“Noi detenuti, il terreno dove piantano odio e raccolgono voti” di Rita Bernardini Il Riformista, 27 novembre 2020 Il silenzio di media e politica sul dramma carceri e lo sciopero della fame. Il covid nell’Alta Sicurezza a Opera. Due lettere che mi arrivano dal carcere. Due lettere che mi arrivano dal carcere. La prima è di un familiare di un detenuto della Casa di reclusione di Milano-Opera che racconta, dopo una telefonata, della diffusione del Covid nelle sezioni dell’Alta sicurezza, AS1 e AS3. Mi colpisce quando riferisce dei detenuti dell’AS3 dove si trovano - afferma - i più anziani, i più fragili, coloro che spesso non escono dalla stanza o non si alzano dal letto e li penso mentre vivono minuto dopo minuto la loro straziante solitudine. “Buongiorno Rita, le scrivo per metterla al corrente della situazione Covid a Opera nella sezione degli AS. Nella casa di reclusione di Opera le restrizioni sono partite subito alla fine di ottobre quando sono state bloccate le uscite dei permessanti i quali, da mesi isolati nel centro clinico perché potessero usufruire dei permessi senza mettere a rischio i compagni di sezione, sono stati riportati nelle loro celle, dopo essere stati sottoposti a tampone. Dopo un primo periodo, dove pareva che anche la seconda ondata di contagi avesse risparmiato Opera, l’11 novembre, da una telefonata con il mio familiare ivi ristretto, vengo a conoscenza di numerosi positivi nel corridoio dell’AS3, posto sullo stesso piano della AS1. È una parte della AS3 dove sono collocati i più anziani, i più fragili, coloro che spesso non escono dalla stanza o non si alzano dal letto. Ancora gli AS1 risultavano indenni al virus. Nel giro di poche ore però il tam tam dei familiari e dei volontari alza il numero dei positivi oltre la ventina. Di questi alcuni sono della sezione degli AS1, per la precisione 3. Nei giorni a seguire risultano positivi altri AS1, tra questi c’è anche un detenuto sempre presente ai laboratori di Nessuno Tocchi Caino Spes contra Spem. I familiari apprendono del trasferimento del proprio caro attraverso di me e rimangono alcuni giorni senza sue notizie. Quando la comunicazione riprende regolarmente apprendono che verrà trasferito a San Vittore. Ancora oggi si trova in quel carcere, nel reparto destinato ai positivi al virus. Dice di trovarsi bene e di avere i sintomi di una lieve influenza. Lunedì 23 novembre ha effettuato il tampone che è risultato ancora positivo, pertanto dovrà attender per rientrare a Opera. Degli altri non so nulla, ma pare siano in maggioranza asintomatici o con sintomi lievi. Oggi ho avuto un ulteriore aggiornamento, altri 8 positivi nella sezione AS3 e 5 in uno dei due corridoi degli AS1, per l’altro corridoio i risultati arriveranno presumibilmente nella giornata di domani. Sommando tutti i casi si arriva a un considerevole numero che oltrepassa il 40. In tutto questo tempo l’intero piano è rimasto in quarantena, chiusi gli spazi comuni, le salette hobby e i passeggi sono con i compagni del proprio corridoio. Inoltre, sono state cancellate tutte le videochiamate Skype in quanto si svolgono nell’area colloqui, non più accessibile a coloro che risultano in quarantena. I colloqui sono stati interrotti da metà novembre. Nel frattempo è partita la fornitura regolare di mascherine e sono stati posti igienizzanti nei corridoi. Vi scrivo questo poiché i detenuti sono dispiaciuti del fatto che la notizia non è ancora giunta ai media, in particolare, alla voce di radio radicale”. La seconda è una lettera di solidarietà allo sciopero della fame in corso che mi giunge dal carcere di Velletri. Un messaggio pieno d’affetto che centra due problemi: il silenzio dei mezzi di informazione sul carcere e il cinismo della politica: noi e gli immigrati - afferma questo recluso - siamo il terreno fertile dove piantare il seme dell’odio e della demagogia per poi raccogliere consenso. “Ciao Rita, mi chiamo F.M., sono detenuto presso il carcere di Velletri. Prima di tutto vorrei chiederti: come stai? In secondo luogo vorrei ringraziarti a nome di tutti gli altri 500 detenuti - o “compagni di avventura”, come amo chiamarli io - per tutto quello che fai per noi. In modo particolare per quello che stai facendo in questo momento. E vorrei sottolineare l’assordante e vergognoso silenzio da parte di quasi tutti i media sul tuo sciopero della fame per richiamare l’attenzione delle istituzioni politiche e parlamentari affinché si accenda un faro sulla drammatica situazione nelle carceri e sulla mala-giustizia italiana. Al momento qui nel carcere di Velletri la situazione sembra essere sotto controllo, ovviamente per quel che ci è dato sapere. Ma trovo assolutamente vergognoso e non degno di una società che si ritiene civile il comportamento e le misure che ci vengono riservate dalla politica. Se possibile, siamo considerati peggio di una discarica sociale. Peggio, perché viene sfruttata la nostra disperazione e quella dei nostri familiari per meri scopi politici o, peggio, di propaganda. Certa informazione e certi esponenti politici hanno bisogno di noi, poveri detenuti, come il formaggio per il topo. Noi e gli immigrati siamo il terreno fertile dove piantare il seme dell’odio e della demagogia per poi raccogliere consenso. Avrei molto altro da scrivere, ma non ti voglio tediare. Ti invio 500 abbracci virtuali. Un caro saluto, F.M.”. Covid, l’Unione camere penali: “Digiuniamo tutti per le carceri” di Viviana Lanza Il Riformista, 27 novembre 2020 L’Osservatorio carcere aderisce all’iniziativa di Rita Bernardini e invita tutti i penalisti a unirsi allo sciopero della fame. “Chiediamo a governo e parlamento provvedimenti immediati per evitare la diffusione del virus”. Anche i penalisti aderiscono allo sciopero della fame come forma di protesta contro “l’immobilismo della politica e delle istituzioni” e con l’obiettivo di accendere i riflettori “sull’insostenibile sovraffollamento” e sulle “preoccupanti notizie di diffusi focolai di Covid nei vari istituti detentivi”. Si prova così a rompere il muro di silenzio che la politica ha edificato attorno alla questione carcere. Quella degli avvocati penalisti è una staffetta dello sciopero della fame che vale a sostenere l’iniziativa e le motivazioni della protesta attuata da Rita Bernardini e Irene Testa. La presidente di Nessuno Tocchi Caino è al diciassettesimo giorno di digiuno, la tesoriera del Partito Radicale al tredicesimo. E in questi giorni anche i penalisti dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali aderiscono al digiuno: “È un’azione non violenta - spiegano - per chiedere al Parlamento e al Governo di prendere provvedimenti immediati per evitare che il Covid continui a diffondersi nelle carceri mietendo vittime tra la popolazione detenuta e i dipendenti dell’amministrazione penitenziaria, e con un concreto pericolo che il virus possa poi diffondersi ulteriormente all’esterno”. I componenti dell’Osservatorio hanno stabilito per ora un primo calendario: il 23 e il 30 novembre l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, il 20 e il 27 novembre l’avvocato Davide Mosso, il 25 e il 26 novembre l’avvocato Riccardo Polidoro, il 27 novembre Gabriele Terranova. L’iniziativa proseguirà poi ulteriormente. “Aderiamo e sosteniamo la meritoria iniziativa di digiuno di Rita Bernardini” spiegano i responsabili dell’Osservatorio Carcere estendendo l’invito a tutti i penalisti ad aderire alla protesta. “Auspichiamo una massiccia e diffusa adesione in grado di sensibilizzare le istituzioni dinanzi alla grave situazione nelle carceri” sottolineano gli avvocati Polidoro e Catanzariti, responsabili dell’Osservatorio. Anche nel 2011 i penalisti dell’Unione camere penali aderirono a uno sciopero della fame con una staffetta a cui parteciparono moltissimi avvocati. E in queste settimane di grande emergenza, i penalisti sono stati tra i primi a scendere in campo in difesa dei diritti dei detenuti e della tutela della loro salute. Assieme ai garanti e agli esponenti del Partito Radicale, hanno posto l’attenzione sull’insufficienza delle misure finora varate dal Governo e contenute nel Decreto Ristori. Lo sciopero della fame è stato intrapreso da Rita Bernardini a partire dalla mezzanotte del 10 novembre, come atto di protesta per sensibilizzare la politica, e più in particolare Governo e Parlamento, ad affrontare in maniera concreta ed efficace la drammatica situazione delle carceri. Amnistia, indulto, liberazione anticipata speciale sono tra le misure proposte per affrontare nell’immediato la pandemia nelle carceri, alleggerendo il peso del sovraffollamento negli istituti di pena italiani. E questo non solo nell’ottica di tutelare la salute non dei soli detenuti ma anche di tutti coloro che nelle carceri lavorano, dagli agenti di polizia penitenziaria al personale amministrativo e socio-sanitario. “Il Decreto Ristori ristora ben poco detenuti e detenenti - aveva sottolineato la presidente di Nessuno Tocchi Caino annunciando la sua iniziativa di protesta - Per prima cosa occorre che la popolazione detenuta diminuisca sensibilmente”. Le carceri italiane sono quelle che in Europa contano il più alto numero di persone contagiate. Secondo i dati resi noti l’altro giorno, durante il question time alla Camera, sono 826 i detenuti risultati positivi al Covid in 76 istituti di pena e 1.042 gli operatori penitenziari in 139 istituti. È chiaro che il problema è diffuso, che il Covid ha, ormai da tempo, oltrepassato le mura delle carceri raggiungendo anche sezioni dove, come nel caso del 41 bis (come accaduto a Tolmezzo), le restrizioni sono massime e le possibilità di contatto sono ridotte al minimo. È chiaro, quindi, che il sovraffollamento diventa un fattore decisivo per la gestione della pandemia e per le azioni di prevenzione dei contagi perché, se le celle scoppiano e le carceri sono sovraffollate, gli spazi scarseggiano e distanziamento e isolamento diventano pura utopia. Dal panettone del carcere al miele di San Patrignano: un altro Natale è possibile di Lara De Luna La Repubblica, 27 novembre 2020 Pacchi di Natale che oltre a contenere cose buone siano anche belli da vedere e che oltre ad essere perfetti dal punto di vista della soddisfazione personale di chi dona e di chi riceve, possano avere un quid in più. Un’anima solidale. Non è impossibile, se si guarda nella direzione giusta e si scarta tra le tante proposte commerciali legate all’enogastronomia a ridosso delle festività, andando a scegliere ciò che ha una storia. Una storia difficile, quella dei minorenni con la vita scalcagnata che sono dietro le sbarre nell’isolotto di Nisida, a Napoli, che quest’anno hanno imparato a mettere le mani in pasta e creare qualcosa, quella delle detenute del carcere di Pozzuoli che da tempo portano avanti un’iniziativa imprenditoriale per riscattarsi, quella degli ospiti di San Patrignano, che dai rivoli di storie tutte diverse provano a rialzarsi. Tre progetti diversi eppure uniti da un fine nobile: utilizzare il potere catartico del creare qualcosa con le proprie mani per riavvicinare detenuti e ragazzi in difficoltà a una vita normale, al riscatto. Un isolotto bellissimo, sotto la scogliera di Posillipo, alcuni metri più in basso delle balaustre del Parco della Rimembranza, o Virgiliano, uno dei punti panoramici più famosi e spettacolari di Napoli. Qui, totalmente distaccati dal mondo e immersi nel mare si trovano i ragazzi del Carcere minorile di Nisida, e qui opera “Monelli tra i fornelli Onlus, La cucineria di Nisida” nata nel 2015 dall’idea del cuoco del carcere, che ha creato una struttura fisica - a Villaricca - e di intenti per dare ad alcuni degli ospiti della struttura una seconda possibilità passando tramite la cucina. Oltre ai corsi professionali durante tutto l’anno - i migliori, se compatibile con la pena avranno degli aiuti per inserirsi poi nel mondo del lavoro - nelle occasioni di Natale e di Pasqua i ragazzi impegnati nel progetto producono dei grandi lievitati destinati alla vendita. Un impegno che quest’anno li vede collaborare con Pietro Parisi, il cuoco contadino di Era Ora a Palma Campania (NA), vicino all’Unicef e già impegnato in diversi progetti di solidarietà, per la creazione del “panettone farcito di speranza”. “Sono troppo contento quest’anno di mettere le mani in pasta insieme ai ragazzi di Nisida, ma soprattutto di portare sulla mia tavola questo dolce. Abbiamo deciso di farne solo 500 e, sebbene sappia che il mercato è pieno di quelli dei più grandi chef e pasticcieri, conto che, in questo periodo tanto difficile per tutti, le persone trovino in Natale il momento giusto per donare qualcosa di importante a chi è meno fortunato. Per sé o per un regalo ricco di significato”. Il panettone, disponibile in 6 diverse varianti dal classico a quello con il pistacchio, è acquistabile in confezione singola o insieme ad altre piccole delicatessen sul sito dello chef. Da Nisida a Pozzuoli il passo è breve, qui operano le Lazzarelle. Un nome di battaglia evocativo, che ricorda in napoletano una giovane scapestrata, a tratti un po’ troppo, che nella vita è incorsa in qualche intoppo lungo il percorso. Intoppo che l’ha portata qui, nel carcere femminile della città di Napoli, esatto parallelo di Poggioreale, dall’altra parte della città. Da anni le Lazzarelle sono tante, riunite in una cooperativa in cui donne libere lavorano spalla a spalla con le detenute per reintegrarle nella società e dar loro uno scopo. Alla storica produzione di caffè si è affiancato da poco un bistrot nella Galleria Principe di Napoli, pronto ad aprire a marzo e solo rallentato nella realizzazione dalle problematiche legate al Covid-19. Un progetto complesso come complesse sono le storie che si raccolgono sotto questo tetto ideale e che per Natale tornano a proporre i loro prodotti di punta insieme a delle bellissime ceramiche vietresi; si va dalla “scatola classica” con all’interno un pacchetto di caffè macinato miscela Classica abbinato ad una coppia di tazzine con piattini modellate e dipinte a mano per le Lazzarelle da un ceramista di Vietri, fino alla golosissima crema spalmabile a cioccolato e caffè, pensata in collaborazione con il maestro cioccolatiere Gennaro Bottone. Tutte le idee regalo delle detenute sono disponibili sull’ e-shop dedicato all’interno del sito della cooperativa. Per i ragazzi di San Patrignano e per tutta la comunità, il rapporto con la creatività e in particolar modo con quella gastronomica è una storia d’amore che continua da anni e che aiuta gli ospiti della comunità a ricominciare un passo alla volta, a crearsi un’identità, sotto il cappello anche di “Buono due volte”, il progetto enogastronomico di grande complessità che da ogni anno impegna circa 1300 persone nella cura dei prodotti enogastronomici del brand. “Lavoriamo, stagioniamo e confezioniamo i nostri prodotti, provenienti da sette distinte filiere di proprietà, in continua espansione “ha raccontato Roberto Bezzi, responsabile della produzione, in un’intervista a Repubblica per il quarantennale di San Patrignano. “Tutto questo impegna ogni giorno più di 1300 ragazzi con problemi di dipendenza”. Un impegno concreto e importantissimo che quest’anno si concretizza in un catalogo natalizio ricchissimo con ben 11 proposte diverse per natura e fascia di prezzo, dalla confezione di quattro panettoni tradizionali a Splendore, la box che racchiude il 1978 Igt Rosso Rubicone e che può diventare anche una lampada di design, tutta in cartone riciclato, passando per la delicatissima e a tratti lussuosa Overture: mieli di produzione propria, salumi di alta qualità e ovviamente formaggi per un aperitivo delle feste indimenticabile. E molto altro ancora, per un natale davvero “buono due volte”. La giustizia digitale non funziona di Michele Damiani Italia Oggi, 27 novembre 2020 Cancellerie che prima vietano e poi autorizzano (senza comunicarlo) i depositi via Pec. Nessuna risposta a istanze urgenti, anche in prossimità delle udienze. Rinvii e spostamenti continui. Infrastrutture digitali obsolete che vanno in tilt ad ogni occasione. Cancellerie che prima vietano e poi autorizzano (senza comunicarlo) i depositi via Pec. Nessuna risposta a istanze urgenti, anche in prossimità delle udienze. Rinvii e spostamenti continui. Infrastrutture digitali obsolete che vanno in tilt ad ogni occasione di minimo sovraccarico. Sono solo alcuni esempi delle problematiche che gli avvocati hanno incontrato nei tribunali della penisola in questi mesi di pandemia dovendo confrontarsi con la giustizia telematica italiana. Un “bestiario” delle stranezze degli uffici giudiziari realizzato per Italia Oggi da Alberto Vigani, consigliere del Coa di Venezia e Responsabile dell’ufficio legislativo di Movimento forense e Federica Santinon, tesoriera del Coa di Venezia. A livello generale, in questi mesi, si sono registrate molte difficoltà infrastrutturali: “ad esempio”, spiegano i due avvocati, “Il processo civile telematico è stato fermo per 10 giorni dopo l’annuncio del ministro dell’avvio del processo penale telematico. Oppure, ai primi di novembre, è saltato il server Pct di Napoli che gestisce tutto il sud: a tantissimi colleghi, dopo il deposito dell’atto giudiziario, arrivava la terza Pec indicante che non risultavano abilitati al Pct, pur essendolo da anni e in riferimento a fascicoli per i quali erano i patrocinatori da anni”. Un’altra problematica riguarda direttamente una restrizione imposta dalla pandemia: “Dall’inizio dell’emergenza, non si possono più acquistare le marche ed i contributi dal tabaccaio, ma sono almeno 8 giorni il che il Portale servizi telematici (Pst Giustizia) dà problemi in tutta Italia per usare Pagopa e versare online i soldi per acquistare marche e contributi: non si riesce nemmeno a pagare online lo Stato per il servizio giustizia. Tutti devono andare in banca a versare con F23, a meno di non tentare il pagamento tramite Pst di notte con i server meno intasati”. Problemi anche con i nuovi strumenti introdotti dal ministro Alfonso Bonafede che avrebbero dovuto agevolare la digitalizzazione della giustizia: “a ottobre 2020”, spiegano Vigani e Santinon, “il ministero ha lanciato il nuovo sistema online per la gestione delle liquidazioni del patrocinio a spese dello stato su piattaforma Siamm: l’intento era quello di semplificare e digitalizzare tutte le liquidazioni. Peccato che la procedura sia controintuitiva: al di là della farraginosità diffusa, nel portale online c’è un passaggio dove, per passare alla schermata successiva, si deve tornare indietro senza spiegarlo da alcuna parte e lasciando l’utente in una sorta di cortocircuito telematico”. Una delle problematiche più grosse è stata quella relativa ai depositi telematici via Pec degli atti: “In un caso, una cancelliera del Giudice di pace prima ha dichiarato di non voler attivare la Pec dell’ufficio giudiziario e poi, finita la prima parte dell’emergenza e approvato il protocollo che ammetteva anche depositi cartacei, aveva deciso di accettare solo i depositi via Pec. Oppure, per fare un altro esempio che ci è stato riportato, un Giudice di pace che ha fissato il termine per depositare memorie 320 e documenti fino all’udienza. Il procuratore, quindi, deposita la memoria in udienza e i documenti via Pec, visto che il protocollo dell’ufficio giudiziario autorizzava il doppio binario. La cancelleria risponde invece