Covid-19 nelle carceri, ora il ministero pubblica i dati: 1.778 positivi di Giulia Merlo Il Domani, 24 novembre 2020 Quasi 2mila contagi tra detenuti e agenti. Domani aveva evidenziato la mancanza di dati ufficiali: il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria forniva i dati al Garante dei detenuti e ai sindacati di polizia penitenziaria, che poi li pubblicavano senza cadenze stabilite. Ora, invece, il ministero pubblicherà un report settimanale. Il ministero della Giustizia ha reso noto che pubblicherà sul proprio sito il monitoraggio dei contagi da Covid all’interno delle carceri, reso noto a cadenza settimanale. Fino ad oggi i dati non venivano resi noti direttamente dal ministero, ma il Dap li inviava ai sindacati di polizia penitenziaria e al Garante dei detenuti, i quali poi sceglievano come e quando divulgarli. Il primo bollettino con i dati del 22 novembre, riporta che i detenuti positivi sono 809, di cui 766 asintomatici, 27 sintomatici curati in carcere e 16 ricoverati. Tra il personale i positivi sono 969. Il ministero della Giustizia ha reso noto che pubblicherà sul proprio sito il monitoraggio dei contagi da Covid all’interno delle carceri. Il monitoraggio, che sarà pubblicato con cadenza settimanale, riporta i dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria relativi alle positività riscontrate fra il personale e la popolazione detenuta, con distinzione per quest’ultima categoria fra asintomatici, sintomatici e ricoverati. Proprio questa mancanza di pubblicazione di dati ufficiali era stata evidenziata dal nostro giornale: dal 30 settembre al 16 novembre, infatti, il numero di positivi tra personale e detenuti è passato da 20 a oltre 1500. Tuttavia, fino ad oggi i dati non venivano resi noti direttamente dal Dap, ma il Dap li inviava ai sindacati di polizia penitenziaria e al Garante delle persone private della libertà personale, i quali poi sceglievano come e quando divulgarli. Da oggi, invece, sarà possibile ottenere i dati ufficiali direttamente da Ministero, con anche informazioni più dettagliate sui ricoverati e gli asintomatici. “Nel corso della c.d. “seconda ondata”, si deve registrare purtroppo il decesso di due detenuti risultati positivi al Covid. Un ulteriore decesso si è invece verificato nel corso della detenzione domiciliare cui era stato sottoposto il detenuto in ragione della sua positività al virus”, informa il ministero. Il bollettino di domenica riporta i seguenti dati: il totale di detenuti positivi è di 809, di cui 766 asintomatici, 27 sintomatici curati in carcere e 16 ricoverati. Tra il personale della penitenziaria i positivi sono 969, di cui 939 curati a domicilio, 20 degenti in caserma e 10 ricoverati. Attualmente, il totale di detenuti presenti nelle carceri è in lieve diminuzione: 53.723 detenuti. Ancora troppi, per i 47 mila posti nel 192 istituti. “Paura e insofferenza”, le voci dei detenuti dalla zona rossa di Manuela D’Alessandro agi.it, 24 novembre 2020 Contattati dall’Agi attraverso i loro legali, i reclusi nelle carceri lombarde raccontano delle difficoltà a vivere in un contesto, già difficile e sovraffollato, dove il contagio cresce a livelli sempre più preoccupanti. “Insofferenza” e “paura”. Così un detenuto a Bollate di 58 anni, contattato dall’Agi attraverso il legale che l’assiste, esprime il suo stato d’animo in un momento molto critico per le carceri lombarde dove, ultimo aggiornamento, si registrano 174 detenuti contagiati, accolti in gran parte nei Covid hub di San Vittore e Bollate, 11 ricoverati e 142 operatori in quarantena fiduciaria per positività o contatti con persone risultate positive. Il virus è entrato perfino nel carcere di sicurezza di Opera dove sono positive quattro persone al 41bis. “Gli agenti non controllano in modo adeguato” - “La differenza tra la prima e la seconda ondata - prosegue - è che ci si assembra al carrello del cibo al piano di appartenenza invece che al piano terra e così pure al ritiro della spesa. I segnali di insofferenza sono palpabili non solo da parte di noi detenuti ma anche da parte degli agenti che non riescono a controllare la situazione in modo adeguato. La direzione ha tentato di tenerci separati per piano durante le ore di aria con il solo risultato che ci hanno lasciati fuori a oltranza fino all’arrivo di una squadra di sorveglianza allertata dalle urla”. Il problema principale, per chi è un articolo 21, come lui, cioè può lavorare fuori dal carcere, è che venga mantenuta la distanza sociale per evitare un eventuale contagio che interromperebbe la possibilità di continuare a “camminare” nel migliore dei modi verso una libertà piena. Il Garante, bloccare gli ingressi e liberare i detenuti - “In Lombardia c’è poco da fare, più di quello che si fa non si può - riflette il garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto -. Il problema è che bisogna bloccare o ridurre notevolmente gli ingressi negli istituti di pena, una prassi peraltro da noi già iniziata con le Procure che valutano in modo appropriato la di sospensione degli ordini di esecuzione. Poi bisognerebbe applicare di più le misure alternative e si dovrebbe prevedere la liberazione anticipata speciale, come fu fatto con Torreggiani (con la sentenza sul caso di Torreggiani, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha stabilito il risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento, ndr). Si parla tanto di “ristori”, diamoli allora a chi ha avuto un surplus di sofferenza”. Non c’è contatto tra contagiati e no, assicura Maisto. Molto, spiega, dipende anche dalla gestione più o meno virtuosa del carcere. “San Vittore e Bollate stanno facendo il possibile. A Opera c’è un problema di comunicazione. L’associazione Antigonèha portato alla direzione l’istanza dei parenti che lamentavano di ricevere poche notizie sulle condizioni dei congiunti, la risposta è stata che i collegamenti li tengono i cappellani”. I reclusi a Opera, difficile avere i tamponi - Sulla situazione a Opera, l’avvocato Eliana Zecca segnala di avere ricevuto lettere dai detenuti che assiste in cui ci si lamenta di “perquisizioni operate attraverso modalità che aumentano sensibilmente il rischio di contagio perché vengono stipati all’interno della saletta adibita alle attività comuni”. Inoltre, “mi vengono segnalate le difficoltà di effettuare tamponi agli asintomatici o a chi ne faccia richiesta, disposto anche a pagarlo da privato, e che mancano medicinali come la Tachipirina”. Un detenuto di Opera che gode dei permessi fornisce invece un quadro positivo, anche se va tenuto conto che la sua è una prospettiva “privilegiata” poiché è stata costituita un’area isolata dal resto per chi può uscire. “Siamo molto più preoccupati di quello che accade fuori - afferma l’uomo, contattato dall’Agi tramite il suo legale. Noi permessanti siamo stati spostati in una sezione dedicata. Ci hanno fatto i tamponi e sono emerse due positività, di cui una rivelatasi poi ‘falsa’. Sono molto organizzati coi tamponi e abbiamo la possibilità di fare delle telefonate “straordinarie” alle famiglie per informarli dell’esito”. Un altro detenuto che può usufruire di permessi, a Bollate, riferisce il disagio di “essere stati chiusi dal 24 ottobre al primo novembre, senza alcun preavviso, con grossi disagi dal punto di vista psicologico e lavorativo ma, a differenza della prima ondata, ci hanno fatto il tampone e, in base alle nuove disposizioni del Dpcm, siamo potuti rientrare al lavoro e possiamo utilizzare i permessi, anche se sono stati annullati quelli di 12/24/36. Abbiamo dovuto firmare la rinuncia per questo tipo di permessi possiamo prendere solo quelli ‘lunghi’”. Durante la prima ondata, ricorda, “mi è venuta la febbre a 39 e sono stato messo in isolamento per 10 giorni senza poter contattare la mia famiglia e informarli sul mio stato di salute, Non mi hanno fatto il tampone e, senza sapere se fossi positivo oppure no al Covid, mi hanno portato in reparto mettendo a rischio l’incolumità dei miei compagni”. Si definisce “preoccupato perché dal primo lockdown non è mai avvenuta una sanificazione dell’istituto e spesso e volentieri molti operatori non rispettano le distanze di sicurezza minime raccomandate”. La circostanza della mancata sanificazione viene smentita da Maisto. “Di fatto i detenuti sono chiusi nei loro raggi” - “Di fatto i detenuti sono chiusi nei raggi, anche quelli che stavano in reparti “aperti”, come quello della “Nave” a San Vittore - riflette Antonella Calcaterra, avvocato molto sensibile ai problemi delle carceri che ha partecipato allo sciopero promosso dai radicali per portare l’attenzione sul momento delicato e chiedere l’amnistia. Possono camminare nel corridoio e partecipare all’ora d’aria, tutto qui. A Bollate alcuni reclusi hanno dovuto lasciare il settimo reparto dove stavano, trasformato in hub Covid, con una certa sofferenza perché si sono sentiti sradicati da celle che sentivano come la loro casa”. L’avvocato Valentina Alberta, che fa parte della Commissione Carceri della Camera Penale di Milano, solleva “il problema di chi non è né positivo, né isolato”. “Nel documento del Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria (Prap) si dice che la creazione delle sezioni di isolamento comporta l’accorpamento degli altri detenuti in una situazione di carceri giù sovraffollate. Questo, oltre a deteriorare le condizioni di vita, significa un ulteriore rischio di contagio perché, per far spazio agli isolati, si verifica lo schiacciamento degli altri. A parità di numeri fare spazio per positivi e isolati aumenta il pericolo. Si dice che ci sono tanti positivi ma sintomatici pochi, ma se il contagio continua a crescere le condizioni di vita per chi vive nei reparti ‘normali’ diventano terrificanti”. Emergenza coronavirus, carcere focolaio: a Tolmezzo 161 positivi su 200 di Roberta Caiano Il Riformista, 24 novembre 2020 Sia nella prima fase che in questa seconda ondata dell’epidemia da coronavirus tra gli ambienti che più ne hanno risentito del contagio al primo posto ci sono sicuramente le carceri italiane. In particolare, in questi ultimi giorni i dati che provengono dai Garanti dei detenuti delle regioni sono sempre più preoccupanti. Ad oggi le persone infette all’interno delle carceri sono oramai più di 2000, con un tasso di sovraffollamento che supera il 110%. A denunciare la situazione sempre più incontrollabile negli istituti penitenziari, oltre ai Garanti regionali dei detenuti, ci sono anche molte associazioni tra cui Antigone e Associazione Yairaiha Onlus le quali chiedono al Governo e al Ministero della Giustizia di intervenire per liberare le carceri quanto prima. In un documento stilato da Antigone, Cgil, Arci, Anpi e Gruppo Abele si possono leggere le proposte volte ad affrontare l’emergenza per la salute e la dignità dei detenuti con “misure effettivamente efficaci per prevenire la diffusione del virus. La prima è intervenire sulle presenze in carcere, riducendone significativamente i numeri”. Richieste già avanzate dall’inizio di questa pandemia ma che “non hanno trovato risposte da parte del Governo e del Ministero”, recita il testo. Secondo gli ultimi dati del contagio, a destare maggiore preoccupazione è il carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, ad Udine, dove su 203 tamponi effettuati, 161 persone detenute sono risultate positive: in una sezione solo sei sono risultati negativi e sono stati isolati. Oltre a 15 agenti di polizia penitenziaria e un impiegato. Il focolaio ormai esteso senza controllo, sembra essere partito da un agente positivo e nella sezione del 41bis si è diffuso attraverso l’uso delle docce comuni. A denunciare il dilagare dell’epidemia nella casa circondariale friulana è l’Associazione Yairaiha Onlus, che sulla propria pagina Facebook scrive: “Le mascherine inviate da una persona non sono state consegnate perché non idonee. Matematicamente la percentuale dei contagi tra i detenuti a Tolmezzo è pari all’80%. Per il ministro invece i positivi in tutta Italia sono solo 22”. Infatti anche i sindacati chiedono anche dispositivi di protezione individuali più efficaci. Al momento risulta che la maggior parte dei contagiati sono asintomatici e soltanto due persone sono state portate in ospedale dopo aver manifestato sintomi da contagio. La direzione dell’istituto penitenziario presieduta da Irene Iannucci è così alle prese con la riorganizzazione della struttura alla luce dell’estendersi del coronavirus. Chi è in quarantena non può usufruire delle ore d’aria ma per tutti i detenuti bisogna ridefinire la distribuzione dei pasti, le telefonate e gli ingressi nelle docce. La struttura era pronta ad ospitare un’area di isolamento con 20 posti letto, ma dati i numeri corposi non bastano. Per questo, si sta valutando anche l’ipotesi di spostare alcuni detenuti e sono stati chiesti rinforzi da Padova. Se la percentuale di infetti sul territorio nazionale è dell’1,27%, quella all’interno delle carceri ammonta a 2,17 %. Un dato che richiede attenzione e misure urgenti. Covid nel carcere di Tolmezzo, il retroscena del grande focolaio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 novembre 2020 Sono 116 su 203 i detenuti contagiati nel carcere di Tolmezzo, con altri 31 casi sospetti. Gli altri continuano a dividere cella e docce con gli ammalati. Inizialmente erano pochi i detenuti del carcere di Tolmezzo che presentavano sintomi come febbre, raffreddore, malessere generale. Ma nel pieno della seconda ondata solo dopo giorni sarebbero stati sottoposti a tamponi, poi risultati positivi al Covid. Ma oramai il danno è