Il nostro digiuno per la salute nelle carceri. Se il virus dilaga è un rischio per tutti di Luigi Manconi La Stampa, 28 novembre 2020 Scrivo su questa pagina, quanto contemporaneamente scrivono Sandro Veronesi sul Corriere della Sera e Roberto Saviano su Repubblica. Vogliamo argomentare, in tal modo, un nostro modesto atto di solidarietà nei confronti di una iniziativa che riteniamo saggia e utile: e così ci uniamo, in una ideale staffetta, a Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, impegnata dal 10 novembre in un’azione nonviolenta di digiuno. L’intento di Bernardini, nostro e di altre centinaia di cittadini e di circa 700 detenuti in sciopero della fame, è quello di ottenere, dal Governo e dalle autorità, quei provvedimenti capaci di ridurre significativamente il sovraffollamento delle prigioni. Finora, il ministro della Giustizia ha taciuto o ha fornito risposte totalmente inadeguate. Eppure, il carcere è il luogo più affollato d’Italia e la cella può essere lo spazio più congestionato e patogeno dell’intero sistema penitenziario. Non stupisce, dunque, che oggi, tra i detenuti, i positivi siano 874 e, tra il personale amministrativo e di polizia, 1042. Per partecipare concretamente a questa mobilitazione civile, insieme a Veronesi e Saviano e ad Alessandro Bergonzoni e a chi condivide le nostre motivazioni, digiuneremo per 48 ore. L’interesse collettivo - Lo facciamo in nome di un interesse collettivo, non per uno slancio filantropico. Nelle società contemporanee, infatti, la salute pubblica non consente zone franche e non prevede spazi definitivamente immuni. La nostra organizzazione sociale, non è solo connessa attraverso il digitale, è anche - e ancor prima - intercomunicante: un grande aggregato, dove non si trovano spazi vuoti, né intercapedini isolanti. All’interno di questa massa di agglomerati e legami, di strutture e infrastrutture, di reti e canali, non sopravvivono luoghi anestetizzati e cittadelle impermeabili. Insomma, il nemico - sia esso un terrorista islamista o un virus micidiale - non incontra resistenze insuperabili. In altre parole, non si può impedire al morbo di “muoversi”: si può, piuttosto, contenerne l’espansione, trattenerne la corsa, limitarne l’aggressività. Ma non esistono barriere invalicabili. Dunque, fu sciocco credere, nello scorso marzo, che il contagio si fermasse davanti alle mura dei penitenziari. L’allora ridotto numero dei positivi, portò molti a pensare che il carcere, e il carcere “più chiuso” (il regime di Alta sicurezza e di 41 bis), rappresentassero una sorta di “casa rifugio”, la più protetta contro il contagio. Il che indusse il ministro della Giustizia a rinunciare alla sola scelta giusta: ridurre il numero dei detenuti. Perché questo è il punto. Il sistema penitenziario è strutturalmente causa di patologia e fattore di morbilità. È affollato, sovraffollato e congestionato, non a causa di un’emergenza occasionale, ma per gli effetti di una perversa politica della giustizia. Questa, in presenza di una sensibile riduzione di tutti i reati, aumenta vertiginosamente le fattispecie penali, innalza l’entità delle pene ed estende al massimo il ricorso alla carcerazione. È una spirale inarrestabile che porta fatalmente all’accumularsi di corpi entro spazi chiusi e insalubri. In quella concentrazione di individui vulnerabili e in quella promiscuità coatta, l’isolamento sociale, precondizione di tutte le profilassi, è semplicemente impossibile. E il virus, una volta entrato, tende a diffondersi pervasivamente: e a ritornare all’esterno, tra coloro che in carcere mai sono stati e mai saranno. Indulto e amnistia - Da qui la ragionevolezza di misure come amnistia e indulto che gli attuali rapporti di forza parlamentari non consentono; e la saggia concretezza degli obiettivi proposti dal digiuno di Bernardini, che qui sintetizzo: 1) Blocco dell’esecuzione delle sentenze passate in giudicato - come indicato dal Procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi- per tutta la durata dell’emergenza, a meno che la Procura valuti che “il condannato possa mettere in pericolo la vita o l’incolumità altrui”; 2) Liberazione anticipata speciale, passando dagli attuali 45 a 75 giorni, per quei detenuti che hanno dimostrato buona condotta e avviato un percorso orientato al reinserimento sociale; 3) Allargamento della platea di beneficiari della detenzione domiciliare speciale, prevista nel decreto Ristori, a coloro che devono espiare una pena non superiore a 24 mesi. Insomma, come dice Bergonzoni: “Non buttiamo la chiave! Usiamola noi per entrare e vedere cosa succede di tanti efferati silenzi”. Carceri sovraffollate: ora una battaglia di civiltà di Sandro Veronesi Corriere della Sera, 28 novembre 2020 Scrivo su questa pagina quanto contemporaneamente scrivono Luigi Manconi su “La Stampa” e Roberto Saviano su “la Repubblica”. Così vogliamo argomentare un nostro modesto atto di solidarietà nei confronti di una battaglia civile che riteniamo saggia; e così ci uniamo in una ideale staffetta a Rita Bernardini, leader del Partito radicale e di Nessuno tocchi Caino, impegnata dal 10 novembre in un’azione non violenta di sciopero della fame. L’intento di Rita Bernardini, nostro e di altre centinaia di cittadini e di circa 700 detenuti, attualmente in sciopero della fame, è quello di chiedere al governo e alle autorità competenti di adottare provvedimenti in grado di ridurre in misura significativa il sovraffollamento delle prigioni italiane. Finora il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, o ha taciuto o ha dato risposte totalmente inadeguate. Il carcere è oggi il luogo più affollato d’Italia e la cella può essere lo spazio più congestionato e patogeno dell’intero sistema penitenziario. Non stupisce, dunque, che a oggi tra i detenuti siano 874 i positivi al coronavirus, e 1.042 tra personale amministrativo e di polizia. Per partecipare concretamente a questa mobilitazione civile contro una situazione tanto iniqua, insieme a Luigi Manconi, a Roberto Saviano e a chi condivide le nostre motivazioni, digiuneremo per 48 ore a partire da oggi. Viene detto e ripetuto da mesi che ancora non esiste arma di difesa dal coronavirus migliore del distanziamento fisico, e non è difficile immaginare che fine faccia questa arma in una cella sovraffollata. Ma vediamo anche d’intenderci su cosa significa “sovraffollata”. Innanzitutto, certo, si tratta di una questione di numeri: in Italia il tasso di sovraffollamento oscilla da struttura a struttura ma è mediamente intorno al 130%, con punte che toccano il 200% - il che significa che in questi casi lo spazio originariamente destinato a un detenuto viene occupato da due. I detenuti senza un posto letto sono quasi 4.000, mentre oltre 9.000 vivono la propria reclusione in uno spazio inferiore ai 4 metri quadrati, superficie ben al di sotto degli standard previsti dal Consiglio d’Europa. E si potrebbe continuare. I numeri sono eloquenti, ed è normale che su di essi s’innestino quelli, altrettanto eloquenti, del contagio. Ma quando si parla di carceri la parola “sovraffollamento” non esaurisce il proprio significato nei numeri. Vi sono aspetti emotivi, per così dire, che, combinandovisi, pesano quanto i numeri e che non sono difficili da capire. Per esempio, la perdita dell’intimità: e se in tempi normali essa può essere compensata dalla solidarietà che si stabilisce tra i compagni di cella, in tempi di emergenza Covid essa diventa una punizione nella punizione. Per esempio, il divieto di ricevere pacchi alimentari dalle famiglie impedisce la condivisione di quei prodotti tra compagni di cella, ma se a questo “distanziamento emotivo” non ne corrisponde uno fisico, poiché il sovraffollamento lo rende impossibile, la detenzione si aggrava in un colpo solo di due afflizioni supplementari: la perdita di quel poco di eros che può essere conquistato per l’appunto con la condivisione e l’aumento delle probabilità di subire il contagio. Naturalmente questo aggravio di pena è tanto più afflittivo quanto più le condizioni di partenza, in era pre-Covid, erano già critiche; e abbiamo appena visto che in Italia queste condizioni erano tra le peggiori d’Europa. È quindi dal combinato disposto delle due voci che scaturisce l’attuale non più sostenibile emergenza. Ma c’è un altro dato di fatto - forse il più doloroso di tutti - che si innesta in questo quadro, ed è soprattutto riguardo a questo dato di fatto che c’è bisogno di darsi una svegliata, come società civile: sembra proprio che nessuno creda più all’articolo 27 del dettato costituzionale, secondo il quale la pena deve tendere alla riabilitazione e al reinserimento del condannato. L’assoluta marginalità di chi continua a credere in questo articolo della Costituzione innesca un meccanismo perverso secondo il quale anche l’attività politica, ormai così sciaguratamente compromessa nel rincorrere le opinioni degli elettori anziché guidarle, tende a disinteressarsi alle condizioni nelle prigioni del Paese. “Buttare le chiavi”, “marcire in galera”, sono espressioni che risuonano troppo spesso e troppo impunemente per non stroncare all’origine il senso stesso di quell’articolo - ed ecco perché si rendono necessarie azioni estreme come lo sciopero della fame di Rita Bernardini, che dura ormai da 18 giorni. Ora, è noto come vanno a finire queste cose. O si lascia morire di fame il manifestante, o si ascolta la sua voce. Tutto ciò che può essere fatto per indirizzare le cose verso questa seconda soluzione va fatto, e tutto il tempo che si lascia passare prima di ascoltarla, quella voce, diventa un’inutile tortura. È una voce che dice: abbiamo un problema in più, oltre a quelli di cui si parla ventiquattr’ore su ventiquattro, ed è giunto il momento di risolverlo. E per risolverlo, dice ancora, c’è una sola cosa da fare: ridurre il sovraffollamento nelle nostre carceri, vale a dire fare uscire qualche migliaio di detenuti. Per ottenere questo risultato ci sono diversi strumenti giuridici, e sarebbe davvero il caso che a partire da domani cominciasse una seria discussione su quale utilizzare; per esempio se l’indulto (l’ultimo, nel 2006), o l’amnistia (l’ultima, nel 1990), oppure, nel caso queste misure venissero considerate troppo “politiche”, una delle soluzioni tecniche a disposizione, ugualmente in grado di ridurre in misura significativa la popolazione carceraria: la liberazione anticipata speciale, il blocco dell’esecutività delle sentenze passate in giudicato, o l’allargamento della platea dei beneficiari della detenzione domiciliare speciale. Dunque, riassumendo: la situazione del contagio da coronavirus dentro i nostri istituti di pena è molto grave, tanto che se quelle percentuali dovessero replicarsi anche fuori se ne parlerebbe con toni apocalittici. Giusto per dare l’idea, si parla di un tasso di infetti circa dieci volte superiore a quello, già pesante, che c’è fuori. È in corso da oltre due settimane un’azione non-violenta per richiamare l’attenzione su questo punto. Occorre che il ministro della Giustizia e tutti gli altri responsabili si attivino immediatamente per risolvere il problema. L’alternativa, ormai, è quel farli “marcire in galera” nella sua accezione letterale. Per finire, resta da dire ciò che è ovvio e che però, se detto prima, avrebbe indebolito di molto la ratio di questa nostra iniziativa: negli istituti di pena non stanno solo i detenuti, ci stanno anche circa 36.000 guardie carcerarie, anch’esse pesantissimamente colpite dal contagio, e poi il personale amministrativo, gli operatori sociali, gli educatori, gli psicologi e, come testimoniato dalla scioccante inchiesta di Annalena Benini sul “Foglio” del 16 novembre, anche 33 bambini sotto i tre anni tenuti in cella assieme alle loro madri (di cui due, pare, positivi al coronavirus): in attesa di risolvere anche i problemi relativi a queste presenze (numeri insufficienti per ogni categoria di operatori, inaccettabili per i bambini, ne rimanesse anche solo uno), sarebbe il caso di affrettarsi a proteggere anche loro dal male che affligge il pianeta - almeno quel poco che ci è dato di fare con i sistemi per adesso ancora medievali che abbiamo a disposizione. La certezza dell’umanità di Roberto Saviano La Repubblica, 28 novembre 2020 Scrivo su queste pagine, quanto contemporaneamente scrivono anche Luigi Manconi su La Stampa e Sandro Veronesi sul Corriere della Sera. Vogliamo, così, argomentare un nostro modesto atto di solidarietà nei confronti di una battaglia civile che riteniamo saggia e utile: e così ci uniamo, in una ideale staffetta, a Rita Bernardini, leader del Partito Radicale e di Nessuno Tocchi Caino, impegnata dal 10 novembre in un’azione nonviolenta di sciopero della fame. L’intento di Rita Bernardini, nostro e di altre centinaia di cittadini e di oltre 500 detenuti, attualmente in sciopero della fame, è quello di chiedere al Governo e alle autorità pubbliche di adottare provvedimenti in grado di ridurre in misura significativa il sovraffollamento delle prigioni italiane. Queste richieste sono rese ancora più urgenti dal fatto che il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, non sembra essersi mai più ripreso, in termini di serenità politica, dai postumi della violentissima polemica con il Consigliere Nino Di Matteo; questa situazione di ottundimento e paralisi non è però più tollerabile, vista la gravità della situazione e degli interessi in gioco. Il carcere è oggi il luogo più affollato d’Italia e la cella può essere lo spazio più congestionato e patogeno dell’intero sistema penitenziario. Non stupisce, dunque, che oggi, tra i detenuti, i positivi al Covid siano 826 e, tra il personale amministrativo e di polizia, 1042. Per partecipare concretamente a questa mobilitazione civile contro una situazione tanto iniqua, insieme a Luigi Manconi, a Sandro Veronesi e a chi condivida le nostre motivazioni, digiuneremo a partire da oggi per 48 ore. Da studioso delle dinamiche criminali, sin da giovanissimo mi sono imbattuto nel funzionamento, ma farei meglio a dire nel non funzionamento o nel mal funzionamento, del sistema carcerario italiano. Sia chiaro, questo NON significa che chi lavora nelle carceri a vario titolo lo faccia senza passione e senza scrupolo. È piuttosto vero il contrario, ovvero che in un sistema che è costruito per non funzionare, chiunque ne sia coinvolto fa un lavoro disumano. Eppure, come ogni argomento che per essere affrontato richiede un minimo di approfondimento e una grossa dose di coraggio - oggi li definiscono “argomenti divisivi” e sono quegli argomenti che fanno ritrarre tutti: politici e comunicatori - di carcere si parla il più delle volte solo auspicando una carcerizzazione crescente e progressiva in nome di un concetto vaghissimo, e mai davvero affrontato nelle sue implicazioni, che è la tanto sbandierata “certezza della pena”. Viceversa, è del tutto impossibile aprire un dibattito basato sull’analisi reale delle condizioni in cui vivono i reclusi perché l’assunto è: se lo meritano, perché hanno sbagliato. Ma quando parliamo di “certezza della pena” sappiamo davvero cosa significa? Sappiamo che non significa prendere il condannato, chiuderlo in carcere a doppia mandata e buttare la chiave? Sappiamo che significa anche e soprattutto dare garanzie a chi la pena deve scontarla? Riusciamo a fare quel passaggio logico, che - lo so! - richiede una buona dose di empatia verso noi stessi oltre che verso chi ha avuto un destino differente dal nostro, che ci porta a considerare il carcere uno specchio della vita fuori dal carcere? Come pensiamo di poter accettare che i rei vengano trattati come rifiuti da chiudere in discariche sociali, senza immaginare che un giorno o l’altro potremmo rientrare anche noi in una sottocategoria di quei famigerati “argomenti divisivi” su cui o si fa sciacallaggio politico e mediatico o si tace? Il carcere fa perdere consenso, questo è ciò che la politica pensa, ed è di conseguenza che agisce. È così che il governo Gentiloni, poco prima delle elezioni del 2018, ha fatto naufragare un lavoro di anni che avrebbe portato maggiori diritti nelle carceri aumentando il numero di detenuti che potevano lavorare e quindi immaginare un futuro dopo la carcerazione; è così che i governi successivi hanno chiarito sin da subito, senza lasciare alcun dubbio, che le carceri sono un luogo di punizione e non di rieducazione tesa al reinserimento nel mondo esterno. Ma quali sono gli obiettivi che vorremmo provare a ottenere con questi articoli? Sicuramente rompere il muro del silenzio dietro cui questo governo si è trincerato, in una fase tanto delicata in cui ogni silenzio è colpevole. Ottenere una risposta per gli oltre 60 mila detenuti reclusi