Il Covid in carcere dilaga, protestano in tanti e il governo tace di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 novembre 2020 Già quattro morti di Covid in carcere nella seconda ondata, nuovi focolai scoppiati negli istituti di Monza, Busto Arsizio e Sulmona. Sono almeno quattro i detenuti morti per Covid in carcere nella seconda ondata, mentre divampano - apprende Il Dubbio - nuovi focolai: 30 reclusi risultati positivi al carcere di Monza e i 35 del carcere Busto Arsizio, ma per ora il Governo non dà alcun segnale sulla voglia di inserire nuove misure più efficaci per ridurre sensibilmente la popolazione detenuta. Non solo. Al question time di ieri, alla domanda posta dal parlamentare Alessandro Colucci del gruppo misto, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede non ha risposto su cosa intenda fare per rimediare al sovraffollamento come sollecitato dalla recente conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà. Il guardasigilli ha elencato i dati dei contagi di Covid in carcere, spiegato come le carceri stiano correttamente applicando i protocolli sanitari e chiarito come l’istruzione scolastica sia importante per i detenuti. Ma nessun riferimento alle misure deflattive e a un’emergenza che starebbe sfuggendo di mano. Complicata la situazione a Busto Arsizio - Sì, perché oltre alla situazione del carcere di Tolmezzo dove sono partiti i primi esposti in procura, la situazione del carcere di Busto Arsizio sarebbe complicata a tal punto che - secondo quanto riporta Claudio Bottan, ex detenuto e ora giornalista e scrittore - sarebbero arrivati i sanitari di Medici senza frontiere inviati dal provveditorato. Fabio, il quarto morto per Covid in carcere - Ed è lì che l’altro ieri è morto di Covid il 53enne Fabio C., in carcere dal 2012. Era malato. Ed è sempre Bottan a raccontare la sua vicenda: “Non stava bene Fabio. Ma chi può star bene in galera? Lui invece era un malato vero, “certificato”, tanto da aver ottenuto la pensione di invalidità civile che regolarmente spendeva per acquistare salsicce, pomodorini e pasta, tanta pasta. E poi tabacco, che regolarmente “prestava” a chi stava peggio di lui, sapendo che si trattava di un prestito a perdere”. Prosegue sempre Bottan: “Recentemente Fabio aveva chiesto di ottenere i domiciliari per potersi curare, era preoccupato per la pandemia da Covid e avrebbe voluto vivere. Istanza respinta, ovviamente. Fabio è morto in galera (e non all’ospedale) da solo, in una fredda cella di isolamento. Ora Fabio è libero, a dispetto delle coscienze”. 16 positive al Covid in carcere a Rebibbia Femminile - Preoccupazione anche per il carcere di Rebibbia Femminile dove risultano 16 positive al Covid, la maggior parte senza sintomi significativi. A rivelarlo è la garante locale di Roma Gabriella Stramaccioni che vi ha fatto visita durante la mattina. Successivamente la garante ha partecipato al Nuovo Complesso, insieme al Garante Regionale Stefano Anastasia ed alla Direzione, all’incontro con il magistrato di Sorveglianza Marco Patarnello ed una delegazione dei detenuti dei vari reparti. La garante Stramaccioni rende noto che il magistrato Patarnello ha parlato nella nuova riorganizzazione del Tribunale di Sorveglianza che dovrebbe portare ad una maggiore velocità nella risposta alle istanze che provengono dall’istituto. Sedici giorni di sciopero della fame per Rita Bernardini - Tante problematiche, importante il ruolo dei garanti che fanno il possibile. Ma va tutto bene secondo il governo. Ricordiamo che Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino è al 16esimo giorno dello sciopero della fame, a seguire c’è Irene Testa del Partito Radicale arrivata al 12esimo giorno. Uno sciopero per instaurare un dialogo con il Governo e Parlamento affinché affrontino quanto di drammatico sta avvenendo nelle carceri. Ricordiamo ancora una volta cosa chiedono: amnistia, indulto, liberazione anticipata speciale (proposta di legge presentata da Roberto Giachetti anche sotto forma di emendamento al “Decreto Legge Ristori”), modifiche sostanziali del decreto Ristori che secondo la Bernardini “ristora ben poco, detenuti e detenenti”. Ad oggi hanno aderito 597 cittadini liberi e 552 detenuti dalle carceri di Sulmona, Vicenza, Genova -Marassi e Avellino. Tale iniziativa è stata ricordata dall’anteprima di una inchiesta del giornalista Bernardo Iovene di Report. Per ora è l’unico servizio pubblico della Rai che ha dato voce al dramma che stanno vivendo i familiari dei detenuti positivi al Covid. Possibili focolai a Monza e Sulmona - L’Italia è tra i Paesi europei che hanno segnalato il più alto numero di persone contagiate dal Covid tra le mura delle prigioni. I numeri che provengono dal Dap e per la prima volta aggiornati al sito del ministero, ma ancora risalente a domenica scorsa, parlano di 809 detenuti che hanno contratto il Covid in carcere, di cui 14 fra i nuovi giunti. La maggior parte, secondo il Dap, sono asintomatici, 27 sono sintomatici gestiti all’interno degli istituti di detenzione e 16 sono ricoverati in ospedale. Il numero maggiore dei ricoverati, nove reclusi, provengono dal carcere milanese di Opera dove almeno 4 sono dei 41 bis. Da ricordare che però tali dati non considerano i nuovi focolai che nel frattempo sono divampati. C’è com’è detto Monza, ma si è in attesa dei tamponi per un numero consistente di detenuti reclusi al carcere di Sulmona. I numeri di Bonafede si riferiscono al 24 novembre - Non sappiamo se tali dati siano però considerati tra i nuovi numeri che ha dato il guardasigilli durante il question time di ieri. Anche perché risalgono a mercoledì. “Alla data del 24 novembre 2020, su 53.720 presenti negli istituti di pena del Paese, sono stati registrati 826 casi di positività al Covid in carcere, di cui, 804 gestiti dall’Area sanitaria interna (dei quali 772 senza sintomi) e 22 ricoverati presso luoghi esterni di cura”, ha detto Bonafede. Sono invece 1042 i casi di positività registrati fra gli operatori penitenziari (970 relativamente al personale del corpo di polizia penitenziaria e 72 fra il personale amministrativo e dirigenziale del Dap): di questi, 1013 si trovano in quarantena presso il proprio domicilio, 19 presso le caserme annesse agli istituti di pena e 10 risultano ricoverati in strutture ospedaliere. Dunque numeri più alti si registrano fra gli operatori, ma il segretario generale della Uilpa Gennarino De Fazio ricorda che “bisognerebbe capire se i detenuti hanno la stessa possibilità di accesso ai tamponi degli operatori”. Ed è sempre il sindacalista che chiede alla comunità scientifica e a chi di competenza di “calcolare l’indice di contagio (Rt) in carcere”. Non solo. Anche De Fazio osserva che si impongono ulteriori urgenti misure da parte del Governo, ovvero “deflazionamento sensibile della densità detentiva, rafforzamento e supporto efficace della Polizia penitenziaria, potenziamento incisivo dei servizi sanitari nelle carceri”. Amnesty International: più contagiati rispetto alla prima ondata - Anche Amnesty International denuncia che il numero dei contagiati in carcere è molto più alto rispetto al picco registrato nella prima ondata della pandemia. La maggior parte dei penitenziari lamenta la mancanza di spazi appropriati per l’isolamento dei positivi e la scarsità di servizi sanitari e assistenza medica. È dilagante la diffusione dei contagi da Covid in carcere in Italia secondo Amnesty International Italia, che esprime la sua profonda preoccupazione per la mancata “riduzione consistente della presenza numerica di detenuti negli istituti”. Da ricordare che i detenuti morti per Covid avevano patologie pregresse, alcuni di loro avevano fatta istanza per chiedere la detenzione domiciliare. Respinta. Non a caso l’associazione Yairaiha Onlus ha da poco lanciato l’appello su change.org dal titolo “Il diritto alla salute è di tutti, nessuno escluso”. “Chiediamo che si intervenga con un provvedimento immediato di sospensione della pena per tutte le persone detenute ammalate ed anziane ai sensi degli articoli di legge - si legge nell’appello - chiediamo che il Parlamento vari urgentemente un’amnistia per la rimanente popolazione detenuta, per poi iniziare a pensare un sistema di pene che non calpesti la dignità umana ma dia senso e sostanza a quell’art. 27 della Costituzione troppo spesso dimenticato e calpestato”. Nelle carceri affollate mille detenuti positivi al Covid. “Ora si rischia il caos” di Vincenzo Ammaliato La Stampa, 26 novembre 2020 In Italia le strutture sono in crisi. Boom di contagi anche tra gli agenti: 936. Allerta rossa a Napoli. Il garante: “Impossibile rispettare le norme Covid”. Quasi mille positivi al coronavirus su cinquantaquattromila individui. È una fra le incidenze più alte in Italia nel rapporto popolazione contagiati, e non poteva essere diversamente, considerando che si tratta dei detenuti reclusi nelle carceri dell’intera penisola, spesso sovraffollate e senza spazi adeguati per isolare i contagiati. “A Poggioreale era più che prevedibile che si sviluppasse un focolaio; con circa 1.800 detenuti su una capienza massima di 700, sarebbe stato impossibile rispettare le norme per contenere la pandemia”, dice Pietro Ioia, garante per i detenuti della città di Napoli, che aggiunge: “In alcune celle ci sono anche 9-10 persone - spiega il garante - in una 13 detenuti, mentre nelle abitazioni private il governo ha previsto un massimo di sei”. Ma gli assembramenti inevitabili di detenuti nei penitenziari italiani non colpiscono solo i reclusi. Il virus si sta diffondendo in modo preoccupante anche fra il personale. Infatti, erano 936 gli agenti di polizia penitenziaria e dipendenti che risultavano contagiati al Covid nel rapporto dell’amministrazione penitenziaria del 17 novembre. Due giorni dopo, nell’ultimo report disponibile, erano già saliti a mille e trentasei: cento nuovi contagiati in sole 48 ore. E se il carcere di Poggioreale sconta problemi strutturali che lo rendono particolarmente vulnerabile, non va molto meglio al vicino e nuovo carcere di massima sicurezza di Secondigliano, dove i positivi fra i detenuti sono 62, mentre 69 sono i secondini indisponibili perché contagiati dallo stesso virus. Grosse criticità si registrano anche in altri penitenziari d’Italia, come in quello di Bollate in Lombardia, dove ci sono 69 contagiati tra i detenuti e 14 tra i dipendenti. Nella struttura penitenziaria del capoluogo, a San Vittore, sono settantasei i positivi. Mentre in quella di Alessandria 32 i detenuti positivi e 20 gli agenti. Nel carcere di Foggia, dal quale durante i tumulti di marzo evasero una sessantina di detenuti, attualmente ci sono 19 contagiati fra il corpo di polizia penitenziaria. Mentre a Modena, nel carcere dove per primo scoppiò la rivolta, che alla fine contò dodici vittime fra i reclusi, ci sono due detenuti e 12 agenti positivi. Ventinove sono le guardie carcerarie indisponibili per il Covid a Santa Maria Capua Vetere, dove per gli scontri di marzo la procura locale ha messo sotto processo 44 agenti penitenziari con l’accusa di aver usato metodi violenti per sedare le rivolte. E considerando che i tumulti nelle carceri della scorsa primavera scoppiarono quando i contagiati fra i detenuti in tutta Italia erano poco più di trenta, si può chiaramente percepire lo stato di preoccupazione. Primi segnali per niente incoraggianti vengono da due penitenziari siciliani, quelli di Barcellona e di Enna. Nel primo i detenuti sono riusciti a forzare due celle, nel secondo, a seguito degli scontri, un agente ha riportato la frattura di due costole e una prognosi di trenta giorni. Molti sono anche i reclusi che hanno iniziato lo sciopero della fame, sempre per protestare sulla condizione di scarsa sicurezza dovuta al rischio pandemico. “Il timore che possano verificarsi di nuovo scontri duri come a marzo e aprile è altissimo”, denuncia preoccupato Pino Moretti, presidente nazionale dell’unione sindacale di polizia penitenziaria, che chiama in causa direttamente il ministro Bonafede. “Il silenzio del ministero di giustizia sul tema - dice Moretti - è assordante. Occorrono immediate azioni legislative, per mettere in sicurezza sia le carceri, sia il lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, che sono di fatto in trincea. Occorrono leggi che rendono più gravi le ripercussioni legislative per chi aggredisce le guardie carcerarie. E si deve fare subito, altrimenti sarà il caos”. Intanto, i contagi fra chi è dietro le sbarre e chi vigila su loro aumentano. Quei vecchi scarcerati solo quando il virus li ha uccisi di Gioacchino Criaco Il Riformista, 26 novembre 2020 Salvatore, 76 anni, vecchio lo è diventato nel carcere di Opera, ci è entrato a 42 anni ed ora è finalmente fuori, scarcerato per fine esistenza. Ammazzato dal coronavirus. 34 anni di galera per la gioia dei fan della certezza della pena. Mario, 70 anni, lungo i corridoi del carcere di Secondigliano scivolava come un treno sul binario a bordo della sua carrozzina, anche lui è fuori per sempre, liberato e ucciso dal Covid. E Antonino, 82 anni, è il decano dei morti da coronavirus fra i galeotti, un titolo che da Livorno di sicuro non avrebbe voluto detenere. Negli istituti di pena italiani ci sono 809 detenuti positivi al coronavirus, e 969 infettati stanno fra i poliziotti penitenziari, penitenti di due categorie opposte costrette a convivere dentro gli stessi spazi. Spazi che diventano sempre meno sicuri, che rischiano di trasformarsi in una trappola e stritolare i prigionieri e i loro custodi. E il ministro della Giustizia Bonafede, sempre in prima serata e in prima pagina durante la prima ondata pandemica, è svanito, abbrancato dalle nebbie della dimenticanza dopo la polemica durissima col magistrato Di Matteo sulla nomina a direttore del Dap. Come è successo all’esordio dell’infezione, che la maggior parte dei decessi si era registrata nelle case di riposo, ossia nei luoghi chiusi in cui il virus una volta entrato diventava inarrestabile fino a ghermire l’ultimo dei pazienti; così la tragedia potrebbe ripetersi nelle carceri, con la coabitazione obbligata che diventa arma micidiale nella diffusione della malattia. Carceri che sono appunto come le residenze per anziani, luoghi abitati dalle fragilità. Che è un assioma facile per gli ospizi. Ma rispetto alle carceri è un concetto che non funziona. Si è costruito un immaginario detentivo da filmografia americana, con popolazioni detenute stilizzate da muscoli gonfi e tatuaggi trend, sempre pronte alla rissa. Invece, le prigioni italiane accolgono oltre ai delinquenti professionali, aventi anche loro il diritto costituzionale di non morire, le cornici sociali, i frammenti sparsi di una disgregazione solidale: tossicodipendenti, poveri, gente affranta e già alle corde prima del carcere. E vecchi, nel carcere ci stanno i vecchi, tanti, tanti, più di quanti ci si possa immaginare: 70, 80, pure di 90 anni. Vecchi sulle carrozzine, allettati, con tumori, problemi cardiaci, epatici. Malati, tanti malati, di morbi gravissimi che se toccati dal coronavirus cadranno come birilli. Perché il carcere italiano è così: un incrocio di vite perse, senza e con responsabilità, messe in una galassia lontana per tenere lontani mostri, a volte innocenti e a volte colpevoli delle inclinazioni umane peggiori. Luoghi dimenticati già nella normalità, che ora, nel terrore che attanaglia gli stanti fuori, sono i lucidi pensieri di un malato di Alzheimer. I vecchi nelle carceri, i malati nelle carceri, gli uomini nelle carceri. Loro ci stanno perché altri possano sentirsi migliori. E loro