Carcere e Covid. Emergenza o riforma? di Franco Corleone Il Manifesto, 25 novembre 2020 Sono più di 1.800 i contagiati, 800 tra i detenuti e 1.000 tra il personale, soprattutto tra gli agenti di Polizia penitenziaria. Il diritto alla vita e alla salute è calpestato colpevolmente. Susciterebbe scandalo, non diciamo indignazione, se cominciassero a morire tanti detenuti quanti furono i decessi di ospiti delle Rsa nella prima ondata della pandemia? Probabilmente no: come sono stati archiviati come tossici i 13 morti dopo le proteste di marzo e come sono stati dimenticati gli anziani (erano vecchi! comunque), così cinicamente qualcuno direbbe, o penserebbe, che ci si è liberati di delinquenti. E allora dove sta l’emergenza carcere? Nel sovraffollamento? O piuttosto nella violazione dei principi della Costituzione, nella disapplicazione delle leggi e dei regolamenti che prescrivono diritti e dignità anche per i soggetti privati della libertà? La verità è che la categoria dell’emergenza da sempre costituisce un paravento per rimandare i nodi veri e per mettere pezze ai buchi più sconci. Basta ricordare come è finito lo stato di emergenza dichiarato dal ministro Angelino Alfano: progetti di edilizia carceraria, per fortuna solo parzialmente realizzati. Anche oggi di emergenza si muore, perché sono più di 1.800 i contagiati, 800 tra i prigionieri e 1.000 tra il personale, soprattutto tra gli agenti di polizia penitenziaria. Il diritto alla vita e alla salute è calpestato colpevolmente. Ragionevoli proposte sono sul tappeto; le hanno presentate i Garanti dei detenuti, le ha ribadite il Presidente di Magistratura Democratica Riccardo De Vito ed è auspicabile che vengano raccolte. Eppure temo che andremo incontro a una nuova delusione. Perché i riformatori dovrebbero avere la forza di reclamare una profonda discontinuità rispetto a chi sogna un carcere chiuso, dove si incrementa il lavoro non retribuito. Le questioni sono note. Il “Libro Bianco sulle droghe” da 11 anni denuncia il fatto che il 50 per cento dei detenuti è recluso per violazione della legge proibizionista sulle droghe. Dunque, andrebbe messo subito all’ordine del giorno il cambiamento del Dpr 309/90. La relativa proposta è depositata alla Camera e al Senato da più legislature: occorre percorrere la strada della decriminalizzazione completa del consumo, della legalizzazione della canapa e delle prassi della riduzione del danno. Ventimila detenuti in meno consentirebbero una grande opera di ristrutturazione delle carceri per adeguarle alle norme del Regolamento del 2000 e garantire condizioni igieniche sanitarie accettabili, spazi adeguati allo studio e alle attività funzionali al reinserimento sociale. Proprio in questo momento, nel pieno della crisi provocata dalla pandemia, va posto come priorità il riconoscimento del diritto all’affettività e alla sessualità delle persone recluse. L’approvazione della legge che è in discussione alla Commissione Giustizia del Senato, con Monica Cirinnà relatrice, indicherebbe la prospettiva di un carcere dei diritti alla fine delle restrizioni in atto oggi per i colloqui con i familiari e i volontari. Sarebbe di monito a che le barriere di plexiglas costituiscano una parentesi e non un ritorno alla stagione dell’afflizione dei banconi divisori. Un altro tema non dovrebbe essere trascurato: quello dell’ergastolo e del suo superamento, facendo propri l’insegnamento di Aldo Moro e il monito di Papa Francesco, che non ha avuto paura di affermare che “l’ergastolo è il problema, non la soluzione”. Nessuno ricorda che il 30 aprile 1998 il Senato con 107 voti favorevoli, 51 contrari, 8 astenuti approvò il disegno di legge per l’abolizione della pena senza fine; è inimmaginabile che il Parlamento attuale almeno discuta del problema? Infine, la Società della Ragione ha rivolto un appello a tutti i deputati perché sottoscrivano la proposta di legge n. 2456, a prima firma Riccardo Magi, per restituire potere e responsabilità al Parlamento in materia di amnistia e indulto, modificando l’art. 79 della Costituzione. Un programma minimo, per innalzare le bandiere del diritto con nuova ambizione e determinazione. Coronavirus: “Si calcoli anche l’Rt delle carceri italiane” di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2020 Fra i 53.723 detenuti, 809 hanno contratto il virus, 16 sono ricoverati in ospedale. E fra il personale ci sono 1.042 positivi, di cui 10 ricoverati. Cinque i morti della seconda ondata. “Con il virus che sembra dilagare, chiediamo alla comunità scientifica e a chi di competenza di calcolare l’indice di contagio (Rt) in carcere. E si impongono ulteriori urgenti misure da parte del Governo, che muovano su tre principali linee: deflazionamento sensibile della densità detentiva; rafforzamento e supporto efficace della Polizia penitenziaria; potenziamento incisivo dei servizi sanitari nelle carceri”. Queste le richieste della Uilpa Polizia penitenziaria, illustrate dal segretario generale Gennarino De Fazio, legate al balzo in avanti dei contagi da nuovo coronavirus nelle carceri del Paese. E anche se il contagio rallenta, non si ferma. Situazione “molto preoccupante” - Anche se nel monitoraggio settimanale, aggiornato al 22 novembre, si registra “una leggera flessione dei contagi rispetto agli ultimi due giorni”, la situazione rimane “molto preoccupante”, spiega De Fazio. E con una aggravante: “Il sistema sanitario penitenziario è legato a stretto giro a quello sanitario regionale. Dunque i tamponi si fanno o non si fanno esattamente come accade fra la popolazione a livello regionale”. E c’è una forte carenza di personale. Ritenute irrisorie da Uilpa le assunzioni aggiuntive previste nella manovra di bilancio “se si considera che le 1.935 unità dichiarate saranno diluite su ben cinque anni (solo 200 quelle previste per il 2021) e che nei prossimi tre è previsto l’ampliamento della capienza detentiva per quasi 4.500 posti letto”. Uno studio dell’amministrazione penitenziaria condotto da esperti, presentato alle organizzazioni sindacali, attesta che nelle carceri il personale è sottodimensionato di oltre 17mila unità (17.649): in una dotazione di organico ideale servirebbero 54.208 unità, mentre ce ne sono 37.153. Hanno contratto il virus 809 detenuti e 1.042 operatori - Dai dati ufficiali del ministero della Giustizia aggiornati a domenica 22 novembre fra i 53.723 detenuti, 809 hanno contratto il Covid-19, di cui 14 fra i nuovi giunti. La maggior parte - 766 - sono asintomatici, 27 sono sintomatici gestiti all’interno degli istituti di detenzione, 16 sono ricoverati in ospedale. E fra il personale - 37.153 operatori nella polizia penitenziaria e 4.090 del personale amministrativo e dirigenziale dell’amministrazione penitenziaria - ci sono 1.042 positivi, di cui 10 ricoverati in ospedale. Dunque numeri più alti si registrano fra gli operatori, ma De Fazio ricorda che “bisognerebbe capire se i detenuti hanno la stessa possibilità di accesso ai tamponi degli operatori”. Preoccupazione per alcune carceri con alti livelli di contagio - In questa seconda ondata di Covid, secondo i dati in possesso di Antigone, sono stati registrati cinque decessi tra i detenuti, negli istituti penitenziari di Secondigliano, Poggioreale, Alessandria, Saluzzo e Livorno e uno tra i medici penitenziari (Secondigliano). Preoccupazione segnalata da Uilpa per alcuni cluster, da Tolmezzo (118) a Napoli Poggioreale (100), da Napoli Secondigliano (90) a Milano Opera (49). Servono misure più radicali rispetto alla prima ondata - “La notizia che c’è un positivo in carcere scatena il panico. E anche se alla seconda ondata si è arrivati più attrezzati, con i colloqui dietro gli schermi di plastica o in collegamento video e gli arrestati in singola e quarantena prima di salire in sezione - spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone - la situazione è preoccupante, nonostante fossimo più preparati, più attrezzati e consapevoli. Serve un salto in avanti. Occorrono misure più radicali rispetto alla prima ondata”. Scandurra ricorda che le malattie infettive in carcere, dalla tubercolosi alle forme di epatite e oggi al Covid, sono un problema storico degli istituti. “Un carcere che sulla carta non ha problemi di sovraffollamento, se deve trasformare le celle doppie in singole per garantire l’isolamento, deve essere al di sotto della capienza regolamentare”, ricorda Scandurra. “Il tasso di sovraffollamento supera oggi il 110%, ma questo è un dato medio. Vanno poi viste le singole realtà, perché ci sono carceri che superano il 200 per cento. E diventa impossibile rispettare i protocolli di sicurezza e di prevenzione, perché la persona detenuta non è autonoma e ogni attività essenziale richiede una interazione con altre persone, dall’arrivo del pranzo alla doccia”. Garantire non solo i colloqui, ma anche lavoro e formazione - “Bisognerebbe cercare, finché dura l’emergenza - chiede Scandurra - di garantire una ordinarietà della vita in carcere: che non sono solo i colloqui con i familiari. Il carcere era anche lavoro, formazione, attività culturali. Una parte di queste attività potrebbero essere tenute in piedi tramite le tecnologie di comunicazione a distanza. Ora la preoccupazione principale è quella di garantire il contatto con i familiari, anche per favorire il calo della tensione. Sarebbe importante invece, anche per la finalità rieducativa della pena, che fossero garantite anche le altre attività”. La lettera al governo e ai parlamentari - La seconda ondata di contagi legati al nuovo coronavirus registra numeri ampi, tanto che Antigone, Anpi, Arci, Cgil, Gruppo Abele, hanno inviato una lettera al governo e ai parlamentari delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, chiedendo alcuni interventi. A partire dall’estensione dell’affidamento in prova in casi particolari e della detenzione domiciliare senza limiti di pena per chi ha patologie pregresse. Si chiede di fare ricorso alla detenzione domiciliare per quei provvedimenti di esecuzione delle sentenze emesse nei confronti di persone cui il magistrato non ha ritenuto di dover applicare un provvedimento di custodia cautelare in carcere, non considerandole dunque un pericolo per la società. Si vorrebbe che le licenze per i detenuti semiliberi, “che rischiano con più facilità di introdurre il virus in carcere”, siano estese “a coloro che lavorano all’esterno dell’istituto”. Poi si chiede la possibilità di trascorrere in detenzione domiciliare la parte finale della pena per residui fino a 36 mesi (oggi prevista per residui pena fino a 18 mesi). Questa ultima misura in base ai dati al 30 giugno scorso riguarderebbe 18.850 detenuti per residui pena fino a 36 mesi. Le misure del decreto ristori - Il decreto Ristori, entrato in vigore il 29 ottobre, oltre ad aiuti, bonus e indennizzi in favore delle attività più colpite dalle chiusure imposte dai dpcm per affrontare i contagi da pandemia, contiene anche alcune disposizioni sul fronte delle carceri. Per esempio la previsione che al condannato ammesso al regime di semilibertà possano essere concesse licenze premio straordinarie con durata superiore a 45 giorni all’anno. Restano ferme la revoca e la sospensione della misura in caso di trasgressione degli obblighi. In ogni caso, la durata delle licenze premio non può estendersi oltre il 31 dicembre 2020. Fra le novità possono essere concessi permessi premio di durata superiore a quindici giorni che, cumulati complessivamente, possono essere anche superiori a quarantacinque giorni per ciascun anno di espiazione. Ai minori possono essere concessi permessi premio oltre i 30 giorni che possono essere complessivamente superiori a 100 giorni nell’arco di ciascun anno di espiazione (si applica fino al 31 dicembre 2020). La disposizione non si applica ai condannati per i cosiddetti reati ostativi, per maltrattamenti contro familiari o conviventi, per atti persecutori o “stalking”, per delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico e per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Il carcere e la salute dei detenuti interessano a qualcuno? di Renato Luparini* Il Dubbio, 25 novembre 2020 Reparti al collasso, soglia di sicurezza ampiamente superata, personale allo stremo, capienza oltre ogni limite. Il governo non può far finta di niente e su pressione dell’Europa dovrà prendere provvedimenti impopolari per evitare la catastrofe. Non sto parlando di ospedali, sto riferendomi alle carceri. Quello che ho appena scritto non è un paradosso, ma è frutto di un’osservazione diretta, sia pure da remoto, visto che oramai gli Istituti di pena sono barricati e chiusi per qualsiasi ospite, anche se con il titolo di avvocato e il ruolo, non marginale, di difensore. Sono fatti risaputi: basta parlare con qualsiasi legale, cancelliere e magistrato che operi nel settore penale, ma non interessano a nessuno, tanto meno all’opinione pubblica e quindi ai politici. L’unico partito che da anni, meritoriamente, si batte su questi temi è il Partito Radicale, ma paradossalmente la sua battaglia è divenuta talmente identitaria da far considerare la questione carceraria un argomento “di nicchia”, da far curare a un piccolo partito, come le vertenze degli animalisti o dei vegani. La gente ha paura di ammalarsi e vuole che gli ospedali funzionino: star male è un fatto naturale, che può capitare a tutti. Di andare in galera invece nessuno sembra avere timore: anzi è entrato nel lessico familiare che non ci va più nessuno e comunque non è un posto per gente normale, semmai per delinquenti (e la gente assicura in continuazione sé stessa e gli altri di non esserlo), che sono esseri diversi dalle persone comuni, essendo notoriamente (nell’immaginario collettivo) extracomunitari, preferenzialmente zingari, di pelle scura e di religione islamica. Anche quando qualcuno finisce in carcere convince sé stesso e i parenti che è lì per un equivoco, un grossolano errore da rimediare in pochi giorni e perciò prega insistentemente l’avvocato di farlo uscire subito. Il carcere è un luogo che non esiste: non a caso gli Istituti di pena sono o su isole bellissime ma inaccessibili al di fuori della breve stagione turistica o in periferie nascoste delle città, come i cimiteri. L’editto di Saint Cloud di Napoleone pose i sepolcri fuori dalla città dei viventi, un po’ per imitare l’Antico Egitto e molto per distogliere il pensiero del popolo dalla morte e dai condizionamenti religiosi. Per le carceri, Foucault lo ha spiegato, qualche anno dopo è valso lo stesso principio, sorvegliare e punire ma in modo discreto, “da remoto”, come si dice oggi. A Regina Coeli a un passo dal Tevere nel centro di Roma si è affiancata Rebibbia a pochi metri da una delle uscite Est del Raccordo Anulare, così come in tante città. La scusa era costruire strutture moderne e funzionali, che spesso si sono rivelate più tristi e cadenti dei vecchi monasteri riadattati ma forse il motivo reale è far sentire alla gente che risponde ai sondaggi che il carcere non fa parte della sua vita e dei suoi problemi, che lì non va mai nessuno che conosce e che stima, ma solo estranei. Poi magari un politico influente finisce dietro le sbarre e parlando con amici si accorge di come sono ridotte le prigioni in Italia e rimpiange di non averci pensato prima; ma ormai il suo parere non conta niente e la notizia delle sue sofferenze viene diffusa solo per appagare il sentimento di vendetta e rancore delle masse verso la famigerata “casta”. Intanto in carcere uomini e donne si ammalano e muoiono. Ma il loro conteggio non interessa; non rientrano nei dati che fanno audience oggi, quelli dei contagiati dal Covid, dei “tamponati” (orrido neologismo che mi fa pensare sempre a un sinistro stradale) e del mitico indice RT che ha superato da tempo l’indice dello Spread, tanto in voga qualche stagione fa (e forse anche il prossimo anno). Dopo il telegiornale tutti a guardare un bel telefilm, tipo Dottor Kildare, con un medico affascinante e generoso. Teleromanzi sul carcere non ce ne sono, c’è solo silenzio. *Avvocato cassazionista Le ambiguità dei forcaioli che si vergognano di Beppe Battaglia Ristretti Orizzonti, 25 novembre 2020 Due delle tante ambiguità che accompagnano il carcere: il 41bis e il... contagio criminale. Sul 41bis si è detto e si dice di tutto e di più. La cordata dei forcaioli di mestiere è sempre lì che si strappa le vesti giurando e spergiurando (il falso) che non si tratta di tortura e che, invece, esso serve ad interrompere la comunicazione tra il carcere e fuori dal carcere. Naturalmente a pontificare su questa materia sono persone che il carcere non l’hanno mai visto, quindi immaginano e pontificano con teorie fantastiche, con spocchia intellettuale e pescando le ragioni dalla propria pancia. Presupposti lontani mille miglia dalla realtà concreta del carcere con le sue costanti e le sue variabili. A dimostrazione che non è assolutamente vero che il 41bis serve ad interrompere la comunicazione tra dentro e fuori, ci sarebbero una serie vasta di indicatori. Uno per tutti: ci sono persone sottoposte a tale regime che non hanno nulla da comunicare ma soprattutto non hanno a chi comunicare essendo la propria formazione mafiosa estinta nel tempo. Ma c’è di più. Se questo esercito amante della forca avesse messo piede in un carcere qualche volta e/o avesse avuto consuetudine di qualche natura con le persone detenute, saprebbe che il boss che finisce in carcere - anche quando si chiama Provenzano o Riina - in realtà non comanda più un bel niente e che i suoi eventuali ordini dalla galera non trovano più alcun riscontro esecutivo all’esterno. I rapporti tra dentro e fuori, prima ancora del 41bis, erano gestiti unicamente dall’esterno. Ossia, il boss in galera, per il solo fatto che la sua vita inizia e finisce nello spazio angusto di una cella, perde oltre al ruolo anche la competenza degli interessi della compagine territoriale della aggregazione di appartenenza. In breve, il boss in galera diventa un pericolo per tutta l’organizzazione perché non è più in grado di “leggere” nel suo dinamismo gli interessi della cosca. Naturalmente è sconveniente abbandonarlo al suo destino da galeotto. Potrebbe cambiare sponda... Quindi gli viene data l’illusione che lui è sempre il boss attraverso i soldi garantiti a lui e alla sua famiglia, agli avvocati e ai “cavalli” per le comunicazioni riservate. I “cavalli” sono alcuni dipendenti penitenziari (è prediletto il poliziotto penitenziario che può spingersi senza controlli fino alla cella del boss) corrotti. Un’operazione controllata esclusivamente dall’esterno in modo tale che il boss incarcerato non possa prendere iniziative di comunicazione verso l’esterno se non quando e nella misura richiesta dall’esterno. Il “cavallo”, trasmettendo la comunicazione (in genere un pizzino scritto) ha anche l’incarico di portare fuori l’eventuale risposta al pizzino, oppure assolve solo il compito della consegna. Il “cavallo” inoltre non è sempre lo stesso e non è abilitato a mettersi agli ordini del recluso. Naturalmente, poiché il boss non è un cretino, dall’esterno non solo gli assicurano assistenza economica e legale a lui e alla sua famiglia. I suoi ex gregari devono anche dargli l’illusione che ancora lui è il boss, che ancora comanda e dunque lo tengono in qualche modo “informato” su questioni scontate e che comunque non suscitino più l’interesse del carcerato. Il resto, per avvalorare la bugia del boss che comanda dalla galera, lo fanno i media che accreditano e certificano