Ministero della giustizia: è come se il suo ministro fosse latitante di Valter Vecellio Italia Oggi, 23 novembre 2020 La Giustizia Cenerentola: non ce n’è traccia nelle agende delle forze politiche, di governo come di opposizione; lo stesso ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, brilla per la sua assenza. La situazione nelle carceri, per esempio: da sempre in emergenza, più che mai in questi giorni di pandemia. A occuparsene, il “solito” Partito Radicale. Il segretario Maurizio Turco e la tesoriera Irene Testa denunciano che per prevenire l’emergenza Covid-19 nelle carceri si è fatto poco o nulla: “La situazione è ulteriormente peggiorata, ormai appare fuori controllo”. L’ex parlamentare radicale Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, assieme a decine di militanti, è in sciopero della fame, chiede urgenti provvedimenti: “Gli ultimi dati ci dicono che i casi positivi tra i detenuti sono arrivati a 537 e fra gli operatori, agenti compresi, a 737”. Numeri che crescono con allarmante rapidità: l’8 ottobre del 2020 le cifre ufficiali diffuse dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parlavano di 34 detenuti contagiati, e di 61 operatori di polizia. Un sindacato della Polizia penitenziaria, l’Osapp, fa sapere che in due settimane i numeri dei contagiati, tra detenuti e personale penitenziario, sono aumentati del 600%. Tutto questo a fronte di una popolazione carceraria che aumenta: in 47 mila posti ufficiali sono stipati oltre 54.800 detenuti. Scende in campo anche l’Unione delle camere penali: “I provvedimenti adottati sino ad ora appaiono totalmente inadeguati ad affrontare la nuova ondata del virus, che si presenta molto più pericolosa e cruenta della prima”. Ma emergenza Giustizia non è solo la situazione delle carceri. Una cartina di tornasole sono i cosiddetti “errori giudiziari”, molto spesso sono veri e propri “orrori”. Dal 1991 al 2019 se ne sono censiti ben 28.893, circa mille l’anno; più di tre al giorno. Si tratta di “errori/orrori” che segnano in modo indelebile chi ne è vittima, e le loro famiglie; e comportano un oneroso peso in termini economici: ogni anno, circa 28 milioni e 400 mila euro di risarcimenti e indennizzi; dal 1991 al 2019 circa 824 milioni di euro. Nel solo 2019 il ministero dell’economia ha dovuto pagare 44 milioni 894 mila 510 euro. Come si vede, cifre da capogiro; e occorre tener presente che i casi di ingiusta detenzione potrebbero essere molti di più: il “censimento” tiene presente solo i casi in cui si giunge a un effettivo risarcimento. Accade infatti che delle domande di riparazione presentate alle Corti d’appello, una gran parte viene respinta: almeno un terzo. Innocenti in manette e risarcimenti milionari. Ecco l’Italia dei 1.500 errori giudiziari all’anno di Giuditta Mosca it.businessinsider.com, 23 novembre 2020 In Italia ogni anno lo stato risarcisce in media mille persone ai cui polsi sono scattate ingiustamente le manette. A fronte di questi svarioni, lo stato spende - sempre in media - 28 milioni e 400mila euro ogni anno. Il fenomeno è però più ampio: oltre alle mille persone ingiustamente detenute che in media vengono risarcite ogni anno, c’è una fetta consistente di persone - circa l’80% - le quali o si vedono rifiutare un risarcimento o decidono di non chiederne uno, sature di tribunali, avvocati e udienze. Sono numeri che vanno contestualizzati: esiste dal 1992, seppure indirettamente, una sorta di Osservatorio del fenomeno, diretto non come ci si potrebbe attendere dal ministero di Giustizia ma da quello dell’Economia e delle finanze, chiamato a staccare assegni in favore delle vittime di una giustizia sommaria. Questo osservatorio, che è più un registro contabile, certifica che, dal 1992 fino alla fine del 2019, i casi di ingiusta detenzione sono stati 28.893 per un costo totale di 823.691.326,45 euro. Più di 800milioni di euro che tutti i contribuenti hanno pagato per correggere gli errori di pochi giudici. Rispetto al 2018 i numeri sono in aumento, 105 arresti ingiusti in più e aumento del 33% dei risarcimenti. Per approfondire la questione ci siamo avvalsi del parere di Benedetto Lattanzi, uno dei motori che alimenta il portale Errori Giudiziari. Bufale e fraintendimenti - “I numeri degli errori giudiziari - dice Lattanzi - sono una costante. Una delle cause può essere la superficialità delle indagini durante la fase investigativa che può generare tante falle che poi, come una valanga, travolge tutto. Analizzando le 815 storie raccolte sul nostro sito un’altra causa è quella del non corretto uso delle intercettazioni”. Succede che le parole dell’intercettato vengano capite o interpretate male. “In un caso l’intercettato parlava di mozzarelle di bufala che gli investigatori hanno creduto essere droga, in un altro caso dei pezzi di ricambio per le auto sono diventati simbolo di traffici illeciti”. L’uso frequente che i criminali fanno di frasi in codice spinge gli inquirenti a credere che molte parole siano da decifrare, anche quando non ce n’è bisogno. Il pregiudizio fa cadere il principio per il quale, fino al momento di un’eventuale condanna, ogni cittadino è innocente. Un caso su tutti per fare capire bene di cosa stiamo parlando. Una consonante vale 20 anni di carcere - Siamo in Puglia, nel 1995. A San Giorgio Jonico è stato trovato il corpo senza vita di Lorenzo Fersurella. Fin dalle prime battute delle indagini gli inquirenti sospettano Angelo Massaro, amico della vittima. Le intercettazioni convincono gli investigatori della colpevolezza dell’uomo: durante una telefonata Massaro dice alla moglie che sarebbe rincasato tardi dal lavoro perché doveva trasportare un muers che, in dialetto tarantino, è un oggetto ingombrante. Gli inquirenti hanno capito “muert”, ossia un morto. Gli investigatori hanno ceduto al facile richiamo degli ambienti della criminalità, nei quali girava la voce che Fersurella fosse stato ucciso da Massaro per motivi legati alla droga. L’avvocato di quest’ultimo non si è avvalso di testimoni che avrebbero potuto rivelarsi utili al suo assistito. Ci sono voluti 20 anni per ristabilire la verità e ridare la libertà a Massaro il quale, è stato appurato in sede di riesame, era da tutt’altra parte nelle ore in cui si è consumato l’omicidio Fersurella. Il ruolo dei testimoni oculari e delle confessioni - “Un altro motivo di errore può essere la scarsa affidabilità dei testimoni oculari. Tanti studi scientifici hanno dimostrato che se viene ascoltato dopo diverso tempo, non ha più chiara la situazione che ha visto”, spiega Lattanzi. Tra questi studi spiccano delle ricerche svolte negli Usa a metà degli anni Ottanta del secolo scorso e diversi lavori italiani. Un ampio catalogo di reazioni che la memoria può avere con il passare del tempo o a seconda di quanto sono cruente le scene a cui si è assistito. “Ci sono anche le false confessioni, quelle dovute alle pressioni psicologiche che gli investigatori possono esercitare durante le indagini ma anche quelle di collaboratori di giustizia che, pure di ottenere uno sconto di pena, a volte inventano accuse contro qualcuno”. In questa sfera rientra il caso di Enzo Tortora, accusato da alcuni pentiti camorristi di essere un trafficante di droga. Oggi sappiamo che il caso Tortora, ampiamente seguito e documentato dai media, è spettrale da ogni angolazione lo si guardi: dire che è stato accusato da malavitosi è limitante. Uno di questi, Giovanni Pandico, era in carcere per avere ucciso due impiegati pubblici che non gli hanno rilasciato un certificato in tempi (secondo lui) accettabili. La pubblica accusa lo aveva definito paranoico e schizoide. Peculiarità che hanno perso valore specifico sul fronte delle accuse mosse a Tortora. Altra causa all’origine degli svarioni della giustizia sono gli avvocati non sufficientemente navigati per affrontare processi di una certa complessità e uno squilibrio tra accusa e difesa. Ci si può trovare confrontati, per esempio, con fascicoli processuali di migliaia di pagine a cui gli uomini che rappresentano lo stato possono dedicare più risorse di quanto non possa fare un avvocato difensore. “Ci sono anche le indagini difensive, il cui costo è elevato”, conclude Lattanzi. Non tutti se le possono permettere. Il divario tra Nord e Sud - I dati assoluti relativi al solo 2019 mostrano che, otto delle 10 città con più errori giudiziari sono al Centro - Sud. Non abbiamo dati attuali per tracciare un parallelo tra errori giudiziari e processi celebrati in ogni singola regione ma, secondo il parere di Benedetto Lattanzi, “negli ultimi anni c’è una tendenza ad avere più errori al Sud piuttosto che al Nord. Questo probabilmente anche perché al Sud si fanno più operazioni contro le associazioni mafiose, operazioni durante le quali si arrestano centinaia di persone”. Nel napoletano il numero più grande (129) di vittime di errori giudiziari. Il meno ingente a Palermo (39). Va sottolineato che queste cifre riguardano le persone che hanno chiesto un risarcimento e non sono i numeri assoluti di chi ha subito condanne ingiuste. Sempre relativamente al 2019, per quanto riguarda le prime 10 città per risarcimenti, Reggio Calabria (9,3 milioni di euro) e quella a cui ne vengono versati di più. In coda c’è Venezia, con poco più di 1,3 milioni di euro. Milano, tra le dieci città per numero di sentenze sbagliate non figura in questa graduatoria, al suo posto c’è Lecce (con 1,8 milioni di euro di risarcimento). Anche se seguendo geometrie alterne, sono gli abitanti del meridione a essere i più penalizzati dagli svarioni della giustizia. Errori dei magistrati - Nel 1987, in seguito alla vicenda Tortora, i radicali hanno lanciato un referendum affinché ai giudici fosse imputabile la responsabilità dei propri errori (dolosi o gravi). Alle urne i cittadini hanno accolto la consultazione con l’83% dei voti favorevoli ma il parlamento non li ha ascoltati e la “legge Vassalli”, (legge 117 del 1988) sposta sullo stato l’eventuale danno cagionato dai magistrati sui quali, nel caso in cui il torto fosse dimostrato, lo stato può rivalersi. Ponzio Pilato di stato - Nel 2015, il governo Renzi ha rivisto la legge Vassalli aumentando, in linea teorica almeno, le possibilità di ricorso dei cittadini vittime di sentenze sbagliate e imponendo allo stato l’obbligo di rifarsi sui giudici autori di errori. La riforma, accolta da tutti i parlamentari tranne quelli del M5s, ha aperto due fronti che non hanno dato frutti: giudici e magistrati continuano a sbagliare e lo stato continua a pagare. Si è messo un cerotto su una ferita profonda, più per adeguarsi alle normative sovranazionali che per risolvere un problema reale. L’allora ministro di Giustizia, Andrea Orlando, ha salutato la riforma dicendo: “È un passaggio storico. La giustizia sarà meno ingiusta e i cittadini saranno più tutelati”. L’Associazione Nazionale dei Magistrati ha ritenuto che la riforma fosse una legge contro i magistrati, così come interpretata all’epoca dal presidente Rodolfo Sabelli. Si può dire, al di là di tecnicismi e leggi di ampia interpretazione, che in Italia la giustizia sbaglia con leggerezza e che la politica si limita al trasformismo cerchiobottista, tentando di mantenere equilibri improbabili tra la folla armata di incudini e il potere giudiziario dotato di martello. Uno dei risultati visibili di questo scollamento dalla realtà dei fatti lo ha interpretato e diretto il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede a gennaio di questo 2020, sostenendo che gli innocenti non finiscono in carcere. Un anno prima, nel pieno dell’inverno 2019, il magistrato Piercamillo Davigo ha sostenuto che in Italia pochi vanno in galera e che nessuno ci va per sbaglio, sostenendo che chi viene liberato per ingiusta detenzione è solo un delinquente che l’ha fatta franca. Il sistema, per Davigo, non sbaglia mai ed è anche galantuomo. Davigo ha fatto parte del pool Mani pulite e per quindici anni ha ricoperto il ruolo di consigliere della Corte suprema di cassazione. Una voce autorevole. Il risultato, a quasi quarant’anni dal caso Tortora che ha spinto il Paese a chiedersi quanto potesse costare a un uomo un errore della giustizia, è conciso ed evidente: per i giudici un errore è un errore, per chi lo subisce può coincidere con una vita vissuta a metà. C’è un forte disequilibrio. Non c’è pillola politica che possa ridurre questo divario, occorre una soluzione tecnica: una patente per magistrati e giudici, da cui defalcare punti in caso di errore. Esaurito il credito disponibile, giudici e magistrati lasciano spazio a un avvicendamento. Le vie del ricorso - “Oggi, spiega Benedetto Lattanzi, chi si ritiene danneggiato fa causa alla presidenza del Consiglio e poi, nel caso in cui lo stato venga condannato, deve rivalersi sul magistrato ma, negli ultimi 30 anni i magistrati condannati si contano sulle dita di una mano. Occorre dimostrare il dolo e i tempi sono lunghissimi, ci vogliono tre gradi di giudizio”. Il risarcimento è poca cosa: 235,82 euro per ogni giorno passato ingiustamente in carcere e la metà (117,91 