conseguenze dannose per i Paesi donatori, che fino alla fine del 2019 avevano continuato a sostenere la fondazione - e in modo particolare, i Caschi bianchi - nonostante la disinformazione che circondava il lavoro del gruppo. Non molto prima di morire, in preda alla depressione, Le Mesurier aveva detto ai suoi amici che le accuse sembravano generarsi dal nulla. Sebbene l’audit di giugno 2019, condotto su richiesta del DfID, avesse raccomandato l’introduzione di controlli contabili più rigidi e una governance più rigorosa, nulla lasciava presagire che il futuro di Mayday fosse a rischio. L’incontro di novembre 2019 con SMK, la società di revisione olandese, aveva sollevato dubbi sui prelievi in contanti, le posizioni fiscali e gli accordi di sovvenzione, senza tuttavia giungere a conclusioni formali. Ciononostante, la natura delle questioni emerse in tale occasione aveva colpito Le Mesurier nel profondo. La mossa sbagliata: una ricevuta retrodatata - Dalla revisione effettuata a giugno, una transazione in particolare era rimasta una questione aperta e quindi ripresa da SMK a novembre: 50.000 dollari in contanti che Le Mesurier aveva prelevato dalle casse della Ong nel luglio 2018 per sostenere una missione di evacuazione di ben 400 membri dei Caschi bianchi e delle loro famiglie dal Sud della Siria alla Giordania. La corretta contabilizzazione di quel denaro era stata già al centro della revisione disposta dal DfID e ora veniva posta nuovamente sotto la lente (...) Alla fine di maggio 2019, Le Mesurier si incontrò con il suo team finanziario per cercare di risolvere la questione e decise di retrodatare una ricevuta da consegnare ai revisori (...). L’8 novembre, dopo aver letto la bozza del verbale della riunione con gli auditor olandesi, Le Mesurier, temendo il disfacimento di Mayday, scelse di percorrere la strada che gli sembrava più efficace: spiegare le circostanze alla base del prelievo di 50.000 dollari e la decisione di retrodatare la ricevuta. Non prestando ascolto alle riserve dei colleghi, scrisse una lunga e-mail ai donatori in cui ammise che la contabilità di quella somma era tecnicamente una frode. Il tentativo di dissipare i dubbi con la trasparenza - Le Mesurier credeva che mostrandosi trasparente su quello che alla fine era stato un caso di contabilità approssimativa sarebbe riuscito a rassicurare i donatori salvaguardando i finanziamenti futuri. Secondo diverse fonti, uno dei consiglieri, Johan Eleveld fece mea culpa sul presunto buco di 50.000 dollari, tema centrale dei colloqui con Vrieswijk e altri. La settimana dopo la morte dell’operatore umanitario venne ingaggiata la società di contabilità forense Grant Thornton, che per i quattro mesi successivi esaminò e-mail e log di chat telefoniche e intervistò lo staff, Eleveld incluso. La settimana prima di Natale, Winberg ricevette una lettera dai legali di Mayday in cui lei e altri venivano accusati di “arricchirsi illecitamente a spese della fondazione”, sospendendola dal suo ruolo di Chief Impact Officer. “La Fondazione Mayday Rescue, rappresentata dal suo consigliere, Johan Eleveld, mi ha chiesto di informarla come segue”: questo l’incipit della lettera. A quel tempo, Eleveld era l’unico membro del consiglio di amministrazione. La lettera continuava asserendo che “a seguito di una recente indagine era sorto il grave sospetto” che Winberg avesse prelevato 55.000 dollari in tre tranche nei mesi di giugno e luglio 2018 senza poi restituirli. L’ex diplomatica che voleva fermare l’isis - Dall’Istante in cui Emma Winberg aveva parlato per la prima volta con Le Mesurier, la vita di entrambi era cambiata per sempre. Era marzo 2016 quando Winberg aveva richiesto un incontro nella capitale turca con un uomo che per due volte le avevano presentato fugacemente in occasione di alcuni ricevimenti e che l’aveva colpita per il suo fascino e la sua intensità. Winberg, ex diplomatica inglese, era approdata alla sede di Istanbul di Mayday per motivi professionali. A quel tempo lavorava infatti per una società di comunicazione del nord dell’Iraq, ideando strategie di base per fermare l’Isis che imperversava nella regione. Sperava di convincere Le Mesurier ad aiutarla con un progetto volto a riunire squadre di locali per mettere in sicurezza le comunità che vivevano sopra la diga di Mosul, a rischio di crollo, a detta degli ingegneri. Il nuovo amore tra i due monaci guerrieri - Il piano non vide mai la luce, ma l’incontro quella notte durò a lungo. “Alla quarta bottiglia di vino mi resi conto che saremmo diventati una coppia”, affermò Le Mesurier alla fine del 2018. “Era la compagna dei miei sogni”. Con due divorzi alle spalle, Le Mesurier aveva fatto di Mayday il fulcro della sua vita. “Con l’amore ho chiuso”, mi aveva detto a novembre 2018. Lo stesso