non ci staranno sicuramente fra i soggetti prioritari quando arriveranno i vaccini. Loro sì, pagano e pagheranno tutto, lo pagheranno fino in fondo. I segnali ci sono tutti, per qualcosa che non si dovrebbe pensare, che porterebbe a epoche lontane, a regimi innominabili. Ma se non ci sarà il coraggio di affrontare la questione carcere, senza moralismi, senza paura delle polemiche, Antonino, Mario, Salvatore, dai luoghi della pace e della libertà, lasciando da questa parte la vita, dovranno darsi da fare per accogliere i compagni di pena che ancora possono essere salvati. Covid-19 in carcere: l’amnistia si impone di Valter Vecellio lindro.it, 26 novembre 2020 Quasi duemila contagi tra detenuti e agenti, ma c’è un sommerso inimmaginabile. Quando si parla di carcere e dei suoi enormi problemi, ascoltare Francesco Ceraudo, pioniere della medicina penitenziaria, Presidente del Consiglio internazionale dei servizi medici penitenziari, e già Direttore del centro clinico di Pisa è imprescindibile. Ceraudo ha le idee chiare: “L’Iran e la Turchia, non proprio un esempio di democrazia, hanno rilasciato i propri detenuti. Perché dobbiamo essere più khomeinisti degli ayatollah? La politica deve saper recuperare in un momento così grave e oscuro la dignità, la forza e il senso di responsabilità che le dovrebbe competere. Governo e Parlamento devono avvertire la sensibilità di intervenire prima che sia troppo tardi per ridurre drasticamente la popolazione detenuta attraverso qualsiasi intervento di legge che sia aderente alla nostra Costituzione e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. L’amnistia e l’indulto, insomma, come atto significativo di medicina preventiva. Le curve dei contagi e i dati sempre più allarmanti che arrivano dagli istituti di pena, rendono questi due provvedimenti questione anche di tipo strettamente sanitario. Ricorda Ceraudo: “L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stilato precise linee di comportamento per prevenire e controllare la diffusione del Coronavirus nelle carceri. Tra queste assume un significato particolare il distanziamento che prefigura l’abitudine a stare ad almeno un metro di distanza. Questo non può essere assolutamente assicurato in carcere in preda a un cronico sovraffollamento, mentre è forte la difficoltà di rispettare accuratamente le norme igienico-sanitarie e le opere di sanificazione degli ambienti”. Le carceri costituiscono delle bombe epidemiologiche. Vi è di fatto l’impedimento di approntare opportunamente degli spazi idonei per l’isolamento dei contagiati e la quarantena delle persone entrate in contatto con i contagiati. Pertanto devono essere messe in atto, con estrema urgenza, politiche deflattive, laddove le misure alternative al carcere devono trovare un legittimo riconoscimento. Ceraudo soppesa con attenzione le parole: “Il sovraffollamento carcerario al momento attuale si configura come una sorta di tortura ambientale e rende tutto più difficile e aleatorio. Sovraffollamento e promiscuità in ambienti fatiscenti sono gli elementi di una miscela esplosiva. Le celle piene di detenuti, con letti a castello fino a rasentare il soffitto, rassomigliano sempre più a porcilaie, a canili, a polli stipati nelle stie. Umanità ammassata, promiscuità assoluta che confonde e abbrutisce, unisce e divide, distrugge ogni rispetto, riservatezza e intimità e condanna inesorabilmente a una disperata solitudine”. Inoltre, aggiunge, “in carcere continuano a entrare a ritmo incalzante tossicodipendenti, extracomunitari, disturbati mentali, emarginati sociali, una fetta di umanità ferita e debole. Ora, come era facilmente prevedibile, siamo costretti a riscontrare il dilagare del Covid tra la popolazione detenuta e tra gli agenti di polizia penitenziaria e a contare, purtroppo, i primi detenuti deceduti. Temo che esista un sommerso che supera ogni immaginazione”. Vediamo la situazione: quasi duemila i contagi tra detenuti e agenti. Il primo bollettino ufficiale del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, con i dati del 22 novembre, segnala che i detenuti positivi sono 809: 766 asintomatici, 27 sintomatici curati in carcere, 16 ricoverati. Tra il personale i positivi sono 969. Attualmente il totale di detenuti nelle carceri è in lieve diminuzione: 53.723 detenuti. Comunque troppi, per i 47 mila posti nel 192 istituti. “Amnistia e indulto”. 550 detenuti digiunano con Rita Bernardini di Angela Stella Il Riformista, 26 novembre 2020 Allo sciopero della fame per chiedere di sfollare le celle aderiscono anche i reclusi dell’Alta sicurezza di Sulmona: “Per noi nessuno farà nulla, ma almeno aiutiamo i nostri compagni”. Sono 826 detenuti e 1042 gli operatori penitenziari positivi al coronavirus. A fare il punto sulla situazione del contagio nelle carceri italiane è stato ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, rispondendo al question time alla Camera: tra i detenuti contagiati 804 sono gestiti dall’Area sanitaria interna e 22 ricoverati presso luoghi esterni di cura. Presso gli istituti minorili su 299 presenze, 3 sono i positivi al Covid 19, uno dei quali era tale già al momento del suo ingresso, ha aggiunto Bonafede che ha concluso: “Per quanto riguarda gli operatori positivi, 970 sono del personale del corpo di polizia penitenziaria e 72 fra il personale amministrativo e dirigenziale del Dap”. Dunque si registra, come nel resto d’Italia, una leggera flessione dei contagi. Tuttavia “con il virus che sembra dilagare, chiediamo alla comunità scientifica e a chi di competenza di calcolare l’indice di contagio (M) in carcere”, fa sapere Gennarino De Lazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria. A proposito di statistiche, il Ministero della Giustizia ha creato, come richiesto dal Partito Radicale, una pagina sul proprio sito dove aggiornerà settimanalmente i dati relativi ai contagi che verranno forniti dal Dap. Resta comunque la criticità che i numeri vengono pubblicati aggregati e non divisi per circuiti penitenziari. Ad analizzare la situazione con il Riformista ci pensa il Garante delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, che ci dice: “bisogna ragionare su due piani diversi: quello clinico e quello relativo agli spazi. Dal punto di vista strettamente sanitario, la situazione è da tenere sotto controllo ma è sbagliato dire che è allarmante. Tuttavia dal punto di vista degli spazi ci sono delle criticità che concernono la disponibilità di posti dove isolare i positivi o far fare la quarantena”. Infatti, a pochi giorni dall’applicazione del decreto Ristori “abbiamo registrato - aggiunge Palma - questi numeri: attualmente in cella ci sono circa 400 persone in meno rispetto a sette giorni fa, meno dell’1% del numero complessivo. È una riduzione piccola. E, soprattutto, il virus nei penitenziari cresce con un ritmo più sostenuto rispetto a quello della diminuzione di detenuti. Sarebbe necessario che i due andamenti fossero almeno uguali”. Come? “Io non sono d’accordo - ci dice il Garante - con coloro i quali parlano di ipotesi di indulto o amnistia: non ci sono le condizioni politiche. Sarebbe meglio non creare delle attese tra i detenuti che si sa che non saranno soddisfatte. Per questo come Garante abbiamo presentato degli emendamenti al decreto Ristori che vanno nella direzione di provvedimenti più incisivi, fattibili per diminuire la popolazione carceraria. Bisogna agire ad esempio sulla custodia cautelare, che è un problema anche culturale; incidere sul rinvio dell’emissione dell’ordine di esecuzione per le sentenze definitive che riguardano reati non particolarmente gravi ma risalenti nel tempo; estendere ad una platea più ampia alcune delle stesse misure che il Ministro giustamente ha promosso”. Intanto prosegue lo sciopero della fame di Rita Bernardini e Irene Testa: la presidente di Nessuno Tocchi Caino è al sedicesimo giorno di digiuno, mentre la tesoriera del Partito Radicale al dodicesimo. In mito ad aver aderito all’iniziativa nonviolenta sono 1.159 persone: 597 cittadini liberi e 552 detenuti dalle carceri di Vicenza, Genova-Marassi, Avellino, Sulmona. Proprio in quest’ultimo istituto di pena c’è un piccolo focolaio: quindici detenuti sono stati accertati positivi mentre quattro sono risultati dubbi su un totale di trentotto reclusi sottoposti al test naso-faringeo. Ma dallo stesso carcere è arrivato anche un messaggio di grande sensibilità e solidarietà: i detenuti dell’Alta Sicurezza hanno concluso la loro lettera di adesione allo sciopero della fame con queste toccanti parole: “Inutile sperare; per noi dell’Alta sicurezza è probabile che non farà niente nessuno, ma se non altro aiutiamo i detenuti comuni”. La regione comunque che sta soffrendo maggiormente rispetto al numero dei contagi in carcere è la Campania: 188 detenuti positivi di cui 105 a Poggioreale e 69 a Secondigliano; 223 i contagiati tra polizia penitenziaria, personale sanitario e amministrativo. Per questo ieri mattina, l’associazione di penalisti napoletani “Il carcere possibile Onlus” ha manifestato dinanzi al carcere di Poggioreale e al Tribunale di Napoli per chiedere simbolicamente “ai capi degli uffici indicati di chiudere il Portone d’ingresso degli istituti penitenziari partenopei ed aprire la porta d’uscita”. “Aboliamo le carceri: più che amnistia e indulto servono riforme”, la proposta di Luigi Pagano di Viviana Lanza Il Riformista, 26 novembre 2020 “Non voglio essere rivoluzionario ma per me, utopisticamente, si dovrebbe arrivare all’eliminazione del carcere che considero una pena ormai anacronistica”. Detto da un ex direttore penitenziario con 40 anni di esperienza e una carriera che lo ha portato a dirigere alcuni tra i maggiori istituti di pena italiani, ricorrendo anche ruoli di vertice all’interno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è un’affermazione che deve far riflettere. “È una mia utopia”, spiega Luigi Pagano, oggi consulente del Difensore civico della Lombardia ma per 40 anni alla guida di penitenziari come Pianosa negli anni di Piombo, Nuoro al tempo dell’omicidio di Francis Turatello, Asinara riaperto appositamente per l’isolamento del capo della Nuova Camorra Organizzata (Nco) Raffaele Cutolo, e poi Alghero, Piacenza, Brescia, Taranto fino ad approdare nel 1989 alla direzione, durata sedici anni, del carcere milanese di San Vittore e poi alla casa di reclusione di Bollate, tra le esperienze più avanzate sul piano dell’inclusione sociale dei detenuti. Natali nel Casertano e studi in Giurisprudenza a Napoli, Pagano è autore di un libro, Il direttore, che è un viaggio nelle prigioni italiane e fa di lui un testimone ma anche un protagonista della storia penitenziaria italiana, oltre che un fautore del cambiamento che il Paese non è stato ancora in grado di attuare. Perché secondo lei? “Per una lunga serie di motivi. Il problema delle carceri viene da lontano e non è mai stato affrontato seriamente. Basti pensare che la legge di riforma è del 1975 e si parla ancora di darle attuazione. Inoltre, c’è anche un aspetto culturale da considerare: la pena diversa dal carcere non è vista di buon occhio, la gente vede la condanna soltanto nella reclusione. Ci si rifà comunque e sempre al diritto penale che pure andrebbe riformato: abbiamo un codice del 1930 e questo è un grosso problema”. Oggi l’attenzione sul carcere è soprattutto legata all’emergenza Covid, tanto che si torna a chiedere amnistia e indulto... “Si continua a cercare la misura deflattiva ogni volta che c’è un’emergenza, senza pensare che tutta una serie di rimedi si hanno già con le misure alternative e con la realizzazione di carceri adeguate a detenere le persone, rispettando la Costituzione e garantendo una pena che sia in primo luogo dignitosa e consenta il reinserimento sociale. In tutti questi anni c’è stata grandissima distrazione sulle carceri e la riforma penitenziaria è stata sempre considerata di serie B. In un’epoca emergenziale come questa, bisognerebbe fermarsi un attimo, come accadde nel 2013 quando arrivò la condanna di Strasburgo per il trattamento disumano e degradante nelle carceri. Diversamente da allora, però, bisognerebbe non lasciarsi sfuggire l’occasione di ripensare veramente al carcere. All’epoca la situazione era collasso, ci furono gli Stati generali ma alla fine mentre a Roma si discuteva di come migliorarlo. Così il carcere tornò a essere quello che è sempre stato e siamo arrivati alla situazione attuale in cui, a causa del sovraffollamento e dell’emergenza Covid, si adottano misure emergenziali che lasciano il tempo che trovano perché non prevedono cambiamenti strutturali”. Quindi anche questa attuale rischia di essere un’opportunità sprecata? “Temo di sì. La politica, in 40 anni, si è disinteressata delle carceri e, quando ha avuto la possibilità di trasformarle, ha ceduto alle pressioni di chi voleva più detenzione e più pene. Ci vorrebbe invece un’idea, una visione che vada un po’ più in là, non immaginando chissà cosa ma semplicemente rispettando la Costituzione. Dove le carceri funzionano è perché la popolazione detenuta è più o meno adeguata, le strutture sono idonee e c’è la volontà di applicare la riforma penitenziaria. Se si fosse seriamente investito nell’edilizia penitenziaria, carceri come San Vittore o Poggioreale non esisterebbero più. Un altro paradosso, inoltre, è che i detenuti in questi istituti sono presunti non colpevoli, perché questi penitenziari sono case circondariali e, in quanto tali, dovrebbero detenere soltanto o in prevalenza persone imputate. Ed è evidente che persone imputate non possono essere tenute in queste condizioni”. In carcere ci sono anche bambini, quelli al seguito delle detenute madri. “Quando lavorammo all’Icam di Milano pensavamo di chiuderlo quasi immediatamente sperando di risolvere in maniera quasi totale il problema dei bambini in carcere. Invece scopriamo che i bambini sono ancora in carcere, pochi negli Icam e molti ancora negli istituti di pena. Purtroppo, spesso mancano le strutture esterne. Accade anche per tossicodipendenti, ultrasettantenni e persone malate per cui il carcere da extrema ratio diventa paradossalmente una sorta di comunità”. Torniamo alla sua utopia… “Eliminare il carcere è l’utopia. Più realisticamente credo che si possa pensare di eliminarlo gradualmente, cominciando a rispettare l’articolo 27 della Costituzione, abbandonando l’idea della galera come punizione e isolamento, riformando il codice penale, puntando sull’inclusione sociale, creando più contatti tra istituti di pena e mondo esterno”. La famiglia migliora la vita, pure in prigione di Lucio Boldrin* Avvenire, 26 novembre 2020 Nel regolamento sull’Ordinamento penitenziario (Dpr 30 giugno 2000, n. 230) si legge che “particolare attenzione è dedicata ad affrontare la crisi conseguente all’allontanamento del soggetto dal nucleo familiare, a rendere possibile il mantenimento di un valido rapporto con i figli, specie in età minore, e a preparare la famiglia, gli ambienti prossimi di vita e il soggetto stesso al rientro del contesto sociale”. Invece proprio la lontananza crea continue problematiche a moltissimi detenuti e ai loro familiari, oltre a rendere impossibile un reinserimento nel tessuto sociale di appartenenza, in violazione del principio di territorialità della pena. Ciò porta a un generale peggioramento della condotta dei reclusi, non solo nei confronti degli operatori penitenziari, ma anche dei compagni di detenzione e degli stessi familiari. Un trasferimento sgradito, per esempio, può determinare reazioni inconsulte per rabbia più o meno repressa, per umiliazione, per frustrazione. Reazioni che, analogamente, possono arrivare in seguito a un trasferimento chiesto e non ottenuto. Per questo penso che il trasferimento imposto non possa essere utilizzato come modalità di gestione dei detenuti “problematici”, ma dovrebbe rappresentare l’extrema ratio. La gestione del detenuto va piuttosto improntata al dialogo e al processo di conoscenza personale. Cosa che vedo fare, per la verità, alla maggior parte delle persone che lavorano in carcere, pur tra mille difficoltà. La valorizzazione dei rapporti con i familiari dovrebbe essere uno degli elementi fondamentali del trattamento, insieme alla possibilità di trovare un lavoro, di migliorare la propria istruzione, di praticare la propria fede religiosa e di partecipare alle attività culturali, ricreative e sportive. Ma sotto il primo profilo, da marzo scorso le limitazioni anti-Covid (prese per la salvaguardia di tutti) hanno perfino peggiorato la situazione. Non è possibile, anche quando il giudice ne veda la possibilità, trasferire un detenuto in un istituto più vicino ai propri familiari. E ciò sta creando crescenti malumori. Inoltre, fino ai primi di marzo a Rebibbia vi era l’area verde dove i detenuti potevano intrattenersi con i familiari, abbracciare le mogli, i genitori, i figli e condividere momenti di serenità. Ciò era più facile e frequente per chi abitava nel Lazio o in zone non troppo lontane. Ma con i divieti imposti dalla pandemia, sono svaniti anche quei pochi momenti che sapevano di casa. Ora vi è soltanto la possibilità di un colloquio settimanale dietro un divisorio di plexiglass, oppure di una videochiamata o di una telefonata, previa prenotazione. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Spazi d’intimità per i detenuti, occasione per ragionare sulle carceri italiane di Chiara Colangelo ultimavoce.it, 26 novembre 2020 Spazi d’intimità per i detenuti nelle carceri? La pena serve alla rieducazione e al reinserimento sociale del recluso. Il carcere deve essere una parentesi, un percorso che aiuti il reo a vivere. In tanti forse si chiedono se al Paese serve un disegno di legge che conceda ai detenuti spazi di intimità all’interno delle carceri. A nessuno sfugge la condizione in cui versa il sistema penitenziario italiano. Il sovraffollamento, le condizioni disumane e degradanti in cui sono costretti a vivere migliaia di detenuti nelle celle, la carenza del personale penitenziario. Inefficienze che nessun governo ha ancora risolto. In questi anni l’Italia ha subito diversi procedimenti di infrazione. A confermare la pessima situazione in cui versa il sistema carcerario italiano, la visita del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti e delle punizioni inumane e degradanti (CPT) che si è svolta tra il 12 e il 22 marzo 2019 e che ha condotto a un corposo report pubblicato il 21 gennaio 2020. Il CPT ha denunciato, ancora una volta, il sovraffollamento - a marzo 2019 il totale dei detenuti era di 60.611 contro 50.514 posti disponibili. La situazione, già grave, porta a un’escalation di episodi violenti tra i reclusi e tra i detenuti e il personale penitenziario. A questi si aggiungono i preoccupanti comportamenti autolesionisti di tanti carcerati, i maltrattamenti, l’assenza di relazioni interpersonali tra detenuti e agenti, l’omertà e le carenze strutturali nella sicurezza. Per non parlare, poi, della scarsa e inadeguata offerta di reinserimento sociale con proposte di lavoro, teoricamente basate su corsi e attività professionalizzanti. In tutto ciò, emerge la precarietà nella tutela della salute dei detenuti e, soprattutto, di quelli che soffrono di disturbi psichiatrici conclamati. Infine, manca un piano per la prevenzione dei suicidi nelle celle. Intanto, anche nel 2020 nulla cambierà nelle carceri italiane, costrette a fronteggiare la diffusione del contagio da Covid-19. Il disegno di legge n. 1876, norme a tutela delle relazioni affettive dei detenuti, è nato su impulso del Consiglio regionale della Toscana, e modifica la legge 26 luglio 1975 n. 354. Con il ddl si vuole permettere al detenuto di incontrare la propria famiglia, ritrovando la spinta per uscire dal carcere. Creare degli spazi d’intimità per i detenuti serve a soddisfare bisogni che influiscono sul benessere psicofisico dell’individuo. Perché è importante che non si allontanino dal mondo esterno. Come ricorda Liliana Milella su Repubblica, questo dibattito non è il primo. A causa della pandemia il ddl è stato messo da parte. E come spesso accade in Italia per le questioni sociali, c’è il rischio che la proposta si areni. Già tante volte l’idea ha fatto discutere senza mai portare a nulla. Nel 2012 il tribunale di sorveglianza di Firenze aveva deciso di rivolgersi alla Corte Costituzionale per ottenere il parere sugli spazi di intimità per i detenuti, dopo che un 60enne aveva chiesto al giudice di trascorrere qualche ora con la moglie. Il ddl prevede che vengano predisposti all’interno delle carceri degli spazi, al riparo dalla sorveglianza degli agenti e delle telecamere, dove il detenuto possa trascorrere un numero limitato di ore, da un minimo di sei a un massimo di ventiquattr’ore, con la propria famiglia: con il coniuge, il compagno o la compagna e i figli. La proposta riguarderebbe solo i detenuti che non abbiano commesso crimini violenti e coloro che non siano finiti in carcere per associazione mafiosa o terrorismo. Il ddl, che la relatrice dem Monica Cirinnà ha definito un “atto di civiltà”, amplia i permessi speciali, cambiando la definizione di “eventi familiari di particolare gravità” in “eventi familiari di particolare rilevanza”. Una modifica che dà la possibilità al detenuto di ottenere e chiedere, oltre ai permessi premio o ai permessi per eventi negativi, anche quelli per dedicare del tempo alla propria famiglia. Nel testo cambiano anche i colloqui telefonici che potrebbero svolgersi quotidianamente e, non più una sola volta alla settimana, passando da dieci a venti minuti. Il senatore della Lega Andrea Ostellari ha scritto sul suo profilo Facebook: “Sentite questa, con tutti i problemi che hanno gli italiani, in commissione giustizia stiamo perdendo tempo, perché il Pd vuole gli “appartamenti dell’amore” nelle carceri, per garantire ai detenuti adeguati rapporti intimi”. Ostellari è stato smentito. La commissione giustizia infatti - scrive Pagella Politica - ha dedicato circa due ore alla discussione del ddl su cui sarà il Parlamento a esprimersi votando articolo per articolo. Né i leghisti né gli esponenti di Fratelli d’Italia digeriscono l’idea che un detenuto possa tornare ad abbracciare la propria famiglia, che possa fare sesso con il coniuge, con la compagna o il compagno. L’Italia deve confrontarsi con la Norvegia, la Danimarca, l’Austria, la Germania, l’Olanda, la Svezia dove ai detenuti condannati a pene particolarmente lunghe è concesso del tempo da trascorrere in intimità con la famiglia. Una manciata di ore di privacy prima di rientrare in cella. Le sperimentazioni sono iniziate nel 2012 in Belgio e in Francia. Lo Stato ha messo a disposizione degli appartamenti senza telecamere di sorveglianza e agenti, tenuti a stare all’esterno, dove il detenuto trascorre 48 ore con i familiari. Si sono poi aggiunte la Croazia e l’Albania, qui i reclusi hanno il diritto di passare quattro ore in completa intimità. I problemi strutturali del sistema penitenziario italiano non possono essere risolti né con un tratto di penna né con una seduta parlamentare né infine con un solo atto del governo. Lacune e inefficienze sono il frutto della incuria e dello scarso interesse politico. Anche se ricorderete tutti le battaglie di Marco Pannella con i Radicali sui penitenziari. Nel sostenere la importanza degli spazi d’intimità per i detenuti nelle carceri non si deva mai dimenticare l’emergenza che si sta consumando nelle carceri. Non fa bene al Paese che si apra una parentesi fulminea sulle questioni sociali senza poi concretizzare nulla. Non ci sono dubbi, il dibattito sulla tutela delle relazioni affettive dei detenuti è più di un atto di civiltà. È la misura del progresso di una società. Si torni dunque a parlare delle carceri, una volta per tutte con l’idea di ridare dignità piena ai reclusi, rimodulando la pena sulle responsabilità dell’individuo. Che lo Stato ponga fine all’idea oscurantista di chi crede che i detenuti siano solo dei reietti. Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra i motivi che spingono gli uomini anche alle più sublimi operazioni, furono destinati dall’invisibile legislatore il premio e la pena, dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà quella tanto meno osservata contradizione, quanto più comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere. Udienze rinviate e processi da remoto. I guai della Giustizia ai tempi del virus di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 26 novembre 2020 Non siamo alla paralisi di marzo, ma anche la seconda ondata del Covid sta mettendo a dura prova un organismo fragile come la giustizia italiana. Mentre il processo amministrativo regge con il ripristino delle udienze da remoto, penale e civile hanno ridotto l’attività. Udienze rinviate fino a un anno e mezzo, arretrato che si accumula. Ieri hanno protestato i penalisti. A Napoli contro la prenotazione obbligatoria via mail per accedere in tribunale. A Milano contro la celebrazione, introdotta dal decreto ristori bis, di processi di appello con scambi di memorie scritte (senza udienza) e camere di consiglio da remoto (giudici a casa, via web). In realtà in questa fase la linea Bonafede non dispiace agli avvocati: in primo grado no al processo da remoto, in appello e Cassazione solo con consenso delle parti. Però si oppongono alle camere di consiglio da casa, “mentre i giudici girano il sugo” è la battuta più in voga, anche tra magistrati. Per due motivi: violazione della segretezza e sentenza sostanzialmente affidata a un solo giudice, perché nel penale il fascicolo è ancora cartaceo ed è impossibile farne più copie. Più delusi i magistrati. Temono i contagi perché distanziamento e sanificazione funzionano nelle aule, ma non negli spazi comuni dei tribunali. Nell’ultimo incontro con il ministro la Anm ha chiesto, invano, più processi da remoto. Anche in primo grado, dove talvolta le discussioni durano dieci minuti tra requisitoria e arringa. E senza consenso degli avvocati. Ma c’è la resistenza dei sindacati dei cancellieri, che rifiutano le mansioni di assistenza informatica. Accessi, verifiche, collegamenti, malfunzionamenti delle piattaforme sono tutt’altro che un clic, soprattutto nei processi con molte parti. Peraltro ai cancellieri, per ragioni di sicurezza informatica, è vietato lavorare da remoto anche se in smart working. Di pc abilitati ne sono arrivati alcune migliaia, ma ne servirebbero almeno il doppio. Ancor più complicata la situazione nel civile. Delle tre modalità di udienza previste, due sono problematiche. L’udienza fisica richiede un’aula adeguata, ma le stanze dei giudici civili lo sono raramente. I medici responsabili della sicurezza nei tribunali individuano spazi che rispettano le norme sanitarie. A Torino, per dire, due aule per tutti. Per molti processi appuntamento a fine 2021. L’udienza da remoto ha altre controindicazioni: nei tribunali i computer dei giudici sono generalmente sprovvisti di webcam, per non dire del traballante wifi. Per cui i magistrati hanno chiesto di poter svolgere le udienze da casa. Dove però c’è il problema del fascicolo ormai digitale. Non potendo stampare migliaia di pagine, studiarle su un pc portatile è scomodo. Quanto sia sentito il problema è testimoniato dal fatto che le parcelle degli avvocati sono maggiorate del 30% se negli atti inseriscono i collegamenti ipertestuali, evitando al giudice di dover cercare decine di file. Gran parte delle udienze, quindi, si svolge in modalità “figurata”: vengono fissate una data e un’ora (talvolta anche a mezzanotte) ma in realtà ci si scambiano gli atti via mail. Che per alcuni è privata, perché i giudici di pace non hanno la pec. Problema: il codice non prevede l’udienza figurata. La scorsa settimana è andata in tilt la piattaforma informatica, quindi era impossibile depositare gli atti. Gli avvocati hanno chiesto più tempo, ma alcuni giudici l’hanno negato perché avrebbero potuto farlo in cartaceo in cancelleria. Così dice il codice. Peccato che le cancellerie chiudano a metà mattinata e accettino solo accessi con prenotazioni. L’appello ai media sui femminicidi: “Basta narrazioni che legittimano la violenza” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 26 novembre 2020 Da stamattina sul mio computer appaiono una serie di email tutte uguali dal titolo: “Vergogna”, “Basta narrazioni violente”, “Adesso dovete ascoltarci”. È l’iniziativa di sensibilizzazione dei media che troppo spesso scrivono articoli di cronaca in cui il femminicida di turno viene descritto come “un buon padre di famiglia”, “grande lavoratore”, “distrutto dalla separazione” quasi a giustificare il suo gesto. Mi associo alla protesta e pubblico il testo integrale dell’appello. Noi giornalisti siamo in prima linea nel raccontare la violenza di genere, è importante pesare le parole e rendersi conto che ognuno di noi può aiutare a fermare la strage delle donne. Ieri 25 novembre, in occasione della giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne e contro le violenze di genere la vostra redazione è sotto attacco! Questo è un attacco costruito dal basso e diretto a tutte quelle persone e istituzioni che sfruttano il loro ruolo per veicolare notizie e narrazioni che legittimano le violenze di genere, con un modo di fare giornalismo che colpisce sempre noi donne, ci ferisce e ci uccide una seconda volta. Da sempre femminicidi, stupri, abusi, episodi di diffusione non consensuale di immagini, vengono romanticizzati e narrati con toni di finta tragicità. Questa spettacolarizzazione normalizza la violenza che subiamo ogni giorno, rende protagonista chi abusa e uccide descrivendolo con toni affettuosi - come “il gigante buono”, il manager di successo”, “il padre amorevole”, “il brav’uomo ferito” - e dipinge come colpevole - perché “troppo ubriaca”, “troppo provocante” o perché “decisa a interrompere una relazione” - chi la subisce. La narrazione dei femminicidi come “dramma familiare” o “raptus di gelosia” giustifica la violenza, riducendola ad un fenomeno episodico. Le parole dei giornali costruiscono delle attenuanti e hanno delle ricadute enormi nel modo in cui viene percepita la violenza maschile sulle donne in un Paese in cui una donna ogni tre giorni viene uccisa per mano di un uomo. Finché non vi smarcherete da questo modo di fare giornalismo, sarete voi, in prima persona, i complici della cultura dello stupro e della violenza che combattiamo ogni giorno. Oggi siete sotto attacco perché vogliamo rispedire questa narrazione tossica e violenta al mittente. Vogliamo dire Basta, noi non ci stiamo e puntiamo il dito pubblicamente contro di voi! Vogliamo un mondo libero dalla violenza maschile e di genere. Vogliamo un cambiamento strutturale che non può prescindere da un’informazione che non supporti e non occulti la matrice culturale della violenza, che non protegga lo stupratore, che non legittimi il femminicida e che non dipinga come colpevole chi subisce violenza. Vogliamo un’informazione che sia piattaforma di denuncia e non di legittimazione della violenza. In questo attacco vi bombardiamo con il Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere dell’informazione: condividendone