euro) per ogni giorno passato ai domiciliari. Il limite massimo previsto dalla legge è di 516mila euro e spicci. “Lo stato ha stretto la cinghia e ignora i danni collaterali che la persona ingiustamente detenuta ha dovuto subire”. Effetti collaterali che coinvolgono anche i famigliari delle vittime degli errori compiuti nei tribunali, una cascata di ricadute negative che possono compromettere salute fisica e psicologica, carriera e inserimento sociale. Una giornata per le vittime degli errori giudiziari - I radicali hanno preparato una proposta di legge per una Giornata nazionale dedicata alle vittime della giustizia. Proposta accettata che verrà discussa in parlamento ma che ha subito forti opposizioni, non soltanto dal M5s. Tra i contrari spicca il parere del senatore Pd Franco Mirabelli, secondo il quale “La proposta per una giornata per le vittime di errori giudiziari è pericolosa perché aumenta il rischio di strumentalizzazioni; alla collettività potrebbe arrivare il messaggio sbagliato per cui la magistratura si atteggia a persecutore giudiziario”. Anche questo dimostra che stato e politica appaiono ben lungi dal comprendere la reale portata di un fenomeno che può essere certamente arginato, a patto che venga affrontato. “Non si decide delle sorti delle persone in streaming” di Antonio De Notaristefani Il Dubbio, 23 novembre 2020 L’appello del presidente dell’Uncc Antonio de Notaristefani. “Ok la prudenza, ma se le sorti di cui si discute fossero le mie, forse avvertirei un qualche disagio nel venire a sapere che sono state decise da persone che non hanno studiato gli atti”. L’appello del presidente dell’Unione delle camere civili. Io comprendo perfettamente che, nella situazione in cui ci troviamo, ragioni di cautela impongono di ridurre spostamenti ed assembramenti; ma sono, e resto contrario, alla possibilità di recente introdotta di svolgere la Camera di consiglio da remoto, in Cassazione. Per quanto ne so io, oggi funziona così: il Presidente ed il Relatore ricevono la cd. carpetta, che contiene la copia degli atti del giudizio di cassazione e della sentenza impugnata. Gli altri Componenti del Collegio non hanno nulla. Ci si riunisce in videoconferenza, ciascuno da casa propria tranne uno che è in ufficio, ed ha la disponibilità del fascicolo. Il Relatore fa la sua relazione, che riguarda atti che gli altri non hanno mai letto e che, si badi - perché da remoto la differenza sostanziale è questa - non possono nemmeno leggere sul momento, se vogliono approfondire, perché non sono consultabili via internet: al massimo, possono chiedere a chi è presente in sede di leggerglieli. In sostanza, la maggioranza dei Componenti del Collegio decide ricorsi che non ha mai letto, e che non può neppure sfogliare al momento di decidere per esaminare i punti essenziali: fa una valutazione della verosimiglianza e della coerenza della relazione. L’obiezione è scontata: può farseli leggere da remoto. Risponderei con una domanda, anzi due: per voi, leggere o farsi leggere da un terzo è la stessa cosa? E non vi è capitato mai di dover rileggere più volte un periodo o una frase, prima di essere certi di aver capito bene? Che succede, in quei casi? Chi è presente in sede rilegge più volte, magari per decine di ricorsi? Ed ancora. Oggi, si decidono ricorsi successivi al 2012, quando le Sezioni unite hanno “ammorbidito” l’autosufficienza, indicando che non è più indispensabile trascrivere, ma basta la indicazione precisa dell’atto cui si fa riferimento, e della sua collocazione: ridiventerà necessaria quella trascrizione che spesso non c’è su indicazione delle Sezioni unite e del protocollo, ora che lo stesso Relatore quegli atti non li vede più? Sia ben chiaro: ho la massima stima dei Componenti della Corte, e sono certo che faranno miracoli per assicurare il miglior livello delle decisioni; ma quella è la Corte di ultima istanza, dove si discute e decide definitivamente delle sorti dei cittadini. Per questo, debbo confessarlo: pur comprendendo le esigenze della prudenza, se le sorti di cui si discute e decide fossero le mie, forse avvertirei un qualche disagio nel venire a sapere che sono state decise da persone che, nella loro maggioranza, non solo non hanno studiato gli atti della mia causa, ma non li hanno mai nemmeno visti, perché erano a molti chilometri di distanza. So che la ricerca dell’equilibrio tra una sentenza pronta ed una sentenza giusta è difficile sempre, ed in periodo di pandemia in modo particolare; ma forse anche per questo sarebbe bene che a valutare tutti gli elementi da bilanciare per cercare di raggiungerlo concorressero anche coloro che della giustizia usufruiscono, e non soltanto quelli che la dispensano. Consentirebbe di ponderare tutti i diversi punti di vista ed interessi, perché non esistono diritti che prevalgono sugli altri, e quello ad avere giustizia ha la stessa dignità di quello alla salute. Magistrati divisi, nulla di fatto per il presidente Anm di Liana Milella La Repubblica, 23 novembre 2020 Salta l’ipotesi di due donne al vertice, Maddalena e Albano. Le correnti non si mettono d’accordo. Anche il programma passa a maggioranza, ma il voto sul presidente finisce con 28 schede bianche. Nuovo incontro il 5 dicembre ma si profila un’inedita ingovernabilità. Bruciata, al momento, anche la via di una Anm con due donne al vertice. Un inedito assoluto nella sua storia. Alessandra Maddalena di Unicost come presidente e Silvia Albano di Area come segretaria. L’ipotesi dura una notte, quella tra sabato e domenica, poi evapora. Va a sbattere contro il muro delle stesse correnti - Area e Unicost - che l’avevano lanciata per superare uno stallo imbarazzante. A un mese dal voto l’Anm non riesce a nominare i nuovi capi. E, inevitabilmente, tutti sanno che la colpa è delle correnti. Già, proprio le famose correnti del caso Palamara, quelle che trattano, o quantomeno trattavano, sui più ambiti posti di potere. Un caso, quello dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, rimosso dalla magistratura per via dell’accusa di corruzione, che ha lacerato inesorabilmente i rapporti tra la sinistra di Area, che ancora oggi si è vantata di non avere suoi uomini coinvolti, e Magistratura indipendente, il gruppo che oggi non vuole sentirsi definire come quello di Cosimo Maria Ferri, che ne è stato leader per anni, e adesso è sotto azione disciplinare al Csm per i fatti dell’hotel Champagne. Un muro oppone Area alle toghe di Mi. Che hanno respinto l’ipotesi di un ritorno alla presidenza dell’uscente Luca Poniz, proprio per la sua durezza contro di loro nella scorsa giunta. Nasce tra Area e Unicost - che in questi mesi, con un’assemblea costituente, ha avviato un lungo lavoro per uscire dal caso Palamara, suo esponente di spicco e una sorta di plenipotenziario - per garantire comunque un nuovo presidente e una nuova giunta. Maddalena al vertice e Albano, storica esponente di Magistratura democratica, il gruppo che fa parte di Area, come segretaria. Ma l’ipotesi frana al momento del voto. Dopo un scontro già sul programma. Elaborato da quattro correnti su cinque - a favore Area, Mi, Unicost, Autonomia e indipendenza - perché Articolo Centouno non ci sta, alla prova del voto incassa solo il sì di Area e Unicost, mentre tutti gli altri si astengono, Mi compresa. È il segnale - alle 14 - che non c’è intesa. Perché ancora una volta Mi si mette di traverso, forse per il miraggio di una Anm separata, mentre il gruppo fondato da Piercamillo Davigo, A&I, deve fare i conti con le iniziative di Articolo Centouno. Sono quattro per gruppo. E non hanno i numeri per bloccare la presidenza che però comporta l’intesa tra Area, Unicost e la stessa Mi per raggiungere il tetto dei 19 voti necessari. Slitta tutto al 5 dicembre. Ma non si ricorda, a memoria, un simile stallo soprattutto quando il Covid da una parte, e la questione morale dall’altra, richiederebbero invece una corale unità. Fino a sabato notte pareva proprio che una outsider avrebbe potuto essere la seconda donna al vertice dell’Anm. Ce n’è stata solo una in oltre cento anni, Elena Paciotti nel 1994-95, e poi ancora nel 1997-98. Due bienni. La prossima avrebbe potuto essere Alessandra Maddalena, iscritta a Unità per la Costituzione, classificatasi prima tra i suoi sette colleghi con 412 voti nelle elezioni del 18-20 ottobre. Il suo nome è stato in pole per tutto sabato. Quando la corrente di sinistra di Area ha preso atto dell’impossibilità di rieleggere il presidente uscente Luca Poniz, il più votato con 739 voti, per via del no di Magistratura indipendente che gli rimprovera una conduzione dura ai loro danni dopo l’esplosione del caso Palamara. A questo punto Area ha pensato che l’unica via potesse essere quella, pur da corrente giunta al primo posto, di “cedere” la presidenza a un altro gruppo. Nel caso specifico Unicost, corrente di centro, che ha subito un forte calo di consensi per via proprio del caso Palamara, tant’è che dal primo posto come gruppo più votato è scivolata al terzo posto dopo Area e Mi. Il governo delle toghe avrebbe visto assieme quattro correnti, Area, Unicost, Mi, Autonomia e indipendenza. La stessa Area però avrebbe conservato per sé la segreteria destinata a Silvia Albano, la più votata dopo Poniz con 381 voti. Una strategia per compattare le anime di Area. E un team femminile che corrisponde anche ai numeri della magistratura, ormai composta per oltre la metà di donne. Senza contare che la magistratura ordinaria avrebbe seguito da presso quella amministrativa, visto che il 6 ottobre le toghe del Consiglio di Stato hanno eletto presidente del loro sindacato Rosanna De Nictolis, già componente del Comitato di presidenza ai tempi del caso Bellomo, e come sua vice Luciana Barreca. Ma chi è Alessandra Maddalena? È un giudice del tribunale di Napoli. Non solo sarebbe arrivata al vertice una donna, ma si sarebbe anche spezzata la lunga sequenza di presidenti che arrivano dal mondo delle procure. Piercamillo Davigo nel 2016, noto ex pm di Mani pulite; seguito un anno dopo da Francesco Minisci di Unicost e pm a Roma; nella rotazione seguito ancora da Eugenio Albamonte, anche lui pm a Roma, quindi da Luca Poniz, pm a Milano. E prim’ancora Rodolfo Sabelli, procuratore aggiunto a Roma e Luca Palamara, ai tempi pm sempre a Roma. Stavolta invece si poteva cambiare sesso, e sullo scranno di presidente non solo poteva sedere una donna, ma anche un giudice. Giudice anche la possibile segretaria Silvia Albano che a Roma si è occupata prima di problemi delle donne e adesso del diritto dei migranti. Abbiamo chiesto un giudizio flash su Alessandra Maddalena a chi la conosce bene come Giuliano Caputo, pm a Napoli ed ex segretario dell’Anm che ha appena chiuso il suo mandato biennale, anche lui di Unicost: “Alessandra ha cominciato a lavorare a Torre Annunziata, ora è giudice del tribunale del riesame di Napoli. È molto brava, benvoluta dai colleghi e stimatissima professionalmente. Si è occupata molto di informatica e innovazione negli uffici giudiziari”. Un giudizio come possibile presidente? “Io la conosco da anni, ho sentito il suo intervento alla prima riunione del Comitato direttivo centrale e mi è piaciuto. Anche alcuni colleghi degli altri gruppi la stanno apprezzando”. Ma può essere un buon presidente? Replica Caputo: “Sicuramente ha la capacità per farlo. È sveglia, impara presto ed è determinata, volitiva, capace di organizzare e organizzarsi come voi donne sapete fare quasi sempre molto meglio di noi uomini...”