che i depositi potevano avvenire solo in cartaceo a seguito di un provvedimento degli uffici non identificato. Una volta ridepositato segnalando l’errore, ovvero l’esistenza di un protocollo che ammette il deposito Pec, il giudice ha dato il termine e fissato un’udienza per discutere in contraddittorio l’ammissione”. Lunghissima, infine, la lista di ritardi nelle risposte (o totale assenza delle stesse), rinvii o spostamenti: “una delle storie più emblematiche è quella relativa a un’istanza urgente a volontaria giurisdizione per autorizzare un vaccino a un beneficiario ricoverato in una Rsa, depositata il 20 settembre con termine il 30 ottobre. La cancelleria ha aperto la Pec il 3 novembre, con il provvedimento del giudice che è arrivato il 10 novembre, ovvero quasi due mesi dopo il deposito dell’istanza”. Problemi anche per i professionisti che lavorano come consulenti dei tribunali: “Altro caso significativo: in divisione giudiziale, il giudice fissa il giuramento dei Ctu al 19 marzo 2020. Dopo una serie plurima di rinvii dovuti al Covid, si arriva al 2 dicembre 2020. Tuttavia, il giudice ha disposto che l’udienza sarà trattata per iscritto, senza prevedere alcuna possibilità per il nominando Ctu di partecipare, accettare l’incarico e giurare”. A risentire dei ritardi anche il portafoglio degli avvocati: “non vengono pagati gli avvocati per l’attività svolta a spese dello stato perché non c’è il funzionario contabile. Peccato, però, che la funzione sia delegabile anche ad altri e nel frattempo i denari restano sul conto corrente del tribunale”. Gianni Cuperlo: “Il garantismo è il cuore della giustizia” di Ugo De Giovannangeli Il Riformista, 27 novembre 2020 “Ma la giustizia non può essere bega tra fazioni”. “Non sono d’accordo con il fatto che esista il partito dei giudici. Ma anche il Pd, e prima Pci, Pds, Ds, per timore di impopolarità o convenienze di corto respiro hanno sottovalutato o taciuto episodi di cattiva condotta di singole procure e singoli magistrati”. Giustizia, giustizialismo, politica: Gianni Cuperlo, affronta un tema su cui tanti altri dirigenti dem si sarebbero, anzi si sono finora, sottratti. E lo fa con il suo solito coraggio e finezza intellettuale. Partiamo subito dal cuore della questione: sinistra e il garantismo. Un rapporto complicato, difficile, prima, durante e dopo Tangentopoli. La metto giù brutalmente: non credi che da parte della sinistra, e di quella che ne è sempre stata la forza maggioritaria - il Pci, poi il Pds, i Ds e infine il Pd - ci sia stato un eccesso di subalternità al “partito dei giudici”? Prima sarebbe giusto chiedersi se la formula che usi anche tu, il “partito dei giudici”, corrisponde alla realtà. “Partito” significa una organizzazione strutturata, tenuta assieme da un collante ideologico o programmatico, nell’accezione frequente quel collante sarebbe stata la distruzione della classe politica, per altro selezionando al suo interno gli obiettivi di volta in volta da colpire sino ad annullare. A questa tesi personalmente non ho mai creduto e non intendo credere e non solo perché nella magistratura italiana ci sono pagine e biografie che testimoniano una assoluta lealtà democratica, ma per la funzione che in tempi e ambiti diversi quella magistratura ha svolto. Penso al costo, anche in termini di vite, tributato alla lotta alle mafie, al ruolo esercitato dai magistrati del lavoro con una lettura estensiva di norme destinate a garantire diritti prima negati, o al lavoro di giudici impegnati in anni recenti sulla frontiera della tutela dei cittadini stranieri, compresi i minori non accompagnati, con sentenze che spesso hanno anticipato le scelte della politica. Rimuovere tutto questo è già una premessa che finisce col distorcere una lettura complessa. Poi altra cosa, non meno seria, è capire se e quando singoli magistrati o filoni d’inchiesta si sono mossi in una logica estranea a un codice di regole tali da preservare allo stesso tempo autonomia e indipendenza dell’azione penale e il rispetto dei diritti della persona sulla quale si è chiamati ad indagare e che non è un colpevole che cerca di farla franca, ma un cittadino innocente sino al grado finale di giudizio. Letto così il termine garantismo altro non indica che la giusta difesa delle garanzie per ogni individuo che, quando accusato, vive la sproporzione di forza tra un giudice che ha dietro a sé la potenza dello Stato e un imputato che, per quanto potente sia stato, dinanzi a quel giudizio è solo, a meno di non poggiarsi sul contrappeso di un’organizzazione criminale. Del resto sono i magistrati più illuminati a rammentare la formula di Montesquieu sulla consapevolezza del potere giudiziario come un “potere terribile”, Condorcet avrebbe chiosato “odioso”, perché a differenza di ogni altro potere pubblico, legislativo politico amministrativo, decide della libertà, e dunque della vita, delle persone. Ecco il motivo per cui quello che chiamiamo garantismo non può ridursi a ragione di scontro politico, perché è molto di più che una bega tra parti o fazioni, è l’essenza del diritto. Senza le giuste garanzie semplicemente viene meno la natura della giurisdizione e si aprono le porte a derive pericolose. Non mi hai risposto però sulla cultura giuridica dei partiti in cui hai militato... Le forze a cui ti riferisci - la sequenza Pci, Pds, Ds, Pd - non hanno mai sposato la teoria più estrema sul “partito dei giudici” e questo a me pare un fatto positivo, invece è accaduto che per timore della impopolarità o convenienze di corto respiro abbiano sottovalutato o taciuto episodi di cattiva condotta di singole procure e singoli magistrati. Non lo considero un peccato veniale, tutt’altro, fosse solo perché ha alterato un corretto rapporto tra organi e poteri distinti del nostro ordinamento con la politica troppe volte collocata, anche per sua responsabilità, in una posizione subalterna non al primato della legge, cosa di per sé ovvia, ma a logiche e procedure antitetiche a ogni forma di garantismo. Uno Stato di diritto si fonda sull’equilibrio tra i poteri costituzionali. Questo sulla carta, anche se fondamentale per l’Italia repubblicana, qual è, o dovrebbe essere, la Carta costituzionale. In realtà, e la storia anche più recente è piena di casi del genere, continuiamo ad assistere a una reciproca “invasione di campo”... Anche in questo caso la metafora funziona a metà. Di solito l’invasione di campo viene sanzionata pesantemente, se stiamo allo sport con la squalifica del terreno o pene più severe. Qui parliamo dei poteri dello Stato, ciascuno in teoria indipendente e sovrano rispetto agli altri. Lo ricordo per dire che in quella nostra Carta sono scolpiti principi che valgono finché una maggioranza adeguata non abbia volontà e forza per modificarli, dall’obbligatorietà dell’azione penale a carriere uniche per giudici e pubblici ministeri, il tutto nella cornice dettata all’articolo 27 “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, che essendo noi la patria di Beccaria pare una formulazione coerente coi trascorsi più elevati della nostra cultura giuridica. Ora, quella che tu chiami “invasione di campo” si determina quando uno dei poteri in questione si sottrae all’esercizio della propria funzione evadendo dal perimetro delle regole prescritte. Poi, può trattarsi di una violazione della norma o della propria responsabilità, ma in entrambi i casi - il magistrato che usi la carcerazione preventiva come arma di pressione psicologica verso l’indagato oppure, su un piano diverso, la politica che abdichi alla sua funzione di vigilanza e sanzione di comportamenti illegittimi trincerandosi dietro lo scudo della mancata rilevanza penale degli stessi - ecco, in entrambi i casi dovrebbe essere compito e interesse delle istituzioni e organi coinvolti ripristinare una condizione di normalità. La magistratura attraverso il proprio organo di autogoverno, la politica con un’opera assente da troppi anni di selezione rigorosa delle sue élite. Il giustizialismo. È un “virus” che ha attecchito anche a sinistra, o è un elemento costitutivo, quasi identitario, di una sinistra convinta che esista, e vada praticata, una “via giudiziaria al socialismo”? Non so chi teorizzi la “via giudiziaria al socialismo”, esistesse davvero lo gemellerei con la “democrazia illiberale” di Orban, due ossimori senza morale né costrutto. Quanto al giustizialismo la riflessione dovrebbe scavare a fondo iniziando col dire che è esistito e tuttora temo esista una forma di giustizialismo incistato dentro gli apparati dello Stato. Cosa sono le morti di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva? Dei tragici incidenti in alcuni casi sanzionati ex post? O piuttosto riflettono una logica che il contenzioso accusatorio lo risolve per vie brevi anche a costo di condannare a morte l’indagato sino a sentenza eseguita da chi quel cittadino avrebbe avuto il dovere di garantire nei suoi diritti? Immagino che per te siano la seconda cosa... Sì, ma vedi è relativamente semplice considerare quegli episodi come a sé stanti, intrusioni anomale dentro un ordinamento sano e che si dimostra tale perseguendo, laddove può, le mele avvelenate finite nel gran cesto dello Stato di diritto, eppure anche questo rischia di essere un alibi nel senso che è vero, se guardiamo all’omicidio di Stefano Cucchi, lo Stato ha palesato il suo lato oscuro e la sua capacità di illuminarlo perseguendo i colpevoli, ma la realtà è che una concezione autoritaria dello Stato e del suo rapporto col cittadino ha radici profonde nella storia e le ha su entrambi i versanti, quello del potere esercitato e del potere subito. Luigi Manconi in coda al bellissimo saggio scritto a quattro mani con Federica Graziani (Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale. Einaudi 2020) cita un antico detto sardo, in una delle sue versioni recita “Anc’u tengasa arrori de sa giustizia”, la si può considerare una maledizione sulla testa di qualcuno e la traduzione non lascia dubbi, dice più o meno “che tu possa finire inseguito dalla giustizia” nel senso esteso dello Stato. Ma tornando in continente vai a rileggere il capitolo dove Pinocchio derubato delle monete denuncia il furto e mosso a commozione il giudice per lui si aprono le porte del carcere, passa qualche mese e un’amnistia libera i furfanti col burattino che per ottenere via libera dalla guardia si autodenuncia “malandrino” anch’egli. Pensaci, generazioni di italiani hanno incrociato per la prima volta il tema della giustizia nel più celebre romanzo per l’infanzia, e l’hanno fatto scoprendo in età precocissima che in galera ci vanno gli onesti e i manigoldi finiscono riveriti! Vuoi dirmi che le nostre patologie o l’assenza di una vera cultura garantista affondano in un passato remoto? Voglio dire che il discorso non lo risolvi in due battute, ma detto ciò il giustizialismo dell’ultima stagione ha conosciuto un balzo brusco di qualità e su quello il peso del Movimento 5 Stelle è stato rilevante. Se vuoi per la stessa premessa di quella forza che come tutte le pulsioni rivoluzionarie tese a sovvertire un ordine pre esistente non limitandosi a correggerne vizi o storture contrappone il principio di legittimità a quello di legalità scegliendo di anteporre il primo all’altro. La radice del Movimento, l’epica della piazza del Vaffa, i suoi campioni civili, si muovevano lungo questa linea. Non contava che una cosa fosse legale, se la si giudicava illegittima andava colpita, perseguita. Ancora Manconi e Graziani lo indicano con precisione nell’analizzarne la lingua, il lessico adottato e costellato di sinonimi propri dell’abbattimento, un rovesciamento completo e radicale dell’ordine ereditato. Tutto chiaro, ma adesso al Governo coi 5 Stelle ci siete voi... Lo so bene e anche per questo dico che se una discussione seria sul giustizialismo dobbiamo farla cerchiamo di non ridurla a una polemica sterile. Ma proprio in questo senso lasciami dire che l’ultimo anno di governo non è passato invano nel senso che la cultura gialloverde era altra cosa dall’impronta data dall’ingresso nell’esecutivo del Pd. Si sono fatti investimenti sul trattamento puntando a una esecuzione della pena più efficacemente rieducativa, si è reclutato del nuovo personale. Per contrastare il rischio di diffusione dei contagi nelle carceri si sono introdotte norme innovative che hanno esteso misure alternative. Fammi citare un bando della Cassa delle Ammende e del Ministero per quasi 6 milioni di euro che penso debbano essere ulteriormente finanziati e che è destinato a reperire domicili idonei così da consentire anche ai poveri di accedere a misure alternative. Per ridurre il sovraffollamento e affrontare l’emergenza sanitaria già ora infatti si prevede che in prossimità della fine pena, gli ultimi diciotto mesi di detenzione o parte di essi si possano trascorrere ai domiciliari, il punto è che spesso i giudici di sorveglianza non li concedono per mancanza di una abitazione idonea o perché si tratta di detenuti senza fissa dimora. Potrà apparire un dettaglio, personalmente la considero una norma di civiltà. Non credi che sia venuto il tempo per una riforma del Consiglio superiore della magistratura, e che per una forza progressista come è il Pd, la questione della separazione delle carriere tra la magistratura inquirente e quella giudicante, non debba più essere un tabù inviolabile? Sì, penso che quella posizione non debba essere un tabù e credo che per molti versi non lo sia già da tempo, ma tanto più andrebbe affrontata senza scorciatoie o manicheismi. A non convincere è l’idea che una soluzione sia di per sé il bene e l’altra la sua negazione per cui conviene sempre ragionare. Separando le carriere i Pm vedrebbero indebolirsi quella cultura della giurisdizione che li obbliga a ricercare anche le prove a discolpa dell’indagato, in tal senso mantenere i pubblici ministeri nel perimetro della giurisdizione può esser letta anche come una maggiore garanzia per la difesa. D’altra parte dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 già ora una separazione delle carriere passa nei fatti dalla separazione delle funzioni, spesso i magistrati della procura svolgono quella funzione a vita. Come vedi, e parlo da non tecnico, la materia poco si presta a semplificazioni il che spiega perché sul ruolo della magistratura si è ragionato e si continua a riflettere. Anche per questo però, per la complessità della materia, guai se trascuriamo l’impegno della magistratura contro il potere sempre più invasivo delle mafie, capaci di penetrare i gangli della società con fenomeni di mimetismo inquietanti. Discorso analogo per il contrasto alla corruzione, parlo di quella diffusa in ambito economico e amministrativo che somma per decine di miliardi il danno allo Stato e alla comunità. E quanto al Csm? Quanto al Csm considero quella del governo, nel complesso, una buona riforma. Introduce regole stringenti per evitare il riprodursi delle cosiddette nomine a pacchetto col Consiglio che evita di procedere a singoli incarichi negli uffici scoperti, ma attende di sommarne un certo numero così da soddisfare gli equilibri delle varie correnti, ecco a questo metodo si pone fine. Ancora, per la prima volta si prevede che l’ufficio studi come i magistrati segretari possano venire reclutati tramite concorsi a cui potranno accedere anche avvocati e docenti universitari esterni alla magistratura stessa. Intendiamoci, il pluralismo ideale anche nella magistratura è un valore da non liquidare sotto l’ombrello della lottizzazione, ricordiamoci che fu il fascismo, e non a caso, a sciogliere l’Anm, come merita rammentare che sono state le correnti progressiste della magistratura a rendere più concreta in alcuni passaggi della nostra storia, non solo recente, l’inveramento di specifici principi sanciti in Costituzione e rimasti a lungo inapplicati. Converrai però che tutto questo non ha impedito una invasione crescente della magistratura più politicizzata dentro ambiti che non erano i suoi... Ma vedi anche su questo bisogna entrare nel merito. Penso che in anni recenti abbiamo assistito a episodi che se lasciati senza risposta possono divenire patologie gravi. Anni fa Luigi Ferrajoli con un intervento altissimo tenuto al congresso di Magistratura Democratica indicò quelle che giudicava essere le massime della deontologia giudiziaria muovendo precisamente da quel carattere “terribile” e “odioso” che citavo all’inizio. Perché da lì faceva derivare aspetti decisivi di quella deontologia: la consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità processuale; il valore del dubbio e la permanente possibilità dell’errore in fatto e in diritto; la disponibilità delle opposte ragioni e l’indifferente ricerca del vero; il rispetto di tutte le parti in causa; la capacità di suscitare la fiducia delle parti, anche degli imputati; il valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare, e ultimo ma non ultimo, il rifiuto anche solo del sospetto di una strumentalizzazione politica della giurisdizione. Potremmo dire “vasto programma” ma per buona parte confinato nell’universo delle pie intenzioni... Le violazioni e alcuni abusi rispetto a quella sorta di decalogo sono stati molti, troppi, e talvolta clamorosi. Citavo l’uso inaccettabile della carcerazione preventiva, ma potremmo aggiungere una prescrizione potenzialmente infinita, la lunghezza della fase di indagine e la brevità del dibattimento, e naturalmente quel protagonismo mediatico di singoli magistrati che ha portato a forme parossistiche con degli pseudo processi consumati dentro talk televisivi dove magistrati incaricati di un’inchiesta ne esponevano le ragioni in favore di pubblico e notorietà. Ancora Ferrajoli in quel suo intervento giudicava “inammissibile” per la deontologia professionale che un magistrato del Pubblico Ministero desse alle stampe un libro titolato Io so e che aveva come oggetto un processo avviato e da lui stesso istruito. Ecco, riuscire a scorgere queste anomalie sine ira et studio è la premessa per porvi un argine, ma insisto non nel segno di una revanche della politica sulla magistratura, perché quello sì sarebbe un errore drammatico. Va fatto nel segno del diritto e del rispetto sacro della divisione dei poteri in uno Stato democratico. Penso sia una vera prova di responsabilità che deve accomunare le diverse istituzioni, governo, parlamento, magistratura. Dentro questa riflessione si colloca ovviamente anche la cultura della sinistra e non serve nascondersi la realtà, c’è bisogno di una chiara ricollocazione al centro di quei principi che fissano nelle garanzie la condizione irrinunciabile per una giustizia giusta. Potrei dirti che serve uno scatto delle coscienze con l’abbandono di ogni cedimento a quel populismo penale che ci farebbe compiere una tripla capriola nel passato peggiore. Scrive Luigi Bobbio su questo giornale: “Certo è che le vicende giudiziarie che hanno riguardato l’ex sindaco di Napoli ed ex governatore della Campania, con i loro clamorosi e tombali esiti assolutori, schiaffano per l’ennesima volta il “mostro” in prima pagina. E il mostro non è certamente Bassolino, bensì l’attività delle procure, assumendo, senza inutili e controproducenti generalizzazioni, le indagini contro l’ex sindaco e governatore quali fatti paradigmatici di una concezione e di una declinazione concreta perversa e anticostituzionale