Il carcere non è un posto sicuro: la pandemia dilaga, il governo riduca il sovraffollamento di Riccardo De Vito Il Domani, 22 novembre 2020 Le misure previste dal decreto “Ristori” appaiono timide, perché non mettono argine al sovraffollamento. Inoltre la carenza di risorse, personali e materiali, rende difficile un sistema di prevenzione, diagnosi e cura efficace per tutti i detenuti. Va tutelata la salute di tutti, anche dei detenuti più pericolosi, dei mafiosi, dei terroristi. Rinunciare a questo obiettivo ci porrebbe fuori dalla Costituzione, dalla democrazia, dalla civiltà e una resa di questo tipo regalerebbe alla criminalità organizzata fiumi di consenso. “Un giorno dopo l’altro”, come scriveva Luigi Tenco con una cupezza adeguata allo sconforto infuso dalle cronache di questi giorni, la drammatica verità del rapporto tra carcere e virus viene a galla. La finzione del carcere come “luogo sicuro” è stata avvalorata con pochi scrupoli nel discorso pubblico, ma viene man mano capovolta dai fatti e dai numeri del contagio: oltre 700 positivi tra le persone detenute e più di 900 tra quelle che, a vario titolo, lavorano nel penitenziario. Cade anche l’abbaglio dei reparti 41-bis come “territori protetti” per definizione: nel carcere di Tolmezzo tutti i detenuti sottoposti a regime differenziato risultano contagiati e se ne contano anche nell’istituto di Milano-Opera. Era inevitabile. L’esposizione contaminante è una caratteristica dell’istituzione totale. La seconda ondata dell’epidemia corre nel Paese e accelera nelle prigioni: se non si vuole arrivare a un conflitto tragico tra la promessa costituzionale di sanzioni penali conformi al principio di umanità e un carcere reale che calpesta il diritto alla salute, occorre subito porre rimedio. Le misure legislative adottate nel c.d. decreto “Ristori” appaiono timide e, dunque, inidonee a conseguire lo scopo ineludibile dell’alleggerimento della pressione del sovraffollamento. Allo stato, benché le presenze fisiche siano inferiori rispetto a quelle dello scorso mese di marzo, 54.000 detenuti sono troppi rispetto ai 47.000 posti effettivi e rispetto alle strategie messe in campo dall’amministrazione penitenziaria per prevenire lo spread del contagio. La creazione di “zone filtro” di isolamento - per i nuovi ingressi, per i casi sospetti, per i positivi sintomatici e per quelli asintomatici - è inattuabile se le cifre rimangono quelle appena dette, a meno di non voler paralizzare la prigione e interrompere anche le attività essenziali. Allo stesso modo la carenza di risorse, personali e materiali, rende estremamente difficile un sistema di prevenzione, diagnosi e cura davvero efficace per tutta la nutrita popolazione ristretta. Due sono le traiettorie che il contrasto al sovraffollamento dovrebbe seguire. In modo semplice e schietto, possono essere così riassunte: meno ingressi, più uscite. Vedremo, tra poco, come questo progetto possa e debba essere realizzato senza minimamente ridurre il grado di tutela della sicurezza pubblica. Meno ingressi - Iniziamo dal rubinetto di ingresso. Al di là di un ricorso più oculato all’utilizzo del carcere nei confronti dei detenuti in attesa di giudizio (di nuovo predicato dalla Procura Generale presso la Corte di Cassazione), la strada da intraprendere - suggerita anche dal Garante nazionale - dovrebbe essere, per il tempo necessario a uscire dall’emergenza, quella della sospensione dell’ordine di carcerazione nei confronti dei condannati a pena (anche residua) inferiore a quattro anni. Si tratta di un istituto da delimitare (ne devono rimanere esclusi i responsabili dei reati di mafia e terrorismo), ma che il nostro ordinamento già conosce e sperimenta con successo nei confronti di molti condannati. Nessuna rinuncia alla punizione, nessun indulto mascherato; semmai, un incentivo per molti a tenere un comportamento conforme alle regole in vista di un’esecuzione futura diversa dal carcere o comunque più mite. A conti fatti, un beneficio anche per la sicurezza pubblica. Più uscite - Rubinetto di uscita. Sono già molte le proposte di emendamento al decreto “Ristori” che mirano a ripristinare uno strumento già utilizzato nel nostro Paese dopo le condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: la liberazione anticipata speciale. Portare da 45 a 75 giorni a semestre i giorni di riduzione della pena conseguibili, consentirebbe di abbreviare il “fine pena” di molte persone che sono ormai prossime a mettere comunque i piedi fuori dal carcere e che, però, sono state valutate positivamente dai giudici sotto il profilo dell’evoluzione della personalità. Anche in questo caso il pericolo per le esigenze di tutela della collettività è prossimo allo zero. Altro campo di intervento può essere quello di un allargamento delle maglie della detenzione speciale prevista dal medesimo decreto “Ristori”, che al momento è riservata a una platea di beneficiari addirittura più ridotta di quella destinataria delle ordinarie ipotesi di detenzione domiciliare. Riguardo alle possibilità di detenzione domiciliare è stato opportunamente segnalato dal Garante nazionale il dramma delle persone senza fissa dimora. Su 3359 persone che hanno un fine pena inferiore a diciotto mesi, 1157 non hanno una casa o un posto dove dormire. Nulla di nuovo, è il dramma dei poverissimi in carcere e di una giustizia penale veloce e tempestiva solo con i marginali. I domiciliari - È auspicabile un intervento che, potenziando i progetti già pensati e finanziati da Cassa Ammende e Direzione dell’esecuzione penale esterna, consenta di ampliare il numero delle strutture e delle dimore sociali ove ospitare i soggetti più vulnerabili da un punto di vista economico e sociale. Solo così si potrà restringere la forbice, da sempre esistente in carcere e sempre più ampia in tempi di Covid, tra deboli e forti. Quelle accennate costituiscono soltanto abbozzi di possibili soluzioni da adottare prima che il tempo scada. Altre sono immaginabili. È opportuno, però, che il decisore politico faccia presto e agisca con coraggio. Abbiamo bisogno di un carcere meno affollato per tutelare in maniera integrale la salute di chi è dentro. Anche dei detenuti più pericolosi, dei mafiosi, dei terroristi. Rinunciare a questo obiettivo ci porrebbe fuori dalla Costituzione, dalla democrazia, dalla civiltà. Una resa di questo tipo regalerebbe alla criminalità organizzata fiumi di consenso nel carcere e nei territori. Nelle galere, inoltre, coverebbe rancore anziché riflessione critica sul passato. Occorre far presto. Altrimenti, per tornare alla bella e dolorosa canzone dell’inizio, “domani sarà un giorno uguale a ieri”. “Il virus in cella corre di più delle scarcerazioni: più misure per arginarlo” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 22 novembre 2020 Intervista al Garante dei detenuti Mauro Palma: “Evitare di penalizzare i senza casa. I bimbi in carcere? Si trovi finalmente una soluzione diversa”. “Il ritmo di crescita del Covid in carcere è molto più alto di quello della riduzione dei detenuti, resa possibile dalle misure previste dal decreto Ristori. E bisognerebbe fare in modo che gli andamenti fossero almeno uguali. La situazione è allarmante? Dal punto di vista medico, clinico, per il momento potremmo dire di no, ma il problema degli istituti di pena è sempre quello: lo spazio. E sotto questo aspetto l’allarme c’è”. In tempi in cui l’isolamento e il distanziamento sociale sono l’arma più forte per fermare la pandemia, lo spazio assume un ruolo ancor più determinante. Soprattutto in cella, dove non c’è mai stato. In questi giorni susseguono gli appelli delle associazioni per prendere provvedimenti più drastici per impedire che le carceri diventino focolai. E, d’altro canto, il ministro della Giustizia, fornendo le cifre del contagio, usa toni distensivi e garantisce che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta gestendo “un problema delicato”. Il Garante delle persone private della libertà, Mauro Palma, fa una panoramica della situazione. Ritiene che bisogna ampliare le misure previste dall’ultimo provvedimento in materia - in questi giorni al vaglio del Parlamento - e che ci sia un elemento che non va dimenticato: non bisogna lasciare indietro nessuno. “È necessario trovare il modo di non penalizzare i detenuti socialmente fragili e non chiudere totalmente il carcere all’esterno. Ad oggi c’è una inevitabile riduzione dei colloqui in presenza e delle attività didattiche e di volontariato ma la chiusura totale non sarebbe accettabile”, dice ad HuffPost. La pandemia non ha risparmiato neanche i bambini che vivono con le mamme detenute. Due piccoli ospiti dell’Icam, la struttura dedicata alle mamme ristrette con figli piccoli, di Torino sono diventati positivi con la loro mamma, per poi guarire, fortunatamente, pochi giorni dopo. Ma, anche alla luce di questo episodio, bisogna immaginare un futuro in cui i figli di chi ha commesso un reato non siano costretti a loro volta alla reclusione. Per farli stare con la loro mamma, come è giusto che sia, bisogna trovare altre soluzioni. Ed è questa l’occasione per farlo. In questi ultimi giorni si sono moltiplicati gli appelli per trovare misure che fermino il Covid in carcere. Lei che ha un occhio su tutti i penitenziari d’Italia, ci racconta qual è la situazione? Ci sono due piani su cui ragionare. Uno è medico, l’altro è relativo agli spazi. Dal primo punto di vista posso dire che ad oggi (dati aggiornati alle 21 del 19 novembre, ndr) sono positivi 732 detenuti e 1021 tra agenti e personale dell’amministrazione. I sintomatici sono 46, 22 gli ospedalizzati. Se dovessimo parlare di emergenza solo ed esclusivamente da un punto di vista clinico potremmo dire che non si può far finta di niente, che bisogna stare all’erta, ma che l’allarme non è massimo. Ma il punto in carcere è anche un altro: la disponibilità di posti dove isolare i positivi o far fare la quarantena. Lo spazio appunto, che in carcere non c’è. Nel decreto ristori c’è una norma che consente di chiedere gli arresti domiciliari ai detenuti che hanno un residuo di pena di massimo 18 mesi e non hanno commesso reati gravi e di non far tornare in cella chi è in semilibertà, fino al 31 dicembre. È efficace? Attualmente in cella ci sono circa 400 persone in meno rispetto a sette giorni fa, per un totale di 53758. È una riduzione piccola. E, soprattutto, il virus nei penitenziari cresce con un ritmo più sostenuto rispetto a quello della diminuzione di detenuti. Sarebbe necessario che i due andamenti fossero almeno uguali. Non è ancora abbastanza, insomma. Il decreto è in Parlamento e anche il Pd ha chiesto di emendarlo. Lei ha fatto alcune proposte per renderlo più efficace. Quali? In un momento come questo bisognerebbe che si tenessero in carcere solo le persone per cui c’è una forte necessità di reclusione. La soglia dei 18 mesi, ad esempio andrebbe portata a 24. Sarebbe utile ampliare la liberazione anticipata, come è stato fatto in passato. Ai ristretti che hanno superato il vaglio del magistrato per buona condotta, bisognerebbe dare uno sconto di pena non di 45 giorni ogni 6 mesi ma di 75. Un altro strumento utile sarebbe rinviare l’esecuzione della pena per le sentenze definitive che riguardano reati non particolarmente gravi ma risalenti nel tempo. Misure chirurgiche, insomma, che però consentirebbero di avere più spazio e una migliore gestione. E poi c’è la questione della custodia cautelare. I dati ci dicono che circa un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio, fosse anche della Cassazione. Numeri importanti. Che in un momento di pandemia pesano doppiamente. Si può intervenire? Se ci fermiamo alle persone in attesa della sentenza di primo grado, notiamo che sono il 13-14% della popolazione carceraria. Sono tante. Voglio ricordare quello che ha detto il Procuratore generale della Cassazione: la previsione della custodia cautelare in carcere è una possibilità estrema per il nostro ordinamento. Un minore ricorso alla a questo strumento sarebbe particolarmente significativo oggi. Durante la prima ondata, quando si levavano cori di indignazione le per decisioni, del tutto legittime, dei magistrati di mandare a casa i detenuti con problemi gravi di salute, c’era chi diceva che al 41 bis il virus non sarebbe mai arrivato. E, quasi con ironia, che il regime di isolamento duro era sicuro. A giudicare da quanto sta succedendo ora non è così, non trova? Esatto, quella era un’affermazione effimera. Posso garantire che in un momento come questo non ci sono luoghi immuni dal rischio. E, non a caso, abbiamo registrato in due situazioni dei positivi tra i detenuti al 41 bis. In relazione al clamore della prima ondata sulle scarcerazioni vorrei aggiungere una cosa: nella nostra Costituzione è usata una sola volta l’espressione “diritto fondamentale”. Nell’articolo 32, che enuncia il diritto alla salute. Credo che basti questo elemento per ricordare che va garantito a tutti. È un principio cardine della nostra società. Torniamo alle misure per far uscire i detenuti. I possibili beneficiari ad oggi sono poco più di 3mila. Buona parte, però, non ha una casa. Ciò li esclude, di fatto, dalla possibilità di uscire. Come risolvere il problema? Qui entrano in gioco gli enti locali (cui il ministero ad aprile, durante la prima ondata, ha destinato 5 milioni per questo scopo, ndr), che devono impegnarsi a dare un alloggio a queste persone. Spesso i senza fissa dimora, tra l’altro, non sono gli autori dei reati più gravi. Bisogna trovare lo strumento per evitare di penalizzare i detenuti socialmente più fragili. Tra i soggetti fragili ci sono i bambini. Al 31 ottobre 33 piccoli erano in carcere, o negli istituti a custodia attenuata, con le loro mamme. Anche loro rischiano di essere contagiati e a Torino è successo. Possibile che non esista una soluzione alternativa per far trascorrere ai bimbi i primi anni dell’infanzia con le madri detenute? Io spero che da questo periodo negativo nasca almeno una conseguenza positiva. E, cioè, che in una società civile come la nostra si riesca a trovare un’alternativa per questi bambini. Sono poche decine, non è così difficile. La soluzione non sono le sezioni nido delle carceri e neanche gli Icam, ma le case famiglia protette. Spero che questa sia l’occasione per intraprendere tale strada, finalmente. Vittorio Manes: “L’amnistia servirebbe, al di là del Covid” di Angela Stella Il Riformista, 22 novembre 2020 Qualche giorno fa la Consulta ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito alla norma, introdotta durante l’emergenza sanitaria, che prevede la retroattività della sospensione dei termini della prescrizione. Nel procedimento era stato ammesso un amicus curiae dell’Osservatorio Corte Costituzionale dell’Ucpi, il cui responsabile è l’avvocato Vittorio Manes, Professore Ordinario di diritto penale all’Università di Bologna. Manes è stato protagonista di importanti decisioni della Corte costituzionale: caso Dj Fabo, ergastolo ostativo e permessi premio, applicazione retroattiva della “spazza-corrotti”, e la nota sentenza Taricco. Professor Manes possiamo dire che questa ultima decisione della Consulta non è entusiasmante per le garanzie degli imputati? Scontato che occorra attendere le motivazioni per poter dare un giudizio. Ma la decisione di infondatezza della questione è già chiara, e segna un arretramento importante sul piano delle garanzie in materia penale, e del principio di irretroattività. L’emergenza che stiamo vivendo non può giustificare - in uno Stato di diritto - una deroga a principi fondamentali come l’irretroattività del reato e della pena. Quali erano le ragioni principali a sostegno della illegittimità costituzionale? L’Unione delle Camere penali ha condotto un’autentica battaglia di civiltà sulla prescrizione, e sulle sue ragioni di garanzia, perché un ordinamento civile ripudia l’idea di un processo senza fine. In relazione al caso specifico, le ragioni che hanno determinato l’intervento a titolo di amicus curiae sono la ritenuta contrarietà a Costituzione di una modifica sfavorevole del regime di prescrizione con effetti retroattivi, appunto perché questa - incidendo sulla punibilità con effetti peggiorativi per l’imputato - violerebbe la superiore garanzia di irretroattività, da sempre ritenuta inderogabile nella giurisprudenza costituzionale, ed applicabile appunto all’istituto della prescrizione, che la stessa giurisprudenza della Consulta riconosce di “natura sostanziale”, cioè sostanza della legalità penale e non semplice morte del processo. Se è così, il legislatore avrebbe potuto e dovuto trovare altre soluzioni per garantire la prosecuzione dell’attività giudiziaria, diverse dall’addossare all’imputato una protrazione temporale della sofferenza processuale, perché così facendo - riparandosi dietro all’emergenza - ha compiuto una scelta di campo statocentrica, noncurante dei diritti fondamentali. Il rischio, peraltro, è che le eccezioni si trasformino in regola: e del resto l’ultimo Dpcm ha previsto nuove ipotesi di sospensione, a dimostrazione che - in un contesto di emergenza che va purtroppo stabilizzandosi - le misure eccezionali e derogatorie tendono a consolidarsi, a tutto scapito della tenuta dello Stato di diritto. Il giudice Nicolò Zanon non scriverà la sentenza, pur essendo il relatore del procedimento, perché in dissenso con la decisione della Camera di Consiglio... Nel nostro sistema di giustizia