i 10 punti ritenuti prioritari per la costruzione di un’informazione responsabile e consapevole del fenomeno della violenza di genere. Ve lo invieremo allo sfinimento fino a quando non deciderete di applicarlo! Questo è solo l’inizio! Marianna Manduca, i figli saranno risarciti. Conte: “Lo Stato mette fine a un’ingiustizia” di Silvia Morosi Corriere della Sera, 26 novembre 2020 La donna fu assassinata a 32 anni nel 2007 dal marito dopo aver denunciato per 12 volte le violenze subite dall’uomo. Il premier cita Aldo Moro: “Uno Stato non è veramente democratico se non ha come fine supremo la dignità”. Lo Stato risarcirà i figli di Marianna Manduca, uccisa a 32 anni nel 2007 a Palagonia (Catania) dal marito. A dare l’annuncio il premier Giuseppe Conte, in occasione dell’evento organizzato in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre. “Lo Stato deve avere il coraggio di ammettere i propri errori e assumersi le conseguenze. Farlo significa anche tutelare la dignità di una persona vittima di violenza”, ha detto Conte. “È una storia di ordinaria ingiustizia”, ha aggiunto. Manduca fu uccisa dopo 12 denunce per le violenze subite rimaste senza alcun seguito. La battaglia legale - Dopo una lunga battaglia legale, nell’aprile di quest’anno, è stato accolto dalla Cassazione il ricorso dei tre figli della donna contro la sentenza d’Appello che aveva negato loro il diritto a 259mila euro di risarcimento per la mancata tutela della loro mamma da parte dello Stato. “Eccessiva frammentazione dei fatti” e un “percorso argomentativo in contrasto con le regole che governano l’accertamento” del concatenarsi degli eventi nel ricostruire il “caso Manduca” sono i motivi per i quali la Cassazione ha bocciato la decisione presa dalla Corte di Appello di Messina, il 19 marzo 2019, di revocare l’indennizzo per danno patrimoniale. La citazione di Aldo Moro - “Ha lasciato tre figli ancora minorenni che hanno passato un calvario giudiziario per vedere riconosciuti i loro diritti - ha detto il premier. A Carmelo, Stefano e Salvatore dico che certo non riavranno più la loro mamma, “giovane e bella” ma lo Stato sottoscriverà un accordo transattivo che riconoscerà loro non solo di poter conservare una somma che era stata riconosciuta alla loro mamma” che aveva denunciato le violenze subite, “ma gli riconoscerà anche una cospicua somma a titolo di danno non patrimoniale”. E citando Aldo Moro, ha aggiunto: “Uno Stato non è veramente democratico se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana. Lo Stato deve avere il coraggio di riconoscere i propri errori e trarne tutte le conseguenze assumendosi tutta la responsabilità. Una donna vittima di violenza non deve mai provare vergogna, mai più sentirsi sola”. “Una notizia bomba” - “Questa è una notizia bomba per me, non ne sapevamo nulla”. Così Carmelo Calì commenta le parole di Conte. Calì è il cugino di Manduca che insieme alla moglie ha adottato i tre figli della donna uccisa. “Il preside Conte ci ha messo la faccia, non me l’aspettavo, mi ha sorpreso”. Covid-19, legittimo il decreto “antiscarcerazioni” di Simone Marani altalex.com, 26 novembre 2020 La disciplina non abbassa i doverosi standard di tutela della salute dei detenuti, compresi quelli soggetti al regime penitenziario ex art. 41-bis (Corte cost., sentenza 245/2020). La disciplina del cosiddetto “decreto antiscarcerazioni”, così come integrato dalla legge n. 70 del 2020, non abbassa in alcun modo i doverosi standard di tutela della salute del detenuto, garantiti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo anche nei confronti dei condannati ad elevata pericolosità sociale, compresi quelli sottoposti al regime penitenziario del 41-bis. Questo è quanto emerge dalla sentenza 24 novembre 2020, n. 245 della Corte Costituzionale. La Corte Costituzionale ha, infatti, ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 5 del D.L. 10 maggio 2020, n. 29 (Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, di persone detenute o internate per delitti di criminalità organizzata di tipo terroristico o mafioso, o per delitti di associazione per delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa o con finalità di terrorismo, nonché detenuti e internati sottoposto al regime previsto dall’art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, nonché, infine, in materia di colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati), così come trasfusi nell’art. 2, comma 2-bis del D.L. 30 aprile 2020, n. 28 (Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19), convertito, con modificazioni, nella L. 25 giugno 2020, n. 70, sollevate in riferimento agli artt. 3, 24, comma 2, 32 e 111 Cost. È da ritenere illegittimo il “decreto antiscarcerazioni” in presenza di una situazione di grave emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo attualmente? Secondo i giudici delle leggi no, in quanto l’intento del legislatore è stato quello di imporre ai giudici che abbiano concesso la detenzione domiciliare in surroga o il differimento della pena ex art. 147 c.p. per ragioni connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19, l’obbligo di periodiche e frequenti rivalutazioni della persistenza delle condizioni che hanno giustificato la concessione della misura, sulla base anche della documentazione che la disposizione censurata impone loro di acquisire. Ciò al fine di verificare a cadenze temporali ravvicinate, durante l’intero corso della misura disposta, la perdurante attualità del bilanciamento tra le imprescindibili esigenze di salvaguardia della salute del detenuto e le altrettanto pressanti ragioni di tutela della sicurezza pubblica, poste in causa dalla speciale pericolosità sociale dei destinatari della misura. Ciò precisato, in nessun luogo della disposizione censurata emerge la prospettiva di un affievolimento della tutela della salute del condannato, sottolineandosi, anzi, nel comma 2 dell’art. 2-bis, la necessità di verificare, quale presupposto della revoca, l’effettiva disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui il condannato possa riprendere la detenzione o l’internamento senza pregiudizio per le sue condizioni di salute. In definitiva, la nuova disciplina non abbassa in alcun modo i doverosi standard di tutela della salute del detenuto, imposti dall’art. 32 Cost., e dal diritto internazionale dei diritti umani anche nei confronti di detenuti ad elevata pericolosità sociale, compresi quelli sottoposti al regime penitenziario di cui all’art. 41-bis ord. pen.; né intende in alcun modo esercitare pressioni indebite sul giudice che abbia in precedenza concesso la misura, mirando unicamente ad arricchire il suo patrimonio conoscitivo sulla possibilità di opzioni alternative intramurarie o presso i reparti di medicina protetti in grado di tutelare egualmente la salute del condannato, oltre che sulla effettiva pericolosità dello stesso, in modo da consentire al giudice di mantenere sempre aggiornato il delicatissimo bilanciamento sotteso alla misura in essere, alla luce di una situazione epidemiologica in continua evoluzione. Occorre sempre tutelare in modo pieno ed effettivo la salute dei condannati, ma è evidente che il bilanciamento con le pure essenziali ragioni di tutela della sicurezza collettiva contro il pericolo di ulteriori attività criminose dovrà essere effettuato con particolare scrupolo da parte del giudice, sulla base di una piena conoscenza dei dati di fatto che gli consentano di valutare se, e a quali condizioni, sia possibile il ripristino della detenzione, in modo comunque idoneo alla tutela della loro salute. La Corte ha ritenuto che la disciplina non violi nemmeno il diritto di difesa del condannato. La legge sull’ordinamento penitenziario, infatti, da tempo affida al Magistrato di sorveglianza il compito di anticipare, in situazioni di urgenza, i provvedimenti definitivi del Tribunale di sorveglianza sulle istanze di concessione di misure extra murarie per ragioni di salute, sulla base anche di documentazione acquisita direttamente dal magistrato e non conosciuta dalla difesa. La stessa situazione si verifica oggi nel procedimento di rivalutazione disciplinato dalla normativa ora in esame, funzionale ad attribuire al magistrato la possibilità di revocare in via provvisoria e urgente la detenzione domiciliare già concessa, in modo da mantenere sempre aggiornato il bilanciamento tra l’imprescindibile esigenza di proteggere la salute del detenuto e le altrettanto fondamentali ragioni di tutela della sicurezza pubblica, legate alla particolare pericolosità di questa tipologia di detenuti. Sempre secondo la Corte, il diritto di difesa del condannato potrà poi esplicarsi pienamente nell’ambito del procedimento davanti al Tribunale di sorveglianza, destinato a concludersi nei trenta giorni successivi all’eventuale provvedimento di revoca, nel quale il difensore avrà completa conoscenza dei documenti e dei pareri acquisiti. Lesioni gravi, promossa (a metà) la procedibilità solo d’ufficio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2020 La Consulta invita comunque il legislatore a ripensare la materia. Discutibile l’esclusione della querela di parte nei casi meno gravi. Sulle condizioni di procedibilità per il reato di lesioni stradali gravi e gravissime il legislatore dovrebbe ripensarci. La procedibilità d’ufficio, infatti, oggi prevista sempre e comunque, non è irragionevole e tuttavia presenta elementi di criticità che andrebbero attentamente valutati. Queste le problematiche conclusioni della Corte costituzionale con la sentenza n. 248, depositata ieri e scritta da Francesco Viganò. La sentenza, prende in esame una serie di questioni sollevate da una pluralità di giudici, ma si sofferma in particolare sui profili di criticità sollevati dal tribunale di Pisa. Per quest’ultimo infatti la disciplina attuale, articolo 590 bis del Codice penale, escludendo la possibilità di procedere a querela nei casi di lesioni diversi da quelli previsti dal comma 2 bis, che delinea la circostanza aggravante della guida di un veicolo a motore sotto effetto di alcol o droghe, sarebbe in conflitto con l’articolo 3 della Costituzione. A venire così istituito è infatti un trattamento diverso, rispetto alle lesioni gravi o gravissime commesse nell’esercizio della professione sanitaria, oltretutto irragionevole perché impedisce di distinguere tra condotte gravi e meno gravi. La Consulta, quanto alla differenza di trattamento rispetto all’attività sanitaria, ritiene “non privo di giustificazione” il diverso regime di procedibilità. Questo si pone, infatti, ricordala sentenza in linea di continuità con interventi che si sono succeduti nel tempo, con il comune denominatore di delimitare l’ambito di responsabilità degli operatori sanitari rispetto ai criteri che si possono applicare alla generalità dei reati colposi, per evitare il fenomeno della medicina difensiva, con spreco di risorse pubbliche e nessun beneficio per la tutela della salute. È vero però che le ipotesi base del delitto di lesioni stradali colpose sono caratterizzate da minore disvalore sul piano della condotta e del grado della colpa. Possono interessare, tra l’altro, non solo chi guida un veicolo a motore ma anche i ciclisti. La trasgressione di qualsiasi norma del Codice della strada, diversa da quella di chi si assume rischi irragionevoli sotto l’assunzione di sostanze, può poi interessare agli utenti della strada più esperti. “Inoltre - sottolinea la pronuncia - a fronte di condotte consistenti in occasionali disattenzioni, pur se produttive di danni significativi a terzi, potrebbe discutersi dell’opportunità dell’indefettibile celebrazione del processo penale a prescindere dalla volontà della persona offesa, specie laddove a quest’ultima sia stato assicurato l’integrale risarcimento del danno subito; e ciò anche a fronte dell’esigenza - di grande rilievo per la complessiva efficienza della giustizia penale - di non sovraccaricare quest’ultima dell’onere di celebrare processi penali non funzionali alle istanze di tutela della vittima”. Tuttavia la conclusione della Corte è che la fondatezza di molti degli elementi critici, alla base peraltro di diverse proposte di legge in Parlamento, non è di portata tale da condurre a travolgere con l’illegittimità la regola di procedibilità. Del resto, ricorda ancora la Consulta, la previsione della procedibilità d’ufficio si iscriveva nel quadro di un intervento più ampio, indirizzato a sanzionare in maniera più severa condotte in grado di compromettere seriamente l’altrui incolumità. Starà allora alla discrezionalità del legislatore un intervento in grado di ovviare ai profili critici che, pur non configurandosi come vizi di manifesta irragionevolezza, suggeriscono “una complessiva rimeditazione sulla congruità dell’attuale regime di procedibilità”. Alcool al volante. La recidiva scatta anche se la messa alla prova è positiva di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2020 L’estinzione del reato di guida in stato di ebbrezza per esito positivo della messa alla prova può essere valutata dal giudice come “recidiva stradale” idonea a far scattare la revoca della patente di guida. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, quarta sezione penale, con la sentenza 32209/202o, depositata lo scorso i7 novembre. Il caso nasce dall’impugnazione di un imputato che aveva patteggiato la pena, condizionalmente sospesa, di un mese e io giorni di arresto e 60o euro di ammenda, per il reato di guida in stato di ebbrezza. Il giudice accoglieva la richiesta di pena come da accordo tra le parti e disponeva, a titolo di sanzione accessoria, la revoca della patente di guida, visto che al conducente due anni prima era stato contestato il reato di guida sotto effetto di sostanze stupefacenti. Per quest’ultimo procedimento, però, il giovane aveva chiesto la sospensione del processo con richiesta di messa alla prova che era ancora pendente. Contro la sentenza faceva ricorso per cassazione l’imputato, deducendo la mancata sussistenza della recidiva per due motivi. Il primo perché il processo per guida sotto effetto di sostanze stupefacenti era ancora in corso, visto che la messa alla prova non era ancora stata conclusa; il secondo perché l’esito positivo della messa alla prova avrebbe estinto il reato e quindi la sentenza di proscioglimento non avrebbe potuto essere valutata come recidiva stradale. Il caso offre importanti spunti per chiarire due rilevanti aspetti dei reati stradali. Intanto, secondo la Cassazione. l’estinzione del reato a seguito della messa alla prova non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie che devono essere applicate dal prefetto, previo accertamento della sussistenza delle condizioni di legge, a seguito del ricevimento della sentenza penale di estinzione del reato. A questo risultato, la Corte arriva considerando che per i reati previsti dal Codice della strada non si può parlare di recidiva in senso tecnico-giuridico, ai sensi dell’articolo 99 del Codice penale. Questa norma si riferisce ai delitti non colposi e deve essere sempre espressamente contestata. Quella prevista dal Codice della strada è invece una mera ripetizione, entro un arco di tempo determinato, di un illecito che rileva sul piano amministrativo, tramutando la sanzione della sospensione in quella, più afflittiva, della revoca della patente. Il secondo spunto offerto dalla Cassazione con la sentenza 32209/2020 è che la recidiva non può essere contestata se i reati sono diversi e la prima sentenza non è ancora passata in giudicato. Nel caso di specie, infatti, la