la bugia fino a farla diventare verità! A chi obietta che il boss può utilizzare i familiari per comunicare ai soci esterni che lui sa come raggiungere... in questo caso si dimentica che i familiari sono un vettore pericolosissimo per due motivi. Il primo è che essendo familiari a contatto con il proprio congiunto in galera sono anche bersaglio prediletto dei controlli di polizia; il secondo motivo di inaffidabilità è dato dal fatto che trattandosi di persone con un grosso coinvolgimento emotivo (gli affetti non sempre consentono alla ragione di prevalere) non danno garanzia di sicurezza. Era questa la ragione che induceva le formazioni partigiane, durante la guerra di liberazione, a mettere in quarantena il compagno partigiano che usciva dal carcere. Come dire, quando tutto il mondo si riduce ad una angusta cella, c’è poca speranza che la persona colpita possa allargare le sue latitudini razionali. Ovviamente è vero che la motivazione formale (e legale) del 41bis è proprio quella di impedire la comunicazione tra dentro e fuori. E l’ambiguità riposa proprio qui. Se così fosse che senso avrebbero tutte le deprivazioni apparentemente assurde che caratterizzano la vita (si fa per dire) della persona reclusa al 41bis? E, d’altra parte, non è più un mistero, neanche per i più scettici, che tali deprivazioni e mortificazioni - proprie della tortura - hanno lo scopo di indurre alla delazione, al pentimento, alla collaborazione (chiamatela come volete), pur di sopravvivere! Questo meccanismo bene lo spiegano i più arrabbiati sostenitori della valenza del 41bis, uno per tutti quel Caselli Giancarlo, magistrato in pensione, che non si vergogna più di sostenere (non che si sia mai vergognato, ma fino a poco tempo fa si mascherava ancora...) che il boss catturato ha di fronte a sé solo due possibilità: la collaborazione o la morte. Eppure la nostra Carta Costituzionale non dice questo. Anzi, dice l’esatto contrario (art. 27) e uno come il Caselli certo non può non saperlo! Infine, su questo tema, vale la pena di sottolineare che al 41bis non ci sono solo i boss. E non ci sono solo i condannati, molti sono gregari di ultimo livello, altri ancora giudicabili (e dunque innocenti fino a prova del contrario)! Insomma il 41bis è come la storia del... re nudo. I tromboni nazionali si strappano le vesti per sostenere che non è tortura e i media fanno il resto. Ricordiamo questa primavera in piena pandemia quando volevano accreditare un esercito di boss che aveva lasciato le galere! Quando serve sono tutti boss! Di certo non basta questo coro di sciagurati per fare verità della menzogna! Il 41bis è uno strumento vergognoso di tortura e spesso la Corte Europea per i Diritti Umani ce lo ricorda... L’altra ambiguità che accompagna il carcere riguarda la tesi secondo la quale il carcere è una “scuola di delinquenza”. Il presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato con un co-autore, ha scritto un libro recentemente, dove prendendosi gioco dei luoghi comuni che affollano la prigione ne rafforza alcuni tra i quali, appunto, il “contagio criminale” (notare il nuovo conio, in tempi di Covid...). Naturalmente il nostro giudice si diffonde a spiegare come nella promiscuità del carcere il delinquente più incallito insegna a quello più sprovveduto, lasciando intendere che la delinquenza s’insegna in aula. Ora, è certamente vero che il carcere è scuola di delinquenza, ma il nostro giudice, attribuisce i ruoli di docenza e discenza a ...lume di naso. In verità, gli studiosi di diritto penitenziario e pochi tra gli addetti ai lavori sanno benissimo che si tratta di un insulto al buonsenso, giacché il delinquere s’impara in campo aperto e non certamente in aula. Il meccanismo è semplice ma richiede un po’ di applicazione. La persona detenuta, anche la più sprovveduta, entrando in carcere scopre quasi immediatamente che tutto il personale gestore non rispetta le regole dell’Ordinamento Penitenziario. Ossia, commette dei reati (e molti) quotidianamente. Ma, la persona detenuta, scopre altresì che alla commissione di tali reati non corrisponde alcuna sanzione di tipo penale e neppure amministrativa. E dunque il nostro malcapitato s’interroga su come mai il suo reato è stato perseguito e quelli che ha sotto gli occhi tutti i giorni passano senza conseguenze. Naturalmente trova anche e rapidamente la risposta: gli autori dei reati che ha sotto gli occhi (e spesso sulla propria pelle) tutti i giorni, mettono in campo un arsenale di violenza enorme e questo determina entro certi limiti un’immunità diffusa. Ma tant’è, il nostro si chiede: dov’è che ho sbagliato per trovarmi in cella? Questi mi insegnano che ad usare la violenza si può farla franca... E in breve giunge anche alla conclusione: non sono in cella perché ho fatto un reato, bensì perché ...nel farlo ho messo in campo una quantità di violenza insufficiente! E dunque si ripromette di scodellare, all’uscita dal carcere, un volume di fuoco maggiore di quello che aveva impiegato per commettere il reato che lo ha portato in cella. Eccola la scuola di violenza, il carcere criminogeno, il “contagio criminale”, signor giudice. Il piccolo particolare riposa nel fatto che su quella cattedra siede lo Stato e non il delinquente più incallito! Signor giudice, quando scriverà un altro libro si ricordi di fare mente locale al fatto che una società divisa in classi è in sé un crimine giacché piccoli gruppi predatori sfruttano, spogliano, escludono, non certo pacificamente, il grosso del corpo sociale! Ma, addirittura i nostri predatori si dotano a loro discernimento anche delle leggi, dei sistemi punitivi e del personale adeguato. Il “contagio criminale”, in questi giorni, lo vediamo chiaramente in tutte le articolazioni dello Stato, dal ministro, giù fino al più insignificante subalterno della prigione, dove sta maturando una strage senza che qualcuno muova un dito per impedirla! Il “contagio criminale” è il gemello del “contagio da coronavirus” in prigione, entrambi uccidono chi non può neanche difendersi! Prima di scrivere un altro libro, però, signor giudice, ascolti le parole di Piero Calamandrei: “Bisogna avere visto”!!! Covid e rivolta nelle carceri, esclusa una “regia comune” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 novembre 2020 La mattina del 9 marzo scorso, quando il Paese stava chiudendo i battenti per la prima emergenza coronavirus e nelle carceri era già stata decisa la sospensione dei colloqui, radio e tv avevano dato la notizia di tre detenuti morti (alla fine saranno tredici) e due agenti sequestrati nei penitenziari di Modena e Pavia, mentre la rivolta montava altrove. Fu in quel momento che a Roma un gruppo di reclusi decise di accendere un fuoco anche nel carcere di Rebibbia. In quattro circondarono e aggredirono un assistente capo della polizia penitenziaria, lo picchiarono e gli rubarono le chiavi con cui hanno aperto i cancelli del “braccio” facendo arrivare altri detenuti. Da quel momento successe di tutto, tra devastazioni e incendi, assalto alle infermerie. In nove accatastarono tutto ciò che veniva distrutto, per poi salire sull’improvvisato pulpito per incitare alla ribellione e minacciare chiunque si fosse intromesso. A fatica, recuperate le chiavi e organizzata la risposta, gli agenti di custodia riuscirono a riportare l’ordine. Nel frattempo, fuori dalla prigione, andava in scena la protesta dei parenti. Per quei disordini sono stati notificati ieri nove nuovi ordini d’arresto ad altrettanti detenuti identificati come ispiratori e promotori della sommossa, al termine di un’inchiesta della Procura di Roma che conta 55 indagati (tra cui 9 stranieri) e che ha escluso, per il momento, collegamenti con gli episodi simili accaduti contestualmente in altre prigioni d’Italia, da Nord a Sud. Non ci sono elementi che confermino la “regia comune” ipotizzata durante e dopo le rivolte. Sembra essersi innescato, piuttosto, uno spirito di emulazione e la voglia di diffondere il contagio della protesta dopo la notizia dei primi tumulti. “Il Covid è certamente un problema, ma qui si parla di condotte che vanno oltre qualsiasi protesta”, spiega il procuratore di Roma Michele Prestipino a commento dell’operazione. Le indagini condotte dalla polizia penitenziaria e coordinata dai pubblici ministeri Eugenio Albamonte e Francesco Cascini ha individuato identità e ruoli dei principali protagonisti della rivolta. Fra loro c’è Leandro Bennato, 31 anni, già accusato di far parte del gruppo di narcotrafficanti guidato da Fabrizio Piscitelli, il capo ultrà detto Diabolik ucciso il 7 agosto 2019; tre mesi dopo quel delitto. Bennato venne ferito in un agguato che, secondo gli investigatori, fu un tentato omicidio rimasto ancora senza colpevoli (come l’assassinio di Diabolik). Un altro è Vincenzo Bova, ventiseienne siciliano sotto processo per droga, che durante la sommossa si impossessò di un idrante scagliando il getto d’acqua contro gli agenti, riconosciuto dal pizzetto e dai tatuaggi variopinti sull’orecchio e sul collo. Molti degli indagati, che avevano tentato di coprirsi il volto per non essere ripresi dalle telecamere, in parte distrutte, sono stati identificati proprio dai tatuaggi che spuntavano nei centimetri di pelle rimasti scoperti o dal particolare taglio di capelli. Amnesty: allarme Covid nelle carceri italiane di Giampiero Di Santo Italia Oggi, 25 novembre 2020 Il numero dei contagiati è molto più alto rispetto al picco registrato nella prima ondata della pandemia. La maggior parte dei penitenziari lamenta la mancanza di spazi appropriati per l’isolamento dei positivi e la scarsità di servizi sanitari e assistenza medica. È dilagante la diffusione dei contagi da Covid 19 nelle carceri italiane secondo Amnesty International Italia, che esprime la sua profonda preoccupazione per la mancata “riduzione consistente della presenza numerica di detenuti negli istituti”. Amnesty International cita gli ultimi dati del ministero della Giustizia, secondo i quali al 22 novembre scorso “erano 53 mila 723 le persone effettivamente presenti in carcere, a fronte di una capienza regolamentare di 50 mila 553 posti, ai quali vanno sottratti più di 3 mila posti non disponibili. Al 31 ottobre erano 33 i bambini con meno di tre anni presenti in carcere con le loro madri. La percentuale di affollamento è quindi ancora oggi superiore al 110% su scala nazionale, con picchi in alcuni istituti italiani di più del 170%. Certo, a fine febbraio, quando l’epidemia era esplosa in tutta la sua virulenza, “il numero di persone detenute era ben superiore, con 61 mila 230 posti occupati”, ma “si era avviata un’apprezzabile e doverosa tendenza al decongestionamento, con una diminuzione di 1.800 posti già alle soglie delle prime disposizioni adottate dal governo il 17 marzo, contenute nel decreto “Cura Italia”, che aveva introdotto una serie di misure alternative al carcere che avevano permesso la riduzione di circa 4.500 presenze nel periodo dal 19 marzo al 16 aprile, in base ai dati raccolti dal rapporto di Antigone”, sottolinea ancora Amnesty International Italia, che aggiunge: “Dal mese di luglio invece la popolazione carceraria è tornata a crescere, riducendo anche gli spazi per l’isolamento delle persone positive, a fronte di un aumento esponenziale dei contagi. Al 30 ottobre 2020 le presenze in carcere ammontavano a 54 mila 868 persone, 1.249 in più di fine luglio. E il nuovo Decreto Ristori approvato il 28 ottobre ha reintrodotto nuove misure per contenere i contagi nelle carceri sulla linea di quelle di marzo, ma con effetti più limitati e che hanno permesso ad oggi un calo di poco più di 1.100 presenze”. Numeri preoccupanti, che rendono ancora più grave l’aumento dei contagi “ormai riscontrato in più di 70 istituti penitenziari italiani. Al 22 novembre, il numero di detenute e detenuti positivi al Covid-19 era pari a 809 (di cui 27 sintomatici e 16 ospedalizzati), con già alcuni decessi registrati in varie regioni. Anche i contagi tra gli agenti e altri operatori penitenziari sono in continuo aumento, con 969 casi tra il personale della polizia penitenziaria e 73 tra il personale amministrativo e dirigenziale, secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia. In linea con l’andamento dei contagi generale, la regione Lombardia resta la più colpita a livello nazionale anche per quanto riguarda le carceri, con molte altre regioni in grande affanno”. In tutto i contagi sono 1.851 Amnesty spiega che “nonostante solo alcuni istituti penitenziari rappresentino dei veri e propri focolai, il numero dei contagiati è molto più alto rispetto al picco registrato nella prima ondata della pandemia. Nel suo ultimo bollettino del 20 novembre, il Garante per i diritti dei detenuti ha segnalato che la maggior parte degli istituti lamentano la mancanza di spazi appropriati per l’isolamento delle persone detenute positive, in un contesto caratterizzato anche da scarsità di servizi sanitari e assistenza medica. A questa situazione esplosiva si aggiunge poi l’isolamento prolungato delle persone detenute, aggravato dalla nuova sospensione delle visite esterne nelle carceri. Sulla base delle Faq del Governo infatti, nelle regioni rosse “gli spostamenti per fare visita alle persone detenute in carcere sono sempre vietati, non potendo ritenere che tali spostamenti siano giustificati da ragioni di necessità o da motivi di salute”. Covid-19. Dimissioni dalle Rems, l’impegno dei Garanti territoriali Ristretti Orizzonti, 25 novembre 2020 Il Coordinamento Rems/Dsm e l’Osservatorio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari chiedono un piano per le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. “A nome della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, nominati dai comuni, dalle province e dalle regioni italiane, vi comunico la piena condivisione dell’appello da voi rivolto alle autorità nazionali competenti, al presidente della Conferenza delle regioni e al presidente dell’Anci”. È questa la risposta del Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Stefano Anastasìa, all’appello lanciato dal “Coordinamento Rems/Dsm” e dall’”Osservatorio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, sulle Rems, per la salute mentale”. I due coordinamenti di associazioni chiedono alle istituzioni: un piano di prevenzione per la gestione della pandemia da Covid-19; la rapida dimissione degli ospiti delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), sulla base di progetti terapeutico-riabilitativi individuali (Ptri), mediante dispositivi urgenti adottati con udienze a distanza straordinarie; strumenti per l’effettuazione regolare di videochiamate, telefonate e altre forme di comunicazione nel caso in cui, per le misure anti Covid, siano sospese o ridotte le visite; che siano garantite udienze a distanza e ridotti gli ingressi e il ricorso a misure detentive provvisorie; la riduzione dell’affollamento negli istituti di pena; una dotazione di risorse e di personale straordinarie da utilizzare per la formazione-lavoro e la creazione di percorsi d’inclusione. Il “Coordinamento Rems/Dsm” e l’”Osservatorio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, sulle Rems, per la salute mentale” chiedono anche la riattivazione dell’organismo nazionale di monitoraggio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). “Per quanto ci riguarda - risponde il Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali, Anastasìa - in questi mesi abbiamo indirizzato il nostro impegno sulle Rems esattamente nel senso da voi indicato , quanto alla adozione di piani di prevenzione e di protocolli per la gestione della pandemia da Covid-19, alla dimissione degli ospiti per i quali il Ptri avesse già individuato una valida alternativa di continuità terapeutica , alla riduzione degli ingressi ai casi strettamente necessari, alla garanzia di attività e contatti con l’esterno, anche attraverso adeguati strumenti di videocomunicazione. Sarà nostra cura - conclude Anastasìa - la sollecitazione delle autorità territoriali di riferimento a muoversi sollecitamente, laddove non lo abbiano già fatto, nella direzione da voi indicata e da noi convintamente condivisa”. Sì ai giornali hot, ma a quando l’affettività in cella? di Maria Brucale* Il Riformista, 25 novembre 2020 Accogliendo il reclamo di un detenuto al 41bis che voleva comprare riviste pornografiche, i giudici hanno definito la sessualità un diritto soggettivo assoluto. Eppure in carcere resta negato. La sessualità è un diritto soggettivo assoluto. Si legge nella motivazione di un’ordinanza con la quale il tribunale di sorveglianza di Roma ha accolto il reclamo di un detenuto al 41bis, difeso dall’avo Lorenzo Tardella, teso ad ottenere il diritto ad acquistare riviste pornografiche. Non si può ritenere che quanto richiesto rientri nel diritto all’informazione, né che attenga alla materia della ricezione della corrispondenza. È, invece - afferma il Collegio - relativo alla tutela della dignità del ristretto che non è mai comprimibile, della sessualità e del rispetto della propria vita privata e familiare di cui all’art. 8 Cedu. E, ancora, “uno degli essenziali modi di espressione della persona umana”. Va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione e inquadrato “tra i diritti inviolabili della persona che l’art. 2 Cost. impone di garantire”. D’altronde il regime del 41bis o.p. prevede che il c.d. “trattamento penitenziario ordinario” sia sospeso in ragione di pregnanti esigenze di sicurezza e che le limitazioni imposte ai reclusi siano tassative e strettamente correlate alla tutela dell’ordine pubblico dalla pervasività delle mafie o così, almeno, dovrebbe essere. Nessun limite è previsto rispetto alle riviste pornografiche e allora non c’è ragione per negarle tanto più che qualunque scritto pervenga a un ristretto in regime di rigore viene sottoposto a censura prima di essere consegnato. Ma nel provvedimento di favore - che peraltro è stato impugnato dall’autorità amministrativa che vuole negare anche il diritto alla fantasia ed è, pertanto, in attesa del vaglio della Cassazione - si coglie un aspetto davvero struggente e in patente distonia con il dettato costituzionale e con i diritti fondamentali. Si legge nell’ordinanza che la tutela di quel diritto fa sì che debba essere concesso al reclamante di acquistare le riviste a luci rosse perché possa vivere la sessualità sia pur astratta; la possibilità di visionare fotografie erotiche consentirebbe, secondo il tribunale, di migliorare la vita privata del “detenuto sottoposto al regime differenziato per il quale l’orizzonte espressivo della sfera sessuale si riduce ad una dimensione effimera e sublimata”. È sconcertante l’affermazione che esista un diritto assoluto e costituzionalmente garantito e, al contempo, che ci sia una tipologia di detenuti che non possono fruirne. La Costituzione non ammette che ci sia una carcerazione che estromette un ristretto dai diritti fondamentali. Ma a tranquillizzare su una censura di diseguaglianza c’è il dato che nessun detenuto vive in carcere la sessualità. È un diritto insopprimibile soppresso. Strano, no? Eppure l’affettività intima è fuori dagli istituti di pena. È un beneficio per i pochi che dal carcere possono uscire a godere di un permesso premio, magari dopo molti anni di carcerazione. A volte mai. Il desiderio, la spinta naturale, l’istinto sono negati, spezzati, spenti. Il sesso fa parte dell’uomo, della sua essenza. Trascende l’istintualità, è sostanza di uomo. Il carcere strappa