dei poteri indagatori dei pubblici ministeri in Italia”. Non credi che il silenzio del Pd sulla vicenda che ha riguardato Antonio Bassolino, sia un silenzio assordante? Credo che da queste vicende Bassolino esca con la dignità e la forza di un uomo che consapevole della sua innocenza ha affrontato ogni passaggio del suo calvario giudiziario con coerenza e rispetto dello Stato, ha rifiutato la prescrizione e ottenuto un riconoscimento pieno della sua correttezza e onestà. Lo giudico un comportamento esemplare in ogni senso, tanto più se comparato a quello di molti esponenti, in prevalenza della destra, che negli ultimi vent’anni hanno cercato in ogni modo di sfuggire non all’accertamento della verità processuale, ma al processo in quanto tale. Vedi, per decenni in parlamento si erano seduti - di qua e di là dell’emiciclo - giuristi di fama, persone di legge e di dottrina che la lotta politica contrapponeva in modo anche aspro, ma che mai avrebbero stravolto l’ordinamento costituzionale per sfuggire a una sentenza. In questo senso davvero un pezzo della destra ha favorito una metamorfosi del luogo. Se posso utilizzare una figura che ha radici antiche, hanno ritoccato il simbolo stesso della giustizia, quella figura rappresentata a lungo munita di bilancia e spada. Da secoli la bilancia, insieme al corpo umano, è il simbolo della simmetria a indicare l’equilibrio, l’equità senza la quale semplicemente non c’è giustizia. Poi c’è la spada, che rimanda alla forza che la giustizia deve avere per fare rispettare il proprio giudizio. Noi abbiamo assistito a una alterazione dei pesi della bilancia col tentativo di sostituire la spada con lo scettro del re. Aggiungi che per molto tempo quella giustizia divina è stata bendata e lo era perché non vedendo l’oggetto del suo giudizio doveva essere e apparire imparziale. Un grande poeta criticò quella benda scorgendovi il simbolo della cecità delle corti e di una arbitrarietà delle sentenze anche se va detto che nell’antologia di Spoon River ciò era detto dal punto di vista della povera gente e non del potente. Dovremmo ricordarcene. Già togliere la benda è un problema, ma se poi c’è chi pensa di sostituirla con uno di quei paraocchi che si applicano ai cavalli allora il problema può trasformarsi in un dramma e questo non possiamo permetterlo. Uccide la moglie a coltellate. Il legale: “Non ti difendo, sto dalla parte delle donne” di Enri Lisetto La Stampa, 27 novembre 2020 Pordenone, il presunto assassino nomina l’avvocata Rovere ma lei fa un passo indietro: “Ha il diritto di essere assistito, ma non posso essere io a farlo. La mia storia me lo impedisce. “Avvocato, anche se non la conosco vorrei ringraziarla per il suo gesto coraggioso”. È metà pomeriggio e la casella di posta elettronica di Rosanna Rovere è piena di messaggi. Alcuni da amici, tanti da sconosciuti. “Grazie per avere rinunciato alla difesa di Giuseppe Forciniti”, il 33enne che la scorsa notte ha ucciso a coltellate la compagna Aurelia Laurenti, 32 anni, nel loro appartamento di Roveredo in Piano (Pordenone). Il telefono di casa Rovere ieri ha suonato alle 6.45. “È stata nominata difensore di fiducia di un uomo sospettato di avere ucciso la moglie”. La polizia non le dice chi è. Quando arriva in Questura, lo vede seduto davanti a una scrivania e ha un flash: “Non mi sbagliavo”. Rosanna Rovere saluta Giuseppe Forciniti. Avvocato, come vi eravate conosciuti? “Nel 2017 era infermiere nella Rsa di Roveredo in Piano dove era ricoverata mia mamma. Per lei era un mito, una splendida persona”. Che gli ha detto? ““Giuseppe, cosa mi combini?”: mi è venuto spontaneo. Aveva i miei riferimenti: era stato così premuroso con mia madre che mi fidai”. (Giuseppe Forciniti aveva contattato il legale un paio di mesi fa, preannunciandole una visita che non è avvenuta). “Gli ho chiesto perché non era venuto da me: a tutto c’è rimedio - ho aggiunto - ma non a queste cose”. Poi vi siete parlati... “Sì, dell’accaduto”. E dopo? “Giuseppe, non me la sento”. (L’infermiere avrebbe esclamato: “Avvocato, non mi può abbandonare!”). “L’indagato mi conosceva e aveva indicato me quando gli era stato chiesto chi dovesse patrocinare la sua difesa. Ma non ho potuto accettare l’incarico: non posso assumere le difese di quest’uomo dopo una vita e una carriera spese a promuovere la tutela dei diritti delle donne”. Torniamo al colloquio con il presunto omicida... “Ho spiegato a Giuseppe che ha il sacrosanto diritto di essere difeso al meglio, un diritto costituzionale riservato a tutti, anche al peggior delinquente. Ma la mia storia, le mie battaglie per le donne mi impediscono di essere di parte. Due mondi inconciliabili, non avrei potuto difenderlo al meglio. In cuor mio gli ho augurato di trovare un difensore adeguato”. Da dove nasce la sua vocazione professionale? “Sin da bambina volevo tutelare i diritti dei più deboli. Non solo delle donne: ho assistito anche molti uomini. Ma in Italia le donne devono fare ancora un tratto di strada per dire di avere raggiunto la parità. Questo gap ho voluto colmarlo da presidente dell’Ordine, istituendo lo sportello anti-violenza”. La sua carriera iniziò come parte civile della famiglia di una donna uccisa dal marito... “Per Gabriella Salvador, uccisa dall’ex il 16 ottobre 1995 a Fontanafredda (Pordenone). Lei era venuta da me, si sentiva stalkerizzata, ma all’epoca quel reato non c’era. Ricordo che mi disse: “Io non so quando succederà, ma so che mi ammazzerà”“. E lei cosa rispose? “No, ti difenderò. Andai in Procura, ma gli strumenti odierni come la diffida e l’arresto cautelare ancora non c’erano. Quando venne uccisa chiamai gli inquirenti e dissi che avevo ragione io, che non c’erano strumenti per poterla difendere. Quella vicenda mi segnò profondamente: tuttora sono in contatto con la famiglia”. Avvocato, perché si fatica ancora a denunciare? “Le leggi che tutelano le donne ci sono, rafforzate dal Codice rosso. Le donne devono trovare il coraggio di denunciare attivando così presidi e tutele. Mi stupisce che non lo facciano. La violenza sulle donne ha radici profonde, è un problema culturale che nasce dal fatto che la parità di genere è ben lontana dall’essere applicata in Italia. Le donne sono pagate di meno, non rappresentate a sufficienza nelle istituzioni e nei Cda nonostante le quote di genere. Siamo ancora molto lontani da una effettiva parità. Certo, col Codice rosso abbiamo fatto passi da gigante rispetto ai tempi di Gabriella, che non trovava risposte da parte di nessuno. Ora, però, è evidente che bisogna fare di più. La sottocultura dei social, la pandemia e il conseguente lockdown hanno acuito questo fenomeno: le denunce sono triplicate e i femminicidi aumentati”. “Stare a casa”: dovrebbe essere il luogo più sicuro. “Credo che per le donne costrette con i violenti sia peggio di una prigione da cui non poter scappare”. Si deve difendere un femminicida? di Annamaria Bernardini De Pace La Stampa, 27 novembre 2020 L’ennesimo orrendo femminicidio. Ancora orfani della mamma, vittime a causa della violenza assassina del padre. Ma ciò che c’è di nuovo e scuote la coscienza di chiunque è che l’avvocato, chiamato a difendere l’assassino, rifiuta di assisterlo. L’avvocato è una donna e dice di avere sempre combattuto per l’affermazione dei diritti delle donne e di avere sempre difeso le donne dalla violenza maschile. Con coerenza, lealtà e coraggio ha quindi dichiarato apertamente la propria impossibilità di fare qualcosa contro il proprio pensiero e la propria vita professionale. Io la capisco. Non so se chiunque potrà considerare giusta una decisione come questa. Non lo so perché anche io, a suo tempo, ho preso la stessa decisione e ancora oggi, dopo oltre trentacinque anni, non ho capito se, deontologicamente, la mia posizione fosse giusta. Ho cominciato a lavorare nel 1982 e il mio sogno era diventare avvocato penalista, perché lo scenario del diritto penale mi è sempre piaciuto più di quello civile. Nel processo penale le indagini, l’istruttoria e il dibattimento sono ricchi di colori, di colpi di scena, di approfondimenti e soprattutto di tanti momenti nei quali la parola ha molta più importanza dello scritto. E a me è sempre piaciuto parlare. L’avvocato penalista è sempre in prima linea e gioca tutta la propria passione per la professione e per la giustizia, soprattutto nell’arringa finale, ma anche in altri momenti fondamentali. Per questo avevo scelto di dedicarmi al diritto penale, e anche perché in questa materia il professor Pisapia mi aveva riconosciuto un bel 30 e lode, mentre nel civile il professor Trimarchi si era limitato a un malinconico 27. Ho vissuto quindi un anno bellissimo, praticamente stando in pretura, allora esistevano i pretori, dove ogni giorno spesso gratis e qualche volta cominciando a farmi pagare, difendevo ogni genere di piccoli delinquenti, inanellando anche una serie di vittorie non del tutto scontate. Dopo circa un anno mi è capitato, però, di essere nominata difensore d’ufficio di un ragazzo di 38 anni indagato per avere ucciso il suo compagno omosessuale che, a suo dire, lo aveva aggredito, nottetempo per gelosia. Sono stata in carcere con il pm che stava indagando su di lui e l’ho poi interrogato, da sola senza magistrato, per oltre un’ora, anche se dopo dieci minuti ero assolutamente convinta, malgrado la sua negazione disperata, che lo avesse ucciso crudelmente e volutamente. Quella sera, di ritorno dal carcere, ha totalmente cambiato la mia vita facendomi poi diventare quella che sono oggi, anche se i problemi di coscienza ci sono lo stesso. Ero, però, allora davvero sconvolta di dover difendere un assassino. Pur consapevole che la difesa è un diritto inviolabile garantito dalla Costituzione, e quindi certa che il mio dovere di avvocato, deontologicamente, fosse quello di difendere un imputato indipendentemente dall’essere veramente colpevole o no, non riuscivo passo dopo passo a rientrare in questo ordine di idee. Mi domandavo se fosse giusto. Anzi mi domandavo se fosse giusto abbandonare un assassino a se stesso o se dovesse essere mio dovere cercare quanto meno le motivazioni autentiche dell’omicidio e le eventuali attenuanti per difenderlo al meglio. Mi domandavo se mi stessi rivelando vigliacca, incapace, stupida, immatura. Mi domandavo soprattutto se da avvocato fosse giusto da parte mia derubare il ruolo di giudice e condannare subito, senza contraddittorio, un imputato non ancora processato. Nel pensare di rinunciare all’incarico di assisterlo, venivo inondata da un grande senso di colpa perché ricordavo il gesto di mio padre pochi anni prima. Renato Curcio, il terrorista, doveva essere assistito in un processo nel quale tutti gli avvocati d’ufficio si erano defilati e il Consiglio dell’Ordine di Milano stava per decidere di precettarne uno; quando mio padre, pur essendo di tutt’altro colore politico del brigatista, si offrì spontaneamente, per onorare la Costituzione, e non lasciare quell’uomo abbandonato a se stesso. Tra l’altro era stato poi un periodo difficilissimo per tutta la famiglia, perché tutti eravamo stati messi sotto scorta, in forza delle minacce di colore politico che mio padre aveva ricevuto. Avevo considerato mio padre un eroe e ora che mi trovavo in una situazione molto simile, ma per nulla paragonabile, in quanto a problemi di coscienza d’avvocato, mi dimostravo così preoccupata, traballante, recalcitrante nel fare il mio dovere. Insomma, alla fine decisi di non assumere quella difesa, di abbandonare le aule penali e di dedicarmi esclusivamente al diritto civile. Ancora oggi, tuttavia, non so se assolvermi o no. Non l’ho capito. Però riconosco la lealtà e la purezza della collega di Pordenone che ha avuto il coraggio di dichiarare al mondo che non difende l’assassino di una donna, perché lei ha sempre combattuto per far valere i diritti delle donne. Sarà difficile il ruolo di chi sostituirà questa avvocatessa. Non credo, infatti, che ci siano avvocati disposti a credere che il proprio cliente non sia un assassino, pur di assisterlo, anche se si presenta con le mani insanguinate, come è successo in questo caso. Credo, tuttavia, che ci siano tanti avvocati capaci di difendere i clienti senza farsi troppe domande, ma agendo come un chirurgo con la massima attenzione sia all’assistito sia a se stessi. C’è da dire che il chirurgo anestetizza il paziente e si mette la mascherina per non contaminarlo col proprio spirito. C’è un distacco tecnico e una non conoscenza della storia umana, che aiutano molto di più il medico, che non l’avvocato, nell’affrontare le operazioni più gravi. Tuttavia, l’imputato chiede aiuto all’avvocato come il paziente chiede aiuto al medico. E oggi mi vien da dire che se un professionista, al di là della propria indiscutibile competenza professionale, non è in grado di dare, anche umanamente, l’aiuto che il cliente chiede, è meglio che non si imbarchi in quella difesa. E sappia scegliere, con scienza e coscienza, come onorare al meglio il proprio ruolo; che non dovrebbe essere però quello di sindacare l’innocenza o la colpevolezza del proprio assistito, (spesso nota solo al Padreterno), ma di garantire che l’imputato venga processato nel rispetto di quel diritto che il penalista ha scelto di far applicare. In realtà, quindi, proprio scrivendo questo pezzo, ho finalmente capito che l’avvocato penalista difende il criminale e non il crimine: se tutti fossero innocenti, non esisterebbe l’avvocato penalista. “Risarcimento dello Stato, una vittoria per Marianna e per tutte le altre donne” di Franco Insardà Il Dubbio, 27 novembre 2020 “Ti rendi conto. Abbiamo fatto la storia per Marianna e per tutte le altre donne. È la prima volta che succede: lo Stato ammette le sue responsabilità per un femminicidio. L’annuncio del presidente Conte, mercoledì in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne ci ha reso tutti molto felici. Ora attendiamo i fatti”. Carmelo Calì, il cugino di Marianna Manduca, la donna uccisa dall’ex marito nell’ottobre 2007 a Palagonia (Catania) dopo dodici denunce rimaste inascoltate, risponde al telefono e la sua voce trasmette tutta la sua soddisfazione. Lui e sua moglie, Paola Giulianelli, con i loro due figli, hanno accolto nel 2007 i tre figli di Marianna e da allora vivono a Senigallia tutti insieme. Ai tre ragazzi di Marianna era stato riconosciuto un risarcimento di 259mila euro, con il quale la famiglia Calì ha aperto un bed& breakfast. La storia di Marianna e dei suoi figli è stata raccontata da Andrea Porporati nel film “I nostri figli”, con Giorgio Pasotti e Vanessa Incontrada, trasmesso da Rai1 il 6 dicembre 2018. “L’obbligo dello Stato di tutelare l’incolumità dei cittadini è affermata come priorità, per esempio dalla Corte europea dei Diritti umani, tanto più in presenza di una evidente vulnerabilità”, ha scritto Luigi Manconi su Repubblica qualche mese fa e lo Stato ora si è fatto sentire. Come avete avuto la notizia? Mi ha chiamato in lacrime una giornalista dell’agenzia Lapresse, che avevo sentito qualche volta in questi anni e con la quale si è creato un ottimo rapporto. Mi ha detto di collegarmi alla pagina Facebook del presidente Conte. Non credevo alle mie orecchie quando ho sentito: “Dico a Carmelo, Stefano e Salvatore che, certo non riavranno più la loro mamma, ma lo Stato finalmente può sottoscrivere un accordo transattivo, che riconoscerà a loro non solo di poter conservare la somma percepita, come danno patrimoniale, ma anche una cospicua somma a tutti e tre loro a titolo di danno non patrimoniale. Lo Stato deve avere il coraggio di riconoscere i propri errori e di trarre le conseguenze, assumendosene tutta la responsabilità. Nessuna donna vittima di violenza deve più sentirsi sola”. E i ragazzi come stanno? Bene, hanno reagito in maniera tranquilla a questa notizia. Per me è stato un bel segnale, perché dimostra quanta fiducia abbiano avuto e hanno in me e nelle cose che stiamo facendo. Ormai sono grandi, hanno 19, 18 e 16 anni e quindi hanno un approccio maturo alla vicenda. Dopo tanti anni lo Stato ha dato un segnale forte... Sì. E nel migliore dei modi. Noi non abbiamo mai perso la speranza che questa storia dovesse finire bene. Siamo stati seguiti dagli avvocati Alfredo Galasso e Licia d’Amico che hanno sposato la nostra causa e ci hanno creduto, convinti che fosse una battaglia per difendere tutte le donne. Anche l’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni si era interessato, ma poi... Aveva fatto un comunicato stampa, purtroppo l’Avvocatura andò avanti. Questa volta non penso che possa accadere la stessa cosa. Il presidente del Consiglio ha fatto un annuncio ufficiale e in una giornata particolare. Nei giorni precedenti si era molto interessato anche il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano e la ministra per le Pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti. E non mi stancherò mai di ringraziare la vicepresidente della Camera, Mara Carfagna, che ci segue da molto tempo. Ora che cosa succederà? Il 9 dicembre è fissata l’udienza alla Corte di Appello di Catanzaro, io e la mia famiglia speriamo che finisca tutto, per poter pensare al futuro. Bisognerà poi capire come si procederà rispetto all’impegno del presidente Conte di prevedere un risarcimento per i danni non patrimoniali. L’Associazione “Insieme a Marianna” è ormai diventata una realtà... Certo fa male che proprio in questi giorni ci siano stati altri tre femminicidi. Proprio per questo noi con l’Associazione “Insieme a Marianna” abbiamo da anni avviato una serie di iniziative e di incontri di sensibilizzazione, soprattutto nelle scuole. Abbiamo in programma anche la formazione degli operatori comunali, vigili urbani e assistenti sociali, che spesso si trovano ad affrontare episodi di violenza sulle donne. Siamo vicini alle famiglie delle vittime. Il prossimo 2 dicembre saremo a Messina all’udienza preliminare del processo per l’omicidio di Lorena Quaranta, dove ci siamo costituiti parte civile. Lorena era un’infermiera, ammazzata senza nessuna ragione dal suo ragazzo lo scorso 31 marzo. Purtroppo paghiamo anni di arretratezza culturale che fa ancora considerare la donna come un soggetto di esclusivo possesso, che va eliminata quando vuole interrompere il rapporto. L’obiettivo della nostra associazione è proprio di fare prevenzione. Eddi Marcucci, con quali indizi il tribunale di Torino la considera pericolosa? di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2020 La corte d’appello di Torino deciderà entro Natale a proposito del ricorso presentato da Maria Edgarda Marcucci contro la misura della sorveglianza speciale a lei applicata nel marzo scorso dal Tribunale torinese, misura che le sottrae una parte considerevole di libertà. Eddi Marcucci nel 2017, all’età di 26 anni, è andata in Siria per unirsi alle milizie curde e combattere lo Stato Islamico, contribuendo a infliggere un colpo mortale al califfato. In quanto capace di maneggiare le armi, è ritenuta oggi pericolosa per l’Italia, a prescindere dalle intenzioni di utilizzare quelle armi in un modo o in un altro oppure di non utilizzarle affatto. La sorveglianza speciale è una misura di prevenzione, vale a dire una misura che viene applicata non come reazione a un reato commesso nel passato e accertato come tale - come accade per la pena - bensì al fine di prevenire che un eventuale reato possa