valeva per Winberg. “Avevo sostanzialmente rinunciato alla mia “vita” prima di incontrare James”, mi avrebbe detto mesi dopo. “Entrambi ci eravamo arresi al fato diventando come dei monaci guerrieri. Avevamo anteposto il perseguimento di determinati obiettivi alla nostra realizzazione personale. Ma quando ci siamo conosciuti è cambiato tutto: abbiamo ricominciato a sperare”. Si sposarono in maggio 2018 nell’albergo più maestoso dell’isola di Büyükada, a due ore di traghetto da Istanbul. Il capo dei Caschi bianchi, Raed Saleh, era uno dei testimoni di Le Mesurier (...) Con una spada da cerimonia stretta in pugno, lo sposo venne portato in giro per il ricevimento sulle spalle degli amici. Contrariamente alle affermazioni circolate in seguito, Winberg indossava un abito da 1.795 sterline (poco meno di 2.000 euro), regalatole dalla madre, che lo aveva acquistato in un negozio dell’usato nel West End di Londra. Una coppia saldissima - Il forte legame che univa la coppia era evidente a chiunque li andasse a trovare nella casa che avevano affittato sull’isola di Büyükada e che Winberg aveva scrupolosamente risistemato, riempiendola di mobili e soprammobili, alcuni spediti da Londra e altri acquistati nei bazar della capitale turca. Vivevano in simbiosi, gestendo insieme anche la fondazione. Emma aveva infatti assunto un incarico nel consiglio di amministrazione di Mayday nel febbraio 2018 (da cui si è dimessa nel maggio 2019). Da quel momento era stata inserita nel libro paga come dirigente. Per diversi anni, pur sotto gli incessanti attacchi di coloro che li accusavano di perseguire i propri interessi personali, Le Mesurier, Winberg e i Caschi bianchi sembravano in grado di fronteggiare la continua campagna di disinformazione. Se contenere la disinformazione sembrava possibile, i problemi di gestione di Mayday Rescue stavano allargandosi a macchia d’olio. La gestione dei fondi: milioni ogni mese - La fondazione era cresciuta rapidamente e gestiva ogni mese milioni provenienti da donazioni. A metà 2018, quando i finanziamenti dei donatori raggiunsero cifre record, fu chiaro che l’organizzazione richiedeva una supervisione finanziaria più solida e un allargamento del team dirigenziale. E i motivi di ansia non finivano qui. Operare in Turchia stava diventando sempre più complicato: il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan era diventato sempre meno tollerante verso le Ong straniere, costringendo alcune a chiudere. Sebbene Ankara sostenesse l’opposizione anti-Assad, la sua simpatia era stata messa alla prova dall’incapacità degli oppositori di organizzarsi, e la sua tolleranza per i quasi 3 milioni di rifugiati siriani presenti nel suo territorio stava svanendo al pari della speranza che il conflitto avesse fine. L’inizio della fine, il crollo emotivo - A novembre 2019, Le Mesurier era esausto e profondamente fragile. L’incontro con i revisori olandesi era diventato il catalizzatore di un crollo emotivo. “Sono stati due giorni tremendi”, mi disse allora. “Sembra essere arrivata la fine per noi e probabilmente anche per Mayday”. Winberg osservava impotente il marito nella sua discesa agli inferi. “Da tempo eravamo entrambi molto stressati”, ha dichiarato. “La posta in gioco era molto alta e l’ambiente operativo stava diventando ogni giorno più rischioso. Ci sembrava di essere intenti a schivare i proiettili, ma sempre con la paura di quello che alla fine ci avrebbe centrati”. Nelle settimane successive alla morte del marito, Winberg, agli arresti domiciliari, si rifugiò da sola in quella che era la loro residenza coniugale. La casa era tappezzata di fotografie di Le Mesurier. Il pavimento in legno, che un tempo scricchiolava sotto i passi di amici e ospiti, ora era silenzioso. Il lungo tavolo da pranzo rimaneva inutilizzato e il vecchio pastore tedesco della coppia giaceva disteso su un vecchio tappeto. Nella casa risuonava l’eco di una perdita devastante. Rimettere insieme i pezzi di una vita - Seppur ancora ufficialmente sospettata della morte di Le Mesurier, a Winberg fu permesso di lasciare la Turchia per presenziare al funerale del marito, che si tenne il 27 dicembre 2019 in una piccola cappella del Surrey vicino alla residenza di famiglia. Il suo corpo venne cremato e le ceneri consegnate alla moglie. Alla fine di gennaio 2020, una volta tornata in Turchia, Winberg ricevette una chiamata dal suo avvocato turco, che la informava di non essere più indagata per omicidio e che era definitivamente libera di andarsene. Winberg fece i bagagli e partì per Amsterdam, dove, a quasi un anno di distanza, sta ancora cercando di rimettere insieme i pezzi della sua vita. “James era tutto quello che avevo sempre desiderato”, ha detto dalla sua nuova casa, circondata dai ricordi di una vita costruita insieme. “Lui