costituzionale non è ammessa l’opinione dissenziente, e l’unico strumento che il relatore ha di manifestare il proprio dissenso è, appunto, quello di rinunciare a redigere le motivazioni: del resto, sarebbe difficile motivare qualcosa in cui non si crede. Chiaramente è il segno di una divisione all’interno del collegio, ed a mio avviso il meccanismo delle opinioni separate - concordanti o dissenzienti - garantirebbe maggior trasparenza alla decisione, lasciando emergere anche posizioni che oggi sono rimaste minoritarie ma che domani, magari, potrebbero diventare maggioritarie. Qualcuno sostiene che la Consulta stia prendendo sul fronte delle garanzie e dei diritti degli imputati e dei detenuti un orientamento diverso rispetto a quello riscontrato durante la presidenza di Marta Cartabia... Mi sembra francamente una valutazione opinabile, se non arbitraria. A prescindere dall’incidenza che le Presidenze - specie quelle molto brevi - possono avere sugli orientamenti della Corte, ogni questione è diversa dall’altra, ogni generalizzazione fuorviante, e mi sembrerebbe approssimativo “etichettare” una o l’altra stagione in un senso o nell’altro: certo durante le presidenze Lattanzi e Cartabia vi sono state decisioni storiche della Corte in punto di laicità del diritto penale (pensiamo al caso Cappato del “fine vita”) e di garanzie fondamentali (pensiamo alle decisioni rese nella “saga Taricco”, alla decisione che ha esteso il principio di irretroattività a talune norme dell’ordinamento penitenziario, come il famigerato 4 bis, alla sentenza sull’ergastolo ostativo). Ma non sono mancate - ieri come oggi - decisioni francamente più opinabili, ed apertamente criticate in dottrina, come quella sulla confisca urbanistica o sulla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in caso di mutamento del collegio. Certo le decisioni più recenti sembrano dimostrare minor rigore nella verifica di legittimità: e l’auspicio, ovviamente, è che la Corte si impegni a promuovere sempre una concezione “alta” della Costituzione e del proprio ruolo, che è quello di argine antimaggioritario a difesa dei diritti e delle libertà, anche nei contesti di emergenza. In pochi giorni la Corte costituzionale ha promosso leggi fortemente volute da Salvini e Bonafede: “decreto antiscarcerazioni”, retroattività del blocco della prescrizione, inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo. La Consulta è un organo giurisdizionale neutro o qualche volta può prevalere l’aspetto politico? La Corte costituzionale è un organo tecnico, ma a composizione mista “tecnico-politica”: sarebbe ingenuo pensare che le valutazioni politiche non entrino affatto nel giudizio, ma sarebbe altrettanto azzardato - e forse ingeneroso - pensare che queste assumano un peso dirimente. L’impressione è che ragioni di Realpolitik spesso contino di più delle ragioni di politica tout court, e che le prime possano persino fare premio sulle concezioni della Costituzione e della giustizia costituzionale alle quali ciascun giudice si riporta. Questo, a mio avviso, il rischio maggiore dal quale un tribunale costituzionale dovrebbe cercare di guardarsi, sforzandosi di astrarsi dalla contingenza e - per quanto possibile - di “schivare il concreto”: anche a costo di essere inattuali oggi per poter essere attuali domani. Qual è il suo giudizio in merito alle novità introdotte dal Ministro Bonafede nel Dl Ristori e nel Dl Ristori bis? Premesso che la scelta di limitare le occasioni di presenza fisica nelle aule dei tribunali è una esigenza comune a tutti, la possibilità di svolgere udienze e camere di consiglio da remoto, soprattutto quelle affidate al giudice collegiale, suscita perplessità, perché rischia di mortificare una giurisdizione di fondamentale importanza come la Corte d’Appello: un giudice a cui è assegnato un compito di valutazione critica anche e soprattutto in ordine al merito dei fatti contestati che dovrebbe implicare collegialità reale e contraddittorio in presenza come regole non derogabili. Bonafede ha introdotto anche delle misure per sfoltire la popolazione carceraria. Molti, tra cui il Garante, il Partito radicale, Nessuno tocchi Caino, Antigone, chiedono azioni più incisive. Lei cosa pensa? Penso che di fronte ad una emergenza come quella che stiamo vivendo vi sarebbero mille ragioni per un provvedimento di clemenza collettiva, che del resto potrebbe essere giustificato non solo dall’emergenza sanitaria nelle carceri ma già da una considerazione complessiva della giustizia penale italiana, dove si punisce moltissimo in astratto e si persegue moltissimo - ed in modo spesso indiscriminato - in concreto. La giustizia penale è una risorsa scarsa, e come tale andrebbe concepita e gestita; il carcere - come vuole la Costituzione - deve essere davvero l’extrema ratio, giustificabile solo quando altre misure risultino inadeguate: ma siamo purtroppo a distanza siderale da questo orizzonte culturale, e la stagione del “populismo penale” - con un impeto punitivo impulsivo e compulsivo - ha esasperato ancor più questo declino. Il virus della disumanità irrompe nelle carceri di David Allegranti La Nazione, 22 novembre 2020 I penitenziari sono sempre più chiusi e distanti nel tentativo di limitare i contagi. Zero trasparenza sui dati: sono luoghi che interessano poco al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Ci sono luoghi che interessano poco al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, fiorentino d’adozione: le carceri. Zero trasparenza sui dati dei positivi al Coronavirus, tra detenuti e agenti di polizia, tanto chissenefrega, no?, se in prigione ci si contagia o ci si ammala. Per fortuna esistono associazioni come L’Altro diritto, nata a Firenze, e Antigone, che si preoccupano - seppur con molte difficoltà - di reperire i numeri del rischio sanitario in prigione. D’altronde, il Coronavirus non colpisce soltanto noialtri a piede libero. Anzi, nei luoghi chiusi il Coronavirus prospera (e cosa c’è di più chiuso, non solo allo sguardo esterno, di un posto come Sollicciano?), nell’indifferenza di quelli che un tempo facevano i paladini dello streaming, i Cinque stelle, e oggi non riescono neanche a darci i numeri giusti dei detenuti contagiati. Governo e amministrazione penitenziaria, da quando è iniziata l’emergenza sanitaria, non hanno brillato. Le carceri sono sempre sovraffollate e i contagi aumentano. Stando ai dati di venerdì scorso, i detenuti nelle carceri italiane sono 53.758 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931. Il numero dei detenuti positivi è aumentato rispetto alla settimana precedente: 732 persone, 172 in più (anche tra il personale i contagi sono aumentati, ce ne sono 156 in più). In Toscana, ci sono 9 positivi a San Gimignano, 6 a Sollicciano, circa 25 a Livorno. “Il carcere finora ha fatto solo quel che gli riesce meglio: chiudersi, chiudere ai colloqui, chiudere alle possibilità di trattamento, inserire reati per l’introduzione o la detenzione di telefonini nelle celle”, mi dice Sofia Ciuffoletti, direttrice dell’Altro diritto e garante delle persone private della libertà a San Gimignano: “Nella irrazionale, ma tanto più pervicace convinzione che rinchiudere non serva solo a correggere, come recitava Foucault, ma anche a curare (o prevenire). Così non è e sarà sempre troppo tardi per accorgersene!”. I Garanti italiani hanno scritto un appello al Parlamento nei giorni scorsi per spiegare perché “il carcere è una realtà in cui il rischio della diffusione del Covid-19 è molto alto: il fisiologico assembramento di un numero considerevole di persone in uno spazio angusto non permette, infatti, di rispettare le regole minime di distanziamento fisico e di igiene funzionali alla prevenzione del virus. La patologica situazione di sovraffollamento che caratterizza le nostre carceri contribuisce inoltre fatalmente ad accrescere il rischio di diffusione del contagio”. Nel disinteresse totale della politica, con qualche eccezione come i Radicali, che da sempre conducono battaglie di testimonianza. Eppure è la nostra Costituzione, all’articolo 27, a dirci che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere deve rieducare il detenuto, anche il più feroce, non farlo ammalare. Il Covid in carcere è una bomba da disinnescare. Anche con più trasparenza di Enrico Cicchetti Il Foglio, 22 novembre 2020 Detenuti trascurati, numeri confusi e poca attenzione ai dispositivi di protezione. Per evitare rivolte la pandemia va gestita coinvolgendo i detenuti e le loro famiglie, senza dimenticare volontari e professionisti che lavorano negli istituti. Il modello lombardo e l’esempio di Medici senza frontiere “Chi è detenuto e ha sintomi non lo dice, se riesce li nasconde. Perché se no ti tolgono anche le chiamate, non ti fanno andare in sala colloqui. Nessuno ha pensato a organizzare soluzioni alternative, né - nel nostro caso - sono state incentivate le videochiamate. Se noi familiari sappiamo poco di cosa succede, i nostri cari dentro sanno ancora meno. Sono tutti in cella, le uniche informazioni che arrivano loro sono quelle dalla tv. Anche solo spiegare qual è la situazione, quali sono i veri numeri dei contagiati, basterebbe a tranquillizzarli un po’”. Quello che dice al Foglio Federica è forse uno dei punti cruciali che riguarda il tema della diffusione del Covid nelle carceri italiane. Suo fratello è stato trasferito nel penitenziario di Busto Arsizio da quello di Opera durante la prima ondata. E lei fa fatica a sapere come sta, cosa sta succedendo dentro, quali sono i risultati dei tamponi. Il ministero non fornisce numeri ufficiali e l’amministrazione che dovrebbe tranquillizzare e informare, “non ci dice niente”, si lamenta. Il punto è proprio questo. “La politica del Dap sinora è stata quella di chiudere. Colloqui e contatti sono stati fortemente limitati. Giustamente”, dice al Foglio Claudio Paterniti, ricercatore dell’associazione Antigone. “Però non basta. Bisogna informare in maniera costante e capillare. Anche per evitare proteste: sia dentro (dove le rivolte della primavera scorsa hanno causato 13 morti e danni per milioni di euro) che fuori, tra i parenti. Serve trasparenza nella comunicazione. E servono più videochiamate e più telefonate”. Gli stalli con smartphone, ormai presenti in molti istituti, sembrano una strada praticabile da ampliare e stabilizzare. Il fatto che si sia iniziato a usarli solo adesso, causa pandemia, è un esempio del fossato che divide ancora il carcere dalla società. La legge che permette i dieci minuti di telefonata risale al 1975 (quando i minuti concessi erano massimo sei). Allora le interurbane avevano altri costi e la rete di telecomunicazione aveva diverse caratteristiche. Più che di una volontà punitiva si tratta della lentezza nell’aggiornare il “dentro” ai cambiamenti, anche tecnologici, del “fuori”. Ma piccole innovazioni come queste potrebbero servire a stemperare la paura e la tensione, anche perché i segnali da dietro le sbarre iniziano a farsi più preoccupanti. Il numero dei detenuti e degli operatori positivi sta raggiungendo il migliaio, con ritmi di crescita elevati. Nel 40 per cento circa degli istituti italiani c’è stato almeno un positivo tra le persone recluse e, in alcuni casi, come Poggioreale e Terni, ci sono veri focolai. Malgrado questo, il tasso di affollamento è ancora preoccupante. Ci sono circa 7.000 detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili. Se si considera poi che alcune sezioni sono state liberate per farne spazi per accogliere i contagiati, la situazione può essere considerata ancora più difficile rispetto a quanto non ci dicano i numeri e nonostante i protocolli adottati. “Dentro le carceri - dice Paterniti - ricominciano a circolare le fake news, che poi si gonfiano nei passaparola, sui gruppi WhatsApp dei familiari, nei messaggi affidati ai social network. Si straparla di carcerati morti per Covid, di contagiati in numero assolutamente irreale. È un segno dell’ansia che inizia ad attanagliare tutti”. Anche chi lavora in carcere e ogni giorno entra in contatto con i detenuti non ha una conferma ufficiale di quanti sono i positivi. Nei corridoi di Rebibbia - il più grande penitenziario di Roma, dove nemmeno i reparti gestiti da uno stesso responsabile hanno un protocollo comune per le misure anti Covid - prevale il mormorio e il timore di non lavorare in condizioni sicure, ci racconta chi frequenta per lavoro il carcere romano. Di un nuovo contagio ti accorgi se qualcuno non partecipa alle attività perché è in isolamento, ma non è mai stata fatta una riunione d’equipe con i direttori, non un incontro di aggiornamento. E d’altra parte per il personale medico e penitenziario non c’è possibilità di smart working. Dopo la prima fase emergenziale in cui le giornate dei detenuti si sono svuotate ancora di più, oggi sono ricominciate sia le lezioni scolastiche sia i laboratori organizzati dalle diverse associazioni. “Solo che all’ingresso l’unica misura è il controllo della temperatura”, dice chi entra a Rebibbia tutti i giorni. Il tampone è obbligatorio (e a proprie spese) solo per i volontari. Tutte gli altri accedono senza monitoraggio, compresi i detenuti che hanno ottenuto l’articolo 21 e lavorano fuori dal carcere. Durante le lezioni o durante i colloqui medici e psicologici le uniche precauzioni sono mascherine, distanziamento e talvolta barriere di plexiglas. “Oggi la maggior parte dei detenuti usa le mascherine di stoffa, ma chi non l’ha ricevuta da fuori si arrangia come può, usando per giorni la stessa mascherina chirurgica o sciarpe e altri indumenti”. A nove mesi dall’inizio della pandemia manca infatti una distribuzione organizzata dei dispositivi di protezione individuale che garantisca a tutti almeno una mascherina al giorno e un kit igienizzante. Se in quasi tutte le prigioni c’è il monitoraggio dei positivi e la quarantena per i nuovi giunti (cosa che per altro richiede spazi che spesso latitano o che ormai sono pieni), quando la situazione diventa più critica questi vengono ospedalizzati. “Le malattie infettive sono da sempre un grosso problema, in carcere: affollamento e scarse condizioni igieniche ne fanno un ottimo terreno di coltura per ogni virus. Tra l’altro sono luoghi patogeni, che creano malattie o aggravano quelle pregresse”, ricorda Paterniti. “Il Covid ha acceso un faro sul fatto che il carcere è un ambiente insalubre - aggiunge una psicologa che lavora con i detenuti di Rebibbia - Tutti i limiti che già esistevano con la pandemia non fanno che accentuarsi. Anche essere sotto organico oggi pesa più di prima: è sempre difficile seguire in modo adeguato ogni persona, ma in questo periodo in cui aumentano stress e sofferenza ancora di più”. Ora, chiede Antigone insieme ad altre sigle, sindacati e associazioni, occorre “estendere l’affidamento in prova e i domiciliari a chi soffre di patologie pregresse”, fermo restando il vaglio della magistratura. Ma anche mandare ai domiciliari chi ha un residuo pena basso. Il decreto ristori prevede la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare speciale per chi ha meno di 18 mesi da scontare. Il problema è che su 3.359 persone che ne avrebbero il diritto, 1.157, più di un terzo, sono senza fissa dimora). “L’enorme monitoraggio che ha fatto l’Aclu negli Stati Uniti mostra come le prigioni possano diventare delle bombe sanitarie. Dunque vanno disinnescate”, continua Paterniti. “Non solo per proteggere il diritto alla salute dei detenuti ma anche quello dei cittadini fuori dal carcere: chi si ammala in cella andrà in ospedale e sarà un aggravio per il sistema sanitario”. Alcuni istituti lombardi potrebbero servire da apri pista: lì sono stati creati dei Covid-hub, centri di cura e trattamento interni al carcere, di riferimento regionale, gestiti con la collaborazione di Medici Senza Frontiere, realtà terza che in questa cornice diventa un consulente prezioso. “Oggi c’è molta più consapevolezza che durante la prima ondata”, ci dice Marco Bertotto, responsabile per gli affari umanitari di MSF. “La situazione rimane estremamente complessa ma sono state attivate subito alcune misure fondamentali e oggi il personale sanitario ha imparato a gestire meglio l’emergenza Covid”. Con la seconda ondata la collaborazione è ripresa a Bollate e San Vittore, dove il progetto si è riattivato da pochi giorni. “Da marzo a giugno scorso la collaborazione era stata estesa in altri istituti in Lombardia, Marche, Piemonte e Liguria. Abbiamo dato una mano a gestire l’aspetto metodologico del contact tracing, a definire le procedure per l’ingresso dei nuovi detenuti, ad attivare circuiti interni per passare in sicurezza dalle zone ‘pulite’ a quelle ‘sporche’ e viceversa, a ottimizzare le attività di sanificazione di tutti gli ambienti”. Una parte centrale del lavoro di Msf riguarda informare i detenuti su quella che è la pandemia oggi. Parlare del virus e di come affrontarlo, invece che fare finta di niente. “La formazione sulle misure di prevenzione e sull’utilizzo dei dispositivi di protezione è fondamentale e coinvolge tutte le persone nel carcere”. Un percorso possibile grazie anche a chi il progetto l’ha attivato: “C’è molta consapevolezza da parte del provveditorato e dell’assessorato al welfare della regione Lombardia. Ci hanno chiamati, dopo l’aiuto dato nella prima fase: siamo una voce esterna, una consulenza”. Soprattutto, conclude Bertotto, il progetto è “un segnale di attenzione, di apertura e