all’uomo la sua individualità, comprime, forza, brutalizza la sua natura. La Corte Costituzionale già nel 1987, poi nel 2012, ha parlato di “una esigenza reale e fortemente avvertita” che “merita ogni attenzione da parte del legislatore”. Il concetto è assai semplice. Se la pena mutila un diritto fondamentale della persona è inumana e degradante, non rieduca ma si limita a punire, non restituisce alla società ma annichilisce e spegne la linfa vitale di una persona. Nel tentativo di riforma dell’ordinamento penitenziario sostanzialmente non andato a buon fine, le commissioni incaricate avevano steso le norme per attuare, finalmente, il diritto all’affettività immaginando locali adeguati nei quali permettere incontri privati e sottratti al controllo. Numerose le difficoltà (a chi riconoscere il diritto? Alle coppie di fatto, alle persone sposate, a chi può dimostrare, anche con scambi epistolari, una frequentazione stabile, ai legami omosessuali? Associarlo a un buon comportamento intramurario? Come contenere il rischio che si consumino abusi?) e le resistenze riscontrate (l’opposizione dei sindacati di polizia penitenziaria che tuonavano “carceri come postriboli”, un sentire comune che relega il sesso alla dimensione ludica e peccaminosa inconciliabile con l’istanza punitiva della reclusione) ma il limite insuperabile risiedeva nella formula contenuta in legge delega di invariabilità finanziaria che non consentiva neppure di immaginare la costruzione di spazi idonei a fare fruire di un diritto l’intera popolazione detenuta. Il tema è oggi in commissione giustizia al Senato tradotto in una legge presentata dalla regione Toscana che tende a rafforzare il diritto all’affettività ipotizzando colloqui prolungati in apposite unità abitative dentro gli istituti penitenziari, le c.d. “stanze dell’amore”. In un tempo in cui le carceri sono blindate, le attività trattamentali e formative sospese, gli affetti esclusi, sembra più che mai utopia. Eppure ai nostri detenuti, che ormai da febbraio vivono una pena quanto mai afflittiva con le restrizioni della pandemia, nell’endemico e soffocante sovraffollamento, senza potersi proteggere da un virus che impone il distanziamento - mentre Rita Bernardini da110 novembre è in sciopero della fame invocando a gran voce un provvedimento di amnistia sorretta da un migliaio di persone tra liberi e ristretti - serve subito un segnale di speranza. *Avvocato Il Dap avvia procedure anti-telefonini a tappeto nelle carceri di tutta Italia Italia Oggi, 25 novembre 2020 Dopo aver individuato la migliore tipologia di strumenti per la prevenzione e il rilevamento di apparecchi telefonia mobile all’interno delle carceri, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria avvierà a breve le procedure per il loro acquisto, in modo da consentire un deciso potenziamento delle dotazioni su tutto il territorio nazionale. Contestualmente, verrà attivata un’apposita formazione per il personale che sarà addetto al loro utilizzo e alle attività ad esso correlate. Infine, saranno sperimentate ulteriori nuove tecnologie per il contrasto al fenomeno. È quanto ha deciso, nel corso di una riunione svoltasi nei giorni scorsi e presieduta dal Vice Capo Roberto Tartaglia, il Gruppo di lavoro in materia di contrasto dei cellulari in carcere, appositamente istituito nel maggio scorso dai vertici del Dap appena insediatisi. Un appunto tecnico con le linee guida di quanto deciso sarà un breve inviato ai Provveditorati regionali affinché lo trasmettano agli istituti penitenziari sul territorio di competenza. È stata inoltre svolta una ricognizione di tutti i dispositivi attualmente in uso negli istituti penitenziari e uno studio specifico sulle statistiche relative ai ritrovamenti di telefoni e alle modalità di rinvenimento negli ultimi anni. Nel corso delle riunioni sono stati inoltre analizzati anche i possibili profili disciplinari e penali per il ritrovamento e l’uso di apparecchi di telefonia mobile da parte della popolazione detenuta. Vivere la speranza dell’Avvento nelle carceri di Tiziana Campisi vaticannews.va, 25 novembre 2020 Il messaggio di don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri d’Italia, a cappellani, diaconi e suore che prestano il proprio servizio pastorale negli istituti penitenziari: essere “come una finestra spalancata nella vita dei ristretti per indicare loro orizzonti nuovi”. Come vivere l’Avvento nelle carceri in questo tempo di distanziamento, dove tutto è rallentato e ostacolato dall’emergenza Covid-19? Cosa fare? Quali attività pastorali mettere in atto? Sono gli interrogativi sui quali riflette don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri d’Italia, nel suo messaggio per l’Avvento a cappellani, diaconi e suore che prestano il proprio servizio pastorale negli istituti penitenziari. Indicare orizzonti nuovi - Rimarcando che il cammino dell’Avvento è un tempo di grazia, di ascolto e di vigilanza, don Grimaldi ricorda le parole di San Francesco d’Assisi ai suoi frati: “Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”. “Nelle nostre carceri, a causa della paura dei contagi - aggiunge don Grimaldi - molte attività sono state rallentate, di conseguenza i detenuti vivono maggiormente la loro solitudine e l’abbandono”. L’ispettore generale esorta cappellani e altri operatori ad essere “come una finestra spalancata nella vita dei ristretti per indicare loro orizzonti nuovi”, “a fare ‘ciò che è necessario’” e a non vivere le limitazioni imposte dalla pandemia come frustrazioni che paralizzano l’agire, ma come stimolo per trasformare “la marginalità in opportunità”. Avvento, tempo di ascolto - “Il Natale del Signore che ci apprestiamo a vivere, ci narra di fragilità, povertà e umiltà - prosegue don Grimaldi - e questo tempo burrascoso, di crisi sanitaria, sociale ed economica, ci ha fatto scoprire ancor di più i nostri limiti e le nostre debolezze, facendoci comprendere che noi non siamo i padroni del tempo”. L’invito è a vivere questo periodo d’incertezze “con la vigilanza del cuore e con la capacità di scrutare la notte e saper attendere con Fede e carità il domani che verrà”. “Il cammino di Avvento sarà, dunque, per tutti noi, un tempo per l’ascolto dello Spirito - indica don Grimaldi - e per essere sentinelle di speranza che annunciano dopo l’oscurità della notte il nuovo giorno, ma anche di rinsaldare il coraggio della Fede che ci chiede di vivere il quotidiano con la ricchezza della Speranza”. Infine l’ispettore generale dei cappellani delle carceri definisce “questo tempo nuovo dell’attesa di Dio che viene (…) carico di sogni e di speranze e citando l’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco conclude affermando che “è importante sognare insieme” perché “da soli si rischia di avere miraggi” vedendo quello che non c’è. “Il Codice rosso funziona: le donne sono meno sole” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 25 novembre 2020 Il guardasigilli Alfonso Bonafede ha presentato ieri il Rapporto sui risultati prodotti dalla norma a un anno dall’entrata in vigore. Si parte da un numero: 40.726. È questo il totale di procedimenti iscritti per maltrattamenti contro familiari e conviventi, catalogabili come violenza di genere, tra il primo gennaio e il 31 maggio 2020. Circa l’11 per cento in più rispetto all’anno precedente, con i 36.539 procedimenti registrati nello stesso periodo del 2019. Si tratta di un dato che traduce in cifre la difficoltà, riscontrata durante la fase più acuta dell’emergenza pandemica, di sottrarsi a dinamiche domestiche violente e a convivenze forzate. Ma ecco il punto. A un anno di distanza dall’entrata in vigore del “Codice Rosso” - la legge n. 68/ 2019 recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere” - il ministero della Giustizia analizza in un Rapporto l’efficacia della legge e trae su tutte una conclusione: senza l’introduzione di quattro nuove fattispecie di reato nel codice penale, le “gravi condotte tipizzate non avrebbero avuto risposta adeguata”. Ovvero, se non puoi catalogare un comportamento violento diffuso, non puoi neanche punirlo. Come il maltrattamento contro familiari e conviventi: il reato è stato inserito nell’elenco di quelli che consentono nei confronti dell’indagato l’applicazione di misure di prevenzione, come il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. La cui violazione prevede una pena da 6 mesi a 3 anni. Ed ecco le altre tre nuove fattispecie: costrizione o induzione al matrimonio; deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso; diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, il cosiddetto revenge porn, noto anche alle cronache di questi giorni. Con l’intervento normativo, inoltre, sono state inasprite le pene per alcuni reati “particolarmente odiosi”, come lo stalking e la violenza sessuale. Nel periodo compreso tra il primo agosto 2019 e il 31 luglio 2020, secondo le risultanze statistiche di cui dà conto Via Arenula nel Rapporto, per i quattro nuovi reati introdotti nell’ordinamento sono state aperte in tutto 3.932 indagini, e in 686 casi è stata già formulata richiesta di rinvio a giudizio. I processi già conclusi sono 90, con 80 condanne inflitte, mentre altri 120 processi sono tuttora in fase dibattimentale. “Il dato corposo delle denunce e quello dei procedimenti già approdati alla condanna di primo grado - si legge nel Rapporto - consentono di rilevare l’utilità concreta dell’approccio procedimentale, basato sulla corsia preferenziale dell’ascolto”. Il Codice Rosso, infatti, prevede una corsia preferenziale riservata alle denunce per violenza di genere: di qui la denominazione analoga ai casi più urgenti nei Pronto Soccorso. Entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, il pubblico ministero deve sentire la persona offesa che ha presentato denuncia, in modo da intervenire tempestivamente e tutelare le vittime. Ma l’accelerazione delle indagini produce anche un altro effetto, tutt’altro che secondario: la norma vuole impedire la cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, cioè la reiterazione di un’esperienza dolorosa attraverso il racconto dei fatti subiti. “La legge sul Codice rosso è una legge di civiltà, indispensabile per assicurare una tutela immediata alle vittime di violenza domestica e di genere”, ha sottolineato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in apertura del suo intervento per presentare i risultati del primo anno di applicazione della legge. Per Mario Perantoni, deputato M5S e presidente della commissione Giustizia della Camera, “i dati diffusi dal ministro Bonafede confermano che l’idea dei corridoi di precedenza alle richieste di aiuto è assolutamente adeguata. Tuttavia questo non deve farci dimenticare che il fenomeno è molto radicato e che non dobbiamo mai abbassare la guardia. Occorre una dura battaglia su tanti fronti per sradicarlo dalla nostra società”. Sulla necessità di proseguire in questo solco si è espressa anche la senatrice Pd Valeria Valente, presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio. Nel contrasto alla violenza sulle donne “l’Italia ha fatto passi da gigante, presentando oggi un quadro normativo solido e robusto”, ha detto Valente. Ma “le donne continuano a morire molto spesso per mano dei loro aguzzini”, ha precisato. “Qualsiasi norma - ha aggiunto - anche la migliore possibile, da sola non sarà sufficiente se non aggrediamo due grandi problemi: da un lato la formazione degli operatori in particolare del mondo della giustizia, dall’altro il tema culturale. Per questo ci vuole un impegno sostanziale di tutte le agenzie educative, a partire dalla famiglia e dalla scuola”. Serve, insomma, una “strategia nazionale per il contrasto alla violenza contro le donne”, per dirla con le parole della ministra per le Pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti. “Fare un punto di verifica sull’attuazione del Codice Rosso è estremamente importante, all’interno di un processo complessivo per conoscere fino in fondo il fenomeno”, ha detto Bonetti nel suo video-intervento alla presentazione del Rapporto. Se, infatti, i dati raccolti nell’ultimo anno confermano una diminuzione, durante il periodo di lockdown, per i reati di violenza sessuale (- 4%) e di violenza sessuale di gruppo (-17%), la pandemia ha prodotto una nuova emergenza nell’emergenza: la difficoltà di allontanare l’indagato dalla casa familiare e di reperire strutture protette per accogliere chi scappa dalla violenza. Nel corso della prima fase pandemica, molte procure hanno adottato misure specifiche per assicurare continuità nelle attività giudiziarie a tutela delle vittime di reati di genere: un’esigenza che ha spinto il legislatore a escludere dalla regola generale della sospensione dei termini processuali dal 9 marzo al 15 aprile 2020 i ricorsi riguardanti gli ordini di protezione contro gli abusi familiari. Tra le innovazioni previste dalla legge, si segnalano anche alcune pratiche virtuose adottate dagli uffici giudiziari italiani. Come la creazione di gruppi specializzati in materia, l’adozione di linee guida e la disposizione di spazi dedicati all’ascolto delle persone offese. La violenza maschile che cresce in pandemia di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 25 novembre 2020 Dal Rapporto Eures: un femminicidio ogni tre giorni. Sono 91 le uccise dall’inizio dell’anno, in particolare in famiglia. Nell’89% dei casi si tratta di uccisioni in ambito domestico per mano di conviventi. Peggio nel lockdown. Lombardia e Piemonte contano il 36% dei casi nazionali. “Durante i primi lockdown molti Stati hanno registrato una crescita record di abusi domestici, e nonostante i recenti confinamenti siano, nella maggior parte dei Paesi, meno rigidi, le linee telefoniche nazionali stanno registrando di nuovo un drammatico incremento delle chiamate d’aiuto”. A dichiararlo con preoccupazione è Marija Pejcinovic Buric, segretaria generale del Consiglio d’Europa, che ha scelto di intervenire ieri alla vigilia della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne. Quella della violenza maschile è questione che ogni anno arriva all’attenzione pubblica a ridosso della data del 25 novembre ma che oggi, a causa dei provvedimenti per la pandemia, ha richiesto maggiore sforzo nell’individuare situazioni già complesse o rese tali dalle condizioni di chiusura in casa. Ecco perché non si può discutere di questa giornata senza valutare quanto il tempo pandemico abbia procurato, nelle sue conseguenze, dei danni alle donne che hanno sì reagito mostrando una rara capacità di resistenza ma che nel caso di ambiti violenti spesso si sono trovate in una doppia trappola, quella dei propri aggressori e quella di una perdita di movimento. Alle violenze domestiche, aumentate negli scorsi mesi in tutta Europa, i segnali che arrivano dall’Italia - soprattutto nell’ambito dei femminicidi commessi nell’ultimo anno - sono dunque da analizzare con serietà; lo dice il VII Rapporto Eures sul Femminicidio in Italia reso noto ieri che parla di 91 donne morte in soli nove mesi rispetto alle 99 dell’anno scorso; il leggero calo tuttavia risponde alle vittime della criminalità comune, il femminicidio resta invece tragicamente stabile attestandosi in una percentuale media di uno ogni tre giorni. Nell’89% dei casi si tratta di femminicidi in ambito famigliare, vuol dire che gli assassini sono mariti, compagni, parenti conviventi che hanno in comune una cosa: sono maschi e uccidono le donne in quanto donne; se il tempo del Covid-19 ha accelerato il fenomeno di rischio della prossimità ai violenti, è pur vero che rimuovere si tratti di un fenomeno strutturale e sistemico sarebbe un errore fatale; sarebbe come a dire che dopo la pandemia le cose riprenderanno nella buona convivenza tra i sessi che precedeva questo presente. Non potrà essere così, anche qui il tanto agognato “ritorno alla normalità” non è né auspicabile né plausibile: negli ultimi venti anni sono state sono 3.344 le donne uccise in Italia, tanto per avere contezza dell’aspetto così poco emergenziale di ciò che è la violenza di cui oggi si domanda l’eliminazione. È tuttavia chiaro come, in ambito famigliare, vi sia stata l’aggravante di stare forzatamente dentro la stessa casa a causa delle misure anti-contagio; la maggior parte infatti delle vittime di femminicidio viveva sotto lo stesso tetto del proprio assassino. Per la stessa ragione vi è una flessione di femminicidi commessi da amanti e non conviventi. Altri due dati emergono dal Rapporto Eures: crescono vistosamente i femminicidi-suicidi e, sia pure in forma più residuale, anche le uccisioni delle madri da parte dei figli. A proposito della collocazione geografica, si segnala un aumento delle uccisioni negli ultimi dieci mesi rispetto allo stesso periodo del 2019: +9,5% solo nel nord Italia con un allarme che riguarda Lombardia e Piemonte cui si riconosce il triste primato di coprire il 36% dei casi nazionali. La lettura non può che tenere presenti le maggiori misure di confinamento nelle case dovute alla condizione sanitaria. Una flessione che si registra invece al centro (con una diminuzione del 12,5%) e al sud (il 22,2% in meno rispetto l’anno scorso). I casi di cronaca non riportano solo femminicidi ma anche i cosiddetti “nuovi reati”. Proprio a questo proposito è stato presentato ieri in streaming dal ministro Alfonso Bonafede il report relativo al “Codice Rosso”, ovvero il pacchetto di misure per punire la “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” (art. 612 ter del codice penale). I numeri restituiti dipingono uno scenario tanto fosco quanto retrivo che si configura con 3932 indagini aperte tra il 10 agosto 2019 e il 31 luglio 2020 che riguardano il revenge porn (circa 1000 inchieste), la costrizione al matrimonio, la violazione delle misure di protezione per le vittime e gli sfregi permanenti. Al momento sono 120 i dibattimenti in corso, 90 i processi già conclusi, 80 le condanne e 686 i casi di rinvio a giudizio. Accade in un Paese come l’Italia in cui si è discusso per giorni se una donna adulta e consenziente debba o no essere licenziata, oltre che variamente dileggiata, con l’unica colpa di essere stata oggetto appunto di revenge porn. Ciò per dire che i dati sono fondamentali per capire la situazione esistente ma bisogna proseguire un lavoro di sponda, deve essere culturale, di immaginario, relazionale. In una parola: politico. E femminista. La polizia a fianco delle donne, ma ora tocca alla comunità sostenere le vittime di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 novembre 2020 Il capo della Polizia Franco Gabrielli interviene nell’ambito della campagna “Questo non è amore”. Campania e Sicilia le regioni in cui sono arrivate più denunce di violenze subite. “La causa primaria dei delitti di genere è legata a fattori culturali: le violenze sono il frutto di una considerazione della donna come un oggetto di proprietà”. “Le forze di polizia sono sempre più preparate, si sono dotati di luoghi idonei dove accogliere la vittima, la rete e il funzionamento dei centri antiviolenza è ormai consolidata. Il ruolo decisivo ora spetta alla comunità: tanto più una donna si sentirà protetta nel contesto in cui vive tanto più capirà che uno schiaffo ricevuto non è solo uno schiaffo, che la denuncia non sarà un atto di cui vergognarsi, ma la giusta soluzione a un percorso di violenza subita. Fino a quando la comunità non si farà carico di sostenere le vittime il nostro impegno resterà incompiuto”. L’analisi dei dati sulla violenza di genere raccolti nel report della polizia sottolinea come è stato alla fine del lockdown che i numeri dei femminicidi hanno ripreso ad impennarsi mentre durante i mesi di confinamento sono cresciuti quelli dei maltrattamenti in famiglia. Nel 62 per cento dei casi autore dei reati il coniuge, il convivente, il fidanzato o l’ex partner della vittima. Le donne italiane quelle più colpite dalla violenza, seguite da romene e marocchine. A sorpresa, le regioni in cui si è registrata la maggiore incidenza di denunce la Campania (171) e la Sicilia (168), poi Lazio (133) e Lombardia (119), smentendo il luogo comune che al Sud ci sia una scarsa propensione a rivolgersi alle forze di polizia. Sono state 542 poi le segnalazioni arrivate sulla app YouPol attraverso la quale è possibile chattare anche in modo anonimo con le sale operative delle questure per segnalare situazioni di disagio, mandare messaggi o immagini. Violenza sulle donne e processi capovolti di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 25 novembre 2020 Quattro decenni dopo, per l’ennesima volta, quel processo che mostra con l’impatto di nessun altro documento storico cosa sia la violenza a una donna ribaltata in tribunale in un turpe processo alla vittima, non ha potuto essere riproposto dalla Rai neppure oggi, 25 novembre, giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne. “Qui si tratta di una ragazza, senza offesa, perché signori miei, io non ho una cattiva opinione affatto delle prostitute (…) qui si tratta di una ragazza che ha degli amanti a pagamento...”