revoca della patente è stata comunque annullata perché i reati contestati erano diversi e il primo processo era ancora pendente. Per questo motivo la Corte di cassazione annulla la sentenza e rinviagli atti al Tribunale per la determinazione della durata della sospensione della patente di guida. Sicilia. Coronavirus in carcere: ecco tutti i numeri di Nicola Baldarotta livesicilia.it, 26 novembre 2020 Il punto sul contagio e gli istituti penitenziari siciliani. La situazione dei contagi dentro le carceri siciliane, alla data odierna, non sembra creare particolari allarmi. I protocolli sanitari prescritti a livello nazionale dal Presidente del Dap, Dino Petralia, e rivisti da Cinzia Calandrino, dirigente generale del Prap Sicilia, la quale ha trasmesso il protocollo a tutti gli istituti penitenziari siciliani, hanno fatto sì che il contagio fosse davvero contenuto. I casi di positività al Sars-Cov 2 sono davvero limitati e soprattutto seguiti come si deve: dall’uso massiccio di mascherine sia per il personale che per i detenuti, alla costante sanificazione dei reparti. A queste principali misure di sicurezza, in diverse case di reclusione, va aggiunta la creazione di reparti ad hoc dove vengono sistemati provvisoriamente i detenuti positivi ma asintomatici, i quali vengono seguiti direttamente dalle ASP provinciali. La situazione più drammatica è stata, sinora, al carcere Pagliarelli di Palermo ma grazie al massiccio numero di tamponi rapidi messi a disposizione dall’assessore regionale alla sanità, Ruggero Razza, è stato possibile avviare un capillare screening (soprattutto del personale di polizia penitenziaria) che ha consentito il contenimento del contagio. Il Provveditorato Regionale sta guardando con attenzione, in questi giorni, la situazione nelle carceri di Catania ed Enna. Sono 107, alla data del 21 novembre, i detenuti nelle 23 carceri siciliane, che sono stati posti in isolamento precauzionale. Si tratta, nella gran parte dei casi, di detenuti che sono rientrati in carcere dopo un permesso esterno e, per precauzione, sono stati posti in isolamento in attesa di tampone come prevedono le norme di sicurezza anti covid-19. Questi 107 detenuti, sinora, sono tutti asintomatici. Ma nelle carceri siciliane ci sono comunque 19 detenuti trovati positivi al Covid 19. Sono invece 51 gli agenti di polizia penitenziaria asintomatici che, attualmente, si trovano a casa in via precauzionale (poiché, ad esempio, sono venuti in contatto all’esterno con persone positive al Covid) e 24, invece, sono attualmente quelli fuori servizio perché sintomatici. Nello specifico, per quanto riguarda i detenuti: Casa Circondariale di Agrigento: 12 in isolamento, di questi 3 erano già presenti in istituto e 9 provenienti dall’esterno. Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa di reclusione di Augusta: nessun detenuto in isolamento precauzionale. Casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto: 11 in isolamento, di questi 12 già reclusi e 1 proveniente dall’esterno. A questi vanno aggiunti 2 positivi accertati Casa circondariale di Caltagirone: 2 in isolamento, di questi 1 già presente all’interno del carcere e 1 trasferito da altro istituto penitenziario. Nessun positivo alla data odierna. Casa circondariale di Caltanissetta: 5 in isolamento (2 provenienti dall’esterno, 2 trasferiti da altro istituto e 1 già presente). Nessun positivo alla data odierna. Casa circondariale di Castelvetrano: nessun detenuto in isolamento precauzionale. Casa circondariale di Catania Bicocca: 6 detenuti in isolamento in attesa di tampone e 2 riscontrati positivi. Casa circondariale di Catania Piazza Lanza: 8 positivi riscontrati. Casa circondariale di Enna: 5 detenuti in isolamento precauzionale (tutti già reclusi). 1 positivo al Covid 19. Casa di reclusione di Favignana: 1 detenuto in isolamento precauzionale proveniente da altro istituto. Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa circondariale di Gela: 4 detenuti in isolamento precauzionale (3 interni e uno proveniente dall’esterno). Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa circondariale di Giarre: 6 detenuti in isolamento precauzionale (1 già reclusi e 5 provenienti dall’esterno). Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa circondariale di Messina: 6 detenuti in isolamento precauzionale (tutti già reclusi). Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa di reclusione di Noto: 3 detenuti in isolamento precauzionale (tutti e tre nuovi reclusi). Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa circondariale di Palermo (Pagliarelli): 26 detenuti in isolamento precauzionale (4 già reclusi e 22 nuovi ingressi). Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa di reclusione di Palermo (Ucciardone): 2 detenuti in isolamento precauzionale (entrambi nuovi ingressi). Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa circondariale di Piazza Armerina: nessun detenuto in isolamento precauzionale Casa circondariale di Ragusa: 3 detenuti in isolamento precauzionale (già reclusi). Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa di reclusione di San Cataldo: 1 detenuto in isolamento precauzionale (nuovo ingresso). Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa circondariale di Sciacca: 2 detenuti in isolamento precauzionale (provenienti da permesso per l’esterno). Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa circondariale di Siracusa: 5 detenuti in isolamento precauzionale (già presenti nell’istituto). Un caso Covid accertato. Casa circondariale di Termini Imerese: 2 detenuti in isolamento precauzionale (tutti nuovi arrivi). Nessun positivo accertato alla data odierna. Casa circondariale di Trapani: 5 detenuti in isolamento precauzionale (3 nuovi arrivi, 1 proveniente dall’esterno e 1 già recluso). Nessun positivo accertato alla data odierna. Liguria. Covid nelle carceri, Pastorino (Linea Condivisa): “Numeri preoccupanti” lanuovasavona.it, 26 novembre 2020 Linea Condivisa e il Capogruppo in Consiglio regionale Gianni Pastorino tornano sul tema delle carceri, dopo aver ottenuto, nel corso della scorsa Legislatura, l’approvazione della legge che istituisce il Garante dei Detenuti. Pastorino ricorda: “Nella scorsa Legislatura sono stato più volte in carcere per verificare le condizioni degli Istituti di pena e lo stato di vivibilità sia per i detenuti sia per il personale. La situazione in Liguria è complessa e difficile e ha avuto, soprattutto nel carcere di Marassi, un sovraffollamento e una condizione logistica particolarmente difficile”. “Per questo oggi andrò di nuovo in carcere, unitamente all’Avvocato Ballerini, con cui avevamo già fatto un sopralluogo a settembre. È importante - continua il Consigliere Pastorino - prendere cognizione delle condizioni del carcere di Marassi in una situazione come quella che stiamo vivendo da pandemia da Covid-19: al 30/10/2020 risultavano presenti in tutti gli Istituti di pena liguri 1439 detenuti, per una capienza prevista di 1049 posti. La situazione più grave si registrava nell’Istituto di Marassi con 708 presenti su 450 posti regolamentati, non solo, ma sempre nello stesso carcere, al 07/11/2020 postiti al Covid-19, come comunicato dalla Direttrice, risultavano 11 detenuti, di cui uno ricoverato, e 12 tra agenti e personale. Nell’Istituto di Pontedecimo risultavano 6 detenuti positivi e alcuni agenti positivi”. Dato questo quadro il Consigliere Pastorino, per Linea Condivisa, in data 20/11/2020 ha depositato una mozione, con la quale “impegna il Presidente della Giunta regionale a prevedere alcune azioni, come quella di fornire dati precisi sui contagi Istituito per Istituto, screening per detenuti e personale, distribuzione di dpi per personale medico e agente, verificare le condizioni sia in cui si svolge l’isolamento fiduciario, sia per l’isolamento sanitario, e interventi di sanificazione, dove non sono stati effettuati”. “Come nella passata Legislatura, come Consigliere regionale e come Linea Condivisa saremo particolarmente attenti e operativi sul tema dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà”. Busto Arsizio. Morto detenuto, sospetto Covid di Angela Grassi La Prealpina, 26 novembre 2020 Risultato negativo a due tamponi, aveva la febbre da domenica. Inutile la corsa in ospedale. Per tutta la giornata si è parlato di “sospetto Covid”. In serata, ai familiari è stato riferito che in ospedale era stata verificata la positività al coronavirus. Se questo venisse confermato, ci sarebbe un detenuto del carcere di Busto Arsizio deceduto a causa della pandemia, pur non appartenendo al focolaio di 22 reclusi reso noto giorni fa. L’allarme in via Per Cassano è scattato ieri alle 8, quando un agente di polizia penitenziaria si è reso conto che il 53enne non avesse ritirato la colazione. Entrato in cella, l’agente ha scosso il detenuto, che non dava segni di vita. L’arrivo di medico e ambulanza ha permesso di utilizzare il defibrillatore. Stando a quanto riferiscono in carcere, il battito sarebbe ripreso. Via, dunque, d’urgenza in ospedale, dove più tardi è stato constatato il decesso. Ora sarà l’autopsia a chiarire le reali ragioni della morte, anche perché il detenuto era alle prese con diversi problemi di salute a prescindere dal Covid. “Si trovava inizialmente in una delle due sezioni in cui, venerdì 13 novembre, erano stati fatti i primi tamponi ed era emerso un focolaio con 22 reclusi positivi - spiega il direttore Orazio Sorrentini - Lui non era tra quelli, era negativo, ed era stato spostato con altri messi in isolamento in attesa del secondo tampone, per sicurezza. Tra domenica e lunedì aveva iniziato ad avere febbre, salita poi a 38,5° così gli è stato fatto un tampone rapido, che è risultato negativo. È stato spostato in una piccola sezione dove accogliamo i sintomatici negativi. Il mattino dopo, quando avrebbe dovuto essere sottoposto a test molecolare, il malore che gli è stato fatale”. Nella casa circondariale, la regola è di ripetere il secondo tampone 14 giorni dopo il primo. La scadenza era fissata a venerdì 27 novembre. Ieri, purtroppo, il tampone è stato effettuato su un corpo senza più vita. “Era in cella da solo, non si è alzato, il poliziotto si è insospettito e ha notato che non si muoveva - continua Sorrentini. Dopo l’uso del defibrillatore ha ripreso a respirare ma non ha mai ripreso conoscenza. L’ambulanza lo ha portato in ospedale alle 8.40, il decesso ci è stato comunicato alle 11.20. Possiamo parlare di sospetto Covid, visto che lui si trovava in una sezione in cui è nato il primo focolaio. Aveva tanti problemi di salute, se è stato il virus a stroncarlo è perché si è fatto largo in un fisico già debole”. L’uomo, condannato per concorso in omicidio, era in cella da 8 anni, da quando ne aveva 45. Sarebbe dovuto uscire nel 2040. “Manteneva un comportamento esemplare - racconta il direttore - Aveva fatto il bibliotecario e qui era gentile con tutti, averne di detenuti così, dialogante e collaborativo”. Roma. Muore in cella di polmonite, 4 mesi al medico di Rebibbia di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 26 novembre 2020 L’uomo non era stato visitato, curato solo con antinfiammatori. Visite sbrigative, una polmonite non diagnosticata e la morte in carcere, al reparto G11 di Rebibbia. A sette anni dalla morte di Danilo Orlandi, il trentenne di Primavalle con sei mesi da scontare e una bambina di 9 anni da crescere, è stato individuato un responsabile. Ieri la Corte di appello di Roma, ribaltando la sentenza di primo grado, ha condannato per omicidio colposo uno dei medici in servizio a quattro mesi di carcere e al pagamento di una provvisionale di cinquantamila curo per i familiari. Confermata l’assoluzione invece per la collega, così, come stabilito in primo grado. Danilo Orlandi morì il primo giugno del 2013 dopo pochi giorni di febbre alta, pallore, tachicardia Malanni che avrebbero dovuto essere letti con maggiore attenzione, secondo il pm Mario Ardigò. Invece venne visitato sporadicamente, curato con aspirine e antinfiammatori e attraverso colloqui, durante l’ultima settimana in cui si trovava in isolamento per problemi disciplinari. Uno stato di emarginazione che, di fatto, aveva impedito ai sanitari di accorgersi di quanto stava accadendo. Dal diario clinico era risultato anche che nelle visite del 27, il 28 e il 29 maggio il detenuto non era stato nemmeno palpato tanto che, secondo la procura, non vennero rilevati per negligenza, i sintomi tipici specifici di una polmonite alveolare bilaterale batterica. Non risultano visite il 31 maggio, il giorno prima della morte. Proprio il giorno in cui la madre del ragazzo, Maria Brito, assistita nella battaglia legale dall’avvocato Stefano Maccioni, aveva visitato il figlio trovandolo febbricitante e debilitato. Eppure tutti i bollettini medici degli ultimi giorni di vita di Danilo avevano concluso che non ci fosse “nessun fatto acuto da riferire”. Così le cure si erano basate su prodotti anti-infiammatori o analgesici, come Aulin, Ketoprofene e Randitina, al massimo l’antibiotico Augmentin. Niente di specifico per curare la grave forma di polmonite. Intanto, a settembre, è stato assolto l’allora direttore sanitario del carcere, Luciano Aloise. Era finito indagato con l’accusa di aver permesso la prassi delle visite lampo. Napoli. “Aprite le porte per evitare la morte”, manifestazione davanti al Tribunale di Rossella Grasso Il Riformista, 26 novembre 2020 Gli ultimi dati giunti raccontano di circa 827 detenuti positivi al Covid in 76 istituti di pena e 1.019 agenti in 139 istituti. Risulta che il virus abbia raggiunto anche quelle sezioni del 41 bis che - secondo quanto riferito dal Ministro della Giustizia e da alcuni Procuratori della Repubblica durante la prima ondata dell’epidemia - erano da considerarsi luoghi sicuri. Il virus non si è fermato neppure dinanzi ad alcuni di quei bambini che purtroppo crescono dietro le sbarre seguendo il destino delle loro madri. Il problema del sovraffollamento delle carceri impedisce o limita drasticamente ogni tentativo di porre un argine al dilagare della pandemia. È questa la denuncia che da mesi stanno portando avanti i garanti dei detenuti, le associazioni e i parenti dei detenuti che ora chiedono misure immediate e concrete per far uscire dal carcere gli anziani, chi ha problemi di salute e fine pena previsti a breve. Hanno deciso di manifestare sotto il Tribunale di Napoli, proprio di fronte al carcere di Poggioreale da cui i detenuti hanno fatto sentire la loro voce. “In carcere non esistono spazi ove poter isolare i detenuti risultati positivi al contagio (quei pochi di cui le strutture penitenziarie disponevano sono saturi) e all’interno delle celle è impossibile rispettare il distanziamento di un metro imposto nel mondo di fuori - scrive in un comunicato l’Associazione “Il carcere possibile Onlus” - Ad aggravare una situazione, già di per sé di complessa gestione, contribuisce l’atteggiamento di totale indifferenza da parte di tutte le Autorità che avrebbero dovuto gestire questa pandemia tentando di limitarne i danni”. Un grido di allarme si è levato dalle associazioni dei familiari dei detenuti, dai Garanti, dai Cappellani degli istituti penitenziari, dagli esponenti del Partito Radicale i quali - a partire da Rita Bernardini - stanno facendo lo sciopero della fame per sensibilizzare l’opinione pubblica e le Istituzioni sul tragico rapporto tra Covid e carcere. Il Ministro Bonafede ha sostenuto che all’interno degli istituti i positivi sono per lo più asintomatici e che, pertanto, non vi sarebbe pericolo. Sul