di cura”, parole che col carcere poco spesso si incontrano. Dentro il carcere il sesso non ha spazio di Giulia Siviero ilpost.it, 22 novembre 2020 Perché non ci sono luoghi né norme che, come raccontano le testimonianze che abbiamo raccolto, lo rendano un vero diritto. Un nuovo disegno di legge potrebbe cambiare le cose. Nel 2013 l’Economist pubblicò un articolo intitolato “No laughing matter” (“Non c’è niente da ridere”) in cui denunciava il fatto che il Regno Unito non prevedesse le “visite coniugali” all’interno delle proprie carceri, diversamente da molti altri paesi d’Europa e del mondo. Anche l’Italia non ammette che le persone detenute possano avere incontri intimi consensuali con chi desiderano. Lo scorso settembre alla Commissione Giustizia del Senato è stato assegnato un disegno di legge che introduce e regola le relazioni affettive e sessuali dentro gli istituti penitenziari: prevede il diritto ad una visita prolungata al mese, in apposite unità abitative, senza controlli audio o video. Il diritto alla sessualità nelle carceri è una questione molto seria, aperta ormai da vent’anni nel nostro paese, che rimanda a principi costituzionali e su cui ci sono pronunce autorevoli sia a livello nazionale che europeo. “Tenere assieme cose che possono apparire impossibili” - La prima iniziativa per il riconoscimento dell’affettività e della sessualità dentro le carceri italiane risale al 1999, quando Alessandro Margara, a quel tempo direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, propose di introdurre la possibilità per le persone detenute di trascorrere con i propri familiari fino a ventiquattro ore consecutive in apposite unità abitative realizzate all’interno degli istituti. Il Consiglio di Stato diede però parere negativo e la soluzione venne stralciata dal testo definitivo del nuovo regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario: secondo il Consiglio di Stato spettava al legislatore il dovere di adeguare su quella specifica questione la normativa penitenziaria. “Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà”, aveva detto Margara durante l’audizione alla Commissione giustizia. Il principio che difendeva è stato ribadito da varie commissioni ministeriali, dal Comitato Nazionale di Bioetica col parere del 2013 intitolato “La salute dentro le mura”, e dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale del 2015. Ma ci sono proposte e indicazioni molto esplicite già dalla fine degli anni Novanta da parte del Consiglio d’Europa e del Parlamento europeo; c’è la Convenzione europea dei diritti umani, che all’articolo 3 vieta i trattamenti inumani e degradanti e all’articolo 8 tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare; ci sono le raccomandazioni delle Regole penitenziarie europee del 2006 e quelle delle “Regole di Bangkok” delle Nazioni Unite del 2010. C’è, infine, un’ampia giurisprudenza delle corti europee in merito, e ci sono le pronunce della nostra Corte Costituzionale che, nel 2012, ha parlato di “una esigenza reale e fortemente avvertita” che “merita ogni attenzione da parte del legislatore”: la questione, ha scritto, nel nostro ordinamento trova una risposta soltanto parziale ed è invece riconosciuta da un numero sempre crescente di stati. La conclusione della Corte fu, però, che “la previsione dei cosiddetti “permessi d’amore” in carcere” dovesse derivare da “una scelta parlamentare”. Negli anni sono stati presentati vari progetti di legge per il diritto all’affettività e alla sessualità delle persone detenute, alla Camera e al Senato. E nessuno ha mai avuto seguito. Gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale - organizzati nel 2015 dopo le condanne pronunciate dalla Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia per i trattamenti inumani e degradanti subiti dalle persone detenute - hanno esplicitamente proposto di introdurre un nuovo istituto giuridico, quello dei “colloqui intimi”. Ma la questione è stata accantonata dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018. Anche per questa radicata resistenza, numerosi e numerose esperte parlano di una “silente, ma indiscutibilmente consapevole, volontà del legislatore tesa a impedire l’emersione del diritto” o fanno riferimento a un efficace e da sempre operante “dispositivo proibizionista”. “Non vi è spazio per la sessualità” - Sul sito di Antigone - associazione che si occupa di diritti delle persone detenute e che monitora le carceri italiane - si dice che nel carcere di Milano-Opera c’è un “appartamento” che in via sperimentale viene messo a disposizione a turno per gli incontri familiari. Abbiamo contattato la direzione per avere maggiori notizie e capire quali possibilità desse quello spazio, ma la risposta, via mail, è stata questa: “Il colloquio avviene con tutta la famiglia, quindi non vi è spazio per la sessualità. Buona giornata”. La legge numero 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario (riformata in alcuni passaggi nel 2018) dice che il diritto delle persone detenute alla relazione affettiva si esercita attraverso la corrispondenza epistolare, le telefonate, la preferenza per la detenzione in un istituto di pena territorialmente vicino alla residenza, i colloqui e i permessi. Tutto questo, almeno in teoria. Il principale strumento per mantenere in presenza i rapporti affettivi è quello dei colloqui: che hanno però un tempo ridotto (di regola un’ora) e che spesso si svolgono in sale affollate e rumorose dove non è garantita la riservatezza e dove è impedito qualsiasi gesto affettuoso. La riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 ha specificato che i locali destinati ai colloqui dovrebbero favorire “ove possibile, una dimensione riservata”. La legge continua a prevedere, però, che durante i colloqui sia obbligatorio e inderogabile il controllo a vista da parte degli agenti di custodia, per ragioni di sicurezza. Svetlana, Gena, Sandra, Licia si domandano: ma chi può pensare che i colloqui bastino davvero a soddisfare il bisogno di amore di una persona detenuta? (…) La struttura carceraria prevede, indicandoli come affettività, i colloqui, ma davvero si può pensare che “il colloquio è affettività”? Molte volte ci vergogniamo di andare al colloquio con i nostri familiari, tanto è triste e degradante il posto. L’ambiente, ovvero quella stanzetta spoglia che dovrebbe in realtà riunire un nucleo familiare o comunque delle persone accomunate da un legame di affetto, è nettamente diviso in due da un freddo “tavolaccio”. Il tavolo è abbastanza largo da costringerci a faticare per poterci tenere strette le mani. (…) Quell’ora a settimana, in condizioni così assurde, a noi dovrebbe bastare per sopperire a tutti i nostri bisogni di affetto e alla necessità di comunicare con le nostre famiglie, o comunque con le persone a noi vicine. Senza contatti fisici, senza gesti affettuosi, senza carezze, senza un bacio, perché tutto questo non è previsto dai regolamenti. La realtà poi è ancora più cruda: del tempo consentito, quasi la metà viene trascorsa da entrambe le parti a cercare di camuffare quella sorta di imbarazzo, di disagio (…) il tempo restante è insufficiente per riuscire ad esprimere le proprie emozioni, soprattutto sotto l’occhio vigile di telecamera ed agenti. (…) (Ristretti Orizzonti, testimonianza di alcune donne recluse al carcere della Giudecca, Venezia) La legge del 1975 prevede anche che per “coltivare interessi affettivi” siano concessi i cosiddetti permessi premio, che permettono alle persone detenute di trascorrere un breve periodo a casa. Questo “beneficio” non viene però dato con facilità e, soprattutto, riguarda una quota minoritaria di persone detenute. La soluzione al “problema” della sessualità - che costituisce una manifestazione della dimensione dell’affettività e che di fatto è rimosso anche semanticamente dalla legge - dovrebbe dunque essere compensato da eventuali parentesi extrapenitenziarie. In uno studio spesso citato sul tema, il giurista Andrea Pugiotto spiega come la sessualità sia l’unico aspetto della vita intramuraria che non è oggetto di alcuna esplicita disciplina, legislativa o regolamentare: non esiste una norma che tratti l’argomento. Partendo da questa “apparente anomia”, Pugiotto sostiene come in realtà sia da sempre al lavoro un dispositivo proibizionista, dimostrato dal fatto che solo in una dimensione extra-muraria e solo per pochi possa trovare soddisfazione il diritto alla sessualità: collocando “fuori” la risposta ad un bisogno primario, il sistema penitenziario “finisce per negarlo a quella larga parte della popolazione carceraria cui de jure o de facto è preclusa la fruizione dei permessi premio”. L’apparente silenzio dell’ordinamento penitenziario sulla sessualità delle persone detenute “opera concretamente come se ne prevedesse il divieto”, dice Pugiotto: “Non lo ignora semplicemente. Né lo nega soltanto. Proibendolo, lo reprime”. E questo produce “diversi e profondi strappi al tessuto costituzionale”: ai diritti inviolabili della persona umana (articolo 2 della Costituzione), al diritto al mantenimento dei rapporti affettivi e familiari (articoli 29, 30 e 31), alla tutela della salute psicofisica (articolo 32) e al principio della finalità rieducativa della pena e ai suoi principi di umanità (articolo 27). La pena corporale - La riforma penitenziaria del 1975 fu molto importante. Sostituì definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931 e i principi che lo ispiravano. Il carcere passò dall’essere un sistema basato esclusivamente su punizioni, privazioni e sofferenze ad essere un sistema con finalità rieducative e risocializzanti. Finalmente, sulla carta, la riforma mise in pratica un principio costituzionale rimasto per molto tempo inapplicato, quello contenuto nell’articolo 27 comma 3 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il nuovo ordinamento penitenziario definì che la pena dovesse avere tra i propri obiettivi il reinserimento sociale, pose alla base del trattamento l’umanità e la dignità e riconobbe alla persona detenuta (chiamata da lì in poi per nome e cognome e non più con un numero di matricola) una propria soggettività, con diritti e aspettative che corrispondevano ai valori tutelati dalla Costituzione. Stabilì, dunque, che la perdita della libertà conseguente alla detenzione non dovesse compromettere alcun diritto fondamentale dell’essere umano. E la sfera affettiva, anche nella sua espressione fisica, è tra i diritti inviolabili della persona, cosa che - se non fosse scontata - trova affermazione nella Costituzione, nella giurisprudenza europea e in quella di altri paesi. Nel 2012, alcuni detenuti dal carcere di Carinola, in provincia di Caserta, scrissero un documento in cui spiegarono che solo dopo una riflessione sulle finalità della pena si potesse esprimere un giudizio obiettivo sulla questione dell’affettività e della sessualità intramuraria: “Se la pena ha solo una funzione punitiva e retributiva, allora ci sta tutto: privazioni, sofferenze, tortura, castigo e supplizio. Se invece, le finalità che la Costituzione assegna alla pena sono da un lato quella di prevenzione generale e di difesa sociale (…) e dall’altro quella di prevenzione speciale e di risocializzazione sociale del reo, allora l’affettività in carcere è uno degli elementi fondamentali del trattamento rieducativo”. Nonostante sulla carta siano stati fissati dei principi e l’istituzione carceraria si sia evoluta, il carattere corporale della pena non è stato espulso dalle galere: il sovraffollamento (parola che è il rafforzativo di un rafforzativo e il cui tasso, dice Antigone, sfiora il 120 per cento), le condizioni igieniche precarie e l’assistenza sanitaria insufficiente (celle con il wc a vista, senza doccia, acqua calda e riscaldamento) sono esperienze che colpiscono quotidianamente i corpi di detenuti e detenute. E poi c’è la forzata privazione sessuale, che può essere a vita nel caso dell’ergastolo, che colpisce indirettamente i partner che stanno fuori e che viene praticata sistematicamente nonostante nessuna pena la preveda. L’astinenza sessuale coatta diventa allora una vera e propria pena accessoria delle carceri italiane, si trasforma in una punizione corporale di ritorno. Muta la condanna in afflizione e la pena in penitenza. “Siamo qui per pagare reati, mica peccati” - Secondo alcuni, l’accanimento contro la sessualità nelle carceri ha a che fare con la negazione, in generale, della sua dimensione naturale: è ridotta a vizio e peccato. Ma “noi siamo qui per pagare reati, mica peccati”. L’ha detto Marta, durante una discussione su sessualità e affettività riportata su Ristretti Orizzonti, storico notiziario sul carcere. Marta era reclusa alla Giudecca, a Venezia, che un tempo era un ospizio gestito dalle suore per prostitute “redente”. Secondo altri l’accanimento potrebbe nascere “dall’inconfessato desiderio di sterilizzare chi contravviene alla norma sociale, di impedire al recluso ogni attività riproduttiva della specie, di decretarne l’espulsione dalla specie umana”. Alla base di tutto, ci sarebbe dunque la nostalgica convinzione che il carcere debba essere castigo o afflizione, e che la perdita della libertà sia solo la premessa della pena. La relazione sessuale sarebbe dunque un lusso, un premio, un privilegio, non un diritto fondamentale: “Mangiano, bevono, hanno la televisione… e che cosa pretendono ancora? Anche il sesso?”. “La nuda possibilità che un uomo o una donna in gabbia incontri per fare l’amore una persona che lo desideri e consenta. Sarebbe giusto? È perfino offensivo rispondere: certo che sì”. Adriano Sofri ha scritto e detto molto sul diritto all’affettività e alla sessualità dentro le carceri, fin da quando la questione lo riguardava direttamente. Ma preferisce non chiamarlo un “diritto”, “un po’ perché la parola è abusata nel nostro tempo”, ma soprattutto perché “impedisce di vedere che voler inibire la sessualità ai carcerati è esattamente paragonabile al volergli impedire di sgranchirsi le membra, di dormire, perfino di mangiare. La partita sul sesso in carcere mostra la concezione che una società ha del sesso, dichiarata o no, e si gioca su una contrapposizione: tra chi ritiene la sessualità una dimensione naturale e necessaria della persona, e chi la ritiene una concessione, un di più, un vizio, un peccato”. Vent’anni fa, in un articolo intitolato “Il sesso del prigioniero mandrillo”, Sofri l’aveva spiegato bene: in quanto vizio e peccato “la privazione sessuale non ha bisogno neanche di essere presa in conto nei codici, nominata nei regolamenti, per essere imposta come costitutiva della prigionia. Essa appartiene alla necessaria afflizione: di più, essa è il cuore dell’afflizione. Tutto ciò ha fatto dimenticare che la privazione sessuale è una barbarie che si aggiunge alla privazione della libertà e al dolore: e fa apparire l’ipotesi della possibilità regolata di una relazione sessuale come un cedimento spericolato e lussurioso fatto al piacere, cioè alla peccaminosa superfluità, dell’animale umano in gabbia. Vi si svela il fondo sessuofobico di ogni reclusione e di ogni castigo. (…) Desiderio sessuale, e amore, non sono un di più della vita umana, da far comparire e scomparire con misure regolamentari o materiali. Sono altrettanto incancellabili e naturali che il pensiero o il battito cardiaco. Forzatelo, e crescerà storto e forte come una pianta nana”. Riconoscere la possibilità di relazioni sessuali in carcere non sarebbe una concessione né l’attenuazione di una privazione: ma “una necessità finora negata della rieducazione”. “A fare i postriboli in carcere non ci sto” - Fra gli addetti penitenziari, la reazione più diffusa alla possibilità che venga riconosciuto il diritto alla sessualità è che loro non sono tenutari di bordello. Donato Capece, segretario generale Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria, ci spiega: “Io ritengo che il paese non sia pronto ad avere questo tipo di approccio. Poi è da distinguere l’affettività dalla sessualità: sul primo siamo d’accordo, sul curare i rapporti familiari per non disperdere i legami, ma a fare i postriboli in carcere non ci sto”. Capece rafforza la sua argomentazione citando la posizione di alcuni detenuti di Rebbia, come già si faceva vent’anni fa, ci spiega Sofri: “Ad alcuni detenuti all’antica, sembrava un disonore portare in carcere “le loro donne”, esporle allo sguardo degli altri”. Ma resta il fatto che quella di una relazione sessuale sarebbe una possibilità, di cui “liberamente” avvalersi oppure no. Capece ha comunque altre argomentazioni laterali: “Le carceri sono sovraffollate, dovremmo costruire i monoblocchi dove consegnare la chiave al detenuto per ricevere la visita senza nessun controllo? E se succede qualsiasi fattaccio?”