nelle carceri italiane che hanno diritto a scontare la pena (per molti non c’è ancora una condanna definitiva e altri sono tossicodipendenti che dovrebbero stare altrove) in condizioni dignitose. Per gli oltre 30mila agenti di polizia penitenziaria, per i mille educatori, per i 16 mila volontari, per i 150 mediatori culturali e per i direttori degli istituti penitenziari che spesso si dividono tra più strutture carcerarie. Per tutte queste persone il carcere deve essere un luogo in cui vengano rispettati i diritti fondamentali dell’individuo, e tra questi c’è il diritto alla salute. Ma fino a quando ci racconteranno il carcere come un luogo di vendetta, dove chi vi è finito merita il peggio possibile, la vita sarà difficile anche per tutte le persone che lavorano in carcere, che entrano ed escono da un luogo di sofferenza dove non è possibile intravedere alcuna luce in fondo al tunnel. Concretamente, chiediamo a questo governo di prendere atto del dramma che si sta consumando nelle carceri italiane, dove nessun distanziamento è possibile, dove i più fragili fisicamente tra i detenuti e il personale che a vario titolo vi lavora, sono oggi in serio pericolo di vita. A meno di non considerare la pandemia una questione grave per chi è fuori e, al contrario, un fenomeno trascurabile per chi è dentro o di considerare gli asintomatici pericolosi fuori dal carcere e innocui dentro il carcere. Salvo poi dire che, quando il virus fa il suo ingresso - e lo ha fatto senza dubbio - in strutture chiuse, ciò che si può prevedere è una strage. E dunque, se è così, se può provocare una strage, in qualche modo, in Italia, nel 2020, si stanno condannando a morte delle persone. Che il carcere sia un luogo sicuro poiché chiuso all’esterno, è una sciocchezza sesquipedale raccontata da chi sembra provare piacere fisico nella restrizione della libertà altrui. La realtà di queste settimane racconta di contagiati anche nelle sezioni 41bis. Concretamente chiediamo a questo governo che la liberazione anticipata speciale passi dai previsti attuali 45 giorni a 75 giorni per tutti quei detenuti che abbiano dimostrato, attraverso la buona condotta, di avere intrapreso e di seguire un percorso trattamentale concretamente orientato al reinserimento in società (qui poi varrebbe la pena aprire un capitolo sul numero esiguo di detenuti che in carcere hanno accesso alle aree trattamentali). Chiediamo, per tutta la durata dell’emergenza, il blocco dell’esecutività delle sentenze passate in giudicato a meno che la Procura valuti che “il condannato possa mettere in pericolo la vita o l’incolumità delle persone”. E infine chiediamo di allargare la platea dei beneficiari della detenzione domiciliare speciale prevista nel decreto Ristori a coloro che devono espiare una pena, anche se costituente parte residua di maggior pena, non superiore a 24 mesi, senza esclusioni derivanti dal titolo di reato. Questo chiediamo al governo. A voi che leggete ora queste mie righe, chiedo di adottare il carcere, chi è detenuto per aver commesso un reato e chi in carcere lavora; di non considerare il carcere una discarica sociale, di educare i vostri figli perché provino interesse per i destini di chi varca quella soglia e di provarne voi stessi. Vi chiedo di essere differenti, differenti da questa politica pavida che ha smesso di servire i cittadini, il Paese e chi ha bisogno di aiuto, per servire solo se stessa. Detenuti senza distanziamento: Rita Bernardini chiede che lo Stato faccia il proprio dovere di Simona Giannetti e Veronica Manca* Il Dubbio, 28 novembre 2020 “La doppia ansia del contagio… Bisognerebbe diminuire le presenze perché c’è bisogno di spazi qualora il contagio si diffondesse maggiormente”. Se lo dice il Garante nazionale Mauro Palma, si può con certezza iniziare a pensare di fare i conti con l’emergenza sanitaria in carcere, di grazia? La mancanza di ossigeno, il venir meno del respiro e della vita sono attimi devastanti che fanno paura a tutti. Ciò che spaventa è ancor di più l’impotenza di fronte alla morte. Sia che la morte riguardi una persona libera, sia che il decesso avvenga all’interno di mura, invisibile agli occhi dei più. Ecco la doppia ansia del contagio. Del resto è ormai innegabile, che la situazione di emergenza sanitaria nelle carceri richieda un nuovo e più decisivo intervento, con misure non populiste e che si volgano in direzione risolutiva. Mandare all’oblio il tema del rischio di una pandemia dentro le celle: questo sembrerebbe il tacito obiettivo del Governo. È chiaro ai più che le ragioni di tutto ciò risiedano nelle derive giustizialiste, che aleggiano da mesi ormai e che strappano il mondo complesso del carcere dallo sguardo dello Stato di Diritto. Purtroppo i dati del contagio parlano chiaro: sono gli stessi sindacati della Polizia penitenziaria, che ne denunciano la rapida diffusione tra gli agenti e i detenuti. Se ci sono quasi 55.000 detenuti costretti a vivere in un sistema carcerario che ha circa 47.000 posti disponibili, senza essere dei ragionieri è ovvio che la falla nella diffusione dei contagi risieda nei numeri del sovraffollamento. Il covid 19 si diffonde più velocemente in carcere e può colpire un numero considerevole sia di detenuti sia di operatori, che quotidianamente entrano a contatto con le persone recluse, proprio a causa del poco spazio per il distanziamento: i focolai in carcere ci sono ed è un errore sminuirne la portata, anche per quelle stesse questioni di sicurezza sociale tanto declamate dai seguaci del giustizialismo più incallito. Anche a fronte di ciò, il decreto legge 137/ 2020 con i suoi limiti e preclusioni, anziché agevolare la deflazione delle presenze, ha ridotto la platea dei beneficiari. È evidente che in tempi di emergenza pandemica la deflazione delle presenze in carcere dovrebbe essere favorita da un più facile accesso all’esecuzione della pena nel domicilio. Al contrario di quanto fatto dal nostro Governo, se si volesse davvero affrontare il pericolo della diffusione della pandemia sarebbe necessario eliminare le preclusioni alla legge 199/ 2010, togliendo i vincoli del divieto di concessione agli autori di reati del 4 bis (quelli meno gravi, eliminando il divieto assoluto) e ai casi di ricorrenza del 58 quater dell’ordinamento penitenziario, e riservare i pochi braccialetti - di cui ancora non conosciamo le disponibilità - solo a questi ultimi per motivi di esigenze di tutela della sicurezza sociale, che però sarebbero bilanciate con il diritto alla salute nell’applicazione di una misura extra muraria. D’altro canto la portata delle misure del Dl 137/ 2020, cosi come concepite, pare svelare la mano di un legislatore più attento a evitare le scarcerazioni, che non a far fronte alla necessità di sfollamento delle carceri: basti pensare che un detenuto che ha un fine pena di 6 mesi anche per un reato non di quelli del 4 bis, se avesse violato in precedenza le prescrizioni di un affidamento con revoca della misura, non potrebbe prima dei 3 anni accedere alle disposizioni del decreto. Il fatto è che se non si mollano gli ormeggi dalla posizione securitaria e non si allenta la presa delle ostatività, le esigenze emergenziali non troveranno la risposta che serve al carcere per uscire dal pericolo della pandemia. Peraltro ciò si aggiunge al fatto che oggi la detenzione perde la propria finalità costituzionalmente orientata mentre sacrifica il diritto alla salute individuale e collettiva. I detenuti vengono cristallizzati nelle sezioni, non fanno socialità né attività trattamentali: il carcere diventa una gabbia del contagio, dove la rieducazione resta un miraggio. Minori con un’età inferiore ai 12 anni, che, in molte parti d’Italia, non possono incontrare i propri genitori ormai da febbraio; dovunque invece, in via assoluta, nemmeno li possono sentire su Skype, se sono ristretti al 41bis. Senza contare i 33 bambini dietro le sbarre insieme alle loro madri detenute: almeno 3 di loro, a 3 anni, hanno contratto il Covid in carcere. Rieducazione, socialità, colloqui, diritti dell’infanzia sono tutti elementi che possono produrre anche morte, se dimenticati: ormai il numero dei suicidi non si conta più (o meglio sì, sono 51 solo a novembre 2020), come non si tiene più il polso del problema del disagio mentale in carcere. In questo quadro, che definire desolante è un eufemismo, si è manifestata fin da subito l’inefficacia pratica delle misure d’emergenza governative da ultimo intraprese. Per questo non hanno tardato ad arrivare le proposte avanzate al Governo da diverse voci: tra queste quella di Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, che dal Partito radicale chiede amnistia e indulto, ma anche il potenziamento della liberazione anticipata da 45 giorni a 75 giorni (come ai tempi del sovraffollamento carcerario del 2010 dopo Sulejmanovic c. Italia). Se l’azione nonviolenta di Rita si rivolge all’apertura di un dialogo col governo per abbattere la situazione di “flagranza criminale”, di cui parlava Marco Pannella a proposito del sovraffollamento carcerario, ci si può e ci si deve aspettare dallo stesso Governo una risposta. Ormai sono oltre 1.000 le persone che si sono affiancate anche solo per un giorno a Rita, che con la sua forza riporta la memoria alle parole di Marco Pannella: “Il mio è un digiuno radicale che chiede allo Stato nient’altro, oltre quello che gli compete”. Ebbene, se il digiuno è una forma di dialogo c’è da augurarsi che il Ministro e il suo Governo rispondano e che anche la Magistratura non perda l’occasione di contribuire con il suo potere davvero indipendente. *Avvocate penaliste - Direttivo Nessuno tocchi Caino Se non ora quando? La pandemia occasione per ripensare le carceri di Domenico Alessandro de Rossi* pensalibero.it, 28 novembre 2020 Indulto, amnistia, liberazione anticipata, sono in molti a richiedere giustamente immediate misure a fronte della drammatica situazione delle carceri che a causa del virus vedono in una sola settimana crescere progressivamente il numero dei contagiati da 395 a 537 nel carcere di Opera. Se non avvengono misure straordinarie e di respiro strategico che interessino le carceri, la curva epidemiologica da sola e senza coraggiose azioni governative, certamente non tenderà a decrescere. Il fatto ancora più serio è che la cronica percentuale di sovraffollamento negli istituti diventa oggi una pericolosa aggravante rispetto alla situazione epidemica che chiama in causa tutti i responsabili del mondo penitenziario, nessuno escluso: dalla politica alla amministrazione fino alla stessa magistratura. Il paradosso è che per far infettare dal virus ancora più velocemente i detenuti non basta più tenerli stipati come stazionavano una volta dentro la stessa cella. No, dopo la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per fingere di sanare tutto è bastato inventarsi la “sorveglianza dinamica”. Quella soluzione furbesca, tanto per capirsi, che mischia tutti gli umani detenuti fuori dalle singole gabbie per riunirli tutti insieme dentro una più grande che si chiama corridoio. Ambiente destinato al passaggio, ben poco arieggiato che si presta perfettamente quale migliore incubatore virale dove per diverse ore si affollano individui ancora sani con quelli ignoti già infettati. Questa premessa poco edificante per chi da anni gestisce le carceri con metodi e finalità lontanissime dal dettato costituzionale non fa onore all’Italia. Un Paese, che per smuovere la politica e portarla su posizioni più responsabili, costringe persone da sempre impegnate come Rita Bernardini ed altri a ricorrere allo sciopero della fame, non è degno di chiamarsi civile. Ancora oggi in Italia, per far rispettare le leggi e sensibilizzare la politica al rispetto della Costituzione è necessario fare lo sciopero della fame rischiando la vita come a suo tempo fu di esempio Marco Pannella ripetute volte con metodo non violento. Ciononostante politica e magistratura come sappiamo hanno altro a cui pensare. Talvolta, quando serve, si interessano del travaglio di un elettorato manettaro, esaltato da alcuni fanatici giornalisti. Già a suo tempo ho affrontato come architetto il problema della distanza tra individui ristretti negli ambienti penitenziari, avvalendomi di concetti derivati dalla prossemica, quella scienza dal nome strano che si occupa della lontananza/vicinanza fisica tra esseri umani e del suo significato. Una volta questa disciplina valutava solo l’aspetto antropologico della distanza tra le persone, determinando le necessarie distinzioni tra individui di genere e cultura differenti. La prossemica ci conferma per esempio che nel mondo arabo e africano la distanza media tra persone tra loro estranee è molto più ravvicinata rispetto a quella mantenuta tra individui di cultura occidentale o nord europea. In generale questo fatto determina e condiziona anche nella progettazione degli ambienti architettonici esigenze dimensionali diverse a seconda del tipo di persone che frequentano quegli spazi. Oggi a fronte dell’epidemia virale la scienza delle distanze e delle relazioni è di fatto superata e tutta da ripensare a causa di altre più urgenti esigenze, non più solo antropologiche e culturali, ma fisiche, sanitarie ed economiche. Queste considerazioni obbligano cambiamenti strutturali riguardanti gli spazi delle carceri che già prima del Covid 19 erano superati tanto da far condannare l’Italia dalla Cedu perché non garantiva a coloro che erano detenuti sufficienti spazi vitali. Ora, messi davanti al problema della salute da salvaguardare per i detenuti e per coloro che lavorano in carcere, è arrivato il momento di non più rinviare il lancio di un serio piano carceri modellato per i prossimi trenta, quaranta anni. Non si perda più tempo come finora si è fatto ricorrendo alla soluzione del giorno-per-giorno tramite l’adozione di provvedimenti furbeschi più tesi a rinviare che a risolvere problemi strutturali. Si prenda seriamente atto dell’urgenza della pandemia che obbliga oggi a ripensare nuovi criteri per la detenzione del domani, con nuove modalità e una nuova visione della carcerazione sempre in considerazione dell’art. 27 della Costituzione. E’ il presente drammatico del Covid 19 che ci sospinge senza alternative a ripensare nuove formule anche per il carcere del futuro, se serve e a cosa esso debba veramente servire. La protezione della sicurezza in ogni senso, anche per coloro che non sono in carcere, è ripensare allo scopo della carcerazione, ripensare alle distanze, al superamento dei vecchi edifici e alla riconversione per funzioni alternative di strutture assolutamente inadatte per impiegare utilmente il tempo sequestrato al detenuto durante il periodo di prigionia. *Centro europeo studi penitenziari (Cesp) Sessualità in carcere: un proibizionismo che ha radici lontane di Giusy Santella mardeisargassi.it, 28 novembre 2020 La Commissione Giustizia sta perdendo tempo con gli appartamenti dell’amore in carcere: a scriverlo sul suo profilo Facebook è stato il leghista Andrea Ostellari, in occasione della prima seduta della Commissione Giustizia del Senato per discutere il disegno di legge 1876 riguardante le norme a tutela delle relazioni affettive dei detenuti. Seduta durante la quale si è stabilito di rimettere il voto all’Assemblea. Andando con ordine, il disegno di legge, il cui testo è stato elaborato dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale nel 2019 e presentato dal Consiglio Regionale della Toscana per l’approvazione, interviene sulla legge 354 del 1975, che si occupa dell’ordinamento penitenziario, e sul suo regolamento attuativo (D.P.R. 230 del 2000). Le modifiche riguardano innanzitutto i colloqui telefonici, che vengono resi quotidiani e raddoppiati in quanto a durata - la cui importanza risulta fondamentale in piena pandemia - e i permessi di necessità per consentirne l’utilizzo anche per motivi rilevanti e non solo necessari e urgenti. Ciò che, però, sembra aver infastidito il senatore Ostellari è la previsione di cui all’articolo 1, che prevede la possibilità di effettuare un colloquio, una volta al mese, e con le persone ammesse allo stesso - dunque, ampliando la definizione di famiglia in senso stretto - in unità abitative senza controllo audio né video per un tempo che va dalle sei alle ventiquattro ore. Si tratta di una previsione già presente in moltissimi paesi europei, ma anche extraeuropei, come il Canada, dove la possibilità di incontrare la propria famiglia all’interno di prefabbricati in carcere si estende fino a tre giorni consecutivi e che ha chiaramente come fine quello di tutelare l’affettività in tutte le sue forme, compresa la sessualità, che non è in alcun modo presa in considerazione nel nostro