punto, va evidenziato che 2 anche all’esterno del carcere la maggior parte dei contagiati sono asintomatici, eppure non sembra che il Governo abbia dichiarato la fine dell’emergenza epidemiologica. “Le Autorità Giudiziarie - continua il comunicato - non stanno mettendo in campo tutti gli strumenti che già hanno a disposizione per sfoltire la popolazione carceraria in modo da rendere la detenzione compatibile con le istanze di tutela della salute di chi è ristretto negli istituti di pena. La porta di ingresso al carcere è ancora troppo grande rispetto alla piccola porta ‘socchiusa’ che dovrebbe consentire la liberazione di un numero di detenuti sufficiente affinché si ripristinino i requisiti minimi di sicurezza all’interno degli istituti. A Napoli si registra una situazione catastrofica. Vi è ancora l’emissione (seppur ridimensionata) di ordini di carcerazione e l’applicazione di misure cautelari intramurarie che incidono sull’aumento della popolazione detenuta a fronte di una scarsa attività della Magistratura di Sorveglianza Partenopea che - specialmente in questo drammatico momento - avrebbe dovuto ancor più concedere ai detenuti, che ne hanno diritto, sia le misure alternative alla detenzione predisposte dal Governo per il periodo emergenziale sia i benefici penitenziari “ordinari” previsti dall’Ordinamento Penitenziario”. “Per questo chiediamo che: - venga bloccata l’emissione di nuovi ordini di carcerazione; - il ricorso alla misura cautelare della custodia intramuraria sia limitata ai casi più gravi; - il Tribunale di Sorveglianza si attivi affinché si trattino il maggior numero possibile di procedure relative a detenuti intramurari ai quali concedere una misura alternativa che consenta una rapida uscita dal carcere. Sappiamo che l’art. 30 del c.d. Decreto Ristori non ha prodotto alcun risultato, perlomeno nelle carceri napoletane. Nel carcere di Poggioreale, infatti, non si registra alcuna uscita legata all’applicazione di questa norma e dal carcere di Secondigliano un solo detenuto pare ne abbia beneficiato, ma soltanto formalmente, giacché è ancora in attesa del prezioso braccialetto elettronico. La pandemia, qualora ve ne fosse bisogno, evidenzia e rende drammatico il sovraffollamento strutturale dei nostri istituti di pena ed è per questo che, contestualmente all’utilizzo delle misure di pronta applicazione (tra le quali le immediate 3 concessioni di detenzioni domiciliari per tutti i detenuti malati o comunque affetti da patologie particolari che in caso di contagio sarebbero esposti ad un grave rischio per la propria vita), appare necessario aprire un tavolo di discussione che abbia come obiettivo la ricerca di tutti gli strumenti possibili che consentano di risolvere definitivamente il problema del sovraffollamento del carcere. Non abbiamo timore a dire che questi strumenti sono in primo luogo l’amnistia e l’indulto”. Monza. Allarme Covid nel carcere: 38 detenuti contagiati di Marco Galvani Il Giorno, 26 novembre 2020 La trasmissione sarebbe partita da una sola persona. Gli agenti chiedono di limitare l’ingresso di pacchi da fuori. Allarme contagi in carcere a Monza: ieri mattina 38 detenuti sono risultati positivi al Covid dopo essere entrati in contatto con un compagno di cella da cui sarebbe partita la trasmissione del virus. Subito sono stati tutti isolati e nello stesso tempo sono stati effettuati tamponi di controllo agli agenti di polizia penitenziaria in servizio in quella sezione detentiva. “Si tratta di una impennata preoccupante dei casi - il commento di Domenico Benemia della segreteria regionale della Uil polizia penitenziaria. E a Monza siamo fortunati perché la direzione dell’istituto è riuscita a organizzarsi per gestire questa emergenza sanitaria. Purtroppo in altri istituti detenuti e colleghi vivono e lavorano in condizioni peggiori. E questo è legato all’assenza di una linea guida ministeriale per affrontare l’emergenza”. Il fatto è che “i tamponi tra il personale non vengono effettuati con cadenze precise”, ma soprattutto “è necessario, se non addirittura vitale, limitare gli ingressi di persone dall’esterno, anche le visite dei famigliari dei detenuti per le consegne di abbigliamento”. La soluzione, propone Benemia, sarebbe di “far utilizzare gratis ai detenuti la lavanderia interna al carcere, per ridurre l’arrivo dei parenti con sacchi e scatole di indumenti”. Il timore è che possano essere proprio gli arrivi dall’esterno uno dei veicoli di trasmissione del virus. Anche perché a oggi “soltanto una decina di agenti è a casa perché positivo”. Mentre tra i detenuti il virus è circolato più rapidamente, complice la difficoltà di mantenere il distanziamento e nonostante tutti siano forniti di mascherine. Mascherine che, “finalmente sono arrivate in numero sufficiente anche a noi agenti - la soddisfazione di Benemia. Dopo tanto protestare, oggi ogni poliziotto ha a disposizione una mascherina al giorno”. Disponibili anche tutti i dispositivi di protezione per la gestione dei detenuti positivi isolati in una sezione a parte. Tuttavia “ancora oggi, se dobbiamo accompagnare un detenuto positivo nel reparto dedicato a San Vittore, non possiamo farlo con personale sanitario e una ambulanza, ma utilizzando i normali mezzi blindati dell’amministrazione penitenziaria”. Venezia. Maria Teresa Mazza, il Gip non crede al suicidio della poliziotta di Andrea Tornago La Repubblica, 26 novembre 2020 In servizio nel carcere della Giudecca quando fu trovata agonizzante nell’ascensore. Morì dopo due anni di coma. Indagare ancora. Cercare una ricostruzione più precisa della dinamica dello sparo che il 1 novembre 2016 ha colpito Maria Teresa Trovato Mazza, detta “Sissi”, poliziotta penitenziaria del carcere veneziano della Giudecca trovata agonizzante nell’ascensore dell’ospedale Civile di Venezia con un colpo di pistola alla nuca. Un giallo in piena regola che ora si riapre. Nonostante due richieste di archiviazione della Procura, per la quale l’agente 27enne si sarebbe tolta la vita “senza il coinvolgimento di terzi”, il Gip di Venezia Barbara Lancieri non ha creduto al suicidio della poliziotta e ha disposto nuove indagini, come richiesto dai famigliari della vittima. Sono state proprio le indagini difensive condotte dai legali dei famigliari e dai consulenti tecnici di parte a convincere il giudice a riconsiderare nel complesso la tesi del suicidio. Troppi elementi non tornano e dovranno essere approfonditi dai pm: dal foro di entrata insolito del proiettile, alla pistola trovata senza impronte digitali, all’assenza di tracce di sangue sulla punta dell’arma, fino all’elemento considerato dal genetista Luciano Garofalo, ex comandante del Ris di Parma e consulente di parte della famiglia Trovato Mazza, una “contraddizione insuperabile rispetto alla tesi del suicidio”: il fatto che non si trovino tracce di sangue sul polsino e sulla manica destra di Sissi e in una zona particolare dell’ascensore, in quell’area che gli esperti chiamano di “backspatter”, dove dovrebbero depositarsi le gocce di sangue e i frammenti provocati dall’entrata del proiettile. Come se in quella zona rimasta immacolata, una sorta di “cono d’ombra”, potesse trovarsi qualcuno che ha fatto da scudo con il suo corpo. I pm dovranno anche cercare di recuperare le celle telefoniche attivate dalle ultime chiamate senza risposta giunte sul cellulare dell’agente Sissi, mentre si trovava nell’ospedale veneziano, poco prima di morire. E sentire una testimone chiave che potrebbe essere in grado di riferire circostanze importanti sull’accaduto: ai legali della famiglia ha fatto nomi e cognomi, che ora dovranno essere vagliati dagli inquirenti. Quel giorno Sissi Trovato Mazza si era recata nel reparto di pediatria dell’ospedale per controllare una detenuta che aveva partorito. Agli atti dell’inchiesta ci sono anche le immagini delle telecamere di sorveglianza che la riprendono nei pressi delle scale poco prima dello sparo, che avviene invece fuori dal raggio dell’obiettivo, in grado però alcuni minuti dopo di riprendere la donna che darà l’allarme e che non è stata mai identificata. Tanti i dubbi che accompagnano la tragica morte della giovane agente penitenziaria: i testimoni non sentiti, l’ascensore ripulito dalle tracce di sangue poco dopo lo sparo, gli accertamenti medico legali eseguiti in ritardo, solo dopo un invasivo intervento chirurgico alla testa subìto da Sissi, rimasta in coma per più di due anni prima di morire nella sua abitazione in Calabria, il 12 novembre 2019. Milano. Giustizia a distanza, i penalisti contro l’Appello da remoto milanotoday.it, 26 novembre 2020 Per i penalisti di Milano è “anticostituzionale” la norma che introduce la possibilità di celebrare i processi d’appello “da remoto”. Lo scrivono in un comunicato stampa che parla di “abominio processuale introdotto con l’art. 23 del decreto legge 9 novembre 2020 n. 149” e per questo chiedono “la mobilitazione di tutti i penalisti italiani a difesa dei principi del giusto processo, invitando i colleghi ad avvalersi in ogni caso della ‘facoltà’ di discutere oralmente il proprio processo, nell’auspicio che questo torni ad essere un pieno diritto”. Secondo la Camera Penale di Milano, il governo “con un colpo di spugna” ha inserito “tra le norme che si occupano di botanica” una “sorta di giurisdizione penale d’appello a chiamata: se invocata tempestivamente da una parte privata o dal pubblico ministero, essa si attuerà secondo le norme inderogabili del contraddittorio e della collegialità, con una camera di consiglio celebrata in presenza dell’organo giudicante. In caso contrario, addio al vecchio giudizio d’appello e via libera al nuovo tran tran cartolare: scambi di conclusioni e memorie in via telematica tramite la cancelleria; giudici collegati tra loro da remoto; avvocati, pubblici ministeri, parti e imputati ridotti ad ectoplasmi; et voilà, giustizia (non) sarà fatta”. Una disposizione che non servirà “a fronteggiare l’emergenza sanitaria in corso”, dato che “la recente esperienza anche milanese dimostra potersi contenere con un’adeguata calendarizzazione delle udienze, in modo da consentire il distanziamento interpersonale, con la sanificazione delle aule e con l’utilizzo dei presidi individuali di protezione. La ragione di tale scelta - denunciano i penalisti milanesi - non è l’emergenza epidemiologica in corso, ma l’ormai conclamata insofferenza alla celebrazione dei giudizi in Corte di Appello e in Corte di Cassazione secondo le regole previste dal codice di procedura penale”. “Sono infatti anni - prosegue la Camera Penale di Milano - che assistiamo ai tentativi di cartolarizzare i giudizi di impugnazione, di eliminare la relazione, introdotta nel nostro codice a garanzia della collegialità delle deliberazioni, e, soprattutto, di eliminare la discussione orale della difesa, vissuta ormai come un inutile ostacolo alla gestione sempre più monocratica dei giudizi di impugnazione. Non a caso l’inaugurazione del presente anno giudiziario dell’Unione delle Camere Penali Italiane si è tenuta a difesa del giudizio di appello, della sua oralità e della sua collegialità, già pesantemente messe in discussione dalle prassi adottate e ora inesorabilmente accantonate con il pretesto dell’emergenza epidemiologica”. Ancona. Detenuti al lavoro in archivio impiegati negli uffici giudiziari Il Resto del Carlino, 26 novembre 2020 Manutenzione dei locali attività di front-office: protocollo d’intesa con il provveditorato regionale. I detenuti andranno a lavorare negli uffici giudiziari. Si occuperanno di piccole manutenzioni dei locali, della sistemazione degli archivi, di attività di front-office e anche della cura delle aree verdi annesse alle sedi giudiziarie. Tutto questo sarà possibile grazie ad un protocollo d’intesa siglato tra il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna e Marche, nella persona del provveditore Gloria Manzelli, il presidente della Corte di Appello di Ancona Luigi Catelli, il procuratore generale della Corte di appello di Ancona Sergio Sottani, il presidente del tribunale di Sorveglianza Raffaele Agostini e il garante dei diritti della persona Andrea Nobili. La firma c’è stata venerdì scorso. “È è il primo progetto, a livello nazionale e quindi anche per la regione Marche - osserva Sottani - che vede un accordo quadro tra più parti. In precedenza c’erano stati solo accordi di singoli”. Una regione che farà quindi da apripista al progetto denominato “Mi riscatto il futuro” e che mira a reinserire socialmente le persone che sono in carcere e che presto lo lasceranno. Attraverso lavori di pubblica utilità i detenuti verranno impiegati negli uffici giudiziari. La mattina lasceranno le proprie celle per andare al lavoro e la sera torneranno in carcere. Le modalità di svolgimento verranno definite con convenzioni stipulate tra gli istituti penitenziari e gli uffici giudiziari. I detenuti lavoratori saranno accolti nella sede della Corte di Appello di Ancona e della Procura generale. Il protocollo durerà 18 mesi rinnovabili e servirà ad individuare percorsi di vita alternativi al crimine. Lo scopo è di favorire l’avvio di progetti di sensibilizzazione alla legalità, responsabilizzando e informando la collettività delle problematiche che coinvolgono la popolazione carceraria. Milano. Carcere: le donne che si salvano, si salvano da sole di Fabrizia Mirabella marieclaire.com, 26 novembre 2020 Abbiamo parlato con la cooperativa che restituisce dignità ai detenuti attraverso il lavoro, mentre restituisce all’Italia la sua cosa più preziosa, il business made in Italy. “Te lo dico prima. Non chiedermi quante donne avete salvato? Chi si è salvato, si è salvato da solo. Noi siamo solo dei professionisti che credono fermamente in un’impresa con la i maiuscola”. Basterebbe questa manciata di secondi al telefono, di lettere nero su bianco, a dipingere il ritratto potentissimo di Caterina Micolano, Presidente del Consiglio di Amministrazione della Cooperativa Alice, cooperativa sociale senza scopo di lucro fondata nel ‘92, che con il laboratorio Sartoria San Vittore restituisce dignità ai detenuti attraverso il lavoro, mentre restituisce all’Italia la sua cosa più preziosa, il business made in Italy. “Noi diamo semplicemente delle opportunità, siamo un network che unisce territori, ruoli e persone. Per chiarirci, non stiamo in piedi grazie alle donazioni, viviamo di contratti di lavoro come tutti. Anche se, purtroppo, dobbiamo dimostrare il doppio rispetto a un’azienda normale. D’altronde, se lo Stato italiano continua a etichettare le “categorie fragili”, le “normative sugli svantaggiati”, “le azioni filantropiche”, l’idea che la gente avrà delle cooperative come le nostre, non cambierà mai. Bisogna invece cambiare narrazione, informare, raccontare, fondare un movimento che faccia cultura della sostenibilità, dell’inclusione e della fiducia. Perché è il lavoro vero che ti fa arrivare gli assegni e ti fa sentire di nuovo accolto nel sistema economico”. È da queste premesse-promesse che quest’anno è nato il progetto Italia is One, fortemente voluto da Cooperativa Alice insieme a Gruppo Servier e altre due realtà italiane di artigianato sociale, Astrolabio e Mending for Good. Decise a sostenere la produzione di mascherine chirurgiche a 3 veli, circa 140 persone, la maggior parte detenute, hanno prodotto oltre 60 mila mascherine interamente realizzate a mano nei 12 laboratori delle cooperative, con l’obiettivo di fronteggiare la richiesta di questi dispositivi e renderli disponibili per le categorie più bisognose come i detenuti, spesso costretti in spazi