. Ma come? Dove? Quando? E le prove di un’accusa così infamante? Quarantuno anni dopo esser andate (miracolosamente) in onda fanno ancora vomitare le parole usate in certi interrogatori e certe arringhe dagli avvocati che difesero con argomenti insopportabili i quattro bulli quarantenni che avevano violentato una ragazza in una villa di Latina. Aveva diciotto anni, era disoccupata, era stata attirata con la balla di un’offerta di lavoro e, sequestrata, era rimasta per ore e ore in balia della banda. Quattro decenni dopo, per l’ennesima volta, quel processo che mostra con l’impatto di nessun altro documento storico cosa sia la violenza a una donna ribaltata in tribunale in un turpe processo alla vittima (“Signori miei, una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. L’atto è incompatibile con l’ipotesi di una violenza” oppure “La violenza c’è sempre stata (…) Non la subiamo noi uomini? Non la subiamo noi anche da parte delle nostre mogli?”) non ha potuto essere riproposto dalla Rai neppure oggi, 25 novembre, giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne. Il documentario girato da sei giovani registe (Rony Daopulo, Paola De Martiis, Annabella Miscuglio, Anna Carini, Maria Grazia Belmonti, Loredana Rotondo) e trasmesso nel ‘79 dalla rete pubblica con un boom d’ascolti (9 milioni di telespettatori), premiatissimo e conservato anche al MoMA di New York, è tenuto infatti a bagnomaria da una diffida di quei vecchi avvocati o dai loro eredi consapevoli (solo oggi!) di quanto ignobili fossero quelle spiritosaggini difensive. Bagnomaria sempre più inaccettabile col passare degli anni e davanti al ripetersi di violenze dettate da un machismo mai sconfitto. Si pensi alla diciottenne sequestrata e violentata nell’attico extralusso di Milano dal nababbo tossico Alberto Maria Genovese o alle altre due diciottenni vittime di Ciro Grillo e dei suoi tre compagni di bravate a Porto Cervo. Tema: non sarebbe bello se la Rai (servizio pubblico!) esercitasse il suo ruolo pretendendo di aiutare anche i giovani di oggi a capire cosa sia un processo capovolto? La rete dell’avvocatura che tutela le donne con la cultura e i diritti di Maria Masi Il Dubbio, 25 novembre 2020 Nella Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il Consiglio nazionale forense ribadisce il suo impegno contro la discriminazione di genere e per l’affermazione dei diritti. “Riannodare i “Tanti fili in una Rete”: questo il senso della campagna di sensibilizzazione che il Consiglio Nazionale Forense ha inteso promuovere per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. I fili rappresentano i percorsi di denuncia di dolore e di paura, ma anche quelli dell’informazione che, spesso, utilizza parole sbagliate, e della formazione, della prevenzione, della tutela. La rete rappresenta lo sforzo comune del cambiamento possibile, l’azione sinergica di istituzioni e associazioni e dei tanti che quotidianamente sono impegnati per contrastare qualsiasi forma di violenza posta in essere, a mani nude o armate o con la pressione psicologica, economica e culturale, società più paritaria e inclusiva. Questi mesi hanno peggiorato sensibilmente la condizione di molte donne, costrette a convivere con il pericolo e con l’isolamento. Le difficoltà a denunciare e l’impossibilità di allontanarsi dalla propria casa, anche per effetto dei problemi di natura economica, sta determinando situazioni insostenibili. L’avvocatura, in Italia e nel mondo, è impegnata in prima linea nelle azioni di contrasto al fenomeno, nella quotidianità delle azioni semplici e nelle rivendicazioni di libertà per le donne, anche a costo del sacrificio della vita. Il Consiglio Nazionale Forense da anni promuove e sostiene progetti di comunicazione e di formazione specifica interdisciplinare con il contributo della rete dei Comitati per le Pari opportunità istituiti presso gli Ordini forensi e con le associazioni specialistiche e di riferimento. Il Cnf segue con attenzione i progetti di legge, partecipa e promuove dibattiti sul tema e opera in sinergia con le altre istituzioni: Unar, Consigliera di parità, dipartimento per le Pari opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. L’obiettivo coltivato in questi anni è stato ed è anche quello di incoraggiare azioni positive per rivendicare un ruolo paritario nella famiglia, nel lavoro, nella società, con la consapevolezza che il problema della violenza non può considerarsi isolato rispetto a quello delle discriminazioni e della violazione dei diritti umani. E la soluzione non può prescindere dalla diffusione di una cultura differente. L’iniziativa - Cento video-appelli per dire no alla violenza contro le donne. Si chiama “Tanti fili, Una Rete” ed è la campagna di sensibilizzazione che il Consiglio Nazionale Forense metterà in rete sul proprio canale YouTube oggi, 25 novembre, per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una staffetta digitale ideata dalla commissione integrata per le pari opportunità del Cnf con il contributo della rete dei Cpo degli ordini forensi e della rete delle consigliere di parità. Hanno aderito all’iniziativa, tra gli altri, la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, la senatrice e presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, Valeria Valente, la consigliera nazionale di Parità, Flavia Bagni Cipriani, la presidente Donne Magistrato, Carla Lendaro, la presidente dei centri antiviolenza D. i. Re, Antonella Veltri, il direttore Unar, Triantafillos Loukarelis e ancora avvocate e avvocati, magistrate e giudici, giornaliste e docenti. Se il prezzo del Covid lo paga il diritto di difesa di Giudo Camera Il Riformista, 25 novembre 2020 Prima la radicale sospensione delle attività giudiziarie, poi il “liberi tutti” dal 1° luglio. Sulla telematizzazione si è perso tempo, servono scelte coraggiose per tutelare i diritti costituzionali. L’esperienza vissuta durante la prima ondata dell’epidemia non ha purtroppo insegnato abbastanza: da qualche settimana, infatti, la Giustizia penale sta barcollando sotto il peso dell’aumentare dei contagi, agevolati dalle modalità di lavoro in presenza, riprese come se nulla fosse stato da fine giugno a oggi. Le misure da ultimo prese, in stretta successione tra loro, nel Decreto Ristori e nel Decreto Ristori Bis, sono in parte inattuabili sul breve periodo, e in parte lesive del diritto di difesa in modo grave e sproporzionato. Non è uno scenario rassicurante, soprattutto in considerazione del fatto che la situazione epidemiologica non sembra destinata a risolversi in tempi brevi. Ci vuole un cambio di passo, rispetto al quale non è ancora troppo tardi. Vediamo come. All’inizio di marzo - quando era già deflagrate l’epidemia all’interno dei Tribunali - il Governo ha disposto una radicale sospensione delle attività processuali e dei termini: con il passare delle settimane, quando si era compreso diffusamente che la pandemia era un fenomeno oramai patologico e di non breve durata, il Legislatore ha provato a contemperare l’esigenza di riprendere le attività giudiziarie con la necessità di individuare forme di prevenzione e precauzione sanitaria per i protagonisti del processo. La soluzione è stata l’introduzione di forme di telematizzazione di molti atti del procedimento penale: troppi, in prima battuta, per la struttura del processo, la nostra cultura e lo stato di grave inadeguatezza dell’infrastruttura digitale. Le critiche mosse a questa aggressiva forma di telematizzazione - rimasta comunque sulla carta perché, anche volendo, non c’erano i mezzi (economici e tecnici) per attuarla - hanno portato a un ridimensionamento ragionevole delle attività processuali effettuabili da remoto. Purtroppo, quando a fine giugno la situazione sanitaria ha cominciato a regredire allo stato di una apparente normalità, il Legislatore ha di colpo abbandonato ogni forma di telematizzazione, riportando tutte le attività in presenza, come se nulla fosse stato, a partire dall’1 luglio: e così sono rimaste sino alla fine di ottobre, quando il Decreto Ristori ha reintrodotto delle forme di telematizzazione del procedimento penale, a oggi però ancora inattuate. Questo perché, nei mesi scorsi, si è perso tempo prezioso, dunque gli strumenti tecnici necessari per dare vita a un processo penale telematico non sono minimamente pronti. Potremmo definirla la “sindrome della cicala”, da cui sta derivando un discreto caos, in cui i processi vengono in parte rinviati, e in parte celebrati in condizioni di grave insicurezza sanitaria. Non è purtroppo tutto: invece di investire su forme di telematizzazione nei processi di appello e Cassazione, il Legislatore, con i Decreti Ristori e Ristori Bis, ha pensato di risolvere la questione eliminando in radice - fino al prossimo 31 gennaio - ogni dialettica orale (da remoto o in presenza) grazie all’introduzione di un rito “cartolare”, dove il contributo delle parti alla decisione può essere solo di natura scritta. Nel contempo c’è grande incertezza e confusione sulle misure attuative dei depositi telematici, ovvero una novità per il nostro processo penale, la cui introduzione avviene in una fase acuta dell’epidemia, dove gli studi legali, per i vari Dpcm, dovrebbero incentivare lo smart working di collaboratori e dipendenti, e con molti cancellieri contagiati: dunque non è certo il momento migliore per dare esecuzione a una rivoluzione copernicana, alla quale, per essere pronti, dobbiamo dedicare tempo e risorse. Per poter partire in modo serio e concreto con una stabilizzazione delle attività effettuabili da remoto, bisognerebbe fermare la celebrazione di quelle ordinarie (o meglio, di quelle poche che si riescono a fare, causa il gran numero di contagi) per almeno qualche settimana: così, peraltro, si potrebbe decongestionare la difficile situazione sanitaria, diminuendo i rischi di trasmissione del virus nei tribunali. Questo non vuole dire però stare fermi; bisogna lavorare alacremente per essere pronti a partire senza ulteriori stop, a prescindere dall’evoluzione dello scenario epidemiologico. In questo scenario, una delle conseguenze più evidenti è l’accumularsi di cause, soprattutto per reati di competenza del tribunale monocratico, dove i numeri delle cause che ingolfano i ruoli sono davvero inquietanti anche quando non c’è un’emergenza: un arretrato che, quando vedremo finalmente la fine dell’epidemia, rischia di essere ingestibile, creando preoccupanti vuoti di tutela rispetto a fatti di particolare gravità criminale e allarme sociale, perché impegneranno moltissime risorse giudiziarie. Noi crediamo che la soluzione di queste gravi problematiche non possa essere il drastico ridimensionamento del diritto di difesa - come sta accadendo in particolare per il giudizio di appello e di Cassazione - ma debba passare attraverso scelte coraggiose, sistematiche e lungimiranti, che sappiano perciò sfruttare davvero le opportunità offerte dalle nuove tecnologie per offrire maggiore - e più rapida - tutela ai diritti. Storia di una Commissione inutile chiamata “Antimafia” di Aldo Varano Il Riformista, 25 novembre 2020 In 60 anni non ha concluso nulla. Morra è stato scelto da 5S e Centrodestra, che hanno rotto una tradizione unitaria che durava dai tempi di Li Causi e Taviani. È stato votato dalla Santelli e lui ha votato la Santelli, sua vice per vari anni. Salvini: “I parlamentari della Lega e di tutto il Cdx non parteciperanno più ai lavori della Commissione antimafia fino a quando ci sarà Morra come presidente”. Condivide l’on. Gelmini di Fi. Non si sa come si orienterà la minoranza della Commissione che, al contrario di Lega, Fi, FdI e 5S non ha votato come presidente il 5S Nicola Morra. In ogni caso il destino dell’Antimafia di Morra sembra segnato. Che il dibattito abbia preso questa piega non è una buona notizia. Si sarebbe potuto approfittare dell’occasione per una riflessione più ponderata e per cancellare una struttura che (a dir poco) da moltissimi anni non produce più alcun contributo nella lotta contro le mafie (ma fior di studiosi contestano lo abbia mai fatto) limitandosi ad audizioni di magistrati e vertici delle forze dell’ordine. Una struttura che deve ormai difendersi dall’accusa di essere una enclave parlamentare per parcheggiare politici ingombranti ai quali è necessario dare adeguata collocazione in attesa della scomparsa dal palcoscenico della politica. Ma procediamo con ordine. Il quattordici novembre del 2018 a Palazzo San Macuto si riunisce la Commissione per eleggere i propri organismi: presidente, vicepresidenti (due), segretari (due). Dalle elezioni del 4 marzo di quell’anno sono passati circa otto mesi durante i quali, per la verità, nessuno, tranne i parlamentari aspiranti a occupare qualche casella del vertice, ha sentito la mancanza della Commissione che venne creata la prima volta nel 1962. Sarebbe dovuta durare una legislatura ma era previsto potesse venire rieletta. Non automaticamente, ma con un nuovo atto legislativo. La rielezione non era obbligatoria. Accadeva nel 1962. I protagonisti del dibattito si chiamavano Taviani e Li Causi, nomi che i giovani confondono con di Giolitti e Franchetti. Del resto, sono passati quasi 60 anni che, a partire dalla rivoluzione industriale, sono un’eternità. Difficile pensare che Falcone quando spiegava che la mafia come tutti i fenomeni storici avrebbe avuto una fine pensasse a un periodo così lungo. A San Macuto, il 14 novembre di due anni fa, si ritrovano 50 parlamentari (25 senatori e 25 deputati) per eleggere gli organi della Commissione. Ma i giochi sono già stati fatti. La tradizione mai violata è che tutte le componenti parlamentari siano coinvolte nella direzione della Commissione. Ma ora si cambia. C’è un organico accordo politico tra il Cdx (Fi, FdI e Lega Nord) e M5S, che escludono tutte le altre componenti politiche. È evidente che s’indeboliranno immagine e ruolo dell’Antimafia. Ma questo non importa a nessuno. Non perché ci sia una sottovalutazione della lotta contro le mafie. Ma perché tutti sanno che lotta alle mafie e Commissione antimafia hanno scarsi punti in comune. L’intero bottino dei posti viene spartito tra il Cdx e i 5s. I maggiori beneficiari saranno Nicola Morra (presidente, 5s ligure ma eletto in Calabria dove insegna filosofia al liceo) e Iole Santelli (vicepresidente, Fi e calabrese doc). Un altro vicepresidente andrà alla Lega Nord con Pasquale Pepe. Coi due segretari verranno accontentati i FdI con Wanda Ferro (altra calabrese doc), e ingrosserà il bottino la Lega Nord con Gianni Tonelli. Bocciato il senatore Pietro Grasso che raccoglie per la presidenza 13 voti (Pd, LeU). Curiosamente, nella discussione innescata nei giorni scorsi dalle dichiarazioni a dir poco imbarazzanti di Morra sulla Santelli nessun giornale ha ricordato che lui e la Santelli hanno lavorato gomito a gomito nell’antimafia; né è stato ricordato, a propositi dei calabresi che hanno i parlamentari che si meritano, che tra questi c’è anche lo stesso Nicola Morra. Insomma, il senatore insultando i calabresi s’è insultato da solo. Torniamo al 14 novembre 2018. È lampante che c’è stato un accordo politico organico per una maggioranza tra il M5s e il Cdx. Quindi, Morra ha votato la Santelli e la Santelli ha votato Morra. Dopo la votazione le sinistre diffonderanno un comunicato per denunciare la rottura unitaria della gestione della Commissione, per la prima volta dopo quasi 60 anni, ma non gliene fregherà niente a nessuno. A fonte dei 13 voti di Grasso, Morra ne accumulerà 30, cioè il 60%, percentuale che più o meno coincide con lo schieramento 5s, Lega, Fi, FdI. Insomma, quando (ora non allora) Salvini dice che Morra è “cretino” dovrebbe aggiungere che è stato lui, il capopartito più forte del Cdx, a spianargli la strada nel posto in cui è. C’è un altro dato che racconta la scarsa importanza politica della Commissione: su 5 componenti della sua direzione, tre sono occupati da parlamentari eletti in Calabria: Morra, Santelli, Ferro. Difficile credere che in Calabria si trovi il 60% delle migliori forze parlamentari antimafia e non invece che i parlamentari siano convinti che non sia poi così importante farne parte: prevalgono i calabresi perché la Calabria, e guidi loro, è una regione politicamente debole. I tre ultimi presidenti della Commissione Antimafia sono stati: Seppe Pisanu (sardo, con un vice eletto in Calabria), stella ormai cadente di Fi per la sua gestione delle elezioni del 2006. Dopo Pisanu ci sarà Rosy Bindi: Matteo Renzi le ha dichiarato guerra e l’ha bandita dalla Toscana, ma la Bindi riesce a farsi eleggere in Calabria. Renzi pone un veto sulla sua partecipazione al Governo e la Bindi dovrà accontentarsi della presidenza dell’Antimafia. Poi arriva Nicola Morra (Calabria) con chiacchiere alle spalle: è diffusissima la voce che voglia fare il ministro della scuola: dal M5s lo silurano rifilandogli l’Antimafia. Da ricordare che, intanto, accanto alle polemiche di queste ore ne cresce un’altra sul mondo misterioso e sommerso dell’Antimafia: quanti sono i suoi consulenti? Chi li decide? Sulla base di quali criteri? Osservando quali leggi e regolamenti? Come vengono ripartiti? Quanto guadagnano e di quali benefici usufruiscono? Ma il problema non è solo quello delle ultime 3 presidenze e della Commissione usata dai partiti (tutti) come parcheggio per privilegiati caduti in bassa fortuna politica. Quasi 30 anni fa, Dario Gambetta, uno dei più acuti analisti delle mafie del Novecento, firmando da Oxford una nuova introduzione al suo La Mafia siciliana (Einaudi 1992, traduzione dall’inglese di Severi e Gambetta), sulla Commissione antimafia annotava: “Si ha l’impressione che questo istituto - di cui pure fecero parte Cesare Terranova e Pio La Torre, che hanno pagato con la vita la lotta alla mafia - sia servito come una palestra in cui le forze di governo permettevano all’opposizione di sinistra di menare pugni antimafia purché rigorosamente