ordinamento pur rappresentando, a detta di molte autorevoli voci, un’esigenza reale e fortemente avvertita. Il silenzio sul tema esprime in realtà un proibizionismo che, da un lato, non individua nel detenuto un individuo che abbia gli stessi bisogni di coloro che si trovano all’esterno e, dall’altro, non ritiene che la sessualità sia una necessità, bensì un lusso di cui si può fare a meno senza alcun impatto negativo sulla persona. Il senatore Ostellari esprime così il pensiero comune, considerato che fino a oggi, nonostante le diverse pronunce sul tema, qualsiasi disegno di legge in tal senso non ha mai avuto seguito. Indicazioni esplicite sulla necessità di affrontare la questione provengono dal Consiglio d’Europa e dal Parlamento europeo oramai dalla fine degli anni Novanta, senza considerare che la stessa Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non solo vieta i trattamenti inumani e degradanti - in cui può essere compresa l’astinenza sessuale coatta - ma, soprattutto, all’articolo 8, tutela il rispetto della vita privata e familiare di cui l’affettività e la sessualità sono senz’altro espressione. Nello stesso senso, si sono espresse le Raccomandazioni delle regole penitenziarie europee del 2006 e le Regole di Bangkok delle Nazioni Unite del 2010, e non sono mancate pronunce delle corti europee. Inoltre, la nostra Corte Costituzionale ha sottolineato la necessità di un intervento del legislatore già nel 2012. L’introduzione dell’istituto giuridico dei colloqui intimi in carcere è stata proposta varie volte, a cominciare dal 1999 da parte di Alessandro Margara, allora direttore del dipartimento di amministrazione penitenziaria, che però ricevette un parere negativo dal Consiglio di Stato che riteneva necessaria una scelta parlamentare. La stessa proposta, stralciata dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018, fu poi avanzata dagli Stati Generali di esecuzione penale. Un tale proibizionismo confligge con uno dei principi cardine del nostro ordinamento, ossia il divieto di qualsiasi afflizione maggiore rispetto a quella conseguente alla privazione della libertà e cela un intento punitivo tipico di una pena corporale che avremmo dovuto superare già da tempo. Simile intento è ravvisabile anche se si prendono in considerazione gli altri istituti attraverso cui viene - o dovrebbe essere - tutelato il diritto all’affettività delle persone detenute. Basti pensare ai colloqui, svolti senza alcuna privacy e spesso ledendo anche il diritto alla salute dei familiari, costretti a lunghissime file e condizioni inumane. Gli stessi permessi premio spettano soltanto a una minoranza dei detenuti e, dunque, solo questi vedono tutelato il loro diritto alla sessualità in saltuarie occasioni. Eppure, la degradazione di una necessità a un lusso, secondo lo stesso studioso Andrea Pugiotto che da anni si occupa del tema, rappresenta una violazione palese del tessuto costituzionale: non solo dell’articolo 27 che riguarda la necessità di una pena rieducativa e rispondente al senso di umanità, ma anche dei diritti inviolabili della persona di cui all’articolo 2, del diritto al mantenimento dei rapporti affettivi e familiari e, ancora, del diritto alla salute psicofisica. Ciò che infatti sfugge ai più è che le necessità sessuali e affettive sono espressione del più ampio diritto alla salute e non capricci, come invece sostenuto da Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), che ha affermato testualmente che a fare i postriboli in carcere non ci sta. Le scusanti utilizzate da molti addetti ai lavori per rifiutare tale necessità riguardano in particolare motivi di sicurezza - che, però, sembrano superati nei Paesi che dispongono in tal senso - e il sovraffollamento, trasformando così un problema strutturale che va affrontato da sempre in una giustificazione per negare diritti e umanità. Nello stesso carcere di Milano-Opera viene utilizzato in via sperimentale un appartamento messo a disposizione a turno per gli incontri familiari, specificando però che non c’è posto per la sessualità perché gli incontri avvengono necessariamente con l’intera famiglia. Dunque, anche laddove ci sono prefabbricati utilizzabili, la volontà è quella di eliminare del tutto la possibilità, ignorando che essa incide negativamente sull’intero percorso risocializzante del detenuto. Numerosi studi sul tema parlano infatti di una regressione a livello emotivo al livello infantile poiché il recluso ferma le proprie emozioni al momento dell’ingresso in carcere. Chiaramente, questo è solo uno dei tanti modi attraverso cui viene portato avanti il processo di infantilizzazione dei detenuti, che diventano completamente dipendenti dall’amministrazione penitenziaria. Il processo di spersonalizzazione può anche condurre alle cosiddette forme di sessualità compensativa o a quella che viene definita omosessualità indotta, che non è espressione di un libero orientamento sessuale. L’astinenza coatta - che può divenire addirittura perpetua nel caso dell’ergastolo - è nell’ordinamento italiano una vera e propria pena accessoria inflitta a chiunque sia condannato alla reclusione. Quest’ultima diviene così penitenza, con gravissime ripercussioni sull’individualità del detenuto e sul suo percorso risocializzante. Dunque, ci troviamo d’accordo con il senatore Ostellari quando ritiene che si stia perdendo tempo: di temi così importanti, oggi, non si dovrebbe neanche più discutere, perché avremmo dovuto già ampiamente affrontarli. Invece, dimostriamo ancora una volta di essere in estremo ritardo nella tutela dei diritti fondamentali, oltre che nel raggiungimento di una pena che sia davvero dignitosa. Il deserto semantico del carcere di Francesco Sala teatrodioklahoma.net, 28 novembre 2020 Chi favorisce la concezione carceraria della pena? Una riflessione sulla cultura giustizialista e forcaiola che caratterizza il nostro tempo. La ricerca linguistica ha dimostrato nel corso degli anni come la cognizione delle parole sia legata indissolubilmente alle esperienze che leghiamo ad esse. Il luogo di questo deposito di esperienze è il campo semantico, cioè l’insieme di correlazioni esperienziali (mediate e dirette) che abbiamo nei confronti di una certa parola. In sostanza ogni esperienza che facciamo di una parola, diciamo della parola amore, interverrà sulla nostra concezione di quel concetto espresso da quella parola. Le nostre esperienze amorose, quelle degli altri e, forse soprattutto, le rappresentazioni che riceviamo tramite canzoni o film romantici, concorrono tutte nel definire la nostra concezione di amore. Nella, disperante, sfera dell’informazione giornalistica italiana esiste una parola il cui campo semantico è popolato principalmente da fantasmi e mitologie, nonostante sia concreta esperienza per centinaia di migliaia di persone: il carcere. Questo luogo misterioso e terribile è al contempo in primo piano ed assente nei discorsi delle testate giornalistiche e nel dibattito d’opinione. Presente (e basta una rapida scorsa a una qualunque testata in un giorno qualunque per accorgersene) perché affolla i titoli delle notizie, di solito con brevi accenni sul numero di anni di condanna che toccheranno al malcapitato di turno. Ma al contempo assente perché in buona sostanza di questo luogo non si sa nulla, o meglio, nulla di preciso. La conoscenza mediatica che se ne ha è formata per lo più da idee di ristrettezze di spazi e di privazione della libertà e vede di solito come sorgenti di queste informazioni serie tv e film, spesso riferiti al mondo anglosassone. In definitiva, una conoscenza piuttosto povera e spettacolarmente stereotipata. Questa situazione di assoluta ignoranza sulla materia e di sostanziale invisibilità nel dibattito pubblico non è una semplice distrazione giornalistica sul “dovere di cronaca”, quanto piuttosto un preciso risultato di una politica reazionaria che ha ogni interesse nel presentare il carcere come un luogo dove rinchiudere chi offende il patto sociale, punirlo e, possibilmente, dimenticarsene per sempre. Non c’è niente altro in questa visione, chi infrange la legge deve soffrire, con buona pace dei principi costituzionali sulla funzione rieducativa della pena. bbiamo ben visto all’opera questo modo di concepire la pena e le carceri e abbiamo visto quale tipo di considerazione per la vita e la dignità ne consegua. Lo abbiamo visto a marzo, quando una gestione al tempo stesso criminale e dilettantistica della situazione ha fatto esplodere la rabbia in decine di istituti. 14 detenuti sono usciti cadaveri dalle loro celle. Tutti per overdose, pare, dopo aver fatto incetta di psicofarmaci nelle infermerie prese d’assalto, ma nessuno comunque si sta dando troppa pena di fare ulteriore luce sulla vicenda. Anche volendo credere all’overdose, le responsabilità dello Stato e di quel personaggio tragicomico di Bonafede rimangono evidenti a chiunque abbia occhi per vedere. Lo sono anche oggi con quasi 2.000 infetti fra detenuti e personale nelle carceri e già 3 morti a causa del Covid, oltre al medico del carcere di Secondigliano. Questa cultura politica della pena si presenta come autoevidente, necessaria, senza alternative e nell’attuale panorama dell’opinione pubblica è certamente quella di gran lunga maggioritaria. Così maggioritaria da eliminare, anche solo concettualmente qualunque alternativa, come se fosse sempre stata questa l’unica maniera di approcciarsi al problema. Eppure non è sempre stato così. Fino agli anni 80 le politiche abolizioniste (oggi considerate fantascienza anche dal più fervente garantista) erano radicate nel dibattito intorno al carcere e persino negli Stati Uniti una buona fetta della classe politica propendeva per esse. In Italia l’istituto dell’indulto e dell’amnistia era utilizzato normalmente, in misura di due-tre volte a decade, come politica deflattiva degli istituti penitenziari e ben pochi gridavano allo scandalo per questo. Sembra utile quindi chiedersi come si sia arrivati all’attuale situazione e, soprattutto, quali siano i soggetti politici ed istituzionali che hanno spinto per una concezione carcerocentrica della pena e che vantaggio ne abbiano tratto. I vantaggi, a volerli vedere, sono abbastanza semplici da identificare. Negli ultimi 15 anni ogni governo si è preoccupato di espandere i confini dei poteri inquirenti. Sono state aumentate, e spesso raddoppiate, le pene minime per diversi reati (rapina, furto aggravato, evasione, occupazione di edifici), e questo nonostante una diminuzione tendenziale di questi reati da oltre 20 anni. Sono aumentate a dismisura le già ampie possibilità d’intercettazione attraverso trojan e captatori informatici. L’articolo 270 del codice penale in materia di terrorismo dal 2001 si è allargato in una dozzina fra commi e lettere per far rientrare sotto la sua definizione un numero sempre più grande di eventi. E questo nonostante l’Italia avesse già dagli anni 70 e 80 varato leggi speciali che inasprivano le pene e prevedevano una molteplicità di fattispecie. La giustificazione politica, in questo caso, risiedeva nei molti attacchi di matrice jihadista susseguitisi dal 2001 in avanti, anche se l’Italia non è mai stata toccata in maniera diretta sul suolo nazionale. Per farla breve, chi di mestiere applica articoli del codice penale alle azioni degli individui si trova con una cassetta degli attrezzi enorme e, ad essere onesti, assolutamente sproporzionata all’effettiva bisogna1. Ma non sono gli unici soggetti che ne traggono vantaggio. Il discorso giustizialista rafforza le posizioni politiche più involute. Non è un caso che sia fatto proprio da un Salvini che nel suo breve mandato da ministro dell’interno ha emanato ben due decreti sicurezza i cui destinatari politici erano platealmente i movimenti di occupazione per la casa e le ONG che si occupavano di soccorrere i migranti. Di per sé questo non è uno scoop. Il fatto che le politiche repressive accompagnino le istanze conservatrici e reazionarie è un meccanismo basilare di facile comprensione. Un po’ meno immediato risulta come il giustizialismo si sia imposto in un arco così grande del panorama politico. Il punto va ricercato nella narrazione mediatica che si è data negli ultimi trent’anni della giustizia e dei reati. I partitari delle politiche Law & Order si sono sapientemente nascosti dietro una serie di narrazioni molto più accettabili e, apparentemente, incontestabili. Chi avrebbe da ridire su una disposizione di legge che porta il nome di antimafia? Chi contesterebbe una norma che viene chiamata antiterrorismo? In pochi sono riusciti a vedere oltre la retorica di queste norme, e sono ancora meno le persone che si sono schierate pubblicamente contro queste. Il passaggio importante è che le norme securitarie vengono mascherate come azioni di contrasto contro nemici inaccettabili, dal mafioso all’ultrà passando per il terrorista. Queste norme vengono sempre presentate nei molti periodi di emergenza annunciati dalle testate di giornale. D’altronde si sa che se una situazione è urgente non si può perdere troppo tempo a discutere sul come e sul cosa e a fare distinguo. Va fatto qualcosa subito. E puntualmente vediamo un gran messe di norme fare ingresso nel codice penale dopo ogni singolo periodo di emergenza. E, altrettanto puntualmente, vediamo utilizzare queste norme in un senso politico. Ben diverso dallo spirito che le aveva fatte accettare come necessarie sotto la pressione dell’emergenza e dell’inaccettabilità. Vediamo di fare chiarezza con qualche esempio. Nessuno avrebbe osato contestare una normativa sulla tratta degli esseri umani, eppure quelle norme sono state utilizzate a Riace contro chi portava avanti progetti di accoglienza. In pochi si sarebbero opposti dopo le stragi di Londra e Madrid (2005 e 2003) ad una normativa contro il terrorismo, ma quelle stesse leggi sono servite per portare sotto processo decine di militanti dei vari movimenti che ancora resistono in questo paese. Compresi, e qui siamo al capolavoro, chi ha messo a rischio la propria vita per combattere proprio il terrorismo islamista, come sta accadendo in questi giorni alla combattente delle YPJ Maria Edgarda Marcucci. Difficilmente si sarebbero trovati difensori pubblici delle curve più agitate, ma, com’era da aspettarsi, lo strumento del daspo ha trovato sempre più larga applicazione fino a diventare uno strumento di sanzione verso ogni sorta di comportamento deviante, come l’ubriachezza o chiedere l’elemosina. Questi meravigliosi successi della repressione non sarebbero stati possibili senza una condivisione dei valori securitari da parte di una fetta enorme della popolazione. Una fetta molto più ampia dell’elettorato dei partiti che poi hanno capitalizzato questi successi. Il giustizialismo ha saputo trarre profitto dall’incessante martellamento mediatico che proveniva dai media che parlavano dell’impunità dei politici, delle centinaia di migliaia di processi distrutti dalla prescrizione (istituto ormai cancellato nei fatti), dei magistrati con le mani legate o dei magistrati che scarceravano in pochi giorni i peggiori criminali, delle carceri con celle di lusso, dei poliziotti senza mezzi impotenti nel compiere il proprio lavoro, ecc… Questo continuo piagnisteo sull’impotenza della giustizia e dei suoi esecutori si è ben accompagnato con la narrativa di paura che tanto piace ai giornalisti nostrani. Ecco il secondo elemento fondamentale di questo connubio. Da una quantità incredibile di mass media viene una costante informazione che ci ricorda quanto sia forte e potente la criminalità, quanto siano spaventosi i tempi in cui viviamo e quanto siano pericolose le nostre città. Uniti insieme questi due elementi hanno formato l’olio su cui le forze più conservatrici e reazionarie hanno potuto introdurre la propria agenda. Non si tratta qui di sminuire la potenza e la penetrazione della criminalità organizzata nella società. Chi ha a cuore la causa dell’emancipazione umana non può che provare ribrezzo e odio di fronte a questi agglomerati di potere violento e mancanza di considerazione della dignità umana rappresentati dalle mafie e dal terrorismo di matrice islamo-fascista. Si tratta piuttosto di mettere in discussione la narrativa tossica che ne dà il fronte del populismo giustizialista, e proporre delle spiegazioni causali alternative all’insorgenza dei fenomeni criminali. La paura che scaturisce dall’insicurezza sociale non può venire combattuta dal feticcio del carcere e della repressione. Queste soluzioni anzi acuiscono e perdurano quei fenomeni, perché sono soluzioni assolutamente coerenti con il mantenimento del sistema di potere che le genera. L’agenda di queste politiche si limita infatti a