angusti senza possibilità di distanziamento sociale, o il personale operante negli istituti penitenziari. “L’emergenza sanitaria che l’Italia e il mondo intero si trovano ad affrontare impone a tutti un impegno collettivo in termini di responsabilità sociale. Dall’inizio della pandemia il Gruppo Servier in Italia ha sostenuto diverse iniziative per contrastare gli effetti di questa epidemia, a supporto delle autorità sanitarie, medici, ospedali, fondazioni, associazioni pazienti e cittadini in difficoltà. Un impegno che continuerà anche per i mesi futuri”, ha raccontato Viviana Ruggieri, portavoce del Gruppo Servier in Italia. “La nostra mission mette al centro di ogni azione le persone, e non poteva esimersi dal supportare Italia is One, che rappresenta un esempio unico e concreto di riabilitazione sociale e di tutela del diritto inalienabile alla salute delle persone private della libertà, nel caso specifico della popolazione femminile, una categoria particolarmente bisognosa di supporto”. Dalla sartoria teatrale per la creazione di costumi per La Scala e la Fenice alla realizzazione di abiti per gli spot pubblicitari, fino alla fondazione del proprio brand Sartoria San Vittore, Cooperativa Alice è stata tra le prime realtà in Italia ad aver parlato di moda negli istituti penitenziari. A dimostrare come il design, la creatività e il saper fare, siano ingredienti fondamentali per un riscatto sociale che non coinvolge soltanto le donne detenute o vittime di violenza, ma travolge l’intero sistema che lo scatena. “Dopo tanti anni trascorsi accanto ai detenuti, ti rendi conto di quanto la linea di confine della libertà sia molto sottile. A me non capiterà mai, quante volte l’abbiamo detto o sentito dire? Senza pensare che la maggior parte delle volte è la disperazione a farti compiere gli errori”, racconta Caterina. “Cos’è la libertà? Non è una quesitone di carattere penale, non è libero chi è fuori da una galera, vedo tutti giorni detenute che sono molto più libere di me dentro, nell’animo. Libertà è una condizione mentale, e noi con il nostro lavoro speriamo di far scattare quella molla, quel pensiero che spinge un detenuto a dire okay, ho la possibilità di ripartire, chi voglio essere?, chi potrei essere?, da dove riparto?. Decidere di ripensarsi, liberi di investire nuovamente su se stessi, è questo l’obiettivo del nostro mestiere”. E noi? Cosa dovremmo imparare da voi? “L’Italia tutta continua a parlare di sostenibilità, di slow fashion, di business impegnati, facendo un copia-incolla di quello che accade in tutto il resto del mondo. Si dimentica, invece, di chi siamo come Paese, dell’importanza che ha la nostra industria manifatturiera. Ma per fare questo c’è bisogno di un’azione corale, il sistema made in Italy deve dimostrare di essere capace a dialogare e unirsi, essere utile e al tempo stesso generare sicurezza. Per una volta non stiamo chiedendo niente, vogliamo solo dare. Se i brand ci aiutassero a raccontare un sistema di manifattura sostenibile nelle filiere produttive, un sistema che riparte dal locale, dal piccolo, dall’artigianato, sarebbe un grandissimo passo avanti”, mi spiega Caterina con la voce ferma e fiera. “Dovremmo chiederci: chi deve essere un’impresa socialmente utile oggi? E deve essere utile solo al carcere o anche alla società? Secondo noi anche alla società”. “Non ti rende migliore comprare un maglione confezionato dai detenuti, non è questo il messaggio che vogliamo comunicare. Vogliamo raccontare che la tradizione artigianale italiana sta morendo e andrebbe salvaguardata, vogliamo dimostrare che il saper fare con le mani ci ha salvato più e più volte dalle crisi nella storia dell’Italia. Attraverso sudore e calli, mica dall’oggi al domani. I detenuti che lavorano con noi iniziano un percorso che li porta a diventare artigiani del made in Italy, non operai. Noi non siamo solo operatori che ti fanno stare bene o ti alleviano dolori, accogliamo detenuti, persone richiedenti asilo, tossicodipendenti che negli anni possono diventare sarti, detentori di quelle skill di cui il paese ha bisogno. È questo il futuro che lasciamo nelle loro mani, mentre sono ancora dentro”. Milano. La vita sotto il turbante di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 26 novembre 2020 Copricapi realizzati dalle detenute per le malate oncologiche. Da due poli negativi, nasce sempre uno positivo. Ovvero come il connubio carcere e malattia può generare lavoro, promuovere solidarietà e, soprattutto, donare un sorriso e una speranza a chi soffre. Dietro le sbarre e fuori. Parola di Francesca Brunati, fondatrice dell’associazione Go5 per mano con le donne che, con le detenute di San Vittore, realizza turbanti per le pazienti sottoposte a chemioterapia. “Un simbolo di solidarietà femminile, di integrazione sociale e di coraggio sia per le ristrette, sia per le malate oncologiche che stanno affrontando il proprio percorso” spiega. “Il progetto è dedicato a Cristina, tra le pioniere di G05, che da subito ha creduto in questa avventura e che è mancata a ottobre 2019” racconta Brunati. Un progetto nato per affiancare le donne malate e le loro famiglie fornendo informazioni sull’organizzazione e sui servizi disponibili presso l’Istituto nazionale dei tumori; per organizzare iniziative dedicate al benessere delle pazienti oncologiche e, non ultimo, per offrire alle pazienti un servizio di supporto psicologico per superare le difficoltà che la malattia comporta. “Ricordo il giorno in cui sono andata a proporre questa idea alle ospiti” rivela Brunati. “Reazione? Entusiasmo misto a commozione. Non dimenticherò mai il volto di una ragazza che scoppiò in lacrime pensando ad una sua parente che si era ammalata e che stava lottando contro il cancro. Non sono mancate le grandi soddisfazioni che ci hanno riempito il cuore e spinto ad andare avanti. Una su tutte, la sfilata con le detenute, le modelle professioniste e, con loro, avvocatesse e giudici”. La scelta del turbante non è stata casuale e riporta ad esperienze vissute in prima persona: “Io e Cristina lo abbiamo indossato quando eravamo in cura. Abbiamo pensato che quel copricapo, se confezionato con materiali di qualità e opportunamente colorato, avrebbe regalato un momento di spensieratezza a chi lo avrebbe indossato. Ovviamente lo abbiamo prima testato noi”. L’iniziativa vuole proporre un messaggio di benessere per chi sta dentro una malattia e per chi sta dentro un carcere. “Anche perché le donne detenute in questo modo riescono anche a gettare un ponte fuori dalle sbarre. Grazie a questa attività possono avviare un dialogo con la città e con le donne. Diventa per loro anche uno strumento di integrazione sociale” riprende Brunati. Nella filiera lavorano le ragazze di San Vittore, quelle in semi libertà e le stesse pazienti. Il lockdown non ha fermato le ragazze di Go5, tanto è vero che hanno sostenuto il progetto “Psicologia, donne e web” ideato dall’Istituto nazionale dei tumori di Milano che si propone come una risposta e al contempo uno stimolo alla delicata situazione che stiamo vivendo anche perché molti ospedali hanno dovuto riqualificare alcuni reparti per far fronte all’emergenza Covid-19 e questo ha significato in ambito oncologico un rallentamento nella diagnostica legata alla prevenzione. “Abbiamo messo a punto una serie di incontri informativi, ma anche attività volte a stimolare il benessere e la gestione dello stress (ovviamente via web). Dietro ogni turbante - conclude la fondatrice dell’associazione - c’è la storia interiore e i sentimenti di chi lo ha realizzato e questo dà valore ai pezzi unici, diversi l’uno dall’altro, creati da ciascuna detenuta. Dà valore al loro lavoro artigianale. Va rimarcato che commissionando la confezione dei turbanti, Go5 offre lavoro alle donne detenute che devono in qualche modo cercare di avere uno stipendio per contribuire al bilancio familiare (spesso hanno i figli da mantenere perché il marito è in carcere anche lui). La solidarietà, così, corre su un doppio binario, contribuendo a creare benefici su un piano psicologico e materiale a donne in difficoltà e che vivono sofferenze diverse. Sulla scia anche dei messaggi che Papa Francesco (a cui invieremo uno dei nostri turbanti) spesso rivolge a chi sta maturando la dura esperienza del carcere”. Oristano. Carcere di Massama, “il Covid penalizza le attività rieducative e didattiche” di Elia Sanna L’Unione Sarda, 26 novembre 2020 Le parole di Paolo Mocci, garante dei detenuti del Comune di Oristano. La diffusione del virus tra il personale della polizia penitenziaria nel carcere di Massama sta creando disagio e impedisce la normale attività quotidiana didattica e rieducativa verso i detenuti, aggravato anche dalla eccessiva presenza rispetto alla struttura. Lo sostiene Paolo Mocci, il garante dei detenuti del Comune di Oristano, ricordando che anche i sindacati di polizia hanno recentemente rivolto l’ennesimo appello alla Regione per garantire i protocolli sanitari indispensabili alla loro sicurezza e a quella dei detenuti. Sottolinea inoltre l’esigenza di ridurre il numero dei detenuti a Massama. “Già i tempi del carcere sono patologicamente dilatati - osserva Paolo Mocci - ora ancora di più a causa dell’inesatta applicazione dei protocolli sanitari previsti dalla normativa. È solo di questi giorni la richiesta di intervento del mio ufficio per dipanare le nubi che offuscano l’inizio dell’attività didattica in carcere. Nella prima ondata di diffusione del virus, tutte le attività erano state sospese, chiaramente per l’inesperienza degli operatori a gestire la nuova situazione. Oggi, però, che gli interventi legislativi hanno dato le necessarie indicazioni, appare difficile indicare una data a partire dalla quale le lezioni potranno riprendere. Le caratteristiche abitative della Casa circondariale - aggiunge - impediscono di garantire le distanze tra i detenuti e gli operatori. Le aule sono poche e di ridotte dimensioni rispetto agli standard imposti dalle normative sanitarie. Il numero dei detenuti iscritti quest’anno è aumentato e purtroppo non è possibile garantire la didattica a tutti. Pur mutando la destinazione di alcune stanze alla didattica, comunque non si riesce a raggiungere lo spazio che le norme di sicurezza e sanitarie impongono. La didattica in remoto sarebbe una valida soluzione. Ma la zona adibita a scuola non è raggiunta dalla linea internet e le esigenze di tutto il personale e dei detenuti si scontrano coi protocolli burocratici e di sicurezza che allungano inverosimilmente i tempi di realizzazione. Purtroppo si registra il ritorno a quella chiusura delle attività trattamentali imposta in primavera. È difficile da ammettere - conclude Paolo Mocci - ma l’amministrazione Penitenziaria non avrebbe dovuto destinare l’istituto di Massama a detenere contemporaneamente il circuito dell’alta e media sicurezza. Il carcere non ha sufficienti aule, ha una minima zona sanitaria destinata al ricovero dei detenuti. Il personale è ridotto e oggi è falcidiato dalle esigenze sanitarie. I detenuti già non avevano la possibilità di accedere in maniera sufficiente alle attività educative, oggi ancor di più trascorrono le giornate nella più totale inerzia e passività. E allora appare necessaria una significativa riduzione delle presenze in carcere”. Parma. La Notte dei Ricercatori entra in carcere La Repubblica, 26 novembre 2020 Giovedì 26 novembre la Notte dei Ricercatori, la manifestazione europea per la divulgazione scientifica, entra in carcere. L’iniziativa di portare la Notte dei Ricercatori tra i detenuti è progettata dalla Cnupp-Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari in molte sedi universitarie del Paese, ed è finalizzata alla divulgazione di una cultura sul carcere e sulla pena differente dal modello prevalente nel senso comune, all’interno della quale il diritto allo studio sia uno degli elementi di traino del cambiamento. Il risultato dello sforzo organizzativo degli Atenei che hanno aderito è un insieme di iniziative che si svolgeranno il 26 novembre. Nel Polo Universitario Penitenziario di Parma è previsto un webinar che vedrà connessi studenti e detenuti dalle 12 del 26 novembre sul tema “Il Cambiamento: punti di vista giuridici, sociologici, pedagogici sui processi di trasformazione della società e degli individui”. Interverranno Stefania Carnevale, docente di Diritto processuale penale (Università di Ferrara), Vincenza Pellegrino, docente di Sociologia dei processi culturali e Delegata del Rettore per i Rapporti tra Università e carcere (Università di Parma), Luca Decembrotto, ricercatore di Pedagogia speciale (Università di Bologna), Vincenzo Picone, coordinatore del laboratorio teatrale e regista del Teatro Due di Parma, Annalisa Margarita, tutor studenti detenuti e Claudio Conte, studente detenuto dottorando in Politica, Cultura e Sviluppo (Università della Calabria). Nuoro. Detenuti realizzano manufatti per la Giornata contro la violenza sulle donne di Alessandro Congia sardegnalive.net, 26 novembre 2020 Un’iniziativa che ha coinvolto i detenuti di Alta Sicurezza: ecco cosa è stato realizzato in carcere. Anche quest’anno i vertici dell’istituto penitenziario di Badu e Carros, a Nuoro, presieduto dalla direttrice la dottoressa Patrizia Incollu e dal Comandante della Polizia Penitenziaria, il Commissario Capo Manuela Cojana, hanno coordinato la realizzazione di un progetto che simboleggia la lotta contro la violenza sulle donne. Un progetto tutto al femminile che simboleggia la volontà di sensibilizzare il più possibile tutte le persone su un tema così delicato. Il Comandante del Reparto Manuela Cojana, in veste di referente regionale delle Pari Opportunità, ha sottolineato l’importanza di una costante attività necessaria a coinvolgere l’opinione pubblica su un tema che ancora oggi presenta indici di attuazione molto elevati. “Ogni giorno in qualche parte del mondo - dice - troppe donne muoiono per volontà di chi dovrebbe amarle”. Da qui l’idea di coinvolgere nella realizzazione dei manufatti i detenuti del reparto di alta sicurezza, a differenza dell’anno scorso ove il progetto realizzato dalla falegnameria proveniva dalle mani dei detenuti di media sicurezza. Oggi la rappresentazione di una scarpetta rossa fatta con i cartoncini colorati di rosso, le rose create a mano con il raso rosso e una lunga poesia che mai come questa giornata esprime il cordoglio sulla violenza domestica e non, che ancora tocca moltissime donne. Treviso. Rotary, donati al carcere di Santa Bona i libri del Premio Comisso 2020 trevisotoday.it, 26 novembre 2020 Per il service trevigiano la lettura può costituire un mezzo inaspettato ed efficace di crescita personale e umana finalizzata al reinserimento sociale. In carcere si può anche leggere, esistono anche delle biblioteche e la lettura può costituire un mezzo inaspettato ed efficace di crescita personale e umana finalizzata al reinserimento sociale. In questa ottica il Rotary Club Treviso ha voluto donare alla biblioteca della Casa Circondariale di Treviso i libri partecipanti al Premio letterario Giovanni Comisso 2020 e precisamente quelli che hanno partecipato al “Premio Comisso under 35 - Rotary Treviso” le cui opere inviate sono state giudicate dai membri della giuria tecnica del Premio e da due membri aggiuntivi designati dal Rotary. Il presidente Diego Pavan, con il segretario Giuseppe Bidoli e Maria Antonietta Possamai, componente della giuria, martedì si sono recati in carcere e hanno consegnato i volumi al Direttore del carcere, il dott. Alberto Quagliotto che era accompagnato