venir commesso nel futuro, senza ovviamente che sia possibile alcun accertamento al proposito, essendo l’oggetto in questione qualcosa di interamente ipotetico. La persona non deve essere punita perché si è comportata male. Piuttosto si giudica, da una serie di indizi, che essa potrebbe decidere di comportarsi male. E quindi le si impongono limitazioni che le renderanno più difficile farlo. Il contrasto tra le misure di prevenzione - eredità di regi decreti dell’era fascista, quando venivano usate come strumenti di repressione del dissenso - e alcuni principi sanciti dalla nostra Costituzione (o comunque di derivazione costituzionale) è stato fatto notare molte volte. Si pensi ad esempio al principio di presunzione di innocenza: certo, la misura di prevenzione non è una pena e in quanto tale non è comminata al colpevole dichiarato, ma sarebbe difficile negarne la natura afflittiva. Rimane dunque quanto meno dubbia la legittimità della sua applicazione. Oppure si pensi al principio di tassatività, per il quale i comportamenti previsti come reati devono essere descritti in maniera chiara e precisa dalla legge, affinché tutti possano conoscerli e le decisioni al proposito non siano prese arbitrariamente. Solo per i reati così individuati, e a seguito di atto motivato dell’autorità giudiziaria, è possibile una restrizione della libertà personale (art. 13 della Costituzione). La Corte Costituzionale, investita varie volte della questione, ha sempre salvato le misure di prevenzione, assestando loro tuttavia dei duri colpi. Già nel 1956 la Consulta, con la sentenza numero 11 firmata da Enrico De Nicola in qualità di presidente, stabiliva che “l’emanazione di un provvedimento dell’autorità amministrativa restrittivo della libertà personale” fosse “in aperto contrasto con la norma costituzionale”, contrastando dunque ogni limitazione della libertà imposta dall’autorità di Pubblica Sicurezza, senza controllo giurisdizionale e idonea garanzia del diritto alla difesa. Oltre mezzo secolo dopo, nel febbraio del 2019, con la sentenza numero 24 la Corte afferma che non è compatibile con la Carta Costituzionale la possibilità di sottoporre qualcuno a sorveglianza speciale in base a una previsione troppo generica di pericolosità per come enunciata nella norma. Già nel 2017 la Corte Europea dei Diritti Umani aveva osservato come alcune misure di prevenzione previste dall’ordinamento italiano fossero “formulate in termini molto generici e il loro contenuto è estremamente vago e indeterminato; ciò vale in particolare per le disposizioni relative agli obblighi di “vivere onestamente e rispettare la legge” e di “non dare ragione alcuna ai sospetti” (De Tomaso c. Italia). Troppo arbitraria l’interpretazione di queste frasi. Chi può dire con certezza se tanti di noi, Eddi Marcucci compresa, hanno mai dato ragione alcuna a sospetti? Il diritto penale in una democrazia avanzata giudica dati di fatto, non intenzioni nella mente delle persone. Le misure di prevenzione ci catapultano in una sorta di realtà distopica che sembra quella del Minority Report di Philip K. Dick, senza neanche tuttavia che polizia e prefetti siano dotati dei poteri premonitori del Precog. A mano a mano verrà ultimato quel processo di loro erosione che già le Corti hanno cominciato. Questo ci apre a un altro argomento, non più di principio bensì di fatto: senza poteri di preveggenza, per applicare una misura di prevenzione bisogna necessariamente basarsi su indizi. Su quali indizi si è basato il tribunale di Torino nel comportamento di Eddi Marcucci per qualificarla come pericolosa? Fino a oggi i fatti dicono che è stata pericolosa per lo Stato Islamico. *Coordinatrice associazione Antigone Il rito sommario perde pezzi. Meno paletti al giudice di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2020 Corte costituzionale: cambiamento possibile se la domanda riconvenzionale è pregiudiziale. Nel rito sommario di cognizione, se la domanda riconvenzionale è proposta in una causa pregiudiziale rispetto a quella del ricorso principale, il giudice deve poter cambiare il rito fissando la prima comparizione delle parti. La Consulta (sentenza 253) bolla come incostituzionale l’articolo 702-ter (comma 2) per la parte in cui impone al giudice di affermare l’inammissibilità della domanda riconvenzionale, soggetta a riserva di collegialità. Una rigidità irragionevole e in contrasto con il diritto di difesa. La via obbligata, non consente al giudice del rito sommario di fare valutazioni sulla complessità della controversia e sulla domanda principale. Il semaforo rosso per la domanda riconvenzionale - perché di competenza del tribunale collegiale - può avere come conseguenza il conflitto di giudicati. Rischio irragionevole anche se, ricorrendo ad altri istituti, è possibile il raccordo per revocare il contrasto. Inconvenienti della trattazione separata che, di norma, non compensano il vantaggio della presumibile maggiore rapidità della trattazione distinta. La preclusione assoluta del processo simultaneo, anche se solo iniziale, non è compatibile con la tutela giurisdizionale, garantita dalla Carta, se non è sorretta da adeguate giustificazioni. Mettendo sul piatto della bilancia le opposte esigenze, da una parte la velocità del processo introdotto dall’attore e quella del processo simultaneo per la domanda riconvenzionale del convenuto, è chiaro che la preclusione lede la tutela giurisdizionale di quest’ultimo, nel caso di connessione “forte” per pregiudizialità necessaria, rispetto al titolo fatto valere dall’attore, al quale è consentitala scelta del rito più veloce. La decisione trae origine dal rinvio del Tribunale di Termini Imerese, chiamato a decidere su un ricorso in base all’articolo 702-bis, con il quale gli eredi nominati in testamento olografo agivano nei confronti del genitore, proprietario dei beni a loro destinati, chiedendone la restituzione. A sua volta questo chiedeva di accertare la nullità del testamento in virtù di uno precedente e pubblico nel quale era designato come erede. Da qui I dubbi di costituzionalità sollevati dal giudice rispetto a una norma che lo obbligava all’inammissibilità della domanda riconvenzionale, aprendo così la strada al doppio binario. Un rischio che la Consulta evita. Per il giudice delle leggi, anche se La parte convenuta nel procedimento sommario non ha diritto ad un processo simultaneo, quest’ultimo non può essergli in automatico negato con l’inammissibilità. Il giudice deve poter valutare le opposte ragioni, e dopo, eventualmente poter cambiare rito “indirizzando la cognizione delle due domande congiuntamente nello stesso processo secondo il rito ordinario, piuttosto che tenerle distinte dichiarando inammissibile la domanda”. Potrà quindi fissare l’udienza con la comparizione delle parti secondo l’articolo 183 del Codice di procedura civile, come nell’ipotesi, indicata dal terzo comma dell’articolo 702-ter, nel quale le difese delle parti richiedano un’istruzione non sommaria. Piemonte. Covid, la situazione nelle carceri: 187 agenti e 42 detenuti contagiati di Alessandro Mondo La Stampa, 27 novembre 2020 “Dei 4.263 detenuti ospitati nei 13 Istituti penitenziari piemontesi i reclusi positivi al Covid al 24 novembre erano 42 in tutto: 40 gestiti all’interno del carcere e 2 ospedalizzati a Biella. Gli agenti e gli operatori penitenziari positivi erano, invece, 187. Numeri che inducono alla riflessione e preoccupano i detenuti e i loro parenti ma anche gli operatori”. Lo ha dichiarato questa mattina il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Bruno Mellano. Dati condivisi - “Anche se la luce in fondo al tunnel dei contagi Covid-19 nel contesto penitenziario è ancora lontana - ha aggiunto - ora è almeno possibile ragionare su alcuni dati condivisi: il ministero della Giustizia ha reso finalmente pubblico, sul proprio sito Internet istituzionale, un dettagliato report settimanale per monitorare la pandemia negli Istituti penitenziari italiani, mentre il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria piemontese ha attivato un monitoraggio quotidiano condiviso con le Istituzioni regionali e i sindacati di polizia penitenziaria”. L’appello - Osservando che l’assessore regionale alla Sicurezza “ha recentemente raccolto un rinnovato appello dei sindacati di polizia penitenziaria per l’inserimento degli agenti di polizia penitenziaria nella campagna di screening anti Covid prevista per le forze di polizia”, Mellano ha concluso ricordando che “non si può non ricordare che la comunità penitenziaria è una sola ed è costituita da detenuti, agenti e operatori e che vanno aggiunte politiche reali di decongestionamento delle strutture, in modo da poter permettere un’efficace gestione degli spazi e della popolazione reclusa ed eventualmente intervenire con efficacia qualora dallo screening emergessero criticità importanti. La rete dei garanti continua e continuerà a vigilare”. Friuli Venezia Giulia. Honsell: “Fare chiarezza sui focolai di Covid nelle carceri” ilfriuli.it, 27 novembre 2020 Il consigliere di Open Sinistra Fvg Honsell ha presentato un’interrogazione per capire quali siano i protocolli attivati. “Apprendo che anche nel carcere di Trieste, dopo quello di Tolmezzo, sono stati riscontrati dei casi di positività al Covid-19. Proprio nella giornata odierna ho depositato un’interrogazione su questo tema”, annuncia il consigliere di Open Sinistra Fvg, Furio Honsell. “La mia interrogazione chiede infatti all’Amministrazione regionale se ci sia intenzione di attivare dei protocolli per affrontare l’epidemia da Covid-19 all’interno del carcere di Tolmezzo e per sapere quali, e se, ci siano delle misure intraprese nelle altre case circondariali per scongiurare il ripetersi di queste drammatiche situazioni. Vedere che questa preoccupante situazione si sia estesa anche al carcere di Trieste non può che preoccuparmi sulle misure attivate per queste realtà”. Commenta così il consigliere Furio Honsell l’atto depositato nella giornata odierna e la situazione del carcere di Tolmezzo e, da oggi, quello di Trieste. “Mi auguro che la situazione a Trieste non degeneri come quella di Tolmezzo dove, da quanto si apprende dalla stampa, dei 200 detenuti 116 sono risultati positivi, ai quali si aggiungono 11 agenti ed un altro impiegato. Circa la questione, alcuni legali rappresentanti dei detenuti hanno denunciato sulla stampa una scarsa attenzione per le normative di prevenzione e contrasto al Covid-19, una mancanza di un numero sufficiente di sezioni separate dove ospitare i detenuti contagiati ed un ritardo nel disporre i tamponi”. “A queste questioni credo sia doveroso, da parte della Giunta regionale, dare delle risposte chiare e non sottovalutare questa situazione. In questo momento così delicato, è importantissimo salvaguardare tutti i soggetti coinvolti: detenuti, agenti ma anche i numerosi operatori che regolarmente visitano le strutture perché impiegati nei progetti di rieducazione, con un occhio di riguardo a quelli più vulnerabili”. Calabria. Sulla violenza alle donne servono azioni concrete di Mario Nasone* strill.it, 27 novembre 2020 Il femminicidio avvenuto nel catanzarese, che segue a quello registrato a Montebello Ionico conferma proprio nella giornata dedicata alla riflessione su questo fenomeno quanto questa piaga vede ancora una sua grande incidenza nella società calabrese, da sempre ai primi posti di questa tragica graduatoria. Il Consiglio regionale della Calabria uscente, su spinta del suo Presidente Nicola Irto, con l’attivazione dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere, ha avuto la possibilità per la prima volta di potere avere uno strumento di conoscenza nei vari aspetti che presenta la violenza sulle donne in Calabria, di potere avviare iniziative di sensibilizzazione e di formazione che hanno coinvolto forze dell’ordine, centri anti violenza, mondo della scuola, magistratura. Un lavoro importante da continuare dalla prossima legislatura perché serve una attenzione politica verso un fenomeno che rappresenta dopo la ndrangheta, il fattore criminale più allarmante nella nostra regione che deve essere affrontato attraverso interventi non emergenziali ma strutturali. In particolare, l’approvazione di una legge regionale in grado di costruire un sistema di protezione delle donne vittime di violenza più organico, efficiente e capillare, attraverso adeguati stanziamenti nel bilancio regionale e con l’utilizzo di fondi comunitari, il rafforzamento della rete dei centri antiviolenza attivandoli in tutti gli ambiti territoriali inter-comunali attraverso la garanzia dell’accreditamento e di finanziamenti stabili; l’aumento della case rifugio secondo un criterio di densità di popolazione e di competenza dimostrabile con esperienza, l’attivazione in tutti i presidi ospedalieri dei percorsi rosa per le donne vittime di violenza con la formazione degli operatori congiunta in accordo con il dipartimento salute per l’attuazione delle linee guida aziendali come da decreto legge n° 24 pubblicato in G.U. il 30/01/2018 e la raccolta dati con i codici previsti per l’Istat, la previsioni di progetti d’intervento sui maltrattanti in particolare all’interno delle carceri e apertura in tutta la regione di Cam - Centri di assistenza maltrattanti, il potenziamento delle misure per garantire con tempestività il sostegno alloggiativo ed economico alle donne che denunciano e a quelle che escono dalla case di accoglienza per dare loro autonomia. L’auspicio è di avere l’insediamento dell’Osservatorio regionale ad inizio legislatura prevedendo la nomina di soggetti esperti nel settore e disponibili ad un servizio gratuito e di potere contare su un potenziamento della sua azione di monitoraggio da realizzare in collaborazione con Giunta regionale, Istat, e Università della Calabria, una valorizzazione del progetto adotta la storia di una vittima di femminicidio che ha registrato larghe adesioni grazie anche alla collaborazione dell’ufficio scolastico regionale ed alle testimonianze di familiari di donne vittime di femminicidio. Servono ancora protocolli per il coordinamento degli interventi di tutti gli attori istituzionali e sociali garantendo un loro funzionamento effettivo e d in particolare che programmino l’attivazione di percorsi di formazione congiunta di tutta la rete istituzionale e sociale e progetti per i maltrattanti. *Ex Coordinatore osservatorio regionale sulla violenza di genere Bologna: Il Garante: “Si valuti liberazione anticipata e moratoria sulle esecuzioni pena” di Sirio Tesori bolognatoday.it, 27 novembre 2020 Si parla dell’aumento dei giorni di sconto, da 45 a 75 per ogni semestre. Una “liberazione anticipata speciale” e la “sospensione dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive fino al 31 dicembre 2021”. Lo chiede il garante dei detenuti di Bologna Antonio Ianniello, citando una lettera mandata dai garanti territoriali al parlamento il mese scorso. Scopo: alleggerire il sovraffollamento del carcere bolognese, alla luce della situazione relativa alla seconda ondata. A mesi di distanza dalla prima ondata dentro le mura della Dozza, e dopo la notizia di alcuni casi tra gli agenti della Penitenziaria, afferma il garante, “restano immutate la precarietà e la limitatezza delle condizioni essenziali” come “spazi di isolamento” per gli eventuali positivi, ma anche quelli per “gli isolamenti precauzionali dei nuovi ingressi e delle persone detenute entrate in stretto contatto con chi risulta essersi positivizzato”. Tutte le difficoltà sono “amplificate all’interno del carcere in ragione dell’impossibilità strutturale di poter instaurare quel distanziamento fisico necessario alla tutela del diritto alla salute, mancando quella risorsa essenziale e preziosa che (anche) nella situazione data è lo spazio” continua Ianniello. Risulta quindi doveroso e prioritario per il garante “un opportuno alleggerimento degli attuali numeri delle presenze in carcere, anche partendo dalle persone che presentano maggiori fragilità, affinché possa essere garantita l’efficacia degli interventi di prevenzione e di contenimento della diffusione del contagio, in un’ottica di tutela della salute pubblica”. Milano. Era vecchio e malato al 41 bis a Opera, ora è in fin di vita per Covid di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 novembre 2020 Per il detenuto al 41 bis a Opera l’avvocato Paolo Di Fresco si era vista respinta l’istanza di detenzione domiciliare poche settimane fa. Sta per morire, è talmente peggiorato che hanno dovuto sospendere la cura e hanno cominciato ad eseguirgli la terapia palliativa per allievare le sofferenze. Parliamo di uno dei detenuti del 41 bis a Opera che hanno contratto il Covid e ricoverati d’urgenza in ospedale. Il Dubbio ne ha parlato, anche di lui. Si chiama Salvatore Genovese, 77enne al 41 bis fin dal 1999, cardiopatico, già operato di tumore e con i polmoni malandati. Circa 10 giorni prima che ha contratto il Covid, si è visto respingere l’istanza per la detenzione domiciliare. Per il giudice stava al sicuro, curato e non esposto al contagio visto il regime di isolamento. Purtroppo, come gli altri reclusi al 41 bis a Opera, così non è stato. D’altronde, dopo le indignazioni sulle “scarcerazioni” durante la prima ondata anche nei confronti dei detenuti - malati e quindi in pericolo - dei regimi differenziati, c’è stato un susseguirsi di istanze rigettate da parte dei magistrati di sorveglianza e gip. L’avvocato messo a conoscenza della situazione clinica - A un certo punto, magicamente, tutti i vecchi e malati gravi sono diventati compatibili e in grado di essere al riparo dal pericolo Covid. Il paradosso è che ciò avviene quando il contagio nelle carceri ha raggiunto numeri di gran lunga più alti rispetto a prima. Genovese, da settimane è ricoverato in terapia intensiva e, a quanto risulta, non c’è nulla da fare. La direzione del carcere di Opera, in questi giorni, ha messo a conoscenza dell’avvocato Paolo Di Fresco l’evolversi della situazione clinica del suo assistito. L’ultima è arrivata ieri. Per capire di che cosa si sta parlando, vale la pena riportare la relazione medica di ieri: “In anamnesi: allergia a penicillina, cefalosporine, Asa, ipertensione arteriosa sistemica, Bpco ad impronta enfisematosa, associata a fibrosi polmonare (desaturazione al 6’WT nel 2017), ipotiroidismo in terapia sostitutiva attualmente in compenso, diabete mellito di tipo 2, insufficienza renale cronica, cardiopatia ischemica, vasculopatia multi distrettuale (Tea carotidea sx, stenosi inveterata carotide dx; esclusione endovascolare di AAA sottorenale)”. La condizione clinica era ben descritta dai medici - Ecco la sua condizione clinica che ha da tempo e ora ben descritta dai medici dell’ospedale San Paolo di Milano.Si legge ancora che “durante la degenza veniva impostata terapia secondo protocollo aziendale con desametasone per via endovenosa, celecoxib, remdesivir, eparina s.c a dosaggio scoagulante per l’incremento dei livelli di 0- dimero, ossigenoterapia ad alti flussi con maschera Resevoir. Durante la degenza non si è riscontrato un miglioramento del quadro pneumologico con scambi respiratori ancora gravemente insufficienti nonostante la terapia con c-Pap mediante casco impostata in data 17/11/20. Il paziente in, data 16/11120 aveva già eseguito valutazione rianimatoria che concludeva, vista