. Chi pensa che il diritto alla sessualità non debba entrare in carcere usa molto spesso le obiezioni che hanno a che fare con l’inadeguatezza delle strutture e con i rischi per la sicurezza. Il primo argomento, per continuare a negare un diritto “sfrutta” un “problema” strutturale che già da decenni dovrebbe essere risolto (anche secondo Capece). I potenziali problemi di sicurezza sembrano poi essere stati superati - o sembrano comunque non costituire un motivo sufficiente - nei moltissimi paesi che prevedono le visite intime. Il diritto ad una vita affettiva e sessuale in carcere è garantito in molti paesi europei (in 31 stati su 47 componenti del Consiglio d’Europa), e del mondo. Si va dalla concessione di colloqui prolungati e non controllati, a modalità più complesse che prevedono specifiche strutture. In Croazia sono previsti fino a quattro colloqui al mese non sorvegliati di quattro ore con il coniuge o il partner. In Albania il regolamento penitenziario prevede otto telefonate al mese e quattro colloqui mensili di breve durata, uno dei quali può essere prolungato fino a cinque ore per le persone detenute sposate. In Norvegia, Svezia, Danimarca e Paesi Bassi ci sono piccoli appartamenti in cui poter restare senza sorveglianza per un’ora; in Spagna (nella comunità autonoma della Catalogna), esiste la possibilità, due volte al mese, delle “visitas intimas” in apposite stanze non sorvegliate. Poi ci sono le “Unitès de Vie Familial” francesi, appartamenti dove si possono ricevere partner, familiari e amici per un periodo prolungato di tempo e senza controllo. E sono solo degli esempi. Ma anche al di fuori dell’area europea sono diverse le esperienze per il riconoscimento del diritto all’affettività/sessualità intramuraria. In Canada le persone detenute hanno la possibilità di incontrare le famiglie in prefabbricati che si trovano all’interno degli istituti anche per tre giorni consecutivi. Capece suggerisce però di “preoccuparsi degli “altri” cittadini, i poliziotti penitenziari che non avendo commesso alcun reato scontano comunque una pena. Guarderei insomma ad altre problematiche” dice, “non ai capricci di qualche politico che non conosce il carcere e che lo vede con un occhio solo. Mi preoccuperei di creare strutture detentive dignitose, la sessualità non è un problema. La proposta del sindacato è che vengano dati più permessi in modo che le persone vadano dalle loro famiglie, sul territorio, piuttosto che predisporre il carcere per dar vita a questo tipo di sentimento”. E aggiunge: “La sessualità va data ai soggetti meritevoli”. Il sesso che si fa in carcere - Le conseguenze negative che derivano dalla deprivazione affettiva e sessuale sono note da decenni, da quando, all’inizio degli anni Novanta, il medico francese Daniel Gonin studiò in modo dettagliato gli effetti “patogeni” della detenzione nella prigione di Lione. Ci sono moltissimi studi, ricerche e testimonianze. Il venir meno dei legami affettivi ha un ruolo fondamentale, in tutto questo. Determina profondi cambiamenti nell’identità della persona, toglie risorse, sostegno, compromette il reinserimento sociale, produce una specie di desertificazione affettiva, relazionale e umana. “Alla pena della reclusione a cui si è condannati si applicano pene accessorie che non vengono scritte nella sentenza, ma di fatto fanno parte della condanna (…) La persona ristretta viene fermata a livello emotivo al momento in cui entra in carcere e, venendole a mancare la possibilità di fare qualsiasi esperienza a questo livello, è abbastanza naturale che regredisca a uno stadio infantile. Quando per anni questo vuoto che si viene a creare non può essere alimentato da momenti vissuti, ma solo da fantasie, nutrite esclusivamente da percezioni raccolte attraverso la corrispondenza, le parole scritte, l’immaginazione, il vuoto diventa un buco nero. (…) Il buco nero che si viene a creare dopo anni di detenzione rende insicuri, indifesi, incapaci di gestire la parte pulsionale ed emotiva di se stessi, che finisce per essere dominata esclusivamente dall’istituzione. Invece penso che le finalità del reinserimento, oltre che nella parte pratica dell’avere un lavoro dovrebbero essere raggiunte anche attraverso la crescita complessiva della persona ristretta. (…) In fondo il carcere è una microsocietà abitata da persone, fatte della stessa sostanza di quelle che s’incontrano fuori” “Tutte noi che siamo qui siamo dei caratteri forti, forti intellettualmente, esseri razionali, ragioniamo per esempio in questo caso delle emozioni, ma quando ci troveremo di fronte a queste emozioni che reazioni avremo? Per esempio: quando esci dal carcere e ti trovi poi davanti delle emozioni, per poco o tanto che tu ci sia stato distante, ne hai timore se non proprio paura. (…) A livello sessuale uno può avere avuto tutte le esperienze fuori, ma dopo un periodo in cui è stato recluso non è facile ricominciare una vita normale. Ma, al di là del sesso, è a livello emozionale che è un casino. Tu non sai poi relazionarti con le emozioni e ne hai già paura, come se non le conoscessi, fuori o dentro non sono le quattro mura che fanno la differenza, è la negazione, la chiusura delle relazioni quello che ti blocca. La negazione del vivere relazioni normali a qualunque livello, ecco cos’è il carcere. Vivendo recluso, senza esperienze relazionali, è ovvio che quando esci ti trovi nella merda!” (Ristretti Orizzonti). Come da tradizione, anche nelle carceri la negazione di una sessualità liberamente vissuta e espressa convive con la tolleranza e il silenzio verso forme di sessualità “compensative” o violente che spesso determinano sopraffazioni e coazioni. Il contesto unisessuato del carcere può portare a forme di adattamento della propria sessualità, all’omosessualità “indotta”, così viene chiamata: non è il risultato di una libera e consapevole espressione del proprio orientamento sessuale, è legata a un processo di spersonalizzazione e rassegnazione. L’annientamento imposto della dimensione sessuale in carcere contribuisce poi al processo di regressione e infantilizzazione delle persone detenute (fino al 2017, il modulo per le loro richieste si chiamava “domandina”). Come bambine e bambini, le persone recluse hanno una limitata libertà d’azione, sono sorvegliate a vista, perdono la capacità di autodeterminazione e l’autoerotismo viene consumato in modo non libero e secondo modalità adolescenziali: “(…) devi pianificare tutto, l’orario è importante, devi calcolare il tempo che la guardia passa a controllare se ci sei o se ti sei impiccato, e se è passata l’infermiera con la terapia; poi con passo leggero, oserei dire astuto, ti guardi intorno ed entri in bagno, ti chiudi la porta per modo di dire, perché lo spioncino del bagno deve rimanere aperto per i controlli, ti sbottoni i pantaloni ed inizia la dedicata operazione ma sempre con un orecchio nel corridoio e così inizia la lotta titanica fra la voglia di concentrarsi e la paura che la guardia ti becca in flagranza… Ci sono delle guardie che sono dei sadici nel prenderti in castagna, se vedo che c’è la guardia che passa ogni cinque minuti “rinuncio” e mi faccio una camomilla o una decina di flessioni. Se tutto va bene non devi tirare l’acqua perché in una cella accanto all’altra si sente tutto ed il tuo compagno a lato, dal tempo passato che ha sentito chiudersi la porta del bagno e da quando hai tirato lo sciacquone, si può immaginare che ti sei masturbato. E dà fastidio il pensiero che un compagno possa immaginare quando ti “fai una sega”. Insomma l’amore in carcere è difficile in tutti i sensi (…) se sei in cella in compagnia persino con tre quattro persone praticamente è impossibile, ti senti osservato da tutte le parti sia dalla parte delle guardie che dai tuoi compagni. È esperienza comune che gli attimi migliori d’amore sono quando sei in punizione in isolamento”. (Carmelo Musumeci, nella prima delle sue tre tesi di laurea dal titolo “Vivere l’ergastolo”, 2005) Per Sofri, “la rimozione dell’argomento può nascondere grossi disagi, fino al desiderio morboso, la fissazione maniacale, la masturbazione dolorosa fino all’autolesionismo, l’omosessualità cattiva (captiva) perché imposta e spesso violenta, la ricerca di surrogati fantastici quanto penosi. Questo panorama, che riempirebbe manuali di psicopatologia clinica, ed è l’esperienza viva di carcerati e carcerieri, mostra quanto sia gremita e attiva la cosiddetta “privazione” di una vita sessuale”. Il nuovo disegno di legge - Il disegno di legge n. 1876 interviene sulla legge 354 del 1975, e sul Dpr 230 del 2000, che si occupano di ordinamento penitenziario e regolamenti. Si propone di modificare la norma sulla frequenza e sulla durata dei colloqui telefonici, rendendoli quotidiani per tutte le persone in carcere a prescindere dal reato, e raddoppiandone la durata massima; si ridefiniscono i criteri dei cosiddetti “permessi di necessità” sostituendo il presupposto della “eccezionalità?” e della “gravità” attualmente previsto con quello della “particolare rilevanza”: per riconoscere il diritto della persona detenuta a “partecipare” anche agli eventi non esclusivamente legati a morte o malattie gravissime dei familiari. L’articolo principale del disegno di legge, il numero 1, parla di diritto all’affettività (ampliando dunque la relazione rispetto alla sola famiglia). E dice: “Particolare cura è dedicata a coltivare i rapporti affettivi. A tale fine i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore, delle persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in apposite unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi”. Il testo è stato elaborato nel 2019 dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà (un’autorità di garanzia indipendente che in Italia esiste dal 2013 e che ha la funzione di vigilare su tutte le forme di privazione della libertà e di intervenire su criticità di carattere generale). È stato sottoposto ai consigli regionali perché lo portassero in Parlamento. La Toscana, lo scorso febbraio, ha avviato l’iter. “Tutta l’intelligenza e l’organizzazione carceraria è regolata sulla segregazione ferrata dei corpi. Sa fare questo, aprire, chiudere, sbattere: e vuole continuare a farlo. Che provi in un punto a fare altro: benvenuta”. Lo scriveva Adriano Sofri già nel 1998, quando si discuteva della prima iniziativa per il riconoscimento dell’affettività e della sessualità dentro le carceri. Ma come lui stesso raccontava, gli “scrittori carcerari” hanno un vantaggio: “Non hanno bisogno, a distanza di venti, trent’anni, di aggiornare i loro componimenti”. Economia carceraria, l’e-commerce che promuove i prodotti realizzati dai detenuti di Leonardo Ciccarelli cookist.it, 22 novembre 2020 Economia carceraria è la piattaforma che unisce in un unico grande contenitore di vendita online tutti i prodotti realizzati dalle case circondariali italiane. Dal vino alla birra, dal caffè ai condimenti oppure creme spalmabili, miele, biscotti, snack salati e dolci: c’è di tutto sul portale e tutto è realizzato dalle imprese sociali che operano nelle case circondariali. Contesti difficili che provano, grazie alla produzione di specialità gastronomiche, a uscire da una situazione di anonimato tragica. L’economia carceraria è un obbligo morale - I dati emersi negli ultimi anni sulle carceri italiane sono aberranti: nonostante l’ordinamento penitenziario indichi l’obbligatorietà del diritto al lavoro per i detenuti, tra questi solamente il 30% può accedervi. Inoltre tra i 17.000 detenuti che lavorano, solamente 2.500 sono inseriti in un processo produttivo alle dipendenze di un datore di lavoro esterno all’amministrazione penitenziaria. I progetti singoli che spingono le realtà circondariali a investire sulla forza lavoro interna sono tanti, ma troppo frammentari e rischiano di perdersi. Proprio per ovviare a questo problema nasce Economia carceraria, perché insieme le organizzazioni sono più forti. Una pluralità di associazioni e denominazioni racchiuse sotto un unico e-commerce che contribuisce all’arricchimento di tutto il sistema. Il sito funziona come un classico e-shop, con i prodotti in vetrina, il carrello a disposizione e una catalogazione in base alle proprie preferenze. I nomi dati ai prodotti sono molto simpatici, ironizzano sulla situazione con leggerezza: troviamo le “Dolci evasioni” provenienti da una cooperativa siciliana o il “Fresco di galera” un vino di una cooperativa lombarda ma tutti i prodotti in vendita hanno dei nomi molto ben pensati. Il sito ha intenzione di ampliare la distribuzione e la vendita dei prodotti carcerari, incentivando la creazione di nuovi posti di lavoro e la nascita di nuovi progetti in nuove carceri. I prodotti in vendita sono buoni e di qualità, realizzati da persone che vogliono ardentemente cambiare la rotta della propria vita. “Acquistarli è un gesto di responsabilità sociale, semplice ma di grande impatto e soddisfazione”, recita l’introduzione all’acquisto, sul portale. Per chi non è avvezzo allo shopping online ma è comunque interessato a dare il proprio contributo, sono stati aperti due punti vendita a Roma in via dei Marsi, 22 e via Eurialo, 22. Le strutture coinvolte nel ‘brand’ dell’economia carceraria abbracciano tutta la nazione. Ci sono le case circondariali di Ragusa, Trani, Alba, Vasto, Siracusa, gli istituti femminili di Lecce e Pozzuoli (dove ci sono le Lazzarelle, forse la cooperativa più celebre d’Italia), la casa di reclusione “Ucciardone” di Palermo, gli istituti penali di Roma-Rebibbia, Torino, Saluzzo e Alessandria, l’istituto minorile “Malaspina” di Palermo. Anm. I magistrati verso una giunta a quattro di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 22 novembre 2020 Dopo un mese di difficili trattative, complicate dall’ingresso nel parlamentino della “non corrente” anti politica, l’Anm può eleggere oggi un nuovo esecutivo. Con una guida femminile, presidente un’esponente della corrente - rinnovata - che fu di Palamara. Un mese dopo le elezioni che hanno rinnovato il parlamentino dell’Associazione nazionale magistrati, portando un nuovo gruppo nel Comitato direttivo centrale e polarizzando il consenso degli iscritti sulle due correnti maggiori (Area e Mi), le toghe fanno una fatica tremenda a darsi un nuovo gruppo dirigente. Dovrebbero riuscirci finalmente oggi, aprendo in ritardo e non nel migliore dei modi il quadriennio del rinnovamento post Palamara. Proprio l’ingresso dei nuovi arrivati di Articolo 101 - quattro rappresentanti su 36 nel Cdc - con le loro posizioni rumorosamente anti correntizie e anti politiche, è alla base di molte delle difficoltà iniziali. Non solo perché la lista (che per un po’ ha rifiutato anche di farsi chiamare “gruppo”) nel corso delle faticose riunioni in presenza e in video collegamento ha posto una serie di eccezioni e richiami al regolamento al limite dell’ostruzionismo. Ma anche perché i due gruppi di destra, Magistratura indipendente e Autonomia e indipendenza, soffrono la concorrenza dei 101 sul fronte “anti casta” e pansindacale. Mi ha già accolto nel suo programma la proposta simbolo dei 101, quella del sorteggio per eleggere la componente togata del Csm, mentre AeI, in forte calo nei consensi, è alla ricerca di un’identità ora che il fondatore Davigo è in pensione e il possibile erede Di Matteo è al Csm. Ieri pomeriggio, a metà della terza giornata di riunioni (le prime due settimane fa) un “tavolo tecnico” di due rappresentanti per gruppo ha steso un programma comune in una decina di punti sulla base del quale oggi si dovrebbe costituire la nuova giunta. Naturalmente i rappresentanti di Articolo 101 non hanno partecipato al tavolo, limitandosi a consegnare il loro documento programmatico. Uno dei due leader della “non corrente”, il giudice del tribunale di Ragusa Andrea Reale, ha accusato da remoto i partecipanti al tavolo di inseguire “accordicchi biecamente politici”. Venendo però smentito proprio da una rappresentante del suo gruppo, la giudice Ida Moretti, che all’hotel Cicerone di Roma era presente appunto per consegnare il programma: “Scusami Andrea, ma devo dire che io non sentito parlare di spartizioni di potere o di posti, stanno discutendo del programma”. La nuova giunta che - salvo sorprese - sarà votata oggi, replicherà la formula dell’alternanza (dopo un anno o due) e non potrà essere allora fino in fondo “unitaria”. Il gruppo di Articolo 101 si tirerà fuori mentre Magistratura indipendente e Autonomia e indipendenza, marcandosi a vicenda, ne entreranno a far parte con Area, la corrente di sinistra prima classificata alle elezioni, e Unità per la costituzione, la corrente di centro. Difficile la trattativa sui nomi. Area ha fino all’ultimo insistito per la presidenza che le spetterebbe in quanto primo gruppo, rivendicandola per il presidente uscente (e più votato) Luca Poniz. Ma Mi vede in lui il responsabile della svolta moralizzatrice “a senso unico”, in quanto indirizzata solo verso i due gruppi più coinvolti nello scandalo Palamara, e non l’accetta. L’esito più probabile è che la presidenza vada dunque ai terzi classificati, Unicost, paradossalmente proprio il gruppo di cui Palamara è stato a lungo il dominus. Ma si tratta di una Unicost rinnovata, dopo che una parte più vicina alle logiche corporative è transitata in Mi. Presidente potrebbe essere la prima degli eletti della corrente, Alessandra Maddalena, giudice del riesame a Napoli: è stata lei a proporre ieri il tavolo sul programma. Ad Area toccherebbe la segreteria. Dopo Poniz la più votata della corrente di sinistra è Silvia Albano, giudice a Roma. Due donne alla guida dei magistrati sarebbero probabilmente il segnale del cambiamento atteso. Sì alla presenza dei segretari delle correnti ma l’Anm è ancora spaccata sul presidente di Liana Milella La Repubblica, 22 novembre 2020 Nuova assemblea dei giudici, ma Articolo Centouno chiede che i segretari che rappresentano i gruppi e che trattano sui vertici del sindacato dei giudici, non seguano i lavori. La mozione è stata bocciata. Sì o no alla presenza dei segretari delle correnti della magistratura nell’assemblea che