fatto: il focolaio è divampato fino a contagiare 116 detenuti (tra AS e 41bis, tra i quali un internato) su 203, ma con altri 31 casi sospetti. I restanti detenuti negativi continuerebbero a dividere la cella con altri soggetti positivi e pertanto vi è il rischio che anche questi si positivizzino a breve o si siano già contagiati. A ciò si aggiunge il fatto che anche l’uso delle docce è comune e quindi è inevitabile pensare che tutto ciò ha contribuito alla diffusione del Covid. Tutto qui? No. I detenuti di Tolmezzo non sono tutti asintomatici: la denuncia dell’avvocata Peresson - A differenza di quanto emerge dai dati messi a disposizione dal Dap, non sono tutti asintomatici (e che comunque non è riassicurante) i reclusi in AS e al 41bis del carcere di Tolmezzo visto che diversi avvocati hanno potuto constatare che i loro assistititi sono stati ricoverati con polmoniti bilaterali da Covid. E la terapia? Anche in quel caso l’area sanitaria avrebbe applicato un singolare protocollo con la somministrazione - senza alcuna distinzione tra detenuti - di farmaci come l’antibiotico e l’eparina. Dopo 4-5 giorni l’hanno sospesa. Tutto questo, e non solo, si apprende dalla pec urgente che l’avvocata Sara Peresson ha inviato al ministero della Giustizia, della Salute, al Dap e al Garante nazionale delle persone private della libertà. La legale ha scritto in qualità di difensore di fiducia di plurimi ristretti in AS e in regime di 41bis della casa circondariale di Tolmezzo. “La mancanza di protocolli, del rispetto delle regole minime di base, il sovraffollamento (più volte denunciato dalla scrivente e dai propri assistiti) nonché l’impreparazione, hanno necessariamente comportato l’effetto di cui oggi siamo testimoni”, questo è l’atto di accusa che si legge nella missiva indirizzata alle autorità competenti. Tamponi effettuati in ritardo - Ma la questione che Peresson definisce “scandalosa” riguarda la gestione medica all’interno della struttura di Tolmezzo. Il riferimento è al ritardo nell’effettuare i tamponi nei confronti dei detenuti che presentavano sintomi quali febbre, tosse, raffreddore, mal di testa, sensazione di ossa rotte. Avrebbero dovuto fargli immediatamente un semplice tampone molecolare, ponendoli magari preventivamente in isolamento. “Ciò è avvenuto solo a distanza di giorni e giorni: tempo di perseverare nel contagio!”, denuncia l’avvocata Peresson. Il primo tampone ai 41bis viene effettuato il 13 novembre e solo a uno dei reclusi che manifestavano sintomi. “Sono gli altri ospiti della struttura che si impuntano e insistono per potersi sottoporre alla medesima prova consapevoli che tutti manifestavano già i medesimi sintomi dal sabato/domenica precedente e ai quali i medici avevano detto per tutta la settimana di non preoccuparsi perché si trattava della solita influenza di stagione”, scrive sempre l’avvocata, aggiungendo che “tale comportamento non ha solo messo a repentaglio i detenuti, ma anche il personale e gli operatori penitenziari, gli insegnati, gli avvocati e tutti gli utenti che per ragioni di lavoro accedono al carcere nonché tutte le famiglie di queste persone che ignare del pericolo tornavano a casa dai proprio cari”. I rischi di contagio anche per gli avvocati difensori - La Peresson stessa ha rischiato a sua volta di contagiare altri soggetti in quanto ha trascorso tre giorni (da martedì 10 a giovedì 12 novembre) tra udienze, interrogatori e colloqui con 5 detenuti positivi che presentavano tutti i sintomi quando li ha incontrati e ai quali ha esplicitamente chiesto, anche a sua tutela, se erano sicuri che fosse una semplice influenza. Loro le hanno rassicurato che così gli era stato detto dall’Area Sanitaria. “Oggi - denuncia Peresson - ci troviamo dei detenuti che sono stati addirittura ricoverati con polmoniti bilaterali da Covid-19 trascurate (alla faccia degli asintomatici!) che dimostra come la situazione da parte dell’area medica sia stata minimizzata e gestita in modo scandaloso”. L’avvocata sottolinea il fatto che “questa è la stessa area medica che oggi sostiene che tutti i detenuti contagiati sono asintomatici”. A ciò si aggiungerebbe la somministrazione dell’eparina, antibiotico e cortisone fatta a tutti i detenuti, senza previa valutazione fatta caso per caso, e poi interrotta dopo quattro giorni. “Ad oggi, di fatto, nessuno viene sottoposto a terapia farmacologica - si legge sempre nella missiva - e non si comprende se per mancanza di medicinali o per errore nel protocollo usato”. Per l’avvocata Peresson questo dimostrerebbe l’ennesima impreparazione dei soggetti preposti ad affrontare tale emergenza. “Il primo ed il più grave ricovero di un mio assistito dovuto a Covid - denuncia l’avvocata - è stata frutto della richiesta di assistenza e aiuto effettuata dall’intera Sezione”. I detenuti stessi hanno dovuto adoperarsi con urla e battitura imperterrita. “Solo così finalmente i medici sono accorsi e il paziente è stato portato in ospedale, non per semplice controllo ma per ricovero immediato in struttura per polmonite bilaterale da Covid trascurata”, sottolinea Peresson. Sul sito del ministero disponibili i dati dei positivi nelle carceri - Di fatto, il carcere di Tolmezzo si è trasformato in un vero e proprio ospedale Covid e dovrebbe essere gestito come tale. Ma è chiaro che l’assistenza sanitaria, nelle carceri, è di difficile attuazione. “Vi sono soggetti anziani che necessitano, al fine di non ritrovarsi costretti al ricovero, di terapia specifica che non viene somministrata e non può essere nemmeno mandata dai familiari e tantomeno può essere autorizzato un medico esterno di fiducia ad accedere in tempi rapidi e in sicurezza”, mette drammaticamente in luce la Peresson. Intanto da ieri sono disponibili sul sito del ministero della Giustizia i dati del contagio, dai quali si evince che i detenuti positivi sono 809, divisi tra asintomatici (766), sintomatici (e ricoverati (16). La stessa distinzione non si fa sia per gli agenti (939), sia per il personale amministrativo (73). Più fondi e attenzione alle carceri modello di Giulia Sorrentino Libero, 24 novembre 2020 Il caso di Busto Arsizio, struttura che recupera i detenuti ma non può essere lasciata sola. Leggendo del carcere di Busto Arsizio mi sono chiesta che cosa si potesse provare nella totale reclusione. Ho provato ad immedesimarmi in chi sa di non poter valicare un muro, un recinto, fare un passo fuori da un perimetro già scritto. Ma oltre ciò spesso i detenuti non vengono trattati come la Costituzione richiede e cioè come persone la cui dignità ed il cui diritto alla salute devono essere rispettati nonostante la condizione di privazione della libertà. Ma in questo istituto, diretto da Orazio Sorrentini e dal comandante della polizia penitenziaria Rossella Panaro, ritengo che la filosofia sia quella giusta, poiché pare che mostrino umanità e soprattutto vicinanza a quelle che sono le tematiche sociali del carcere. E ciò perché la pena dovrebbe essere vista in chiave formativa, proprio lo spirito con cui lo vivono in questo istituto, per far sì che la pena non sia vendetta ma strumento per agevolare il rientro nella società civile. Lo scoppio della pandemia ha aggravato le loro già precarie condizioni di vita. Ed infatti sono state vietate le visite da parte di esterni ma si è ovviato con un metodo rivoluzionario se si pensa che stiamo parlando di detenuti: quello delle videochiamate WhatsApp. E per ciò sono stati mandati 12 telefoni, di cui due non funzionanti ed uno adibito alle comunicazioni con gli avvocati. Quindi, 9 disponibili per 369 persone, per una durata di un’ora di videochiama ciascuno, che ne ha a disposizione 6 al mese. Numeri irrisori e davanti alla richiesta di implementare il servizio con Skype la risposta è stata quella di chiedere tablet in donazione. Inoltre il carcere ha trovato fortissima resistenza da parte dell’ATS Insubria e dell’AST Valle Olona, poiché nonostante il medico responsabile a livello regionale della sanità penitenziaria abbia detto di fare i tamponi alla polizia penitenziaria ciò non è avvenuto, se non per coloro i quali sono entrati in contatto diretto con i detenuti che hanno contratto il virus. Ad oggi la situazione è questa ma sembra che grazie all’intervento del Sindaco Emanuele Antonelli saranno effettuati i tamponi a tutto il corpo di polizia penitenziaria. C’è un lavoro straordinario dietro a un carcere. Quello di Busto Arsizio ha subìto le ristrutturazioni a partire dal 2015, lavori che hanno consentito di costruire una palestra, una sala di fisioterapia, una stanza per la lavorazione del legno, di artigianato, uno spazio all’aperto con i tendoni bianchi per gli incontri con la famiglia, il cambiamento dei bagni, nonché una doccia in cella, con l’eliminazione dunque delle docce comuni. Il problema però è che nonostante gli sforzi, mancano dei tasselli, che non dipendono però da loro. La gran parte delle nostre carceri ha bisogno di interventi strutturali profondi ma in particolare il carcere di Busto ha urgente necessità di aiuto e sostegno essendo fortemente colpito dal virus nonché sovraffollato, con una capienza di 240 detenuti contro i 369 di oggi (numero diminuito di 70 detenuti causa Covid). E riguardo questi numeri ciò che mi ha ancora più colpito è il numero di stranieri che vi sono all’interno, ovvero 208, circa il 57%, la maggior parte con capo d’imputazione della droga. Tutto ciò merita ascolto ed attenzione da parte dei vertici del Dap e del Provveditorato Regionale della Lombardia. Serve lavoro, servono condizioni di vita migliori, servono sforzi perché alla pena, che giustamente scontano non si aggiungano altre sofferenze legate alla privazione di contatti con il loro affetti più cari. C’è bisogno di fondi per mantenere i posti di lavoro dei detenuti, per la manutenzione della struttura e l’implementazione all’interno della stessa di ulteriori spazi necessari agli addetti ai lavori. 41bis. Il carcere duro va mantenuto. Anche per rispetto di noi vittime di Emanuela Piantadosi* Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2020 Ho seguito con attenzione gli ultimi scambi sulle pagine del Fatto riguardanti il regime detentivo previsto dal 41bis. Nei medesimi spazi viene auspicata la nascita di un dibattito tra “addetti ai lavori”. Quale presidente dell’Associazione di volontariato Vittime del Dovere-costituita da circa cinquecento famiglie di appartenenti alle Forze dell’ordine, Forze armate e Magistratura, caduti o rimasti invalidi perché colpiti da criminalità comune, organizzata o terrorismo - ho ritenuto importante farle pervenire un nostro contributo. L’osservazione che spesso ci viene mossa è quella di avere una “visione univoca e di parte”, tanto che in alcuni articoli noi vittime siamo state definite in modo spregiativo “erinni vendicatrici”. Tuttavia, ciò che peroriamo nelle sedi istituzionali, stante l’assoluta carenza di attenzione da parte dei mass media, è quello di poter aver una voce: in questi ultimi anni, infatti, abbiamo chiesto sia al ministero dell’Interno sia a quello della Giustizia la necessità di istituire un tavolo di lavoro per le vittime, ma finora i nostri appelli sono stati inascoltati. È sconfortante prendere atto che la posizione delle vittime è percepita come ingombrante: in questo clima di assoluto disinteresse, ho pensato di fare un tentativo con voi. La nostra associazione presta particolare attenzione a questa sorta di azione erosiva, compiuta a piccoli passi, che sta interessando il “carcere duro”: tutto ciò ci ha condotti più volte a intervenire, anche sul nostro sito. Partendo dalle iniziali obiezioni (nel 2016) all’utilizzo di Skype al 41bis, definito da noi provocatoriamente “tele-working”, siamo passati a intervenire presso le commissioni Giustizia di Camera e Senato, per proseguire con proposte, relazioni, interrogazioni parlamentari e anticipazioni su probabili criticità. Oggi, in piena pandemia, quanto da noi sostenuto 4anni fa su Skype appare pura preveggenza: infatti tale mezzo è stato usato nella prima ondata del Covid per placare le rivolte nelle carceri, insieme ai provvedimenti del decreto Cura Italia che hanno consentito un’emorragia penitenziaria senza precedenti, una vera e propria catastrofe penitenziaria. Ciò che più spaventa è che le rivolte oggi tornano con rinnovato vigore, a seguito della seconda ondata di contagi. Questi fermenti sono evidentemente strumentali alle richieste, purtroppo moltiplicatesi negli ultimi giorni, di concessione di amnistia o indulto che andrebbero ignobilmente a vanificare il concetto di certezza della pena. *Presidente Associazione vittime del dovere Coronavirus e carceri, l’insostenibile situazione degli operatori precari di Comitato Infermieri Precari Il Manifesto, 24 novembre 2020 Siamo addolorati e vicini alla famiglia di Raffaele De Iasio, dirigente sanitario di Secondigliano, deceduto a seguito del Covid. Come Comitato Precari della Sanità Penitenziaria denunciamo da tempo i pericoli, i rischi e l’assurda condizione lavorativa di chi opera nelle carceri campani”. Lo sostengono in una nota gli operatori precari della sanità penitenziaria che dal 2008 lavorano alle dipendenze dell’Asl Napoli 1 con partita Iva e svolgono compiti delicatissimi e in condizioni problematiche. “Non abbiamo alcun tipo di tutela - denunciano - è la situazione è divenuta insostenibile con la pandemia al punto che motti operatori in baso di quarantena volontaria restano senza indennità perché nulla gli è riconosciuto”. “Siamo ostaggi in un limbo e condannati alla precarietà a vita nonostante la Legge Madia (ai