combattere repressivamente questi fenomeni senza mai mettere in discussione i rapporti sociali che li creano. Ed è proprio questo il suo principale interesse politico. Insistere su una politica di repressione dura non mette in discussione minimamente i rapporti sociali che sono la vera causa dei fenomeni che dichiara di voler colpire. Non viene mai colpita l’alienazione l’abbandono che questa società costantemente crea, come se questi fenomeni macroscopici non avessero nulla a che fare con le tossicodipendenze che mandano in carcere tanti piccoli spacciatori e che fanno arricchire quelli grandi. Non viene mai colpita la povertà e lo sfruttamento che creano un formidabile campo di reclutamento per ogni tipo di mafia. Non viene mai colpita la diseguaglianza sociale. Non vengono mai colpiti i sistemi di pensiero patriarcale che portano alle spaventose vessazioni sul corpo delle donne di cui ogni donna ha fatto esperienza nel corso della vita. Non vengono mai colpite le politiche coloniali di spoliazione delle risorse e di quelle popolazioni che poi trovano nel fondamentalismo religioso una forma di resistenza a quelle stesse spoliazioni. In conclusione. Il giustizialismo non ha nulla a che vedere con la giustizia eticamente intesa. La sua concezione ultra-carceraria della pena, imprigionando le persone, non fa null’altro se non imprigionare gli esiti delle contraddizioni sociali. Questo tipo di risposta non intacca in nessun modo (volutamente) le cause che stanno alla base di queste contraddizioni, ma anzi le acuisce e le esaspera. Il risultato è che non solo la nozione di giustizia che ne deriva è del tutto illusoria, ma lo è anche quella di sicurezza. Non esiste infatti una migliore fabbrica di emarginazione di quella del carcere. Una fabbrica che replica infinitamente i reati e le loro cause, cioè le medesime offese sociali che sarebbe chiamata a risolvere. Il chiudere degli umani per qualche anno fra quattro mura non migliora in nessun modo né la condizione della persona né la persona stessa, infatti abbiamo visto come l’unica risposta a questa evidenza sia stata di far sì che il numero di anni sia il più alto possibile nella speranza di spezzare umanamente il detenuto o farlo uscire troppo invecchiato per nuocere. Perseguendo naturalmente questa logica si capisce bene come si arrivi a pensare che l’unica pena sensata sarebbe quella dell’ergastolo per ogni tipo di reato, dalla calunnia al furto. E’ tempo di chiedersi quale idea di giustizia promani dai tribunali e dalle colonne dei giornali più forcaioli. Quale tipo di idee mettano nel suo campo semantico e chi questo tipo di concezioni avvantaggino sul piano politico. Senza questa operazione sarà impossibile mettere in campo delle narrative e delle azioni alternative e contrarie. Alternative a queste concezione feroce e cinica della pena. Contrarie all’ordine sociale che crea le carceri per riempirli di emarginazione, pensando così di nascondere i propri fallimenti. “Il diritto di difesa è un principio inviolabile per tutti. Pure per quelli che chiamate mostri” di Simona Musco Il Dubbio, 28 novembre 2020 Riparte il dibattito sulla gogna per i legali che difendono autori di crimini efferati. Parlano le consigliere del Cnf: “A rischio la cultura della giurisdizione”. Il diritto alla difesa vale per tutti, anche per il peggiore dei criminali. E l’avvocato mai va identificato con i reati commessi dai clienti: è una figura indispensabile per garantire un processo giusto ed equo. Un principio di diritto, sancito dalla Costituzione, che ancora una volta tocca proprio a loro, gli avvocati, ribadire. L’occasione arriva a seguito della scelta dell’avvocata Rosanna Rovere, già presidente dell’Ordine forense della provincia di Pordenone, di non accettare l’incarico della difesa del presunto omicida della compagna, a Roveredo in Piano. Una scelta - legittima - che riapre il dibattito pubblico sul ruolo dell’avvocatura. Un dibattito fagocitato da social e talk show, che restituiscono degenerazioni tali da distinguere gli avvocati in due categorie inesistenti: quelli buoni e quelli cattivi. La cronaca degli ultimi mesi - e non solo - ha fornito una valanga di esempi di tali estremizzazioni. Come le minacce di morte agli avvocati che hanno assunto la difesa dei presunti assassini di Willy Monteiro, quelle al difensore del giovane accusato della morte di Eleonora Manta e Daniele De Santis o quello del presunto pusher che ha venduto la droga che ha ucciso i due ragazzini di Terni, Flavio e Gianluca. Storie di quotidiana barbarie, scritte sulla base di un unico copione: chi difende un assassino, un pedofilo o uno spacciatore merita di soffrire. E di fare, possibilmente, la stessa fine dei propri clienti. Una visione contorta contro la quale l’avvocatura è costretta, ancora una volta, a schierarsi con fermezza. “Veniamo da anni di identificazione tra avvocati e clienti, come se ci fosse un’adesione morale al reato - spiega Giovanna Ollà, consigliera del Consiglio nazionale forense -. Ciò ha portato spesso a minacce e insulti”. Ma ci sono anche altri aspetti: si tende a fare distinzione tra gli avvocati che sono guidati dalla luce della morale e quelli che esercitano la loro professione in maniera spregiudicata, guidati solo dalla logica del denaro. “Si rischia di creare, così, anche due categorie di cittadini che si imbattono in un processo penale - continua Ollà - quelli che meritano di essere difesi e quelli che, invece, non lo meritano”. Un’idea pericolosa, perché significa mettere in dubbio la stessa cultura della giurisdizione. Ma la portata del reato va stabilita all’interno del processo e non con modalità massmediatiche. “La scelta di non difendere qualcuno quando non si è certi di poter svolgere serenamente il proprio mandato è corretta - precisa la penalista -, perché bisogna garantire una difesa precisa, puntuale e convinta. Quello che non è corretto è l’interpretazione che di queste scelte viene fatta da parte dell’opinione pubblica che, fraintendendo e strumentalizzando una decisione personale, santifica una categoria di professionisti, demonizzando quelli che difendono anche i “mostri”, creando così cittadini di serie A e cittadini di serie B”. La difesa, dunque, deve essere garantita a tutti. E la legge del taglione non può essere applicata in uno Stato di diritto. “In un processo si determinano le circostanze, la misura della pena: dal processo non si deve mai prescindere - aggiunge - e dentro il processo non si deve prescindere dalla difesa”. Fatti di cronaca come questo portano con sé anche un’altra degenerazione: quella secondo la quale le donne non dovrebbero difendere gli autori di femminicidi e violenze sessuale, come se fosse una sorta di ulteriore aggravante. Un errore che sconfina nella negazione, nei fatti, del principio di pari opportunità. Il punto da affrontare, dunque, è sempre lo stesso: la Giustizia non è vendetta. “Non c’è nessuna critica a chi decide di non accettare un mandato fiduciario, lo si fa per varie ragioni - sottolinea Patrizia Corona, consigliera del Cnf -. Questa discussione pubblica sulla decisione di una collega ingenera una percezione distorta di quello che è il ruolo dell’avvocato, che deve essere sempre e solo di difesa del proprio assistito, affinché abbia un processo giusto ed equo. E non è la difesa del crimine che ha commesso: non si può fare questo tipo di identificazione. Abbiamo combattuto per anni per questa distinzione. Non si possono definire “buoni” gli avvocati in quanto non accettano di difendere chi si è macchiato di crimini odiosi, perché tutti i crimini sono, di per sé, condannabili. Ma ogni soggetto ha diritto ad un avvocato che dia garanzia di difesa perché abbia un processo secondo le regole, che accerti se abbia realmente commesso il reato di cui è accusato”. Il dibattito che si è scatenato è stato, dunque, sbagliato. Perché la funzione dell’avvocato, ribadisce Corona, non è etica, ma tecnica. In gioco ci sono anni di cultura giuridica. Difesa talvolta anche fino al sacrificio estremo da parte dell’avvocatura, ricorda la consigliera del Cnf Francesca Sorbi. “Il nostro ruolo non è giudicare le persone - aggiunge - ma garantire la migliore tutela tecnica, sia nel civile sia nel penale. Guai a chi confonde l’avvocato con il suo assistito, nel bene e nel male”. E non bisogna nemmeno confondersi con il giudice: la prova si forma in tribunale, durante un giusto processo. “Su qualsiasi comportamento possono influire tantissimi elementi, quindi anche quando ci si trova di fronte al colpevole conclamato è necessario valutare tutte le circostanze che possono aver portato ad una certa azione”, spiega. Rinunciare ad un mandato è, comunque, una scelta legittima. A meno che non si tratti di una difesa d’ufficio, quando si può decidere di rimettere il mandato solo in caso di incompatibilità, “negli altri casi si è sempre liberi di scegliere: siamo liberi professionisti. Ma bisogna sempre stare molto attenti: il rifiuto non deve essere inteso come un’anticipazione di giudizio, perché noi non siamo tenuti a dare quel giudizio”. Il principio da rivendicare, secondo il presidente dell’Unione delle Camere penali del Veneto, Federico Vianelli, è “elementare”, ma troppo spesso messo in discussione: “Il diritto di difesa va riconosciuto a tutti, indistintamente, gli accusati di ogni reato, anche del più bieco e ripugnante. Questo è lo Stato di diritto ed iI diritto di difesa - scrivono in una nota -. Questa è la ragione della indispensabile presenza dell’avvocato nel processo, garanzia da riconoscere a tutti, senza alcuna distinzione”. E il discorso, come sottolineato da Sorbi, vale anche per il civile. Perché, spiega Maurizio Bandera, componente del direttivo nazionale dell’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e i minori, potersi tutelare in un processo è sacrosanto, inviolabile e incoercibile. “È un argomento sul quale bisogna confrontarsi - sottolinea. Sostenere la tesi che c’è gente che non merita di essere difesa o di scegliere chi ritiene più adeguato a sostenerlo è una deriva pericolosa. Ma un avvocato che non è pienamente convinto di poter offrire una difesa efficace fa bene a rinunciare, perché altrimenti fa male a tutti, compresa la collettività, che vede nel processo un’occasione affinché venga affermato un principio di giustizia ma anche di autorità dello Stato. Arrivare in quel contesto con un’indecisione di fondo rischia di essere pericoloso”. “Rieduchiamo gli uomini, o non salveremo le donne” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 28 novembre 2020 Presentato ieri in Senato un ddl che istituisce i centri di recupero Bonafede: “La svolta è anticipare la soglia di intervento dello Stato”. Bonetti: “La precondizione per superare la violenza è una piena parità di genere”. Su un punto sono (quasi) tutti d’accordo. Contrastare la violenza sulle donne significa prima di tutto riuscire a prevenirla. Magari con una strategia nazionale organizzata su tre livelli: cultura, diritto e formazione. C’è il caso, però, che quella violenza sia già entrata dalla porta di casa e con le chiavi, come si dice. Allora bisogna parlare non solo di prevenzione, ma di protezione. E rovesciare la visuale: “Il problema della violenza di genere non è un problema delle donne, questo è un concetto che dobbiamo superare. È di tutta la società e semmai, per dire la verità, è un problema degli uomini”. A dirlo è il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, nel corso della conferenza stampa tenuta ieri in Senato sulla “prevenzione della violenza di genere attraverso l’intervento sugli uomini autori di atti di violenza domestica”. L’idea può fare storcere il naso, spiegano le due senatrici che hanno presentato un doppio disegno di legge per istituire dei centri di recupero per uomini “maltrattanti”. Le relatrici, Donatella Conzatti, di Italia Viva e Alessandra Maiorino, del Movimento 5 Stelle, fanno parte entrambe della Commissione sui femminicidi. Prima di formulare un “programma di gestione del rischio della violenza di genere” hanno studiato - raccontano - quella rete di supporto nazionale alle donne che va dalle case rifugio e i centri antiviolenza, al lavoro di questori e magistrati. In questa rete manca qualcosa, spiegano le due senatrici, ed è l’idea “culturalmente sbagliata” che agli uomini non serva aiuto per riconoscere e correggere i propri comportamenti violenti. Soprattutto in quei casi, i cosiddetti “reati spia”, in cui la violenza non è ancora efferata. Nel progetto di legge, infatti, si propone di finanziare e accreditare questi centri, nati a partire dal 2009, nella rete nazionale antiviolenza, con una doppia finalità: allinearli a un standard operativo e dislocarli in maniera omogenea sul territorio. Lo scopo è anticipare, con un automatismo, il momento trattamentale all’istituto dell’ammonimento erogato dai questori: gli uomini che hanno assunto comportamenti violenti sarebbero quindi invitati in “maniera normativamente cogente” a frequentare corsi di rieducazione. “Credo che il parlamento e il governo stiano dando davvero un bel segnale”, dice il guardasigilli. “È fondamentale - spiega - dare l’idea di una battaglia che si sta portando avanti con compattezza. Inoltre, bisogna non solo sanzionare e reprimere ma prevenire. Questo è l’elemento di novità che stiamo portando avanti”. Secondo il ministro, è fondamentale lottare contro la “degenerazione culturale” con ogni strumento: “Dobbiamo continuare a promuovere eventi come quello di oggi (ieri, ndr) - aggiunge - perché è importante che se ne parli e tante donne sappiano di avere tanti diritti da tutelare e che c’è uno Stato che sta già compiendo passi importanti che ottengono riconoscimenti a livello internazionale”. Bonafede quindi passa in rassegna il primo anno di attività del “Codice Rosso”, la legge che ha introdotto, tra le altre cose, una corsia preferenziale di ascolto e intervento per le donne vittime di violenza. In base alla normativa, entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, il pubblico ministero deve sentire la persona offesa che ha presentato denuncia, in modo da agire tempestivamente: di qui la denominazione analoga ai casi più urgenti nei Pronto Soccorso. Dall’entrata in vigore del “Codice Rosso”, prosegue il guardasigilli, “sono stati avviati in numerosi istituti penitenziari i percorsi trattamentali specifici (per gli uomini che hanno compiuto reati di violenza contro le donne, ndr). Stiamo avendo dei primi feedback positivi, e continueremo ad investire in questo senso, perché lo consideriamo uno dei tasselli fondamentali di un mosaico che stiamo cercando di costruire per proteggere le donne e i loro figli”. Dello stesso avviso la ministra per le Pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, che precisa: “Dobbiamo avere il coraggio anche di esplorare percorsi nuovi, perché il processo della violenza contro le donne ha molteplici sfaccettature”. “La precondizione per superare questa piaga della violenza è la formazione di una piena parità di genere, di una valorizzazione dell’esperienza femminile in tutti i contesti del nostro paese. Una parità di genere - sottolinea la ministra nel suo intervento in Senato - che deve vedere come soggetti protagonisti anche gli uomini, perché non basta concentrarsi sulla vittima. Ecco perché i centri dell’antiviolenza devono chiedere agli uomini di assumersi la responsabilità della loro colpevolezza, e quindi conseguentemente di cambiare”. Abbiamo bisogno, spiega Bonetto, di azioni che “cambino il paradigma sociale” a tutti i livelli in cui la violenza di genere si manifesta: tra questi l’economia e il lavoro. “Il fatto che molte donne non abbiano autonomia finanziaria nel nostro paese - spiega è un problema grande perché le priva di una libertà di scelta. È evidente che una donna che sa di non essere autonoma dal punto di vista economico fa fatica a denunciare la violenza domestica”. Proprio per questo, il ministero della Famiglia lancia il “reddito di libertà”: “Un fondo di garanzia di 3 milioni di euro per dare fiducia alle donne che escono dalla violenza e aiutarle a reinserirsi nella comunità con un progetto concreto”. Per la costituzione del fondo, spiega Bonetti, “abbiamo siglato un protocollo con l’Ente nazionale Microcredito, Abi e Federcasse e Caritas italiana” e, conclude, “i centri antiviolenza e la case-rifugio saranno i protagonisti nella relazione con le donne vittime di violenza”. “Noi, donne che condannarono i boss” di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 28 novembre 2020 L’aula bunker, la paura, il senso civico. I ricordi di Francesca Vitale, Teresa Cerniglia e Maddalena Cucchiara, che accettarono di far parte della