deve eleggere il presidente del sindacato dei giudici? Il quesito - già di per sé - fornisce il polso delle tensioni che ormai da settimane si stanno scatenando tra le toghe dopo l’elezione del nuovo “parlamentino” dell’Anm. C’è il Covid, i palazzi di giustizia scoppiano e sono in drammaticamente in crisi, i processi languono, le scelte del Guardasigilli Alfonso Bonafede non sono ritenute sufficienti, ma gli strascichi del caso Palamara continuano a squassare la magistratura e si riverberano in maniera pesantissima sulle dinamiche sindacali. Tant’è che non era mai avvenuto che non si riuscisse ad eleggere un presidente ad ormai un mese dalle votazioni. L’ennesimo scontro è sulla presenza dei segretari delle correnti nell’assemblea - un terzo in presenza e per due terzi da remoto - che deve scegliere i vertici. I nomi in discussione che ricorrono tra gli interventi sono quelli di Eugenio Albamonte, il segretario della corrente di sinistra di Area, di Maria Rosaria Guglielmi, segretaria di Magistratura democratica che fa parte di Area, di Francesco Cananzi, segretario di Unicost, e ancora quello del presidente Mariano Sciacca, di Paola D’Ovidio segretaria di Magistratura indipendente. La diretta fornita da Radio Radicale non consente - ovviamente - di “vedere” chi c’è e chi non c’è nella sala dell’assemblea o collegato da remoto. Ma il punto è quello sollevato da Articolo Centouno, il gruppo di Andrea Reale, Giuliano Castiglia, Ida Moretti e Maria Angioni eletti per la prima volta nel Comitato direttivo centrale - battezzato da sempre come il “parlamentino” dell’Anm - che chiede di impedire la presenza dei segretari, ritenuti come una presenza estranea rispetto ai lavori dell’assemblea. Non devono essere invitati, non ci devono stare. Anche se ci sono sempre stati. E se - obiettano tutti gli altri - lo statuto recita che alle riunioni sono presenti “gli iscritti” al sindacato dei giudici. Quindi, come iscritti, ci possono stare anche loro. Così la pensano Area, Unicost, Mi, A&I. È evidente che il senso della richiesta di Articolo Centouno è legato al caso Palamara, agli accordi correntizi per scegliere al Csm i capi degli uffici. Ma è soprattutto il segno di una spaccatura profonda tra le toghe, tra le quali serpeggiano sospetti e profonde divisioni sulle cose più necessarie da fare. Ma la mozione comunque viene bocciata. E Articolo Centouno resta da solo. Rimane comunque una divisione profonda sul futuro presidente. Al punto che si perdono minuti preziosi perfino su come svolgere l’assemblea. Se discutere tutti del programma, oppure se costituire un gruppo di lavoro che stenda un programma. E poi, prima si fa il programma, oppure subito si vota sui nomi come chiede Articolo Centouno, mentre tutti gli altri sono contrari? Un disastro, almeno ad assistere a questi lavori dall’esterno, con l’impressione netta che le toghe siano in una sorta di bolla. Sul futuro presidente comunque è stallo totale. Area vuole Luca Poniz, il presidente uscente e più votato in assoluto con 739 voti. Area vuole una giunta “unitaria”. Tutti si proclamano per una giunta “unitaria”. Ma di fatto questa “unità”, almeno sul nome di Poniz, appare a oggi difficilmente praticabile, perché ancora stamattina, in assemblea, Magistratura indipendente dichiara che questa nuova Anm non può essere “la prosecuzione della gestione precedente”. “Colpevole” di aver escluso proprio Mi, che infatti 18 mesi fa ha lasciato l’Anm. Da qui lo “stallo totale”, come lo battezza più d’uno dei presenti. Perché Area, con i suoi 11 eletti, non raggiunge la maggioranza con la centrista Unicost che conta 7 consiglieri, e che sarebbe favorevole alla presidenza Poniz. Ma i due gruppi non superano la maggioranza assoluta, 19 voti. Non ci stanno i quattro di Autonomia e indipendenza. Fuori resterebbero Articolo Centouno con 4 seggi e Magistratura indipendente con dieci. Le alternative a Poniz potrebbe essere quella di Silvia Albano, con 381 voti eletta in Area subito dopo Poniz. Sarebbe la seconda donna al vertice dell’Anm dopo la presidenza di Elena Paciotti, anche lei di Magistratura democratica come Albano, che risale ormai al 1995 e 1998. Ma proprio la sua appartenenza a Md, gruppo che fa parte di Area ma viene accusato di “correntismo interno esasperato ai limiti della scissione”, finora ha bloccato le sue chance, nonostante probabilmente la sua figura potrebbe essere accettata anche da Mi. L’alternativa, che piacerebbe al segretario Eugenio Albamonte, sarebbe quella di Giuseppe Santalucia, ex capo dell’ufficio legislativo di via Arenula con il Guardasigilli Andrea Orlando, votato da 301 colleghi. Ma, al momento, le toghe si impiccano sulla presunta giunta “unitaria”, bell’aggettivo che però sembra impraticabile a fronte di divisioni profonde sia ideologiche, che pratiche. Sembra proprio la vendetta del caso Palamara. I sopravvissuti alla stagione dell’odio: “Le nostre ferite mai rimarginate” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 novembre 2020 In un docu-film i racconti delle vittime meno note degli agguati rossi e neri negli anni di piombo. Al film ha collaborato Luca Tarantelli, figlio dell’economista Ezio ucciso dalle Br nell’85. Come un virus che sembrava inarrestabile - oltre un decennio, tra la fine dei Sessanta e l’inizio degli Ottanta del secolo scorso, ma con focolai che si sono manifestati prima e dopo - la violenza politica in Italia ha lasciato dietro di sé morti, feriti e molti danni collaterali. Provocando lacerazioni mai rimarginate, che fanno sentire ancora oggi i loro effetti. “Quel giorno era il compleanno di mia figlia, il primo; da allora per festeggiarla ho cambiato data”, racconta l’ex poliziotto Vincenzo Ammirata, che il 3 maggio 1979 fu investito dal fuoco delle Brigate rosse nel centro di Roma per assaltare una sede della Democrazia cristiana. Con due colleghi arrivò in piazza Nicosia dov’era stata segnalata una sparatoria, i terroristi accolsero la Volante a colpi di mitra: Antonio Mea rimase a terra fulminato; Pietro Ollanu, che da moribondo era riuscito a chiedere aiuto via radio, spirò in ospedale; Ammirata, centrato a una gamba e a un polmone, riuscì a salvarsi. “Ma quei momenti ce li ho sempre in testa”, confessa oggi. È guarito nel corpo ma non nello spirito. Nel 1979 aveva 25 anni, a 18 era partito dalla Sicilia, dove suonava il rhythm and blues in un’orchestrina, per arruolarsi in polizia; senza sapere di andare incontro a una guerra. La sua è una delle storie nascoste del terrorismo italiano scovate dalla regista Monica Repetto per il docu-film intitolato 1974-1979. Le nostre ferite, selezionato per il Torino Film Festival. Un viaggio tra le vittime meno note degli “anni di piombo” compiuto insieme a Luca Tarantelli, figlio dell’economista Ezio assassinato dalle Br nel 1985, con il quale la regista aveva già realizzato La forza delle idee, in ricordo del papà di Luca. Ora hanno alzato lo sguardo sui sopravvissuti per caso. Come Francesco De Ficchy, che a 19 anni divenne uno dei simboli della violenza neofascista nella capitale d’Italia. Era il 1974, frequentava un liceo troppo vicino a un “covo nero” e subì due aggressioni. La prima volta gli ruppero il naso, la seconda gli spararono nel cortile della palazzina in cui abitava. Finì sulle prime pagine dei giornali, fotografato su un letto di ospedale. Ancora oggi, insegnante vicino alla pensione, porta i capelli un po’ lunghi che all’epoca erano uno dei marchi di riconoscimento dei ragazzi di sinistra, e si chiede “perché nessuno mi ha mai chiesto quali danni psicologici ho subito allora”. Annunziata Miolli detta Nunni, invece, ha superato i novant’anni, ed è rimasta combattiva come in quel drammatico 1979, quando animava la trasmissione delle casalinghe a Radio città futura. La mattina del 9 gennaio un commando dei Nuclei armati rivoluzionari irruppe negli studi dell’emittente legata all’estrema sinistra e cinque donne, tra cui lei, rimasero ferite da bombe molotov e colpi di mitragliette. Nonostante l’attentato e gli acciacchi dell’età, Nunni rimpiange quella stagione di lotte femministe e di liberazione, avvelenata ma non soffocata dall’epidemia di lotta armata: “Era un momento magico, è finito”. Undici mesi più tardi, l’11 dicembre 1979, a Torino i terroristi rossi di Prima linea fecero irruzione nella Scuola di amministrazione aziendale per futuri manager. Misero dieci persone faccia al muro, inscenarono un “processo proletario”, gridarono qualche slogan e fecero fuoco. Tra le vittime designate c’era Renzo Poser, aspirante manager già sposato ma ancora senza figli, che prima di cadere si rammaricò di non lasciare eredi. Poi sentì un colpo al ginocchio ed ebbe un sussulto di contentezza: “Fu come una liberazione, forse potevo continuare a vivere”. È ciò che ha fatto, ma ha visto crescere una famiglia con un proiettile rimasto conficcato vicino all’inguine e “avendo molta meno sicurezza in me stesso”. Un altro ragazzo romano picchiato dai fascisti nel 1974, Luigi Schepisi, finì in coma per due sprangate in testa. I ricordi della sera in cui fu aggredito si fermano all’arrivo della “squadraccia” che si scagliò contro lui e due suoi compagni, e riprendono dal momento del risveglio: “Io non avevo mai fatto male a nessuno, ma era un periodo di agguati tesi da tutte e due le parti politiche, c’era questa pratica...”. Uno dei presunti aggressori fu identificato e messo sotto processo, ma non arrivò mai alla sentenza. Si chiamava Angelo Mancia, fu ucciso sei anni più tardi, nel 1980, in un agguato rivendicato dai “Compagni organizzati in Volante rossa”; gli assassini volevano vendicare Valerio Verbano, diciannovenne ammazzato tre settimane prima dai neri che lo aspettavano nel suo appartamento, dopo aver legato e imbavagliato i genitori. Altri due delitti rimasti impuniti; altre due vittime del virus che sembrava inarrestabile. Napoli. È morto il medico del carcere di Secondigliano: era ricoverato per Covid fanpage.it, 22 novembre 2020 È morto Raffaele De Iasio, responsabile sanitario del carcere di Secondigliano. Aveva 61 anni, era sposato e aveva due figli. De Iasio era ricoverato da giorni al reparto Covid dell’ospedale Cardarelli di Napoli. Lo ricorda Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania: “Era una persona schiva e riservata, fino all’ultimo ad operarsi per i carcerati. La sua testimonianza per tutti gli operatori sanitari e penitenziari è di monito per tutti”. Il mondo degli specialisti medici ambulatoriali piange un’altra vittima del Covid in Campania: è morto Raffaele De Iasio, responsabile sanitario del carcere di Secondigliano. Aveva 61 anni, era sposato e aveva due figli. De Iasio era ricoverato da giorni al reparto Covid dell’ospedale Cardarelli di Napoli. Lo ricorda Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti. “Era una persona schiva e riservata, fino all’ultimo ad operarsi per i carcerati. La sua testimonianza per tutti gli operatori sanitari e penitenziari è di monito per tutti. Non trovo le parole adatte per ricordarlo, non ho parole per chi ancora continua a non prendere sul serio la pandemia nelle carceri. Solo un senso di vuoto, un senso di colpa”. La morte del medico del carcere di Secondigliano va aggiungersi alle numerose vittime da Coronavirus in ambito medico. Ne parla Gabriele Peperoni, vicepresidente nazionale del Sumai, Sindacato unico di medicina Ambulatoriale Italiana e Professionalità dell’Area Sanitaria: “Tre morti in meno di un mese, Napoli piange gli specialisti ambulatoriali. Onoriamo i nostri caduti restando in prima linea, ma troppo spesso mancano i Dispositivi di protezione individuale. Queste morti sono - dice il responsabile del sodalizio di categoria - la dimostrazione, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che ci troviamo al cospetto di un nemico che non guarda in faccia a nessuno, che sta colpendo tutte le categorie mediche e sanitarie indistintamente e subdolamente. Donne e uomini che nonostante il pericolo continuano a svolgere il proprio dovere, la propria professione, la propria missione”. Napoli. Denuncia sovraffollamento a Poggioreale, trasferito a 500 chilometri da casa di Andrea Esposito Il Riformista, 22 novembre 2020 Aveva chiesto di essere trasferito nel carcere di Vallo della Lucania: una struttura non troppo distante da Napoli, città di cui è originario, ma sicuramente meno affollata di Poggioreale. Per Angelo Esposito, recluso dal 10 gennaio scorso, la vita nella cella 55 bis era diventata insostenibile: 14 persone in uno spazio di circa 20 metri quadrati, con un solo bagno e una sola finestra, come lo stesso 59enne aveva denunciato in una lettera al garante regionale poi rilanciata dal Riformista. Alla fine Esposito è stato accontentato, ma il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha pensato bene di spedirlo a Forlì. Cioè a più di 500 chilometri di distanza da Napoli, dalla sua famiglia e dai suoi avvocati. Ufficialmente si tratta di un trasferimento “per motivi di ordine e sicurezza”. L’impressione di molti, incluso il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, è che si tratti di una punizione. Magari per aver denunciato lo strazio al quale sono sottoposti i detenuti nella cella più affollata d’Italia e d’Europa. Esposito, cardiopatico e asmatico, deve scontare una pena definitiva a sei anni e sette mesi di reclusione. Il 10 gennaio scorso gli si sono spalancate le porte della cella 55 bis di Poggioreale. Qui Angelo è subito diventato il punto di riferimento degli altri reclusi e non ha esitato a denunciare le condizioni di vita all’interno di quell’ambiente. Lì, per esempio, i detenuti non possono stare seduti contemporaneamente perché lo spazio a disposizione è troppo esiguo. E poco importa che la Cassazione abbia recentemente ribadito che ciascun recluso ha diritto a uno spazio minimo vitale di tre metri quadrati da calcolare al netto delle suppellettili. E il distanziamento sociale, indispensabile in una fase in cui il Covid dilaga a Poggioreale? Nemmeno a parlarne. Tanto che, in una lettera al garante Ciambriello, Angelo aveva lanciato l’allarme: “Se arriva il virus, per noi anziani sarà difficile uscirne vivi”. Di qui la richiesta di trasferimento nel carcere di Vallo della Lucania, dove c’è un reparto idoneo ad accogliere persone chiamate a scontare la pena per lo stesso tipo di reato che a Esposito è costato la condanna. Stesso discorso per i penitenziari di Secondigliano, Benevento e Carinola. Il Dap, però, ha optato per Forlì. Poteva trasferire Esposito a una manciata di chilometri da Poggioreale, invece ha preferito spedirlo dall’altra parte dell’Italia, tra l’altro in una fase in cui il Covid dilaga fuori e dentro le celle. Il tutto nonostante la circolare, emanata proprio dal Dap il 10 novembre scorso, che impone di ridurre i trasferimenti dei detenuti “alle sole situazioni indispensabili correlate a gravi motivi di salute e a gravissime e documentate ragioni di sicurezza”. In effetti è proprio questa la ragione del trasferimento indicata dai vertici di Poggioreale e del Dap: motivi di sicurezza. Eppure Esposito è tutto tranne che un pericoloso criminale e le sue condizioni di salute, per quanto preoccupanti, non erano tali da giustificare un trasferimento tanto repentino. Secondo il Dap, l’assegnazione del 59enne a Forlì è stata disposta il 29 ottobre su indicazione del Provveditorato regionale che “sconsigliava la movimentazione ambito distretto per motivi di sicurezza”. Fatto sta che Angelo è stato trasferito dopo aver segnalato per mesi l’inferno della cella 55 bis e tre giorni dopo la pubblicazione dell’articolo-denuncia sulle pagine del Riformista. Coincidenza? Non secondo Samuele Ciambriello che ha segnalato la vicenda al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e al capo del Dap Bernardo Petralia, evidenziando come il trasferimento di Esposito sia avvenuto “a seguito delle sue denunce circa il sovraffollamento e le condizioni igienico-sanitarie invivibili” di Poggioreale. E la famiglia di Angelo? “Sono pronta a qualsiasi sacrificio - dice la figlia Martina - pur nella consapevolezza che, d’ora in poi, incontrare mio padre sarà più difficile in termini economici e logistici”. Napoli. In aula solo su prenotazione, penalisti sul piede di guerra di Viviana Lanza Il Riformista, 22 novembre 2020 Non ci stanno a essere considerati il capro espiatorio. Che si tratti di criticità organizzative o strutturali, gli avvocati si sentono i più penalizzati in questa situazione di emergenza. E il provvedimento deciso dai vertici degli uffici giudiziari napoletani, in base al quale da martedì prossimo in Tribunale e in Procura si potrà accedere solo dopo aver preventivamente inviato una mail a un indirizzo dedicato, crea un nuovo strappo. “I processi che si trattano non vanno oltre la costituzione delle parti per le comprensibili defezioni di testi, consulenti e così via. La principale causa degli assembramenti è il mancato rispetto dell’orario di udienza, in una con il fallimento delle fasce di udienza e più generalmente dei cosiddetti tavoli tecnici che spesso non trovano compiuta applicazione. E su tutto, quello che fa stridere con la logica e con un senso di realtà tale provvedimento è la condizione del sistema digitale che viene presentato come risolutivo di ogni criticità del sistema giudiziario. I vari canali di comunicazione digitale recentemente attivati spesso vanno in default, la loro progettazione è imperniata sulle esigenze del personale