la fragilità del soggetto per le numerose co-morbidità e la storia clinica, non indicato un approccio terapeutico invasivo. Veniva inoltre impostata terapia antibiotica nel sospetto polmonite ab ingestis” La relazione prosegue spiegando che “attualmente Il paziente appare in progressivo peggioramento nonostante gli alti flussi di ossigeno tramite c-Pap”. La situazione clinica è degenerata - Poi la conclusione che presagisce l’imminente trapasso del detenuto al 41 bis a Opera: “Infruttuoso ogni tentativo di miglioramento degli scambi respiratori. Contattati pneumologi che ribadiscono la non disponibilità di Niv, il cui utilizzo peraltro non cambierebbe al momento la prognosi infausta e potrebbe solamente arrecare un ulteriore disagio al paziente. Si decide pertanto la rimozione del casco e del sondino naso-gastrico. Si posiziona maschera con 02 terapia ad alti flussi con Reservoir e terapia palliativa. L’instabilità clinica attuale del paziente contrindica un eventuale trasporto c/ o altra struttura)”. In via del tutto eccezionale, visto la situazione, il Dap aveva autorizzato una visita dei parenti ma l’Ospedale si è opposto sulla base delle disposizioni sanitarie di carattere generale introdotte dal Dpcm. “A costo di essere banali, quella di Genovese è la cronaca di una morte annunciata. Sapevano tutti che sarebbe finita così, eppure nessuno ha mosso un dito”, dice con amarezza l’avvocato Di Fresco a Il Dubbio. Trieste. Focolaio Covid nel carcere: positivi 16 detenuti, 4 agenti e un infermiere Il Piccolo, 27 novembre 2020 Dopo i primi tre casi, tutti sintomatici, i test rapidi hanno fatto emergere nuove positività. Entro stasera saranno testati circa 300 tra detenuti e operatori. Nell’istituto secondario di primo gradoi positivi due alunni e due docenti. Il coronavirus entra nel carcere del Coroneo a Trieste: due guardie carcerarie della Casa Circondariale di via Coroneo e un infermiere sono infatti risultati positivi al Covid-19. Si tratta di casi sintomatici che si trovano in isolamento domiciliare. Asugi ha immediatamente avviato lo screening su tutti i detenuti, il personale e i collaboratori che operano all’interno del carcere, utilizzando i tamponi rapidi per le persone più a rischio. Dai primi tamponi effettuati - 150 su 186 detenuti - sono emerse 16 positività. Si tratta di detenuti che lavorano in cucina. A loro si aggiungono altri due agenti. Entro questa sera è previsto di sottoporre a tampone circa 250-300 persone. Terni. “Solo” dieci positivi al Covid in carcere, l’emergenza è superata Il Messaggero, 27 novembre 2020 “Sono soddisfatto della risposta di tutto il personale della casa circondariale all’improvvisa epidemia che ha interessato questo istituto”. Luca Sardella, direttore del carcere di Terni, fa il punto sul focolaio di contagio al Covid che, dal 19 ottobre, ha interessato 75 detenuti del circuito alta sicurezza. Il numero dei positivi ha raggiunto il picco l’8 novembre e oggi i detenuti rimasti positivi sono soltanto 7. Dopo le prime positività tutti i detenuti di Sabbione erano stati sottoposti a tampone rapido e per i positivi era scattato l’isolamento sanitario all’interno di sezioni detentive riconvertite per l’emergenza. “Devo ringraziare il presidio sanitario Usl Umbria 2 nella sua interezza, a cui resta l’esclusiva competenza nell’ambito dell’emergenza sanitaria in corso, per la condivisione e il supporto della gestione emergenziale in atto. Questa epidemia ci ha colto di sorpresa - aggiunge il direttore, Sardella - eravamo organizzati per gestire una piccola sezione detentiva di soggetti positivi di quattro posti e dover rimodulare l’organizzazione e gestire un numero così considerevole di detenuti positivi ci ha costretto a profondere un impegno smisurato. Il reparto di polizia penitenziaria si è dimostrato ancora una volta all’altezza di poter gestire un’emergenza che, all’interno degli istituti penitenziari, risulta non avere precedenti”. Il direttore del penitenziario precisa che “tutto il personale che presta servizio nelle sezioni detentive dove ci sono i detenuti positivi al Covid è dotato di dispositivi di protezione individuale” e che “anche il personale del nucleo traduzioni e piantonamento che trasporta i positivi, nonché il personale che presta la propria attività presso il reparto Covid-19 dell’ospedale di Terni in servizio di piantonamento, ha in dotazione questi dispositivi utili a salvaguardare la persona da un eventuale contagio. Sento di dover nuovamente esprimere la vicinanza a tutti gli appartenenti alla penitenziaria - conclude Luca Sardella - coordinati egregiamente, anche in questa circostanza, dal comandante del reparto, Fabio Gallo e dal suo staff direttivo”. Per quanto riguarda i dati relativi al personale di polizia penitenziaria, dopo aver effettuato uno screening consistente con tampone molecolare, sono emersi 11 positivi al virus, di cui solo 3 sono ancora positivi. Arginata la diffusione del contagio. “Sono fiero di lavorare quotidianamente con questi uomini e donne del reparto di polizia penitenziaria di Terni - dice Fabio Gallo. Stanno riuscendo, oltre i limiti umani, a superare il momento dell’emergenza sanitaria che ha interessato l’istituto con un numero considerevole di contagi. Non è facile, dal punto di vista organizzativo, conciliare le esigenze prioritarie di carattere sanitario con quelle di ordine e sicurezza che il mandato istituzionale ci impone e tenere anche conto, in tutto questo, degli affetti familiari che ognuno di noi ha. Non è facile doversi confrontare quotidianamente con l’ansia generata dal fatto di dover stare lontani dai propri affetti e il timore di contagiarsi sul lavoro portando il virus nelle proprie case. Grazie per tutto quello che avete fatto - conclude il comandante, Gallo rivolgendosi ai suoi - per quello che fate e per quello che, sono sicuro, farete”. San Gimignano (Si). Presunti pestaggi nel carcere: a giudizio 4 agenti per tortura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 novembre 2020 I presunti pestaggi nel carcere di San Gimignano sarebbero avvenuti l’11 ottobre del 2018. Rinviati a giudizio quattro agenti penitenziari. Nel nostro Paese è il primo rinvio a giudizio per reato di tortura commesso dai pubblici ufficiali. Parliamo dei presunti pestaggi avvenuti nel carcere toscano di San Gimignano l’11 ottobre del 2018. Il giudice dell’udienza preliminare di Siena ha rinviato a giudizio quattro agenti penitenziari in servizio accusati di aver esercitato una inaudita violenza nei confronti del detenuto tunisino Meher. Nello stesso tempo condannato a 4 mesi un medico per omissioni d’atti di ufficio, perché non avrebbe visitato il detenuto quando era semi nudo e dolorante in cella di isolamento. “Parliamo di una importante pronuncia - spiega a Il Dubbio l’avvocato Michele Passione, parte civile per conto del Garante Nazionale delle persone private della libertà -, perché per la prima volta un reato di tortura viene sottoposto ad un vaglio di merito per condotte di pubblici ufficiali, questo perché la convenzione Onu ratificata dall’Italia consegna il particolare disvalore in fatto di reato quando commesso da pubblici ufficiali. Se lo Stato si dimostra inaffidabile - osserva sempre l’avvocato Passione - è giusto che venga perseguito con un reato specifico qual è la tortura. Importante che il Garante e varie associazioni siano state in questa vicenda processuale accanto ai detenuti per non farli sentire soli”. Soddisfatte le difese di parte civile - Raggiunte da Il Dubbio anche le difese di parte civile per conto dell’Associazione Yairaiha e del detenuto, testimone dei fatti, che denunciò l’accaduto a San Gimignano tramite una lettera spedita all’associazione e che il nostro giornale ha pubblicato per la prima volta. “Oggettivamente un diverso risultato - spiegano le avvocate Caterina Calia, Simonetta Crisci e associazione Yairaiha -, alla luce degli elementi emersi dalle indagini, era difficilmente ipotizzabile. Le denunce sporte dai detenuti, le convergenti dichiarazioni delle persone sentite, la mole delle intercettazioni nonché le immagini tratte dai video di sorveglianza potevano avere una lettura unica e chiara. Il dato positivo è rappresentato, in ogni caso, dal fatto che in questa fase le richieste di accusa sono state interamente accolte ed il rinvio a giudizio è avvenuto per tutti gli imputati e rispetto a tutti i capi di imputazione. Il dibattimento potrà ancora meglio evidenziare come l’uso della violenza ingiustificata abbia integrato il reato di tortura. A nostro parere, l’uso della violenza, fisica e psicologica, da parte di appartenenti alle forze dell’ordine in servizio, nei confronti di una persona privata della libertà personale ed alla completa mercé delle figure che dovrebbero occuparsi non solo della sua sorveglianza ma anche della sua sicurezza, è una circostanza in grado di produrre uno stato di terrore ed afflizione, difficilmente descrivibile, anche in chi non viene immediatamente fatto oggetto dei medesimi ripetuti e brutali atti, ma assiste agli stessi come gli altri ristretti nella sezione di isolamento del carcere di San Gimignano”. Il detenuto sottoposto a un trattamento inumano e degradante - Ciò che sarebbe accaduto, tra l’altro supportato in parte anche dalle telecamere di video sorveglianza in servizio a San Gimignano, è ben descritto dalla pubblica accusa. Gli agenti avrebbero provocato al detenuto Meher acute sofferenze fisiche e psichiche sottoponendolo ad un trattamento inumano e degradante, abusando dei poteri o comunque violando i doveri inerenti alla funzione o al servizio svolto, con il pretesto di doverlo trasferire da una cella ad un’altra “con condotte di violenza - sottolinea la procura -, di sopraffazione fisica e morale e comunque agendo con crudeltà e al solo scopo di intimidazione nei confronti del medesimo Meher e degli altri detenuti in isolamento”. Secondo l’accusa, il fatto sarebbe stato commesso attraverso una pluralità di condotte di violenza fisica, violenza psichica, ingiuria e gratuita umiliazione, avvalendosi della forza intimidatrice correlata al numero elevato di concorrenti. Pugni, minacce e insulti - Secondo quali modalità avrebbero commesso la tortura? Si sarebbero riuniti volontariamente in 15 unità, fra ispettori, assistenti e agenti, presso il reparto isolamento, dietro invito degli Ispettori e per poi dirigersi - tutti previamente indossando guanti di lattice - presso la cella di Meher. Gli agenti, cogliendolo di sorpresa, avrebbero preso per le braccia il detenuto che usciva dalla cella munito degli accessori per fare la doccia e lo avrebbero brutalmente sospinto verso il corridoio, facendogli anche perdere le ciabatte. Uno degli imputati, un assistente capo, facendosi largo tra i colleghi, gli avrebbe sferrato un pugno sulla testa. Poi lo avrebbe gettato a terra, circondandolo (in modo tale da creare una sorta di parziale schermo rispetto alle telecamere) e colpendolo con i piedi in varie parti del corpo. Il pubblico ministero poi sottolinea che l’agente avrebbe minacciato il detenuto che gemeva e gridava per la violenza che stava ricevendo. Lo avrebbe ingiuriato con frasi del seguente tenore: “Figlio di puttana!”, “Perché non te ne torni al tuo paese”; “Non ti muovere o ti strangolo”, “Ti ammazzo” e al tempo stesso avrebbe urlato contro tutti i detenuti presenti nel reparto: “infami, pezzi di merda, vi facciamo vedere chi comanda a San Gimignano!”. Non solo, avrebbe rialzato da terra il detenuto e continuato a spintonarlo per farlo camminare per poi, di nuovo, gettarlo a terra. Tutto qui? No, Altri due agenti penitenziari, nel frattempo, avrebbero immobilizzato Meher mentre si trovava a terra, tenendolo rispettivamente per il braccio e per collo, ponendolo con la faccia a terra. Sempre l’assistente capo gli sarebbe montato addosso con il suo peso ponendogli un ginocchio sulla schiena all’altezza del rene sinistro. Lo avrebbe poi fatto rialzare togliendogli i pantaloni, per poi iniziare di nuovo a trascinarlo, mentre un altro agente lo avrebbe afferrato nuovamente per la gola e sempre l’assistente capo gli avrebbe torto un braccio dietro la schiena, per poi trascinarlo nella nuova cella. Ma non si sarebbero esaurite qui le violenze. Assieme ad altri cinque poliziotti, l’assistente capo avrebbe continuato a picchiarlo con schiaffi e pugni all’interno della cella di destinazione, per poi lasciarlo lì semi nudo e senza fornirgli coperte e il materasso della branda, almeno fino al giorno seguente. San Gimignano (Si). La Garante: adesso i detenuti sanno che la loro voce può essere ascoltata di Edoardo Semmola Corriere Fiorentino, 27 novembre 2020 Ciuffoletti, Altro Diritto: una vittoria? No, neanche la condanna lo sarebbe. Non chiamatela battaglia vinta. Almeno, non ancora. “Ma nemmeno un’eventuale condanna degli agenti lo sarebbe”. È solo “un piccolo passo importante” dice Sofia Ciuffoletti, Garante dei detenuti di San Gimignano in qualità di presidente dell’associazione L’Altro Diritto. Lo dice però con la voce colma di soddisfazione di chi tanto ha sudato, lottato e si è impegnata in una battaglia che fino a poco tempo fa sarebbe sembrata a molti “inutile”. Perché il rinvio a giudizio di cinque agenti di polizia penitenziaria per reato di tortura ha qualcosa di storico: “Per la prima volta parliamo di tortura di Stato in Italia, anche Sofia Ciuffoletti, 39 anni, laureata in Giurisprudenza all’Università di Firenze, è presidente dell’associazione L’Altro Diritto se ancora dobbiamo capire se verrà interpretata come un’aggravante o come un reato autonomo, ma soprattutto - insiste Ciuffoletti - per la prima volta i detenuti prendono consapevolezza che la loro voce può essere ascoltata in un’aula di giustizia”. E questa consapevolezza glie l’hanno data loro de L’Altro Diritto, realtà che lavora su terreni come questo da oltre vent’anni. Da otto svolge la funzione di garante nella struttura di San Gimignano e da due è in prima linea - con il professor Emilio Santoro dell’Università di Firenze prima, con Sofia Ciuffoletti dopo - su questo specifico caso di torture. “La totale sfiducia che si respirava prima nella popolazione carceraria in tema di possibile ottenimento di giustizia per casi di questo genere, rendeva l’omertà generale la normalità - prosegue - ma questo rinvio a giudizio mostra ai detenuti un orizzonte nuovo, gli dimostra che denunciare i maltrattamenti si può e che un giudice li ascolterà. La vera grande vittoria è poter andare a dibattimento per la ricerca delle responsabilità”. Per l’Altro Diritto, da quell’11 ottobre 2018, è iniziata una maratona faticosa e snervante, di cui però adesso raccolgono i frutti: “Abbiamo dovuto lavorare sodo sulla possibilità di portare in giudizio il conflitto, cosa fino ad ora tutt’altro che scontata, aiutando i detenuti a mettere per scritto le loro doglianze, spiegare loro che era possibile innescare una procedura e far sentire la propria voce, e come farlo, anche se la direttrice di allora gli diceva che possibile non era”. Quando arriverà la sentenza “sarà la prima pietra su cui fondare la futura tutela dei diritti contro la violenza in carcere. E se ci sarà condanna - riflette la presidente dell’Altro Diritto - sarà qualcosa di storico anche perché la denuncia non è scaturita da una vittima diretta delle torture, ma da altri detenuti”. Quello di San Gimignano è un carcere che in questi anni ha messo a dura prova il lavoro dei volontari. Una struttura “per tanto tempo lasciata in situazione di anomia, con un clima di tensione e violenza, senza che si sapesse bene come funzionava la catena di comando, lasciandoci senza un interlocutore stabile”. Fortunatamente hanno ricevuto l’appoggio sia del Comune, che li ha scelti come garanti e li ha supportati in tante contestazioni burocratiche, sia del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Oristano. “Attività didattiche e rieducative più difficili in carcere” La Nuova Sardegna, 27 novembre 2020 Il Garante dei detenuti del Comune di Oristano, Paolo Mocci ha espresso in una nota la sua preoccupazione per l’incremento dei casi di Covid tra i reclusi e il personale di Massama. “Il contagio all’interno del carcere di Massama ultimamente riflette in modo amplificato il trend in crescita registrato nella città e nel territorio provinciale di Oristano. In pochi giorni i casi di positività si sono moltiplicati, superando i casi registrati nella primavera scorsa. Allora non vi erano stati casi di contagio tra il personale, ma oggi purtroppo non è così. La diffusione del virus tra il personale di Polizia Penitenziaria crea un importante disagio. Infatti, le varie attività dei detenuti sono gestite dagli agenti, i quali, in numero ridotto e già esiguo rispetto alle necessità, non riescono a venire incontro alle esigenze, impedendo la normale attività quotidiana didattica e rieducativa. Nella prima ondata di diffusione del Virus, tutte le attività erano state sospese, chiaramente per l’inesperienza degli operatori a gestire la nuova situazione. Oggi, però, che gli interventi legislativi hanno dato le necessarie indicazioni, appare difficile indicare una data a partire dalla quale le lezioni potranno riprendere. Le caratteristiche abitative dell’Istituto non garantiscono le distanze tra i detenuti e gli operatori. Le aule sono poche e di ridotte dimensioni. I detenuti iscritti quest’anno sono aumentati e purtroppo non è possibile garantire la didattica a tutti. La didattica in remoto, sarebbe una valida soluzione. Ma la zona adibita a scuola non è raggiunta dalla linea internet”. Pordenone. Carcere e comunità, iniziative culturali sul sistema delle pene di Giovanna de Maio ilpopolopordenone.it, 27 novembre 2020 Anche quest’anno, malgrado il protrarsi della pandemia, ha preso l’avvio il programma di prevenzione dei comportamenti illegali nelle scuole di tutta Italia. La nostra Associazione Carcere e Comunità di Pordenone è al lavoro con quattro Istituti Superiori e già per il 2 dicembre è programmato un incontro da remoto con il Liceo Luzzatto di Portogruaro. Altri tre incontri sono previsti a Pordenone, grazie alla collaborazione degli insegnanti di religione e di Educazione Civica, materia che è stata ripristinata da quest’anno per gli istituti secondari di secondo grado. Gruppi di scout e gruppi parrocchiali si sono già prenotati per conoscere la situazione del sistema delle pene nel nostro paese e noi, del resto, non abbiamo mai tralasciato queste numerose e piccole realtà cattoliche e laiche neppure nei periodi precedenti, quando è stato possibile raggiungerle con modalità diverse. La Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia, inoltre, sta realizzando incontri su piattaforma e già l’11 novembre abbiamo partecipato al Seminario aperto a volontari ed insegnanti, dal titolo: Vendetta pubblica, il carcere in Italia, a commento ed approfondimento del libro omonimo pubblicato da Laterza, di Edoardo Vigna, giornalista, e Marcello Bortolato, magistrato. I due relatori ci hanno accompagnato a comprendere temi che vanno controcorrente come l’importanza delle misure alternative. Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, ha portato una testimonianza molto intensa sul dolore delle vittime e dei carnefici di suo padre, che lei stessa ha voluto incontrare e su come il dolore e gli anni del carcere non siano una risposta che può restituire alcunché alle vittime. Il secondo seminario, aperto a chiunque voglia partecipare è fissato per il 24 novembre dalle ore 17 alle 18.30 su Zoom e verterà sulle misure alternative al carcere: La messa alla prova e i lavori di pubblica utilità: la pena dentro la società. Interviene il magistrato Marco Bouchard, la giornalista Carla Chiappini ed un ragazzo impegnato nei lavori di pubblica utilità. Su facebook si trova il profilo della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia e ci si può registrare come partecipanti. Un ulteriore evento consigliato è quello organizzato dall’associazione Extrema Ratio e Antigone Emilia Romagna. Il tema sarà quello dell’affettività nelle carceri la cui privazione comporta una sofferenza ulteriore oltre alla mancanza di libertà. È previsto per il 30 novembre, con il titolo: Carcere: riforma o abolizione? I relatori saranno Marco Ruotolo, ordinario di Diritto Costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma 3; Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze; Francesca Vianello, associata di Sociologia Giuridica della Devianza di Padova; e Livio Ferrari. Garante dei detenuti di Rovigo, Movimento No Prison. L’attenzione di studenti, insegnanti e cittadini sulle questioni che riguardano la grande ferita sociale delle carceri italiane si va estendendo e trova interlocutori prestigiosi e competenti negli stessi operatori della Magistratura italiana. Ci auguriamo che il dibattito ed il confronto con le diverse culture giuridiche possa giungere ad una sintesi che consenta di fare un passo avanti nel panorama del sistema delle pene nel nostro paese e della gestione delle carceri. Enna. Gli avvocati “Covid in tribunale: basta udienze in presenza, rischiamo la vita” di Simona Musco Il Dubbio, 27 novembre 2020 Giustizia in stato di agitazione in Sicilia causa Covid. La rivolta di 150 professionisti. La Giustizia siciliana in agitazione causa Covid. Con una richiesta di astensione dalle udienze civili e penali, per “gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori” firmata da circa 150 avvocati di Enna, fortemente preoccupati per il rischio Covid in tribunale. Una paura che nasce da una condizione epidemiologica, in provincia, allarmante, con oltre 1.200 i casi positivi, dei quali oltre 230 nel capoluogo sede del Tribunale, mentre l’ospedale, che conta già molti ricoveri, “risulta essere saturo nel reparto dedicato alle cure del Covid”. Le misure in tribunale, d’altro canto, non soddisfano: sono già diversi gli avvocati e i magistrati, infatti, che hanno contratto il virus, in un ambiente in cui le interazioni quotidiane tra persone sono elevate, “con il concreto rischio che l’ufficio giudiziario divenga un grande veicolo di contagio diffuso e incontrollato”. A ciò si aggiunge una condizione strutturale inadeguata: l’edificio che ospita il tribunale, affermano gli avvocati, non consente “un corretto rispetto delle misure di distanziamento per tutti gli operatori di giustizia, in particolare per gli avvocati”. Le linee guida interessano, comunque, le sole aule d’udienza e le cancellerie, senza riguardare i luoghi d’attesa e senza risolvere “il continuo ripetersi di assembramenti in occasione delle udienze, sia civili che penali”. Aule inidonee, mancanza di dispositivi di protezione, udienze non sempre fissate rispettando la divisione per fasce orarie e non tempestivamente comunicate: questi i fattori di rischio. Ai quali si aggiungono “episodi di insofferenza diffusa in danno degli avvocati” e una “mancanza di confronto e concertazione tra magistrati e avvocatura”. Per i 150 firmatari, che si rivolgono al Consiglio dell’ordine e alla Camera penale, la situazione rientra, dunque, tra le ipotesi di gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori, per le quali il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati “consente la deroga delle disposizioni in tema di preavviso minimo e di indicazione della durata”. Catania, opzione rinvii - Dopo il provvedimento della Corte d’Appello, che ha deciso di organizzare - in ritardo - le udienze per fasce orarie, il tribunale ha deciso di rispondere all’appello del Coa guidato da Rosario Pizzino. I casi, in un tribunale fatiscente e raccogliticcio, sono ormai tanti e tra gli avvocati si contano, purtroppo, anche due recenti decessi. Per questo era stato chiesto il rinvio d’ufficio di tutti i processi civili e penali per venti giorni, ad esclusione di quelli urgenti. Nel provvedimento, il presidente del tribunale condivide “pienamente le preoccupazioni” espresse dal Coa, ma nonostante ciò le richieste “non possono essere tout court accolte”. Per il civile, sono previste udienze cartolari, nel caso in cui non sia richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, nel cui caso le udienze saranno fissate e chiamate ad intervalli non inferiori a 15 minuti l’una dall’altra, possibilmente a porte chiuse. Sarà però possibile chiedere un rinvio dell’udienza. Per il penale, saranno trattati i processi con imputati sottoposti a custodia cautelare, le udienze di convalida e le eventuali contestuali direttissime, i processi il cui termine di prescrizione scade tra marzo 2022 e giugno 2023, termine, quest’ultimo, valido anche per i processi con parti civili. Tutti organizzati in modo da evitare l’afflusso contemporaneo di gente. E anche su richiesta di una sola delle parti sarà possibile chiedere il rinvio causa Covid, richiesta che i giudici sono invitati a valutare positivamente, salvo diverse valutazioni legate alla presenza di imputati sotto custodia cautelare. I rinvii dovranno essere effettuati successivamente al 15 settembre, salvo casi di urgenza. Got e Vpo in rivolta - A Palermo, invece, sono giudici onorari e vice procuratori onorari a protestare, rassegnando formalmente nelle mani, rispettivamente, del presidente del tribunale e del procuratore capo, “la propria motivata e sofferta indisponibilità alla prosecuzione del servizio a fare data dal 1 dicembre”. Una protesta alla quale si aggiunge lo sciopero della fame proclamato da due giudici onorari donne. “Per noi solo rischi e nessuna tutela. Il quotidiano moltiplicarsi di casi di positività al Covid 19 tra gli operatori del settore giustizia - afferma il vice procuratore onorario Giulia Bentley - innalza l’asticella del rischio per i magistrati onorari che ogni giorno fronteggiano, come giudici o come pubblici ministeri, udienze monocratiche cariche di fascicoli e di testimoni da escutere”. Ma tutto ciò, lamentano, senza tutele legislative. Roma. Reinserimento detenuti: DAP e Comune insieme per nuovo programma apprendistato di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 novembre 2020 Continua la collaborazione tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia e Roma Capitale per il reinserimento di persone provenienti dal carcere. Ha preso il via nei giorni scorsi un nuovo programma che offre a persone sottoposte a provvedimenti restrittivi della libertà opportunità di formazione tramite tirocini presso associazioni e cooperative convenzionate. I destinatari del progetto, curato dal Dipartimento Turismo, Formazione e Lavoro di Roma Capitale, sono stati individuati attraverso i Centri di Orientamento al Lavoro e dalla Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà, Gabriella Stramaccioni. I tirocinanti saranno impegnati prevalentemente in attività artigianali, di piccola edilizia, giardinaggio e manutenzione del verde. La serie di percorsi sperimentali basati su lavori di pubblica utilità - svolti cioè a titolo di volontariato - è stata avviata nel 2017 con un accordo tra Dap e Roma Capitale, rinnovato in seguito con protocolli operativi. In attività di manutenzione del verde pubblico e di ripristino del manto stradale sono state complessivamente impegnate 130 persone, cui andranno ad aggiungersi a breve altri 35 detenuti della casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso impiegati nei parchi e nelle ville della città. Il nuovo progetto si differenzia dai precedenti perché si svolge secondo la formula dell’apprendistato retribuito: a questo scopo sono stati, infatti, destinati 100.000 euro, utili al finanziamento di tirocini trimestrali che prevedono 30 ore di lavoro settimanale, cui far corrispondere una retribuzione di 600 euro mensili. “I percorsi di riabilitazione professionale sono una risposta alle difficoltà di inclusione incontrate da chi sconta una pena detentiva - ha dichiarato la sindaca Virginia Raggi. Restituire una prospettiva esistenziale attraverso il lavoro, aiuta a reinserire in società persone motivate a crescere e migliorare, sottraendole a criminalità ed emarginazione. Miglioramento e possibilità di riscatto per i singoli, quindi, ma anche attività benefiche e utili all’intera città”. Bari. Progetto “Spazi Aperti”, una bacheca virtuale per comunicare con i detenuti borderline24.com, 27 novembre 2020 L’Università di Bari Aldo Moro aderisce con il progetto “Spazi Aperti” alla notte Europea dei ricercatori promosso dalla Conferenza Nazionale dei Rettori di tutte le Università Italiane. Si tratta di uno Spazio Virtuale di comunicazione nel quale condividere pensieri, speranze, paure, esperienze, ricordi, brani di letteratura, poesie, tra chi è privato della libertà perché detenuto in carcere e chi non può uscire di casa a causa delle restrizioni imposte per contrastare la diffusione del Coronavirus. Il progetto Spazi aperti nasce infatti per poter continuare a essere presenti nonostante la pandemia e ci permetterà di comunicare con il carcere, anche in un periodo di restrizioni, chiusure e impossibilità di relazioni dirette. Lo spazio, la bacheca virtuale, creata su piattaforma telematica, favorirà le modalità di incontro attraverso l’invio di scritti, contributi, vari, disegni, foto, ad un indirizzo di posta elettronica messo a disposizione dalla Direzione della Casa Circondariale di Bari: areatrattamentale.cc.bari@giustizia.it. L’invito è per ora rivolto a docenti, personale amministrativo e studenti del Dipartimento Forpsicom Uniba. I funzionari giuridici-pedagogici, stampano quanto pervenuto, lo affiggono alla bacheca della I sezione, o lo distribuiscono ai detenuti della stessa sezione, i quali in gran parte hanno partecipato alla esperienza dei seminari di studio che Uniba ha tenuto prima del lockdow. I detenuti interagiscono affidando ai Funzionari giuridici-pedagogici, le loro risposte che verranno quindi trasmesse e riprodotte nello spazio virtuale. Bastano davvero poche righe, un disegno, una poesia, un brano, uno scritto, un pensiero, per far sapere a chi è detenuto che si è pensato a lui, che forse si arriva a comprendere meglio cosa voglia dire essere privati della liberta, con uno sguardo diverso che coniughi giustizia, con solidarietà, comprensione umana, senso di appartenenza. Dopo un periodo di sperimentazione, il progetto si potrebbe, estendere a tutta la comunità Universitaria Uniba e Poliba, e anche ad altre strutture penitenziarie della Regione Puglia. Intervista a Nicola Lagioia: “Le colpe degli assassini, ma non chiamateli mostri” di Biagio Castaldo Il Riformista, 27 novembre 2020 Quando ho letto per la prima volta dell’omicidio di Luca Varani mi sono sentito inquieto. Quattro anni dopo, quando ho letto La città dei vivi di Nicola Lagioia, mi sono ritrovato a letto terrorizzato. Quello che ho sbrigativamente interpretato come horror vacui in verità era pura empatia. La mia empatia per degli assassini. Mi domandavo insistentemente, “… al posto di Marco Prato e Manuel Foffo sarei potuto esserci io?”. Non si trattava di uno di quei romanzi che ero solito leggere e dei quali mi affascinava la storia del cattivo. Era morto un ragazzo di ventitré anni. È morto Luca Varani, nella notte tra il 4 e il 5 marzo del 2016, in un appartamento sospeso dalla realtà, al decimo piano di Via Igino Giordani, numero 2, nel quartiere Collatino di Roma. È morto per mano di due assassini, sotto l’effetto di alcol e di cocaina, consci di aver imputridito l’atmosfera domestica con una violenza insensata e mortificato il corpo di un altro essere umano con più di cento tra martellate e coltellate. Ricordo il brivido che mi scosse quando lessi che Manuel Foffo e Marco Prato, travestito da donna, dormirono abbracciati subito dopo l’omicidio, a pochi passi dal cadavere di Varani, e ricordo l’immediato clic nella mia testa. Quella scena mi riportò a Vienna, a La morte e la fanciulla di Egon Schiele, la tela del 1915, emblema della catastrofe incombente e della desolazione dell’incomunicabilità di due corpi contorti su un sudario. Uno sguardo sull’abisso, nell’abbraccio di muta solitudine di fronte a un corpo seviziato, quello di un ragazzo che aveva accettato un invito infausto. Muovendosi della periferia nord di Roma, più consapevole dei ragazzi di vita della borgata pasoliniana, ma che come quelli ne rappresentava le arterie lacerate e la muscolosa corporeità, Luca era stato torturato e ucciso senza un motivo. Tuttavia, continuavo a pensare che eravamo parte della stessa generazione, tutti e quattro, io, Marco Prato, Manuel Foffo e Luca Varani. Ci eravamo uccisi tra fratelli. Figli della crisi della categoria del maschile, della caduta del totem nel machismo introiettato di una società patriarcale che resiste, nella quale le donne sono relegate agli angoli delle tragedie e gli uomini “meglio assassini che froci”. Abbiamo ribaltato il paradigma. La castrazione simbolica dei padri ha paralizzato l’emancipazione dei figli, condannando una generazione all’abulia: “A noi Foffo piacciono le donne vere. Mio figlio non è da meno”. È in quel “meno” che viene negata a Manuel la possibilità di riscattarsi da un paterno ingombrante, è in quel “meno” che si insidia il germe della mascolinità tossica che annienta l’individuo nel suo idolo, nel falso da sé dell’istrionico Marco Prato, scisso tra il travestitismo di una cultura queer un po’ kitch, nel tempio dell’autoreferenzialità di un suicidio esemplare da diva Dalidà, e la mancanza di una grammatica sentimentale al suo lessico gay. Io non ero in quell’appartamento, mi ripetevo. Eppure quella storia ha perseguitato anche me, destino avverso condiviso con Nicola Lagioia, che cinque anni dopo La ferocia, il romanzo con il quale ha vinto il Premio Strega, ha restituito ne La città dei vivi la discrasia dell’uomo contemporaneo, quella cattiva mescolanza di distorta percezione dell’io e mancato riconoscimento dell’alterità. Lagioia si muove nella decadenza scatologica di una Roma correa, capitale dei vizi, annegata nel sangue di un topo morto alle biglietterie del Colosseo, a raccogliere interviste, atti giudiziari, intercettazioni; intrattiene un carteggio con uno dei due assassini in carcere, Manuel Foffo, condannato a trent’anni, mentre l’altro, Marco Prato, è uscito di scena, meno glam di quanto avrebbe voluto, togliendosi la vita drammaticamente con una bombola del gas nel carcere di Velletri. “Quella di Foffo e Prato era una solitudine, ma una solitudine colpevole. Avevano identità fragili, debolezze che si sono fomentate, per crollare l’una sull’altra e poi entrambe su Varani”, interviene Nicola Lagioia sulle pagine de Il Riformista a proposito dei limiti della società contemporanea e quelli della giustizia ordinaria. “La città dei vivi” è stato facilmente accostato a Capote e a Carrère. C’è chi ha intravisto Walter Siti, “I sotterranei del Vaticano” di Gide, “La scuola cattolica” di Albinati. Io credo che ci sia più Dostoevskij, specie per l’idea di libero arbitrio, di colpa e di possessione… L’uomo moderno di Dostoevskij, nel mio libro, come già per tutto il Novecento, è crollato vertiginosamente. Nel Raskolnikov di Delitto e castigo ci sono i concetti alla base dell’uomo moderno, ovvero quello del libero arbitrio, della conseguente assunzione di responsabilità, della maturazione del senso di colpa e della scelta di consegnarsi alla giustizia. Questi elementi, pur nel loro essere duplice, stanno ancora in piedi nella struttura umana di Raskolnikov, ma sono stati completamente rasi al suolo in Marco Prato e Manuel Foffo. Da una parte, nessuno di loro nega il proprio coinvolgimento in questo omicidio, ma dall’altra nessuno dei due attribuisce l’omicidio a un atto di libero arbitrio. Piuttosto, a proposito di possessione e spossessamento, ne parlano come se fossero stati guidati da una forza superiore che li ha costretti ad agire. Se non si riconoscono un atto di volontà, dunque come possono riconoscersi a loro volta una responsabilità e di conseguenza una colpa? Per questo ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso e di tragicamente nuovo. I due assassini sono convinti e si figurano come Alex di Arancia meccanica con la cura Ludovico, ma fatta al contrario. Alex, dopo la cura Ludovico, è incapace di fare del male, non può che fare il bene. L’unico difensore della modernità è allora il prete, che è poi anche il paradosso geniale di Kubrick: “Meglio poter scegliere tra il bene e il male, e scegliere il male, piuttosto che fare il bene senza poterlo più scegliere?”