dal comandante delle guardie carcerarie e dal referente per la biblioteca. Il direttore si è rivelato essere un past president del Roray Club Pordenone e pertanto, animati da spirito rotariano, si sono subito ipotizzati altri service che possano essere fatti a beneficio della struttura carceraria per il benessere dei detenuti. Stati Uniti. Trump ha un dovere: sospendere la pena capitale di Giuseppe Cassini Il Manifesto, 26 novembre 2020 Aspettando la moratoria promessa dal presidente eletto Biden, quello uscente dovrebbe rispettare la tradizione e sospendere le pene capitali previste in chiusura di mandato: due condannati in Indiana. Il presidente Trump, se non può risuscitare le tante vittime del virus provocate dal suo ostinato negazionismo, farebbe ancora a tempo a risuscitare almeno due “morti che camminano” nel braccio della morte del penitenziario federale in Indiana. Solo lui ha la potestà di fermare l’iniezione letale che ucciderebbe entro dicembre due rei confessi di omicidio, il quarantenne Brandon Bernard e la cinquantenne Lisa Montgomery. Anzi, sarebbe suo dovere intervenire: è buona norma che i presidenti uscenti deferiscano al successore ogni decisione di grave entità, come quella di spegnere una vita. In quel penitenziario, invece, nella disattenzione generale è già stato giustiziato il 19 novembre un altro omicida, Orlando Cordia Hall. Allora Trump era troppo affaccendato con i suoi ricorsi per decidere se salvare o meno la vita di un criminale sconosciuto. Ma ora che ha più tempo, si avvarrà delle prerogative presidenziali per salvare almeno gli altri due morituri? Potrebbe, vista la “generosità” con cui ha promesso di elargire presto il perdono a vari personaggi incriminati per colpa sua, dopo aver già perdonato tipi come Joe Arpaio, lo sceriffo dell’Arizona condannato per aver segregato per anni e schiavizzato degli immigrati irregolari. Trump avrebbe tutto il diritto - e anche il dovere - di sospendere le due sentenze di morte. Lei in particolare, Lisa Montgomery, ha avuto un’esistenza travagliata: abusata da piccola, da tempo soffre di disturbi bipolari e di turbe depressive confermate dai medici. Sua sorella ha dichiarato: “Supplico il presidente di aprire il suo cuore e pensare alla vita terribile che ha avuto questa donna”. È da 70 anni che una donna non viene più giustiziata per crimini federali. Il problema è che è stato il presidente stesso a reintrodurre con una semplice firma, a settembre, la pena capitale per gravi reati federali, interrompendo una moratoria che durava da un ventennio. E lo aveva lasciato intendere già a giugno quando - circondato da agenti in uniforme antisommossa e seguito dal fedele “ministro della giustizia” - si era diretto verso la chiesa che fronteggia la Casa bianca brandendo una Bibbia voluminosa. Con quel gesto intendeva, forse, segnalare che nel Levitico sta scritto “Occhio per occhio, dente per dente”. Ma se avesse avuto la pazienza di sfogliare il volume fino in fondo, avrebbe trovato anche questo: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”. Biden, da cattolico praticante qual è, ha preannunciato che riesumerà subito la moratoria e si sforzerà anche di convincere i rimanenti Stati “forcaioli” (tra cui Indiana e Texas) ad abolire la pena capitale, spiegando loro che uccidere in nome dello Stato lo abbassa al livello degli assassini. Lo aveva capito già nel 1999 George Ryan, neo-governatore dell’Illinois. Dopo aver firmato un ordine d’esecuzione, aveva aperto un faldone che attestava un dato terribile: una condanna su tre era impestata da vizi di forma o di sostanza, con forti probabilità che fosse stato giustiziato qualche innocente. “Quella notte non riuscii a dormire - mi raccontò incontrandolo a Chicago nel 2004 - Nominai un comitato che mi indicasse come riformare il sistema e sottoposi i risultati all’Assemblea statale affinché legiferasse. Siccome allo scadere del mio mandato l’Assemblea non si era messa d’accordo, io mi dissi “Non voglio sostituirmi a Dio” e commutai le condanne già comminate ai 164 reclusi nel braccio della morte”. A sostegno di Biden dovrebbe intervenire la Corte suprema, ormai formata in maggioranza da giudici cattolici (sei su nove) dopo che Trump ha nominato all’ultima ora Amy Coney Barrett, nota per la sua intensa fede cattolica. Il momento della verità arriverà quando la Corte sarà investita della decisione di abolire la pena capitale definitivamente. Se Barrett o qualche altro giudice cattolico votasse contro, come dovrebbe reagire il Vaticano? Meglio rammentare ai credenti che l’istituto della scomunica esiste tuttora. Un tempo si usava graziare un condannato a morte nelle grandi occasioni festive. In America, invece, accade che l’ultimo giovedì di novembre, giorno sacro del Thanksgiving, si conceda la grazia a un tacchino piuttosto che a un essere umano. Così ha fatto Trump anche quest’anno: ha graziato un tacchino, ma non due reclusi che agonizzano nel braccio della morte di un penitenziario sperduto nell’Indiana. Due suoi concittadini che si salverebbero da morte certa, se solo lui bloccasse con un tratto di penna l’iniezione fatale. Colombia. 24 detenuti furono giustiziati durante la rivolta di marzo di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 26 novembre 2020 I sanguinosi fatti sono avvenuti nel penitenziario di La Modelo. L’inchiesta indipendente dell’ong statunitense “Human Right Watch” Le proteste scoppiarono per il sovraffollamento della struttura. Secondo la legge internazionale sui diritti umani, i governi devono proteggere le vite di coloro che si trovano in custodia nelle carceri e indagare rapidamente su eventuali decessi. È proprio quello che non è avvenuto in Colombia dove la dinamica di uno dei più grandi massacri avvenuti in un istituto penitenziario, nel marzo scorso, la sta svelando un inchiesta indipendente di Human Rights Watch. Un rapporto, pubblicato martedì scorso dall’organizzazione per la difesa dei diritti umani, ha infatti svelato che 24 prigionieri furono massacrati deliberatamente nel corso di una rivolta scoppiata il 23 marzo. In quel momento il presidente colombiano, Ivan Duque, aveva annunciato le misure di quarantena per contrastare l’epidemia di coronavirus, poche ore dopo divamparono numerose sommosse negli istituti penitenziari, la più grave appunto nel carcere di La Modelo (che ospitava 5mila detenuti all’epoca) nei pressi della capitale Bogotà. Le proteste furono organizzate a livello nazionale per attirare l’attenzione sulle condizioni disastrose dei i prigionieri ospitati in poche celle, dormendo nei corridoi, e senza misure adeguate per isolare i detenuti resi così particolarmente vulnerabili al Covid. A quanto sembra all’inizio doveva trattarsi di iniziative pacifiche che poi però sono velocemente degenerate. Il carburante della rivolta è stato dunque il sovraffollamento. I 132 penitenziari del paese hanno una capacità di 81.000 detenuti ma ospitano oltre 121.000 prigionieri, secondo i dati del ministero della Giustizia. In una tale contesto non stupisce che il livello di violenza sia stato altissimo, il gruppo di esperti forensi indipendenti e il Consiglio internazionale per la riabilitazione delle vittime di torture che hanno condotto l’indagine hanno concluso che nessuno dei morti è stato ucciso accidentalmente durante la confusione che si era generata. Secondo i ricercatori: “la maggior parte delle ferite da arma da fuoco descritte nelle autopsie sono coerenti con l’obiettivo di uccidere”. In ogni caso l’indagine non ha stabilito chi ha sparato nei momenti caotici della rivolta, ma solleva nuove domande sul rispetto del diritto internazionale sui diritti umani e sull’importanza di un’indagine approfondita. A tale proposito però c’è da registrare la reticenza delle autorità competenti; Il ministro della Giustizia Margarita Cabello fin da subito aveva parlato di un tentativo di evasione dalla prigione, anche se successivamente tale resoconto è stato smentito dagli attivisti per i diritti umani. Per il ministro infatti “non esiste alcun problema sanitario che avrebbe causato i disordini. Non vi è alcuna infezione né alcun prigioniero o personale amministrativo o amministrativo che abbia il coronavirus”. Inoltre la stessa Cabello il prossimo gennaio assumerà l’incarico di Ispettore generale della Colombia (l’ufficio pubblico preposto al controllo di agenzie e istituzioni del governo), una mossa che secondo HRW solleva serie preoccupazioni sui conflitti di interesse nel garantire un’indagine approfondita. Iran. Scambio di prigionieri, rilasciata ricercatrice australiana in carcere da due anni di Giordano Stabile La Stampa, 26 novembre 2020 Kylie Moore-Gilbert era accusata di essere una spia. Libera in cambio di tre iraniani detenuti in Tailandia. L’Iran ha rilasciato la ricercatrice Kylie Moore-Gilbert, arrestata nel settembre del 2018 durante una vacanza nel Paese, con l’accusa di essere una spia. Moore-Gilbert è stata scarcerata in cambio della liberazione di tre iraniani detenuti in Tailandia. Secondo Teheran erano “un uomo d’affari e altri due cittadini incarcerati con accuse infondate”. Moore-Gilbert era accusa di “lavorare per il regime sionista”, cioè Israele. Specialista in politica mediorientale all’Università di Melbourne, era stata condannata a dieci anni di carcere. La diplomazia australiana ha accelerato le trattative per il suo rilascio dopo il suo trasferimento nella prigione di Qarchak, famigerata per le sue condizioni di salute e sicurezza, tanto più durante la pandemia di Covid-19 che ha colpito duramente l’Iran e il sistema carcerario. Kylie, che ha doppia cittadinanza britannica e australiana, soffriva anche di depressione. In un video diffuso dai media iraniani la si vede in condizioni buone, con indosso un chador e la mascherina sul volto. Iran. Rischia di essere giustiziato Djalali, il ricercatore che aveva lavorato in Italia di Gabriella Colarusso La Repubblica, 26 novembre 2020 Ahmadreza Djalali è in carcere in Iran da oltre tre anni, condannato a morte per spionaggio in un processo senza testimoni e senza prove, e ora rischia di essere giustiziato. Ieri sua moglie Vida Mehrannia, che vive in Europa con i loro due figli, ha ricevuto la telefonata del marito dal carcere di Evin, a nord di Teheran: le annunciava che l’avrebbero trasferito in isolamento e che la sentenza di morte potrebbe essere eseguita a breve, che quella avrebbe potuto essere la sua ultima telefonata. Djalali è un ricercatore iraniano esperto di medicina dei disastri e assistenza umanitaria, ha lavorato anche all’università del Piemonte Orientale di Novara, ha doppia cittadinanza iraniana e svedese: nel 2016 fu arrestato in Iran dove era tornato per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz. Amnesty International parla di “accuse infondate” nei suoi confronti e di un processo senza garanzie di difesa. “Le autorità iraniane hanno fatto forti pressioni su Djalali affinché firmasse una dichiarazione in cui “confessava” di essere una spia per conto di un “governo ostile”. Quando ha rifiutato, è stato minacciato di essere accusato di reati più gravi”. Domani l’organizzazione ha indetto un presidio a Novara alle 18 per chiede il rilascio di Djalali. Nei mesi scorsi la moglie Vida aveva chiesto aiuto anche alle autorità italiane attraverso Repubblica: “L’Italia faccia il possibile per far tornare a casa Ahmadreza, che è innocente, è ostaggio di uno scambio politico ed economico, non ha fatto nulla”. Il 18 dicembre scorso 134 premi Nobel scrissero un appello alla guida suprema Ali Khamenei per la liberazione di Djalali. Con uno scambio di prigionieri invece è stata liberata Kylie Moore-Gilbert, un’accademica britannico-australiana detenuta in Iran da due anni e condannata a 10 anni per spionaggio. La notizia dello scambio è stata data da un sito di notizie vicino alla tv di stato iraniana: l’emittente Irib ha poi rilasciato le prime immagini della donna dopo la sua liberazione. Nel video si vedono anche i tre uomini iraniani che sono stati liberati in cambio del rilascio di Moore-Gilbert: sono avvolti nella bandiera iraniana e uno di loro è sulla sedia a rotelle. I comunicati ufficiali dicono che i tre uomini sono imprenditori, e che erano detenuti a Bangkok, la capitale della Tailandia. Su alcuni canali Telegram legati alle Irgc, i guardiani della rivoluzione, il corpo militare conosciuto come Pasdaran, è apparsa la notizia che due dei tre prigionieri sarebbero Saeed Moradi e Mohammad Khazaei, che erano stati condannati in Tailandia nel 2012 per aver partecipato a un attentato contro l’ambasciatore israeliano a Bangkok. Moradi che all’epoca dell’attentato aveva 28 anni, perse le gambe con la detonazione di una bomba che aveva cercato di lanciare contro la polizia, ed era stato condannato a vita dal tribunale penale di Bangkok. Negli ultimi anni l’Iran ha arrestato diversi stranieri o persone con doppio passaporto - Teheran non riconosce ai cittadini iraniani la doppia nazionalità - spesso condannabili per spionaggio ma diverse organizzazioni per i diritti umani accusano il regime di usare questa tattica per ottenere concessioni nei negoziati paralleli con i governi. Durante la tormentata detenzione, Moore-Gilbert aveva denunciato pressioni e maltrattamenti nei suoi confronti. Algeria. Giornalista e informatore condannati a un anno ansamed.info, 26 novembre 2020 Ong: “90 persone in carcere preventivo per reati opinione”. In Algeria, un giornalista e un informatore algerini sono stati condannati in contumacia a un anno di reclusione e al pagamento di 550 mila dinari da un tribunale di Orano. Lo ha detto il loro difensore di fiducia, Farid Khemisti. Sad Boudour, giornalista e attivista della Lega algerina per la difesa dei diritti umani (Laddh), e l’informatore Nourredine Tounsi, sono stati “condannati d’ufficio a una pena detentiva”, ha detto l’avvocato sulla sua pagina Facebook, precisando che “considerando che si tratta di una sentenza in contumacia, gli imputati possono opporsi al verdetto pronunciato”. Boudour è accusato in particolare per “aver minato il morale dell’esercito con le sue pubblicazioni su Facebook”, “attaccato l’integrità del territorio nazionale” e “invocato alla disobbedienza civile”, mentre il suo coimputato è accusato di aver intrattenuto rapporti di “intelligence con agenti di una potenza straniera e di aver divulgato segreti aziendali”, secondo media locali. I due imputati non erano presenti nemmeno al processo che si è svolto lo scorso 27 ottobre, avendo il giudice rifiutato il trasferimento dal carcere di Tounsi, detenuto da settembre ad Orano, ha precisato il Comitato Nazionale per il rilascio dei detenuti (Cnld), un’associazione che sostiene i detenuti per reati di opinione. L’accusa aveva chiesto nei loro confronti in quell’occasione due anni di carcere. Boudour è attualmente in stato di libertà dopo essere stato rilasciato nell’ottobre 2019 dopo aver scontato un periodo di detenzione preventiva, mentre Tounsi si trova in carcere dal settembre 2020. In un altro processo per diffamazione, Tounsi è stata condannato in contumacia a sei mesi di prigione, secondo la Cnld. Le autorità algerine da mesi prendono di mira attivisti, oppositori politici, giornalisti e utenti di Internet, aumentando il numero di arresti, procedimenti giudiziari e condanne, al fine di impedire una ripresa dell’Hirak, il movimento di protesta anti-regime, “congelato” dalla crisi sanitaria. Secondo la Cnld, circa 90 persone sono attualmente incarcerate per fatti legati alle proteste popolari in Algeria, la maggior parte per aver postato su Facebook.