sensi dell’art. 20 del D.lgs 75/2017 e succ. mod.) abbia concesso alla pubblica amministrazione di procede alla stabilizzazione del personale precario - sottolineano - c’è una graduatoria di idonei e non si comprende perché la Regione Campania non proceda allo svolgimento del concorso interno”. Il Comitato raccoglie le lavoratrici e i lavoratori per lo più infermieri professionisti iper-specializzati che da anni prestano il proprio lavoro nel carcere di Poggioreale, Secondigliano, quello minorile di Nisida e in tutti gli Istituti Penitenziari della Campania. “Da precari della sanità, in questi mesi difficilissimi, abbiamo onorato la nostra professione - spiegano - con grandi sacrifici abbiamo contribuito a innalzare i livelli essenziali di assistenza fronteggiando il Covid-19 nelle carceri napoletane e fornendo assistenza h24”. “L’ appello di noi operatori sanitari precari è rivolto al presidente e commissario alla sanità Vincenzo De Luca e al direttore generale dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva - concludono - affinché ci possa essere al più presto l’immissione in ruolo con una adeguata valorizzazione delle esperienze, delle competenze e delle professionalità acquisite in questi anni”. “Era meglio quando c’era Palamara”, il sospiro nell’Anm ridotta alla paralisi di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 24 novembre 2020 Elezione del presidente rinviata. “Ma non si torna alle urne”. “Non credo sia facile indire nuove elezioni”, dichiara Andrea Reale, giudice a Ragusa e fra i promotori di “Articolo Centouno”, il gruppo nato all’indomani dell’affaire Palamara in contrapposizione alla deriva delle correnti al Csm. Il magistrato, eletto col più alto numero di preferenze, nella sua lista, al comitato direttivo centrale dell’associazione, commenta col Dubbio l’ennesima fumata nera per la scelta della nuova giunta e del presidente. Lo stallo si trascina ormai da settimane. La riunione del Cdc (il cosiddetto “parlamentino”) tenutasi lo scorso fine settimana, si è conclusa con un nulla di fatto. Il cartello progressista Area e le toghe centriste di Unicost non hanno, infatti, i numeri per dar vita a una giunta di maggioranza. Fondamentale sarebbe l’appoggio dei quattro rappresentanti eletti da Autonomia & Indipendenza, il gruppo di Piercamillo Davigo, i quali però hanno già manifestato al riguardo la loro contrarietà. L’unica soluzione, proposta sempre da Area, sarebbe allora quella di una giunta unitaria, fra tutte le correnti, guidata dal pm milanese e presidente uscente Luca Poniz, magistrato del gruppo progressista risultato di gran lunga il più votato fra tutti i candidati al direttivo. Un mandato secco di quattro anni, senza rotazione come in passato. Magistratura indipendente, il gruppo moderato, vede però questa opzione come il fumo negli occhi. La parola d’ordine dalle parti di “Mi” è “discontinuità”, e quindi indisponibilità assoluta a una nuova investitura per Poniz. E i “Centouno”? In cambio della loro partecipazione a una giunta unitaria hanno chiesto che fra i punti programmatici di mandato vi sia la rotazione dei dirigenti negli uffici giudiziari e il sorteggio dei togati del Csm. Due proposte irricevibili da parte del gruppo progressista. Considerato l’impasse, lo scioglimento e le nuove elezioni sarebbero nell’ordine delle cose. Ma, come affermato da Reale, si tratta di una strada difficilmente percorribile. Fra i motivi di contrarietà a una giunta unitaria, per molte toghe di “Mi” ci sarebbe poi il fatto che all’esterno un’operazione simile verrebbe letta come un déjà-vu, risulterebbe quindi difficilmente comprensibile. Nella memoria dei magistrati di Magistratura indipendente è ancora fresco il ricordo degli attacchi ricevuti dopo lo scoppio dell’affaire Palamara. In via riservata, alcuni membri del “parlamentino” hanno affermato, con ironia ma fino a un certo punto, di avere nostalgia per i tempi in cui l’Anm era monopolizzata da Palamara. L’ex presidente dell’Anm, espulso dalla magistratura il mese scorso, è stato - dato ormai acclarato dalla lettura delle chat - per anni il punto di “equilibrio” dell’associazionismo giudiziario. Il suo ufficio al Csm era come una stanza di compensazione in cui, cercando di non scontentare nessuno, aveva creato una sorta di manuale Cencelli togato per la distribuzione degli incarichi. Dalle nomine “a pacchetto” in Cassazione a quelle in contemporanea nei distretti di Corte d’appello per evitare sorprese. La dote principale di Palamara era quella di accordarsi, a seconda del momento, con la sinistra giudiziaria di Area o con la “destra” di “Mi”. Anche sul fronte politico, l’equilibrismo era ai massimi livelli. Attaccando il centrodestra berlusconiano, celebre la sua dichiarazione contro il Cav il cui unico obiettivo di governo sarebbe stato quello “di screditare i magistrati agli occhi dell’opinione pubblica per giustificare interventi legislativi che favoriscono solo l’illegalità”, ma poi cercando un accordo con i laici forzisti per nominare David Ermini (Pd) alla presidenza del Csm, in una sorta di Nazareno togato. Saltato Palamara il sistema è ingovernabile. A ciò devono aggiungersi i conti aperti. Se il sistema Palamara ha funzionato per anni - la lettura delle chat è ampiamente esaustiva in proposito - la decisione del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi di “assolvere” la maggior parte dei magistrati che con Palamara si interfacciavano per avere una nomina, ha suscitato più di un maldipancia. “Ritengo che il potere di cestinazione senza controllo vada al più presto abolito e che, nel caso in esame, per la gravità dei fatti emersi dalle chat e per il discredito prodotto alla magistratura, la Procura generale presso la Cassazione dovrebbe usare la ‘ cortesia’ di rendere conoscibili i motivi per i quali condotte che sembrano di analoga gravità siano rimaste senza capi di accusa e senza accusati”, aveva affermato la scorsa settimana sempre Reale. Cosa succederà adesso? Difficile dirlo. Il prossimo incontro è in calendario il 5 dicembre. Laconico il commento finale di Reale: “È una situazione incresciosa”. L’Associazione Regeni cambia nome: nasce “Verità e giustizia: il Tigullio per i diritti” di Eloisa Moretti Clementi Il Secolo XIX, 24 novembre 2020 Chiavari - Un impegno civile lungo cinque anni, mosso dall’impatto della tragica uccisione di Giulio Regeni in Egitto e proseguito poi nel tempo, attraverso decine di iniziative di sensibilizzazione, dalle scuole alle piazze, per promuovere i diritti umani e denunciarne le violazioni nel mondo, partendo dal piccolo Tigullio. Nato come comitato nel marzo 2016 e poi evolutosi in associazione, “Verità per Giulio Regeni: il Tigullio non dimentica” ha deciso di cambiare il proprio nome in “Verità e giustizia: il Tigullio per i diritti”. Una modifica formale e sostanziale, che tuttavia non intacca la natura e gli scopi del gruppo fondato, tra gli altri, da Donatella Nicolini, Sergio Ghio, Marco Branchetti, Barbara Possagnolo, Andrea Sanguineti, Bianca Branchetti: “Riteniamo opportuno rendere ancor più riconoscibile l’impegno a 360 gradi sui diritti umani e civili che intendiamo portare avanti anche in futuro - spiega la scelta il presidente dell’associazione nonché socio fondatore Andrea Lavarello - Pur nella fedele adesione ai principi costitutivi, in questi cinque anni il nostro raggio d’azione si è di molto ampliato, riverberando il nostro impegno anche in altre vicende attinenti i diritti umani e in iniziative di solidarietà”. Da qui, dunque, la scelta di una denominazione più ampia che non include più il nome di Giulio Regeni, la cui delicatissima vicenda giudiziaria è tuttora aperta e, forse, finalmente vicina a una svolta importante: da un lato per rispettare le sensibilità espresse in più occasioni dalla famiglia di Giulio, e dall’altro per poter garantire all’associazione piena autonomia e libertà d’azione. “Riteniamo giusto testimoniare attenzione e rispetto per Paola e Claudio Regeni giustamente preoccupati di tutelare la propria azione, finalizzata all’infaticabile ricerca di verità e giustizia, da ogni possibile rischio di differenziazione - chiarisce Lavarello, che tuttavia ribadisce con forza l’impegno a tenere viva la memoria di questa tragedia, anche attraverso la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e soprattutto dei giovani - Crediamo che il nome che abbiamo scelto, pur nella fedeltà ai nostri valori fondativi, possa meglio interpretare la variegata gamma di sensibilità diverse e di impegno multiforme che intendiamo assecondare”. Esattamente un anno fa, l’associazione del Tigullio aveva coinvolto le scuole del territorio in una programmazione incentrata anche sui temi dell’ambiente, attraverso un ricco calendario di conferenze ma anche spettacoli teatrali, con esperti e professionisti. Un impegno che nel 2020 è stato in parte frenato dalla pandemia, ma che non si è mai arrestato. L’assemblea degli iscritti, che si è riunita alcuni giorni fa in streaming, ha approvato all’unanimità il nuovo passaggio. “Verità e giustizia: il Tigullio per i diritti” sarà quindi in campo, fin da subito, per continuare a dare voce a chi non ha diritti e per assicurare, insieme alle altre realtà associative del territorio, la crescita di una nuova consapevolezza attorno ai temi della solidarietà e della partecipazione alla vita democratica della comunità. Napoli. Contagiato dal Covid in carcere, muore al Cardarelli di Dario Sautto Il Mattino, 24 novembre 2020 Cinque giorni fa aveva chiesto i domiciliari. A settembre scorso ha contratto il Covid-19 nel carcere di Secondigliano, è stato ricoverato al Cardarelli e sottoposto a tutte le cure. Poi, dopo la guarigione dal virus, da qualche giorno il detenuto era nel reparto ordinario del padiglione Palermo della stessa struttura ospedaliera, dove ieri mattina è morto probabilmente per le conseguenze del contagio. È stata sequestrata la salma e aperta un’inchiesta sulla morte del detenuto 70enne Mario Riccio, originario di Roccabernarda (Crotone) e condannato in primo grado a dodici anni per ‘Ndrangheta lo scorso giugno, in uno dei maxi processi sulle ‘ndrine crotonesi infiltrate proprio in quel Comune. Il suo, però, è un caso particolare perché l’ultima istanza di scarcerazione per motivi di salute era stata discussa lo scorso 19 novembre e ma la decisione è ancora riservata. A pesare sulla decisione sono stati più i reati contestati che le reali condizioni di salute del detenuto. “Avevo chiesto che potesse avere il diritto di morire a casa, agli arresti domiciliari. Invece, è morto da solo nel reparto ordinario del Cardarelli riservato ai detenuti”. Si dice “amareggiato” l’avvocato Francesco Schettino, che appena cinque giorni fa aveva discusso in Calabria l’ennesima richiesta di sostituzione della misura cautelare per il suo assistito. Un appello al Riesame, fissato quasi tre mesi dopo la sua istanza presso la seconda sezione penale del tribunale di Catanzaro. Da due anni in carcere, già il precedente difensore di Riccio aveva presentato alcune istanze di scarcerazione, tutte rigettate. L’ultimo capitolo di questa triste vicenda comincia a giugno scorso, subito dopo la prima emergenza coronavirus, quando il difensore di Riccio presenta la nuova richiesta di scarcerazione in concomitanza con la sentenza di primo grado. Ad agosto, il perito di parte - il dottor Nicola Longobardi - riscontra che le condizioni di salute del detenuto “non sono compatibili con il regime carcerario”. Il 27 agosto, però, i giudici rispondono che, dopo aver analizzato tutta la documentazione, Riccio poteva restare in quel carcere che “può prestare tutta l’assistenza sanitaria richiesta”, nonostante il detenuto fosse già 70enne, costretto sulla sedia a rotelle e affetto da diverse patologie. A settembre, l’avvocato Schettino propone appello al Riesame di Catanzaro, mentre il suo assistito contrae il Sars-Cov-2 proprio nel penitenziario di Secondigliano. A metà ottobre è avvenuto il ricovero nel reparto Covid del Cardarelli riservato ai detenuti e ieri prima delle 13 è arrivata la comunicazione del decesso del paziente. “Si tratta del secondo detenuto morto in Campania per Covid - commenta il Garante per i detenuti, Samuele Ciambriello - e le cifre del contagio nelle carceri sono allarmanti. I detenuti vivono una forte paura per quella che è una doppia reclusione con il rischio del contagio: 752 contagi (192 in Campania), 804 tra agenti della penitenziaria, amministrativi e operatori socio sanitari. Per limitare il Covid, vanno limitati i nuovi accessi di arrestati”. Sulle scarcerazioni previste dal Decreto ristori, Ciambriello ritiene che si tratti di “una clausola fortemente discriminatoria. Alla fine, non esce nessun detenuto, nonostante siano tanti quelli che necessitano di cure mediche. Chiedo alla magistratura di sorveglianza - chiude con un appello - di avere più coraggio a scegliere misure alternative al carcere e di intervenire adesso. Ci sono 64 posti disponibili in cooperativi e associazioni per detenuti anche senza fissa dimora, si possono scarcerare i detenuti a rischio”. Napoli. Manifestazione davanti a Poggioreale: “Chiudere il portone e aprire la porta” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 novembre 2020 Organizzata per domani alle 11,30 da “Carcere Possibile Onlus”. Il direttivo del Carcere Possibile Onlus, insieme a tutte le realtà che gravitano intorno agli istituti di pena che vorranno aderire, proclama una giornata di protesta domani 25 novembre dalle ore 11: 30 all’esterno del Carcere di Poggioreale e del Tribunale di Napoli a