nel vuoto”. Da allora sono passati quasi altri 30 anni. Forse bisognerebbe approfittare del caso Morra per una decisione più radicale rispetto alle sue inevitabili dimissioni. La Corte costituzionale promuove il decreto sui controlli anti-scarcerazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2020 La necessità di verifiche periodiche non confligge con il diritto alla salute. La disciplina con la quale il ministero della Giustizia è corso ai ripari dopo le scarcerazioni di esponenti della criminalità organizzata nella primavera scorsa non abbassa gli standard di tutela della salute del detenuto, garantiti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo anche nei confronti dei condannati ad elevata pericolosità sociale, compresi quelli sottoposti al regime penitenziario del 41bis. Questa la conclusione cui approda la sentenza della Corte costituzionale n. 245, scritta da Francesco Viganò e depositata ieri. Le disposizioni esaminate dalla Corte, previste nel decreto legge n. 29 e poi nella legge n. 70, impongono al magistrato di sorveglianza, una volta concessa provvisoriamente, per ragioni legate all’emergenza sanitaria, la detenzione domiciliare ai condannati per questi reati, di rivalutare periodicamente le condizioni che giustificano la misura, sulla base die pareri delle Procure distrettuali e della Procura nazionale Antimafia e delle informazioni raccolte dal Dap sulla disponibilità di strutture e posti per un ripristino della condizione di detenzione, senza compromettere il diritto alla salute del condannato. La sentenza osserva che l’intervento contestato dal tribunale di sorveglianza di Sassari e dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, “non intende in alcun modo esercitare indebite pressioni sul giudice che abbia in precedenza concesso la misura, mirando unicamente ad arricchire il suo patrimonio conoscitivo sulla possibilità di opzioni alternative intramurarie o presso i reparti di medicina protetti in grado di tutelare egualmente la salute del condannato, oltre che sulla effettiva pericolosità dello stesso, in modo da consentire al giudice di mantenere sempre aggiornato il delicato bilanciamento sotteso alla misura in essere, alla luce di una situazione epidemiologica in continua evoluzione”. Quanto al rispetto dei diritti della difesa, la Corte costituzionale sottolinea come l’intervento del magistrato di sorveglianza, fondato anche sull’acquisizione di materiali ed elementi “acquisiti ex officio e non ostensibili alla difesa”, destinato a sfociare in un provvedimento interlocutorio che poi dovrà essere confermato o smentito dal tribunale di sorveglianza dopo un procedimento a contraddittorio pieno, trova la sua ragione nella necessità di assicurare al magistrato di sorveglianza “un potere di intervento invia d’urgenza, bilanciando interinalmente le ragioni di tutela della salute e della vita di quest’ultimo con le ragioni contrapposte di tutela della collettività in relazione alla sua persistente pericolosità sociale; e ciò attraverso un procedimento attivato sì su istanza di parte, ma destinato poi a svolgersi mediante poteri di indagine officiosi (e comunque aperti alle eventuali produzioni documentali della difesa), in ragione proprio della necessità di una rapida decisione sull’istanza del detenuto”. Consulta: “Il decreto anti scarcerazioni non lede la salute dei detenuti” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2020 La Corte costituzionale ha depositato le motivazioni con cui spiega perché ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate sul decreto varato nel maggio scorso. In pratica la disciplina del decreto non abbassa in alcun modo i doverosi standard di tutela della salute del detenuto, anche nei confronti dei condannati ad elevata pericolosità sociale, compresi quelli sottoposti al regime penitenziario del 41bis. Il decreto varato dal governo per riportare in carcere i boss mafiosi scarcerati durante l’emergenza coronavirus non lede il diritto alla salute dei detenuti. Lo scrive la corte Costituzionale nelle motivazioni della sentenza numero 245 con cui spiega perché ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate. In pratica la disciplina del cosiddetto “decreto antiscarcerazioni” non abbassa in alcun modo i doverosi standard di tutela della salute del detenuto, garantiti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo anche nei confronti dei condannati ad elevata pericolosità sociale, compresi quelli sottoposti al regime penitenziario del 41bis. Si trattava di una norma per il “tutti dentro”, scritta per sanare una situazione d’emergenza. Il governo infatti aveva approvato il decreto legge proposto da Alfonso Bonafede che puntava a far tornare in carcere i 376 mafiosi scarcerati nelle ultime settimane. Erano tutti detenuti al 41bis e nei regimi di Alta sicurezza che avevano ottenuto i domiciliari grazie all’emergenza sanitaria. In pratica la norma imponeva ai giudici di Sorveglianza di rivalutare in 15 giorni se sussistessero ancora i motivi legati all’emergenza sanitaria. Era infatti sulla base del rischio contagio se i giudici hanno consentito gli arresti casalinghi a mafiosi, presunti boss, killer e spacciatori di droga tra marzo ed aprile. Le eccezioni di incostituzionalità erano state sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Sassari e dai Magistrati di sorveglianza di Spoleto e di Avellino sul decreto legge n. 29 del 2020 e sulla legge n. 70 del 2020, relativi alle scarcerazioni connesse all’emergenza Covid-19 di condannati per reati di particolare gravità. I dubbi riguardavano le norme che impongono al Magistrato di sorveglianza - una volta concessa provvisoriamente, per ragioni legate all’emergenza sanitaria, la detenzione domiciliare ai condannati per questi reati - di rivalutare periodicamente le condizioni che giustificano la misura, alla luce dei pareri delle Procure distrettuali e della Procura nazionale antimafia, nonché delle informazioni del Dipartimento degli affari penitenziari sull’eventuale sopravvenuta disponibilità di strutture sanitarie all’interno del carcere o di reparti di medicina protetti, idonei a ripristinare la detenzione del condannato. La Corte ha ritenuto che questa disciplina non violi il diritto di difesa del condannato. La legge sull’ordinamento penitenziario, nota la Consulta, da tempo affida al Magistrato di sorveglianza il compito di anticipare, in situazioni di urgenza, i provvedimenti definitivi del Tribunale di sorveglianza sulle istanze di concessione di misure extra-murarie per ragioni di salute, sulla base anche di documentazione acquisita direttamente dal magistrato e non conosciuta dalla difesa. La stessa situazione si verifica nel procedimento di rivalutazione introdotto dal dl, funzionale ad attribuire al magistrato la possibilità di revocare in via provvisoria e urgente la detenzione domiciliare già concessa, in modo da mantenere sempre aggiornato il bilanciamento tra l’imprescindibile esigenza di proteggere la salute del detenuto e le altrettanto fondamentali ragioni di tutela della sicurezza pubblica, legate alla particolare pericolosità di questa tipologia di detenuti. Il diritto di difesa del condannato potrà poi esplicarsi pienamente nell’ambito del procedimento davanti al Tribunale di sorveglianza, destinato a concludersi nei trenta giorni successivi all’eventuale provvedimento di revoca, nel quale il difensore avrà completa conoscenza dei documenti e dei pareri acquisiti. La Corte ha poi escluso che la disciplina esaminata contrasti con il diritto alla salute del detenuto e con il principio di separazione dei poteri. La legge, infatti, non intende esercitare alcuna indebita pressione sul giudice che ha in precedenza concesso la detenzione domiciliare e mira unicamente ad arricchire il suo patrimonio conoscitivo su possibili opzioni alternative intramurarie, in grado di tutelare in modo ugualmente efficace la salute del condannato. Napoli. Il Coronavirus dilaga in cella, due morti a Secondigliano di Viviana Lanza Il Riformista, 25 novembre 2020 I nuovi provvedimenti cautelari continuano a far entrare gente in cella, i braccialetti elettronici scarseggiano, le procedure dinanzi al Tribunale di Sorveglianza si moltiplicano e nelle carceri i contagi aumentano e si continua a morire. Un detenuto del carcere di Secondigliano è morto ieri all’ospedale Cardarelli. Mario Riccio, 70enne calabrese, in attesa della sentenza di appello dopo un primo processo conclusosi con una condanna a 12 anni per reati associativi, è deceduto nell’ospedale Cardarelli dove era ricoverato da circa un mese per Covid. Soffriva di patologie pregresse e i giudici gli avevano negato gli arresti domiciliari, secondo quanto riferiscono i familiari. Salgono così a tre, nell’arco di pochi giorni, le vittime del Covid nei penitenziari: le altre sono un detenuto di Poggioreale e il direttore sanitario di Secondigliano. “A Napoli si registra una situazione catastrofica”, denuncia il direttivo del Carcere Possibile annunciando per domani una giornata di protesta. Alle 11,30 i penalisti, assieme a garanti dei detenuti, cappellani delle carceri e rappresentanti di Antigone, si riuniranno all’esterno del Tribunale di Napoli e del carcere di Poggioreale. Manterranno la distanza prevista dalle norme anti-contagio e chiederanno ai capi degli uffici “di chiudere il portone di ingresso degli istituti penitenziari partenopei e aprire la porta d’uscita”. “Chiediamo - precisa il direttivo del Carcere Possibile, la Onlus della Camera penale presieduta dall’avvocato Anna Maria Ziccardi - che venga bloccata l’emissione di nuovi ordini di carcerazione, che il ricorso alla misura cautelare della custodia intramurale sia limitato ai casi più gravi, che il Tribunale di Sorveglianza si attivi affinché si tratti il maggior numero di procedure relative ai detenuti ai quali concedere una misura alternativa”. L’articolo 30 del decreto Ristori non ha prodotto risultati nelle carceri campane. “A Poggioreale non si registra, infatti, alcuna uscita legata all’applicazione di questa norma e a Secondigliano pare che ne abbia beneficiato un solo detenuto, ma solo formalmente giacché è ancora in attesa del braccialetto elettronico”. Servono strumenti per risolvere il problema del sovraffollamento. “Non abbiamo timore a dire - aggiunge il direttivo del Carcere Possibile - che questi strumenti sono in primo luogo l’amnistia e l’indulto”. Ormai è chiaro che il Covid si muove nelle carceri come vuole. Che è un nemico subdolo e pericoloso, e che in luoghi sovraffollati contagia più facilmente. Il virus ha raggiunto anche quelle sezioni, come il 41bis, che il Ministero della Giustizia e alcuni procuratori della Repubblica durante la prima ondata avevano indicato come luoghi sicuri. E non si è fermato nemmeno davanti ai bambini che purtroppo crescono dietro le sbarre seguendo il destino delle madri, contagiandone alcuni. “Il problema del sovraffollamento delle carceri impedisce o limita drasticamente ogni tentativo di porre un argine al dilagare della pandemia”, denunciano i penalisti. Attualmente i detenuti positivi a Poggioreale sono 100 e in quello di Secondigliano 84, più due ricoverati in ospedale. A Salerno si contano due positivi tra i detenuti reclusi. Nel carcere di Benevento sono cinque più uno ricoverato in ospedale, mentre c’è un solo detenuto positivo a Santa Maria Capua Vetere. E anche se cominciano a esserci le prime guarigioni dal Covid la situazione nelle carceri continua a destare grande preoccupazione. “Insofferenza e paura sono gli stati d’animo dei detenuti che vivono a causa del Covid un surplus di sofferenza, di doppia reclusione - afferma il garante regionale Ciambriello - La magistratura di Sorveglianza deve significativamente intervenire”. Napoli. A Poggioreale sciopero della fame dei detenuti: “Stiamo in 9 in 20 metri quadri” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 25 novembre 2020 Tre morti per coronavirus in pochi giorni tra il carcere di Poggioreale e quello di Secondigliano e celle sempre più affollate che favoriscono “la promiscuità e la precarietà delle condizioni igieniche”. Scatta lo sciopero della fame nella casa circondariale di Napoli Giuseppe Salvia. Ad annunciarlo è Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti della Campania, che in mattinata ha incontrato una rappresentanza di detenuti positivi al coronavirus. “Apprendo - fa sapere Ciambriello - che inizieranno oggi stesso uno sciopero della fame, come segno di protesta nei confronti della gestione dell’emergenza che stanno vivendo”. I detenuti “richiedono maggior durata delle videochiamate con i propri familiari, e maggior dignità negli spazi detentivi che ospitano 6,8 in alcuni casi 9 persone entro pochi metri quadrati, favorendo la promiscuità e la precarietà delle condizioni igieniche”. Secondo Ciambriello occorre mettere in campo “straordinari interventi di riqualifica. Con instancabile perseveranza ricordo i 12 milioni di euro destinati al carcere di Poggioreale da utilizzare per la ristrutturazione di questi ambienti. Ho avvertito oggi in queste persone un surplus di sofferenza, legato all’indignazione della condizione detentiva, e alla paura della positività al temuto virus. È necessario applicare misure alternative alla detenzione in questi luoghi, fosse solo per momenti contingentati, affinché la dignità umana e il diritto alla salute possano essere salvaguardati” conclude. Negli ultimi giorni sono tre i decessi accertati per coronavirus. La scorsa settimana è scomparso un detenuto ospite nel carcere di Poggioreale: era ricoverato al Cotugno e aveva 68 anni. Nei giorni successivi è deceduto prima il direttore sanitario di Secondigliano Raffaele De Iasio, 61 anni, poi nelle scorse ore Mario Riccio, 70enne calabrese sulla sedia a rotelle, deceduto nell’ospedale Cardarelli dove era ricoverato da circa un mese per Covid. Soffriva di patologie pregresse e i giudici gli avevano negato gli arresti domiciliari, secondo quanto riferiscono i familiari. Attualmente i detenuti positivi nel carcere di Poggioreale sono circa 100, nel penitenziario di Secondigliano 84. Decine anche gli agenti penitenziari contagiati. Tolmezzo (Ud). Covid in carcere, gestione fuori controllo: primi esposti in procura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 novembre 2020 Un detenuto malato di Covid a Tolmezzo. Era in attesa di giudizio, ultrasettantenne con patologie pregresse, aveva ricevuto rassicurazioni. Qualcosa non avrebbe funzionato nella gestione sanitaria al carcere di Tolmezzo. Il Covid a Tolmezzo ha contagiato quasi la totalità dei detenuti, tra l’Alta Sicurezza e 41bis. Persone che teoricamente erano in sicurezza, isolati da tutti, sono risultate contagiate. Come abbiamo visto con l’articolo di ieri de Il Dubbio, tante sono state le mancanze che hanno comportato un clamoroso fallimento di tutta la catena di controllo. Ora però arrivano anche i primi esposti in procura. È il caso di un detenuto in attesa di giudizio recluso al carcere di Tolmezzo, ultrasettantenne con patologie pregresse e risultato positivo al Covid. Già durante la prima ondata era stato rassicurato da una nota del ministero della Giustizia, inviata al Garante nazionale delle persone private della libertà che si era interessato del caso. La nota del ministero è importante, perché lo stesso ha evidenziato il fatto che “risulta ubicato in camera singola dal 25 marzo 2020, al fine di tutelare la propria salute, essendo un soggetto a rischio (ultrasettantenne) e affetto da diverse patologie”. Ciononostante, sempre il ministero ha evidenziato che tutto era però sotto controllo. Infatti si legge testualmente che “al 20 maggio c.a. i detenuti precedentemente positivi, si sono negativizzati e sono stati dichiarati guariti; anche il personale è risultato negativo agli accertamenti disposti dall’Azienda sanitaria. Lo stesso personale è dotato di Dpi e di particolari dispositivi vengono dotati le unità di personale che svolgono servizio nella Sezione Isolamento Covid, destinata ad ospitare detenuti in isolamento precauzionale/sanitario”. Il Covid a Tolmezzo è entrato nei luoghi considerati sicuri - Tutto bene, quindi? Purtroppo la rassicurazione del ministero è stata smentita in seguito dai fatti. Il suo legale, l’avvocato Giovanni De Stefano, ha depositato un esposto in procura chiedendosi cosa non abbia funzionato visto che poi alla fine Il Covid a Tolmezzo è divampato entrando nei luoghi (si pensi al 41bis) considerati sicuri. Ha chiesto alla procura di identificare i responsabili del focolaio che ha coinvolto quasi la totalità dei detenuti. Nella qualità di difensore, nelle settimane scorse, l’avvocato De Stefano ha avuto contatti telefonici e via “Skype”. In tali occasioni ha appreso con una certa preoccupazione dal detenuto ultrasettantenne che il medico dell’istituto penitenziario era stato isolato per sospetto caso di infezione da Covid. Circa due settimane fa, in un colloquio telefonico con il detenuto, l’avvocato ha appreso della presenza all’interno della struttura penitenziaria di detenuti in stato febbrile, i quali sarebbero stati curati senza adottare alcuna opportuna cautela, prima tra tutte l’isolamento, e che non vi sarebbe stato alcun trattamento “particolare” nei riguardi del suo assistito, visto l’età avanzata ed il rischio di contagi. Non solo. Detenuti manifestavano già i sintomi - Nell’esposto si legge che sempre il detenuto contagiato di Covid a Tolmezzo, supportato stavolta dall’avvocata Sara Peresson del foro di Udine, ha informato il legale che l’area riservata ai detenuti al 41bis, era ed è oggetto di focolaio da coronavirus e, che, la situazione, benché stesse degenerando, sarebbe stata affrontata in maniera superficiale ed approssimativa dall’amministrazione. Come ha già riportato Il Dubbio, la stessa Peresson, infatti, viene avvisata dall’amministrazione penitenziaria, al fine di usare la cautela della quarantena fiduciaria, visto che durante i colloqui ha avuto contatti con soggetti risultati positivi all’infezione. Detenuti, ricordiamo, che già manifestavano sintomi riconducibili al Covid a Tolmezzo. Poi cosa è accaduto? Nella mattinata di venerdì scorso, il detenuto ha contattato telefonicamente l’avvocato De Stefano evidenziando di aver ricevuto gli esiti del tampone e di essere risultato positivo al Covid. Ha spiegato che da qualche giorno, ormai, aveva tosse secca affanno e decimi di febbre, ma che nessuna terapia veniva allo stesso praticata se non la misurazione della febbre e la misurazione dell’ossigenazione del sangue con l’elementare “saturimetro da polpastrello”. Solo qualche tempo dopo ha iniziato a riceve cure specifiche, anche antibiotiche. Le rassicurazioni del ministero della Giustizia - Tuttavia - si legge nell’esposto - il detenuto ha denunciato che “nessuna previsione di analisi cliniche ospedaliere o esami al torace sarebbero stati possibili in quanto la struttura carceraria non è dotata di tale attrezzatura e che non era preventivabile la possibilità di disporre esami clinici presso gli ospedali pubblici per mancanza di personale penitenziario e sovraffollamento delle strutture”. Se confermato, ciò appare grave visto che nonostante le rassicurazioni della nota del ministero, il detenuto si trova - secondo quanto denuncia l’avvocato - leso del suo diritto costituzionale a essere curato e preservato dalla stessa amministrazione che ne detiene la custodia. Anche perché il detenuto, anziano e con patologie pregresse, sin da subito avrebbe accusato chiari sintomi dell’infezione e sarebbe stato lasciato per giorni senza alcun tipo di protocollo medico sanitario, il che - secondo l’avvocato - “ha causato sicuramente l’insorgenza delle superiori patologie e quindi la configurazione di gravi lesioni personali che si sarebbero potute evitare seguendo un “piano” organizzato contro l’evoluzione e la diffusione della pandemia”. Il detenuto non può accedere a strutture sanitarie per i controlli - Il detenuto difeso dall’avvocato De Stefano è affetto non solo da esiti di intervento chirurgico per neoplasia mucinoso-cistica della coda del pancreas, ma anche da pluripatologie a carattere cronico dell’apparato cardio-vascolare. “Da considerare - denuncia l’avvocato nell’esposto -, inoltre, che la condizione patologica derivante dall’infezione da Covid ha negato e nega, allo stesso, la possibilità di poter accedere presso strutture sanitarie per sottoporsi ai periodici controlli clinici e strumentali e di laboratorio, resi necessari dalle patologie cardio-vascolari”. Come detto, la situazione sanitaria è sfuggita di mano. “Cosa non ha funzionato? Quali contromisure si stanno adottando per evitare che tale situazione, evidentemente sfuggita di mano, degeneri a causa di condotte poste in essere da chi doveva controllare ed esercitare prevenzione e non lo ha fatto?”, chiede l’avvocato nell’esposto in procura. Continua chiedendo come si intende preservare la salute dei detenuti come il suo assistito in attesa di giudizio, ultrasettantenne e presunto innocente fino al terzo grado di giudizio. “Come può - prosegue l’avvocato De Stefano nell’esposto - aver circolato il virus all’interno di una struttura super protetta, in questo modo così dilagante? Quale anello della catena di montaggio non è stato rispettato e da chi?”