giuria al Maxi processo. “Grasso disse: i nostri figli ci ringrazieranno”. Dopo il capolavoro di Bellocchio e Favino su Buscetta, non era semplice girare nella stessa aula bunker, cimentarsi ancora nel racconto del maxi processo alla mafia. Ma c’è riuscito il regista Francesco Micciché, realizzando una docu-fiction che esalta per la prima volta il ruolo delle giudici popolari di quella corte di assise che processò più di 450 imputati mettendo alle corde Cosa nostra. È la storia di una professoressa e due casalinghe con fascia tricolore, accanto ai giudici Alfonso Giordano e Pietro Grasso, di fronte a Liggio, Bagarella, Calò, a boss e sicari. Gli studenti dell’insegnante lasciati per un anno e mezzo ai supplenti. I mariti chiamati a occuparsi dei figli. Le ansie e i problemi di vita quotidiana, le scorte e l’orrore di quei racconti. Tre donne interpretate da una potente Donatella Finocchiaro che vedremo su RaiUno giovedì 3 dicembre (per “Stand by me” in collaborazione con Rai Fiction), accanto a un inedito e rigoroso Nino Frassica nei panni del presidente della Corte. In regia nel 1986 c’erano Falcone e Borsellino, i due magistrati costretti a raccogliere le prove dell’accusa all’Asinara perché a Palermo cadevano mille morti all’anno e nel suo delirio di onnipotenza il sanguinario clan di Riina & C. aveva deciso che il grande processo sarebbe saltato. Anche con qualche aggancio in Cassazione. Invece si fece, producendo 19 ergastoli, 114 assoluzioni, 342 condanne, 2.655 anni di carcere inflitti dopo 35 giorni di camera di consiglio. Una storia raccontata tante volte con gli obiettivi puntati fra le gabbie dell’aula bunker dell’Ucciardone. Stavolta con lo zoom affondato sui tormenti di Francesca Vitale, la professoressa di italiano con il marito antiquario, Teresa Cerniglia, sposata con un docente, e Maddalena Cucchiara, il marito medico, impegnatissimo, ma come gli altri pronto a prendere i figli a scuola, a occuparsi delle incombenze di casa. Ecco uno spaccato familiare che rivela le angolature di un impegno civile non sempre colto da tanti semplici cittadini chiamati in quell’epoca grigia ad un ruolo così importante. D’altronde, perfino molti magistrati si tirarono indietro. Non a caso a presiedere la corte finì un giudice del Civile, Alfonso Giordano, che non presentò certificati medici. Come accadeva per i sorteggiati della giuria: timorosi impiegati, professionisti, commercianti. Non per le tre donne ora 80enni che nella docu-fiction compaiono con i loro acciacchi, liete di rivedersi in Donatella Finocchiaro, impegnata anche in scene che raccontano minacce e rischi corsi dalle coraggiose giurate. A cominciare dall’incursione nella galleria d’arte del marito della professoressa Vitale: “Rubarono 23 quadri e altri pronti per essere portati via. Telefonai al giudice Grasso”. Evento evocato dalla Finocchiaro-Vitale decisa a ritirarsi perché vedeva sconvolta la vita familiare: “Forse è meglio che torno a fare la professoressa. Mio figlio nemmeno mi parla”. E Grasso, nella sintesi della fiction: “Ho gli stessi problemi con mio figlio. Ma io ero di turno quando ammazzarono Piersanti Mattarella. Penso a Ninni Cassarà. E so che non possiamo mollare. Un giorno i nostri figli capiranno e ci ringrazieranno”. C’è pure un mistero rimasto irrisolto, evocato da Maddalena Cucchiara nella sua casa di Palermo: “Vivo ancora al settimo piano. Il giorno prima che iniziasse il Maxi chiamo l’ascensore, apro la porta e solo per un soffio mi accorgo che sotto c’era il vuoto. Un palazzo messo sottosopra. Indagini e terrore”. Quell’agitazione la ricorda bene Teresa Cerniglia spiegando l’affanno di dover governare casa, ma con la testa al bunker: “Mi svegliavo all’alba per mettere su le lenticchie, preparare qualcosa. Il piccolo aveva 12 anni, l’altro al liceo. Alle 7 ero pronta”. Poi la corsa con le auto di scorta all’Ucciardone. “Immersione fino a sera”. Senza pause. Tranne un giorno: “Ci fu un buco di 2 ore. Chiedemmo di uscire. Andammo in un negozio di via Libertà, con i ragazzi di scorta scambiati per delinquenti. Chiamarono la polizia, temendo una rapina. Arrivarono agenti armati e ho temuto che si sparassero fra loro. Mai più uscita”. Ansie comuni alla professoressa Vitale che ricorda i trasferimenti sulla blindata con altri due giudici: “Un giorno l’auto si blocca davanti alla casa di Falcone. Un sobbalzo. Una botta. L’autista che non riusciva più a ripartire. La scorta allarmata. Due volanti a sirena spiegata. Noi catapultati dentro e via verso il bunker, senza capire se fosse un attentato”. Sono gli spaccati riproposti da un racconto completato da un giudice popolare stroncato da una malattia durante le riprese, ma presente giovedì in tv, Mario Lombardo, giornalista autore di un libro sul processo: “Si capì in quel bunker che, mentre per l’eccidio di Dalla Chiesa avevamo visto morire la speranza dei palermitani onesti, con il Maxi stava rinascendo la stessa speranza”. Delitto Rostagno, l’ultima sentenza: lo ha ucciso la mafia. Ma per la figlia è “Giustizia a metà” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 novembre 2020 Ergastolo confermato per il mandante, il boss Virga. Assolto il presunto killer Vito Mazzara, condannato in primo grado per l’omicidio del sociologo-giornalista nel 1988. La figlia: “Poco coraggio, non c’è da brindare”. Mauro Rostagno è stato ammazzato dalla mafia, ma non si sa chi gli ha sparato. Il suo omicidio è ormai un pezzo di storia d’Italia e della Sicilia inquinata e insanguinata da Cosa nostra - non fosse che per il tempo trascorso: 32 anni fa - ma il verdetto sugli imputati condannati o scagionati è ancora cronaca. Venerdì la Corte di cassazione ha confermato la sentenza d’appello del febbraio 2018: ergastolo per il capomafia di Trapani Vincenzo Virga, mandante del delitto; assoluzione per il sottocapo Vito Mazzara, presunto killer. E capitolo chiuso. Il sociologo-giornalista - Per Maddalena Rostagno, figlia quarantasettenne del sociologo torinese laureato a Trento nella facoltà di Sociologia antesignana del 1968 che scelse di vivere in Sicilia tra una comunità terapeutica e la tv privata dove faceva il giornalista, è una vittoria a metà: “È importante che sia stata riconosciuta la matrice mafiosa, così mio figlio di 17 anni non dovrà più leggere che suo nonno, che non ha mai conosciuto - e questo resterà sempre il mio dolore più grande - è stato eliminato da chissà chi e chissà perché. Però con la sentenza che aveva riconosciuto la colpevolezza anche del presunto assassino avevo riacquistato fiducia nella giustizia. Ho ascoltato periti preparati e credibili spiegare con chiarezza come al 99 per cento quell’uomo aveva sparato a mio padre”. I giudici di primo grado la pensarono allo stesso modo, quelli d’appello no, e adesso la Cassazione ha stabilito che non ci furono errori. Verdetto definitivo. La dignità - “Mi sembra una giustizia non sufficientemente coraggiosa - prosegue Maddalena Rostagno -, e io stasera non me la sento di brindare. Quell’omicidio è accaduto quando avevo 15 anni e mi ha stravolto la vita; è successo di tutto, mia madre è finita in galera con l’accusa di aver favorito gli assassini di papà... (inchiesta abortita in un errore giudiziario, ndr). Non si tratta di pretendere un ergastolo in più (peraltro Mazzara resta sepolto in galera da altre condanne a vita, ndr), io sono pure contraria all’ergastolo, ma anche quando i processi vanno bene resta sempre fuori un pezzettino...”. E il sigillo sul delitto di mafia, conclude la figlia, restituisce pure dignità a Rostagno: “Non era uno sfigato che non si rendeva conto di ciò che gli accadeva intorno, tradito dai compagni, dalla moglie o dai tossici; era uno che ha deciso di giocarsi la vita per raccontare ciò accadeva sul suo territorio, denunciare il potere mafioso e le connivenze che lo sostenevano. Non è stato un martire, ma un uomo consapevole di quello che stava facendo e anche di quello che rischiava”. Killer sconosciuto - Anche l’avvocato di Maddalena, Fausto Maria Amato, si rammarica per “il vuoto che resta sugli esecutori materiali”. Ma i processi hanno dimostrato il movente dell’omicidio: “È emerso come Cosa nostra avesse più di un motivo, e uno più valido dell’altro, per volere la morte di Rostagno”. C’era “il bisogno di mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari (illeciti) e le trame collusive delle cosche mafiose con altri ambienti di potere, accomunati dalla pretesa di affrancarsi dal rispetto della legalità e creare un proprio ordine”. Anomalie e negligenze: depistaggi - Di qui il sospetto che anche le “sconcertanti anomalie, le gravi negligenze nelle prime indagini e le misteriose sparizioni” di indizi (tra cui un verbale dello stesso Rostagno sui rapporti tra mafia, massoneria e politica, sottoscritto sette mesi prima di morire) non fossero errori bensì depistaggi. Per esempio il testimone che sentì gli spari e raccontò subito che Rostagno parlava in tv di “rapporti tra mafia e politica, a Trapani lo sapevano tutti”, ridotto a fonte anonima e ascoltato per la prima volta dai magistrati a 25 anni dai fatti; o “la scena del crimine inquinata da devastanti imperizie che hanno finito per propiziare i più subdoli interventi manipolativi”. Fino all’inquietante conclusione: “I vertici dell’organizzazione mafiosa ben potevano presumere di poter contare, se non su un’attiva complicità, quanto meno su una proficua acquiescenza degli apparati repressivi e di sicurezza dello Stato”. False testimonianze - La corte d’assise segnalò dieci presunte false testimonianze per le quali è in corso un processo ad altrettanti imputati, tra cui un carabiniere e un finanziere in pensione. “Sono passati 32 anni, due mesi e un giorno, ma alla fine Mauro ha ottenuto giustizia - commenta Chicca Roveri, moglie di Rostagno e madre di Maddalena -. A ucciderlo è stata la mafia, la stessa che ancora comanda. Ma quanta fatica e quanto dolore per arrivare a una verità da subito evidente. Alla domanda se credo nella giustizia, che si solito si pone ai familiari delle vittime, preferisco rispondere citando Dante: “E qui chinò la fronte e più non disse, e rimase turbato”. La data di arrivo in cancelleria fissa l’alt alla prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2020 Sospensione della prescrizione sì, ma non per tutti i giudizi pendenti. Solo per quelli arrivati in cancelleria dal 9 marzo al 3o giugno. Le Sezioni unite penali della Cassazione, con decisione anticipata da un’informazione provvisoria (le motivazioni arriveranno solo tra qualche tempo) fissano il perimetro applicativo del blocco deciso la primavera scorsa con il decreto legge n. 18. Le Sezioni unite erano state chiamate in causa per definire la portata dello stop dei termini. Ovvero, se l’inedita causa di sospensione della prescrizione per l’emergenza sanitaria dovesse operare con riferimento ai soli procedimenti che, tra quelli pendenti dinanzi alla Corte di cassazione, sono arrivati in cancelleria nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020, oppure, invece, con riferimento a tutti i procedimenti comunque pendenti in questo periodo, anche se non giunti in cancelleria tra le medesime date. Ora l’articolata informazione provvisoria mette nero su bianco che l’alt alla prescrizione disposto dall’articolo 83 comma 3-bis, del decreto legge n.18 del 2020, poi convertito dalla legge n. 27, opera esclusivamente con riferimento ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di Cassazione che sono arrivati alla cancelleria della stessa nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020. Più nel dettaglio, sottolineano ancorale Sezioni unite, il corso della prescrizione è rimasto sospeso per legge dal 9 marzo all’u maggio 2020, nei procedimenti nei quali nel medesimo periodo era stata originariamente fissata udienza e questa è stata rinviata ad una data successiva al termine dello stesso. Analogamente, per effetto sempre dell’articolo 83 del decreto legge n. 18, la prescrizione è rimasta sospesa dal 12 maggio al 30 giugno 2020 nei procedimenti in cui in questo periodo era stata fissata udienza e ne è stato disposto il rinvio a data successiva al 3o giungono per effetto del provvedimento del capo dell’ufficio. Nel caso in cui il provvedimento di rinvio sia stato adottato successivamente al 12 maggio 2020, la sospensione decorre dalla data della sua adozione. Le Sezioni Unite hanno poi precisato che i due periodi di sospensione si sommano in riferimento al medesimo procedimento esclusivamente nell’ipotesi in cui l’udienza, originariamente fissata nel primo periodo di sospensione obbligatoria, sia stata rinviata a data compresa nel secondo periodo e, quindi, di nuovo rinviata in esecuzione del provvedimento del capo dell’ufficio. L’intervento delle Sezioni unite così sposa la tesi, più favorevole agli imputati, per cui a determinare l’applicazione o meno dello stop è la data di arrivo nella cancelleria della Corte, disancorando la ragione dello stop dal rinvio delle udienze che, nei fatti, ha interessato anche i procedimenti arrivati in cancelleria prima del 9 marzo. La pronuncia comunque permette di affrontare con maggiore chiarezza lo snodo finale del procedimento penale, quello dove si rivela ancora più necessaria una tempestiva fissazione delle udienze per evitare di fare cadere sotto la scure della prescrizione procedimenti ormai arrivati al grado finale di giudizio. Un aspetto ancorava ricordato. Le Sezioni unite si sono pronunciate solo adesso perché hanno aspettato prima il verdetto della Corte costituzionale sulla legittimità dello stop alla prescrizione con portata retroattiva, a reati cioè commessi prima dell’entrata in vigore delle nuove norme. Legittimità che è stata affermata dalla Consulta pochi giorni fa con decisione resa nota per ora solo nella forma del comunicato stampa. Lombardia. Un piano di social bond per il reinserimento dei detenuti nella società di Federico Baccini eunews.it, 28 novembre 2020 La strategia attivata dal Polo europeo di consulenza sugli investimenti eseguirà uno studio di fattibilità sul lancio di un’obbligazione. “Strumenti innovativi che aiuteranno anche a ridurre i costi della pubblica amministrazione”, spiega il commissario Gentiloni. In arrivo per la Regione Lombardia un supporto da parte dell’Unione Europea per l’implementazione di metodologie innovative di finanziamento - come le obbligazioni a impatto sociale - per contenere i tassi di recidiva degli ex-detenuti e garantire il reinserimento nella società. La consulenza sarà attivata attraverso il Polo europeo di consulenza sugli investimenti (European Investment Advisory Hub), finanziato dalla Commissione Europea e dalla Banca Europea per gli Investimenti. Gli esperti della BEI lavoreranno con il ministero della Giustizia italiano per le valutazioni sull’impatto sociale di questi strumenti finanziari, con un focus geografico sulla Lombardia, ma con la possibilità di essere implementato su una scala più ampia. “Siamo molto orgogliosi di condividere le nostre conoscenze in questo campo e di vedere che sempre più Paesi mostrano il loro interesse per modi così innovativi di finanziamento dei servizi sociali”, ha commentato il vicepresidente della BEI, Dario Scannapieco, responsabile delle operazioni in Italia. “Sostenere una crescita economica inclusiva che non lasci indietro nessuno è la via da seguire”. L’accordo è stato firmato dal dipartimento dei Servizi di consulenza della BEI e dal dipartimento di Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, ed è stato raggiunto nell’ambito della Piattaforma consultiva per la contrattazione dei risultati sociali, strumento operativo per per l’inclusione sociale e il benessere dei cittadini dell’Unione. Grazie a questo accordo sarà eseguito uno studio di fattibilità completo sul lancio di un’obbligazione a impatto sociale: una soluzione che prevede la partecipazione degli investitori privati e la condivisione del rischio in iniziative del mercato del lavoro con un risultato misurabile. Secondo il commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, “il supporto e l’assistenza tecnica consentiranno al Ministero della Giustizia italiano di facilitare l’inclusione sociale dei detenuti, inizialmente in Lombardia ma poi si spera in altre anche le regioni”. Non solo: “Queste soluzioni di finanziamento ridurranno anche i costi per la pubblica amministrazione”, ha aggiunto. I bond a impatto sociale andranno a contribuire al finanziamento di azioni innovative secondo il principio della missione rieducativa della pena, fornendo ai detenuti competenze trasversali e conoscenze specifiche che possono aumentare la loro possibilità di trovare un lavoro. “Questo approccio innovativo potrebbe essere