. Antonio Ingroia: “Virus, mafie e il bandito Giuliano. Così catturo l’attenzione” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 23 novembre 2020 Intervista all’ex pm dell’inchiesta “Trattativa”. La sua ultima sortita sulla ‘ndrangheta dietro la pandemia ha infiammato il web. “Era una boutade, ma io dico cose che gli altri non dicono”. Ora fa l’avvocato e difende imprenditori accusati di collusioni mafiose. “Sul traditore di Borsellino penso a due nomi, di magistrati”. Ha appena infiammato il web dichiarando al talk show di Klaus Davi che dietro la pandemia potrebbe esserci anche l’ndrangheta. “Poco più di una boutade - sorride l’ex pm oggi avvocato Antonio Ingroia - era un’ipotesi dopo alcuni ragionamenti sui possibili complotti delle multinazionali del vaccino e sugli interessi delle mafie in questo momento storico”. Qualcuno ha detto che Antonio Ingroia vuole sempre stupire in ogni sua dichiarazione. È così? “Diciamo che mi piace veicolare contenuti importanti con una comunicazione alta, per catturare l’attenzione”. Non c’è il rischio che sparandola grossa si possa creare l’effetto contrario? “Dico cose che gli altri non dicono. O per autocensura, o perché non le vedono. È un mio vanto essere visionario e controcorrente, sono sempre fuori dal gregge”. Quando era ancora magistrato stupì dicendo che l’unica squadra della legalità è l’Inter. Lo pensa ancora? “È assolutamente così. Anche se in questo caso sono meno imparziale, vista la mia passione per l’Inter. Mi vanto di essere stato amico del presidente Moratti, la sua famiglia ha sempre avuto la legalità fra le priorità. Al contrario di altre società”. Voleva stupire anche con l’indagine sul bandito Giuliano? Ipotizzava che non ci fosse il suo cadavere al cimitero. “Chiariamo, io non ho mai fatto indagini per stupire. Io facevo inchieste che altri non avrebbero neanche pensato di fare”. Come arrivò a Giuliano? “Lo storico Casarrubea aveva trovato dei documenti molto interessanti. C’era solo un modo per affrontare la questione. L’esame del Dna, voglio ricordare, non ha dato risposte definitive”. L’uscita di maggiore effetto l’ha raggiunta con le dimissioni dalla magistratura. Quando la decise? “Un giorno dissi ai colleghi che con me seguivano il fascicolo sulla Trattativa: “È il momento di chiudere l’indagine, non prenderemo più nulla. Dobbiamo andare dritti all’udienza preliminare”. Non c’era più spazio per andare avanti. Anche l’allora presidente dell’Anm, Luca Palamara, era schierato con il presidente della Repubblica Napolitano. Eravamo isolati. Già allora stavo maturando la decisione di lasciare la magistratura. Quando poi decisi il mio impegno in politica lo feci per dare un servizio proprio alla magistratura”. Qualcuno l’aveva incoraggiato in questo percorso? “Nomi importanti mi avevano convinto che ci sarebbe stato un accordo con il Pd. Da Leoluca Orlando ad Antonio Di Pietro, ad Oliviero Diliberto. Ma così non fu. Bersani non volle neanche confrontarsi con me. E Vendola, all’epoca capo di Sel, mi chiamò perché rinunciassi al progetto di Rivoluzione Civile, offrendomi un posto di senatore. Rifiutai. In meno di due mesi ebbi i voti di quasi un milione di persone”. Adesso, come si sente nella non comoda veste di imputato condannato, per la vicenda Sicilia e-servizi? Qualche rimpianto per avere lasciato la toga? “Nessun rimpianto. Ho fatto una carriera di cui sono orgoglioso, ho avuto il privilegio di lavorare al fianco di Falcone e soprattutto di Borsellino, il mio maestro. E ho vinto tutti i processi, da Contrada a Dell’Utri, alla Trattativa. Sicilia e-servizi è stata una esperienza importante, ho fatto risparmiare svariati milioni di euro. Sono stato condannato per l’accusa che ritengo più ridicola, ma soprattutto assolto dall’accusa più grave. E rilevo che da quando mi sono dimesso c’è stata una speciale attenzione nei miei confronti soprattutto da parte della nuova procura palermitana”. Come valuta l’ex presidente Crocetta? “Dal punto di vista etico e umano, positivamente. Ma politicamente è stato timido. Aveva promesso una rivoluzione, che non c’è stata”. Colpa dell’influenza di Montante? “Non credo abbia pesato nelle sue scelte politiche. Ma io all’epoca mi occupavo solo di informatica”. Si racconta che una sera fece da paciere in una lite fra Montante e il collega di Confindustria Lo Bello. “All’epoca era già indagato, e mi voleva come suo avvocato. Poi, ha preso altre strade. Quella sera si discuteva di un documento di solidarietà a Montante che Lo Bello non voleva firmare”. Quanto ha pesato l’antimafia farlocca di Montante e Saguto? “Non hanno fatto bene all’antimafia né l’uno né l’altra. Ma non li metterei sullo stesso piano. La Saguto era rappresentante delle istituzioni e della magistratura. Montante no”. Con alcuni suoi ex colleghi si ritrova faccia a faccia nelle aule dove lei difende imprenditori accusati di essere vicini alle cosche. Un’altra scelta che ha stupito. “Difendo solo persone di cui sono convinto della loro innocenza. Ci sono ad esempio degli imprenditori che sono stati messi ingiustamente sotto processo dalla procura di Palermo”. Ingroia che attacca la procura di Palermo è un altro colpo ad effetto. “Mi spiace dirlo, nella procura di Palermo di oggi c’è un profondo fraintendimento del concorso esterno in associazione mafiosa. Non distinguono l’atto di complicità con la posizione della vittima che ha paura e non denuncia”. Oggi, però, lo Stato ha dimostrato di essere più forte. “Plaudo a chi denuncia. Ma accanto agli imprenditori virtuosi ci sono anche gli imprenditori timorosi”. Cosa c’è nel futuro di Ingroia? “In questo momento faccio l’avvocato, con grande soddisfazione. Ho uno studio a Roma, uno a Palermo, uno a Milano e un altro in America, dove mi occupo di consulenza agli imprenditori italiani all’estero, o che all’estero vogliono investire. Di politica continuo ad occuparmi, ma sto ai margini di questa politica gridata”. Come mai ha fra i nuovi collaboratori Pippo Ciuro, l’ex maresciallo della Dia suo braccio destro in procura, condannato per l’inchiesta su Aiello, il re della sanità vicino a Provenzano? Era stato proprio Ciuro a presentargli Aiello, quando doveva fare dei lavori in una casa di famiglia. “Credo che all’epoca non sapesse chi fosse davvero Aiello, era in buona fede. Poi, per anni, non ci siamo visti né sentiti con Ciuro, che ha commesso degli errori. Ma adesso che ha pagato più di quanto avrebbe dovuto, non vedo perché non dovrei avere fiducia in lui”. Ha qualche libro nel cassetto? “Ci sto lavorando”. È il famoso romanzo attorno alle telefonate segrete fra Napolitano e Mancino? “Quelle intercettazioni sono segrete, e resteranno tali”. Ha ricordato Borsellino. Chi è l’amico che lo ha tradito, di cui parlò prima di morire? “Di certo è un uomo dello Stato. O appartenente alle forze dell’ordine o alla magistratura. Se facessi dei nomi rischierei di essere querelato. Ho un paio di idee, riguardo magistrati”. Sono prove documentali le registrazioni dei privati in aree condominiali o a uso comune di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2020 Respinto il ricorso che sosteneva la violazione del regime autorizzatorio per l’acquisizione della prova atipica. Da una lite tra avvocati la Cassazione penale coglie l’occasione di chiarire che il socio che videoregistra in spazi condominiali dello stabile dove si trova lo studio comune o in spazi dell’area privata, ma aperti alla vista, non commette il reato di interferenza illecita nella vita privata dell’altro socio di cui lamenta il comportamento persecutorio. E tali registrazioni ben possono fondare la condanna per stalking se risultano decisive al netto di quelle inutilizzabili perché effettuate nello spazio privato dello studio. La sentenza n. 32544/2020 rigetta come inammissibile il ricorso dell’avvocato che ricorreva contro l’applicazione della misura di prevenzione del divieto di avvicinamento, disposta in vista dell’imputazione per atti persecutori, in quanto fondata sulle registrazioni realizzate dal collega di studio in violazione dell’autorizzazione prevista per l’ammissione della prova atipica. Ma la Cassazione spiega che in tal caso non trattandosi di videoregistrazioni della polizia giudiziaria queste non soggiacevano al regime autorizzatorio previsto dall’articolo 266 del Codice di procedura penale sulla cui violazione si appuntava il ricorso dell’avvocato ricorrente. Nel caso in esame fa rilevare, infatti, la Cassazione che se sono inutilizzabili le registrazioni effettuate negli spazi privati, in violazione della tutela domiciliare, sono al contrario ammissibili ai fini della prova del reato quelle che l’avvocato denunciante aveva realizzato in aree condominiali o di uso comune. Trova applicazione su queste ultime l’articolo 234 del Cpp relativo alla prova documentale e che consente l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo, realizzati senza violazione del domicilio. Via libera al cannabidiolo prodotto in altro Stato Ue dall’intera pianta di cannabis sativa di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2020 Unico limite legittimo la tutela della salute pubblica, ma senza eccedere tale finalità. Uno Stato membro non può vietare la commercializzazione del cannabidiolo (Cbd) legalmente prodotto in un altro Stato membro, qualora sia estratto dalla pianta di Cannabis sativa nella sua interezza e non soltanto dalle sue fibre e dai suoi semi. Tale divieto, tuttavia, può essere giustificato da un obiettivo di tutela della salute pubblica ma non deve eccedere quanto necessario per il suo raggiungimento. La Corte di giustizia si è così espressa nella sentenza sulla causa originata da un rinvio pregiudiziale del giudice francese, C-663/18 (B S e C A contro Ministère public et Conseil national de l’ordre des pharmaciens). Le controparti del ministero francese sono gli ex amministratori di una società avente ad oggetto la commercializzazione e la distribuzione di una sigaretta elettronica all’olio di cannabidiolo, la molecola presente nella canapa (o Cannabis sativa) e appartenente alla famiglia dei cannabinoidi. Nel caso di specie, il Cbd era prodotto nella Repubblica ceca a partire da piante di canapa coltivate legalmente e utilizzate nella loro interezza, foglie e fiori compresi. Esso veniva poi importato in Francia per esservi confezionato in cartucce per sigarette elettroniche. La causa sulla legge francese - Nei confronti dei due amministratori è stato avviato un procedimento penale poiché, in virtù della normativa francese, soltanto le fibre e i semi della canapa possono essere utilizzati a fini commerciali. Condannati dal Tribunale penale di Marsiglia, Francia, a 18 e a 15 mesi di reclusione con sospensione condizionale della pena, nonché a 10.000 euro di ammenda, hanno impugnato la condanna davanti alla Corte d’appello di Aix-en-Provence. Ed è tale giudice che si è interrogato sulla conformità al diritto dell’Unione della normativa francese, che vieta la commercializzazione del Cbd legalmente prodotto in un altro Stato membro, qualora sia estratto dalla pianta di Cannabis sativa nella sua interezza e non soltanto dalle sue fibre e dai suoi semi. La soluzione dettata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea è che il diritto dell’Unione, in particolare le disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, osta a una normativa nazionale come quella francese che pone un rigido divieto. Lazio. Allarme Covid nelle carceri: focolai e proteste da Rebibbia a Viterbo di Salvatore Giuffrida La Repubblica, 23 novembre 2020 Positivi in aumento nei penitenziari della Regione. I detenuti in sciopero della fame. Di sera battono pentole e scodelle contro le sbarre della cella, per far sentire la loro protesta al mondo libero. Oppure rifiutano il cibo del carcere per urlare la loro rabbia e chiedere diritti e sicurezza contro il Covid. Che ormai ha portato a nudo il problema cronico delle carceri laziali: il sovraffollamento nelle celle. I detenuti protestano a Regina Coeli e Rebibbia, a Latina e adesso anche nel carcere di Viterbo, dove oltre alla battitura (le proteste con pentole e scodelle) stanno rifiutando il vitto e lo donano alla Caritas: accettano solo zucchero, caffè, acqua e tabacco, e due rappresentanti per ogni sezione del carcere viterbese sono entrati in sciopero della fame. Al ministero dell’interno l’allarme è rosso: si sta tornando al punto di non ritorno di marzo, quando le proteste infiammarono le carceri del paese. Del resto crescono i focolai nelle celle: nella sezione femminile di Rebibbia ci sono almeno 17 casi accertati, erano 6 la settimana scorsa. Pochi giorni fa nel carcere di Frosinone si sono registrati 22 casi, ora sono 16. In tutto sono poco più di 30 i detenuti positivi nel Lazio ma si tratta solo dei casi accertati: il timore, fondato, è che ce ne siano altri. Il virus è entrato di nuovo dentro il carcere dove la sua diffusione è facilissima visto che in questi giorni, per fare un esempio, a Rebibbia ci sono celle di 14o 16 metri quadrati che contano fino a 6 detenuti. I positivi sono in isolamento, ma si naviga a vista. Sospese le attività di reinserimento: niente scuola, niente lavoro all’esterno, niente legge 199 che prevede di scontare la pena fuori dal carcere al di sotto dei 18 mesi e per reati non gravi. Rimane l’ora d’aria ma martedì alcuni detenuti della sezione reati comuni di Rebibbia si sono rifiutati di rientrare in cella e altri rifiutano le mascherine. Rimangono attivi solo i servizi essenziali di vitto e pulizia ma sono sospesi corsi e laboratori, attività lavorative, studio, sport, anche l’assistenza spirituale è ridotta all’osso: due preti di Rebibbia hanno il virus. Anche le visite sono in sostanza sospese: niente volontari né familiari. L’impatto è devastante: pure a Latina, nell’istituto penitenziario di via Aspromonte, si sentono pentole e scodelle dalle 19 in poi. E se aumenta la “battitura”, la tensione sale. Gli occhi della polizia penitenziaria sono puntati sulle carceri più affollate: Rebibbia ha una capienza di mille detenuti ma ne conta 1400, Regina Coeli mille detenuti ma ne ha 200 in più del previsto e il carcere di Viterbo ha 440 posti ma 513 detenuti: difficile convivere in cella, rispettare i turni per farsi una doccia o curarsi dal medico o telefonare alla famiglia. Ed è impossibile mantenere il distanziamento. “I detenuti manifestano in maniera non violenta - spiega il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia - chiedono la riduzione del sovraffollamento: speriamo che le Camere potenzino le misure alternative. Come ha indicato il procuratore generale Salvi, occorre ridurre gli