. Busto Arsizio. Covid in carcere: sono 35 i detenuti positivi, 260 quelli in quarantena di Rosella Formenti Il Giorno, 25 novembre 2020 Sono 35 i detenuti risultati positivi al Covid, all’interno della casa circondariale in via Cassano. Una cinquantina i negativi dopo l’ultimo giro di tamponi, riuniti in un’unica sezione. Rispetto ai giorni scorsi sono saliti a 260 i reclusi al momento in quarantena, entro la fine della settimana 110 di loro saranno sottoposti al secondo tampone e se negativi alleggeriranno il dato più pesante. “Stiamo tenendo sotto controllo la situazione - dice il direttore Orazio Sorrentini - Abbiamo incontrato i rappresentanti dei detenuti, c’è stato un confronto, quindi abbiamo deciso di intervenire alleggerendo le restrizioni che riguardano la consegna di pacchi con generi commestibili consentendo l’accesso per quelli che non devono essere conservati in frigorifero”. I contatti con i familiari proseguono con le videochiamate e le telefonate, ma in carcere c’è bisogno di altri cellulari, l’auspicio è che dall’esterno possa arrivare qualche donazione. Sottoposti a tampone gli agenti della Polizia penitenziaria che avevano avuto contatti stretti con i reclusi risultati positivi: sono una cinquantina e tutti sono negativi al test. Fa sapere ancora il direttore della struttura carceraria: “Ammontano a un centinaio gli agenti che volontariamente si sono sottoposti al test rapido, grazie alla collaborazione con Ats Insubria, al punto di controllo allestito alla caserma Ugo Mara, un solo caso positivo, ma l’agente era già in quarantena in quanto un suo familiare era risultato positivo al Covid”. Ora nel carcere bustese sono arrivati i Medici senza frontiere, inviati dal provveditorato. Stanno svolgendo attività di formazione dando indicazioni al personale amministrativo, ai reclusi, agli agenti e agli educatori sui comportamenti da tenere per evitare il diffondersi dei contagi. Ieri mattina nella casa circondariale è avvenuto un decesso. Si tratta di un detenuto di 53 anni, cardiopatico e con altre patologie, che nei giorni scorsi era stato sottoposto a tampone, risultando negativo. L’altro giorno ha manifestato febbre e altri sintomi compatibili con il coronavirus, ma il test ha dato ancora esito negativo. Ieri il decesso, sarà l’autopsia a fare chiarezza sulle cause della morte. L’uomo era in carcere per accuse molto pesanti (era stato condannato per aver preso parte a un omicidio), ma nella struttura bustese non aveva mai dato alcun problema, tanto che gli era stata affidato il compito di responsabile della biblioteca. Busto Arsizio. Detenuto di 53 anni ha un malore e muore in ospedale dopo qualche ora varesenews.it, 25 novembre 2020 Il caso arriva in un momento delicato per il carcere di Busto Arsizio, al centro di un focolaio Covid. Il direttore Sorrentini: “Non aveva il Covid ma era cardiopatico. Isolati tutti i positivi”. Sono settimane più complicate del solito quelle che si stanno vivendo all’interno del carcere di Busto Arsizio e la notizia di un decesso avvenuto questa mattina rischia di rendere ancora più difficili i giorni a venire. Un detenuto è stato, infatti, colto da malore questa mattina in una cella di un’area dedicata ai sintomatici negativi al tampone e rianimato sul posto, prima di essere trasportato in ospedale dove è deceduto qualche ora dopo. Ad accorgersi del malore è stato un agente di Polizia Penitenziaria che ha subito dato l’allarme. L’uomo, cardiopatico e malato di hiv, stava scontando 30 anni di carcere per omicidio. Era risultato negativo a due tamponi nonostante avesse accusato da un paio di giorni una leggera febbre. Il referto indica un arresto cardiaco come causa della morte. La vicenda è stata raccontata dallo stesso direttore della struttura Orazio Sorrentini che ci tiene a sottolineare il lavoro che è stato fatto nei giorni scorsi dopo che in una zona del penitenziario era scoppiato un focolaio di contagi da coronavirus: “Grazie all’impegno di alcuni componenti di Medici Senza Frontiere eravamo riusciti a spostare e isolare i detenuti positivi sintomatici, quelli asintomatici e coloro che avevano qualche sintomo confondibile con il Covid ma che non erano risultati positivi al tampone”. L’operazione era finalizzata proprio a mettere un freno al contagio all’interno della struttura dove nei giorni scorsi è stato anche iniziato uno sciopero della fame da parte di alcuni detenuti che chiedevano maggiore sicurezza sanitaria e maggiori possibilità di interloquire con le rispettive famiglie, colloqui che hanno subito una stretta negli ultimi mesi proprio per evitare il contagio. Sulmona (Aq). Coronavirus, positivi 15 detenuti ansa.it, 25 novembre 2020 Contagi a raffica nel carcere di Sulmona. Quindici detenuti sono stati accertati positivi mentre quattro sono risultati dubbi su un totale di trentotto reclusi sottoposti al test naso-faringeo. Nessuno di loro, al momento, necessita di cure ospedaliere. Si apre un fronte molto delicato in un ambiente sensibile come il carcere anche se al momento l’intera struttura risulta monitorata. Da quanto si apprende dagli ambienti sanitari del penitenziario più grande della regione, nelle prossime ore si procederà a somministrare i tamponi su tutta la popolazione carceraria per stabilizzare il quadro epidemiologico e creare le cosiddette bolle di isolamento. Il magistrato di sorveglianza dovrà verificare lo status giuridico mentre il Dipartimento sanitario si occuperà di ricostruire i contatti. Un lavoro certosino e non facile che sicuramente impiegherà tempo agli operatori coinvolti che rassicurano però sulle operazioni da mettere in campo. “La sezione dove si sono registrati i casi è sotto controllo. Ora dobbiamo attendere che vengano completati gli accertamenti su tutti detenuti da parte del comparto sanitario che è stato bravo ad intercettare un sintomatico”, fa sapere il Direttore del carcere, Sergio Romice. Nei giorni scorsi si erano registrati sei casi di positività tra l’area sanitaria del carcere e gli agenti di polizia penitenziaria. Milano. Storia di Salvatore, a 76 anni in carcere col virus di Manuela D’Alessandro agi.it, 25 novembre 2020 “L’ultima volta che l’ho visto piangeva e diceva che non ne può più”, spiega il legale dell’uomo, che sta scontando un ergastolo e ha diverse patologie. Settantasei anni, positivo al Covid in carcere. È la vicenda di Salvatore S. che ha contratto il virus nel carcere di massima sicurezza di Opera dove è recluso da 34 anni per reati legati alla criminalità organizzata e ora è stato spostato nell’hub destinato agli infetti nelle carceri lombarde a San Vittore. Il legale, piangeva e mi ha detto che non ne può più - “L’ultima volta che l’ho visto, il 7 novembre, piangeva e mi ha detto che non ne poteva più”, dice all’Agi il suo legale, Eliana Zecca. “Il mio assistito è affetto da numerose e gravi patologie - prosegue il difensore - come si può leggere in una relazione dell’ospedale San Paolo, dove in passato è stato curato, in cui si parla di ‘altissimo rischio di evento acuto anche fatale in paziente diabetico a rischio infarto senza sintomi oltre ad un’aritmia fatalè”. Per due volte, durante la prima ondata, il suo avvocato ha chiesto al Tribunale della Sorveglianza di Milano di concedergli i domiciliari attraverso l’applicazione del cosiddetto ‘differimento pena umanitario’. Richieste respinte con l’argomento che il detenuto si trovava già ricoverato al San Paolo prima e al Sacco poi per accertamenti. “Una volta dimesso tuttavia - spiega Zecca - era tornata in carcere. Ora si trova a San Vittore dove c’è l’hub in cui vengono trasferiti i positivi e i suoi familiari sono molto preoccupati perché, com’è noto, l’età e le patologie pregresse accentuano i rischi in caso di positività”. “Un detenuto così non può stare in carcere” - Salvatore S. è in regime di ergastolo ostativo, cioè una pena senza fine che non prevede la concessione di benefici salvo che il recluso non collabori con la giustizia. Tuttavia, nell’ottobre dello scorso anno, la Consulta ha stabilito la parziale incostituzionalità dell’ergastolo ostativo nella parte in cui prevede di subordinare la concessione di benefici alla mancata collaborazione, soprattutto quando i fatti siano molto risalenti. “Il mio assistito - afferma il suo difensore - non è mai uscito dal carcere se non andare ai processi o in ospedale. Paga per fatti di più di 30 anni fa e non ha nessuna intenzione di ripristinare i suoi collegamenti con la criminalità e commettere reati. Un uomo nelle sue condizioni, ora col Covid pure, non può restare in carcere”. Nuoro. “In carcere lo trattano come un sacco della spazzatura, ha lividi su tutto il corpo” di Amedeo Junod Il Riformista, 25 novembre 2020 L’appello di Rosa per il marito detenuto. “Come faccio a stare tranquilla sapendo che mio marito si trova malato in carcere, in un ambiente a dir poco sfavorevole? Chiedo solo che venga operato subito e trasferito dove non corra rischi”. Non trattiene l’angoscia, Rosa, moglie di Nikolik Rade, 38enne di nazionalità serba. “Mio marito ha sbagliato e sta scontando con la detenzione i suoi errori. Di recente è evaso dopo un permesso premio, ma dopo una latitanza di circa due mesi è stato ricondotto in cella. Da allora è stato preso di mira”. Non ha dubbi la signora Rosa, e lo stesso Rade, detenuto al regime del 14bis (sorveglianza particolare) nel carcere di Nuoro, le ha in più occasioni descritto il clima di avversione e ostilità che stava subendo in quel carcere, attriti e tensioni culminati in concreti episodi di percosse, denunciate tanto dal detenuto quanto da Rosa, al commissariato di Melito di Napoli. A seguito delle denunce, il procuratore di Nuoro ha inviato i carabinieri nell’Istituto per accertare i fatti, constatando la presenza effettiva di lividi sul corpo di Rade. “Sono pieno di lividi dalla testa ai piedi, mi hanno preso di mira, mi aspettano nel corridoio del passeggio, una zona senza telecamere, e in più di dieci mi hanno trattato come un sacco della spazzatura. Se non fosse stato per le proteste degli altri detenuti non mi avrebbero lasciato in pace”. È l’atroce resoconto che Rade avrebbe confessato durante una telefonata alla moglie. La versione della polizia penitenziaria parla invece di un incidente quale causa dei segni sul corpo: il detenuto si sarebbe rifiutato di rientrare in cella, e le lividure sarebbero apparse a seguito di una caduta avvenuta nella confusione di quel concitato momento. La ripetuta richiesta di visione delle registrazioni delle telecamere di videosorveglianza relative a quegli istanti da parte dei legali è tuttavia, ad oggi, rimasta inevasa. La moglie di Nikolik è preoccupata prima di ogni altra cosa per la salute del marito. Ci parla di una situazione insostenibile: “Soffre di patologie per le quali è stata più volte dichiarata l’incompatibilità con gli ambienti del carcere di Nuoro, un carcere con i bagni turchi laddove lui avrebbe estrema necessità di un bagno tradizionale, più adatto alle sue esigenze di salute. Inoltre, nonostante numerosi referti abbiano attestato la necessità di un’operazione chirurgica urgente, non solo le richieste di avvicinamento non sono state ascoltate, ma non si è provveduto nemmeno a cercare un’altra opzione, non necessariamente più vicina, nonostante per la legge un detenuto non dovrebbe stare a più di 200 chilometri dalla famiglia”. L’interesse per la salute del detenuto sembra passare troppo spesso in secondo piano in questa storia, fino al colmo: “La settimana scorsa, in trasferimento a Nuoro da Secondigliano, dove era provvisoriamente per impegni processuali, è stato reinserito nello stesso carcere dove ha subito le percosse, e per di più senza essere sottoposto a tampone”. Rosa ha poi tempestivamente avvisato il carcere di Nuoro di essere risultata positiva al Covid, ad appena quattro giorni dall’ultimo colloquio con il marito. Solo a seguito di questa segnalazione Rade riceverà il tampone. Per quanto riguarda l’operazione urgente necessaria alla sua salute, nonostante le unanimi indicazioni mediche ricevute, nel tempo, da Poggioreale, Secondigliano e Nuoro, ancora nulla si è mosso. Il trasferimento in un carcere più vicino verrebbe incontro alle esigenze di una famiglia con gravi problemi di mobilità (il figlio di Rosa è malato e necessita di numerose terapie), ma la priorità, per Rosa, resta la garanzia di sapere il marito in un ambiente non ostile, dove possa ricevere le cure adeguate al suo caso, messe ripetutamente a repentaglio dall’impossibilità di accedere alle operazioni chirurgiche richieste, e vanificate da un clima violento e ritorsivo che al danno fisico aggiunge un reiterato trauma psicologico. Rosa denuncia inoltre di aver ricevuto numerose lettere, provenienti da Nuoro, contenenti frasi offensive e intimidazioni. Certa che non si tratti della grafia del marito - tra l’altro sottoposto al visto censura sulle conversazioni - ha denunciato anche questo episodio, richiedendo inoltre una perizia calligrafica ad oggi non ancora concessa. I tentativi del marito di denunciare gli abusi tramite lettere, sono stati infine vanificati da evidenti manomissioni e ricalchi della scrittura che hanno reso le missive illeggibili. Con il diffondersi dell’epidemia di Coronavirus si sta scrivendo un’altra pagina nera nella storia delle carceri in Italia. Nell’anno delle rivolte e delle numerose denunce di maltrattamenti e violenze, si contano, ad oggi, già 44 suicidi negli istituti di pena, di cui 8 persone solo nella regione Campania, come di recente riportato dal Garante Regionale per i Detenuti Samuele Ciambriello in Occasione della Conferenza nazionale dei Garanti. Per quanto riguarda la tutela della salute e dei malati - Covid e non Covid - negli istituti di pena, si preannuncia un altro anno da dimenticare, tra contagi che aumentano esponenzialmente e malati “ordinari” lasciati a loro stessi, spesso senza la garanzia di un consono distanziamento anti-contagio: “bisogna accostare alla certezza della pena un’altra certezza, altrettanto cruciale, e cioè la garanzia di una pena di qualità, che tenga sempre aperti gli occhi sui diritti inviolabili delle persone private della libertà, tra cui il diritto ad essere curati. Alla persona che sbaglia va tolto il diritto alla libertà, ma non quello alla dignità”. Roma. Rivolta detenuti a Rebibbia: 9 arresti e 55 indagati per devastazione di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 25 novembre 2020 Una rivolta nata per la paura sulle mancate misure anti Covid nei penitenziari, ma secondo la procura strumentalizzata da alcuni detenuti per ottenere benefici. Romani, gambiani, etiopi, croati, siciliani, marocchini, alto atesini uniti nella rivolta che mise a ferro e fuoco Rebibbia tra il 7 e il 9 marzo scorso. Ruoli ed età diverse, tutte riportate nell’ordinanza di arresto che su richiesta dei pm Francesco Cascini e Eugenio Albamonte ha raggiunto ieri nove persone tra le 55 in totale che risultano indagate. Contestati a vario titolo i reati di devastazione, saccheggio sequestro di persona, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Questa la sua cronaca di quelle ore di battaglia, come ricostruita nelle testimonianze della polizia penitenziaria. La sommossa parte dal reparto G11 del Nuovo Complesso quando arriva la notizia della sospensione dei colloqui con i familiari per le misure anti-Covid. In tanti si riversano al piano terra dopo aver forzato il cancello che porta alla rotonda. Alcuni detenuti accerchiano gli agenti, li colpiscono a calci e pugni. I più attivi sono Rahhal El Rhoul, marocchino e i romani Marco Gallorini, Fabio Raducci, Mattia Schiavi, Alberto Di Palo. Il gruppo sottrae il mazzo di chiavi all’assistente capo Patrick Menicucci, finito a terra. Vengono così aperti i cancelli cosiddetti “filtro” di ingresso ai reparti e altri detenuti si aggiungono alla protesta. Alla fine saranno quasi 300. Con Menicucci ci sono l’ispettore superiore Alvaro Clemenzi, gli altri assistenti Massimo Blasi e Albino Testa, oltre al vice direttore Marco Grasselli che invano prova a calmare i più facinorosi. I cinque vengono di fatto sequestrati per circa quindici minuti all’interno dell’atrio. “Tanta era la massa dei detenuti e la violenza in atto in quel momento che è vano ogni tentativo di fermarli”, raccontano. Solo l’arrivo dei loro colleghi, con altri mazzi di chiavi, permette la loro liberazione. Ma la devastazione ormai è inarrestabile “tanta è la rabbia dei rivoltosi”. Un altro gruppo di detenuti si occupa di distruggere tutto quello che trova a tiro. Due infermerie vengono saccheggiate dei farmaci e date alle fiamme. Stessa sorte tocca alla biblioteca, mentre il cancello di ingresso alla sezione A, il sistema di video sorveglianza e i metal detector vengono divelti e resi inagibili. Pezzi di armadio vengono lanciati contro i poliziotti. Il palermitano Vincenzo Bova, uno dei capi della rivolta, si impossessa di un idrante rompendo la teca che lo custodisce e lo usa contro gli agenti per tenerli lontani. Oltre a quello di Bova, spicca il ruolo di Leandro Bennato, 40 anni, legato in passato a Fabrizio Piscitelli “Diabolik”. Con lui (non arrestato) Daniele Mezzatesta, altro nome di peso nella criminalità romana. Entrambi verranno poi trasferiti nel carcere di Secondigliano (Napoli). Un agente dall’esterno riesce intanto a chiamare i rinforzi. Dopo due giorni la sommossa lascia due piani inagibili, i danni sono stimati in 75mila euro. Salerno. Prodotte in carcere le mascherine contro la violenza di genere ottopagine.it, 25 novembre 2020 Realizzati 20mila dispositivi grazie al lavoro dei detenuti di Salerno e Santa Maria Capua Vetere. Una scritta semplice ma significativa: “Stop alla violenza sulle donne”. È