piazza Cenni, per chiedere simbolicamente ‘ ai capi degli uffici indicati di chiudere il Portone d’ingresso degli istituti penitenziari partenopei ed aprire la porta d’uscita’. Il motivo? L’espandersi della pandemia da Covid 19 nelle carceri e l’inefficacia delle misure governative adottate fino a questo momento, nonostante diversi appelli a fare meglio e fare subito da parte del Partito Radicale, dei Cappellani, delle famiglie dei reclusi: “La porta di ingresso al carcere - scrivono in una nota - è ancora troppo grande rispetto alla piccola porta “socchiusa” che dovrebbe consentire di contro la liberazione di un numero di detenuti sufficiente affinché si ripristinino i requisiti minimi di sicurezza all’interno degli istituti”. La situazione dei contagi negli istituti di pena campani l’ha resa nota il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello: 188 detenuti positivi in Campania di cui 105 a Poggioreale e 69 a Secondigliano. Sono invece 223 i contagiati tra la polizia penitenziaria, il personale sanitario e amministrativo. “Si registra una situazione catastrofica, dicono i penalisti napoletani. Se da un lato a causa del sovraffollamento “non esistono spazi ove poter isolare i detenuti risultati positivi al contagio”, dall’altro lato “vi è ancora l’emissione (seppur ridimensionata) di ordini di carcerazione e l’applicazione di misure cautelari intramurarie che incidono sull’aumento della popolazione detenuta”. Per questo i membri dell’associazione napoletana fanno delle precise richieste: bloccare l’emissione di nuovi ordini di carcerazione; limitare ai soli casi più gravi la custodia intramuraria; trattare da parte del Tribunale di Sorveglianza il maggior numero possibile di procedure relative a detenuti intramurari ai quali concedere una misura alternativa che consenta una rapida uscita dal carcere. Napoli. “Il Carcere possibile Onlus” lancia 3 proposte per alleggerire il sovraffollamento giustizianews24.it, 24 novembre 2020 Rita Bernardini e gli esponenti del Partito Radicale sono in sciopero della fame. I Garanti di detenuti rilanciano appelli alle istituzioni competenti un giorno sì e l’altro pure. L’ultimo, in ordine di tempo, è di Samuele Ciambriello, Garante campano dei detenuti che si è rivolto direttamente ad Alfonso Bonafede: “Mi dispiace che il ministro della giustizia Bonafede minimizzi quello che sta accadendo nelle carceri, utilizzando parametri e percentuali che secondo lui non segnalano lo stato di allarme pandemico: secondo me servirebbe una tonalità di colore più violenta del rosso per le carceri”. Il Covid-19 dilaga nelle carceri italiane. Lo si evince anche dagli ultimi dati offerti dall’Amministrazione penitenziaria. E la Campania è la regione che per numero di contagiati tra detenuti e agenti della Penitenziaria è messa peggio. Un quadro allarmante che ha spinto l’associazione “Il Carcere possibile”, formata da penalisti napoletani, a mettere in campo una giornata di protesta per mercoledì 25 novembre che si terrà all’esterno del carcere di Poggioreale e del Tribunale di Napoli (ingresso piazza Cenni). “Vogliamo chiedere di chiudere il Portone di ingresso degli istituti penitenziari partenopei ed aprire la porta d’uscita” perché “la porta di ingresso al carcere è ancora troppo grande rispetto alla piccola porta “socchiusa” che dovrebbe consentire, di contro, la liberazione di un numero di detenuti sufficiente affinché si ripristinino i requisiti minimi di sicurezza all’interno degli istituti”, si sottolinea in un comunicato dell’associazione guidata dall’avvocato Anna Maria Ziccardi. “Le Autorità Giudiziarie - rileva il Carcere possibile - non stanno mettendo in campo tutti gli strumenti che già hanno a disposizione per sfoltire la popolazione carceraria in modo da rendere la detenzione compatibile con le istanze di tutela della salute di chi è ristretto negli istituti di pena”. Peggio ancora, il ministero della Giustizia prova a svicolare: “Il Ministro Bonafede ha sostenuto che all’interno degli istituti i positivi sono per lo più asintomatici e che, pertanto, non vi sarebbe pericolo. Sul punto, va evidenziato che anche all’esterno del carcere la maggior parte dei contagiati sono asintomatici, eppure non sembra che il Governo abbia dichiarato la fine dell’emergenza epidemiologica”, rilevano gli avvocati. Per “Il Carcere possibile” l’unica soluzione, al momento praticabile per alleggerire il sovraffollamento che “impedisce o limita drasticamente ogni tentativo di porre un argine al dilagare della pandemia”, è ricorrere agli “strumenti dell’amnistia e dell’indulto”. Quanto, invece, a Napoli dove “si registra una situazione catastrofica”, gli avvocati chiedono provvedimenti specifici partendo dalla premessa che qui “vi è ancora l’emissione (seppur ridimensionata) di ordini di carcerazione e l’applicazione di misure cautelari intramurarie che incidono sull’aumento della popolazione detenuta a fronte di una scarsa attività della Magistratura di Sorveglianza Partenopea che, specialmente in questo drammatico momento, avrebbe dovuto ancor più concedere ai detenuti, che ne hanno diritto, sia le misure alternative alla detenzione predisposte dal Governo per il periodo emergenziale sia i benefici penitenziari “ordinari” previsti dall’Ordinamento Penitenziario”. Le richieste sono poche e semplici: “bloccare l’emissione di nuovi ordini di carcerazione; ricorrere alla misura cautelare della custodia intramuraria sia limitata ai casi più gravi; far sì che il Tribunale di Sorveglianza si attivi affinché si trattino il maggior numero possibile di procedure relative a detenuti intramurari ai quali concedere una misura alternativa che consenta una rapida uscita dal carcere”. “Sappiamo che l’art. 30 del c.d. Decreto Ristori non ha prodotto alcun risultato, perlomeno nelle carceri napoletane. Nel carcere di Poggioreale, infatti, non si registra alcuna uscita legata all’applicazione di questa norma e dal carcere di Secondigliano un solo detenuto pare ne abbia beneficiato, ma soltanto formalmente, giacché è ancora in attesa del prezioso braccialetto elettronico”, concludono gli avvocati. Genova. Covid in carcere, detenuti in sciopero della fame per indulto e amnistia primocanale.it, 24 novembre 2020 L’iniziativa nonviolenta della parlamentare Bernardini, a digiuno da 13 giorni. Ci sono anche i detenuti del Carcere di Marassi di Genova tra coloro che hanno aderito al digiuno per sostenere l’iniziativa nonviolenta di Rita Bernardini, parlamentare radicale che da 13 giorni sta facendo lo sciopero della fame. Il motivo di questa protesta è legato alla situazione Covid nelle carceri italiane: i numeri noti del contagio sono di 827 detenuti e 1020 tra agenti e personale divisi tra 82 istituti (con diversi ricoveri in ospedale ed alcuni decessi), ma sono ampiamente sottostimati in quanto il Dap non li comunica regolarmente e il numero dei tamponi e dei test eseguiti è molto basso. Questa situazione è stata riscontrata anche nelle carceri liguri dove spesso gli agenti di polizia penitenziaria hanno lamentato poche precauzioni: in diverse segnalazioni emerge che ci siano casi di detenuti che non risultano mai avere ricevuto mascherine e disinfettanti, di isolamento fiduciario dei nuovi giunti svolto in celle promiscue in assenza di test, di isolamento sanitario svolto in condizioni precarie per l’impossibilità di recuperare spazi adeguati (ad Imperia e Marassi in particolare), di screening di detenuti e personale non più eseguiti dai test dello scorso aprile e dati aggiornati sui contagi che le Direzioni e la Regione non comunicano. Alla luce di tutte le difficoltà per le strutture carcerarie italiane di gestire l’emergenza sanitaria, anche a causa del sovraffollamento che da anni caratterizza le case circondariali. Da anni l’associazione Antigone promuove incontri per trovare soluzioni a questo problema, che il Covid ha reso ancora più evidente e impellente. A fine febbraio 2020 i detenuti (nelle 190 strutture carcerarie italiane) erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti con un affollamento superiore al 119,4%. Con il Decreto “Cura Italia” (8 marzo 2020) sono entrate in funzione norme provvisorie per contenere il contagio e per ridurre l’affollamento. Agendo sui detenuti colpiti da pene definitive e grazie all’utilizzo domiciliari e all’allungamento dei permessi, i numeri si sono sensibilmente ridotti e, a fine aprile, le persone detenute erano scese a 53.904. A fine luglio erano 53.619 con un tasso di affollamento del 106,1%. Per Bernardini non basta e la richiesta al Parlamento e al Governo è quella di immediati interventi, in particolare la proposta è di ridurre significativamente le presenze attraverso qualsiasi strumento conforme ai dettati della Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: amnistia, indulto, emendamenti al Decreto Ristori che amplino la platea dei beneficiari e reintroduzione della liberazione anticipata speciale (proposta con un emendamento dall’On. Roberto Giachetti). Gli interventi richiesti, per il partito radicale, servirebbero per limitare la diffusione del virus sia tra i detenuti che tra gli agenti. A sostegno della parlamentare attualmente ci sono 898 i cittadini italiani, di cui 550 cittadini e 348 detenuti. Molti i familiari che hanno aderito organizzandosi in chat su Whatsapp e, nelle prossime ore, l’iniziativa si allargherà anche ad altri istituti. Busto Arsizio. 280 detenuti in quarantena per il Covid. Arriva Medici senza Frontiere malpensa24.it, 24 novembre 2020 Sale a 35 il numero di detenuti positivi al Covid 19 nel carcere di Busto Arsizio. E sono 280 circa quelli messi in quarantena perché hanno avuto contatti stretti con i primi. I negativi sono una cinquantina circa e sono tutti insieme in un’unica sezione per ovvie ragioni. Numeri in crescita ma che non devono ingannare in quanto potrebbero iniziare a scendere già alla fine di questa settimana. “Si lavora con tempi diversi - spiega il direttore Orazio Sorrentini - I detenuti non sono risultati positivi tutti nello stesso momento e non tutti i detenuti hanno iniziato la quarantena contemporaneamente. Si ragiona, dunque, sulle canoniche due settimane di tempo dal momento della positività o del contatto diretto”. L’impegno dell’amministrazione carceraria e della direzione è massimo. E nella casa circondariale di via per Cassano arriva Medici senza Frontiere che in queste ore sta formando tutti, personale amministrativo, detenuti, polizia penitenziaria ed educatori, ai comportamenti da tenere per prevenire l’ulteriore diffusione del virus, ai sintomi da non trascurare mai, ai protocolli da seguire per assistere chi ha necessità. Il punto del direttore Sorrentini - Il punto lo fa personalmente il direttore disegnando una situazione complessa ma che l’amministrazione carceraria si è attivata per mantenere sotto controllo. “Sabato alcuni detenuti avevano iniziato uno sciopero della fama per attirare l’attenzione del Governo sulla situazione”, spiega Sorrentini. Al ministro Alfonso Bonafede, vista la situazione, i detenuti chiedevano di poter scarcerare chi, positivo e con patologie pregresse come ad esempio il diabete e con un domicilio, potesse essere curato a casa. “Per nostro conto ne abbiamo incontrata una delegazione - spiega il direttore - che chiedeva un alleggerimento delle restrizioni imposte sui pacchi destinati ai detenuti”. A causa del Covid ogni pacco resta in “osservazione” per 48 ore prima di essere consegnato al destinatario garantendo in questo lasso di tempo “la morte” del virus qualora ve ne fosse sulle superfici. “In questo modo diventa impossibile per il detenuto ricevere generi alimentari freschi - spiega Sorrentini. Ci siamo però accordati sul fatto che alcuni beni, quali ad esempio insaccati o formaggi, che non devono essere conservati in frigorifero potranno essere inseriti nei pacchi”. Pronti i tamponi di controllo - Sul fronte Covid la situazione è la seguente. I detenuti positivi sono passati da 22 a 35 ma, come detto, in tempi diversi. “Entro il termine di questa settimana, tra giovedì e venerdì, i primi 22 saranno però sottoposti al secondo tampone, quello di controllo al termine delle due settimane di completo isolamento - spiega Sorrentini - Confidiamo che tutti siano negativizzati”. Il dato andrebbe ad alleggerire la situazione. Non solo: attualmente i detenuti in quarantena sono 280 circa. Quarantena non significa isolamento completo. Si tratta di detenuti che hanno avuto contatti stretti con i positivi, anche in questo caso, però, con tempi diversi. E dunque entro il termine di questa settimana una novantina di loro, 88 per essere precisi, dovrebbero terminare il periodo di quarantena andando ad alleggerire il dato più pesante. Agenti della Penitenziaria negativi - Sul fronte polizia penitenziaria “Il dato è confortante - conclude Sorrentini - Sono 57 gli agenti sottoposti a tampone in quanto hanno avuto contatti stretti con detenuti positivi: tutti e 57 sono risultati negativi. Gli altri agenti in servizio nella mattinata di sabato (21 novembre) si sono sottoposti volontariamente a test rapido nel punto tamponi della Ugo Mara di Solbiate Olona. Tutti dovrebbero essere risultati negativi. Uso il condizionale in quanto trattandosi di tampone volontario è il poliziotto a dover comunicare un’eventuale positività isolandosi. Nessuno lo ha fatto. Il personale è professionale e preparato: ne posso dedurre che anche questi agenti in servizio siano dunque tutti negativi”. E la formazione di Medici Senza Frontiere sta dando un’aggiunta importante affinché la situazione resti sotto