ingressi in carcere ai casi gravi e potenziare la rete di accoglienza dei detenuti con pene brevi”. Anche la Garante dei detenuti di Roma Capitale Gabriella Stramaccioni lancia l’allarme: “È urgente che la magistratura di sorveglianza applichi le leggi per alleggerire la presenza negli istituti penitenziari”. Catania. Emergenza Covid nelle carceri, manifestazione in piazza Lanza cataniatoday.it, 23 novembre 2020 I parenti dei detenuti si sono radunati nel piazzale antistante la casa circondariale: “Esisteva già il sovraffollamento, ora con il Covid rischia di diventare una bomba a orologeria”. Si sono radunati nel primo pomeriggio, nonostante la pioggia, nello spiazzale antistante la casa circondariale di piazza Lanza, l’appello era girato tramite Facebook proprio in un gruppo denominato “Amici e parenti dei detenuti catanesi” che raccoglie centinaia di familiari dei detenuti. Nello stesso giorno da Nord a Sud, davanti diversi istituti penitenziari si è manifestato per il diritto alla salute dei detenuti. “Esisteva già il problema del sovraffollamento, ora con il Covid quel problema rischia di diventare una bomba a orologeria”, dichiara Marta, il cui marito si trova in carcere. “Chiediamo interventi al ministro Bonafede. I contagi crescono per i detenuti come per la polizia penitenziaria ma si ha timore di intervenire seriamente. Giusto la settimana scorsa a Poggioreale il primo detenuto morto di Covid, cosa bisogna aspettare ancora?” riporta Simone. Dopo alcuni interventi al megafono, armati di pentole e cucchiai i familiari hanno fatto il giro del carcere. “Abbiamo voluto far sentire la nostra vicinanza a tutti i reclusi in piazza Lanza, siamo passati vicino a tutti i bracci perché in questo momento difficile nessuno deve essere lasciato solo.” concludono. Sul finire esce fuori la proposta di una raccolta di mascherine per i detenuti e le detenute che avverrà nelle prossime settimane. Intanto i presenti si dicono pronti a tornare a dicembre”. Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Covid in carcere, rivolta dei detenuti messinaoggi.it, 23 novembre 2020 Sta sempre aumentando la tensione nelle carceri alle prese con l’emergenza coronavirus. “Gli ultimi disordini si sono registrati a Barcellona, dove la positività di due detenuti ha scatenato una violenta protesta. Alcuni detenuti avrebbe forzato i cancelli, riuscendo ad aprire due celle. La tempestività della polizia penitenziaria ha evitato il peggio”: è quanto denuncia Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. “Barcellona Pozzo di Gotto è solo l’ultimo degli episodi di tensione - spiega De Fazio - ma grande e inquietante fermento si registra pure a Santa Maria Capua Vetere, già teatro di ripetuti e gravi disordini. Non vorremmo rivivere quanto già accaduto a marzo. Anche perché, rispetto ad allora, la Polizia penitenziaria è decimata negli organici, stremata nelle forze, colpita nell’orgoglio ed intimidita da una serie di procedimenti penali avviati e ancora non conclusi. Dover intervenire con organici insufficienti ed equipaggiamenti inadeguati per sedare rivolte, rischiando persino la vita, per poi essere inevitabilmente esposti a procedimenti penali senza adeguate garanzie da parte dello Stato e doverne sostenere le spese di difesa legale, umanamente, non aiuta neppure la spinta motivazionale. Chiediamo al ministro Bonafede ed al Governo di intervenire immediatamente”. Napoli. “A che bello caffé”: MeetMeTonight nei poli universitari penitenziari unina.it, 23 novembre 2020 Il Coordinamento Nazionale dei Poli Penitenziari Universitari (Cnupp) prende parte all’edizione 2020 della “Notte europea dei ricercatori in Italia”, un’iniziativa promossa dalla Commissione Europea fin dal 2005 e che vedrà quest’anno coinvolti in Italia 7 progetti per un totale di oltre 80 città. L’Università degli Studi di Napoli Federico II, che ha promosso e realizzato il polo universitario campano, partecipa con altre 4 Università al progetto “MeetmeTonight con “A che bello caffè”: riflessioni sulla ricerca, la conoscenza e il contributo di queste dimensioni al miglioramento della vita dei cittadini e all’integrazione dei detenuti. L’iniziativa avrà la forma del caffè letterario a distanza dando vita ad un dialogo tra ricercatori, detenuti iscritti alla Federico II collegati su Teams e operatori della giustizia e del campo penitenziario. Il gruppo Terza Missione della Cnupp, di cui per l’Università Federico II è referente il professore Giacomo Di Gennaro, partecipa coinvolgendo l’Istituto penitenziario “P. Mandato di Secondigliano”. Un gruppo di ricercatori federiciani presenterà i risultati di numerose ricerche che hanno interessato in questi anni il campo delle carceri e l’esperienza della didattica negli istituti penitenziari. Si porterà l’attenzione sul valore della ricerca e della conoscenza. Aprirà l’incontro il saluto del rettore della Federico II, Matteo Lorito. “La centralità - sottolinea il professore Di Gennaro - è data dalla consapevolezza che se la sostenibilità sociale implica il diritto di vivere in un contesto che possa esprimere le potenzialità di ogni individuo, l’Università contribuisce alla realizzazione di questo obiettivo anche nel complesso mondo della detenzione. Obiettivo è discutere come ricerca e conoscenza siano in grado di giocare un ruolo importante nel rendere la privazione della libertà rispettosa dei diritti fondamentali e proiettata verso il positivo reinserimento sociale, come imposto dalla Costituzione”. Gli ospiti della casa circondariale interverranno anche per raccontare la loro esperienza di studenti universitari. L’incontro, registrato, andrà in onda all’interno del Format nazionale di MeetMeTonight il 27 novembre giornata europea della ricerca. Milano. A Opera “Freedom” accoglie i ragazzi diversamente abili facendoli cavalcare di Laura Guardini milanosud.it, 23 novembre 2020 Compatibilmente con i limiti imposti dalla pandemia, la fattoria didattica-ranch-maneggio (con cavalli sequestrati alla criminalità organizzata) è aperta anche agli esterni. L’iniziativa, realizzata con contributo di Fondazione Cariplo, seguita da Giacche verdi e Polizia penitenziaria. Freedom-Libertà è il nome dato al grande maneggio, alla fattoria didattica e al ranch inaugurati un mese e mezzo fa e nel carcere milanese di Opera. Un progetto al quale hanno dato vita le “Giacche verdi” della onlus attiva con i cavalli all’Idroscalo, assieme ai membri della Polizia penitenziaria dell’istituto di pena, con il contributo di Fondazione Cariplo. L’iniziativa è sostenuta anche dal Municipio 5, attraverso la Commissione per i rapporti con Istituti penitenziari e realtà collegate, presieduta da Fabrizio D’Angelo (Forza Italia), che di questo progetto sottolinea i molteplici aspetti di rilievo educativo e sociale: dalla tutela ambientale, all’educazione al rispetto del verde; senza dimenticare la possibilità di avvicinarsi a uno sport affascinante come l’equitazione con l’assistenza delle Giacche verdi “volontari a cavallo per la protezione civile e ambientale”, come si legge nella home page del loro sito (www.giaccheverdilombardia.it/). Ma torniamo al progetto Freedom, così come è stato illustrato al suo debutto: all’evento ha partecipato anche il Garante dei detenuti di Regione Lombardia Carlo Lio, invitato dal Direttore dell’Istituto di pena Silvio Di Gregorio e dal Comandante Amerigo Fusco. “La libertà è un percorso di rieducazione e reinserimento”, è stato sottolineato: per questo i detenuti - due hanno già iniziato la loro attività - potranno imparare il mestiere del maniscalco, dell’artiere e del sellaio. Compatibilmente con i limiti imposti dalla pandemia, il maneggio è aperto agli esterni a prezzi contenuti ed è volto ad accogliere in particolare ragazzi diversamente abili. Oltre ai cavalli (si tratta di animali sequestrati alla criminalità organizzata) nel ranch ci sono asini, maialini thailandesi, pavoni, tartarughe e pappagalli. Il progetto è dunque aperto alla città, realizza uno scambio fra società esterna e struttura detentiva e offre un’opportunità di reinserimento sociale e lavorativo, dando così concretezza alla finalità riabilitativa della pena prevista dalla Costituzione e dall’Ordinamento Penitenziario. E proprio questa possibilità di apertura alla città è la chiave che il Municipio 5 si propone di trovare per stabilire un rapporto concreto con questo progetto e con le Giacche Verdi. In un momento delicato e difficile come questo che il Covid impone, il consigliere D’Angelo non vuole sbilanciarsi. Ma si intuisce che la possibilità di ospitare nel verde del Parco Sud passeggiate a cavallo organizzate con l’associazione offrirebbe un’opportunità sportiva e ricreativa e, insieme, un presidio contro il degrado. Roma. Teatro in carcere: la libertà dietro le sbarre di Camilla Dionisi abitarearoma.it, 23 novembre 2020 Ritornano le lezioni in presenza nel carcere di Rebibbia femminile a Roma grazie al progetto “Le Donne del muro alto”. La testimonianza di Francesca Tricarico, regista e coordinatrice del progetto. L’esperienza nella casa circondariale femminile di Rebibbia a Roma nasce sette anni fa grazie a Francesca Tricarico, incuriosita dalla poca diffusione delle attività culturali nelle carceri femminili rispetto a quelli maschili. I progetti organizzati riguardavano il cucito, la cucina, ma pochi di questi erano a sfondo culturale. La coordinatrice del progetto ha iniziato la sua avventura nel carcere femminile di Rebibbia, che non aveva mai incontrato l’esperienza teatrale. Questo progetto ha avuto un impatto fortissimo sulle detenute, che offre loro un incontro con il mondo, oltre le sbarre, e la libertà. Che impatto ebbe sulle ragazze la proposta di un tale progetto? C’era molta diffidenza tra le ragazze con cui abbiamo lavorato perché temevano che fossimo lì per interesse personale, finché è nata una meravigliosa collaborazione. La voglia di scoprirsi fu più forte e la dedizione al lavoro fu grande nel processo creativo, dalla scrittura fino alla messa in scena. Farmacia Federico consegna medicine Cosa ha significato il teatro per queste ragazze? Come spesso dicono, l’incontro con il mondo e la libertà. Noi siamo la finestra sul mondo perché si relazionano con persone che non parlano di processi, salute, detenzione, problemi familiari. Inoltre è la scoperta di sé stessi attraverso l’altro, la possibilità di essere libere che le appassiona. Dopo ogni spettacolo mi raccontano di stare male perché tornano a sentirsi davvero detenute: durante la messa in scena vivono un momento nel quale si dimenticano di essere in carcere. Il laboratorio è uno spazio e un tempo altro che offre loro una sensazione di libertà all’ennesima potenza, ma è anche uno spazio per superare i preconcetti e le diffidenze. Da sempre il teatro fa abbattere questa barriera, come cade nel momento in cui lo spettatore va a vedere lo spettacolo, che dimentica che sul palco le protagoniste sono recluse. C’è un copione che preferiscono o hanno preferito su cui si sono maggiormente impegnate, attratte da dialoghi e trama? Noi le facciamo lavorare sui testi di grandi autori che ci fanno da struttura ma poi li riscriviamo per vedere cosa risuona nella storia di ognuna nel momento che vivono. L’ultimo a cui stiamo lavorando è una rivisitazione di Romeo e Giulietta, ma abbiamo lavorato anche su Medea, dove abbiamo deciso di parlare dell’abuso dei farmaci all’interno degli istituti penitenziari, oppure di cosa vuol dire per una donna vivere l’allontanamento dei figli. La favola siciliana della tabaccaia antimafia di Emanuela Abbadessa La Repubblica, 23 novembre 2020 Mondadori pubblica “Terramarina” di Tea Ranno. È un mondo misterico quello di Terramarina, ultima fatica di Tea Ranno uscita con Mondadori, in cui uomini e bestie condividono una sorta di comune sentire. Questa, d’altra parte, è la cifra narrativa che accompagna da sempre la scrittrice di Melilli: dall’anno del suo esordio (Cenere, edito da e/ o nel 2006 e finalista ai premi Calvino e Berto) e fino al più recente L’A-murusanza (Mondadori, 2019), ha infatti sempre rappresentato la più intima e selvatica identità siciliana soprattutto attraverso le voci femminili, costrette in realtà troppo asfissianti e spesso violente, eppure capaci di slanci libertari. Terramarina è un luogo sospeso tra terra e mare “in cui c’è il sole pure quando piove “, un villaggio in cui le case sono sempre aperte perché gli abitanti sono talmente contigui da essere diventati amici fraterni, tanto da poter condividere gioie, dolori e stupori. Proprio lo stupore li coglie riuniti alla vigilia di Natale quando, preparandosi per la cena prima della messa, si trovano a ricoverare in casa una neonata lasciata nel freddo della sera accanto a un cassonetto. Di natalità, dunque, di nascite e rinascite si occupa questa volta la Ranno, in una favola a tratti ingenua, in cui i buoni sono tutti coloro che sanno guardare nel cuore del prossimo, sanno aprire il proprio e sanno come fare a tenere a bada la ragione quando c’è da mettere in campo i sentimenti; i