quella impressa su 20mila mascherine realizzate nelle carceri di Salerno e Santa Maria Capua Vetere. Da tempo, infatti, i due istituti penitenziari campani sono coinvolti nel programma nazionale che prevede l’impiego di detenuti nella produzione dei dispositivi di protezione individuale anti Covid. Le mascherine saranno distribuite al personale delle amministrazioni penitenziaria e giudiziaria del ministero della Giustizia in occasione della giornata internazionale per dire basta alla violenza sulle donne. Diecimila sono state realizzate a Fuorni, in virtù del patto siglato dal ministro Alfonso Bonafede e dal commissario per l’emergenza Covid Domenico Arcuri. Impegnati nella produzione una quarantina di ospiti della casa circondariale, divisi in due turni lavorativi. Le altre sono invece realizzate a mano nel carcere casertano grazie al lavoro di una decina di detenute del laboratorio sartoriale. Reggio Calabria. Situazione nelle carceri, la relazione annuale del Garante dei detenuti calabria7.it, 25 novembre 2020 Venerdì prossimo, 27 novembre, alle ore 11, sarà presentata in videoconferenza dall’Aula “Giuditta Levato” di Palazzo Campanella di Reggio, ed in diretta streaming Facebook, la Relazione annuale del Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Agostino Siviglia. Si parlerà di assistenza sanitaria e accesso ai benefici “All’iniziativa - spiega una nota - coordinata dal responsabile dell’ufficio stampa del Consiglio regionale Romano Pitaro, interverranno, in collegamento video, il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) Bernardo Petralia ed il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma. In occasione dell’evento sarà illustrata l’attività istituzionale del Garante regionale nel suo primo anno di mandato, con un focus sull’analisi del contesto del sistema carcerario calabrese, ma anche sugli altri luoghi di privazione della libertà personale, in particolare sulle Residenze per le Misure di Sicurezza, senza sottacere di evidenziare gli interventi necessari e le raccomandazioni da seguire per la miglior tutela dei diritti fondamentali delle persone detenute. Verranno, altresì, analizzati - è scritto - i dati relativi alla popolazione detenuta; all’assistenza sanitaria penitenziaria, divenuta ancor più prioritaria e complessa con l’avvento del Covid-19; all’accesso ai benefici penitenziari ed alle difficoltà connesse al trattamento rieducativo, argomenti tutti contenuti all’interno della Relazione annuale del Garante”. “La presentazione di questa prima relazione è segnata, tuttavia, da un futuro inedito, tanto fuori quanto dentro i luoghi di privazione della libertà - sottolinea Agostino Siviglia -, ragion per cui si imporranno risposte altrettanto inedite, capaci di assicurare tempestività d’azione ed efficacia a lungo termine. L’avvento del Covid-19, per vero, ha stravolto tutte le priorità, eppure permane la determinazione di perseguire e realizzare gli obiettivi prefissati all’inizio del mandato istituzionale, nella consapevolezza - conclude. Crotone. Il Garante: “Preoccupano i ritardi nelle concessioni della liberazione anticipata” lanuovacalabria.it, 25 novembre 2020 La criticità della situazione “è stata evidenziata anche a livello nazionale dal Presidente dell’Autorità del Garante Nazionale dei detenuti Mauro Palma: a fine ottobre avevamo circa 150 detenuti positivi al Covid e circa 200 addetti al personale delle carceri contagiati”. “Alla luce della emergenza sanitaria ancora in corso, nei colloqui periodici, sono state segnalate più volte all’Ufficio del Garante dei detenuti di Crotone da parte della popolazione carceraria ritardi nell’iter di concessione delle liberazioni anticipate”. È quanto si legge in una nota stampa del Garante comunale detenuti Crotone Federico Ferraro. “Come noto, la liberazione anticipata, - prosegue - prevista dall’ art. 54 dell’Ordinamento penitenziario, consiste in una riduzione della pena che realizza il risultato di anticipare il termine finale del periodo detentivo, qualora “il condannato alla pena di reclusione abbia dato prove di partecipazione all’opera di rieducazione, viene “concessa una detrazione di quarantacinque giorni per ogni semestre di pena scontata”. L’istituto ha sempre avuto una funzione gratificativa verso i positivi comportamenti dell’interessato, onde raggiungere più efficacemente un vero reinserimento nella società; la riduzione della pena detentiva in corso di esecuzione e l’anticipazione del ripristino dello stato di libertà per il condannato accompagnano il detenuto e lo invitano ad un percorso di ritorno in società evitando almeno prognosticamente un ritorno a delinquere”. “Prove di un urgente intervento in tale ambito ne è anche la recentissima Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, - si legge ancora sulla nota di Ferraro - la quale ha rivolto un appello al Parlamento in sede di conversione del DL 137/2020 si possa accogliere anche la previsione di una liberazione anticipata speciale con sospensione dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive fino al 31 dicembre 2021”; come garanti territoriali abbiamo espresso, altresì, necessità di incidere significativamente sul numero delle presenze negli istituti detentivi attraverso una politica di decarcerizzazione, in presenza dei requisiti dalla legge. Tra le cause che hanno portato all’aggravio di lavoro e ai “tempi supplementari” nell’iter di concessione delle liberazioni anticipate sicuramente vanno rintracciate le sofferenze di organico nell’ambito dell’Autorità giudiziaria, lungaggini burocratiche, specie quando si tratta di attendere diverse comunicazioni provenienti da differenti istituti di pena dove ha soggiornato lo stesso detenuto e dunque carenze di organico anche nell’ambito del Dap”. “La speciale criticità della situazione - ribadisce - è evidenziata anche a livello nazionale dal Presidente dell’Autorità del Garante Nazionale dei detenuti prof. Mauro Palma: a fine ottobre avevamo circa 150 detenuti positivi al Covid e circa 200 addetti al personale delle carceri contagiati. Più in generale, la patologica situazione di sovraffollamento che caratterizza le carceri italiane, come fenomeno numericamente rilevante, potrebbe accrescere il rischio di diffusione dei contagi da coronavirus”. La gravità dei dati viene monitorata e divulgata periodicamente anche dal Segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio. Il garante comunale ha segnalato più volte “la problematica anche al Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro, territorialmente competente per Crotone. Una situazione dunque che necessità interventi risolutivi e urgenti. Come avevamo concordato si evidenzia che da qualche mese, dopo opportuna formazione, abbiamo ottenuto dall’Asp Kr la gestione diretta, online, delle prenotazioni per le visite specialistiche ed esami di laboratorio, portando una migliore ottimizzazione nell’organizzazione visto che non è più necessario il passaggio attraverso gli sportelli Cup. Ciò consente una più facile gestione dell’assistenza sanitaria soprattutto perché si ha la completa visione dei tempi di attesa di tutti i poliambulatori della nostra Azienda Sanitaria e addirittura, essendo inseriti nella cosiddetta “Area centro”, anche dell’Asp di Catanzaro e di Vibo Valentia, a cui si potrebbe ricorrere in caso di necessità urgente”. “Buoni risultati abbiamo ottenuto - prosegue ancora il garante comunale dei detenuti - con la fornitura semestrale dei farmaci che, se anche ha portato un maggiore lavoro agli operatori sanitari nella programmazione, ha permesso una maggiore autonomia, un maggiore risparmio economico per un ridotto ricorso alle farmacie convenzionate Come avevamo concordato si evidenzia che da qualche mese, dopo opportuna formazione, abbiamo ottenuto dall’ASP KR la gestione diretta, online, delle prenotazioni per le visite specialistiche ed esami di laboratorio, portando una migliore ottimizzazione nell’organizzazione visto che non è più necessario il passaggio attraverso gli sportelli Cup. Ciò consente una più facile gestione dell’assistenza sanitaria soprattutto perché si ha la completa visione dei tempi di attesa di tutti i poliambulatori della nostra Azienda Sanitaria e addirittura, essendo inseriti nella cosiddetta “Area centro”, anche dell’Asp di Catanzaro e di Vibo Valentia, a cui si potrebbe ricorrere in caso di necessità urgente”. “Riscontro positivo - si legge ancora sulla nota - invece per quanto attiene all’Area sanitaria, sia della Dirigenza Asp Crotone che del Presidio Sanitario Penitenziario “Casa Circondariale Crotone”, con cui è in corso un’interlocuzione costruttiva e fattiva, per il tramite della la Dirigenza Asp, d.ssa Maria Pompea Bernardi e della Responsabile del Presidio sanitario penitenziario d.ssa Angela Caligiuri. Si è convenuto sulla necessità di redistribuire ancor più efficacemente le ore del servizio sanitario valorizzando l’ambito dentistico ed oculistico e richiedendo l’avvio del servizio dermatologico, in passato non previsto. “Tra l’altro in questo periodo il Presidio sanitario penitenziario ha ottenuto dall’Asp Krla gestione diretta, online, delle prenotazioni per le visite specialistiche ed esami di laboratorio, portando una migliore ottimizzazione nell’organizzazione visto che non è più necessario il passaggio attraverso gli sportelli CUP. Ciò consente una più facile gestione dell’assistenza sanitaria - conclude - soprattutto perché si ha la completa visione dei tempi di attesa di tutti i poliambulatori della nostra Azienda Sanitaria e addirittura, essendo inseriti nella cosiddetta “Area centro”, anche dell’Asp di Catanzaro e di Vibo Valentia, a cui si potrebbe ricorrere in caso di necessità urgente”. Treviso. L’istruzione come strumento rieducativo per i ragazzi del carcere minorile oggitreviso.it, 25 novembre 2020 Approvato dalla giunta regionale il servizio di istruzione e formazione per i ragazzi detenuti. Garantire il diritto all’istruzione attraverso programmi annuali di attività formativa e progetti individualizzati. Con questo obiettivo è stato approvato per i prossimi tre anni il servizio di istruzione e formazione per i ragazzi dell’Istituto penale minorile di Santa Bona a Treviso. Le attività portare avanti negli ultimi anni nel carcere minorile di Treviso sono state individuate come esperienza positiva a livello nazionale, tanto da essere riconfermate. La giunta regionale, su proposta dell’assessore all’istruzione e formazione Elena Donazzan, ha dato così il via libera alla delibera che approva lo schema di Protocollo di Intesa per proseguire la collaborazione per il triennio 2020-2022. “L’istruzione scolastica e la formazione professionale sono parti integranti del reinserimento sociale e culturale di coloro che sono sottoposti a provvedimenti di restrizione della libertà personale da parte della Magistratura - sottolinea ancora l’assessore all’istruzione Elena Donazzan - in tal senso, lo schema di Protocollo di Intesa approvato dalla Giunta sancisce la stretta collaborazione fra Ministero dell’Istruzione e Ministero della Giustizia nel garantire il diritto all’istruzione. Una collaborazione che mira a promuovere integrazione e pari opportunità nei percorsi scolastici dei soggetti ristretti nelle strutture penitenziare italiane, definendo finalità, impegni e azioni delle parti coinvolte”. Il protocollo prevede la concessione di un contributo regionale da 5mila euro annui finalizzato alla costituzione di un fondo speciale a sostegno delle attività previste per 20mila euro complessivi annui nelle regioni coinvolte. Pistoia. Cortometraggio con i detenuti della Casa circondariale teatrionline.com, 25 novembre 2020 Associazione culturale Electra Teatro è attualmente impegnata in un progetto approvato dal Ministero della Giustizia che prevede la realizzazione di un cortometraggio i cui attori-protagonisti sono i detenuti del Carcere di Santa Caterina di Pistoia. Il lavoro e le riprese, che hanno avuto inizio a gennaio 2020, interrotti a inizio marzo a causa del lockdown Covid, sono stati nuovamente ripristinati, nel mese di settembre, con l’intento di proseguirli e terminali a dicembre 2020. Il progetto prevede la messa in scena, in forma di cortometraggio, dello Stabat Mater, dramma poetico tratto dall’opera “Madri” (Oèdipus ed.) di Grazia Frisina. Con impeto neorealistico e intenso afflato materno, l’autrice dà voce a Maria e al suo indicibile dolore mentre è ai piedi della croce del figlio. Maria è qui rappresentata nella sua più terrena e struggente maternità; una Madre dunque che avrebbe ben volentieri rinunciato ad essere Beata di fronte alla morte violenta e ingiusta del Cristo. Come Frisina ha dato voce a Maria, donna del silenzio, così il lavoro teatrale e cinematografico che Electra teatro ha in corso, con i detenuti della Casa Circondariale di Pistoia, ha tra i suoi obiettivi quello di dar parola a chi è impossibilitato a far udire la propria voce. Difficile, naturalmente, tratteggiare i detenuti come nuovi Cristi, se pur il grido di dolore che proviene da costoro non ha differenze: la sofferenza ha sempre le medesime umane similitudini. Il progetto è sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia, Fondazione un Raggio di Luce, Ordine Avvocati, Società della Salute Pistoiese, Misericordia e altri benefattori privati con donazioni. Molto è stato fatto, molto c’è ancora da fare. Conoscerlo per poi superarlo. Il carcere visto da dentro di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 25 novembre 2020 “Il Direttore” (Zolfo Editore): Luigi Pagano racconta quarant’anni di lavoro nell’universo penitenziario. Il carcere vive di vita propria come un organismo, che Luigi Pagano conosce a fondo. È in grado di interpretarne l’anima, percepisce vibrazioni, umori e tensioni dei detenuti, della polizia penitenziaria e delle migliaia di persone che ogni giorno entrano ed escono per lavoro o come volontari. Dopo quaranta anni alla guida di istituti di pena, è arrivato alla lucida convinzione che il carcere è anacronistico e che deve essere superato come metodo per risarcire la collettività dal danno causato dai delitti. Pagano non è solo un testimone, è soprattutto un protagonista della metamorfosi, difficile e lenta, che il carcere subisce parallelamente alla società, la stessa che dovrebbe tendere a trasformarlo in un sistema in grado di reinserire il detenuto nel sociale, come chiede la Costituzione. Uno sforzo al quale Luigi Pagano ha contribuito in prima persona non adagiandosi comodamente sulle occhiute interpretazioni burocratiche delle norme, ma leggendo queste in modo aperto senza mai abbandonare il solco della legge. Eppure, tranne pochi esempi, il carcere è pressoché rimasto quello del sovraffollamento, dei detenuti ammassati a consumare il loro tempo a non far niente. Un organismo che cresce costantemente nell’illegittimità. Quello di Luigi Pagano è un patrimonio umano e professionale che dovrebbe essere sfruttato di più dopo che ha lasciato il mondo giudiziario per la pensione. Per capire perché, basta leggere “Il Direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere” (edito da Zolfo). Non è un libro di memorie, almeno non solo. Pagano parte dal carcere di una volta, quello del fine pena mai solo mura e sbarre che lo vide entrare in servizio a 25 anni, attraversa la riforma penitenziaria e la rivoluzione della legge Gozzini fino a raggiungere la sua massima evoluzione nell’esperimento del carcere di Bollate, riuscito sì, ma ancora troppo solitario. “Ho proprio scelto questo lavoro, non è stato un ripiego”, premette. Primo incarico Pianosa, anno 1979, quando lì c’erano terroristi e criminali di peso. “Quell’isolotto rappresentava l’antitesi della riforma penitenziaria e la mia nemesi personale, avendo centrato la tesi di laurea proprio sulla necessità che il rapporto tra carcere e mondo esterno fosse costante e fertile”. C’erano Pietro Cavallero, capo della banda che terrorizzò Milano negli anni Sessanta, e alcuni terroristi delle Br che in quel momento insanguinavano l’Italia. Gli aneddoti raccontati dall’autore descrivono bene quanto fosse duro Pianosa, e non solo per i detenuti. Tre anni dopo è a Nuoro-Badu e Carros dove trova il Gotha del terrorismo, e poi all’Asinara. Quindi Piacenza, Brescia, Taranto e Milano San Vittore, che in 14 anni ha trasformato radicalmente prima dell’esperienza al Provveditorato per la Lombardia e come vicecapo del Dap a Roma. Anni in cui ha incrociato le più importanti e decisive vicende giudiziarie e i personaggi ad esse collegati che racconta quasi assumendo un basso profilo, che chi conosce Luigi Pagano sa essere una dote che accresce il suo spessore. È consapevole che nella società italiana “secoli d’evoluzione umana e giuridica, pile chilometriche di torni e pandette, simposi, discussioni infinite non sono riusciti a sradicare quell’occhio per occhio, dente per dente che ci portiamo dentro”, che è poi l’opinione di chi il carcere lo conosce solo per stereotipi e pregiudizi. “Il Direttore”, però, è tutt’altro che un libro buonista. profondo rispetto dei reclusi, e ancor prima degli agenti, non trascina Pagano sul piano inclinato del sentimentalismo. Le sue, come detto, sono considerazioni che si fondano anche sulla lunga esperienza professionale condividendo quello che disse il cardinal Martini: “Ricambiare il male con il male parrebbe la maniera più ovvia per ristabilire l’equilibrio, la verità è invece che solo un’azione contraria, un’azione che annulli o riduca gli effetti del male, può essere veramente riparatoria”. Il “Direttore” è consapevole che la chiusura del carcere è al momento un’utopia irrealizzabile, ma per intanto basterebbe migliorare quel che c’è attuando ciò che da quasi settant’anni chiede la Costituzione. Il “male” va sempre raccontato? E come? di Alberto Cisterna Il Riformista, 25 novembre 2020 La Rai ha deciso di non mandare in onda la puntata di “Storie maledette” del 2016 in cui Leosini intervista l’uomo condannato per aver sfregiato in volto Lucia Annibali. È sicuramente la voce del colpevole, ma va sentita. Dopo le proteste della deputata di Italia viva, Lucia Annibali, Rai Cultura ha deciso di non trasmettere l’intervista, prevista per oggi, di Franca Leosini a Luca Varani. Varani è stato condannato per aver sfregiato con l’acido il viso di Annibali. È sicuramente il colpevole. Ma è giusto per questo chiedere che il programma non vada in onda? Secondo Alberto Cisterna è un errore: il male va sempre raccontato. Si pensi al lavoro di Hannah Arendt sul processo Eichmann. Secondo Angela Azzaro il programma di Leosini da anni crea disinformazione: è parte di quel circo mediatico che ci ha resi tutti più giustizialisti e feroci. Spira un’aria pessima nel Paese e non solo per la pandemia in atto. Dilaga in tutti gli interstizi della società e si propaga senza limiti un desiderio irrefrenabile di giudizi sommari, di epiloghi irretrattabili, di condanne irrevocabili. Una volta che si è acquisita una conoscenza dei fatti, non importa quanto superficiale e quanto precaria, nessuno è più disposto a tornare indietro. Anzi guai a chi prova a ribaltare le ricostruzioni o a riaprire le discussioni, ben che vada si passa per collaborazionisti con il nemico, per sodali del reprobo, per amici dell’indicibile. Messa in tasca la verità, una verità qualunque, quasi sempre quella più sponsorizzata da un collaudato circuito mediatico a base di giornali, talk show, social media e quant’altro che rimbalzano fatti e opinioni gli