controllo. Torino. Covid, stop ai colloqui: protestano i detenuti del carcere delle Vallette torinoggi.it, 24 novembre 2020 Ogni giorno battono le loro stoviglie contro le sbarre e il rumore si sente anche fuori dal carcere. Intanto ieri hanno manifestato anche i familiari: accanto a loro anarchici e antagonisti. Prosegue la protesta dei detenuti nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino. Oggetto della disputa sono la sospensione dei colloqui con i parenti e la riduzione delle attività dentro la struttura, entrambe dovute all’emergenza Covid. In alcuni padiglioni della sezione maschile da lunedì scorso più volte al giorno i reclusi battono le loro stoviglie contro le sbarre e il rumore si sente fin fuori dal carcere. Anche la protesta dei parenti per il momento non subisce stop: ieri infatti c’è stato il terzo presidio. Insieme ai familiari dei detenuti che si sono ritrovati fuori dal carcere c’erano anche alcuni militanti dell’area anarchica e antagonista dei centri sociali. Bologna. Cgil: “Al Pratello detenuto positivo, alla Dozza situazione preoccupante” bolognatoday.it, 24 novembre 2020 “Già a fine ottobre scorso aveva richiesto all’Amministrazione, e a tutti gli organi competenti, la programmazione di test sierologici e tamponi” fa sapere il sindacato. Mentre dopo la scoperta del primo detenuto positivo al Covid-19 presso l’Istituto minorile del Pratello “la Direzione si è immediatamente attivata, provvedendo a far effettuare i tamponi molecolari a tutto il personale che era venuto a stretto contatto con il soggetto coinvolto” al carcere della Dozza “la situazione parrebbe ancora più preoccupante e non passa giorno che non si riceva segnalazione di un nuovo contagio o di misure di quarantena fiduciarie disposte nei confronti del personale, misure messe in atto al fine di limitare i rischi di diffusione del virus, ma che riguardano ormai un congruo numero di Agenti di Polizia Penitenziaria”. Lo scrive in una nota Salvatore Bianco di Fp Cgil sottolineando che il sindacato “già a fine ottobre scorso aveva richiesto all’Amministrazione, e a tutti gli organi competenti, la programmazione di test sierologici e tamponi destinati a tutto il personale, per le successive settimane, al fine di effettuare un constante monitoraggio della situazione, ma purtroppo tale richiesta è rimasta pressoché inascoltata (fra l’altro, non si sono ricevute notizie rispetto alla reale disponibilità, da parte del Provveditorato, dei tamponi “rapidi” annunciati dal Dap il 10 novembre)”. Il sindacato ricorda che “vista la carenza di organici, che l’eventuale positività di una singola unità, può provocare la paralisi di interi settori o uffici, con serie conseguenze sul normale svolgimento di tutte quelle quotidiane attività che permettono alla struttura di funzionare - e ribadisce - che è sempre più urgente effettuare un costante monitoraggio attraverso tutte le misure previste, su tutto il personale che accede presso le strutture penitenziarie bolognesi per scongiurare il possibile diffondersi dei contagi sul personale e sulla popolazione detenuta ed auspica che questa volta l’Amministrazione si adoperi con la dovuta celerità nell’interesse generale della comunità cittadina tutta - visto che ogni singola unità di personale è prima di tutto un cittadino e come tale si muove sul territorio, con tutte le possibili conseguenze che ne potrebbero derivare”, conclude Bianco. Lecce. Covid, “ridurre le presenze in carcere”: l’appello della Garante per i detenuti salentolive24.com, 24 novembre 2020 La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale ha deciso, nell’incontro del 12 novembre di inviare al parlamento italiano un appello per ridurre il numero delle presenze in carcere, al fine di tutelare il diritto alla salute di detenuti e operatori penitenziari. “Il carcere - sottolinea la professore Maria Mancarella, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Lecce - è di per sé un luogo in cui il rischio della diffusione del covid-19 è molto alto: il fisiologico assembramento di un numero considerevole di persone in spazi ristretti non consente il rispetto del distanziamento fisico e delle misure di igiene indispensabili alla prevenzione del virus e contribuisce inevitabilmente ad accrescere il rischio di diffusione del contagio”. “Dalle informazioni che emergono è evidente come nelle carceri italiane la situazione cominci a diventare seria ma non ancora allarmante - afferma Mancarella - Accanto ad istituti in cui vi sono dei veri e propri focolai, in molte carceri i casi presenti sono pochi e si riferiscono a persone asintomatiche, sia tra il personale penitenziario che tra i detenuti, segno questo che le misure di prevenzione stanno ancora funzionando, se pur a fatica. I dati degli ultimi giorni mostrano, tuttavia, una tendenza verso un rapido e progressivo aumento dei casi. Si ripresenta perciò prepotentemente il tema della riduzione delle presenze insieme a quello della definizione, in tutti gli istituti, di spazi adeguati a una gestione efficace della prevenzione e dell’assistenza, cosa che finisce per contrarre inesorabilmente i già ristretti spazi destinati alla restante popolazione detenuta”. Una significativa riduzione delle presenze in carcere - scrivono in un appello i Garanti - contribuirebbe positivamente ad affrontare nel migliore dei modi la gestione sanitaria interna della prevenzione e dei focolai, favorendo migliori condizioni lavorative per gli operatori penitenziari e permettendo, ove possibile, la prosecuzione in condizioni di sicurezza, delle attività lavorative e formative, di istruzione, culturali o sportive. I garanti fanno perciò appello alla Magistratura perché eviti arresti e misure cautelari in carcere, quando non strettamente indispensabili; perché favorisca licenze straordinarie ai semiliberi, ai lavoranti all’esterno e a coloro che usufruiscono abitualmente di permessi; perché conceda la detenzione domiciliare ai detenuti in fine pena. “Nel carcere di Lecce - precisa la Garante - la situazione non è al momento preoccupante: dai controlli sono emersi sette agenti positivi, tutti appartenenti al Nucleo traduzioni, tra i detenuti invece non risulta alcun positivo. La Direzione continua a fare il possibile di facilitare i contatti con l’esterno almeno fino a quando ciò sarà possibile, utilizzando tutte le modalità comunicativa a disposizione e con ogni mezzo, cercando, anche se a fatica, di non far ricadere il carcere nell’isolamento. I problemi del carcere sono tanti e non tutti evidenti a coloro che non ne hanno esperienza diretta, che nel carcere non sono mai entrati, a nessun titolo, e che non vogliono vedere. Il carcere - mi scrive la direttrice Russo - da sempre e non solo in tempo di Covid, è fatto da problemi sociali che altri preferiscono non risolvere perché scarsamente coinvolgenti sotto il profilo della strategia politica, ma vi assicuro che ciò che incombe sulle coscienze di noi direttori sono il disagio psichico, una tutela della salute mentale inadeguata, persone senza fissa dimora, poveri ed ancora tossicodipendenti, che si preferisce lasciare in terapia metadonica piuttosto che progettare per loro una vita migliore e libera”. “Purtroppo - conclude la professoressa Mancarella - le disposizioni del Dap hanno limitato al massimo la presenza dei volontari, costringendo alla chiusura delle attività laboratoriali. Le attività scolastiche, invece, proseguite in presenza anche dopo l’ordinanza del presidente Emiliano e precauzionalmente sospese dopo la rilevazione dei casi di positività al Covid tra gli agenti di polizia penitenziaria, si svolgono al momento regolarmente in presenza. I detenuti che lavorano sulla base dell’art.21 continuano regolarmente ad uscire per lavorare all’esterno (due presso il comune di Caprarica, uno presso il comune di Lequile, uno presso l’Olivetti, uno presso l’ex convitto Palmieri, quattro presso la Procura della repubblica, due presso datori di lavoro privati). L’ufficio matricola ha compilato d’ufficio le istanze di detenzione domiciliare per tutti i detenuti, circa cinquanta, che hanno i requisiti richiesti dall’ultimo decreto”. Milano. Mascherine, c’è la svolta: il carcere di Bollate diventa fabbrica di Roberta Rampini Il Giorno, 24 novembre 2020 Sdoganati macchinari e un milione di chili di tessuto: detenuti al lavoro. Le prime due macchine acquistate in Cina sono state installate nell’area industriale del carcere di Bollate lo scorso aprile. Insieme al tessuto, sono state donate dalla struttura del commissario straordinario per l’emergenza Covid all’amministrazione penitenziaria. Ogni macchina produce mascherine 24 ore su 24 e occupa dieci detenuti per turno. Fanno parte del progetto “#Ricuciamo”, realizzato in partnership con il ministero della Giustizia, che prevede la produzione di mascherine protettive nel carcere di Milano Bollate, Rebibbia a Roma e in quello di Salerno. Gli altri quattro macchinari destinati al laboratorio interno al carcere erano da fermi alla dogana da mesi. Ieri la buona notizia: i funzionari dell’Agenzia delle Dogane in servizio negli Uffici di Milano 2 e Milano 3 hanno provveduto allo sdoganamento rapido dei macchinari e la produzione delle mascherine potrà entrare a pieno regime. Tutti i macchinari, infatti, verranno utilizzati per la lavorazione del tessuto-non tessuto in polimeri sintetici che da agosto arriva in treno da Xìan, attraverso l’antica Via della seta e la Polonia, alla sezione operativa territoriale di Melzo. Il tessuto-non tessuto sdoganato a oggi ammonta a quasi 1.000.000 di chili e fa parte della commessa sottoscritta negli scorsi mesi dal commissario straordinario per garantire la produzione nazionale delle mascherine. I detenuti impiegati nel laboratorio, sotto il coordinamento di supervisori esterni, producono mascherine di tipo chirurgico destinate al personale e agli ospiti degli istituti penitenziari dislocati nel territorio nazionale. Nei prossimi giorni è previsto l’arrivo del nono e penultimo treno, costituito da 42 vagoni e con un carico di circa 200.000 chili di tessuto-non tessuto. L’Agenzia delle Dogane garantirà il via libera rapido della merce con la procedura dello svincolo diretto per consentire al commissario straordinario di averne la disponibilità in tempi brevissimi una volta riscontrata la regolarità del carico e del trasporto. Nell’area dell’ex falegnameria del carcere bollatese, oltre ai detenuti addetti al funzionamento delle macchine, ci sono quelli che si occupano della ricezione e della preparazione del tessuto, due addetti all’impacchettamento e alla sanificazione delle mascherine, per un totale di 80 detenuti impiegati nei quattro turni di lavoro per le due macchine installate in ogni struttura produttiva. Siena. “Una mano per la casa”, progetto contro il Covid nelle carceri ilcittadinoonline.it, 24 novembre 2020 Accordo di collaborazione tra il Comune di Siena e la Uiepe, Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Toscana e l’Umbria. La Giunta comunale ha dato il via libera al progetto “una mano per la casa”, un programma di intervento della Cassa delle ammende volto a fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 negli Istituti penitenziari della Regione Toscana. L’amministrazione aveva aderito all’iniziativa nel luglio scorso accettando il ruolo di capofila dell’Area Vasta Toscana Sud Est, nel cui ambito rientrano gli Istituti penitenziari di Siena, Arezzo, Grosseto, San Gimignano e Massa Marittima. Al tempo stesso è stato previsto un finanziamento di 416mila euro e la Regione ha ripartito l’importo totale tra i tre Comuni capofila delle aree vaste individuate (Firenze, Livorno, Siena), assegnando al Comune di Siena l’importo complessivo di 62.820 euro e liquidando 20.940 euro relativi all’annualità 2020. “È un progetto che ha strutturato sinergie importanti con le realtà del territorio che, per vocazione, si interessano di detenuti - spiega l’assessore Francesca Appolloni - ed è una risposta concreta in una fase storica affatto facile. Lo spirito che ha mosso l’amministrazione, in sintonia con il garante per i detenuti, è di prendersi cura gli uni degli altri, a partire dagli “ultimi”. Il progetto - La finalità generale dell’accordo è la realizzazione congiunta delle attività previste dal progetto “Una mano per la casa”. Progetto che prevede azioni di sostegno in favore di detenuti degli istituti penitenziari della Toscana che sono nella condizione giuridica di poter accedere a misure alternative alla detenzione, ma risultino privi di riferimenti esterni, in particolare di un alloggio e di un lavoro, garantendo loro - in primo luogo - un’accoglienza temporanea presso strutture gestite da enti del Terzo settore. Oggetto specifico dell’accordo è la disciplina delle forme di collaborazione professionale e finanziaria che il Comune di Siena e l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Toscana e Umbria porranno in essere, per l’intera durata del progetto, al fine di garantire il conseguimento delle sue finalità. Le parti si impegnano a collaborare lealmente alla realizzazione del progetto adempiendo puntualmente agli obblighi previsti e perseguendo nella propria azione i principi generali di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza dell’azione amministrativa. Nello specifico il Comune di Siena si impegna a mantenere costanti rapporti con l’Uiepe, nella sua qualità di partner istituzionale e con gli Uffici di esecuzione penale esterna territorialmente competenti per garantire la realizzazione del progetto nella sua organicità e nelle sue reti di sistema; curare