. A quel punto non avremo più l’uomo, o meglio, non avremmo più l’uomo come lo conosciamo, diventerebbe un’altra cosa. Quella cosa che credono essere Marco Prato e Manuel Foffo. Si è parlato del caso Varani come di un omicidio diabolico, mosso da forze oltre natura, di un’esasperata espiazione edipica e di delitto di matrice omofoba. Lei, che ha parlato spesso di “impossibilità di distogliersi da se stessi”, che idea si è fatto? Occupandomi di letteratura, e dato che la letteratura sa rispondere alle domande solo con altre domande, la mia risposta su come siano andati realmente i fatti non potrà ovviamente essere definitiva. Tutti questi elementi, che comunque possono essere presi in considerazione, come la questione dell’orientamento sessuale o l’assunzione di cocaina, non possono spiegare da soli tutta quella violenza ingiustificata. Il problema di questi omicidi efferati è che spesso ogni frangia culturale cerca di cavalcarli sulla base delle proprie convinzioni. Fare, però, di un caso di cronaca come il delitto Varani l’occasione per una battaglia politica è sempre ingiusto. Il cattivo giornalismo ha immediatamente relegato i due assassini al rango di mostri, ma come lei scrive: “I mostri non esistono. Li creiamo noi di volta in volta per scaricarci la coscienza”. È questa la sua interpretazione del principio di responsabilità? I giornali oggi hanno due problemi. Il problema delle vendite, poiché hanno molte meno risorse, e il problema del sensazionalismo, del “male subito”, dello “Sbatti il mostro in prima pagina”, due problemi che sono ovviamente correlati. I giornali si fanno quindi influenzare dalla cultura dominante, ma sarebbe bene che si emancipassero dal mainstream. La letteratura, al contrario, si interroga sul perché noi cerchiamo di relegare i carnefici nel novero delle creature fantastiche, ovvero i mostri. Lo facciamo per un istinto umano, perché viviamo il terrore di poter vestire un giorno i panni del carnefice o quelli della vittima, per esorcizzare il terrore. Il padre di Luca Varani, al contrario, non si è mai espresso apertamente definendo gli assassini del figlio come “mostri”, ha detto: “Hanno fatto delle cose mostruose”, “Si sono comportati come mostri, ma non lo sono”. Con le vittime invece accade un’altra cosa: o le si mettono nell’empireo o si dice che “se l’è andato a cercare”. In entrambe le situazioni, il filtro che separa la nostra vita da quella delle persone coinvolte è necessario, specie se in gioco c’è il “per puro caso”, perché qualora non ci fosse, ne saremmo terrorizzati. La città dei vivi è senza dubbio un’indagine sulla percezione del male. Nel suo libro, sebbene ci sia molta folla, sembra che l’incarnazione del male sia una forma di solitudine, quella tragedia privata che è poi la malattia del nostro secolo. È questo il male per lei? Si tratta di una solitudine, ma di una solitudine colpevole. Foffo e Prato avevano identità fragili, debolezze che si sono fomentate, crollate l’una sull’altra e poi entrambe su Varani. A questa debolezza, alla quale noi solitamente attribuiamo un privilegio, in questo caso le attribuiamo una colpa. Sono colpevoli di essere stati soli, di non essere stati abbastanza forti e definiti da resistere al vento che li ha portati a uccidere Varani, per aver aumentato vertiginosamente le probabilità di non poter più riuscire a prendere una decisione e per aver messo in moto, per eccessiva debolezza, una catena di eventi inarrestabile. Al caso Varani si è presto affiancato il caso Prato. Il detenuto, trasferito da Regina Coeli al carcere di Velletri, ha dichiarato più volte di aver subìto questa scelta con sconforto, definendo, prima di togliersi la vita con una bombola del gas, la nuova realtà carceraria come “mera espiazione senza rieducazione”. Marco Prato è stato quindi ucciso da un retaggio giustizialista che ancora alberga in molte carceri italiane? Dopo aver incontrato anche il senatore Manconi, con il quale ho discusso di giustizia riparativa, sono arrivato alla conclusione che i limiti della giustizia ordinaria siano quelli di non mettere il responsabile di fronte alle proprie azioni, al fine di fargli riconoscere i propri errori. È sulla scorta di questa incapacità che l’approccio della giustizia trova le sue limitazioni: come si reinserisce un detenuto nella società se questi non riesce a riconoscere le proprie colpe? E come si può solo pensare di farlo se esiste l’ergastolo? Io ho l’impressione che i detenuti vengano imbottiti di psicofarmaci e che non vengano assistiti da un percorso di rieducazione volto al reinserimento nella società. Si pensi che dalla perizia psichiatrica, che ha preceduto il suicido di Marco Prato in carcere, si evince che il detenuto mantenesse ancora tutte le funzioni autoconservative intatte. Ma Prato aveva tentato il suicidio già due volte, prima della galera. Inoltre, sussiste la questione delle bombole del gas che in carcere non sono state ancora sostituite, e di cui Prato parla al padre come di “un upgrade”. La situazione delle carceri italiane è quindi un problema complesso che andrebbe affrontato in maniera seria, con l’intervento di tutte le parti coinvolte, gli offesi e gli offensori. “I tossicodipendenti? Sono gli invisibili della pandemia” di Orlando Trinchi Il Riformista, 27 novembre 2020 Sono dodici anni che non viene convocata la Conferenza nazionale sulle droghe, che invece, secondo la legge 309, dovrebbe essere convocata ogni tre anni. Da quasi un ventennio gli investimenti sulla prevenzione sono azzerati. La politica è assente nell’approccio del nostro servizio sanitario è rimasto indietro di decenni. “La pandemia si è imposta su un sistema che già arrancava, sia nel pubblico che nei servizi del terzo settore”. Una lucida preoccupazione affiora nelle parole del Presidente della Federazione Italiana Comunità Terapeutiche (Fict) Luciano Squillaci. In che modo l’emergenza Covid-19 ha inciso sulla cura e la prevenzione delle tossicodipendenze? Uno studio della Società Italiana per le Tossicodipendenze ha rilevato come in realtà solo circa lo 0,05% di contagi diretti da Covid riguardi persone che fanno uso di oppiacei o altre sostanze. Il virus non ha inciso principalmente dal punto di vista della malattia quanto sotto il profilo della cura e della riabilitazione. La contingenza del lockdown ha determinato difficoltà negli ingressi: molti ragazzi sono rimasti sostanzialmente per strada. Quando ci si trova all’inizio di un percorso contrassegnato da fragilità complesse come quelle connesse alla tossicodipendenza, inoltre, si fa fatica a comprendere i limiti per i quali non è possibile incontrare i propri cari. Sono state emanate misure per le Rsa ma ci si è completamente dimenticati dei servizi per le tossicodipendenze e la salute mentale. Gli investimenti sono sempre minori e diventa arduo andare avanti con le attività terapeutiche. Il sistema, già fragile di per sé, ha subìto - sia per i mancati ingressi che per la riduzione delle presenze - un ulteriore colpo da un punto di vista economico, da sommare alle maggiori spese che ha dovuto sostenere. Ci siamo praticamente trovati al fronte con le armi spuntate. In alcune Regioni, in cui l’organizzazione sanitaria è problematica, criticità di questo genere erano presenti anche prima dello scoppio della pandemia? Assolutamente. Disponiamo di un sistema di cura e riabilitazione fermo alla legge 309 del 1990, la quale regola un fenomeno - quello delle tossicodipendenze - in continua evoluzione. Ogni anno in Italia individuiamo con i sistemi di allerta circa cento nuove sostanze. È chiaro che in presenza di un fenomeno in continuo mutamento, con una legge ferma ancora al cosiddetto eroinomane classico - quando oggi sappiamo che i poliassuntori e le dipendenze da droghe sintetiche rappresentano l’allarme principale - diventava già difficile agire, anche prima della pandemia, che rischia ora di assestare il colpo di grazia. Abbiamo scritto più volte al governo, insieme alle reti che si occupano di dipendenze patologiche e le società che rappresentano i SERT - Servizio per le Tossicodipendenze - ma non abbiamo ricevuto risposta. Durante i mesi interessati da questa nuova emergenza non stia certo diminuendo il disagio che si annida dietro l’uso di sostanze. Il periodo di chiusura ha probabilmente reso più difficile reperire la droga in strada, ma ha aperto e implementato nuovi mercati come quello di Internet, già rilevante prima della pandemia. I dati pubblicati dalla Relazione al Parlamento 2020 sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia ci consegnano un quadro allarmante, con un aumento di morti per droga. Dove cercare eventuali responsabilità? Innanzitutto in una politica che sul tema si è dimostrata assente. Sono dodici anni che non viene convocata la Conferenza Nazionale sulle droghe, che invece, secondo la legge 309, dovrebbe essere convocata ogni tre anni. Da quasi un ventennio gli investimenti sulla prevenzione sono sostanzialmente azzerati. Il silenzio di questi giorni ci fa quasi rimpiangere le battaglie ideologiche e strumentali che si facevano un tempo. Un silenzio colpevole di fronte a una situazione che invece, negli ultimi cinque anni, mostra un trend in costante di aumento. Rileviamo più di un morto per droga ogni giorno - e non stiamo parlando delle morti cosiddette indirette, come incidenti stradali o similari - e, cosa altrettanto grave, 7.800 ricoveri l’anno per lo stesso motivo. Ci sono ritardi nel campo della prevenzione e del sistema ufficiale dei servizi? In passato potevamo servirci del Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga e in materia di personale dei Servizi per le tossicodipendenze - che prevedeva, sia per la prevenzione che per il reinserimento, la possibilità di attivare percorsi educativi strutturali, poi azzerato per confluire nel fondo indistinto delle politiche sociali. Da allora l’Italia ha sostanzialmente smesso di investire in prevenzione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: 660.000 ragazzi tra i 15 e i 19 anni - questi i dati ufficiali della Relazione al Parlamento - dichiarano di aver fatto uso di una sostanza illegale nel 2019, mentre i nostri centri di ascolto raccolgono l’allarme di famiglie che chiedono aiuto per i loro figli, bambini di 12 e 13 anni. Si è abbassata in maniera cospicua l’età relativa al primo uso di sostanze e tutto ciò è correlato alla difficoltà di comprendere quanto sia rilevante, in questo settore ma non solo, l’investimento sull’educazione. Europa unita contro l’antisemitismo di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 27 novembre 2020 Al prossimo vertice Ue i governi si impegneranno a contrastare l’odio per gli ebrei. Felix Klein: “Con la pandemia sono riemersi i pregiudizi”. L’Europa dichiara guerra all’antisemitismo. Dopo mesi di pandemia e di recrudescenza dei complottismi, sempre più spesso caratterizzati da un odio inquietante contro gli ebrei, dopo il moltiplicarsi di attacchi antisemiti in tutto il continente, i governi europei hanno deciso che si impegneranno al prossimo vertice a “integrare la prevenzione e il contrasto all’antisemitismo a tutti i livelli”. La Dichiarazione che Repubblica è in grado di anticipare e che sarà approvata al prossimo Consiglio dei capi di Stato e di governo, il 10 dicembre, prevede che la lotta all’antisemitismo “debba essere presa seriamente in considerazione nelle decisioni e nelle misure adottate dalle istituzioni dell’Unione europea e debba riflettersi in esse”. Cosa significhi concretamente l’impegno che l’Europa si accinge a scolpire nella pietra, lo spiega al nostro giornale il responsabile tedesco per la lotta all’antisemitismo e sottosegretario all’Interno Felix Klein, che lo definisce “un grande successo”. Il contrasto all’odio contro gli ebrei, precisa, “è così difficile perché in realtà dovrebbe essere trasversale. Di solito viene soltanto discusso dai ministeri dell’Interno o della Giustizia. Non è sufficiente: l’antisemitismo implica molti aspetti. I capi di Stato e di governo devono impegnarsi a riconoscere che è incompatibile con i valori dell’Unione e che deve diventare un tema dibattuto a ogni livello”. Klein fa l’esempio del Green Deal per spiegare la portata trasversale della Dichiarazione: “ogni volta che si discuterà una misura europea, dovrà rispondere - in modo vincolante - alla domanda: che effetto può avere sulla lotta all’antisemitismo?”. E potrà essere adottata soltanto se l’effetto sarà “positivo o almeno neutrale”. La lotta all’antisemitismo dovrà diventare un filo rosso delle decisioni europee alla pari della lotta ai cambiamenti climatici. Il documento dichiara nero su bianco il contrasto all’odio contro gli ebrei “una priorità”, e impegna alla creazione, al livello nazionale, di figure governative dedicate al tema, e “alla tutela della vita ebraica”. In Germania Klein è il primo responsabile per la lotta all’antisemitismo della storia. E ha commissionato i primi studi tedeschi sull’odio contro gli ebrei nel quotidiano: le offese, i pregiudizi, le espressioni di intolleranza che sino ad allora non venivano registrate dai rapporti perché non erano penalmente rilevanti, adesso figurano ufficialmente nelle statistiche. E ora Klein vuole portare la sua battaglia al livello successivo, quello europeo. “Vorrei che l’Agenzia europea per i diritti umani registrasse ogni episodio, anche quelli che non hanno una rilevanza penale. Ogni paese dovrebbe farlo per mostrare quanto sia diffuso l’antisemitismo, anche nel quotidiano. Solo se si rende visibile, l’antisemitismo può essere combattuto”. In questi mesi di pandemia, in Germania e altrove sono riemersi vecchi pregiudizi, leggende nere, persino un orribile pervertimento dei simboli della Shoah. Alle manifestazioni dei no mask sono spuntate stelle di David appuntate sul petto, paragoni immondi con Anna Frank. I negazionisti in piazza accusano gli ebrei di aver inventato il virus per guadagnare soldi con i vaccini e si sentono vittime di una persecuzione da parte dello Stato che chiede loro di rispettare le restrizioni. E la presunta appartenenza a una minoranza perseguitata o addirittura alla resistenza, spinge i manifestanti a confrontarsi con le vittime della più feroce persecuzione della storia, quella dei nazisti contro gli ebrei. Anche contro questa deriva bisogna combattere, sostiene Klein: “Con il coronavirus sono aumentate nuovamente le teorie cospirazioniste; i pregiudizi vengono espressi apertamente, sia online, sia alle manifestazioni contro le misure anti-covid del governo”. Un’altra battaglia che Klein intende portare avanti è quella delle strategie nazionali per la lotta all’antisemitismo. A dicembre del 2018 tutti i Paesi membri si erano impegnati a formularle. “Alla fine del 2020 - ricorda il sottosegretario - questo processo doveva essere concluso. Ma a quanto mi risulta solo sei Paesi hanno presentato i loro piani”. L’Italia, ad esempio, non è tra essi. Per portare avanti in modo più efficace la battaglia contro i pregiudizi Klein chiede anche maggiori poteri per la Coordinatrice contro l’antisemitismo, Katharina von Schnurbein: “Penso che dovrebbe avere maggiore potere di azione. A settembre, alla conferenza europea sull’antisemitismo, il direttore dell’Agenzia per i diritti umani, O’ Flaherty, ha rivelato che alcuni Paesi non hanno fornito le informazioni richieste su attacchi ed episodi antisemiti. Non è accettabile che questi Paesi dichiarino che l’antisemitismo, da loro, non esista”. In carcere solo perché cristiani: sono migliaia i fedeli dietro le sbarre di Alessandra Benignetti Il Giornale, 27 novembre 2020 Uno studio di Aiuto alla Chiesa che Soffre accende i riflettori sul dramma di migliaia di fedeli cristiani rapiti, detenuti senza un’accusa credibile, torturati o costretti a convertirsi con la forza. Il grido di Asia Bibi: “Nessuno nella comunità cristiana può dirsi al sicuro”. Sequestrati perché “infedeli”, rapiti per imporre loro la conversione, imprigionati perché hanno scelto di non rinnegare la propria fede. Sono migliaia nel mondo i cristiani detenuti ingiustamente che soffrono in silenzio: religiosi, attivisti, uomini e donne, ma anche ragazze giovanissime, prelevate con la forza dalle loro case e costrette ad abiurare il loro credo. A fare il punto su un fenomeno sempre più preoccupante è la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, che in uno studio pubblicato oggi rileva come “l’ingiusta detenzione dei cristiani” sia “una delle forme di persecuzione prevalenti, durature e gravi”. Migliaia di fedeli in carcere in tutto il mondo - Il caso più emblematico è quello di Asia Bibi, la bracciante pakistana condannata a morte per blasfemia e costretta a passare diversi anni in carcere dopo essere stata accusata di aver offeso il profeta Maometto. Ma non è l’unico. Nei 50 Paesi considerati più a rischio oltre 300 fedeli ogni mese finiscono dietro le sbarre senza un’accusa plausibile o un giusto processo, mentre i dati della Ong Open Doors parlano di 1.052 cristiani rapiti, soltanto nel corso del 2019. Numeri sconcertanti, che tuttavia potrebbero dare un’idea soltanto parziale della portata di questo dramma. “È molto difficile tracciare i confini della ingiusta detenzione”, sottolinea l’organizzazione nel rapporto intitolato Libera i tuoi prigionieri. Il motivo principale è la mancanza di informazioni, difficili da reperire sia a causa della censura, sia perché, in caso di rapimento, ad esempio, i familiari “temono che la pubblicità possa ostacolare le trattative per il rilascio”. Anche per questo è diventato “lo strumento preferito dagli oppressori”. “Sono stata arrestata e messa in isolamento per evitare che la taglia posta sulla mia testa spingesse qualcuno ad uccidermi. Il Governatore del Punjab, Salman Taseer, che era venuto a trovarmi in prigione, e il ministro cristiano Shahbaz Bhatti sono morti per avere preso le mie difese, uccisi a sangue freddo perché hanno dato voce a quelli che, come me, sono stati falsamente accusati di blasfemia. Migliaia di estremisti hanno paralizzato il Paese perché volevano la mia morte, tutto perché sono cristiana”, scrive proprio Asia Bibi nella prefazione del report. “Nei momenti più bui - rivela - mi ero ripromessa che se fossi sopravvissuta al mio calvario - una croce che ho portato per anni e anni - sarei stata al fianco di coloro che soffrono come io ho sofferto”. “Di fatto - avverte Asia Bibi - nessuno nella comunità cristiana può godere di sicurezza”, vista “l’entità del male compiuto da predatori sessuali, gruppi militanti e regimi crudeli”. “È tempo che il mondo ascolti le loro storie - incalza - perché chi, sfidando la legge, detiene persone innocenti finalmente venga assicurato alla giustizia”. I raid degli islamisti in Nigeria - Le storie dei cristiani rapiti o rinchiusi ingiustamente sono tante. In Nigeria, ad esempio, i sequestri ai danni dei cristiani sono all’ordine del giorno. Basti pensare alle 276 ragazze rapite nel 2014 da Boko Haram. Ogni anno, secondo i dati citati nel rapporto di Acs, più di 220 cristiani vengono fatti prigionieri dai gruppi jihadisti. La pandemia ha contribuito ad aggravare la situazione, con gli islamisti che, approfittando dell’impegno del governo sul fronte del Covid, hanno intensificato gli assalti ai villaggi a maggioranza cristiana. Lo scorso aprile nel giro di pochi giorni sono state rapite 13 persone nello stato di Kaduna e altrettante sono state uccise. Un nuovo assalto dei pastori Fulani, nel maggio del 2020, ha portato all’uccisione di 17 persone e al rapimento di un missionario. Da oltre due anni Leah Sharibu, che ha compiuto 17 anni il 14 maggio del 2020 resta ancora nelle mani dei jihadisti di Boko Haram. Quando il gruppo jihadista liberò oltre cento studentesse nel febbraio del 2018, lei fu l’unica a non essere rilasciata perché rifiutò di rinunciare alla fede. Era quello il prezzo che i suoi rapitori le chiedevano di pagare in cambio della libertà. “L’abbiamo scongiurata di limitarsi a recitare la dichiarazione islamica e indossare l’hijab per poter entrare con noi nel veicolo, ma lei ha risposto che quella non era la sua fede: perché avrebbe dovuto attestare il falso? Se vorranno ucciderla, potranno farlo, ma lei non dirà mai di essere musulmana”, racconteranno di lei le sue compagne di prigionia. Sua madre, Rebecca Sharibu, continua a battersi perché venga finalmente rilasciata. Migliaia di ragazzine sequestrate e violentate in Pakistan - Anche in Pakistan, dove è in vigore una controversa legge sulla blasfemia, il coronavirus ha peggiorato la situazione per i cristiani. La chiusura dei tribunali, ad esempio ha determinato ritardi nell’esame dei casi delle persone recluse e in attesa di appello. E così i fedeli in carcere proprio per blasfemia e le famiglie delle ragazze cristiane rapite per essere date in sposa a uomini musulmani e costrette a convertirsi all’Islam restano ancora in attesa di giustizia. Non sono poche. Nel 2018, soltanto nella provincia del Sindh, sono state sequestrate oltre mille giovanissime. Le loro storie sono simili a quelle di Maira Shahbaz, una ragazzina cristiana di 14 anni, rapita lo scorso aprile a Madina, una cittadina nei pressi di Faisalabad da tre uomini armati. L’adolescente è stata data in sposa ad uno dei suoi rapitori, un uomo sposato con due figli. La sua famiglia si è battuta nei mesi scorsi per farla tornare a casa, ma ben due sentenze del tribunale hanno dato ragione al suo aguzzino. Finché la giovane, lo scorso agosto, è riuscita a fuggire di notte e a denunciare l’incubo vissuto nei mesi precedenti alla polizia. Nakash, l’uomo che l’ha sequestrata, l’ha drogata, costretta ad abbandonare il cristianesimo, violentata