replicato per consentire alla pubblica amministrazione di adempiere meglio alla missione rieducativa del proprio sistema penitenziario”, ha commentato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Anche il ministro ha voluto ricordare che l’inclusione lavorativa degli ex-detenuti ridurrebbe i costi per la pubblica amministrazione: “Lavorare insieme a partner qualificati come la Banca Europea per gli Investimenti è fondamentale per andare verso la riduzione del tasso di recidiva, che oggi ha raggiunto circa il 68 per cento, con un costo sociale di circa 130 milioni di euro all’anno”. L’auspicio del ministro Bonafede che “questa forma molto promettente di cooperazione tra pubblico e privato” possa portare a risultati tangibili in poco tempo è stata condivisa anche dal capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia: “Accolgo con favore questa partnership, la prima in Europa, e spero che porti allo sviluppo di un nuovo modello finanziario e organizzativo con il coinvolgimento del capitale privato e di fondi europei per affrontare obiettivi sociali”. In caso di successo, “avremo a disposizione un modello replicabile anche ad altre regioni italiane già nel 2021”, ha concluso Petralia. Busto Arsizio. Morte in carcere, autopsia sul detenuto di Sarah Crespi La Prealpina, 28 novembre 2020 Il pm: va appurato se fosse positivo. La madre: “Voleva denunciare l’area sanitaria”. Vuole vederci chiaro il pubblico ministero Stefania Brusa sulla morte di Fabio Citterio, detenuto del carcere di Busto trovato senza vita martedì mattina. Lunedì verrà eseguita l’autopsia, unico accertamento che possa sciogliere il dubbio che desta perplessità: è stato il Covid-19 a stroncare il cinquantatreenne nel giro di pochissime ore dall’insorgenza della febbre oppure il decesso è stata la conseguenza delle plurime patologie di cui soffriva e per le quali da tempo chiedeva di essere collocato in una cella singola? Il tampone eseguito lunedì pomeriggio aveva dato esito negativo. Ma in ospedale, dove i medici non hanno potuto fare altro che constatare l’arresto cardiocircolatorio, il test molecolare eseguito sul cadavere è risultato positivo. La madre di Fabio - che stava scontando trent’anni per concorso in un omicidio commesso dalla cugina nel Comasco - è una donna ancora sotto shock. “Non me l’hanno nemmeno fatto vedere”, sospira ben consapevole comunque che le norme anti virus prevalgano su qualsiasi altra esigenza. Ma ha un tarlo che scava sempre più a fondo, man mano che le ore passano. “Fabio voleva denunciare l’area medica della casa circondariale. Aveva già appuntamento con l’avvocato che lo stava seguendo - Alessandro Fumagalli - per consegnargli la cartella clinica e le richieste inascoltate. Date le sue condizioni di salute aveva più volte domandato di non condividere la cella con altri detenuti, per la sua e l’altrui tutela. Lo hanno messo in isolamento solo lunedì, nemmeno ventiquattro ore prima che morisse. Era troppo tardi”. Citterio aveva serie difficoltà cardiache, una patologia cronica ed escrescenze cutanee che si riproducevano. I tumori benigni erano stati rimossi in ospedale, nell’arco della giornata era stato operato e riportato in carcere. L’indomani mattina dovettero però riaffidarlo ai medici per drenargli il liquido che si era formato. “Era fragile, ultimamente mi ripeteva spesso, al telefono, di avere molta paura. Sabato scorso mi disse che lui e altri diciannove detenuti risultati negativi al Covid erano stati spostati in infermeria, mi raccontò dello sciopero della fame al quale non poteva aderire per motivi di salute. Domenica l’ho sentito per l’ultima volta. Sperava di ottenere i permessi per uscire, io attendevo solo questo. Ma Fabio a casa non tornerà mai più”. Milano. Coronavirus, 30 detenuti ospitati in appartamenti della Caritas Ambrosiana La Repubblica, 28 novembre 2020 “Così riduciamo i contagi in cella”. Progetto partito a marzo, coinvolge detenuti di diversi istituti di pena lombardi che restano sottoposti a tutte le restrizioni di legge. Gualzetti: “Ma preoccupa la condizione di vita nelle carceri”. Una misura per alleggerire le celle delle carceri, dove il sovraffollamento strutturale è incompatibile con la gestione della pandemia, entrata anche lì con contagiati tra detenuti e personale. Per questo da marzo Caritas Ambrosiana ha messo a disposizione appartamenti dove 30 detenuti di San Vittore, Opera, Bollate, Lecco, Varese, Busto Arsizio stanno scontando gli ultimi mesi di pena. Le persone scelte sono state indicate dal magistrato di Sorveglianza tra coloro che sarebbero stati esclusi da questi benefici perché sprovvisti di una propria abitazione. Negli alloggi individuati dalla Caritas grazie alla collaborazione della Diocesi di Milano, (tre appartamenti a Milano, uno a Varese e l’ex casa del clero Villa Aldé a Lecco) gli ospiti sono sottoposti alle misure di tutela previste dall’Uepe (l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna): continuano dunque a essere soggetti a restrizioni della loro libertà personale e ai controlli di polizia. “Le persone che abbiamo accolto sono molto grate dell’opportunità che hanno avuto e stanno vivendo questo periodo difficile con una maggiore serenità di quella che avrebbero avuto stando in cella, pur rimanendo a tutti gli effetti dei detenuti. Ci dicono che proprio in questi mesi hanno avuto occasione di riflettere su quello che hanno fatto, segno evidente che questa è la strada che le istituzioni devono intraprendere se vogliono riabilitare le persone e non solo affrontare la cronica debolezza del nostro sistema penitenziario che la crisi sanitaria ha solo acuito”, sottolinea il direttore della Caritas Ambrosiana Luciano Gualzetti, mentre in questi giorni si moltiplicano le iniziative per tentare di ridurre ulteriormente i reclusi nelle carceri il cui numero è tornato di nuovo sopra i livelli di guardia: dagli emendamenti al Decreto Ristori per favorire il ricorso agli arresti domiciliari alla liberazione anticipata speciale che alzerebbe da 45 a 75 giorni a semestre lo sconto di pena, già previsto dall’ordinamento, per i casi di buona condotta. “Ben vengano tutte le iniziative che in questi giorni sono state avanzate tanto dalla politica quanto dalla società civile per affrontare il sovraffollamento delle carceri giunto oltre i limiti compatibili con la gestione della pandemia in corso. Occorre moltiplicare gli sforzi da parte delle istituzioni per assicurare che quelle misure, in parte già previste dal codice, possano essere applicate effettivamente anche a chi si trova in maggiore difficoltà. Noi siamo pronti a fare la nostra parte”, sottolinea Gualzetti. Tuttavia, a preoccupare il direttore della Caritas Ambrosiana in questi giorni non è solo il numero eccessivo di detenuti, ma anche la qualità della vita di chi è recluso. “Oggi per ragioni di tutela della salute, in Lombardia i volontari non possono più entrare nei penitenziari, con rarissime eccezioni. Comprendiamo queste preoccupazioni. Tuttavia, invitiamo con forza le autorità a trovare le modalità che consentano, anche in questo momento molto difficile, lo svolgimento dell’attività di risocializzazione, a cominciare dalla scuola, valutando la passibilità di offrire ai detenuti la didattica a distanza”. Napoli. “La politica dimentica prigioni e detenuti, noi non possiamo” di Viviana Lanza Il Riformista, 28 novembre 2020 Parla il penalista Riccardo Polidoro. Il lockdown è un’utopia, come lo è il distanziamento. Gli spazi, che in carcere erano già pochi, adesso mancano. Prendiamo ad esempio il carcere di Poggioreale, semplicemente perché è il più grande e il più sovraffollato: dovrebbe contenere poco più di 1.600 persone e ne ospita oltre duemila. Consideriamo che in questo carcere, a fine ottobre, i detenuti positivi al Covid erano una ventina mentre adesso, a fine novembre, se ne contano 102. E sarebbero stati ancora di più se non ci fossero stati gli sforzi che ci sono stati, da parte del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone e del direttore Carlo Berdini, a mettere in atto, assieme alla direzione sanitaria, tutte le misure possibili per contenere la diffusione del virus e gestire al meglio i contagi. Centodue detenuti a Poggioreale significa dover isolare centodue persone, significa tracciare i contatti di queste centodue persone, e significa quindi avere a disposizione spazio. È ovvio che in un carcere dove già si è abbondantemente superato il numero delle presenze possibili, recuperare spazi per far fronte all’aumento dei contagi diventa sempre più difficile. Ed è facilmente deducibile che, se in celle fatte per stare in tre o quattro si sta in otto o nove persone, il distanziamento è impossibile da osservare. E se a questo aggiungiamo che le istanze al Tribunale di Sorveglianza non sono decise in tempi rapidi perché ci si scontra, anche su questo piano con criticità che hanno origini ben più antiche della pandemia da Covid, si capisce che si tratta di un’emergenza nell’emergenza. Da due giorni il penalista Riccardo Polidoro è in sciopero della fame contro questo sistema, contro queste criticità, contro silenzi e inerzie della politica. Ha aderito, assieme ai colleghi dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere penali, alla protesta promossa dalla presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini. Un’iniziativa che ha un forte valore simbolico e che vuole risvegliare l’attenzione di politica e opinione pubblica sulla necessità di misure ulteriori rispetto a quelle varate dal Governo con il decreto Ristori per allargare la platea di beneficiari e svuotare le carceri durante questo momento di grande emergenza sanitaria. “La situazione nelle carceri è drammatica, non si può rimanere indifferenti”, spiega Polidoro, penalista napoletano di grande esperienza e da anni impegnato per i diritti dei detenuti. Fu lui, nell’aprile del 2003, a far nascere a Napoli il Carcere Possibile, inizialmente come progetto per iniziative che coinvolgevano i detenuti dentro e fuori il carcere, e tre anni dopo come Onlus della Camera penale. Da allora ad oggi, la politica ha sempre mostrato scarso interesse per le tematiche relative al carcere. “Non c’è un interesse reale, non ci sono risposte”, sottolinea Polidoro, evidenziando un’assenza che pesa sulla vita e sulle condizioni di migliaia di detenuti. “La situazione, che era già precaria, adesso è diventata drammatica”, aggiunge. “Spero che altri colleghi aderiscano all’iniziativa dell’Osservatorio Carcere dell’unione Camere penali”, si augura Polidoro che attualmente è responsabile, assieme all’avvocato Gianpaolo Catanzariti, dell’Osservatorio. La staffetta del digiuno vale a sostenere le motivazioni e le richieste di condizioni più umane in carcere, di tutela della salute di migliaia di detenuti costretti a vivere senza distanziamento e in condizioni spesso precarie e igienicamente a rischio. “Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ci sono ancora problemi alla rete idrica, irrisolti da anni che rischiano di dare facile corso al Covid”, racconta Polidoro evidenziando come la seconda ondata della pandemia fa più paura. Due detenuti (uno recluso a Poggioreale e uno a Secondigliano) e il direttore sanitario del carcere di Secondigliano sono morti nei giorni scorsi dopo il ricovero in ospedale per le conseguenze del Covid. È un bilancio che non può essere ignorato e che si aggiunge al preoccupante bollettino dei contagi, arrivato in Campania a 175 detenuti e 223 agenti penitenziari. A cui fa da contraltare il bilancio delle misure alternative disposte secondo il decreto Ristori: appena una decina. Venezia. Paura del contagio in cella, rumorosa protesta dei detenuti di Carlo Mion La Nuova Venezia, 28 novembre 2020 Oggetti sbattuti sulle inferriate dai detenuti, le forze dell’ordine non intervengono. Tra le richieste, condizioni migliori e l’uso di telefono per i colloqui con i familiari. Protesta rumorosa mercoledì pomeriggio dei detenuti del carcere di Santa Maria Maggiore. Intorno alle 15 e per quasi mezz’ora i detenuti hanno sbattuto sulle inferiate e sulle porte vari oggetti per attirare l’attenzione delle persone che si trovano all’esterno. Motivo della protesta è la richiesta, da parte dei detenuti, di maggiori tutele contro il contagio da Covid. La protesta è stata solo sonora e non è stato necessario l’intervento delle forze di polizia all’esterno della struttura per mettere la stessa in sicurezza. Ottenute un minimo di garanzie i detenuti hanno smesso la “caciarata”. Proteste simili, ma in alcuni casi anche più consistenti, sono avvenute in altre carceri nell’ultima settimana. La questione riguarda soprattutto i detenuti che venuti a contatto con altri carcerati contagiati, che chiedono di essere messi in isolamento in attesa dell’edito dei tamponi. Non sempre le condizioni di quarantena sono ritenute accettabili dai carcerati. Da qui le proteste. Ci sono poi i colloqui con i famigliari che, colpa l’emergenza da pandemia, sono stati nuovamente, dopo la stretta del lockdown, quasi del tutto azzerati. Per limitare il disagio in molte carceri è stato introdotto l’uso degli smartphone che consentono ai detenuti di poter dare delle videochiamate con i famigliari. Questa soluzione ha evitato, la primavera scorsa la rivolta nelle nostre carceri. Infatti il blocco dei colloqui aveva scatenato delle proteste m, anche violente, da parte dei detenuti. Era successo anche a Santa Maria Maggiore. L’onda lunga della rivolta nelle carceri italiane era arrivata anche a Venezia il 10 marzo. In quel caso, a Santa Maria Maggiore i detenuti di un padiglione hanno iniziato la rivolta svuotando estintori e cercando di distruggere le inferriate. Hanno anche appiccato il fuoco a materassi e suppellettili. La polizia penitenziaria, insieme ai colleghi della questura, ai carabinieri e ai finanzieri, ha creato un cinturone all’esterno per monitorare la situazione ed evitare eventuali tentativi di fuga, mette dall’esterno con getti d’acqua i vigili del fuoco hanno spento le fiamme. I terminal automobilistici, attigui alla casa circondariale, erano stati in parte chiusi e numerosi controlli vennero eseguiti in entrata e in uscita lungo il ponte della Libertà. Questo perché si temeva che la rivolta degenerasse e i detenuti riuscissero ad evadere con complici in attesa all’esterno. La calma tornò quando la direttrice del carcere, Immacolata Mannarella, garantì un incontro con una rappresentanza dei detenuti, per stabilire un primo contatto. Quindi i detenuti rientrarono. Monza. Il Covid ritorna in carcere: il 10% dei detenuti è contagiato di Beatrice Elerdini mbnews.it, 28 novembre 2020 È allarme Covid-19 nel carcere di Monza: il virus si è insinuato silenziosamente tra le celle, contagiando quasi 40 detenuti. Si tratta di circa un 10% del totale dei presenti, se si considera che al 31 ottobre risultavano recluse nella struttura 403 persone. Dei 40 detenuti risultati positivi, 3 sono già stati trasferiti a San Vittore, dove è stato allestito un reparto Covid. Contemporaneamente la direzione della casa circondariale monzese ha provveduto a effettuare tamponi a tappeto su tutti i detenuti. Il personale viene sottoposto sistematicamente a controlli periodici, pertanto non è chiaro come il virus abbia potuto introdursi nuovamente nella struttura. Nel mirino, quali potenziali fonti di contagio, finiscono le consegne provenienti dall’esterno e i contatti con i familiari. Altre componenti da non sottovalutare sono gli spazi ridotti e la potenziale presenza di asintomatici. È doveroso tuttavia sottolineare che a ogni nuovo ingresso in carcere, viene scrupolosamente adottato un protocollo di sicurezza, che prevede un primo tampone al soggetto (in una tenda pre-triage allestita appositamente dalla Protezione Civile), una visita medica e un periodo di isolamento di 14 giorni. In questo lasso di tempo la persona viene monitorata costantemente anche se il primo tampone è risultato negativo. Il problema era già emerso durante la prima ondata, quando a peggiorare la situazione vi era la scarsa disponibilità di mascherine (e quando presenti non era certificate), nonché l’assenza di tamponi. Oggi la situazione sembra essere differente, eppure il virus è tornato una seconda volta tra le mura del carcere. Bologna. Dozza, l’allarme nero su bianco: “Rischio concreto diffusione Covid” zic.it, 28 novembre 2020 Lo segnala il Garante dei detenuti, vista la situazione di sovraffollamento del carcere: “Doveroso e prioritario alleggerire le attuali presenze”, ben superiori alla capienza regolamentare. Residenze anziani, familiari e operatori incontrano la Regione: “Vigileremmo sui facili proclami”. Denunciato un imprenditore: nella