cattivi, invece, sono i Caini e i Cainazzi, i senza scrupoli, gli approfittatori e i malavitosi, come Occhi janchi, ex sindaco del paesino implicato in loschi affari. Al centro della vicenda è ancora una volta la donna: qui la femminilità viene suddivisa in due personaggi, Agata e Lori, e a ciascuna è affidato il compito di esemplificarne uno degli aspetti. Da una parte Agata Lipari “la Tabbacchera”, latrice della passionalità, giovane e bellissima sindaca di Terramarina che “ non si scorda di essere femmina “ e che ha coinvolto l’intero paese in una guerra contro la mafia “a colpi di poesia”; dall’altra Lori, la personificazione della maternità, una ragazzina spaurita, arrivata da chissà dove con in grembo un dolore atroce, l’ombra di un mistero e il fardello di una bimba non abortita, Luce. Intorno a loro ha corpo il cuore pulsante di Terramarina, ossia le molte voci dei paesani, Toni Scianna, Violante, Luisa, il padre-parroco don Bruno che sembra trarre pazienza e prudenza dall’Ecclesiaste, Lisabetta. Ciascuno di loro ha una storia a sé, un vezzo, un tic, un amore, un dolore. È al colmo dei preparativi per il Natale, in una notte di neve e di vento, che il vero natale anima Terramarina con il sapore dell’accoglienza senza remore, perché il miracolo della vita esige sempre una celebrazione. Dove l’amore è nutrizione, la pietà è anche ricerca della verità e a questo scopo, uno dei personaggi maschili meglio tratteggiati è Andrea Locatelli, maresciallo dei carabinieri piemontese con cui “la Tabbacchera” ha combattuto il malaffare che “ infesta la terra come una gramigna “, per il quale si è accesa in lei “ la vampa del desiderio “ a forza di versi di grandi poeti scambiati via sms ma dal quale è fuggita per paura dell’enormità stessa dell’amore, rifugiandosi nel lutto per la morte non troppo lontana del marito. In questo tempo, ora che parole come accoglienza, verità e giustizia vengono manipolate ad arte per pura propaganda politica, Tea Ranno orchestra una grande metafora di rinascita in cui il luogo d’elezione perché la carità diventi voce e chieda giustizia è proprio la Sicilia. Nessun altro posto potrebbe esserlo con altrettanta forza perché la Sicilia “non è solo malaffare, neppure magarìa e incantamento e acque chiare e cieli blu e soli ardenti”, la Sicilia è “passione perniciosa”. Se il carnefice di una donna parla alla Rai di Michela Murgia La Stampa, 23 novembre 2020 Non ci sarebbe nemmeno materia di discussione: è evidente che la Rai ha fatto bene a cancellare dalla programmazione l’intervista a Luca Varani, l’uomo condannato per aver gettato l’acido sul volto di Lucia Annibali, sfregiandola per sempre. La domanda che dovremmo farci è come sia finita in programmazione una simile intervista, ma il fatto che capiti nella settimana contro la violenza sulle donne è solo un’aggravante. Se è offensivo l’atto di intervistare in uno studio tv o su un giornale il carnefice di una donna, questo è vero sempre, non solo nell’inopportuna vicinanza del 25 novembre. Ad eccezione del tribunale, nella narrazione di nessun altro reato si lascia al criminale la possibilità di esporre il suo punto di vista pubblicamente. Nessun ladro viene intervistato nelle reti del servizio pubblico per sapere quali motivazioni lo abbiano spinto a rapinare una banca lasciando sul lastrico i suoi risparmiatori. La ragione è ovvia: tutti danno per scontato che a muoverlo alla rapina sia stata l’avidità di denaro. Chi penserebbe mai di credergli se dicesse che ha rubato milioni di euro per bisogno, o lo giustificherebbe per questo? D’altro canto, a nessuno verrebbe mai in mente di pensare che la banca, con l’esistenza stessa dei suoi conti, possa avere qualche responsabilità nel furto che ha subito, perché tutti sono d’accordo sul fatto che le banche non si rapinino. Purtroppo, quando si parla di reati di violenza nell’ambito delle relazioni, la certezza della colpa del carnefice non sembra essere così categorica e tutti i media, televisioni e giornali, sentono l’improvvisa esigenza di capire anche le sue ragioni. C’è da dire che sentire quelle della vittima può essere complicato, dato che di solito è morta, ma questa è una ragione di più per non lasciare il suo assassino senza il contraddittorio dell’unica persona che può raccontare l’esattezza della sua violenza. Ha poco senso dire che una professionista come Franca Leosini gli avrebbe fatto le domande più scomode: è l’azione stessa di porgli le domande che è sbagliata, perché trasmette l’idea che in una situazione di violenza possano esserci punti di vista di pari dignità e valore. Portando entrambi nella cornice rassicurante e salottiera di uno studio televisivo, con quel faccia a faccia che sottintende la possibilità di un dialogo paritario, il racconto di chi ha abusato e quello di chi ha subito la violenza finiscono sullo stesso piano della valutazione, col risultato di insinuare in chi ascolta il dubbio sulla versione della vittima e farla sentire meno creduta e meno compresa, rinnovando la violenza subita. Lucia Annibali per fortuna è sopravvissuta al suo aguzzino e io posso solo immaginare cosa avrebbe potuto provare nel vederlo esporre le giustificazioni del suo gesto dalla poltrona di uno studio televisivo del servizio pubblico. Come organi di informazione c’è una scelta di responsabilità da fare. Se davvero crediamo alle vittime e alle sopravvissute, la versione del carnefice ha rilevanza solo per il giudice e in questo caso specifico il giudice l’ha già ascoltata, condannando Varani. Non c’è niente da capire, se non l’esistenza di un odio di genere che tutti i giorni agisce sul territorio italiano in milioni di case, partendo dal controllo della vita della partner fino ad arrivare a distruggerla, non di rado con quella dei figli. Fino a quando la versione del carnefice continuerà ad avere dignità di interrogazione, anche noi resteremo complici nel confermare il pregiudizio che esista un concorso di colpa della vittima nel subire la violenza. Decidere da che parte stare non è più una scelta rimandabile. “C’è poco interesse verso gli anni di piombo: in Italia manca la responsabilità politica” di Tiziana Platzer La Stampa, 23 novembre 2020 Marta Barone, autrice del romanzo “Città sommersa”, oggi incontra Benedetta Tobagi e la regista Monica Repetto al Tff. “Dalle prime immagini ho riconosciuto gli stessi filmati in cui mi sono immersa per i sei anni della mia ricerca. Quel linguaggio, quei volti, mi sono emozionata”. Marta Barone, autrice di “Città sommersa”, un romanzo su suo padre, Leonardo, militante di estrema sinistra nella Torino degli Anni Settanta e imputato in un processo per banda armata, oggi alle 15 è ospite dell’incontro sul Youtube del Tff “Narrare gli Anni 70” legato al film “1974-1979. Le nostre ferite” di Monica Repetto, anche lei in collegamento insieme a Benedetta Tobagi. Il film della Repetto sugli Anni di Piombo le è sembrato una ricostruzione che ancora mancava? “È privo di sbrodolature romantiche, non ha narratore né musica: per questo è diverso e mi è piaciuto. Non lancia messaggi e lascia spazio alle voci”. Qualcuna l’aveva già trovata lei per il libro? “C’è il ragazzo a cui sparano nell’attentato alla Saa, quello a cui resta un proiettile nel corpo: sono certa di aver incontrato la sua voce, di averla inserita nel libro, ma i giornali dell’epoca proteggevano le vittime, non c’erano fotografie. Nel film ho scoperto un volto”. È stata colpita da qualche protagonista donna? ? “Dal gruppo di casalinghe femministe che da Radio Città Futura trasmettevano un’ora sulla liberazione della donna. Un giorno sono entrati i fratelli Fioravanti e hanno aperto il fuoco, una è rimasta paralizzata, una ha perso l’utero, un massacro. Eppure una di loro, novantenne, oggi pensa che quella militanza non doveva finire, “non saremmo arrivati così” ci dice”. Lei è nata nel 1987: pensa ci sia bisogno di una nuova spinta ideologica? “C’è bisogno di idee, necessita una cultura civile, un ripensamento della comunità fatta dalle persone comuni, che sono i militanti”. Crede che per gli anni bui del terrorismo oggi si cerchino testimoni? “Non percepisco grande attenzione. In Italia continua a mancare l’elaborazione della responsabilità politica”. Vi conoscevate già con Benedetta Tobagi? “Al festival è la prima volta, abbiamo parlato del mio libro”. Accanto a una vittima di terrorismo si è mai sentita in difficoltà? “Con Benedetta no, in lei vedo la storica che ammiro e non la bambina a cui hanno ucciso il padre. Se fossi davanti al figlio di Alessandrini sentirei una sofferenza, e la sua sofferenza”. Ha fatto riferimento al cinema per la ricerca, considerando ad esempio “La meglio gioventù” di Giordana o “La seconda volta” di Moretti? “Sono stati importanti film meno ricercati, come i poliziotteschi, per vedere la Torino di allora. Marco Tullio Giordana ha letto il libro e mi ha scritto una mail molto bella, così come mi ha cercato un altro grande regista italiano, viveva con mio padre a Roma, erano nei nuclei marxisti leninisti, ma non voglio dire il suo nome”. Le hanno già chiesto i diritti per un film? E quale attore potrebbe essere suo padre? “Per ora no, ma mi piacerebbe. Penso a Elio Germano”. Covid. Noi e la “seconda ondata”: come reagire all’ansia di Massimo Ammaniti Corriere della Sera, 23 novembre 2020 Sicuramente la resilienza è legata al temperamento personale, ma è una qualità che si può sviluppare nel corso della vita, ad esempio evitando di irrigidirsi nelle proprie convinzioni ed accettando anche il punto di vista degli altri senza sentirsene minacciati. Cercando di ricostruire il clima emotivo e psicologico che si è vissuto durante questi mesi dalla prima ondata del contagio, il paese ha accettato le iniziali misure restrittive del Governo con sofferenza e gravi rinunce, ma anche con la convinzione che questo sacrificio necessario sarebbe servito. Si sognava che la pandemia si sarebbe progressivamente smorzata anche perché l’estate era alle porte e avrebbe bloccato o perlomeno rallentato la diffusione del contagio. E poi è giunta l’estate, finalmente il sogno si è avverato con la ripresa della libertà di movimento, degli incontri con gli amici, delle movide e dei balli nelle discoteche. Il pericolo sembrava definitivamente esorcizzato e lo si poteva buttare alle nostre spalle. Ma non tutti erano di questo avviso, i virologi da tempo paventavano una seconda ondata in autunno, anche se molti erano diffidenti accusando i medici di essere dei menagrami. Purtroppo il ricordo di altre pandemie del passato, come la spagnola che aveva avuto tre ondate successivi, si era cancellata nella memoria collettiva per cui si è diffusa l’illusione che una nuova ondata non ricomparisse. In questo clima di euforia il paese ha riassaporato la libertà di movimento con spensieratezza, ma anche con irresponsabilità e frenesia soprattutto da parte dei ragazzi e dei giovani che con i loro spostamenti hanno facilitato la diffusione del virus, basti pensare a quello che è successo nelle discoteche della Sardegna. Durante l’estate anche il consumo di psicofarmaci, che era aumentato durante i mesi del lockdown, si è ridotto considerevolmente, contagi, ansia ed allarme sono scomparsi dallo scenario quotidiano. Con la fine dell’estate la diffusione dei contagi non solo non si è fermata, addirittura ha assunto un andamento inarrestabile ed ansia e paure sono ritornate a turbare la mente di molte persone, come dimostra la risalita del consumo degli psicofarmaci. È stato un ritorno doloroso del rimosso nel linguaggio freudiano, un brutto risveglio che ha suscitato incertezze e un senso di impotenza, anche perché il Governo non poteva o non voleva assumere provvedimenti prescrittivi come quelli del passato e preferiva piuttosto responsabilizzare i cittadini nell’adottare misure di protezione individuali o familiari. Posti di fronte alle scelte personali gli anziani e i più prudenti hanno cercato di proteggersi, mentre molti hanno sottovalutato il pericolo come gli adolescenti e i giovani, per non parlare dei negazionisti che addirittura hanno ritenuto che il Covid fosse un’invenzione per instaurare un regime autoritario. Posti di fronte al dubbio e all’incertezza quotidiana nello scegliere i comportamenti più appropriati è cominciata a serpeggiare in modo sempre più insistente delusione e rabbia per la gestione del Governo, che si sarebbe mosso senza una strategia di contenimento che andasse aldilà della contingenza. E quali preoccupazioni hanno preso corpo? Una ricerca psichiatrica comparsa di recente sulla rivista scientifica Translational Psychiatry effettuata nella popolazione degli Stati Uniti e di Israele ha documentato che il 48% degli intervistati manifesta una forte apprensione che qualcuno dei familiari possa contagiarsi, ben superiore alla paura di contagiarsi personalmente o di morire. Naturalmente la situazione economica suscita molte preoccupazioni anche perché il futuro non è rassicurante. La stessa ricerca ha anche messo in luce come questo clima di incertezza si ripercuota sullo stato psichico degli