amministrativo e non anche su quelle degli avvocati. E le cancellerie non sono in grado, per inadeguatezza dei sistemi informatici o carenze organizzative, di fornire puntuali e esaustive risposte”. In un documento stilato dai penalisti Gaetano Balice, Alessandra Cangiano, Francesco Benetello, Raffaele Miele, Laura Angiulli, Alfonso Tatarano, Rosario Marino, Raffaele Monaco, Giuseppe Scarpa e sottoscritto da molti colleghi, gli avvocati si dicono contrari alle nuove disposizioni dei vertici della Corte d’Appello e ne chiedono la revoca. “La misura è colma”, tuonano. “Il provvedimento appare tardivo e ultroneo, nonché eccessivamente gravoso in particolare per gli avvocati. Non è certo garantendo una par condicio tra gli obbligati che si salva la credibilità di un provvedimento”, aggiungono a proposito del fatto che le nuove disposizioni valgono anche per magistrati e forze dell’ordine. “Gli unici provvedimenti utili in questo momento sono quelli che dovranno richiamare i magistrati al rigoroso rispetto delle disposizioni che attengono allo svolgimento delle udienze”, scrivono puntando l’attenzione sulle contraddizioni vissute nel quotidiano. Ma le polemiche sono anche interne all’avvocatura stessa, perché alla riunione che ha preceduto la stesura delle nuove regole hanno partecipato anche rappresentanti di Camera penale e Ordine degli avvocati. Torna così a infiammarsi il dibattito sulla giustizia a Napoli. “La risoluzione dei problemi - sostengono i penalisti criticando le nuove disposizioni - non può essere l’emarginazione degli avvocati in labirinti digitali o in sacche di burocratismo”. Roma. Nel carcere di Rebibbia i contagiati ospitati in lavanderia di Franco Giubilei La Stampa, 22 novembre 2020 La madre di un detenuto: la situazione peggiora, fatemelo uscire. Una mamma racconta la paura del figlio, condannato ad un anno ma ormai a fine pena: “Il medico passa a visitarli una volta alla settimana” e la sensazione generale è “di abbandono”. Nelle carceri italiane cresce il malessere legato alla paura del contagio. “I detenuti sono abbandonati a loro stessi, bisogna dare voce anche a loro”, denuncia Lorena Ruggiero, madre di un ospite del nuovo reparto G8 di Rebibbia, a Roma, teatro qualche giorno fa di una protesta pacifica dei reclusi: molti di loro si sono rifiutati di rientrare nelle loro celle “per problemi legati alla positività al coronavirus”, spiega Maurizio Somma del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. La situazione poi si è risolta senza tensioni particolari, ma il malcontento e la preoccupazione per i ritmi di diffusione dell’infezione restano. Ritmi alti, come testimoniato dai dati diffusi ieri dal Garante dei diritti dei detenuti: i positivi nell’ultima settimana sono cresciuti del 28% su scala nazionale e mancano gli spazi dove isolarli all’interno degli istituti. Il figlio di Lorena Ruggiero ha trent’anni, gli mancano quattro mesi prima di finire di scontare una pena di un anno, condizione che gli permetterebbe di passare quanto gli resta ai domiciliari, come previsto dall’ultimo decreto emanato proprio per allentare la pressione della pandemia sulle carceri (chi ha una pena sotto i diciotto mesi può godere della misura alternativa, ndr). Eppure niente, è ancora a Rebibbia: “Quindici giorni fa abbiamo fatto l’istanza al giudice via mail certificata, ma non abbiamo avuto risposte, allora il nostro avvocato è andato di persona in cancelleria a depositare la cartella per cercare di velocizzare la pratica”. Lo stato delle cose dentro Rebibbia, così come descritto alla madre dal giovane recluso, è problematico: “I detenuti trovati positivi al Covid sono stati messi in isolamento, ma la conseguenza, visto che hanno dovuto sistemarli nella lavanderia del carcere, è che non cambiano più le lenzuola da tre settimane perché non possono più lavarle”. Questo però è solo un effetto collaterale, perché la vera fonte di ansia per ospiti e familiari è il virus e l’efficacia delle contromisure per contenerne la diffusione dietro le sbarre: “Mio figlio ha fatto il tampone tre giorni fa ma non ha ancora avuto risposte, e intanto le persone continuano a restare a contatto fra loro, col rischio che il contagio cresca”. Il medico, aggiunge Ruggiero, “passa a visitarli una volta alla settimana” e la sensazione generale è “di abbandono”. Condizione condivisa, fa notare la madre del detenuto, anche dal personale degli istituti, agenti di polizia penitenziare ed educatori. Una nota del Sappe ricorda che “sono positivi al virus 866 poliziotti penitenziari e 758 detenuti, quasi tutti seguiti e gestiti internamente dagli istituti, 70 sono i positivi fra i dipendenti civili. “Probabilmente, se fossero state raccolte le nostre grida di allarme lo scorso gennaio, avremmo potuto fronteggiare l’emergenza con i quantitativi necessari di dispositivi”. Lecce. “Ridurre le presenze in carcere”, l’appello della Garante per i detenuti lecceprima.it, 22 novembre 2020 Anche nelle carceri italiane e nell’istituto di borgo San Nicola a Lecce il pericolo della diffusione dei contagi tra detenuti e operatori di polizia è sempre dietro l’angolo. In quest’ottica dopo i continui solleciti giunti anche dalle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della città di Lecce, la professoressa Maria Mancarella, è intervenuta sul tema della riduzione delle presenze in carcere al fine di prevenire il diffondersi del contagio nelle strutture. Il tutto richiamando i contenuti che la Conferenza dei Garanti dei detenuti ha deciso, nell’incontro del 12 novembre scorso, e deciso di inviare, come appello, al Parlamento italiano per sollecitare la riduzione del numero delle presenze in carcere, al fine di tutelare il diritto alla salute di detenuti e operatori penitenziari. “Il carcere è di per sé un luogo in cui il rischio della diffusione del covid-19 è molto alto” rileva la referente leccese, “il fisiologico assembramento di un numero considerevole di persone in spazi ristretti, non consente il rispetto del distanziamento fisico e delle misure di igiene indispensabili alla prevenzione del virus e contribuisce inevitabilmente ad accrescere il rischio di diffusione del contagio. Dalle informazioni che emergono è evidente come nelle carceri italiane la situazione cominci a diventare seria ma non ancora allarmante. Accanto ad istituti in cui vi sono dei veri e propri focolai, in molte carceri i casi presenti sono pochi e si riferiscono a persone asintomatiche, sia tra il personale penitenziario che tra i detenuti, segno questo che le misure di prevenzione stanno ancora funzionando, se pur a fatica”. I dati degli ultimi giorni mostrano, tuttavia, una tendenza verso un rapido e progressivo aumento dei casi. Si è quindi ripresentato, prepotentemente, il tema della riduzione delle presenze insieme a quello della definizione, in tutti gli istituti, di spazi adeguati a una gestione efficace della prevenzione e dell’assistenza, cosa che finisce per contrarre inesorabilmente i già ristretti spazi destinati alla restante popolazione detenuta. “Una significativa riduzione delle presenze in carcere” scrivono i garanti nel loro appello, richiamato da Maria Mancarella, “contribuirebbe positivamente ad affrontare nel migliore dei modi la gestione sanitaria interna della prevenzione e dei focolai, favorendo migliori condizioni lavorative per gli operatori penitenziari e permettendo, ove possibile, la prosecuzione in condizioni di sicurezza, delle attività lavorative e formative, di istruzione, culturali o sportive”. I garanti fanno perciò appello alla magistratura perché eviti arresti e misure cautelari in carcere, quando non strettamente indispensabili e affinché favorisca licenze straordinarie ai semiliberi, ai lavoranti all’esterno e a coloro che usufruiscono abitualmente di permessi. E infine auspicano che si conceda la detenzione domiciliare ai detenuti in fine pena. Nel carcere di Lecce la situazione non è al momento preoccupante: dai controlli sono emersi sette agenti positivi, tutti appartenenti al Nucleo traduzioni. Tra i detenuti, invece, non risulta alcun positivo. La direzione, sotto l’egida di Rita Russo, continua a fare il possibile di facilitare i contatti con l’esterno almeno fino a quando ciò sarà possibile, utilizzando tutte le modalità comunicativa a disposizione e con ogni mezzo, cercando, anche se a fatica, di non far ricadere il carcere nell’isolamento. “Il carcere da sempre e non solo in tempo di Covid, è fatto da problemi sociali che altri preferiscono non risolvere perché scarsamente coinvolgenti sotto il profilo della strategia politica come riferisce la direttrice” spiega ancora Maria Mancarella, “ma vi assicuro che ciò che incombe sulle coscienze dei direttori sono il disagio psichico, una tutela della salute mentale inadeguata, persone senza fissa dimora, poveri ed ancora tossicodipendenti, che si preferisce lasciare in terapia metadonica piuttosto che progettare per loro una vita migliore e libera”. Purtroppo le disposizioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria hanno limitato al massimo la presenza dei volontari, costringendo alla chiusura delle attività laboratoriali. Le attività scolastiche, invece, proseguite in presenza anche dopo l’ordinanza del presidente Emiliano, e precauzionalmente sospese dopo la rilevazione dei casi di positività al Covid tra gli agenti di polizia penitenziaria, si svolgono al momento regolarmente in presenza. I detenuti che lavorano continuano regolarmente ad uscire per lavorare all’esterno (due presso il comune di Caprarica, uno presso il comune di Lequile, uno presso l’istituto Olivetti, uno presso l’ex convitto Palmieri, quattro presso la procura della Repubblica, due presso datori di lavoro privati). L’ufficio matricola ha invece compilato d’ufficio le istanze di detenzione domiciliare per tutti i detenuti, circa cinquanta, che hanno i requisiti richiesti dall’ultimo decreto. Tolmezzo (Ud). L’appello dei sindacati sul contagio in carcere Messaggero Veneto, 22 novembre 2020 Preoccupazione in Carnia per i numerosi contagi in carcere. Al momento si contano 132 positivi al Covid: 116 detenuti (sui 203), 15 agenti di polizia penitenziaria e un impiegato (su 180). Coi contagi in casa di riposo, Tolmezzo è il settimo Comune in Fvg per rapporto fra abitanti/contagi. L’avvocato Cesare Vanzetti, che assiste 5 detenuti nella sezione “Alta Sicurezza” martedì ha chiesto un intervento al magistrato di sorveglianza, al garante regionale e a quello nazionale dei diritti delle persone private della libertà segnalando il mancato isolamento di detenuti positivi da altri negativi e il ritardo nei tamponi ai detenuti. “Si tratta - dice - del più grave episodio a livello italiano di contagio interno alle carceri”. La Fns Cisl del Fvg chiede al provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto di sostenere la Direzione carceraria di Tolmezzo in ogni iniziativa con l’azienda sanitaria e di sospendere l’invio di personale nel carcere carnico per traduzioni o videoconferenze. Per la Fns Cisl il penitenziario va dichiarato zona rossa e vanno dirottati altrove nuovi arresti. Problematico l’eventuale ricovero di un detenuto di alta sicurezza, per il personale richiesto ai piantonamenti. Per l’europarlamentare friulano Marco Zullo (M5s) “si potrebbe pensare a una mancata gestione interna, ma sono consapevole - afferma - che gran parte del problema abbia radici molto più in alto. Mi rivolgo alla direttrice: sono disponibile a darvi il mio supporto, uniamo le forze. Questa situazione è frutto di anni di disinteresse da parte delle istituzioni, a pagare è tutto il comparto penitenziario. Il programma di gestione in grado di fronteggiare l’emergenza è carente, le sezioni separate dove ospitare i detenuti contagiati insufficienti, manca personale sanitario e assistenziale, la polizia carceraria è abbandonata a sé stessa, per non parlare dei detenuti. Chiedo al Ministero e al Dap di prendersi le dovute responsabilità e intervenire sul sovraffollamento”. Padova. Video dal carcere, perquisito Alesini Il Gazzettino, 22 novembre 2020 Il video dal carcere postato sul social Instagram dal detenuto ed ex boss della baby gang di Mestre Angelo Valerio Alesini di 19 anni, ha fatto scattare un’indagine interna nella casa di reclusione Due Palazzi. Gli agenti della Polizia penitenziaria hanno già perquisito la cella del giovane, alla ricerca dello smart-phone con cui avrebbe girato le immagini dal penitenziario per poi metterle in rete. I poliziotti, al momento, non hanno trovato alcun cellulare, ma le indagini sono solo all’inizio. Gli inquirenti vogliono capire come l’apparecchio possa esse entrato nel carcere. Tre le piste su cui stanno battendo gli agenti della penitenziaria: Alesini potrebbe essere stato aiutato da un amico non recluso. Oppure potrebbe essersi fatto prestare o avere acquistato il cellulare da un detenuto. La Procura è stata avvisata dell’accaduto, ma per ora non ci sono persone iscritte nel registro degli indagati. Alesini all’inizio era ospite del carcere lagunare, poi è stato trasferito al Due Palazzi. Deve scontare una pena di oltre quattro anni e mezzo di reclusione in seguito a due condanne. La principale è un patteggiamento a tre anni e dieci mesi per nove furti, un danneggiamento e una tentata estorsione commessi tra giugno e agosto 2018. Poi a gennaio era arrivata una seconda sentenza che aggiungeva al conto con la giustizia nove mesi per altri furti e tentati furti aggravati. Alesini non è nuovo nel postare le sue azioni criminali nei social. E questa volta sembra avere voluto sfidare in maniera plateale l’autorità: si è filmato all’interno della sua cella al Due Palazzi, mentre fuma quello che ha tutta l’aria di essere uno spinello. Il video, con tanto di sottofondo musicale del trapper Sfera Ebbasta, è stato postato sul profilo Instagram del diciannovenne. Era il luglio del 2014 quando gli uomini della Squadra mobile, coordinati dal sostituto procuratore Sergio Dini, hanno iniziato a indagare sulla casa di reclusione Due Palazzi portando allo scoperto un intenso traffico di droga, telefoni cellulari, Sim card e chiavette Usb. Lo stupefacente finiva nelle mani di un albanese che gestiva poi le ulteriori cessioni all’interno del Due Palazzi. Due guardie trattenevano per sé un quantitativo di droga come guadagno per la loro attività di spaccio. Gli altri canali di rifornimento per lo stupefacente, i telefoni cellulari e le Sim card facevano invece capo a due esponenti della malavita organizzata che si dividevano i profitti. Gorgona (Li). La storia di Beatrice: “Io contadina, insegno ai detenuti l’arte dell’olio” di Maurizio Costanzo La Nazione, 22 novembre 2020 Lavorano nei campi, al frantoio e nel marketing: è il progetto dell’azienda agricola Santissima Annunziata di San Vincenzo per l’istituto penitenziario dell’isola. Un olio unico, reso ancora più speciale da chi lo fa: i detenuti del penitenziario dell’isola di Gorgona. In ogni bottiglia c’è molto più di un prodotto di qualità, nato da una varietà particolare di olive, ma ci sono percorsi di formazione per acquisire le conoscenze agronomiche biologiche, le competenze sul marketing e la comunicazione e soprattutto la possibilità di trovare in un lavoro il riscatto di una vita. E’ questo il cuore del progetto Recto Verso, vincitore del bando ‘Agro-Social: seminiamo valore’ realizzato da Confagricoltura e JTI Italia. Ieri l’annuncio del primo premio da 40mila euro per l’azienda agricola Santissima Annunziata di San Vincenzo, alla presenza del presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, del presidente e amministratore delegato di JTI Italia, Gian Luigi Cervesato. All’appuntamento hanno preso parte anche il viceministro all’Economia e Finanze, Antonio Misiani e il sottosegretario Mipaaf, Giuseppe L’Abbate. Un’idea che è nata un anno fa e “che è cresciuta grazie all’entusiasmo di tutti e 85 i detenuti e soprattutto dei responsabili del penitenziario”, racconta Beatrice Massaza, titolare dell’azienda agricola vincitrice, da sempre impegnata nel sociale. “Non è beneficenza, ma uno scambio alla pari tra persone che cercano una strada nuova e aziende che hanno bisogno di lavoratori che sappiano fare un mestiere. Il nostro progetto è nato lì perché l’azienda agricola di Gorgona è il luogo ideale. Da qui è nato un percorso articolato, che diventerà entro due anni un modello di lavoro da esportare anche in altri istituti penitenziari. Grazie ad Apot-Associazione produttori olivicoli toscani abbiamo creato una rete di aziende, circa un centinaio, interessate a partecipare e attivare percorsi formativi e di inserimento lavorativo. Vogliamo che dal carcere non escano ex detenuti, ma potatori esperti o agricoltori”. La raccolta delle olive è in corso, come il lavoro al frantoio. Il passaggio successivo sarà la formazione sulla commercializzazione e la comunicazione, dalla creazione delle etichette fino alle campagne pubblicitarie e le strategie di vendita. Sono previsti anche corsi di degustazione. Verranno poi creati dei video-tutorial che serviranno a far conoscere ed esportare il modello di lavoro di Gorgona ad altri istituti penitenziari italiani. “Stiamo pensando di creare anche una web tv - aggiunge Beatrice Massaza - Vogliamo sviluppare e divulgare il più possibile questo modello che si basa sul rispetto dell’ambiente, il rispetto del lavoratore, la qualità del prodotto e l’attenzione al consumatore, fino ad arrivare alla