la selezione degli Enti a cui affidare le attività di accoglienza e inserimento sociale previste dal progetto; realizzare e monitorare la collocazione dei beneficiari finali del progetto presso le strutture di accoglienza individuate; presentare all’Uiepe la rendicontazione delle spese del progetto, limitatamente agli importi trasferiti e con le modalità di cui ai successivi articoli, presentando la relativa documentazione giustificativa; trasmettere trimestralmente una sintetica relazione all’Uiepe sullo stato di avanzamento delle attività di progetto; garantire, nella gestione del contributo e nelle procedure di affidamento delle attività di progetto, il rispetto delle norme di Contabilità generale dello Stato e degli Enti locali e del Codice dei contratti pubblici; prevedere e vigilare, altresì, che nei rapporti con gli affidatari esterni delle attività di progetto siano rispettati gli obblighi di trasparenza, di tracciabilità dei flussi finanziari, di tutela della sicurezza e salute dei lavoratori impiegati, di raccolta e trattamento dei dati personali. Al contempo l’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna si impegna a trasferire al Comune di Siena un contributo a parziale rimborso delle spese sostenute per le misure di accoglienza previste dal progetto; mettere a disposizione le risorse non monetarie necessarie per la realizzazione degli interventi progettati; a fornire supporto e scambio informativo al Comune di Siena per la realizzazione di tutte le azioni di integrazione sociale parimenti previste dal progetto. Trieste. Un mix di metadone e farmaci: così Nicola è morto in carcere di Gianpaolo Sarti Il Piccolo, 24 novembre 2020 Il trentottenne era deceduto nella sua cella e sepolto in seguito senza funerale. L’autopsia ha rivelato l’overdose. Chiesti controlli sul giro di medicine al Coroneo. Nicola Buro, il trentottenne triestino trovato morto lo scorso luglio in una cella del Coroneo, è deceduto a causa di un mix di metadone e psicofarmaci. Lo rivela l’esito dell’autopsia disposta dal pm Maddalena Chergia, il magistrato che aveva avviato gli accertamenti sul decesso. L’esito dell’esame autoptico conferma dunque i sospetti che erano stati ventilati sulla tragica vicenda. Anche perché, si scopre ora, nella stanza del carcere in cui dormiva il trentottenne erano state rinvenute numerose pillole. Ma non è stato chiarito chi gliele aveva fornite. E forse non si saprà mai, anche perché il pm ha chiesto l’archiviazione del fascicolo. Evidentemente non è possibile risalire al responsabile. Il caso, però, mette in luce un’amara verità: in carcere c’è un giro di farmaci tra detenuti. Un giro che sfugge totalmente al controllo. D’altronde non è la prima volta che al Coroneo si verificano decessi in circostanze analoghe. Molti ricorderanno ad esempio la morte per infarto del trentaseienne triestino Andrea Cesar. L’autopsia stabilì che l’uomo aveva assunto eroina. Ma com’è possibile che Buro, che aveva problemi di tossicodipendenza, avesse la disponibilità di tutti quei farmaci? Succede spesso che i detenuti accantonino le terapie che ricevono. Poi, invece di assumerle, mettono i medicinali da parte per farne un uso improprio, in una sola volta, cercando lo stordimento o lo sballo. Alcuni detenuti, inoltre, si rivendono le terapie tra loro. Oppure le barattano, magari in cambio di sigarette o altro. “È chiaro che in carcere c’è un giro e che non ci sono controlli adeguati”, spiega la Garante comunale per i diritti dei detenuti, l’avvocato Elisabetta Burla. “Bisogna capire come vengono somministrati i farmaci. Com’è possibile che i detenuti riescano ad accumularli? Inoltre - aggiunge - ritengo prioritario che ogni sezione sia dotata di defibrillatori e che vengano organizzati corsi per usarli correttamente”. L’avvocato Marta Silano e il collega Gianluca Brizzi, i legali che assistono la famiglia Buro, faranno comunque opposizione alla richiesta di archiviazione del caso. Vogliono che si faccia chiarezza sul traffico di farmaci in carcere. E chi li ha dati alla vittima. Ma la vicenda ha purtroppo anche un altro lato triste: il trentottenne era stato sepolto senza che i familiari fossero avvisati. Cos’era successo? Ad autopsia avvenuta, la Procura aveva comunicato il nulla osta per la sepoltura all’ufficiale di Stato civile del Comune. Ma il municipio, forse a causa degli inghippi delle procedure anti-Covid, non aveva avvisato i parenti. Gli avvocati intendono ora domandare un risarcimento all’ente. L’ultima consolazione, forse, per una famiglia che non ha mai potuto portare l’ultimo saluto al proprio caro: la madre e la sorella hanno visto Nicola entrare in carcere e poi hanno trovato il suo nome su una tomba in cimitero. Milano. Carcere di San Vittore, otto agenti a processo per il pestaggio di un detenuto di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 novembre 2020 Tutti a giudizio per lesioni. Il fatto, ripreso dalle telecamere, è avvenuto all’interno dell’istituto durante l’ora d’aria, a giugno 2019. È stata proprio la direzione del carcere a segnalare l’accaduto all’autorità giudiziaria. Tre persone che lo tengono fermo, e una quarta che prende la rincorsa per tirargli un pugno e poi colpirlo altre quattro volte: è una scena che non sorprenderebbe in una rissa per strada, invece è l’oggetto di un processo iniziato ieri a Milano su un fatto avvenuto in carcere. Perché la persona colpita (per fortuna senza che si sia fatta molto male) è un detenuto, mentre gli imputati sono 8 agenti di polizia penitenziaria ora a giudizio per “lesioni personali”. L’episodio non è sinora mai stato conosciuto dai mezzi di informazione benché risalga al 6 giugno 2019, ma non per effetto di manovre insabbiatorie: anzi, al contrario, dagli atti del dibattimento iniziato lunedì davanti alla II sezione del Tribunale risulta che è stata proprio la direzione del carcere a segnalare l’accaduto all’autorità giudiziaria. Se i penitenziari italiani alle prese con l’endemico sovraffollamento dei detenuti nelle celle non esplodono è solo perché - e non lo si riconoscerà mai abbastanza - a fare da custodi ma anche da assistenti di fatto, ammortizzatori delle tensioni, e persino “psicologi” quotidiani, sono gli uomini e le donne della polizia penitenziaria. Tanto più in un carcere di vecchia costruzione come San Vittore, che quindi moltiplica le difficoltà di gestione. E ancor più in periodo di emergenza Covid (di cui San Vittore è uno degli “hub” regionali), che impone di fare miracoli per assicurare percorsi e aree e trattamenti differenziati per detenuti e agenti che siano positivi, o in quarantena, o in attesa di tampone. E ad aggravare il tutto, sempre più negli ultimi anni, è l’elevata incidenza nella popolazione carceraria non soltanto della tossicodipendenza ma anche del disagio psichico, due fenomeni che complicano moltissimo la quotidianità della vita in carcere affidata, nel suo delicato equilibrio interno, proprio alla professionalità e sensibilità degli agenti di custodia. Ciò non toglie però che non possa essere una modalità di gestione di detenuti “difficili” quella che il capo d’imputazione del pm Paolo Filippini ora descrive sulla base dei filmati di videosorveglianza interni alle ore 13 del 6 giugno 2019. “Dopo una discussione” con un giovane detenuto della Guinea Bissau, che sembra reagire verbalmente ma non appare mai fisicamente aggressivo, questi “veniva trattenuto con forza” da tre agenti “che bloccavano i suoi movimenti”, mentre un assistente capo, “calzati i guanti, gli sferrava plurimi pugni al volto”: un altro agente “lo colpiva con un pugno al volto”, e altri tre agenti, in aggiunta ai tre che lo tenevano fermo, “lo spingevano a terra ove veniva percosso, immobilizzato, sollevato da terra e trasportato per gli arti all’interno della struttura”. Visitato alle 13.13, il detenuto - in passato a volte turbolento sino all’incendio della cella - alle 15.36 accusava un collasso in cella, e veniva visitato di nuovo alle 19.02, per poi essere portato per scrupolo in ambulanza al Niguarda. Per fortuna i pugni erano stati in qualche modo o parati o mezzi schivati, come si ricava dalla diagnosi di “trauma facciale” con tre giorni di prognosi nell’ex centro clinico del carcere. Gli 8 agenti sono ora imputati di “lesioni personali” con due aggravanti: aver agito in più di 5 e nell’esercizio delle funzioni di vigilanza, e aver approfittato di circostanze di tempo e luogo (in carcere, ai danni di un detenuto) “tali da ostacolare la pubblica o provata difesa. Il processo finirà in primavera 2021, mentre una tappa intermedia a fine anno si è resa ieri necessaria perché il detenuto, nel frattempo contagiato dal Covid, non ha perciò potuto firmare la procura speciale al proprio avvocato per la richiesta di costituirsi parte civile. Sassari. Polo penitenziario, l’Università firma un’intesa triennale La Nuova Sardegna, 24 novembre 2020 Un nuovo protocollo d’intesa per il triennio 2020-23 per il Polo universitario penitenziario (che coinvolge studenti iscritti all’Università di Sassari detenuti negli Istituti penitenziari di Alghero, Nuoro, Sassari e Tempio Pausania) per realizzare un progetto di informatizzazione delle aule universitarie penitenziarie unico in Italia. In base al nuovo protocollo d’intesa, aderiscono a un patto istituzionale per il diritto allo studio universitario delle persone che abbiano limitazioni della libertà personale non solo l’Università di Sassari e il Provveditorato regionale dell’amministrazione Penitenziaria (già firmatari dell’edizione 2014-20) ma anche l’Ufficio interdistrettuale di Esecuzione penale esterna e il Centro per la giustizia minorile. L’innesto dei due nuovi enti permetterà di offrire maggiori servizi e tutele alle persone che scontano la pena all’esterno degli istituti penitenziari e ai giovani fino a 25 anni di età che abbiano commesso reati da minorenni. Ma sono soprattutto l’alto tasso tecnologico, la spinta decisa verso la dematerializzazione, la capillarità e il dettaglio dei servizi a caratterizzare il nuovo protocollo. “Abbiamo lavorato continuamente per mesi per realizzare un network tra istituzioni che non ha eguali in Italia - dice il provveditore dell’amministrazione penitenziaria Maurizio Veneziano - e ha ricevuto molto apprezzamento dal Ministero della Giustizia come progetto pilota a livello nazionale”. “Lasciamo al prossimo governo di ateneo un Polo Universitario Penitenziario in ottima salute, con un protocollo moderno, multilaterale e inclusivo” afferma il rettore uscente Massimo Carpinelli. Contemporaneamente alla stesura del nuovo protocollo d’intesa, e traendo spunto dagli insegnamenti derivanti dal lockdown, si è avuta la spinta per realizzare un progetto che solo fino a pochi anni fa sarebbe stato impossibile immaginare: l’allestimento di aule didattiche informatizzate, una in ogni istituto penitenziario, dedicate esclusivamente agli studenti universitari. Il coordinatore di Ateneo per il progetto, Emmanuele Farris, precisa: “Il nostro Polo universitario penitenziario, con quasi 70 studenti, di cui il 61% in alta sicurezza, l’8,5% al 41bis e il 30,5% in media sicurezza, è il quarto in Italia per numeri assoluti, ma il primo per incidenza sulla popolazione detenuta: negli istituti penitenziari dove opera il Puolo Uniss, studia all’Università il 5,4% della popolazione detenuta, contro una media nazionale dell’1,4%. Nell’ultimo anno accademico abbiamo avuto un incremento del +61% di studenti rispetto al triennio precedente. Abbiamo ridotto di 3,5 volte il numero di studenti che non riescono a dare esami, portandolo quasi a zero, e più che raddoppiato il numero di studenti meritevoli”. Modena. “La didattica a distanza è garantita anche ai detenuti?” Gazzetta di Modena, 24 novembre 2020 La consigliera comunale Pd Federica Venturelli ha presentato una interrogazione in Consiglio per conoscere se, con tutte le altre iniziative sospese, si stia comunque riuscendo a garantire la didattica a distanza anche per i carcerati che seguono attività scolastiche e di formazione professionale al Sant’Anna. È chiaro che le competenze in materia di amministrazione penitenziaria spettano allo Stato, ma l’opera del Comune può essere di grande supporto. A inizio novembre anche il Miur con una circolare aveva portato l’attenzione sulle scuole in carcere. “In realtà - sottolinea Venturelli - grazie a operatori, volontari e docenti esterni sono diverse le iniziative di educazione, formazione e lavoro in essere al Sant’Anna, ma con l’epidemia tutto è stato sospeso. È quindi importante che ci siano le condizioni affinché si garantisca continuità didattica agli studenti ristretti, per i quali la scuola rappresenta un’opportunità importante di crescita e di riprogettazione della propria vita”. Da qui la richiesta di notizie sulle strumentazioni digitali a disposizione e le modalità della cosiddetta “Dad”. Lecce. “Ti ascolto”, consulenza psicologica gratuita per i parenti dei detenuti bonculture.it, 24 novembre 2020 Uno sportello telefonico, in presenza e on line di consulenza psicologica totalmente gratuita per le famiglie dei detenuti e delle detenute: a Lecce con “Ti ascolto” prosegue Storie Cucite a Mano, progetto triennale selezionato dall’impresa sociale Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, che coinvolge anche le città di Moncalieri e Roma. Curata da PSY:I - Studio di psicoterapia cognitiva integrata l’idea nasce come sportello d’ascolto per i parenti (minori e adulti) dei detenuti e delle detenute durante l’attesa dei colloqui nella Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce. Considerata