intervistati: il 22% di loro presenta un disturbo generalizzato di ansia, ben al disopra della prevalenza usuale che si colloca fra il 5% e il 10%. Anche il disturbo depressivo è presente nel 16% degli intervistati compromettendo l’equilibrio psicologico personale e la qualità della vita. Ci si può chiedere se l’unica via di uscita sia il ricorso agli psicofarmaci che possono dare solo un sollievo temporaneo. La stessa ricerca che ho citato ha messo a confronto due gruppi diversi di persone, quelle con un grado più alto di resilienza con quelle con un grado minore. Le persone con una maggiore capacità di resilienza sono in grado di adattarsi ai cambiamenti della vita, anche quelli più negativi, con una migliore disposizione nel regolare le proprie emozioni, mantenendo un atteggiamento di fiducia nelle proprie capacità. Con queste attitudini e potenzialità individuali si è rilevata una riduzione del 65% dei disturbi ansiosi e del 69% dei disturbi depressivi. Sicuramente la resilienza è legata al temperamento personale, ma è una qualità che si può sviluppare nel corso della vita, ad esempio evitando di irrigidirsi nelle proprie convinzioni ed accettando anche il punto di vista degli altri senza sentirsene minacciati, in altri termini non mettendo in primo piano continuamente il proprio sé. Effetto Covid: a rischio povertà altri 2 milioni di famiglie in Italia di Luca Monticelli La Stampa, 23 novembre 2020 Un milione e mezzo di persone può essere travolto dalla crisi: giovani precari, donne con carriere discontinue e immigrati. Sono più di 3 milioni gli italiani che per colpa della pandemia rischiano di finire in una condizione di povertà. Diversi istituti stanno cercando di misurare l’impatto drammatico del Covid sul reddito delle persone, non c’è una stima univoca, ma almeno un milione e mezzo di famiglie potrebbe essere travolto dall’impatto della crisi, nonostante l’intervento del governo che finora ha stanziato oltre 100 miliardi di euro. I più colpiti dagli effetti economici del virus sono giovani precari rimasti senza contratto, donne con carriere discontinue che fanno fatica a conciliare i tempi di vita e di lavoro, immigrati, working poor. Tutte categorie che statisticamente appartengono a un’area di povertà relativa, un gradino sopra la miseria. Ma soffrono anche commercianti, baristi, ristoratori, partite Iva e maestranze del mondo della cultura. Così come i 6 milioni e mezzo di lavoratori che hanno preso l’assegno di cassa integrazione o i 4 milioni che hanno percepito un bonus. Il rapporto Censis-Confcooperative parla di 2 milioni di famiglie che, a causa delle restrizioni imposte per abbattere la curva dei contagi, si trovano sul baratro della povertà assoluta, cittadini che magari vivevano situazioni di fragilità già in fase pre-Covid, con stipendi bassi e lavori in nero, soprattutto al Sud. C’è pure una bella fetta della classe media che sembra in ginocchio. L’analisi sviluppata dalla collaborazione Unipol-Ambrosetti immagina uno scivolamento di un milione e mezzo di famiglie della piccola borghesia (il 10% del totale) verso l’indigenza. Secondo la Banca d’Italia sono aumentate di 12 punti percentuali le famiglie italiane che dichiarano di non riuscire ad arrivare alla fine del mese: se prima della pandemia erano il 46%, adesso si attestano al 58%. Questo significa che circa 6 nuclei su 10 ritengono di essere in maggiore difficoltà a seguito dell’emergenza sanitaria. Tra gli interrogativi sul futuro aleggia lo spettro delle spese impreviste. Il 30% delle famiglie interpellate in una ricerca di Palazzo Koch ha difficoltà ad affrontare un pagamento improvviso di duemila euro, come ad esempio la riparazione dell’auto o una fattura medica. I dati dei centri di ascolto Caritas vanno proprio in questa direzione. Analizzando il periodo maggio-settembre del 2019 e confrontandolo con lo stesso frangente del 2020 emerge che da un anno all’altro l’incidenza dei nuovi poveri è passata dal 31 al 45%: quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. In ben 136 diocesi sono stati attivati fondi dedicati a piccoli commercianti e lavoratori autonomi, utili a sostenere i pagamenti più urgenti (affitto degli immobili, rate del mutuo, bollette). In Italia ci sono 300 mila tra ristoranti e bar che secondo il barometro del terzo trimestre scontano un calo del fatturato del 64%: rosso che pesa sulle tasche di un milione e duecento mila dipendenti del settore. L’ultimo Decreto Ristori affida altri 400 milioni di euro ai Comuni per gli aiuti alimentari, “buoni spesa” che a marzo, nel corso della prima ondata del coronavirus, i sindaci distribuirono a quasi 4 milioni e mezzo di cittadini. Lo scenario sociale su cui si muove la crisi economica legata alla pandemia è caratterizzato da una ristrettezza diffusa su tutto il Paese. I dati Istat del 2019 fotografano una condizione di povertà assoluta per 1, 7 milioni di famiglie e coinvolge 4, 6 milioni di individui. Numeri pesanti ma in calo rispetto al passato, mentre in prospettiva ci si attende un’impennata che toccherà anche i minori. Save the children stima che i bambini poveri, che oggi sono un milione, raddoppieranno. Cambiamenti climatici, il negazionismo morbido di europei e americani di Monica Perosino La Stampa, 23 novembre 2020 Il rapporto Open Society: confusi sui dati scientifici e sulle ripercussioni. Confusi, moderatamente preoccupati, poco inclini a rinunciare a qualcosa. Insomma, siamo angosciati dal cambiamento climatico, almeno la maggior parte di noi, ma non abbiamo le idee troppo chiare su quello che significherà per la nostra vita e, soprattutto, non siamo inclini a prenderci le nostre responsabilità per fermarlo. È la fotografia del rapporto dell’Open Society European Policy Institute, realizzato in esclusiva per il gruppo Europa, che mostra quanto ancora troppe persone non accettino l’urgenza della crisi climatica e solo una minoranza creda che avrà un grave impatto su di loro e sulle loro famiglie nei prossimi quindici anni. Il sondaggio mostra gli atteggiamenti sull’esistenza, le cause e gli impatti del riscaldamento globale in Germania, Francia, Italia, Spagna, Svezia, Polonia, Repubblica Ceca, Regno Unito e Stati Uniti. E i dati rispecchiano la confusione generalizzata che, senza sorprese, produce conseguenze allarmanti. Sebbene tutti, tranne una piccola minoranza, siano convinti che le attività umane abbiano un ruolo nel cambiamento climatico (solo il 10% rifiuta di crederci), fino a un quarto degli oltre diecimila intervistati crede ancora il surriscaldamento sia causato allo stesso modo dall’uomo e dai processi naturali. Per questo “ineluttabilità” della natura il senso di responsabilità nel prendersi cura dell’ambiente viene azzoppato. Non solo: “Molti cittadini non si rendono ancora conto di quanto sia schiacciante il consenso scientifico sul fatto che gli esseri umani siano responsabili del cambiamento climatico - spiega Heather Grabbe, direttrice dell’Open Society European Policy Institute. Sebbene il negazionismo totale sia raro, è diffusa una falsa convinzione, deliberatamente prodotta da interessi che si oppongono alla riduzione delle emissioni, che gli scienziati siano divisi sul fatto che gli esseri umani stiano causando il cambiamento climatico, quando in realtà il 97% degli scienziati sa che è così”. Questo “negazionismo morbido” induce a “non rendersi conto di quanto ci sia bisogno di cambiare radicalmente il nostro sistema economico e le nostre abitudini per prevenire il collasso ecologico”. E sebbene la grande maggioranza di cittadini europei e statunitensi concordi sul fatto che il cambiamento climatico richieda una risposta collettiva solo il 47% ritiene di avere, come individui, una responsabilità diretta, che invece spetta ai singoli Stati e all’Unione Europea. In Italia, soprattutto tra i giovani, le donne e gli elettori della sinistra, la consapevolezza ambientale è alta: il 73 % pensa che “dovremmo fare tutto il possibile”, il secondo punteggio più alto dei Paesi intervistati, dietro la Spagna con l’80%. Tuttavia, solo il 46% degli italiani pensa di avere la responsabilità personale di agire sul cambiamento climatico (uno dei punteggi più bassi). Per gli italiani la migliore azione che un individuo può intraprendere per contrastare il cambiamento climatico è “ridurre i rifiuti e riciclare di più”, ma guai a imporre prezzi più alti, per esempio alla carne (solo il 2% sosterrebbe un aumento), o tasse per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente. Egitto. Da Zaki a Giulio Regeni: l’impunità del dittatore Al Sisi e il prezzo del silenzio di Francesco Battistini Corriere della Sera, 23 novembre 2020 Gli amici del giovane egiziano che studiava a Bologna sono stati arrestati per aver incontrato i diplomatici occidentali: sicuri che tacere serva ancora? C’è qualcosa di peggio del cupo silenzio che da ieri sera circonda Patrick Zaki, chiuso di nuovo nella terribile sezione Skorpion 2 del carcere di Tora: il silenzio delle istituzioni italiane. Il ricercatore dell’Alma Mater di Bologna è stato arrestato in febbraio mentre rientrava in patria dall’Italia, dove seguiva un master: prima ancora che le sue idee politiche, sconta l’essere un cittadino egiziano e quindi un semplice “affare interno”, oltre che il paragone ostinato di questi mesi con la vicenda di Giulio Regeni (nonostante i due non si conoscessero e fosse fin dall’inizio evidente la diversità dei due dossier). Naturalmente, ora è gioco facile per il dittatore accusare i media italiani di raccontare il caso Zaki in modo “errato”, facendosi forte di quell’impunità che gli ha permesso di non subire mai vere condanne internazionali per le stragi degl’integralisti islamici, per l’oppressione d’ogni opposizione politica e sociale. Ci volle la tragedia di Regeni perché l’opinione pubblica italiana s’accorgesse del marcio in Egitto e delle nostre difficoltà nel trattare con un autocrate che ci compra fregate, ci appalta giacimenti di gas, può aprire e chiudere i rubinetti di migranti e terroristi. Quel che però è successo in questo mese - gli amici di Zaki arrestati per avere incontrato i diplomatici occidentali - è un’offesa che va oltre: Al Sisi accusa l’ong Eipr di sostegno al terrorismo, laddove i terroristi sarebbero le democrazie europee. Accodarsi come al solito alle proteste dell’Ue, senza esprimerne una propria, è un segno di debolezza. La linea della Farnesina è nota: nessun richiamo dell’ambasciatore, si rimane al Cairo ad ogni costo, con buona pace di quei pezzi di maggioranza che vorrebbero una linea più dura. Domani, in commissione a San Macuto comparirà Matteo Renzi e da ex premier racconterà come andò nei giorni drammatici di Regeni. Il 4 dicembre, la Procura di Roma presenterà il conto sulle torture di Giulio e il processo ai cinque 007 egiziani, contumaci, si trasformerà in un processo all’Egitto di Al Sisi. Siamo sicuri che tacere serva ancora? Caso Zaki. Amnesty: “L’Egitto ha superato ogni limite, l’Italia deve agire” di Marta Serafini Corriere della Sera, 23 novembre 2020 Altri 45 giorni per Zaki. È stata rinnovata la custodia cautelare in carcere al Cairo di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna sotto accusa per propaganda sovversiva. A darne notizia è Hoda Nasrallah, annunciando l’esito dell’udienza di ieri. Nasrallah non ha saputo precisare la data precisa della prossima udienza che - calcolando 45 giorni da ieri - comunque dovrebbe cadere intorno a Capodanno e a ridosso del Natale che i copti (i cristiani d’Egitto come Patrick e la sua famiglia) festeggiano il 7 gennaio. L’udienza per Zaki, in carcere già da oltre nove mesi, si era svolta davanti a una Corte d’assise del Cairo ed era stata annunciata il 7 novembre, al momento del rinvio di una convocazione slittata per motivi di sicurezza legati a una tornata elettorale. Amnesty International l’altro ieri si era detta pessimista per l’esito dell’udienza di ieri visti i recenti arresti di tre dirigenti dell’Ong egiziana per la difesa dei diritti umani “Eipr” per la quale Patrick era ricercatore in studi di genere. “Ho parlato con lui dieci minuti dopo l’udienza: sta bene ed è in buona salute”, ha detto ancora la sua avvocatessa al telefono. Patrick Zaki “ha parlato davanti ai giudici circa i suoi studi e ha detto che è un bene per il Paese che uno dei suoi figli sia professore all’estero”, ha aggiunto la donna. Lo studente dell’Alma Mater bolognese è stato arrestato in circostanze controverse il 7 febbraio e, secondo Amnesty, rischia fino a 25 anni di carcere. In Egitto la custodia cautelare può durare anche due anni. L’udienza si era svolta di nuovo all’Istituto per sottufficiali di polizia di Tora, la zona meridionale del Cairo dove si trova il complesso carcerario in cui il giovane è detenuto dal 5 marzo, quasi un mese dopo l’arresto. Le accuse a carico di Patrick sono basate su dieci post di un account Facebook che i suoi legali considerano fake ma che hanno configurato fra l’altro il reato di diffusione di notizie false, incitamento alla protesta e istigazione alla violenza e