sua azienda niente misure anti-contagio, oltre a lavoro nero e scarsa sicurezza. Il sovraffollamento della Dozza di Bologna va rapidamente alleggerito, perché “evidentemente può sussistere il rischio concreto di una diffusione del contagio all’interno dell’istituto penitenziario”. L’allarme è messo nero su bianco dal Garante dei detenuti del Comune, Antonio Ianniello. “Non siamo di fronte al numero delle presenze che si registrava durante il periodo della prima ondata pandemica, ma si rimane sempre abbondantemente sopra la capienza regolamentare fissata a 500 persone”, fa sapere il Garante, intervenendo a seguito di diversi casi contagio tra gli agenti di Polizia penitenziaria. In questa situazione di sovraffollamento “restano immutate la precarietà e la limitatezza delle condizioni essenziali per poter procedere al collocamento in spazi di isolamento” di eventuali detenuti positivi, avverte Ianniello, anche nel caso di quarantena precauzionale per nuovi ingressi e per i detenuti venuti a stretto contatto con chi risulta essere positivo. “Tutte le difficoltà che stiamo vivendo nella società libera risultano amplificate all’interno del carcere in ragione dell’impossibilità strutturale di poter instaurare quel distanziamento fisico necessario alla tutela del diritto alla salute, mancando quella risorsa essenziale e preziosa che è lo spazio”: per questo, per il Garante, è “doveroso e prioritario perseguire l’obiettivo di un opportuno alleggerimento degli attuali numeri delle presenze in carcere, anche partendo dalle persone che presentano maggiori fragilità”, per poter garantire “prevenzione e contenimento della diffusione del contagio”. In particolare, il Garante “auspica che possa essere accolta la proposta di prevedere una liberazione anticipata speciale e la sospensione dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive fino al 31 dicembre 2021”. Intanto, restando in tema Covid ma passando alla situazione nelle residenze per anziani, c’è stato un nuovo incontro tra il comitato di familiari e operatori Libro Verde e la Regione Emilia-Romagna, rappresentata dagli assessori Raffaele Donini e Elly Schlein. Il comitato si è presentato al tavolo con le seguenti richieste: “La necessità di servizi sanitari ausiliari di medici e infermieri nelle strutture con maggiori criticità e carenza di personale socio sanitario; agevolare le visite dei familiari all’interno delle Cra; rappresentatività dei familiari all’interno delle residenze attraverso organi formalmente riconosciuti”. Da parte della Regione sono arrivate diverse rassicurazioni e impegni, ma il comitato assicura che “vigilerà mantenendo alta l’attenzione senza abbassare la guardia dinanzi a facili proclami, con la prospettiva di un prossimo incontro in cui monitorare l’andamento della situazione. Auspichiamo che il confronto con le istituzioni possa proseguire con l’obiettivo di superare questo difficile momento e per un futuro ben diverso”. Infine, una notizia dal mondo del lavoro: un imprenditore edile, a Bologna, è stato denunciato perché impiegava lavoratori in nero e perché nella sua attività sono state riscontrate numerose violazioni della normativa sulla sicurezza dei cantieri oltre alla quasi totale assenza delle misure anti Covid. Reggio Calabria. Il Garante dei detenuti presenta la Relazione annuale e la dedica alla Santelli lametino.it, 28 novembre 2020 “Dare la possibilità ai detenuti di riscrivere la loro vita dentro le mura del carcere, in omaggio al principio costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato ed al suo successivo reinserimento nella società”. È questo uno dei principali obiettivi da perseguire nell’esercizio delle nostre funzioni - ha spiegato Agostino Siviglia, Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, presentando in videoconferenza dall’Aula “Giuditta Levato” di Palazzo Campanella la sua Relazione annuale, dedicandola alla presidente Jole Santelli, prematuramente scomparsa. Particolareggiata, riferisce un comunicato dell’ufficio stampa del Consiglio regionale, la Relazione del Garante, che ha offerto uno spaccato sul “pianeta carceri” in Calabria, e più in generale nel Paese, grazie ai contributi in collegamento video del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia e del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma. All’iniziativa - coordinata dal Responsabile dell’Ufficio Stampa del Consiglio regionale Romano Pitaro - ha portato i saluti istituzionali il Vicepresidente dell’Assemblea Nicola Irto che ha sottolineato “l’importanza di aver istituito la figura del Garante delle persone detenute, percorso complesso maturato nella scorsa legislatura e che ha richiesto la condivisione da parte di tutti i soggetti coinvolti, recuperando un ritardo segnalato dallo stesso Garante nazionale. L’avvocato Siviglia sta svolgendo responsabilmente la sua funzione”. È intervenuto il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri il quale ha dichiarato: “Il tema carcere è un argomento difficile che deve essere affrontato in tutti i suoi aspetti. Il Sistema penitenziario è fondamentale nell’ambito del sistema penale ed attiene alla fase esecutiva che spesso viene dimenticata, resta lontana dall’attenzione dei media e viene alla ribalta nei momenti in cui si verificano delle situazioni particolari. Generalmente l’attenzione è rivolta alle operazioni di Polizia giudiziaria, a volte ai processi, e spesso ci si dimentica della fase dell’esecuzione. Quest’ultima è invece una fase importantissima, perché governata da principi costituzionali, che sono diretti alla definizione di percorsi di recupero, di formazione e di reintegro sociale della persona detenuta”. “La presenza dell’Amministrazione penitenziaria in Calabria è costante, l’osservatorio è continuo. La Calabria è una terra estesa, ricca di istituti - ha detto Petralia - determinando una differenziazione anche di tipo culturale e trattamentale inevitabile tra alcuni istituti ed altri. E questo è un argomento che indubbiamente interessa sia l’opera del Garante sia l’Amministrazione penitenziaria, e me personalmente, perché l’aspetto costituzionale del trattamento è un aspetto primario, estremamente importante che va a garanzia di tutto e di tutti”. Secondo Mauro Palma: “la Calabria non presenta molte criticità: i punti di sofferenza che io rilevo è quando insistono direzioni in più istituti, come ho potuto verificare personalmente, nel caso di Rossano e Cosenza che vedono una stessa direzione. Dovremo operare tutti perché si vada il più possibile nella prospettiva che ogni Istituto abbia il proprio direttore poiché le dinamiche che si determinano in un Istituto, laddove c’è un direttore soltanto in via saltuaria, sono sempre molto complesse”. “È stato un anno faticoso quello appena trascorso, violento mi verrebbe da dire” - ha sottolineato Siviglia - richiamando i tanti, troppi eventi che hanno segnato questo periodo, “primo fra tutti il Covid-19, con il futuro che è divenuto inedito, per la Calabria e per il mondo intero. L’avvento della pandemia ha ribaltato ogni priorità d’intervento e la priorità dell’attività funzionale è divenuta quella di contribuire alla garanzia dell’assistenza sanitaria in carcere ed a raccomandare e monitorare l’adozione delle misure precauzionali per scongiurare la diffusione del contagio. Il sistema penitenziario calabrese sta reggendo bene l’impatto col Coronavirus”. Fra le iniziative promosse, ha ricordato il Garante, “quella realizzata insieme ad Area Democratica per la Giustizia di Reggio Calabria ed alla Direzione della Casa Circondariale di ‘S. Pietro’ di Reggio Calabria, che ha visto il confezionamento, da parte delle donne detenute, di mascherine destinate in via prioritaria ad uso interno dell’Amministrazione Penitenziaria di tutta la regione. Il contesto sociale calabrese è segnato da una subdola e penetrante presenza della criminalità organizzata che, evidentemente, si ‘scarica’ sul suo sistema penitenziario. È necessario intervenire prima di tutto fuori dal carcere, per tentare di realizzare una serie multiforme e multidisciplinare di azioni integrate volte a prevenire ovvero a superare quello che appare come un ineluttabile destino criminale, ereditario o ambientale che sia. In tale ottica, per esempio, a Reggio Calabria, si è mosso il Protocollo ‘Liberi di scegliere’, con inequivocabili risultati positivi. Si registra una permanente carenza di personale giuridico-pedagogico; una esigua quantità del monte ore degli esperti ex art. 80 OP, preposti all’osservazione intramuraria e per di più gravati da altre funzioni; la sostanziale inesistenza di mediatori penali e culturali; l’assenza di personale altamente qualificato e specializzato nei percorsi trattamentali delle persone detenute per reati di criminalità organizzata (magari formato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in sinergia con le Università); l’assenza, quindi, di un ‘sapere trattamentale’ specifico, evidentemente, non generato per causa di un ‘vuoto teorico sulla rieducazione mafiosa’; rivedere la normativa sull’interdittiva antimafia che inibisce, a chi ha scontato la sua pena, la possibilità di intraprendere un’attività lavorativa legale”. “I due terzi delle persone detenute in Calabria, come nel resto d’Italia - ha detto ancora Siviglia - non sono mafiose e non hanno nulla a che fare con la criminalità organizzata e come ribadito in più occasioni, dal sociale al penale, il penitenziario finisce per diventare una discarica sociale”. Milano. Carlo, dopo anni di carcere: “Il lavoro ti aiuta a tenerti lontano dai guai” di Michele Razzetti vanityfair.it, 28 novembre 2020 Dopo cinque anni di carcere, Carlo ha saputo cogliere le opportunità del Programma 2121 e oggi lavora a tempo indeterminato e con tanta voglia di riscatto. Nelle questioni complesse, abbiamo spesso un problema: ci fermiamo alla superficie. A volte per pigrizia, altre per malizia, altre infine perché non abbiamo energie sufficienti per approfondire tutto ciò in cui incappiamo. Così, leggendo un dato che riguarda la recidività nel delinquere di chi finisce in carcere, possiamo pensare superficialmente che “il lupo perde il pelo ma non il vizio”. Sì, perché circa 7 ex-detenuti su 10 finiscono per scivolare nuovamente nel vortice dell’illegalità. Piuttosto che abbandonarsi a facili modi di dire, dovremmo invece chiederci che cos’ha fatto davvero la società, cioè tutti noi, per far sì che quelle persone potessero tornare al vivere civile. Abbiamo cioè profuso gli sforzi necessari (ed efficaci) per sottrarre quell’essere umano a un destino infelice? Uno strumento che ha dimostrato effetti positivi a questo proposito c’è, e si chiama lavoro. Già, proprio quell’attività che in molti casi, secondo un altro noto detto, è in grado di nobilitare l’uomo. “Un lavoro ti aiuta a tenerti lontano dai guai. Per qualsiasi tipo di reato, se non hai un lavoro, il cervello ritorna sui vecchi passi” conferma Carlo (il nome è di fantasia). Oggi che ha scontato la sua condanna di quasi cinque anni e che è libero da uno, lo vede con una chiarezza che non lascia spazio a dubbi. “Ho girato tre carceri: il cambio è traumatico. Negli ultimi due anni sono stato a Bollate, dove ho riscontrato dei benefici per quello che è il percorso di uscita dal carcere”. Di Bollate come modello nel sistema penitenziario italiano ne abbiamo già parlato: dal 2018 in questo carcere è attivo anche il Programma 2121, un’iniziativa pubblico-privata promossa dal Ministero della Giustizia italiano e da Lendlease, gruppo internazionale che opera nel real estate, con lo scopo di favorire il reintegro dei detenuti nella società. Carlo è stato uno - come si ritiene lui stesso - dei “fortunati” a essere selezionato per questa iniziativa. “Mi è stata data un’opportunità e l’ho sfruttata lavorando più di un anno. Affiancavo una segretaria anche se non era il mio mestiere, perché sono un elettrotecnico. Ho appreso tantissime cose”. Il lavoro, quello onesto, è un tassello fondamentale nel processo di rinascita di un ex carcerato. L’articolo 21 - che ispira il nome del programma - prevede che i detenuti possano lavorare per realtà esterne al carcere. Un’opportunità allettante sia perché fornisce l’opportunità di sottrarsi alla monotonia della vita carceraria sia perché pone le basi per un futuro estraneo all’illegalità. Una svolta non sempre facile da prendere. “All’interno del carcere i discorsi che ci sono fra detenuti sono quasi esclusivamente di reato. Sono pochissime le persone con cui ti puoi approcciare per fare un discorso positivo nei confronti dell’uscita. Forse non in tutte le carceri, ma per quello che ho visto io è così. Devi essere tu a tirarti fuori da questo vortice e non è così semplice perché se non parli di queste cose sei malvisto, sei ghettizzato”. La percentuale di coloro che guardano al futuro con progetti virtuosi secondo l’esperienza di Carlo è purtroppo minoritaria. “Ho conosciuto persone che sono ancora in carcere ma escono tutti i giorni e hanno la voglia di costruire qualcosa di nuovo. Però la percentuale è bassissima”. Questo banalmente anche perché l’altra strada può apparire più in discesa: “è molto più facile andare a delinquere che cercare di fare qualcosa di positivo e concreto per se stessi. Ci vuole fatica e tempo, e tante cose che non si conoscono”. I frutti della determinazione di Carlo non si sono fatti attendere: una volta libero, grazie al Programma 2121 ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato. “Sono contento anche se non è il mio lavoro: mi permette di pagare l’affitto e le bollette”. Di vivere onestamente il presente e di guardare al futuro, di fare progetti più a lungo termine. “Ho in mente dei traguardi, che devo raggiungere per stare bene. Nel paese in cui vivevo (Carlo è italiano ma ha vissuto all’estero per molti anni, ndr) ho dei parenti e delle persone a cui tengo, dei figli. Ho un lavoro da fare per ricostruire la loro fiducia in me”. Fiducia, un tema cruciale quando si tratta di reinserimento di ex carcerati nel tessuto sociale. Come osserva Antonio Sgobba nel suo recente “La società della fiducia” (Il Saggiatore), “non possiamo parlare di fiducia senza parlare di affidabilità. Oggi diciamo che è in crisi la fiducia in generale: quella reciproca, quella che costituisce il tessuto della società. […] C’è un equivoco di cui fatichiamo a liberarci: non ci può essere fiducia civica se la società è divisa da diseguaglianze che appaiono insuperabili”. E così accade che anche i datori di lavoro non si fidino così spesso di una risorsa con un passato in carcere. A pesare secondo Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, è soprattutto il pregiudizio. “Si ritiene che chi ha compiuto un reato sia propenso a ripeterlo. I risultati sono invece opposti se si tenta di conoscere e valutare la persona che è stata in carcere e, soprattutto, la si crede capace di cambiare. Per mia esperienza alcune persone ex detenute hanno fatto percorsi molto positivi e dato prove di grande affidabilità al lavoro, senza tornare più al crimine” ci spiega. Il risultato di sfiducia e pregiudizio è un numero: 13, cioè la percentuale di carcerati che in Italia trova un impiego presso datori di lavoro terzi rispetto all’amministrazione penitenziaria. Un numero che fa ridurre la possibilità che un detenuto possa tornare a essere parte del tessuto sociale dopo l’uscita. “Solo la costruzione di percorsi che iniziano durante l’espiazione della pena può favorire il reinserimento: le opportunità trattamentali potenziano la riflessione, mentre la formazione al lavoro e il lavoro stesso costituiscono uno strumento molto forte e concreto per un reinserimento effettivo. Un reinserimento efficace, con un lavoro e una professionalità spendibile, consente invece di abbattere la recidiva, evitando la commissione di nuovi reati” continua Di Rosa. Il pregiudizio e il timore dei datori di lavoro non sono scalfiti neanche dalle agevolazioni previste dalla legge 193/2000, la legge Smuraglia che “ha previsto sgravi contributivi per i datori di lavoro che assumono detenuti o svolgono attività formative nei loro confronti; lo sgravio opera fino a sei mesi dopo la cessazione dello stato di detenzione” conclude Di Rosa. Per coloro che ce la fanno, a ottenere un impiego, ci sono poi le relazioni con i colleghi. E banalmente, non tutti sono così pronti a lavorare fianco a fianco a un ex detenuto. Fortunatamente l’esperienza di Carlo ha un segno diverso, positivo, anche da questo punto di vista, indice che qualcosa si sta muovendo. “Dove lavoro io attualmente lo sanno tutti da dove vengo. Non mi aspettavo assolutamente questo tipo di accoglienza da parte di gente che non ha mai avuto a