però la situazione complessa per gli incontri in carcere a causa dell’emergenza e delle restrizioni da Covid19, l’iniziativa è stata ora portata all’esterno per non abbandonare tutte le famiglie che desiderano ricevere supporto psicologico soprattutto in questo particolare momento. Per prenotare un colloquio on line, telefonico o in studio si può chiamare o mandare un messaggio ai numeri 3496425781 o 3356298712. PSY:I è uno studio di Psicoterapia Cognitiva Integrata per la diagnosi e la cura del disagio psichico ed emotivo con particolare riferimento ai disturbi d’ansia (disturbo ossessivo-compulsivo, attacchi di panico, fobie, ansia sociale, ecc.), ai disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia, obesità), ai disturbi dell’umore (depressione, disturbo bipolare), ai disturbi della sfera sessuale e di coppia e alle nuove dipendenze patologiche (dipendenza dal gioco d’azzardo, dipendenza da internet, dipendenza dal sesso). Gli psicoterapeuti e le psicoterapeute sono altamente formati e con una lunga esperienza professionale. L’aggiornamento costante, l’uso degli “strumenti” terapeutici più innovativi (schema therapy, mindfulness, terapia relazionale e familiare) e la collaborazione con altri professionisti della salute mentale (psichiatra, neuropsicologa, nutrizionista) permette di offrire trattamenti personalizzati e di definire percorsi terapeutici utili ai fini della risoluzione dei problemi. Grazie a “Storie cucite a mano”, l’associazione “Fermenti Lattici” prosegue il lavoro già avviato nel carcere di Lecce con il progetto “Giallo, rosso e blu - I bambini colorano Borgo San Nicola” sostenuto da “Infanzia Prima”, promosso da Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione con il Sud, e grazie alla collaborazione con il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Puglia. Attraverso attività ed eventi, da alcuni anni vengono coinvolti in maniera attiva bambini, genitori detenuti e liberi, accompagnatori. La Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti (Roma, 6 settembre 2016 - Ministero di Giustizia), alla quale il progetto aderisce, riconosce formalmente il diritto dei minori alla continuità del proprio legame affettivo con il proprio genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità dei detenuti. La condizione di svantaggio, che a Lecce riguarda circa 250 bambini che non hanno la possibilità di instaurare un rapporto quotidiano con il genitore, costruire ricordi e condividere un’esperienza gratificante con la propria famiglia, è ancora più complessa da qualche mese a causa della pandemia da Covid19. Proprio per questo motivo, qualche settimana fa, è stata pubblicata sul web una “Filastrocca delle mani” realizzata da alcune mamme detenute per insegnare ai più piccoli i comportamenti da adottare per proteggerci dal virus. Il progetto Storie Cucite a Mano - coordinato dalla Cooperativa Sociale Educazione Progetto di Torino (capofila), dall’Associazione 21 luglio Onlus di Roma e da Fermenti Lattici di Lecce, con il monitoraggio della Fondazione Emanuela Zancan e la comunicazione a cura della Cooperativa Coolclub - è stato selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e coinvolge numerosi partner nei vari territori. Oltre alle amministrazioni comunali di Moncalieri e Lecce e all’Unione dei Comuni di Moncalieri, Trofarello e La Loggia, il progetto vede tra i partner Associazione Teatrulla, Cooperativa Sociale Pier Giorgio Frassati, Istituto Comprensivo Statale “Santa Maria” (Moncalieri), ABCittà società cooperativa sociale onlus, Associazione Garofoli/Nexus, Digiconsum, Istituto Comprensivo Giovanni Palombini, Fondazione per l’educazione finanziaria e al risparmio, In.F.O.L Innovazione formazione orientamento e lavoro (Roma), Casa Circondariale “Borgo San Nicola” di Lecce, ABCittà, Istituto Comprensivo “P. Stomeo - G. Zimbalo”, Principio Attivo Teatro, PSY Psicologia e Psicoterapia cognitiva integrata (Lecce). Il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile nasce da un’intesa tra le Fondazioni di origine bancaria rappresentate da Acri, il Forum Nazionale del Terzo Settore e il Governo. Sostiene interventi finalizzati a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori. Per attuare i programmi del Fondo, a giugno 2016 è nata l’impresa sociale Con i Bambini, organizzazione senza scopo di lucro interamente partecipata dalla Fondazione CON IL SUD. Milano. Detenuti come attori, il teatro dietro le sbarre di Opera e San Vittore di Adriana Marmiroli La Stampa, 24 novembre 2020 Dalle carceri arriva un segnale di resistenza e speranza per tutto il settore. Prima o poi la pandemia finirà, e il sipario tornerà a sollevarsi ancora. Il modello di riferimento per tutti è Armando Punzo. La sua Compagnia della Fortezza, attiva a Volterra dai primi Anni ‘80, ha dimostrato che, anche dietro le sbarre, tra i detenuti, fare teatro si può ed è attività che molto giova al reinserimento. Da allora sono stati molti gli istituti di pena che hanno favorito questa attività. A Milano tutti i principali: San Vittore, Opera, Bollate. Se Bollate, dove operava la compagnia Estia, al momento è fermo e il teatro è ora sala cinematografica, a Opera e San Vittore lavorano rispettivamente Opera Liquida e Cetec/Dentro-Fuori San Vittore. Maschile la prima, di sole donne la seconda. Ne sono l’anima e il motore con passione e dedizione Ivana Trettel e Donatella Massimilla, registe, “capocomiche”, drammaturghe, docenti. In un mondo governato dalle regole della reclusione, quel Covid che ha spento le luci di tutti i teatri è esploso con effetti doppiamente devastanti: ha colpito i detenuti e il personale di sorveglianza, imposto un più rigido isolamento con l’esterno, costretto alla sospensione delle attività laboratoriali. Poi è arrivata l’estate: un quasi ritorno alla normalità. E infatti: Cetec ha portato in scena “Le voci di dentro”, spettacolo in parte dal vivo (un’interprete sola in scena accompagnata da un fisarmonicista) e in parte in video, rappresentato in un cortile di via Paolo Sarpi a fine settembre. “Tutto si è fatto più difficile, ma non ci arrendiamo”, dice Donatella Massimilla. Il teatro a San Vittore lo fa da 30 anni, ci aveva portato persino Strehler: “Le tempeste” del maestro è opera che ha fatto il giro del mondo. Oggi lavora con una compagnia di sole donne, verso cui la muove un’urgenza fortissima. “È un mondo ancora più sofferente - spiega -. La loro solitudine e fragilità è enorme. Gli uomini, fuori, hanno famiglie che li aspettano; le donne invece, in genere, non hanno nessuno”. E allora il teatro è ancora più importante. “Fanno gruppo, rompono l’isolamento, parlano di sé”. A febbraio, prima del lockdown, una delle sue attrici (nonché coautrice di “Le voci di dentro”), Elena Pilan, era stata trasferita. “È interprete prolifica e autoriale. Non potevo non “seguirla” a Bollate. Ce l’ho fatta”. Oggi Elena gode del regime di semilibertà: in questi giorni di “Lombardia rossa” esce e lavora presso la sede del Cetec. E anche questa è una vittoria. Perché invece in carcere i laboratori sono nuovamente sospesi. “Online però andiamo avanti - conclude Massimilla. Una speranza ci unisce: tornare, a primavera, in quel cortile. Tutte”. “Noi guerra! Le meraviglie del nulla”, invece, lo spettacolo preparato da Opera Liquida, è andato in scena solo in streaming. Anche Ivana Trettel, che ne firma la regia, in carcere lavora da anni, dal 2008. Nel 2009 nasce Opera Liquida e dal 2014 il festival “Prova a sollevarti dal suolo”, attività supportate dalla fondazione bancaria Acri all’interno del progetto “Per Aspera Ad Astra-Come riconfigurare il carcere attraverso cultura e bellezza”. “Con il lockdown il tempo si è fermato - ci racconta -. Sono stati mesi inconsistenti e polverizzati. Viviamo una situazione paradossale: la reclusione si è diffusa a tutto il mondo. Siamo tutti carcerati”. Con i suoi interpreti - detenuti ed ex detenuti - l’inverno scorso stava lavorando a “Noi Guerra!”, evento pittorico-spettacolare legato alle particolarissime opere dell’artista Giovanni Anceschi. “Con la pandemia abbiamo dovuto rivedere tutto: era uno spettacolo di contatti. Abbiamo cercato di ricostruirlo a partire da nuove regole. Cambiato il codice, il messaggio non è cambiato”. Così il 13 novembre con grande emozione ha debuttato davanti a una platea vuota. Ma: “C’è stato chi si è collegato dal Sudamerica, chi dall’Alabama. Abbiamo superato le 2200 visualizzazioni. Prendiamo atto: vogliamo tornare davanti al pubblico, ma la modalità online resterà. È un’opportunità troppo grande”. Insomma, anche grazie alla caparbietà di queste donne che non si sono arrese, dalle carceri arriva un segnale di resistenza e speranza. Prima o poi la pandemia finirà, allenterà la sua morsa. E, anche per quella particolarissima categoria di attori che sono i detenuti, il sipario tornerà a sollevarsi ancora. Loro sono pronti. Padova. Cesti natalizi realizzati nel carcere donati alla presidente del Senato Casellati di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 24 novembre 2020 I responsabili della Cooperativa Giotto, azienda che da molti anni si occupa di lavoro nelle carceri, sono stati ricevuti nei giorni scorsi dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, alla quale hanno consegnato tre ceste confezionate dai detenuti del carcere di Padova e contenenti prodotti tipici di Vo’ e di Codogno. Da tempo nella casa di reclusione, grazie al progetto che nel 2005 ha portato la Pasticceria Giotto di Padova a trasferire il proprio laboratorio nella Casa di reclusione Due Palazzi della città veneta, vengono realizzati dolci d’ogni genere, biscotteria classica e cioccolatini, ma anche colombe di Pasqua e gli apprezzatissimi panettoni. Più recentemente è stata avviata anche la produzione dei gelati. Da 15 anni il progetto ha ‘sfornato’ anche uomini rinnovati nello spirito: detenuti che hanno appreso un mestiere, ne hanno carpito i segreti e che si sono poi trasformati in pasticceri sapienti. In alcuni casi questa specializzazione è stata fondamentale per ricominciare una vita dopo aver espiato la pena. Le tre ceste donate alla presidente del Senato sono state confezionate dai detenuti con prodotti tipici delle zone di Vo’ e Codogno, due località rese purtroppo famose perché teatro dei focolai di febbraio durante la prima ondata di Coronavirus. Per Nicola Boscoletto, capo della cooperativa Giotto, questa iniziative “vuol essere un semplice gesto di testimonianza di come ci si può aiutare, mettendo al centro, prima ancora dell’aiuto economico, un sostegno al lavoro delle aziende e perciò alle persone che vi operano. Perché siamo convinti che, come ripete instancabilmente Papa Francesco il lavoro è ciò che dà dignità”. “Repressione, torture e libertà negate: ecco i diritti umani in Iran” di Simona Musco Il Dubbio, 24 novembre 2020 “L’Iran è un posto dove nessun tipo di critica al governo è concessa. Le carceri sono luoghi senza regole e anche gli adolescenti possono essere condannati a morte, in spregio a qualsiasi convenzione internazionale. E nessun giornale può raccontare quello che accade: l’unica tv è quella di Stato, che spesso manda in onda, prima dei processi, le false confessioni estorte ai prigionieri con la tortura”. A raccontarlo al Dubbio è Reza Khandan, attivista e marito di Nasrin Sotoudeh, avvocata iraniana per i diritti umani. Accusata di “propaganda sovversiva” e di “aver incoraggiato la corruzione e la dissolutezza” - ha difeso le donne che si sono rifiutate di portare il velo -, l’attivista è stata condannata nel 2018 a 148 frustate e 33 anni e mezzo di carcere, dei quali dovrà scontarne almeno 12. Nei giorni scorsi è stata rilasciata con un permesso temporaneo e una volta fuori ha scoperto di essere positiva al coronavirus, contratto proprio durante la detenzione. Come sta adesso Nasrin? Il carcere l’ha leggermente indebolita, soprattutto dopo il recente sciopero della fame, inoltre ha contratto il coronavirus ed è stata in quarantena domiciliare per due settimane dopo il suo rilascio. Sta lentamente migliorando. Era stata imprigionata nel reparto generale della prigione di Evin, nella sezione femminile insieme ad altri prigionieri politici. Ad ottobre avrebbero dovuto trasferirla in ospedale per tre settimane (soffre di problemi cardiaci e si è indebolita ulteriormente a seguito dello sciopero della fame indetto come forma di protesta per chiedere la liberazione dei prigionieri politici, ndr), invece, è stata trasferita direttamente nella prigione di Qarchak vicino Teheran, sempre nel reparto generale. Questa prigione è pessima in termini di clima e salute e manca di strutture di base. In qualche modo, Nasrin ha contratto lì il virus. Non ha potuto usufruire del congedo per due anni e mezzo. E quella di Evin com’è? Ha due sezioni. Il reparto generale della prigione e il reparto del centro di detenzione di sicurezza. Il settore pubblico è un luogo dove i detenuti trascorrono le loro pene e hanno condizioni più normali, anche se la possibilità di accedere alla linea telefonica, per le donne politiche recluse a Evin, è molto, molto limitata. Il settore della detenzione di sicurezza è, invece, indescrivibile: lì non esiste la legge. Non c’è alcuna supervisione su ciò che accade. Anche al capo della prigione non è permesso entrare nei centri di detenzione di sicurezza. I prigionieri sono spesso tenuti in isolamento e talvolta torturati. Sono sottoposti a estenuanti interrogatori per settimane e spesso anche a gravi violenze fisiche e psicologiche. È in questi centri di detenzione che i detenuti