mi ispirava, mi faceva ridere a crepapelle, mi faceva credere che niente fosse impossibile e mi faceva sentire talmente amata da sapere che non sarei mai più rimasta sola. La sua integrità, la sua passione e la sua profonda fede nella forza del coraggio e dell’operosità dell’essere umano hanno lasciato un segno inconfondibile in tutti coloro che l’hanno conosciuto. Non si può misurare né raccontare a parole l’impatto che ha avuto la sua morte”. *Traduzione Studio Brindani L’Etiopia annuncia la presa di Makallè. È caccia alla “cricca” di Fabrizio Floris Il Manifesto, 29 novembre 2020 Tigray. Dopo “pesanti bombardamenti” l’esercito federale sarebbe entrato nella capitale regionale. Ma i leader del Tplf sono già in montagna. Il premier Abiy Ahmed già pensa alla ricostruzione. Cresce l’allarme umanitario. “L’esercito federale ha il pieno controllo di Makallè”, ha annunciato ieri sera il premier etiope Abiy Ahmed, che ha poi ringraziato chi nel Tigray “ha fatto del suo meglio per sostenere le forze di difesa etiopi, accelerando la sconfitta del Tplf”. Ora - ha proseguito - “faremo tutto il possibile per aiutare la gente del Tigray a tornare alla vita normale”. Abiy ha dunque chiesto alla comunità internazionale di “unirsi alla ricostruzione per dare alla gente l’assistenza umanitaria e la sicurezza che merita”. Intanto “la polizia federale continuerà nella ricerca dei criminali del Tplf e li porterà davanti alla giustizia”. La guerra in Tigray ruota intorno all’arresto di 64 persone, la cricca - come la definisce Abiy - che dirige Il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). Tutti veterani di guerra ed esperti di guerriglia, quella che per 17 anni (dal 1975 al 1991) hanno condotto per abbattere il regime del Derg. È improbabile che si trovino ancora a Makallè, ma si saranno già sparpagliati sulle montagne perché “sanno di non avere possibilità in una guerra convenzionale”, come spiega il Professor Awet Weldemichael della Queens University. Le forze federali sarebbero avanzate intorno alla capitale tigrina, prendendo secondo quanto dichiarato dal generale Hassan Ibrahim la cittadina di Wikro, a 50 km da Makallè. Ma i dettagli dei combattimenti sono difficili da confermare perché tutte le comunicazioni telefoniche e internet sono interrotte. Intanto Makallè (500.000 abitanti) sarebbe finita sotto “pesanti bombardamenti”, come dichiarava alla Reuters il leader del Tplf Debretsion Gebremichael. L’artiglieria avrebbe colpito anche il centro della città. “Lo stato regionale del Tigray chiede a tutti coloro che hanno la coscienza pulita, inclusa la comunità internazionale, di condannare gli attacchi di aerei e i massacri che vengono commessi”. Tuttavia, Billene Seyoum, portavoce del governo, rispondeva che “l’esercito etiope non ha come missione bombardare la propria città e il proprio popolo”. La rete televisiva Ethiopian Broadcasting Corporation, ha comunicato che le forze federali hanno identificato i principali nascondigli del Tplf in città, tra i quali un auditorium e un museo. Gli aerei del governo hanno lanciato volantini avvertendo gli abitanti di stare lontano dai luoghi identificati come pericolosi. Sul piano diplomatico il premier etiope ha incontrato i mediatori designati dall’Unione africana - tre ex presidenti, Ellen Johnson-Sirleaf (Liberia), Joaquim Chissano (Mozambico) e Kgalema Motlanthe (Sudafrica). “Ricevere la saggezza e i consigli di rispettati anziani africani è per noi un dono di grande valore” ha dichiarato Abiy (tuttavia, i mediatori non potranno recarsi nel Tigray), dicendosi disposto a parlare con i rappresentanti del Tplf, ma solo quelli “che operano nel rispetto della legge”. Troppo poco per l’Unione africana che ha proprio sede ad Addis Abeba soprattutto nell’anno in cui i Paesi africani hanno deciso di svolgere un ruolo più attivo nella risoluzione dei conflitti del continente. Poi se è “vero” che le forze eritree sono sul campo, precisa Awet Weldemichael, è evidente che “qualsiasi pressione diplomatica per una risoluzione pacifica non avrà successo a meno che non coinvolga Asmara - in una forma o nell’altra”. A livello internazionale il Papa ha esortato le parti in conflitto a far cessare le violenze affinché sia salvaguardata la vita, in particolare dei civili. Ma l’unica apertura del governo è stato l’impegno ad aprire “una via di accesso umanitario” alla regione. Una delegazione della Croce Rossa Internazionale che ha avuto accesso al Tigray occidentale ha raccontato di villaggi distrutti, quello di Damsha in particolare, e di sfollati che vivono in campi improvvisati senza cibo, acqua o cure mediche. Al punto in cui siamo i numeri sono questi: 3 settimane, 43.000 rifugiati, 64 ricercati, 1 guerra, e 1 Nobel per la pace (Abiy). Solo i morti non si possono contare.