al terrorismo. “Siamo di fronte a un vero e proprio accanimento giudiziario da parte dell’Egitto nei confronti di Patrick”, ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia all’Ansa. “Questi nove mesi e mezzo trascorsi - aggiunge Noury - che diventeranno ormai 11 con questo rinnovo di detenzione preventiva, chiamano in causa l’inerzia dell’Italia, l’assenza di un’azione forte. Mi chiedo cos’altro ci voglia dopo il rinnovo della detenzione di Patrick e tre arresti di fila dei dirigenti della sua organizzazione per i diritti umani (Eipr, ndr) per un’azione diplomatica molto forte nei confronti dell’Egitto”. “Ieri - aggiunge Noury a proposito di Patrick - aveva detto in udienza che il suo Paese dovrebbe essere orgoglioso di aver un’eccellenza così ricca, così bella, all’estero in un master prestigiosissimo come quello dell’università di Bologna. Evidentemente all’Egitto questo non importa, le eccellenze le lascia in carcere”. Stati Uniti. Il Covid dilaga nelle carceri: quasi 200mila casi e 1500 morti tra i detenuti di Giulia Belardelli huffingtonpost.it, 23 novembre 2020 “L’America sta lasciando che il coronavirus dilaghi nelle carceri: un doppio fallimento, sia morale sia di salute pubblica”. È la dura sentenza del New York Times sugli ultimi dati relativi alla diffusione del virus nelle prigioni statunitensi. Secondo il Progetto Marshall, che da marzo monitora questi numeri, al 17 novembre almeno 197.659 persone in carcere si sono ammalate di Covid-19, un aumento dell?8% rispetto alla settimana precedente (+13.657 nuovi casi). I morti per Covid nelle carceri sono 1.454. Le nuove infezioni nella settimana del 17 novembre hanno raggiunto il livello più alto dall’inizio della pandemia, dopo un brusco aumento la settimana precedente. I nuovi picchi hanno superato di gran lunga il record precedente all’inizio di agosto. Il Michigan, il Wisconsin e il sistema carcerario federale hanno visto più di 1.000 prigionieri positivi al test. I casi segnalati hanno raggiunto il picco per la prima volta dalla fine di aprile, quando Stati come Michigan, Ohio, Tennessee e Texas hanno iniziato i test di massa sui prigionieri. Con l’arrivo dell’inverno, la situazione rischia di diventare ancora più cupa, mentre il virus continua a imperversare da est a ovest: gli Usa restano il Paese più colpito in termini assoluti, con oltre 12 milioni di casi e quasi 256 mila morti; seguono l’India e il Brasile. Nelle ultime 24 ore - secondo i dati della Johns Hopkins University - gli Stati Uniti hanno registrato 177.552 nuovi contagi e 1.448 decessi legati a Covid-19. “Mentre gli americani sono alle prese con come - o se - riunirsi con i propri cari durante le festività natalizie, i circa due milioni di detenuti nelle carceri nazionali affrontano una sfida ancora più cupa: come rimanere vivi all’interno di un sistema devastato dalla pandemia di coronavirus”, scrive il Times. Il sistema penale americano è un perfetto terreno fertile per il virus. Il distanziamento sociale è quanto meno impraticabile all’interno di strutture sovraffollate, molte delle quali vecchie e scarsamente ventilate, con ambienti ristretti e standard igienici difficili da mantenere. Test irregolari, risorse mediche inadeguate e il costante viavai di membri del personale, visitatori e detenuti accelerano ulteriormente la trasmissione. I detenuti soffrono in modo sproporzionato di comorbidità, come ipertensione e asma, il che li espone a un rischio elevato di complicazioni e morte. “A otto mesi dall’inizio della pandemia - scrive il Times - la forma precisa e la portata della devastazione rimangono difficili da definire. Ma i dati disponibili sono strazianti. I tassi di casi tra i detenuti sono più di quattro volte superiori rispetto a quelli dei cittadini liberi e il tasso di mortalità è più del doppio”. Il sistema correzionale americano impiega più di 685.000 persone: guardie, infermiere, cappellani e così via. Ad oggi sono state segnalate più di 45.470 infezioni da coronavirus e 98 decessi tra i membri del personale. Secondo gli analisti, i numeri reali del contagio nelle carceri sono verosimilmente più alti: il virus si diffonde da questi “hot spots”, inghiottendo le famiglie e le comunità di reclusi e lavoratori. Questa diffusione pone un problema particolare alle comunità rurali - il 40% delle carceri si trova in contee con meno di 50.000 residenti - che tipicamente non dispongono delle infrastrutture sanitarie per affrontare tali epidemie. Anche un modesto focolaio può sopraffare rapidamente gli ospedali locali con un numero limitato di ventilatori e posti di terapia intensiva. Un report delle National Academies indica i passi da compiere per ridurre il rischio di contagio nelle prigioni, a cominciare da una politica di decarcerazione più coraggiosa. Le misure suggerite comprendono “sanzioni non detentive” per infrazioni minori e la limitazione delle detenzioni preventive attraverso mezzi come la riduzione o l’eliminazione della cauzione. Il rapporto sottolinea l’importanza di ridurre al minimo i rischi per le famiglie e le comunità coinvolte, come “offrire test prima della scarcerazione, un posto per la quarantena nella comunità e l’esame delle politiche sulla libertà condizionale e sulla libertà vigilata”. La gestione di questo tipo di crisi non è uno sforzo unico, sottolinea il rapporto. È un processo che richiede un “impegno prolungato” da parte di un’ampia gamma di attori a tutti i livelli. “È fin troppo facile per molti americani ignorare gli orrori di ciò che sta accadendo nelle prigioni e nelle carceri della nazione”, conclude il Times. “I detenuti sono isolati dalla popolazione più ampia, la loro sofferenza è nascosta. Ma il loro benessere in questa pandemia rimane inestricabilmente legato a quello di tutti gli altri. Il continuo fallimento della nazione nel soggiogare il virus tra questa popolazione vulnerabile è sia una catastrofe per la salute pubblica sia una catastrofe morale”. Gran Bretagna. Il Covid dilaga in carcere, Assange in isolamento ansa.it, 23 novembre 2020 Julian Assange e gli altri detenuti del suo blocco nel carcere di Belmarsh sono stati messi in isolamento a causa di un focolaio di Covid dilagato all’interno dello stesso penitenziario di massima sicurezza londinese. Lo ha denunciato lo stesso attivista australiano 48enne, fondatore di WikiLeaks, Tutti i reclusi, come le guardie carcerarie, sono stati sottoposti a tampone. Nel frattempo sono state imposte severe limitazioni all’interno della struttura: stop alle attività fisiche, chiusura dei bagni per le docce, e sospensione della mensa. I pasti vengono serviti poi direttamente nelle celle dalle quali i detenuti non potranno uscire fino a quando non sarà rientrata l’attuale emergenza. Le visite dei parenti erano già state sospese varie settimane fa, mentre è da marzo che i detenuti non possono incontrarsi con i propri legali. Assange è in attesa del verdetto di primo grado della giustizia britannica sulla controversa istanza di estradizione presentata dal governo Usa, che gli dà la caccia fin da quando WikiLeaks diffuse - con la collaborazione di non poche prestigiose testate giornalistiche internazionali - montagne d’imbarazzanti documenti riservati fatti filtrare dagli archivi Usa e relativi fra l’altro a crimini di guerra commessi in Afghanistan e in Iraq. Il primo verdetto - dal quale quasi tutti i commentatori attendono uno scontato via libera alla consegna oltre oceano, malgrado le proteste di numerosi attivisti, organizzazioni internazionali e associazioni per i diritti umani - è atteso verso inizio gennaio. Medio Oriente. Covid, i palestinesi si ammalano nelle carceri israeliane di Amira Hass* Internazionale, 23 novembre 2020 Di recente i mezzi d’informazione israeliani hanno riferito che in appena due giorni sono stati diagnosticati 66 nuovi casi di covid-19 tra i detenuti palestinesi del carcere di Gilboa. Mi chiedo se la notizia abbia solleticato la memoria dei giudici della corte suprema Ofer Grosskopf, David Mintz e Isaac Amit. Alla fine di luglio i tre giudici avevano respinto una petizione che sottolineava il rischio che il covid-19 si diffondesse in quella struttura, che si trova nel nord di Israele. Grosskopf, Mintz e Amit avevano accettato il parere della procura di stato, secondo cui il servizio penitenziario israeliano stava facendo il possibile per evitare il contagio dei detenuti in tutte le strutture del paese. A giugno la corte suprema aveva respinto un’altra petizione che chiedeva la scarcerazione anticipata a causa della pandemia anche per alcuni detenuti nelle carceri di sicurezza. Le nuove regole del servizio penitenziario nell’era della pandemia consentono la scarcerazione dei detenuti condannati a non più di quattro anni di prigione e a cui resta da scontare meno di un mese. La normativa ha portato a mille il numero delle persone rilasciate in libertà vigilata, e permette la scarcerazione anche in penitenziari al limite della capienza. Ma è stata fatta un’eccezione per i prigionieri palestinesi nelle carceri di sicurezza. La corte suprema non ha fatto una piega davanti a questa ennesima discriminazione, e ha respinto la petizione. Fin dall’inizio della pandemia la maggior parte dei detenuti (arabi e israeliani) ha vissuto nel terrore del contagio. Le condizioni delle carceri israeliane sono pessime, con un enorme sovraffollamento. Non sorprende che il fenomeno sia particolarmente grave nelle strutture che ospitano i palestinesi. La grandezza media di una cella di Gilboa è di 22 metri quadrati, da cui bisogna sottrarre circa sei metri quadrati per la doccia, il bagno e il cucinino. In ognuna di queste celle vivono sei persone, con meno di tre metri quadrati a testa. Fino alla settimana scorsa la situazione nei penitenziari sembrava sotto controllo. Il numero di detenuti infettati era relativamente basso, e i malati erano sparsi in diverse strutture. A luglio i contagiati erano sette, di cui soltanto due nelle prigioni di sicurezza. Nessuno a Gilboa. Ma il 3 novembre è arrivata la notizia che 66 palestinesi detenuti a Gilboa erano positivi. Il 5 novembre il numero è salito a 87: ben 21 contagiati in due giorni su una popolazione carceraria di 450 detenuti. In meno di una settimana il virus ha colpito il 20 per cento dei detenuti. I giudici della corte suprema hanno riflettuto su questa impennata dei contagi? Hanno pensato che i promotori della petizione sapevano bene di cosa stavano parlando, quando hanno sottolineato il rischio di un focolaio a Gilboa? Hanno pensato che forse le autorità carcerarie non si stanno impegnando al massimo per evitare un focolaio proprio nella struttura indicata dalla petizione? Ricordano cosa hanno sostenuto gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele? In quell’occasione i giudici hanno ripetuto l’opinione del governo, ovvero che il “distanziamento fisico” per ostacolare il contagio non si applica ai detenuti, che invece devono essere considerati come componenti di un’unica unità familiare che vivono insieme in un singolo ambiente. Anche a Gilboa. Gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe hanno sottolineato che le guardie carcerarie entrano in ogni cella circa cinque volte al giorno. “Non è come una casa privata dove si può impedire l’ingresso delle guardie per essere al sicuro”, hanno spiegato. “Le guardie entrano ed escono, poi rientrano a casa e il giorno dopo tornano al lavoro”. Israele e le sue istituzioni sono ormai drogati dal disprezzo per le vite dei palestinesi. È per questo che hanno respinto due petizioni che chiedevano l’adozione di misure facilmente applicabili, che avrebbero potuto ridurre il rischio di contagio tra i detenuti palestinesi. Il 3 novembre ho chiesto al portavoce del servizio penitenziario i dati sui contagi tra tutti i detenuti, uomini e donne, israeliani e palestinesi. Volevo conoscere il numero di quelli risultati positivi dall’inizio della pandemia, il numero di persone attualmente infette e il numero di malati gravi. Ho chiesto se in altre strutture, oltre a Gilboa, si era verificato un aumento dei casi così importante. Ho pensato che i dati sarebbero stati immediatamente accessibili sui sistemi informatici. Invece il portavoce del dipartimento ha trattato la mia richiesta come fosse un’indagine complessa. Dopo un secondo tentativo, ho ricevuto subito i dati: 23 detenuti sono risultati infetti negli ultimi nove mesi. Altri 87 detenuti sono risultati infetti nell’ultima settimana. Tutti nel penitenziario di Gilboa. Fino al 5 novembre. *Traduzione di Andrea Sparacino) Afghanistan. La sociologa australiana che ha rivelato gli orrori delle forze speciali di Canberra di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 23 novembre 2020 La dottoressa, 44 anni, era stata arruolata per un rapporto sulla cultura delle forze speciali australiane: ne ha invece scoperto abusi e uccisioni di civili inermi. “Mi hanno accusata di essere una femminista che vuole “castrare” i militari”. Non si aspettava di scoperchiare dei crimini di guerra. La dottoressa Samantha Crompvoets, 44 anni, non