creazione di un ente certificatore con tecnologia blockchain”. Il bando “Agro-Social: seminiamo valore” ha ricevuto la candidatura di numerose idee progettuali di qualità provenienti dai territori coinvolti di Toscana, Umbria, Veneto e Campania ed è nato con l’idea di stimolare la creazione di opportunità e nuovi modelli di sviluppo per le comunità locali rurali del Paese sostenendo progetti concreti di impresa, sostenibilità e solidarietà. “Il nostro Paese - ha ricordato il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti - è leader in Europa per l’agricoltura sociale. Confagricoltura ha sempre creduto al ruolo determinante del settore nel contesto sociale ed economico. In questo momento storico poi, così delicato per l’Italia, siamo convinti della necessità di investire in questo modello di sviluppo virtuoso e competitivo, che permette di coniugare le politiche del welfare con la produttività e la salute”. Tutti i progetti finalisti hanno avuto a disposizione durante la precedente fase di tutoraggio un patrimonio di esperienze, suggerimenti e competenze per dimostrare come inclusione sociale, sostenibilità ambientale e visione imprenditoriale possono davvero coesistere. L’obiettivo, in linea con il Piano di Ripresa e Resilienza del Governo, è di contribuire alla riduzione del divario economico e sociale, creare occupazione, sostenere la transizione verde e migliorare la capacità di ripresa dell’Italia. “È arrivato il momento di prendere atto che non può esserci crescita se non si garantiscono sostenibilità economica, sociale e ambientale. In questa visione rientra il nostro impegno pluriennale per supportare un comparto strategico della produttività del Paese e stimolare le capacità innovative che il territorio stesso può esprimere - ha detto Gian Luigi Cervesato, presidente e amministratore delegato di JTI Italia - Per portare a casa la sfida alle disuguaglianze serve un dialogo costante tra tutti gli attori della società. Questo progetto realizzato con Confagricoltura ne è un esempio: solo insieme possiamo trovare le migliori soluzioni, a partire dal giusto equilibrio che consenta di sviluppare una visione di lungo periodo per ripensare i modelli produttivi e di consumo del futuro” ha concluso. All’incontro hanno preso parte anche le istituzioni che hanno ribadito la rilevanza e il valore che il settore agricolo ha per il tessuto produttivo del Paese. “Oggi abbiamo avuto il piacere e l’onore di premiare progetti che hanno saputo dare concretezza alle potenzialità del welfare rurale su cui abbiamo creduto sin dal 2015 quando, in Parlamento, approvammo la tanto attesa norma sull’Agricoltura Sociale. I soggetti più vulnerabili della società, grazie ad iniziative come queste, divengono così protagonisti attivi della vita agricola e produttiva dei territori, coniugando innovazione e antichi saperi. Risultati ancor più determinanti alla luce del tragico momento storico che stiamo vivendo e che dobbiamo fronteggiare facendoci comunità. E in ciò l’agricoltura dimostra, ancora una volta, la sua importante funzione sociale” ha sottolineato Giuseppe L’Abbate, sottosegretario alle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Covid. Il vaccino, il dubbio e la superstizione di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 22 novembre 2020 Il mondo rischia di affogare nella tempesta virale, e il vaccino ci offre - finalmente! - un salvagente. Rifiutarlo sarebbe una follia. Chi, per professione, esprime opinioni deve essere consapevole di questo. “Sobbalzare” è un verbo impolverito. Quando siamo sorpresi, spalanchiamo gli occhi, rimaniamo a bocca aperta, allarghiamo le braccia, ci giriamo di scatto. Ma non sobbalziamo. Gli italiani hanno smesso di sobbalzare dopo Giovanni Pascoli. Ma in questi giorni, devo ammettere, sono sobbalzato. Un paio di volte. La prima quando ho letto quest’affermazione di Andrea Crisanti, microbiologo: “Senza dati, il vaccino non me lo faccio, perché voglio essere rassicurato che è stato testato e soddisfi tutti i criteri di sicurezza ed efficacia. Come cittadino ne ho diritto, non sono disposto ad accettare scorciatoie”. Ma come? È evidente che il vaccino verrà testato con immensa cautela dalle autorità sanitarie: uno scienziato dovrebbe saperlo. Ha ragione il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli: “In un Paese che si connota per qualche perplessità, dubbio o addirittura ostilità alle strategie vaccinali, è bene ricordare sempre la responsabilità delle affermazioni che possono avere riverbero mediatico”. Riassunto di Massimo Gramellini sul Corriere: “Chi per mesi va in televisione a incarnare la scienza, dovrebbe pesare gli effetti delle sue parole. Non è al bar”. Il secondo sobbalzo? Quando ho sentito riecheggiare gli stessi dubbi in televisione. Uscivano dalla bocca di persone ragionevoli, professionisti della comunicazione. Distinguo, precisazioni, generica diffidenza. Perfino accenni alle conseguenze del vaccino sui figli. Tema scivolosissimo. Non esiste collegamento tra vaccini e autismo: la scienza l’ha escluso. Ma c’è chi specula sul dolore di tante famiglie e cerca di far passare questa convinzione. Non va incoraggiato. Ha ragione Anthony Fauci, massima autorità in materia negli Usa: “La velocità nel trovare il vaccino non compromette la sua sicurezza, né l’integrità scientifica. È un riflesso degli straordinari progressi che ci hanno permesso di fare in pochi mesi ciò che poco tempo fa avrebbe richiesto anni”. Mi chiedo, e vi chiedo: com’è possibile aver dubbi? Il mondo rischia di affogare nella tempesta virale, e il vaccino ci offre - finalmente! - un salvagente. Rifiutarlo sarebbe una follia. Chi, per professione, esprime opinioni deve essere consapevole di questo. Il dubbio, in Italia, confina spesso con la superstizione. Oggi non possiamo permettercela. I crimini contro i migranti hanno nomi e cognomi di Antonio Gibelli Il Manifesto, 22 novembre 2020 Noi sappiamo chi sono i colpevoli. E non stiamo parlando delle classi dirigenti europee, delle responsabilità storiche. Restiamo in Italia e facciamo nomi e cognomi. Ricordate un bambino africano di sei mesi di nome Joseph? Acqua passata sopra il suo corpo. Compiute le esequie, svanite le buone parole, la sua vita mediatica è già finita come la sua vita reale. Così è successo a tanti e tante prima di lui. Come l’altro bambino siriano con qualche anno in più, sdraiato per sempre in una spiaggia non si sa dove. L’unica fortuna di Joseph, l’unica fortuna dell’altro bambino, relitto abbandonato sulla spiaggia, è di non essere finiti semplicemente in fondo al mare. In questo caso, per sapere almeno il loro nome, avremmo dovuto affidarci ad Elena Cattaneo, al suo pietoso ufficio di decifrare le identità dei cadaveri, di raccogliere le loro pagelle di scolari sepolte in mare insieme a loro. Per tutti gli altri, l’anonimato. Come milioni di migranti di tutti i tempi dispersi negli oceani, sulle montagne alpine che tentavano di superare, soffocati nelle miniere, nel chiuso dei container, nel sottofondo di un camion, nel canale della Manica. Sono gli invisibili. Invisibili anche quando si vedono. Come ha detto in questi giorni il sindaco di un comune ligure, pieno di buon senso, non un razzista, attento al benessere dei suoi cittadini: con tutta questa gente irregolare che gira per le strade, la qualità della nostra vita si abbassa. Ma la cosa non finisce qui, perché noi sappiamo chi sono i colpevoli di tutto questo. E non stiamo parlando delle cause prime, dei fenomeni mondiali, delle responsabilità storiche, delle classi dirigenti europee. Limitiamoci all’Italia e facciamo nomi e cognomi. E non parliamo di colpevoli in senso giuridico (il processo a Salvini sarà sempre e comunque un diversivo), ma in senso morale e politico. I nomi e i cognomi sono questi. Il primo è Matteo Salvini, degno erede e interprete della tradizione leghista, che ha montato e cavalcato la marea dell’odio. Ha tenuto in mare persone provate e stremate per fare bella figura con la gente stregata dall’idea che la colpa dei suoi mali sia di quelli che arrivavano dall’Africa e per ricattare un’Europa egoista dominata da suoi compari come Farage e Johnson. È lui che ha chiamato crociere i viaggi della sofferenza e della speranza, prendendo a calci i principi di umanità, proclamando che era finita la pacchia. È lui che ha aizzato la ferocia istigando all’assalto degli alberghi dove i rifugiati venivano ricoverati, a chiudere i centri di accoglienza, ad abolire le forme di integrazione diffuse sul territorio. È lui che ha violato i principi della Costituzione, i diritti dell’uomo, le leggi del mare, i principi cristiani della solidarietà. Lui è il primo colpevole. Lui è l’abominevole. Il secondo è Di Maio, insufflato da Grillo amico di Farage. Lui che - forse informato in anticipo da un magistrato che ha inventato reati inesistenti per denigrare e sanzionare comportamenti virtuosi - ha coniato la formula spietata dei taxi del mare, trasformando un salvataggio in un crimine, e quindi un crimine, l’omissione del soccorso, l’interdizione del soccorso, il rifiuto di salvare chi annega, in un’azione gloriosa, e l’azione umanitaria in azione riprovevole. È ancora Di Maio che in estate si è indignato perché i profughi, ammassati in maniera disumana nei centri di detenzione, fuggivano, anziché indignarsi perché quei centri erano immonde baraccopoli a 40 gradi. Il terzo - e qui la penna sanguina perché le sue intenzioni non erano perverse, perché ha agito sotto la pressione degli altri due, perché temeva in buona fede che l’onda alta della demagogia rendesse incontrollabile la situazione e minacciasse direttamente la democrazia italiana - è Marco Minniti. È lui che ha trasformato la scellerataggine degli altri in provvedimenti precisi con un preciso effetto e in condotte precise di politica estera: colpevolizzare i soccorritori, limitare la loro presenza, trattare coi Libici, puntare sul trattenimento dei migranti nei loro lager, respingerli nelle braccia degli aguzzini. Era l’estate del 2017. Se Joseph potesse risvegliarsi dovrebbe chiedere conto anche a lui. E allora finiamola una buona volta con le lacrime di coccodrillo, con il cordoglio unanime, con le foto che cambieranno la storia, con le sequenze cinematografiche del dolore che rimarranno per sempre. Il povero Joseph non sa che farsene, non se ne può fare più niente. E nemmeno noi possiamo farcene niente. Non saremo per questo migliori. E se non vogliamo puntare il dito contro le persone, parliamo delle parole e delle cose: sono quelle parole, quelle decisioni che fanno annegare uomini, donne e bambini. Sono le navi ferme nei porti, i mari senza soccorritori, i messaggi di soccorso inascoltati, le motovedette libiche che se devono salvare non arrivano, se devono sequestrare i disperati sono sempre pronte. Se sono le cose, queste cose devono finire. Bisogna fare marcia indietro, bisogna promuovere i soccorsi, organizzare le accoglienze, invertire totalmente, non correggere blandamente, la politica di Salvini e Di Maio. Bisogna dire ai 5 Stelle che non devono riconquistare l’identità originaria, ma negare la loro identità originaria di concorrenti di Salvini. Bisogna riportare i soccorritori dove la gente annega. Bisogna premiarli, bisogna lodarli. Bisogna dire che noi ci riconosciamo in loro, che lo spirito dell’Europa nata dal crollo del nazismo è con loro, non con Salvini, non con Di Maio. Bisogna far presto. Bisogna tagliare netto. O altrimenti tacere. Dimenticare Joseph e tutti quelli come lui. Meglio il silenzio che l’ipocrisia. Regeni, il processo non interromperà gli affari con l’Egitto di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 novembre 2020 A due settimane dalla chiusura delle indagini, Piazzale Clodio si prepara a rinviare a giudizio i cinque membri dei servizi segreti considerati gli aguzzini del ricercatore. Conte telefona ad al-Sisi: è tempo di collaborare. Ma nello stesso colloquio, scrivono i media egiziani, ha parlato di rafforzamento dei rapporti commerciali e militari. Sono stati tre giorni intensi sul fronte italo-egiziano: la telefonata tra il primo ministro Conte e il presidente al-Sisi, i prossimi rinvii a giudizio per l’omicidio di Giulio Regeni, l’udienza per il rilascio (o la conferma della custodia cautelare) di Patrick Zaki, l’arresto del direttore della sua ong, Eipr. Tre giorni che aprono a due settimane di attesa “attiva”: la speranza che in questo arco di tempo Il Cairo rimuova finalmente il muro di gomma su cui da quasi cinque anni rimbalzano le richieste di verità della famiglia Regeni e dell’opinione pubblica italiana. Su Patrick Zaki una risposta dovrebbe giungere stamattina: ieri al Tribunale penale del Cairo si è tenuta l’ennesima udienza per il rinnovo della custodia o il rilascio del giovane studente dell’Università di Bologna, arrestato lo scorso 7 febbraio. Secondo la campagna “Patrick libero”, Zaki era presente insieme ai legali e ha avuto occasione di parlare. La decisione della corte è prevista per oggi, a chiusura di una settimana di arresti che ha colpito i vertici dell’ong con cui collaborava, l’Egyptian Initiative for Personal Rights. E poi c’è il caso di Giulio Regeni, impantanato da anni tra le sabbie mobili dei silenzi egiziani, quando va bene, e dei depistaggi, quando va male. A premere sull’acceleratore è di nuovo la Procura di Roma: a meno di due settimane dalla chiusura delle indagini, il team guidato dal procuratore capo Prestipino e dal pm Colaiocco è pronto al rinvio a giudizio dei cinque membri dei servizi segreti egiziani (il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mahmoud Najem) che il 4 dicembre 2018 Piazzale Clodio inserì nel registro degli indagati. Il 28 novembre scorso l’annuncio della chiusura delle indagini era giunto in concomitanza con l’incontro virtuale con gli inquirenti egiziani, uno dei tanti vertici fatti di silenzi e mancate risposte. Tra cui spicca la richiesta, mossa tramite rogatoria, dell’elezione di domicilio in Italia dei cinque indagati, per poterli processare. La Procura è stanca di aspettare. E chiederà di andare a processo: gli elementi raccolti, fa sapere alla stampa, sono “univoci” e “concordanti” e dimostrano sia il coinvolgimento dei cinque membri dell’Nsa nel rapimento e l’omicidio di Giulio sia le azioni di depistaggio messe in campo fin dal 3 febbraio 2016, giorno del ritrovamento del corpo del ricercatore. Il 4 dicembre Colaiocco depositerà gli atti delle indagini e chiederà di procedere contro di loro con un decreto di irreperibilità. E processo sarà, in contumacia se il presidente egiziano al-Sisi non li consegnerà all’Italia. Dal punto di vista pratico, il rinvio a giudizio, il processo in contumacia e l’eventuale condanna non avranno effetti concreti senza la fattiva collaborazione giudiziaria del Cairo: non sarà possibile estradarli. Si tratterebbe comunque di un colpo all’immagine del regime egiziano, di fatto messo a processo in Italia, visto il ruolo di spicco rivestito dai cinque indagati all’interno della macchina repressiva di Stato. Per questo è sceso in campo il primo ministro Conte, lo stesso che lo scorso giugno di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni presentò la sua particolare strategia di convincimento: affari e amicizia con al-Sisi in cambio di rispetto e verità. Mai arrivati. Venerdì mattina Conte ha avuto un colloquio telefonico con il presidente egiziano a cui avrebbe detto, riporta Repubblica, che di tempo a disposizione non ce n’è più: con la chiusura delle indagini dietro l’angolo, meglio collaborare e consegnare i cinque aguzzini. Solo così - aggiungiamo noi - potrebbe “salvare” il regime. Questa è la più seria paura di al-Sisi: abbandonare gli assassini di Giulio significherebbe togliere il velo a un sistema di controllo e repressione consolidato e istituzionale, gestito dai vertici del paese. Secondo i media egiziani, a partire dal filo-governativo al-Ahram, Conte avrebbe ribadito ad al-Sisi l’intenzione di proseguire nel rafforzamento delle relazioni bilaterali, a partire dal commercio, gli investimenti e il settore militare. Parole che, se confermate, non dovrebbero togliere il sonno al regime. Egitto. Si complica il caso Zaky: verso il rinvio della scarcerazione di Francesca Caferri La Repubblica, 22 novembre 2020 Oggi il verdetto sul 28enne, ma entra nella partita il fermo dei vertici della sua ong. In aula è apparso deciso e motivato, rinvigorito dal fatto di aver potuto lasciare la cella dopo settimane di attesa e incontrare, seppur brevemente, i suoi avvocati. Con calma, ha ribadito al giudice quello che va ripetendo da febbraio: “Sono uno studente. Non ho commesso nessuno dei crimini di cui mi accusate. Voglio solo tornare a studiare”. Ma Patrick Zaky sa bene che le speranze che oggi il magistrato egiziano lo rilasci sono poche, e che con tutta probabilità il suo arresto sarà prolungato di altri 45 giorni. Lo sa perché domenica sera è stato lui stesso ad accogliere a Tora, Mohammed Basheer, il primo dei tre dirigenti della sua ong, l’Eipr, arrestati dalle autorità in cinque giorni: e perché ha saputo dalla sua avvocatessa, Hoda Nasrallah, che dopo Basheer sono stati fermati anche Kareem Ennarah, direttore delle analisi, e Gasser Abdel Razek, presidente di Eipr. I due sono stati anche loro trasferiti a Tora ma in un’area diversa del super carcere alle porte del Cairo: non hanno dunque incontrato Patrick. Ma Patrick sa che contro la sua