che fare con persone che vengono dal carcere. Se sei attorniato da persone con cui ti rendi conto che è possibile parlare non hai nessun problema”. Lanciano (Ch). Concorso “Lettere d’amore dal carcere, edizione 2020” quotidianodifoggia.it, 28 novembre 2020 Feeling-long learning ovvero apprendimento permanente per l’istruzione e la formazione continua della persona, anche attraverso modalità alternative idonee a creare e potenziare la consapevolezza di essere un individuo pensante e senziente, facente parte di una comunità, dunque alla ricerca delle proprie emozioni positive. È su queste basi che l’I.T.E.S. “Fraccacreta”, rappresentato dal Dirigente scolastico prof.ssa Maria Soccorsa Colangelo, ha deciso, unitamente ai docenti della sezione carceraria ed al personale educativo della Casa Circondariale, di aderire al Concorso Nazionale “Lettere d’amore dal carcere - edizione 2020”. L’evento, promosso dalla Casa Circondariale di Lanciano (CH), ha come obiettivo quello di estrinsecare i propri sentimenti d’amore verso una persona reale o immaginaria, un animale, un oggetto, un luogo, un paesaggio. La giuria del Concorso, come nelle precedenti edizioni, sarà composta da docenti esperti nel campo e da studenti universitari: i vincitori, qualora possibile, saranno invitati a partecipare alla cerimonia di premiazione che si terrà nella cittadina abruzzese entro il mese di dicembre 2020. “In tempo di pandemia, come quello del Covid-19 che ufficialmente da febbraio 2020 ha messo in serio affanno i sistemi sanitari e le economie del Pianeta, la condizione all’interno degli Istituti di pena- ha dichiarato la Dirigente Colangelo- appare molto più dura rispetto ad altre epoche”. La popolazione carceraria vive, infatti, una situazione molto precaria in questi mesi: le attività scolastiche sono state sospese e la didattica a distanza, in assenza di strumenti telematici, non può svolgersi tramite internet. I docenti della sezione carceraria, comunque, hanno continuato con il solito entusiasmo a preparare, giorno per giorno, le loro lezioni su supporto cartaceo, poi fascicolato e portato all’interno della Casa circondariale. “Ancora una volta - ha concluso la prof.ssa Colangelo - l’I.T.E.S. “A. Fraccacreta” e la Direzione della Casa Circondariale di San Severo si dimostrano attenti e vicini alle esigenze formative, culturali e di riscatto sociale della popolazione carceraria: siamo consapevoli di compiere, con umiltà, una missione ancor più significativa, considerata l’estrema problematicità di questi tempi”. Livorno. Le Pecore Nere si sono fermate. Il Covid blocca il rugby anche in carcere iltelegrafolivorno.it, 28 novembre 2020 Allenamenti e partite sospese per gli atleti-detenuti. Un progetto nato 6 anni fa grazie ai Lions Amaranto. A causa dell’emergenza Covid-19 e relative restrizioni, per un po’ di tempo la palla ovale non potrà rotolare all’interno dell’istituto carcerario livornese de ‘Le Sughere’. Non si potranno disputare partite con protagonisti gli atleti delle Pecore Nere e, ovviamente, non si potrà vivere il simpatico rito dell’apprezzato terzo tempo offerto alle squadre ospiti, per una merenda, ben poco indicata dai dietologi, a base di arancini, hot dog, bomboloni alla crema e bibite gassate. Per le restrizioni non sono consentiti neppure i classici allenamenti. L’ultima gara disputata dalle Pecore Nere risale dunque allo scorso sabato 1 febbraio, alla vittoria, per tre mete a una, sui Ribolliti Firenze. In tutto, nell’arco della stagione agonistica 201920, quattro le gare di campionato giocate dalla rappresentativa dei detenuti dell’istituto penitenziario labronico. Una squadra tutt’ora imbattuta in gare ufficiali: all’attivo di questa formazione del tutto speciale, tre successi, un pareggio e nessuna sconfitta. Il progetto di un pallone da rugby da far viaggiare all’interno del carcere livornese prende corpo 6 anni fa, sabato 27 settembre 2014, quando 22 giocatori dei Lions Livorno, accompagnati dal presidente della stessa società amaranto Mauro Fraddanni, dall’allenatore Manrico Soriani (vero promotore delle lodevoli iniziative rugbistiche svoltesi nell’istituto penitenziario livornese) e dai rappresentanti del comitato toscano della Fir, Marco Bertocchi e Claudia Cavalieri, danno vita, sul terreno di gioco in sintetico de ‘Le Sughere’, a un allenamento piuttosto sostenuto, con tanto di partitella in famiglia. Durante la seduta, lunga circa 60 minuti, si sviluppano varie fasi di gioco e vengono mostrati i fondamentali dello sport della palla ovale. Un centinaio di detenuti, presente all’allenamento, mostra entusiasmo e grande partecipazione emotiva. Da quel giorno, grazie al lavoro dei Lions (ed in particolare dallo stesso Soriani e dai suoi colleghi-allenatori Michele Niccolai e Mario Lenzi) e al concreto appoggio dell’Associazione Amatori Rugby, scattano veri allenamenti per i detenuti. Ben presto è allestita una squadra composta da atleti reclusi nella casa circondariale livornese. La formazione, con grande autoironia, viene battezzata dagli stessi detenuti Pecore Nere. Voto di fiducia sul Decreto Immigrazione. Il centrodestra promette battaglia di Leo Lancari Il Manifesto, 28 novembre 2020 Come previsto il governo ha messo la fiducia sul decreto immigrazione. Ad annunciarlo è stato ieri alla Camera il ministro per i rapporti con il parlamento Federico D’Incà mentre il voto è previsto per lunedì a partire dalle 14,30 subito dopo le dichiarazioni dei gruppi. C’è voluto più di un anno ma alla fine la promessa fatta dal secondo governo Conte di mandare in soffitta i decreti sicurezza di Matteo Salvini, approvati durante il Conte 1, comincia a concretizzarsi. Le opposizioni, Lega in testa, hanno fatto di tutto per rinviare il più possibile questo momento prima facendo ostruzionismo commissione Affari costituzionali di Montecitorio poi, ieri, provando a rimandare il testo di nuovo in commissione adducendo a pretesto la mancanza della documentazione che avrebbe dovuto fornire il governo. Richiesta giudicata inammissibile dal vicepresidente della commissione Ettore Rosato (Pd): “La conferenza dei capigruppo - ha spiegato -ha deciso unanimemente di non tenere votazioni nella giornata di oggi (ieri, ndr) e ha fissato all’unanimità un percorso che dobbiamo portare avanti. Nell’assumere le loro decisioni i capigruppo erano pienamente consapevoli dei rilievi avanzati in aula”. Successivamente anche il viceministro dell’Interno Matteo Mauri si era espresso contro il rinvio in commissione. Tra i punti di miglioramento delle norme approvati in commissione Affari costituzionali, ci sono il ridimensionamento delle multe per le Ong, che potranno essere applicate solo dopo procedimento giudiziario; il ritorno della protezione umanitaria e del sistema Sprar (Sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati), la possibilità per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe dei Comuni ; il divieto di respingimento qualora esistano fondati rischi di essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti o a persecuzioni sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere; l’esclusione dei richiedenti asilo vulnerabili dalle procedure accelerate; la riduzione da 48 a 24 mesi dei tempi per la cittadinanza. “Per due lunghissimi anni abbiamo dovuto sopportare la vergogna delle leggi insicurezza volute dall’allora ministro Salvini - ha commentato la deputata di LeU Rossella Muroni - leggi con cui l’Italia ha ripudiato la sua cultura giuridica, la sua storia, la sua umanità, con cui ha criminalizzato il soccorso in mare. Ora finalmente possiamo voltare pagina”. Da parte sua a Lega promette d fare e barricate quando lunedì l’aula voterà il nuovo decreto Immigrazione. Ad annunciarlo è stato lo stesso leader del Carroccio: “Non faremo passare decreti che riportano l’Italia indietro”, ha segato ieri Matteo Salvini. “Lo faremo rispettando quello che è il regolamento della Camera, parlando e spiegando che sarebbe giusto che il parlamento si occupasse di lavoro, non di immigrazione. Li terremo in aula fino a che non ritireranno i decreti, contro che il centrodestra sa compatto”. Mauri (Pd): “Protezione umanitaria e permessi di lavoro, le nuove misure sull’immigrazione” di Giovanna Casadio La Repubblica, 28 novembre 2020 Il viceministro dell’Interno: “Finisce la stagione della propaganda e degli slogan vuoti sull’immigrazione, in cui i decreti Salvini hanno giocato sulla pelle di tutti, italiani e immigrati, creando di fatto più insicurezza”. Matteo Mauri è il viceministro dell’Interno, del Pd, che ha avuto un ruolo di raccordo nel tavolo di governo che ha riscritto il decreto immigrazione. Oggi il provvedimento che archivia la riforma di Salvini, approda nell’aula di Montecitorio. Il governo ha già fatto sapere che intende mettere la fiducia, da votare lunedì. Mauri, arriva in aula alla Camera il decreto immigrazione che supera i decreti sicurezza di Salvini. Come mai il governo e la maggioranza giallo-rossa ci hanno messo tanto a cambiarli? “Vale sempre la regola che per fare un buon lavoro serve il tempo che serve. E il nuovo decreto immigrazione è un ottimo lavoro. Se pensiamo al fatto che siamo stati bloccati dal lockdown per mesi, mi sembra un mezzo miracolo che siamo qui oggi a parlarne. Ma non è ancora finita. C’è ancora il voto in aula alla Camera e il Senato. Bisogna continuare con la stessa determinazione e la stessa qualità che ci abbiamo messo fino ad ora”. Lockdown a parte, ci sono state tensioni in maggioranza con i 5Stelle, che d’altra parte avevano votato i decreti Salvini quando erano in coalizione con la Lega nel governo Conte 1. “Ma le tensioni dei primi momenti non hanno frenato. E siamo riusciti ad arrivare a un grande risultato politico in maniera condivisa con tutte le forze di maggioranza, con l’impegno di tutti inclusi di 5Stelle”. Il centrodestra l’ha già soprannominato il “decreto clandestini”. Voi cosa rispondete? “Dico che è la solita propaganda. Fatta di slogan vuoti. Ci siamo abituati. E non ci spaventa. Anzi, ci dà la carica. La verità è che vogliamo chiudere una stagione in cui si è giocato sulla pelle di tutti, degli italiani e dei migranti. Negare diritti, criminalizzare chi salva vite in mare o chi fa accoglienza, fare modifiche alle regole e creare decine di migliaia di irregolari in più in poco tempo sono tutte cose che non sono state fatte certamente nell’interesse degli italiani. Ma solo per speculare elettoralmente, sventolando la bandiera della sicurezza ma creando in realtà più insicurezza. Noi siamo per i diritti e per le regole. Per l’integrazione e la convivenza senza conflitti. Siamo per la sicurezza di tutti e per la protezione di chi è vulnerabile, italiani e stranieri. Noi siamo convinti che il rispetto dei diritti e un sistema di accoglienza e inclusione di qualità sia nell’interesse di tutti. Creare le condizioni per il conflitto, mettere i penultimi contro gli ultimi è da irresponsabili”. Quali sono le novità più importanti? “Dovendo scegliere, tra le tante novità, direi queste. La reintroduzione della protezione umanitaria, che si chiamerà “speciale”, per riportare l’Italia nella media europea dei permessi di soggiorno. Un nuovo sistema di accoglienza, il SAI, che favorisca veramente l’integrazione nel tessuto socio economico e che abbia un impatto minimo sulle comunità. Molti permessi di soggiorno saranno convertibili in permessi di lavoro. In un solo anno, con la guida della ministra Luciana Lamorgese, abbiamo fatto prima una regolarizzazione riuscita e adesso questo importante decreto. Ma in sostanza abbiamo corretto le storture create da politiche sbagliate e da una legge, la Bossi-Fini, che produce strutturalmente i problemi”. Quindi, soddisfatto? “Sì, assolutamente. Anche se la mia ambizione è andare oltre. Serve una nuova legge sull’immigrazione. Si deve andare verso un modo di gestire il fenomeno migratorio che porti l’Italia fuori dalla demagogia populista e dentro un futuro di lucida razionalità, nell’interesse di tutti”. Ma il governo teme l’ostruzionismo della destra e la fronda dei grillini dissidenti al punto che nei giorni scorsi è stato annunciato che metterete la fiducia? “Mettiamo nel conto che il centrodestra, e la Lega in particolare, faranno di tutto per contrastare il decreto. Già alcune Regioni a trazione leghista - Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia - e la Liguria di Toti, hanno alzato le barricate. Ma noi siamo determinati perché sicuri delle nostre ragioni. All’interno del M5Stelle poi, sappiamo che ci sono punti di vista diversi, ma sono convinto che i problemi verranno superati”. Scienziato iraniano condannato a morte perché si è rifiutato di farsi spia: la mobilitazione Il Riformista, 28 novembre 2020 In una lettera congiunta a Josep Borrell, Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Vicepresidente della Commissione Europea, dieci organizzazioni internazionali per i diritti umani chiedono un’azione immediata per salvare la vita di Ahmadreza Djalali. Gentile HR / VP Josep Borrell, Le scriviamo per esprimere la nostra profonda preoccupazione per il caso di Ahmadreza Djalali. Abbiamo appena appreso che il dottor Ahmadreza Djalali è stato messo in isolamento e sarà presto trasferito nella prigione di Rajai Shahr dove verrà eseguita la sua condanna a morte. Il dottor Djalali è un ricercatore iraniano-svedese affiliato all’istituto svedese Karolinska di Stoccolma e all’Università italiana del Piemonte Orientale a Novara, dove ha svolto ricerche sul miglioramento delle risposte di emergenza degli ospedali al terrorismo armato e alle minacce radiologiche, chimiche e biologiche. È stimato a livello internazionale e collabora regolarmente con i principali istituti di ricerca europei. Il contributo del Dr. Djalali è innegabile in questo campo di ricerca. La sua ricerca innovativa è stata condotta in ambienti multiculturali e in collaborazione con colleghi e istituzioni in diversi paesi. I suoi studi hanno portato alla pubblicazione di più di quaranta articoli scientifici con lo scopo di migliorare la risposta all’emergenza non solo nel suo paese, l’Iran, ma anche in Europa. Il dottor Djalali è stato arrestato in Iran nell’aprile 2016 e successivamente condannato per spionaggio, senza che venissero fornite prove materiali, a seguito di un processo affrettato e segreto, guidato dal tribunale rivoluzionario iraniano, e senza dare spazio alla difesa. Il dottor Djalali ha trascorso un lungo periodo di detenzione, con isolamento inizialmente totale e poi parziale nella prigione di Evin. Per tutto il periodo di prigionia è stato sottoposto a torture psicologiche così pesanti, che è stato costretto, in due occasioni, a registrare false confessioni, leggendo testi preparati dai suoi inquisitori. A seguito di un processo svoltosi a porte chiuse e in violazione di ogni minimo standard di legalità, il 21 ottobre 2017 è stato condannato a morte per “corruzione sulla terra” (Efsad-e fel-arz). Secondo quanto riportato dal settimanale scientifico internazionale Nature (23 ottobre 2017), una fonte vicina a Djalali ha rivelato, attraverso un documento presentato come trascrizione letterale di un testo manoscritto prodotto da Djalali all’interno del carcere di Evin, che nel 2014 è stato avvicinato da agenti dell’intelligence militare iraniana che gli hanno chiesto di raccogliere informazioni sui siti chimici, biologici, radiologici e nucleari occidentali, nonché sulle infrastrutture critiche e sui piani operativi antiterrorismo. Il documento afferma che Djalali crede di essere stato arrestato per essersi rifiutato di spiare per conto dei servizi segreti iraniani. Noi firmatari di questo appello chiediamo all’UE di intervenire immediatamente per ottenere la sospensione della condanna a morte che, a tempi brevi, può porre fine alla vita di un innocente, e per garantire che Ahmadreza Djalali possa ottenere accesso a cure mediche tempestive e adeguate. Sottoscrivono: Fidu - Federazione Italiana Diritti Umani, Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, Crimedim - Centro di Ricerca in Medicina d’Emergenza e Disastri (Università del Piemonte Orientale, Ecpm - Ensemble Contre la Peine de Mort, Eumans, Comitato Globale per lo Stato di Diritto “Marco Pannella”, Iran Human Rights, Nessuno Tocchi Caino, Scholars at Risk Italy (SAR Italia), Scienza per la Democrazia. Appello supportato anche da: Sen. Prof. Elena Cattaneo, Amb. Giulio Maria Terzi di Sant’Agata, già Ministro degli Affari Esteri italiano, Prof. Frederick Burkle. Harvard Humanitarian Initiative Università di Harvard, Prof. Gregory Ciottone Presidente World Association of Disaster and Emergency Medicine, Prof. Francesco Della Corte, Direttore di Crimedim.