sono costretti a fare false confessioni a causa della tortura e la televisione di Stato, che è l’unica emittente televisiva del Paese, trasmette queste confessioni ancor prima che una persona sia processata e condannata. Quindi, sulla base di queste confessioni, il Tribunale rivoluzionario può condannare i detenuti a decine di anni di prigione o addirittura alla pena di morte. Come sono, in generale, le prigioni iraniane? Le carceri in Iran generalmente non dispongono di strutture di base per i prigionieri. Insulti e intimidazioni sono all’ordine del giorno. La maggior parte delle carceri non separa i detenuti in base ai crimini. In molti casi, il trattamento dei detenuti non è seguito e, in caso di ricovero al di fuori della prigione, nella maggior parte dei casi, il costo del trattamento è sostenuto dal detenuto, che deve acquistare forniture e persino cibo di cui ha bisogno con i propri soldi. Anche se la prigione è responsabile di provvedere ai bisogni dei detenuti, nella maggior parte delle carceri il livello di salute è molto basso ei detenuti soffrono di varie malattie. Qual è la situazione dei diritti umani? Le violazioni dei diritti umani in Iran sono diffuse e sistematiche ed avvengono per conto del governo. Le libertà sociali e politiche sono molto limitate. L’Iran è al primo posto nel mondo per numero di esecuzioni rispetto alla popolazione e la tortura (in particolare la fustigazione) viene applicata in forme legali, illegali e sistematiche. La libertà dei media è generalmente limitata. Le elezioni nel paese sono diventate un fenomeno senza senso. I diritti delle donne, delle minoranze etniche e religiose vengono ignorati e la discriminazione di genere dilaga. Le proteste pacifiche vengono generalmente represse. I cittadini possono essere condannati a cinque anni o più di carcere per aver usato internet. Un uomo di nome Ruhollah Zam, ex giornalista ed ex attivista, è stato condannato a morte per aver gestito un canale di Telegram antigovernativo. Mentre si trovava in Francia, dove era stato accolto come rifugiato, è stato ingannato, attirato in Iraq e una volta lì arrestato. Perché Nasrin, alla fine, è stata rilasciata? Dopo che mia moglie ha iniziato lo sciopero della fame, ci sono state molte pressioni sul governo iraniano da parte dell’opinione pubblica e di varie istituzioni e organizzazioni nazionali e internazionali. Hanno ignorato questa richiesta pubblica per un po’ e alla fine, per dimostrare di non sottovalutarla, l’hanno rilasciata temporaneamente con un permesso medico. Il suo congedo sarebbe dovuto durare cinque giorni. Quando abbiamo scoperto che aveva contratto il Covid in prigione il suo congedo è stato esteso a 21 giorni. Più di una volta le è stato impedito di vedere sua moglie, perché? A volte ci è stato vietato come punizione. Siamo stati banditi un paio di volte perché Nasrin non ha indossato il suo hijab. Anche mia figlia è stata arrestata: dopo che mia moglie ha iniziato lo sciopero della fame per liberare i prigionieri politici, hanno fatto pressioni affinché nostra figlia venisse detenuta per ore con il pretesto di una rissa con un funzionario della prigione. È stata arrestata come terrorista. Perché il governo si accanisce contro la sua famiglia? Il governo iraniano non consente la minima critica. Chiunque si oppone viene soppresso con tutte le forze, inclusi avvocati, insegnanti, lavoratori, donne e tutte le minoranze. Qualche settimana fa sua moglie ha fortemente criticato il sistema giudiziario iraniano, qual è la situazione? Il sistema giudiziario iraniano non segue alcuna legge quando agisce contro l’opposizione. Agisce in conformità agli ordini impartiti dalle agenzie di sicurezza. I prigionieri politici sono tra i cittadini più indifesi dell’Iran e vengono trattati dalle forze di sicurezza utilizzando come loro strumenti i giudici delle corti rivoluzionarie. Mia moglie ha fatto uno sciopero della fame per dare voce ai prigionieri politici e penso che questa voce sia stata ascoltata dall’opinione pubblica mondiale. Quanta pressione possa esercitare l’opinione pubblica sul governo iraniano, poi, è un’altra questione. Ma almeno nel caso di mia moglie e di alcuni altri prigionieri politici e con doppia cittadinanza, questa pressione si è manifestata. Anche i minori vengono incarcerati in Iran: come vengono trattati? Le persone di età inferiore ai 18 anni vengono trattenute in luoghi chiamati centri correzionali. Quando raggiungono l’età di 18 anni, vengono trasferiti in prigione. Lo scenario peggiore è per gli adolescenti che commettono omicidi: il sistema giudiziario iraniano, al fine di aggirare questa convenzione internazionale che vieta l’esecuzione di coloro che hanno commesso crimini in età inferiore ai 18 anni, li detiene fino alla maggiore età e li giustizia dopo aver raggiunto l’età legale. Iran. Paura per le donne difese da Nasrin Sotoudeh di Viviana Mazza Corriere della Sera, 24 novembre 2020 L’avvocata impegnata per i diritti umani, è stata temporaneamente rilasciata. Ma il 9 novembre la Corte Suprema ha rifiutato la revisione del processo di Saba Kord Afshari, 22enne che deve scontare 15 anni di carcere per aver “diffuso corruzione e prostituzione” manifestando senza hijab. Un’altra ragazza, Nasibeh Shamsaie, che si era tolta il velo sul monte Daravand e poi è fuggita in Turchia, rischia la deportazione per ingresso illegale e falsificazione di documenti. Dall’Iran è arrivata nei giorni scorsi una buona notizia: il rilascio temporaneo di Nasrin Sotoudeh. Avvocata impegnata per i diritti umani nota in tutto il mondo, era stata incarcerata nel giugno 2018 e condannata nel marzo 2019 a 33 anni di carcere (di cui 12 almeno da scontare) per “propaganda contro il sistema” e altre accuse. Nel video del 7 novembre diffuso sui social, il volto di Nasrin è coperto dalla mascherina ma si vede la gioia negli occhi di questa madre 57enne, mentre riabbraccia il figlio adolescente. Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, oggi le conferirà le chiavi della città, che saranno consegnate a suo nome all’attivista del Movimento Donne Iraniane Sabri Najafi. In un audio, Sotoudeh ringrazierà per il riconoscimento ricevuto “nell’adempimento dei suoi doveri professionali”. Anche la sua condanna è legata a questi doveri, sottolinea con preoccupazione un comunicato dell’Onu, che chiede alle autorità di Teheran che il rilascio temporaneo per motivi di salute sia reso permanente. Sotoudeh ha il Covid: lo ha reso noto il marito Reza Khandan tre giorni dopo il rilascio. Anche lui risultato positivo, teme che se la moglie fa dichiarazioni che non piacciono al governo, possa tornare in carcere o vedersi negate le cure. Una delle ragioni per cui Sotoudeh è stata condannata è aver difeso le donne che si sono battute contro l’obbligo del velo in Iran. Il 9 novembre la Corte Suprema ha rifiutato la revisione del processo di Saba Kord Afshari, 22enne che deve scontare 15 anni di carcere per aver “diffuso corruzione e prostituzione” manifestando senza hijab. Un’altra ragazza, Nasibeh Shamsaie, che si era tolta il velo sul monte Daravand e poi è fuggita in Turchia, rischia la deportazione per ingresso illegale e falsificazione di documenti. Sotoudeh ha fatto da avvocato a prigionieri politici che nessuno voleva difendere. Ora ci sono giovani che rischiano di finire sul patibolo per le manifestazioni del 2017 e 2019. “I sogni di Nasrin sono lontani dall’essere realizzati”, nota Najafi. “Spero che le tante città italiane che le stanno dando riconoscimenti possano anche fare qualcosa di concreto”. Hong Kong. “Sono colpevole”, Joshua Wong attenderà la sentenza in carcere di Serena Console Il Manifesto, 24 novembre 2020 Insieme a lui anche i due attivisti Agnes Chow e Ivan Lam hanno riconosciuto le loro responsabilità per il reato di istigazione e partecipazione alla manifestazione non autorizzata. Poche ore prima del processo che si è tenuto ieri a Hong Kong, Joshua Wong, volto noto del movimento democratico dell’ex colonia britannica, ha reso noto che in udienza si sarebbe dichiarato colpevole di aver organizzato lo scorso anno una protesta non autorizzata fuori dal quartier generale della polizia. Insieme a lui anche i due attivisti Agnes Chow e Ivan Lam hanno riconosciuto le loro responsabilità per il reato di istigazione e partecipazione alla manifestazione non autorizzata. All’inizio avevano dichiarato di volersi difendere dalle accuse per assenza di prove, ma con i loro avvocati hanno optato per un’ammissione di colpevolezza. Un cambio concordato con la difesa per invitare il giudice a tenere conto della loro giovane età e del fatto che non c’è stata alcuna violenza durante la protesta. Ma non è servito. I tre sono sottoposti a custodia cautelare e saranno processati il prossimo 2 dicembre, quando potrebbe scattare una pena fino a tre anni di reclusione. L’eventuale carcerazione di Wong indebolirebbe il movimento democratico della città, già fiaccato dalla Legge sulla sicurezza nazionale per cui sono detenute 31 persone. A differenza di quanto fece nel corso dell’Umbrella Revolution del 2014, Wong ha mantenuto un profilo più basso durante le manifestazioni dello scorso anno; tuttavia, il suo continuo attivismo non piace al Pcc, che lo vede come una pedina dei Paesi stranieri. Da tempo il giovane attivista difende le sue posizioni in tribunale, denunciando l’erosione dell’autonomia del sistema giudiziario di Hong Kong. Nel 2019, Wong è rimasto in carcere per due mesi dopo una condanna per oltraggio alla corte; lo scorso settembre è stato rilasciato su cauzione dopo le accuse di aver partecipato alla manifestazione non autorizzata per commemorare gli eventi di Piazza Tiananmen di Pechino e di aver violato, in quell’occasione, la legge che vieta l’uso delle maschere durante i raduni pubblici. Con la scusa della pandemia e della legge sulla sicurezza, la polizia della città utilizza misure più aggressive per indebolire il movimento di protesta. Prima di essere scortato in carcere, l’attivista ha scritto su Twitter che l’attenzione dovrebbe andare invece ai 12 giovani hongkonghesi detenuti da mesi a Shenzhen, dopo essere stati fermati dalla polizia cinese in fuga verso Taiwan. Egitto. Patrick Zaki in prigione, Alaa Abdel Fattah in lista nera di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 novembre 2020 Rinnovata di altri 45 giorni la detenzione preventiva per il giovane studente egiziano, mentre 28 attivisti finiscono nella black list del terrorismo. Un rapporto denuncia violenze sulle prigioniere politiche nel carcere di Al-Qanater. E oggi la Commissione d’inchiesta su Giulio Regeni sente l’ex premier Matteo Renzi. “Ancora altri 45 giorni per Patrick in prigione. Niente di nuovo”. Così domenica la pagina Facebook “Patrick Libero” dava notizia dell’esito dell’ennesima udienza del giovane studente egiziano di fronte al Tribunale penale del Cairo: si allunga ancora, di un mese e mezzo, la custodia cautelare. “Nei 9 mesi di detenzione di Patrick Zaki, gli avvocati hanno presentato le prove della falsificazione del suo verbale di sequestro, la mancanza di obiettività e serietà delle accuse e l’illegalità della sua continua detenzione preventiva, dimostrandone più di una volta la nullità. Ma ogni volta la detenzione viene rinnovata senza alcuna base legale, rendendo la detenzione preventiva una punizione in sé e per sé”. Nessuna indicazione, aggiungono gli attivisti, che “sia stata condotta una seria indagine. Né il tribunale né l’accusa hanno presentato alcuna motivazione per la loro decisione”. Eppure la prigionia con l’accusa di terrorismo continua, accompagnata da qualche giorno da quella di tre membri della ong con cui Zaki collaborava, l’Eipr. Ieri diplomatici europei si sono ritrovati fuori dalla Procura per la sicurezza dello Stato, durante l’udienza per i tre (tra cui il direttore Gasser Abdel Razek, di cui ieri Eipr denunciava le terribili condizioni di prigionia, in isolamento), arrestati a seguito di un incontro a inizio novembre con 14 rappresentanti di paesi europei, tra cui l’Italia. Nelle stesse ore veniva reso noto l’inserimento di 28 egiziani nella lista nera redatta (in modo molto opaco) dal Tribunale penale del Cairo di “entità terroriste” contro cui far pesare cinque anni di restrizioni (divieto di espatrio, congelamento dei conti, confisca del passaporto, tra gli altri). Tra loro il noto blogger Alaa Abdel Fattah, l’ex candidato alla presidenza Abdelmoneim Aboul Fotouh, entrambi già dietro le sbarre, l’avvocato Mohammed al-Baqer e altri attivisti. Sempre ieri WeRecord, organizzazione per i diritti umani, che monitora Egitto e Medio Oriente, denunciava casi di violenze nel carcere femminile di Al-Qanater. Le guardie carcerarie avrebbero compiuto aggredito le prigioniere politiche, picchiate e private degli effetti personali fondamentali (cibo, medicine, acqua). Cinque di loro sarebbero state trasferite insieme a criminali comuni. Già due mesi fa era stato denunciato il divieto di ricevere visite per molte prigioniere politiche, che da tempo vivono in condizioni pessime, sottoposte ad abusi fisici e psicologici, spesso private di cure mediche adeguate. È in questo contesto che prosegue la battaglia per la verità per Giulio Regeni, vittima di un regime che opera sistematicamente per soffocare qualsiasi voce critica, vera e presunta. Dopo l’annuncio della Procura di Roma di un prossimo rinvio a giudizio dei cinque sospettati dell’omicidio del ricercatore, oggi alle 14 la Commissione d’inchiesta parlamentare sentirà Matteo Renzi, primo ministro all’epoca della sua uccisione, a inizio 2016.