uni verso gli altri in un frenetico gioco di specchi e di ombre, la questione è definitivamente messa da parte. L’opinione pubblica è lì bella e confezionata e i suoi sacerdoti la difendono a spada tratta contro chi la metta in discussione. È sconfortante il tifo sfacciato che certi professionisti dell’informazione spendano a difesa di verità che ritengono aver rivelato - avendo spesso agito solo da megafoni di ben individuati centri - e si agitano al cospetto di ogni contraria evidenza saturando di contumelie i mille frammenti del diorama mediatico. In questo puzzle scomposto, tifoserie organizzate si spartiscono le vesti dei poveri cristi e delle loro famiglie affrante dal dolore, sostenendo a spada tratta tesi colpevoliste e alimentando con pseudo esperti l’alambicco, permanentemente in ebollizione, del dubbio e del sospetto. È vero che gli agorà mediatici non sono aule di giustizia, ma questo non consente di dare libero sfogo a fantasie, supposizioni, dietrologie che inquinano la pubblica opinione presentandosi al suo cospetto con le stimmate delle abilità investigative o delle verità scientifiche. È inevitabile che, in tutto questo libero sciamare di rappresentazioni precarie e incomplete della verità, non ci sia più spazio per un’interlocuzione, per un dubbio, per una perplessità o anche solo per la voglia di capire. Il reprobo può anche attendere una condanna definitiva dai propri giudici, ma l’infallibile tribunale della medialità giudiziaria ha già a disposizione i propri verdetti, talmente giusti da sospingere le povere vittime o le doloranti famiglie a sostare avanti ad aule di giustizia che non dovrebbero far altro che ratificare la volontà collettiva. E quando da questa volontà si discostano, per ragioni che sono divenute a quel punto oggettivamente incomprensibili, con un’assoluzione o con una pena più mite, lo straziante dolore dei vinti invade gli schermi e le vesti lacere tornano a sanguinare. Luca Varani ha commesso un delitto orribile; quell’acido sul volto di Lucia Annibali, sfregiata per sempre, è un atto che suscita rabbia e dolore. La sua è la voce di un colpevole, non c’è dubbio. A sua volta Nicola Morra ha dato un giudizio sul voto dei calabresi e sulla morte di Jole Santelli che nessuno ha condiviso. Sono due casi, ovvio, radicalmente diversi e, tuttavia, tenuti insieme da un sottile filo rosso: entrambi sono stati processati per i loro gesti così diversi e pur entrambi scrutinati dalle corti mediatiche senza alcun contraltare. La tv di Stato ha tolto a entrambi la possibilità di raccontare e di raccontarsi in ciò che hanno detto e che hanno fatto. L’intervista a Varani realizzata da Franca Leosini nel 2016 per Storie Maledette non verrà mandata in onda su Rai Storia, in quanto bloccata da Rai Cultura “per non urtare la sensibilità delle vittime e dei telespettatori”. E l’invito a Nicola Morra per partecipare a Titolo V su Rai 3 è stato annullato all’ultimo momento. Fatti sideralmente diversi, ma con uno stesso atteggiamento. Nessuno vuole guardare in faccia il colpevole, quale che sia la sua colpa, nessuno vuole ascoltarne la voce, quale che sia la sua discolpa, nessuno vuol essere turbato da una verità diversa dal giudizio sommario che ciascuno si è formato. Willfull blindness, cecità colpevole la chiamano gli americani, la volontà di non vedere, di chiudersi gli occhi. Eppure, in quelle stesse ore, Rai Storia mandava in onda la memorabile intervista televisiva su TV 7 a Sirhan Sirhan, rifugiato palestinese, che aveva le mani sporche del sangue di Robert Kennedy. Correva l’anno 1969. Pochi anni prima Hannah Arendt aveva scritto Eichmann in Jerusalem - A Report on the Banality of Evil. La banalità del male che tutto il mondo ha potuto conoscere in modo indelebile a partire dalle stesse parole del carnefice di un popolo innocente. La verità dalla parte dei malvagi, quale modo migliore per conoscerla tutta, la verità. No, quelle immagini non aiutano a capire: ci rendono più feroci di Angela Azzaro Il Riformista, 25 novembre 2020 “Storie maledette” è a pieno titolo tra quei programmi che fanno parte del circo mediatico giudiziario. Non si vuole approfondire, non si cerca di andare a scovare le ragioni dei fatti, ma si insiste sul sangue per fare spettacolo. Lasciate in pace il 25 novembre, oppure si facciano cose serie La decisione di Rai Cultura di non trasmettere su Rai Storia l’intervista di Franca Leosini a Luca Varani, l’uomo condannato per aver sfregiato Lucia Annibali, è arrivata dopo le proteste della stessa Annibali, ora deputata di Italia Viva. Polemiche che erano sorte anche nel 2016, quando l’intervista fu trasmessa per la prima volta. La Rai, su iniziativa della Leosini, l’aveva programmata per il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, insieme all’intervista a Angelo Izzo. Non entro nel merito della decisione Rai di cambiare la programmazione, ma penso che il lavoro della Leosini con tutte le sue Storie maledette - non solo queste due interviste - sia parte integrante di quella giustizia-spettacolo che tanto male ha fatto alla giustizia, allo spettacolo, alla tv. E soprattutto a noi. Sono anni che siamo subissati di programmi che si interessano di fatti di cronaca nera. Il processo ancora prima che nelle aule giudiziarie si fa nei salotti televisivi: condanne (quasi sempre), qualche assoluzione, molte analisi grossolane. Questo calderone, che ha fatto a pezzi il diritto o quel po’ di diritto che era diventato cultura diffusa, ci ha cambiati dal punto di vista antropologico e cognitivo: antropologico perché siamo sempre alla ricerca di un capro espiatorio; cognitivo in quanto ormai la nostra analisi della realtà è bloccata sulla divisione in colpevoli e non colpevoli, incapaci di analizzare i fatti fuori da questo schema. Siamo peggiorati. Trasmissione dopo trasmissione ci siamo ritrovati a essere quel popolo che urla contro Gesù mentre viene messo in croce. Le Storie maledette della Leosini, anche se quasi sempre affrontano casi passati in giudicato, sono dentro questa logica, in cui prevale il voyeurismo, un certo gusto per il dettaglio morboso, un pizzico di sadismo. Un mix micidiale che per lo spettatore funziona come cloroformio: il cervello va in pappa, si crede a tutto quello che viene detto, non si ha la possibilità di andare oltre la ricostruzione fatta dalla intervistatrice. La Rai, che è servizio pubblico, non dimentichiamolo, dovrebbe porre fine a questo tipo di trasmissioni. La deontologia dell’Ordine dei giornalisti è piena zeppa di raccomandazioni al riguardo sui diritti degli imputati, sul valore della presunzione di non colpevolezza, sulla necessità di trattare con sobrietà i fatti di cronaca. Le chiamano Carte. Potremmo dire carte stracce, visto il poco uso che noi giornalisti spesso e volentieri ne facciamo. Ma torniamo alla polemica di questi giorni. Ciò che colpisce in particolare è il fatto che l’intervista a Luca Varani fosse programmata per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Questo tema delicatissimo viene trattato dai media con una retorica insopportabile che indugia o sulla donna vittima o sui dettagli morbosi o sulle storie che fanno clamore. Tutto fa notizia e anche le donne che vengono uccise dai mariti non scappano a questo destino. Spettacolo, spettacolo, sempre spettacolo. Il giorno dopo il 25 novembre, fatto l’ultimo titolo con la frase del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si spengono le luci. E anche se ogni tanto si parla della violenza maschile sulle donne, lo si fa male: si parla poco dei motivi profondi che generano questa violenza, si raccontano male le storie delle donne che alla fine finiscono per morire. Si preferisce descriverle come vittime, come inette che non ce la fanno. Quando spesso sono leonesse che combattono e che le istituzioni lasciano sole. C’è poi, in quel mix, sempre una dose di voyeurismo, un guardare dal buco della serratura, uno spiare che non produce conoscenza, consapevolezza, non aiuta a capire come cambiare la testa degli uomini che uccidono, ma serve solo a creare altro rumore di fondo. Altro spettacolo. Pensare che l’intervista a Luca Varani potesse aiutare in qualche modo a capire il perché della sua violenza, senza peraltro prevedere il diritto di replica da parte della donna che l’aveva subita, lascia di stucco. Va bene nella programmazione di una Rai distratta e dentro il loop del circo mediatico, ma almeno per favore nessuno lo spacci per impegno della tv pubblica a favore delle donne. È spettacolo, anche molto brutto. Per il 25 novembre pensate qualcosa di meglio. Anzi, visto che ci siete, pensate qualcosa di meglio sempre. Ps: A proposito di paladini disinteressati della libertà d’espressione, da sottolineare come il Fatto Quotidiano nel 2016 si schierò contro la messa in onda. In quella occasione era contrario anche il procuratore di Pesaro e a un Pm l’House organ delle procure non dice mai di no. Questa volta siccome a chiedere di non mettere in onda l’intervista è stato l’odiato Matteo Renzi, il Fatto Quotidiano si è schierato con Franca Leosini e ha urlato alla censura. Ineccepibile. Egitto. Trattamento inumano in carcere per il difensore dei diritti umani Abdel-Razak amnesty.it, 25 novembre 2020 Amnesty International si è dichiarata oltraggiata per il crudele e inumano trattamento volutamente inflitto in carcere a Gasser Abdel-Razak, direttore generale dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona (Eipr), arrestato il 20 novembre al Cairo. Gasser Abdel-Razak, uno dei più importanti difensori dei diritti umani in Egitto, è stato trasferito nella prigione di Tora e posto in isolamento, in una cella gelida, senza ricevere vestiti caldi né un materasso. Gli sono stati confiscati denaro e oggetti personali e gli è stato impedito di uscire dalla cella per fare esercizio fisico o per comprare qualche genere di prima necessità dallo spaccio interno. Inoltre, è stato completamente rasato, un atto inusuale nei confronti dei detenuti in attesa di giudizio che conferma l’atteggiamento persecutorio delle autorità egiziane nei suoi confronti. Il 23 novembre, Gasser Abdel-Razak è comparso di fronte a un magistrato della Procura suprema per la sicurezza dello stato per rispondere a un interrogatorio. “L’Eipr documenta e contrasta da 18 anni le violazioni dei diritti umani in Egitto e i suoi dirigenti ora ne stanno pagando un durissimo prezzo”, ha dichiarato Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e sull’Africa del Nord di Amnesty International. Lo stesso giorno, le autorità giudiziarie hanno aggiunto alla “lista dei terroristi”, con validità di cinque anni, il fondatore del Centro “Adalah” per i diritti e le libertà Mohamed al-Baqer, l’attivista e blogger Alaa Abdelfattah e alcuni esponenti politici di opposizione, senza incriminarli formalmente di alcun reato e senza dar loro la possibilità di contestare le presunte prove. Le autorità egiziane usano regolarmente infondate accuse di “terrorismo” per imprigionare difensori dei diritti umani e tenerli in carcere senza processo, rinnovando via via la detenzione preventiva: è ciò che succede da oltre nove mesi allo studente dell’università di Bologna ed ex collaboratore dell’Eipr Patrick Zaki, e che potrebbe succedere anche a Karim Ennarah e Mohamed Basheer, altri due dirigenti dell’Eipr arrestati tra il 15 e il 19 novembre come atto di rappresaglia per aver incontrato, insieme a Gasser Abdel-Razek, una delegazione di rappresentanti diplomatici di stati occidentali. Egitto. “Rasato e buttato in una cella gelida senza coperte né materasso” di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2020 Gasser Abdel Razek, direttore dell’organizzazione del Cairo che si occupa della tutela dei diritti umani con cui collaborava Patrick Zaki, è stato arrestato e portato in carcere. Rimasto 72 ore in isolamento, ha raccontato davanti al giudice il trattamento che ha subito. Come se fosse un pericoloso terrorista. “Mariam, saluta e abbraccia per me i ragazzi. Ti amo”. Il tempo di lanciarle un sorriso attraverso le sbarre del furgone, parcheggiato all’esterno dell’edificio che ospita la Procura del Cairo e il mezzo è sgommato via. Mariam è la moglie di Gasser Abdel Razek, direttore dell’Eipr, l’organizzazione del Cairo che si occupa della tutela dei diritti umani. Ieri mattina ha avuto appena il tempo di scorgerlo e ascoltare la frase urlata dal marito mentre il camion lo riportava nella prigione di Tora, sezione Leman. Una scena straziante. Gasser Abdel Razek ha trascorso gli ultimi tre giorni dentro una cella d’isolamento del terribile carcere alla periferia sud della capitale. Da quando le forze di sicurezza lo hanno prelevato da casa sua, venerdì scorso, di lui si erano praticamente perse le tracce. Ieri Abdel Razek, amico fraterno di Patrick Zaki, lo studente egiziano che frequentava il corso Erasmus all’università di Bologna, arrestato il 7 febbraio scorso al rientro nel suo Paese e rinchiuso proprio a Tora, è comparso davanti al giudice della Procura del Cairo per l’udienza di rito. Nei pochi secondi in cui ha potuto parlare col suo avvocato, Abdel Razek ha raccontato in pillole ciò che gli è accaduto nelle precedenti 72 ore. Appena arrivato in prigione gli hanno confiscato tutti i suoi oggetti personali, preso i soldi che aveva in tasca e poi gli hanno rasato i capelli. Buttato dentro una fredda cella, in totale isolamento, Abdel Razek ha passato le ultime tre notti sopra un letto fornito soltanto della struttura in ferro, senza un materasso e tanto meno una coperta o un cuscino. Le temperature in questo periodo dell’anno al Cairo possono scendere ben sotto i 10° e le celle di una prigione come quella di Tora aumentano ancora di più la percezione del freddo. Insomma, il direttore dell’Eipr ha subìto lo stesso trattamento che potrebbe essere riservato ad un pericoloso terrorista, un jihadista dell’Isis o un mercenario di Boko Haram. Ed in effetti tra le assurde accuse denunciate dalla sicurezza nazionale che l’ha portato via dalla sua casa nel quartiere di Maadi e ai suoi affetti familiari c’è anche quella di aver favorito attività terroristiche. Ieri mattina davanti al giudice della Procura del Cairo erano attesi anche gli altri due membri dell’Iniziativa egiziana per i diritti personali (Eipr) arrestati domenica e mercoledì scorsi e anch’essi inseriti nel caso giudiziario 855. Si tratta di Mohamed Bashir e Karim Ennarah, rispettivamente direttore amministrativo e responsabile del settore giustizia penale dell’organizzazione. Alla fine davanti al giudice per la conferma della detenzione c’è finito soltanto Abdel Razek che, come gli altri suoi colleghi, inizierà la lunga e snervante trafila dei rinnovi periodici. Con i vertici di Eipr fuori gioco e Patrick Zaki in cella da quasi dieci mesi, l’attivista e fondatore della Ong, Hossam Bahgat, ha ripreso in mano le redini: “Dall’alba di venerdì Gasser è stato tenuto in condizioni intollerabili. I responsabili di simili violazioni ne pagheranno il prezzo” ha commentato Bahgat. Ricordiamo che l’arresto dei tre dirigenti di Eipr è legato a stretto giro all’incontro avvenuto il 3 novembre scorso nella sede dell’organizzazione, Garden City, al Cairo. A quell’incontro erano presenti i massimi rappresentanti diplomatici di 13 Paesi, tra cui l’ambasciatore italiano Giampaolo Cantini. Il tema centrale dell’incontro era stato il rispetto dei diritti umani in Egitto. La settimana scorsa la Farnesina ha inviato una lettera, controfirmata dalle altre diplomazie, per chiedere conto della vicenda al governo egiziano. Sempre per rimanere in tema, ieri la Corte Penale del Cairo Sud ha deciso di includere il blogger e attivista Alaa Abdel Fattah, l’avvocato Mohamed al-Baker, il dottore Abdel Moneim Fotouh e altri nelle liste delle entità terroristiche per un periodo di cinque anni. Oltre a restare in carcere e tutto il resto, da oggi i loro beni saranno congelati e in futuro non potranno lasciare il paese. In Malawi la “casa a metà strada” fuori dal carcere di Davide Amato mondoemissione.it, 25 novembre 2020 Fondata nel 2006 la struttura di Balaka ha accompagnato centinaia di ex detenuti nel passaggio dal carcere alla società civile. E ora è ufficialmente un’alternativa alla prigione riconosciuta dallo Stato. Padre Gamba: “È difficile perdonare. Ma un passo alla volta il lupo e l’agnello hanno imparato a stare insieme”. “La scelta coraggiosa di un piccolo Paese dell’Africa” che ha integrato al proprio sistema carcerario un modello correzionale volto al recupero della persona e non alla sua punizione. In Malawi dal 16 novembre è ufficialmente una prigione di Stato anche la “Half Way Home” (“Casa a metà strada”) di Balaka. Fondata nel 2006, negli anni la struttura ha accompagnato centinaia di ex detenuti nel passaggio dal carcere alla società civile. “L’obiettivo è il recupero di chi nella vita si è perso e domanda una seconda possibilità per provare la sua conversione - racconta padre Piergiorgio Gamba, missionario monfortano a Balaka ed ispettore delle carceri del Malawi -. Il processo di reinserimento avviene attraverso l’insegnamento di un mestiere. Dal sarto al carpentiere fino al falegname. In questo modo diamo un futuro ed una possibilità a chi esce dal carcere. Al momento, infatti, circa il 30% degli ex detenuti è recidivo e ritorna in prigione. Lo ha detto anche il ministro degli interni, Richard Benda, quando ha visitato la struttura il 16 novembre. Ne ha apprezzato la missione. E ha consegnato agli ex prigionieri un certificato per il mestiere appreso e l’attrezzatura per avviare la propria attività”. Il ministro ha anche ufficializzato la “Half Way Home” all’interno del sistema carcerario del Malawi. “Non aggiungeremo mura, filo spinato o guardiole per i soldati - continua il missionario bergamasco, che a Balaka ha avviato anche una stamperia ed un giornale -. Ci saranno venti guardie, altrettanti istruttori, e un centinaio di carcerati che vivranno il loro ultimo anno di prigione prima di tornare ai rispettivi villaggi”. La battaglia per il reinserimento sociale dei detenuti è una costante dell’impegno di padre Piergiorgio, in Malawi dal ‘76. “Qui è difficile perdonare, perché il sistema giudiziario locale spesso si accontenta di condannare. Ci sono voluti anni, un passo alla volta, per ottenere questo risultato. Il primo era stato l’impegno a ridare il voto a chi è in carcere. Nessuno credeva fosse possibile e quando la richiesta è stata presentata in parlamento, la risposta è stata che un coccodrillo non cambia anche se al collo gli metti la cravatta. Eppure, i carcerati, eccetto i condannati a morte, oggi possono votare”. Poi si era ottenuta l’approvazione del Community Service, tramite cui “i condannati a meno di un anno avevano la possibilità di lavorare in progetti comunitari, come la pulizia di scuole e ospedali. Non è stato facile: ancora oggi molti magistrati preferiscono la prigione come mezzo di punizione”. Era stato poi avviato il programma scolastico, “che aveva trasformato i carcerati in studenti, con tanto di esami a fine anno. Insegnanti e alunni erano tutti prigionieri, a cui si evitavano i lavori forzati della condanna. La guardia carceraria, che insegnava i diritti umani a studenti non certamente innocenti, sembrava la visione di Isaia: il lupo e l’agnello, insieme. Successivi progetti hanno riguardato il Natale dei bambini che hanno i genitori in carcere e la ricostruzione, ad opera degli stessi detenuti, della prigione di Ntcheu, ora provvista di spazi e servizi igienici”.