era una donna da prima linea, abituata com’era a fare ricerche in un ufficio di sole donne nelle torri sul lago di Canberra che ospitano il quartier generale militare, presidio spiccatamente maschile. Sociologa e fondatrice di una società di consulenza, è però riuscita in questa rara missione sul campo a guadagnarsi la fiducia dei soldati più duri. Un passo fondamentale per arrivare a scoprire anni di soprusi, torture e stragi compiute in Afghanistan dalle forze speciali australiane, in particolare dalla Sas, la Special Air Service. Fu lei a chiedere cinque anni fa di andare a parlare con i soldati. “Quando seppero del mio arrivo alcuni mi contattarono di loro iniziativa, altri accettarono di parlare in condizioni di anonimato, qualcuno mi spedì delle lettere”. Come quello che le confidò: “Avevano soltanto sete di sangue. Psicopatici, dei veri psicopatici - le disse riferendosi ai superiori - E noi li abbiamo nutriti”. Crompvoets ha riferito di interi villaggi sigillati, con uomini e ragazzi deportati in guesthaouse per essere “torturati anche per giorni”. “Quando le forze speciali se ne andarono, gli uomini e i ragazzi erano morti: proiettili in testa, la gola squarciata” ha scritto la sociologa nel suo report. Su Twitter e nelle interviste rilasciate in queste ore ai media britannici e australiani, Samantha racconta del sollievo di poter finalmente parlare di una vicenda che l’ha tormentata per anni. I contenuti del suo rapporto, rimasto secretato per 5 anni, sono stati resi pubblici ora che sono state divulgate le conclusioni dell’inchiesta ufficiale della difesa australiana, partita proprio a seguito del suo lavoro. Un rapporto che inchioda un gruppo delle proprie forze d’elite, accusato di aver ucciso brutalmente inermi innocenti mentre era impegnato al fianco della coalizione internazionale a guida Usa, tra il 2007 e il 2013: 39 vittime, tra riti di iniziazione e omicidi extragiudiziali, con una crudeltà che ha segnato la pagina “più vergognosa della storia militare” del Paese. Quando 18 mesi fa uscirono le prime indiscrezioni sulle sue scoperte, la dottoressa Crompvoets finì sotto attacco: “A sorpresa il discorso pubblico si focalizzò sul fatto che ero una donna e che mi descrivevo come una femminista sul mio profilo Twitter” ha detto al Times. “Sono stata trollata, e calunniata sui media. Sono stata accusata di cercare di “femminilizzare” la difesa e le persone che non avevano letto il mio rapporto hanno desunto che stavo cercando di “castrare” le forze speciali. In realtà il femminismo è stato un grande catalizzatore del mio lavoro: mi ha dato la fiducia di dire una brutta verità a uomini potenti in un’organizzazione dominata dagli uomini”. In realtà la dottoressa Samantha era stata ingaggiata per altro: il generale Angus Campbell, a capo dell’Australian Defence Force (Adf), nel 2015 le aveva chiesto un rapporto sulla cultura delle forze speciali e le tensioni con altre unità d’élite. Quello che Crompvoets ha scoperto è una storia che scuote i vertici militari australiani e rovina la reputazione di quanti venivano rappresentati come “eroi” che rischiano la loro vita in Afghanistan, la guerra più lunga per l’Australia. I contenuti del suo rapporto, rimasto secretato per 5 anni, sono stati resi pubblici ora che sono state divulgate le conclusioni dell’inchiesta ufficiale della difesa australiana, partita proprio dopo il lavoro di Crompvoets. Un rapporto che inchioda un gruppo delle proprie forze d’elite, accusato di aver ucciso brutalmente inermi innocenti mentre era impegnato al fianco della coalizione internazionale a guida Usa, tra il 2007 e il 2013: 39 vittime, tra riti di iniziazione e omicidi extragiudiziali, con una crudeltà che ha segnato la pagina “più vergognosa della storia militare” del Paese. Nel suo rapporto choc inviato nel 2016 al generale Angus Campbell le testimonianze di soldati che paragonano questi orrori ai massacri di civili a My Lai nella guerra del Vietnam e alle torture dei detenuti di Abu Ghraib in Iraq. La brutalità delle forze speciali australiane è un’ulteriore macchia sulle forze di intervento straniere nei teatri di guerra del XXI secolo. Etiopia. L’ultimatum del premier alle forze del Tigray: “Avete 72 ore per arrendervi” di Raffaella Scuderi La Repubblica, 23 novembre 2020 Abiy Ahmed ha inviato una lettera alla popolazione annunciando la fase finale dell’offensiva contro Mekelle, la capitale della regione ribelle. “I vostri giorni sono giunti al termine”. Il conflitto ha già provocato oltre 11mila sfollati. “Ai membri della cricca distruttrice del Fronte di Liberazione del Tigré: il vostro viaggio di distruzione è arrivato alla fine. Arrendetevi pacificamente entro le prossime 72 ore, ammettendo di aver raggiunto un punto di non ritorno”. Sono le parole conclusive della lettera del premier etiope Abiy Ahmed indirizzata alla regione ribelle nel Nord del Paese pubblicata oggi nel tardo pomeriggio. Il governo federale, secondo quanto confermato dal premier, si trova ormai alle porte della capitale del Tigray, Mekelle, dove “si nascondono i traditori dello stato di diritto”. Secondo Abiy, l’elite tigrina si nasconderebbe “nelle scuole, negli istituti religiosi e addirittura nei cimiteri”. Varie aree della regione sono state già conquistate: Adigrat, Axum Dansha, Humera. Manca la capitale e i vertici del Fronte di liberazione del Tigray (Tplf). Il 4 novembre il governo federale dell’Etiopia ha lanciato un’offensiva militare contro la regione del Tigray, accusata di aver tenuto elezioni illegali, lo scorso settembre, e di aver attaccato la base militare federale del comando del Nord. I tigrini hanno governato il Paese per quasi 30 anni, nonostante rappresentino solo il 6% della popolazione, fino alla nomina a primo ministro per investitura parlamentare di Abyi Ahmed nel 2018. Da allora i rapporti tra Addis Abeba e l’elite tigrina si sono deteriorati sempre di più con accuse di corruzione e arresti da parte del governo e di ostruzionismo da parte tigrina. La miccia è stata la decisione di Abiy di rimandare al 2021 le elezioni presidenziali e legislative, previste in agosto, a causa del Covid. Il Tigray e i suoi vertici hanno reputato illegale e incostituzionale la decisione del premier e hanno tenuto le elezioni per proprio conto. Il partito principale, il Tplf, ha vinto con numeri schiaccianti. Nella lettera Abiy si appella a tutta la popolazione del Tigray, più e più volte, scrivendo che proprio grazie al sostegno degli etiopi,”lo stato di diritto sta vincendo”. Parlando delle città liberate nel Tigray scrive che le truppe federali si sono mosse con cura e attenzione per limitare il più possibile i danni ai civili e ai monumenti storici. “Stessa cosa non si può dire del Tplf. Abbiamo sospeso un attacco aereo perché sapevamo che avrebbe colpito i civili”. La terza fase dell’offensiva richiede “saggezza, cura e pazienza”. Il premier sostiene che è quella finale: “L’obiettivo ora è di consegnare i traditori alla giustizia. Loro non hanno pietà”. E quindi l’appello alla popolazione: “Consegnateli”. L’ultimatum è di 72 ore: “I vostri giorni sono giunti al termine”. Il conflitto in 18 giorni ha già provocato lo sfollamento di più di 11mila persone in viaggio verso il vicino Sudan. L’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, in un briefing a Ginevra, stima che saranno almeno 200mila. Il premier ha garantito che intende “riportare a casa tutti quanti. Aiutiamoci l’un l’altro e vinceremo”. Nepal. 60.000 segnalazioni per crimini di guerra, ma nessuna condanna di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 23 novembre 2020 Il report di Human Rights Watch denuncia l’impunità dei criminali di guerra. Uccisioni extragiudiziali e corruzione. Le vittime degli abusi aspettano ancora giustizia dopo 14 anni. La ricerca condotta da Human Rights Watch. e Advocacy Forum, “Né legge, né giustizia, né Stato: la cultura dell’impunità nel Nepal post-conflitto”, riporta 62 casi di uccisioni extragiudiziali in Nepal, documentate per la prima volta nel 2008. Da allora, nonostante le sentenze della corte suprema e i richiami internazionali, non è stato fatto nulla per indagare. Il governo invoca l’intervento della “giustizia transizionale” sorta alla fine del conflitto nazionale ma che, di fatto, è poco sviluppata e poco autorevole. Nel frattempo, gli abusi delle forze di sicurezza continuano. E affondano le radici nelle impunità commesse durante la guerra civile. 1996-2006, la guerra civile in Nepal. Nel 2006 terminava il conflitto nepalese tra le forze governative e gli insorti maoisti iniziato dieci anni prima. Decine di migliaia le vittime di sparizioni, torture, stupri ed esecuzioni sommarie, vittime per le quali ancora non è stata fatta giustizia. Deboli le proposte di legge e ancora più debole l’impegno del governo nell’attribuire colpe e responsabilità. Questo comportamento ha avuto un impatto sullo sviluppo democratico del paese negli anni seguenti, fino ai giorni nostri. La Nuova Costituzione tra le proteste delle minoranze. Al termine del conflitto nepalese, dove più di 13.000 persone sono rimaste uccise e altre 1300 scomparse, è stato siglato l’Accordo comprensivo di pace, nel quale era prevista l’istituzione di un sistema di giustizia transizionale. Occorreva inoltre scrivere una nuova Costituzione. Tuttavia, la mancanza di accordi politici ha ritardato il processo fino al 2015, quando la Costituzione è stata approvata seguendo un iter accelerato, a seguito del grave terremoto che ha colpito il paese. Il documento è stato subito oggetto di proteste, in particolare da parte di due gruppi: le persone di etnia Madhesi e Tharu, i cui diritti erano lesi dalla nuova costituzione. Crimini di guerra: 60.000 segnalazioni, nessuna condanna. Nello stesso anno, sono state create due commissioni speciali per trattare le questioni relative ai crimini commessi durante la guerra civile. Pur avendo ricevuto oltre 60.000 segnalazioni, le commissioni non hanno completato alcuna investigazione. “Il governo nepalese ha mantenuto una fortissima impunità, proteggendo chi abusa a discapito dei diritti umani e minando di fatto lo stato di diritto”, afferma Meenakshi Ganguly, direttrice della sezione Asia Meridionale di Human Rights Watch. “Le strutture di giustizia transizionale messe in piedi sono deboli, creano ritardi nelle indagini e sfavoriscono le riforme necessarie, invece di offrire riconciliazione e giustizia”. I casi di tortura. Secondo le ricerche di Advocacy Forum, negli ultimi anni la polizia ha utilizzato la tortura su un numero elevato di persone in particolare delle comunità Dalit, considerati “intoccabili”, Tharu e Madhesi. Da quando è stato introdotto il reato di tortura, nel 2018, non c’è stata ancora nessuna condanna. “Le vittime si sentono doppiamente insicure e vulnerabili, perché lo stato continua a proteggere i colpevoli e a mettere sotto pressione chi è indifeso”, afferma Om Prakash Sen Thakuri, Direttore di Advocacy Forum. In questo clima di stagnante impunità, complice il fallimento delle riforme del sistema di sicurezza, anche i più recenti casi di violazioni di diritti umani vengono insabbiati. Si parla di uccisioni extra giudiziali, torture, uccisioni durante proteste pacifiche, eventi che sono spesso documentati. La Commissione nazionale per i diritti umani. La Commissione nazionale per i diritti umani, organo costituzionale del Nepal, nel corso degli ultimi anni ha individuato centinaia di presunti criminali e suggerito al governo di prendere provvedimenti. Lo scorso ottobre, ha pubblicato i nomi di 286 persone, inclusi 98 ufficiali di polizia, 85 soldati, 65 ex insorti maoisti che si sono macchiati di crimini negli ultimi 20 anni. Tuttavia, pochissimi sono stati messi a processo. Comunità internazionale e finanziamenti. La comunità internazionale ed in particolare i paesi che hanno legami economici con il Nepal, soprattutto per quanto riguarda programmi di supporto e sviluppo come Regno Unito e Stati Uniti, dovrebbero fare pressioni sul governo nepalese, afferma la ricerca. “Gli ufficiali nepalesi offrono solo frasi retoriche sui diritti umani e sulla giustizia, per placare l’uditorio internazionale. Ma a parlare sono le azioni, o meglio, l’inazione” afferma Ganguly. Il rischio di riforme censorie. Nell’ultimo decennio le organizzazioni per i diritti umani e i singoli attivisti sono stati una risorsa preziosa in grado, spesso, di contrastare gli abusi dei governi e le strette autoritarie. Hanno rappresentato un punto di osservazione e una cassa di risonanza fondamentale per far uscire dal silenzio abusi che altrimenti sarebbero rimasti in ombra. Per questo motivo molti governi, incluso quello nepalese, cercano di ridurre questi movimenti al silenzio. L’attuale primo ministro del Nepal K.P. Sharma Oli per esempio ha proposto delle leggi che contengono accenni al danneggiamento dell’”orgoglio nazionale” e dell’”immagine e prestigio individuali” che potrebbero essere facilmente utilizzate per limitare la libertà di espressione sui social e sui mezzi di comunicazione di massa.