varie volte e filmata per poterla ricattare. L’avvocato di Maira ha chiesto l’annullamento del matrimonio e l’arresto dell’uomo per pedofilia. Ma in attesa che sia fatta giustizia, la giovane e la sua famiglia oggi sono costretti a vivere nell’anonimato per timore di ritorsioni. Le ragazze copte rapite in Egitto e gli arresti arbitrari in Eritrea - Il problema dei sequestri si riscontra anche in Egitto, dove le ragazze copte vengono prese di mira dagli islamisti che dopo averle prelevate con la forza le costringono a sposarsi ed abbracciare la religione musulmana. “Almeno due o tre ragazze spariscono ogni giorno a Giza e il numero di casi portati all’attenzione pubblica è significativamente inferiore a quello effettivo dei rapimenti”, denuncia Acs-Italia. Oltre 1.350, invece, sono i leader religiosi e i fedeli laici detenuti in Eritrea. Nel Paese africano, che riconosce ufficialmente la Chiesa ortodossa eritrea di Tawaheddo, l’Islam sunnita, la Chiesa Cattolica romana e la Chiesa Evangelica luterana dell’Eritrea, chi non si adegua alle richieste del governo viene sbattuto in carcere. È il caso del patriarca ortodosso Abune Antonios, agli arresti domiciliari dal 2007 “per essersi ripetutamente opposto all’ingerenza del governo negli affari ecclesiastici”. Le detenzioni arbitrarie sono all’ordine del giorno, così come le violenze sui “prigionieri di coscienza”, detenuti in oltre 300 siti dislocati su tutto il territorio. La pandemia ha aggravato la situazione. In soli due mesi, la scorsa primavera, almeno 45 cristiani sono stati imprigionati per aver partecipato a funzioni religiose domestiche. E si teme anche per la loro salute, visto il sovraffollamento dei centri di detenzione. La repressione in Cina e in Corea del Nord - Ma è soprattutto in Cina che il virus ha permesso alle autorità di reprimere ulteriormente la libertà religiosa della comunità cristiana. Con il Covid sono aumentate sorveglianza e oppressione. La scorsa primavera le forze di polizia hanno fatto irruzione durante una funzione religiosa portando via i fedeli con violenza, e addirittura in casa di un pastore, arrestato per “sovversione”. Secondo lo studio di Acs nel Paese è in atto una “repressione dei gruppi ecclesiastici che rifiutano di cooperare con la sinizzazione”. Il risultato, secondo gli analisti, è che, anche grazie alla pandemia, “il governo cinese sta consolidando in modo aggressivo il dominio su decine di milioni di cristiani”. I numeri parlano chiaro: già prima dell’avvento del Covid, tra il novembre 2018 e il 31 ottobre 2019, Pechino aveva già imprigionato senza accusa 1.147 cristiani a causa della loro fede, oltre a demolire chiese, distruggere le croci e interferire prepotentemente nella vita della Chiesa. Spostandoci nella vicina Corea del Nord, quasi la metà dei detenuti nei campi di lavoro del regime di Kim Jong sono imprigionati perché cristiani. I fedeli dietro le sbarre potrebbero essere più di 50mila, costretti ad “affrontare condizioni di vita terribili” e a lavorare “per l’avanzamento dei programmi nucleari e balistici della Corea del Nord”. Secondo i dati citati da Acs-Italia, “l’ingiusta detenzione di cristiani, sia da parte degli Stati che di soggetti non governativi, emerge come una violazione dei diritti umani in 143 Paesi in cui vi sono gravi vessazioni ai fedeli”. L’appello di Asia Bibi: “Liberate i prigionieri” - “Agire tempestivamente - rimarca la fondazione pontificia nel report - è fondamentale e non deve essere ostacolata nell’evidenziare la portata del problema”. “È tempo che i governi agiscano, è tempo di manifestare in difesa delle nostre comunità di fedeli, vulnerabili, povere e perseguitate”, è l’appello di Asia Bibi. “Non dobbiamo fermarci - insiste la donna - finché l’oppressore non senta finalmente il nostro grido: ‘Libera i tuoi prigionieri’”. Turchia. Golpe, la giustizia di Erdogan: 337 condannati all’ergastolo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 novembre 2020 Concluso il maxi processo per il tentato golpe del 2016. L’ingegneria politica in Turchia continua, con un paese ormai guidato in ogni settore solo da fedelissimi del presidente. E ieri mattina a Istanbul 19 arrestati tra giornalisti, membri di ong e del partito filo-curdo Hdp. Sono militari e sono i civili i 337 imputati condannati ieri all’ergastolo in Turchia in uno dei tanti maxi processi per il tentato golpe del 15 luglio 2016. Che la scure erdoganiana si fosse abbattuta sul paese già all’indomani del fallito colpo di stato è ormai storia. I mesi successivi hanno registrato implacabili retate e licenziamenti di massa, nell’ordine delle centinaia di migliaia di persone: 292mila sbattute dietro le sbarre, 150mila costrette a lasciare il proprio lavoro. Accademia, esercito, media, magistratura, ministeri e uffici pubblici, non c’è stato settore che non sia stato travolto dalla vendetta politica dell’Akp. E ridisegnato: a quattro anni da allora, Erdogan ha costruito un paese i cui vertici e le cui basi sono state affidate a personalità a lui fedeli, spazzando via ogni forma di opposizione, un golpe al contrario che ha stravolto l’architettura e la geografia politica della Turchia: se fin dall’inizio il governo ha puntato il dito contro l’ex alleato del presidente, l’imam Fethullah Gülen, e la sua rete Hizmet, ogni voce critica è diventata potenziale e concreto target, dalla stampa libera ai progressisti, dal partito filo-curdo Hdp agli artisti. La sentenza di ieri suggella un lungo percorso di erdoganizzazione della Turchia: come 2.500 persone prima di loro, in 337 sono state condannate a vita per omicidio, tentato omicidio del presidente e violazione della Costituzione nell’ambito del maxi processo iniziato nell’agosto 2017 contro 475 imputati. Di questi, secondo l’agenzia di Stato Anadolu, 335 sono già in carcere in detenzione preventiva. A quattro imputati, etichettati come “imam civili”, “capobanda” della rete guleniana, sono stati comminati 79 ergastoli aggravati. Ergastoli aggravati anche per i 25 piloti degli F16 che colpirono il parlamento e la strada verso il palazzo presidenziale la notte tra il 15 e il 16 luglio 2016: la pena peggiore, in pratica un isolamento lungo una vita intera, senza possibilità di chiedere la condizionale. Chi era presente ieri parla di un’aula di tribunale - attrezzata nella prigione di Sincar, nella provincia di Ankara - strapiena di avvocati e personale della sicurezza. Uno degli imputati ha protestato, il giudice gli ha ordinato più volte di sedersi, poi ha letto la sentenza. Non è finita in quell’aula, però. Se 289 processi sul golpe sono già stati chiusi, dieci sono tuttora in corso e non cessano le retate e la repressione. Ieri all’alba in un’operazione di polizia a Istanbul sono stati arrestati 19 tra giornalisti, politici, membri di ong. Tra loro il vice sindaco di Sisli, uno dei 39 distretti di Istanbul, Cihan Yavuk; membri del partito di sinistra Hdk e del partito filo-curdo Hdp; il co-presidente della Marmara Association che opera al fianco delle famiglie dei prigionieri politici. Dopotutto appena due giorni fa era stato lo stesso Erdogan a minacciare azioni legali contro uno dei suoi consiglieri, Bulent Arinc, che aveva chiesto il rilascio del leader dell’Hdp Selahattin Demirtas e dell’imprenditore-filantropo Osman Kavala. Per il presidente Demirtas è “un terrorista” e “non esiste alcuna questione curda nel paese”. Arinc si è dimesso, il leader Hdp e Kavala ovviamente restano in prigione. Egitto. Regeni fu visto vivo nella sede degli 007 di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 novembre 2020 La Procura di Roma ha raccolto racconti “credibili”. Muro di gomma degli egiziani. C’è chi ha visto Giulio Regeni vivo in una caserma della National security del Cairo, dopo che è uscito di casa la sera del 25 gennaio 2016 e prima che ricomparisse cadavere il 3 febbraio lungo una strada che porta ad Alessandria d’Egitto. Negli ultimi mesi la Procura di Roma ha raccolto tre o quattro testimonianze, ritenute attendibili, da cui si evince che il ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso quattro anni fa è finito nelle mani delle forze di sicurezza locali, e che rafforzano il quadro d’accusa contro i cinque funzionari indagati dagli inquirenti italiani. Si tratta di racconti che contengono particolari (veri) che non erano usciti sui giornali né svelati dai siti internet, e che dunque hanno un alto grado di credibilità. Questo hanno spiegato il procuratore della capitale Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco ai colleghi egiziani nell’incontro tra magistrati che s’è svolto venti giorni fa, il 5 novembre; nel quale è stata ribadita, anche sulla base di queste importanti novità, l’esigenza di chiudere le indagini, mettere gli atti a disposizione delle difese e poi chiedere - se non arriveranno elementi altrettanto forti in senso contrario - il rinvio a giudizio per gli indagati del rapimento di Giulio. Per consentire le notifiche l’Egitto dovrebbe comunicare l’elezione di domicilio dei cinque militari individuati con nomi e cognomi (il generale Sabir Tareq, il maggiore Magdi Abdlaal Sharif, il colonnello Ather Kamal, il capitano Osan Helmy e il suo collaboratore Mahmoud Najem), ma se anche dal Cairo non arrivasse la risposta che manca da un anno e mezzo, il codice di procedura penale consente ai magistrati italiani di andare ugualmente avanti. Senza però la cooperazione che il presidente Al Sisi aveva promesso e ha voluto ribadire anche nella telefonata della scorsa settimana con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Quando hanno saputo delle nuove prove a carico dei funzionari della National security, i magistrati egiziani hanno preso atto senza garantire nulla. Mantenendo intatto il “muro di gomma” eretto rispetto a un’indagine che l’Italia ha condotto tra mille limiti e difficoltà, sulla base dei pochi dati comunicati inizialmente dal Cairo tra il 2016 e il 2017 (nel periodo in cui il governo aveva richiamato a Roma l’ambasciatore) e degli elementi forniti dalla rete di avvocati a sostegno dei genitori di Giulio: una parte civile attiva, che ha collaborato all’inchiesta consentendo ai pubblici ministeri di arricchire il fascicolo con indizi che, messi insieme, secondo l’accusa sono diventati prove. Dai tabulati dei cellulari attivi nelle zone del rapimento e del ritrovamento del corpo di Regeni, con l’identificazione dei numeri di alcuni funzionari della Ns, ai verbali dei testimoni ascoltati dagli stessi egiziani; dal filmato dell’incontro tra Giulio e il sindacalista Mohamed Abdallah, che si fingeva suo amico ma è diventato un’esca lasciata dalla sicurezza egiziana, al poliziotto di un altro Paese africano che ha ascoltato una sorta di confessione, confidata durante una riunione all’estero, del maggiore Sharif; fino ai nuovi testimoni, che hanno visto il giovane ricercatore in una delle caserme della Ns, o comunque consentono di collocare Giulio nelle mani di quei funzionari dopo la sua scomparsa. Nei prossimi giorni è prevista la comunicazione formale della conclusione delle indagini. “Viaggiare sicuri” in Egitto: il racconto tranquillizzante della Farnesina di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 novembre 2020 Chi, all’indomani della nuova proroga della detenzione preventiva di Patrick Zaki e dell’arresto di tre dirigenti dell’Ong con cui collaborava, si prendesse la briga di consultare il sito “Viaggiare sicuri” del ministero degli Esteri, alla voce Egitto potrebbe leggere nelle prime righe quanto segue: “Dopo i rivolgimenti politico-sociali succedutisi agli eventi del gennaio 2011 e i numerosi episodi di matrice terroristica degli anni seguenti, si assiste più di recente a un relativo e progressivo miglioramento delle condizioni complessive di sicurezza del Paese”. Questo e altri riferimenti, compreso quello al perenne stato d’emergenza, danno l’impressione che i pericoli per la sicurezza possano derivare prevalentemente da “manifestazioni o attentati” o da “casi di microcriminalità come borseggi, rapine e furti d’auto”. Non vi è alcun accenno ai rischi per la sicurezza personale e per la protezione dei diritti umani che potrebbero derivare dal comportamento delle autorità locali. Il Foreign office britannico, sul sito dedicato ai viaggiatori in Egitto è un po’ più esplicito: “Gli stranieri che prendono parte a qualsiasi genere di attività politica o a iniziative critiche nei confronti del governo possono rischiare il carcere o altri provvedimenti”. Quello del dipartimento di Stato Usa è cristallino: “Le leggi locali vietano le proteste e le manifestazioni prive di autorizzazione. Trovarsi nei pressi di dimostrazioni contro il governo potrebbe attirare l’attenzione della polizia e delle forze di sicurezza. Cittadini statunitensi sono stati arrestati per aver preso parte a manifestazioni e per aver pubblicato contenuti sui loro profili giudicati critici nei confronti dell’Egitto e dei suoi alleati”. Tornando al sito della Farnesina, non manca un riferimento all’omicidio di Giulio Regeni: “Sono tuttora in corso indagini per fare piena luce sulla barbara uccisione e le torture subite dal giovane ricercatore italiano Giulio Regeni”. Siccome si parla dell’Egitto, la frase dovrebbe essere letta “indagini della magistratura egiziana”. La domanda è: quali? Egitto. Lenti nel difendere i diritti, troppo veloci a fare affari di Francesca Sforza La Stampa, 27 novembre 2020 Lenti ad affermare i diritti, veloci nel fare gli affari: difficile non sentirsi feriti dallo scarto tra i tempi della giustizia sull’omicidio di Giulio Regeni e la detenzione di Patrick Zaki e, d’altro lato, dalla rapidità con cui è diventato operativo, ieri, l’accordo di vendita delle due fregate italiane classe Fremm all’Egitto, che ne ha già ribattezzata una con il nome di una delle sue montagne più celebri, Al Galala. Una rete di richiami simbolici che a dispetto delle dichiarazioni ufficiali sul pressing italiano presso il governo egiziano mostra da una parte un Paese che salpa, e dall’altro uno che ripara. E a riparare, stavolta, siamo noi, che dal 2016 non riusciamo ad ottenere risposte soddisfacenti sul brutale assassinio di un giovane ricercatore, e che fra qualche giorno vedremo scadere i termini delle indagini preliminari della Procura di Roma senza neanche poter far leva - nel caso in cui le conclusioni della magistratura italiana siano dichiarate irricevibili dalle autorità egiziane - sulla finalizzazione dell’accordo di vendita delle fregate perché queste, allora, saranno già egiziane. Oggi è il caso di chiedersi che strada stia prendendo la via diplomatica al negoziato con l’Egitto, perché se questa significa cedere su tutta la linea, e semplicemente attrezzarsi per la gestione di una resa, allora è bene ricordare che probabilmente il punto di caduta sarà ancora più basso del previsto. Il caso di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna arrestato il 7 febbraio con l’accusa di propaganda sovversiva al regime, che il 21 novembre scorso si è visto rinnovare la custodia cautelare nelle carceri del Cairo per altri 45 giorni, è lì a dimostrarlo: il linguaggio della collaborazione non può essere parlato in una sola lingua. Altrimenti non ci si capisce, o meglio, ognuno può far finta di capire ciò che vuole. La spirale può continuare ad avvitarsi, e l’Italia, al momento, sembra destinata a una sconfitta, sia in termini di credibilità come attore nell’area (lo stallo libico ce lo ricorda ogni giorno), sia come Stato che ha il dovere di affermare la priorità della difesa dei diritti. Perché è partendo da lì che si vince, e anche da lì che si perde. Scambio di prigionieri tra Iran e Tailandia: così è stata liberata la ricercatrice australiana di Gabriella Colarusso La Repubblica, 27 novembre 2020 Kylie Moore-Gilbert torna a casa dopo 800 giorni di detenzione a Teheran: allo stesso tempo - con la mediazione di Canberra - vengono liberati a Bangkok tre iraniani accusati di aver tentato di uccidere diplomatici israeliani. Due giorni fa il governo iraniano ha dato il via libera alla scarcerazione di Kylie Moore-Gilbert, una professoressa che insegnava studi islamici all’università di Melbourne e nel 2018 era stata arrestata all’aeroporto di Teheran con l’accusa di essere una spia di Israele, accusa che ha sempre negato. La liberazione di Moore-Gilbert è avvenuta con uno scambio di prigionieri. Non è la prima volta che succede: l’Iran ha già rilasciato in passato cittadini stranieri arrestati per spionaggio in cambio di iraniani detenuti all’estero, ma la storia di come la donna sia stata riportata a casa sta sollevando preoccupazioni e critiche da parte delle organizzazioni per i diritti umani. Lo scambio di prigionieri non è avvenuto con l’Australia ma con la Tailandia, che ha liberato Masoud Sedaghatzadeh, Saeid Moradi e Mohammad Khazaei accusati e condannati dal tribunale di Bangkok nel 2013 perché stavano organizzando un attentato contro funzionari israeliani nel Paese. La polizia scoprì il piano, fece irruzione nell’appartamento dove risiedevano e nel tentativo di fuga uno di loro, Moradi, perse le gambe a causa dell’esplosione di una bomba. La Tailandia nega che si sia trattato di uno scambio di prigionieri anche se Chatchom Akapin, il viceprocuratore generale ha definito il trasferimento dei tre detenuti in Iran un accordo “inusuale”. Gli iraniani confermano invece che lo scambio c’è stato ma non hanno diffuso i nomi dei tre prigionieri liberati. La tv di Stato Irib li ha descritti come “un uomo d’affari e altri due cittadini arrestati con accuse infondate” e ha diffuso un video in cui compaiono Kylie Moore dopo la liberazione e i tre uomini che tornano a casa avvolti nelle bandiere nazionali, con cappelli e mascherine a coprire il volto: uno di loro non ha le gambe ed è in sedia a rotelle. Sull’ipotesi che l’Iran abbia ottenuto concessioni da un Paese terzo con la mediazione dell’Australia il premier australiano Scott Morrison non ha voluto commentare, si è limitato a dire che in Australia non è stato rilasciato nessuno, ma diversi diplomatici e funzionari governativi con la garanzia dell’anonimato hanno confermato al The Sydney Morning Herald e a The Age che il governo di Canberra ha avuto un ruolo “cruciale nel portare la Tailandia al tavolo del negoziato per progettare lo scambio di prigionieri che ha permesso il rilascio della dottoressa Moore-Gilbert”. Delle trattative sarebbe stato informato anche il governo israeliano. In Iran sono detenuti diversi cittadini stranieri o con doppia nazionalità, alcuni iraniano americani come Siamak Namazi e suo padre Baquer, Morad Tahbaz, o la britannico-iraniana Nazanin Zaghari Ratcliffe. Il loro rilascio potrebbe nei prossimi mesi diventare oggetto di negoziazione tra Teheran e Washington se l’amministrazione Biden deciderà di riaprire i canali diplomatici con l’Iran per tentare un difficile ritorno all’accordo sul nucleare del 2015. La preoccupazione delle organizzazioni umanitarie è che la cosiddetta “diplomazia degli ostaggi” spinga altri stranieri nel meccanismo infernale degli scambi di prigionieri. “Esiste un chiaro schema da parte del governo iraniano per detenere arbitrariamente cittadini stranieri e con doppia cittadinanza per usarli come merce di scambio nei negoziati con altri stati”, ha detto al Sydney Morning Herald Elaine Pearson, direttrice di Human Rights Watch Australia.