ong è in corso un’offensiva e che dunque il suo caso, invece di semplificarsi, si complica. E non di poco. Come lui, gli altri arrestati sono accusati di aver diffuso notizie false contro lo Stato e di aver complottato contro lo Stato stesso. Il ragazzo, da quello che filtra dal Cairo, è in buona salute e determinato a non arrendersi. L’attacco ai vertici dell’ong ha riacceso i riflettori sulla questione dei diritti umani nell’Egitto di Abdel Fatah Al Sisi. Chi segue il Paese crede che ci troviamo di fronte alla stretta maggiore sul dissenso dal 2013, quando il presidente ordinò di sparare sui simpatizzanti dei Fratelli Musulmani: nel massacro morirono circa 2 mila persone. Ieri il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha espresso il disappunto per l’arresto dei membri di Eipr, così come avevano fatto poche ore prima dagli Stati Uniti senatori come Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Chris Coons, possibile segretario di Stato dell’amministrazione Biden. E proprio guardando agli Usa vanno interpretati gli arresti di questi giorni, secondo quanto aveva detto a Repubblica Abdel Razek poche ore prima di essere prelevato. “Si sono spaventati per l’incontro con gli ambasciatori occidentali che abbiamo avuto. Temono che la questione diritti umani possa tornare centrale e che Biden, come Obama, possa fermare gli aiuti militari”. Poco dopo il presidente di Eipr è stato arrestato: il suo destino, come quello dei collaboratori e di Patrick Zaky - per il quale da mesi lavorava senza tregua - è nelle mani di quei Paesi i cui rappresentanti diplomatici aveva incontrato. La Ue-Italia compresa - ha inviato un messaggio alla presidenza egiziana esprimendo “preoccupazione” per l’accaduto. Alcuni Paesi presenti all’incontro - Germania, Norvegia, Francia e Irlanda - sono anche intervenuti con singole note critiche. Che hanno non poco infastidito il Cairo: mercoledì il ministro degli Esteri ha criticato direttamente Parigi per la sua ingerenza. Uccise, rapite, svanite nel nulla. In Libia è caccia alle attiviste di Francesca Mannocchi L’Espresso, 22 novembre 2020 Hanan al-Barassi si faceva chiamare Azouz Barqa, l’anziana donna di Barqa. In questa definizione c’era tutta la sua saggezza, la sua compostezza. Il coraggio di denunciare, anche, che le è costato la vita. Aveva quarantasei anni, era un’avvocatessa. Difendeva a Bengasi i diritti delle donne e il diritto dei libici onesti di vivere in una città in cui il potere non fosse gestito in maniera clientelare e violenta. Il pomeriggio del 10 novembre era in centro città con sua figlia. Stavano per entrare in un negozio quando tre Suv con i vetri oscurati si sono fermati davanti a loro. Due uomini col volto coperto hanno prima tentato di rapirla, poi le hanno sparato di fronte agli occhi increduli di sua figlia. E di fronte a passanti, negozianti, che hanno fatto poco o nulla per difenderla. Dopo averla uccisa gli uomini incappucciati non sono fuggiti, ma hanno camminato lungo la via dei negozi di Bengasi al passo dell’impunità. Sul corpo di Hanan i segni dell’esecuzione: tre ferite di arma da fuoco alla testa. Nei giorni precedenti all’assassinio al-Barassi era tornata a denunciare la corruzione e gli abusi dei gruppi che sostengono il generale Haftar, e la sua gestione del potere nella parte orientale della Libia. Nell’ultimo video, poche ore prima di essere uccisa, è in auto, determinata, sorride e rivendica: “Non ho intenzione di chinarmi, mi faranno tacere solo con la morte”. L’hanno fatto. In quello che è l’ultimo di una serie di omicidi politici, e soprattutto è l’ennesimo atto contro un’attivista donna. Nel 2014 Salwa Bugaighis, rinomata avvocatessa, fu uccisa a colpi d’arma da fuoco nella sua casa di Bengasi da uomini non identificati. Su questo crimine nessuno ha indagato. E nessuno è stato perseguito. Nel luglio del 2019 Seham Sergewa, parlamentare, attivista per i diritti delle donne, è stata rapita in casa sua, sempre a Bengasi. Aveva criticato gli estremisti vicini a Haftar e la sua offensiva militare per conquistare Tripoli. Di lei non si è saputo più nulla. Dopo il suo rapimento sulla facciata dell’abitazione in cui è stata prelevata nel cuore della notte, è comparsa la scritta: “The army is a red line”, l’esercito è la linea rossa. Chi critica le scelte del generale Haftar, chi critica la sua famiglia, muore. O scompare. E quello che resta è violato. Così la tomba dell’avvocatessa al-Barassi, profanata pochi giorni dopo la sua morte. Il rapimento di Sergewa, l’esecuzione in pieno giorno di Barassi, raccontano il dissenso impossibile in Libia, e raccontano anche l’estromissione delle donne dai tavoli negoziali. Anche nelle trattative di pace in corso in queste settimane le donne sono sottorappresentate: su 75 delegati che hanno partecipato all’ultima serie di incontri, le donne sono solo una dozzina scarsa. L’esecuzione di Barassi racconta, però, anche qualcosa in più: l’impunità, l’assenza di sanzioni per i responsabili di crimini efferati, di crimini di guerra. Come quelli che pesano sulle milizie legate a Haftar. Perché Barassi non era solo una donna che ha avuto il coraggio di denunciare gli stupri subiti dalle donne di Bengasi, aggressioni in cui sarebbero coinvolti membri di gruppi armati che sostengono l’Esercito Libico di Haftar, ma ha avuto la risolutezza di dare un nome agli abusi. Poco prima dell’assassinio aveva promesso di rivelare nuovi abusi dei familiari di Haftar, compreso uno dei suoi figli, Saddam. Gli abusi di quello che lei definiva “il governo della famiglia”, fatto di corruzione, abusi di potere. Più volte denunciati, più volte provati, mai sanzionati. Due anni fa Radio France International ha riferito che Saddam Haftar era coinvolto nel contrabbando di oro e riciclaggio di denaro dalla Turchia. Nel 2018 un report delle Nazioni Unite aveva denunciato che questo traffico gli era valso un miliardo e mezzo di lire turche e che i collegamenti non fossero limitati alla Turchia ma anche agli Emirati, cui il figlio del generale vendeva oro in cambio di armi e mercenari. Nel report si legge anche che Saddam Haftar avrebbe confiscato alla Banca Centrale Libica di Bengasi 500 mila dollari e monete d’argento per un valore di due milioni di dollari. Hanan al-Barassi sapeva, vedeva e aveva il coraggio della testimonianza. Avrebbe voluto svelare di più. È stata uccisa prima di poterlo fare. È stata uccisa nel mezzo dei colloqui di pace. Resta da capire, per il presente e soprattutto per il futuro, come si negozi la pace in un Paese in cui gli assassini degli attivisti non vengono identificati, denunciati, giudicati, puniti. Arabia Saudita. Si apre il G20, una vetrina per la feroce monarchia di Mohammed bin Salman di Michele Giorgio Il Manifesto, 22 novembre 2020 Piovono su Riyadh accuse e condanne per le violazioni dei diritti umani e per gli abusi che le attiviste saudite subiscono in prigione. Il vertice online del G20 rischia di abbellire l’immagine dei Saud. erede al trono già alla guida dell’Arabia saudita. Lo denuncia in un rapporto di 40 pagine l’avvocata scozzese Helena Kennedy, nota esperta dei diritti umani, che invita il Regno unito e gli altri paesi a boicottare il G20 che si apre oggi in Arabia Saudita, a meno che che le prigioniere non siano liberate. Il suo appello si aggiunge a quello di Amnesty International che giovedì ha esortato i leader che parteciperanno online al vertice a chiedere l’immediata liberazione di cinque attiviste: Loujain al Hathloul, Nassima al Sada, Samar Badawi, Nouf Abdulaziz e Mayaa al Zahrani, arrestate nel 2018. “Per le autorità saudite il G20 è fondamentale: è l’occasione per promuovere nel mondo il loro programma di riforme. Nel frattempo i veri riformatori dell’Arabia Saudita sono dietro le sbarre”, avverte Lynn Maalouf di Amnesty. Per chi difende i diritti umani è evidente il tentativo della monarchia saudita di rimodellare la sua immagine attraverso costose campagne di pubbliche relazioni, che spesso raggiungono gli obiettivi. Non poche volte Mbs è stato presentato come un modernizzatore dai media internazionali. Eppure il principe ereditario ha ordinato brutali retate di rivali e oppositori ed è ritenuto da più parti il mandante dell’assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, avvenuto due anni fa nel consolato saudita di Istanbul. Dalla sua parte ha avuto gli Stati uniti. Nei passati quattro anni Donald Trump non ha esitato a schierarsi contro parlamentari repubblicani e democratici pur di assicurare l’impunità a Mbs per l’omicidio di Khashoggi e per i crimini commessi dall’Arabia saudita nella guerra ai ribelli sciiti Houthi in Yemen. L’ong Oxfam a questo proposito ricorda che dall’inizio del conflitto in Yemen, nel marzo 2015, i paesi del G20 hanno esportato armamenti per 17 miliardi di dollari verso l’Arabia Saudita, alla guida della coalizione responsabile di raid aerei nel paese. Solo l’Italia dal 2015 al 2019 ha autorizzato l’export di armamenti per un valore di circa 845 milioni di euro verso Riyadh che si aggiungono agli oltre 704 verso gli Emirati Arabi. Ciò mentre le incursioni aeree colpiscono anche ospedali, aggravando il bilancio di una guerra che ha già causato oltre 100 mila vittime tra cui più di 12 mila civili. Oggi al G20 mancheranno i servizi fotografici dei leader che si stringono la mano sui tappeti rossi. Saranno sostituiti da grandi schermi televisivi dove appariranno e parleranno i più importanti capi di governo. Non è ciò che desideravano re Salman e suo figlio Mohammad. Tuttavia, tenendo conto della presenza in Medio oriente del segretario di Stato Mike Pompeo, alleato e amico dei regnanti Saud, resta concreto il rischio che il vertice si riveli comunque una vetrina per la monarchia saudita preparandola nel migliore dei modi al dopo-Donald Trump. A Joe Biden, che in campagna elettorale ha promesso una revisione delle relazioni con Riyadh (a cui pochi però credono), si è rivolta qualche giorno fa l’ambasciatrice saudita a Washington, Reema Bandar Al Saud, ricordandogli che l’Arabia saudita è il più grande alleato arabo dell’America. E ha sostenuto che il suo paese è “una società inclusiva” impegnata nell’uguaglianza di genere. “Alcuni critici - ha affermato - si aggrappano a visioni antiquate e obsolete, dobbiamo fare un lavoro migliore e correggere la visione distorta del regno”. Proprio a questo servirà il G20. Pena di morte, in Iraq 21 esecuzioni in un giorno, altre 21 nello Yemen in piena guerra civile di Nessuno tocchi Caino La Repubblica, 22 novembre 2020 Il report di Nessuno Tocchi Caino. La moratoria per l’abolizione della pena capitale votata all’Onu da 120 Paesi, 39 contrari e 24 astenuti. Nell’Indiana (Usa) un ispanico al patibolo. “Lunedì scorso, il 16 novembre, le autorità irachene hanno impiccato 21 uomini. Un numero sconcertante”, riferisce Elisabetta Zamparutti, sul Riformista in un suo articolo ripreso poi nella newsletter di Nessuno Tocchi Caino, di cui è tra le fondatrici, oltre che essere stata deputata Radicale eletta nelle liste del PD nella XVI Legislatura. “Erano accusati di terrorismo. Il Ministro degli Interni, nel darne notizia, non ha fornito dettagli né sull’identità dei giustiziati, né sui reati compiuti, limitandosi a dire che tra loro c’erano i responsabili di due attacchi suicida che causarono dozzine di morti nella città settentrionale di Tal Afar. Le impiccagioni - prosegue la Zamparutti - sono avvenute nel carcere di Nasiriyah, nel Sud del Paese, l’unico in cui si compiono le esecuzioni. Gli iracheni lo hanno soprannominato la ‘balena’, perché questo vasto complesso carcerario, dicono, inghiotte le persone”. La centrale degli abusi. Lo scritto dell’esponente Radicale prosegue: “L’Iraq ha dichiarato vittoria sullo Stato Islamico nel 2017, mettendo un numero impressionante di sospetti jihadisti sotto processo e compiendo esecuzioni di massa. L’Iraq aveva dichiarato vittoria anche su Saddam Hussein nel 2006, mandandolo al patibolo ad Abu Grahib, il carcere di Baghdad che dopo essere stato la centrale delle torture del regime sadamita è divenuto poi la centrale degli abusi compiuti durante l’occupazione americana. Oggi Abu Grahib è chiuso. Ma la logica ‘male scaccia male’ imperversa ancora”, commenta la Zamparutti. E aggiunge: “La pena di morte può essere imposta per circa 48 reati, inclusi reati non di sangue come il danneggiamento di proprietà pubbliche. Ma la raffica di condanne capitali ed esecuzioni a cui abbiamo assistito nell’Iraq ‘liberato’ è stata determinata per lo più dal reato di terrorismo introdotto nel 2005 con una definizione tanto ampia e generica da spiegare i numeri elevati, seppur sottostimati, che ci troviamo di fronte”. Moratoria sulla pena di morte, Onu: 120 stati a favore. Una schiacciante maggioranza di stati membri delle Nazioni Unite il 17 novembre scorso ha approvato la proposta di risoluzione, sottoposta al Terzo Comitato dell’Assemblea generale, per una moratoria sull’uso della pena di morte. Il testo è stato presentato da Messico e Svizzera a nome di una Task force interregionale di stati membri e co-sponsorizzato da 77 stati. Hanno votato a favore del testo 120 stati, 39 hanno espresso voto contrario e 24 si sono astenuti. Per la prima volta Gibuti, Libano e Corea del Sud hanno detto sì alla proposta di risoluzione. Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Eswatini, Guinea, Nauru, Filippine e Sierra Leone sono tornati a votare a favore, cosa che non avevano fatto nel 2018, così come lo Zimbabwe è tornato ad astenersi dopo che nel 2018 aveva votato contro. Nove stati hanno fatto marcia indietro: Dominica, Libia e Pakistan hanno mutato il voto favorevole in contrario, Niger e Isole Salomone sono passati dal sì all’astensione, Antigua e Barbuda, Sud Sudan, Isole Tonga e Uganda dall’astensione al voto contrario. Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Gabon, Palau, Somalia e Vanuatu, che nel 2018 avevano votato a favore, non hanno preso parte alla votazione. Usa: Stato dell’Indiana, giustiziato un ispanico. Con circa 6 ore di ritardo, rispetto all’orario previsto, Orlando Hall, 49 anni, ispanico, è stato giustiziato con un’iniezione letale nella prigione federale di Terre Haute, nell’Indiana. Tre le sostanze chimiche iniettate nelle vene del detenuto: il thiopental di sodio, che rende incoscienti, il bromuro di pancuronio, che provoca la paralisi muscolare e inibisce la respirazione e il cloruro di potassio, che ferma il cuore. Hall è stato dichiarato morto alle 23.47 del 19 novembre, ovvero alle 4,47 del mattino del 20 novembre in Italia. Era accusato, ed aveva ammesso, di aver violentato e ucciso, seppellendola viva, nel 1994, assieme a quattro complici, Lisa Rene, 16 anni. La ragazza era la sorella di uno spacciatore che doveva a Hall e ai suoi amici 4.700 dollari per un acquisto di marijuana. Hall era stato condannato a morte nell’ottobre 1995. Inizialmente una giudice federale di Washington (Tanya Chutkan) aveva disposto una sospensione dell’esecuzione sulla questione che l’amministrazione penitenziaria ottenga i potenti farmaci letali senza presentare una regolare “ricetta medica”. L’accusa: “Pene applicate in base alla razza”. Dopo l’immediato ricorso della procura federale, nel giro di alcune ore la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato la sospensione, che nelle intenzioni del giudice federale si sarebbe applicata anche alle altre due esecuzioni federali previste con Trump ancora in carica, quelle di Lisa Montgomery l’8 dicembre, e di Brandon Bernard il 10 dicembre. I suoi avvocati hanno insistito fino all’ultimo sul fatto che sin dall’inizio, Hall avesse ammesso le sue responsabilità, e che durante il processo avesse cercato di scusarsi con la famiglia della vittima, ma il tribunale non glielo aveva permesso. Secondo un’analisi statistica citata dai difensori di Hall, la pena di morte federale in Texas tra il 1988 e il 2010 è stata “applicata in modo sproporzionato in base alla razza”. Le statistiche sulle esecuzioni in Usa. Delle 56 persone nel braccio della morte federale, 26 di loro, o il 46%, sono nere, e 22, o il 39%, sono bianche. I neri costituiscono solo il 13% della popolazione statunitense. Hall diventa l’ottava persona giustiziata nel 2020 dal sistema federale, l’undicesima giustiziata dal governo federale da quando ha ripreso le esecuzioni nel 2001, la quindicesima persona giustiziata quest’anno negli Stati Uniti e la n° 1.527 da quando gli Stati Uniti hanno reintrodotto la pena di morte nel 1976 e ripreso le esecuzioni nel 1977. Yemen: 21 condannati a morte dagli Houti per spionaggio. Un tribunale controllato da Houthi dello Yemen, il gruppo armato sciita zaydita, antagonista della coalizione a guida Saudita e protagonista del conflitto che sta lacerando il Paese dal 2015, il 14 novembre scorso ha condannato a morte 21 uomini per presunto spionaggio in favore della coalizione saudita che sostiene il governo yemenita. Lo ha riferito la TV al-Masirah, gestita dagli Houthi, senza identificare i condannati, che sono tutti cittadini yemeniti. La sentenza del tribunale di Sana’a, la capitale controllata dagli Houthi, è l’ultima in una serie di processi a porte chiuse svolti da tribunali Houthi contro oppositori politici. Lo Yemen è dilaniato da questa guerra civile cominciata quando il gruppo degli Houthi, sostenuto dall’Iran, ha assunto il controllo di diverse province settentrionali e ha costretto il governo del presidente Abd-Rabbuh Mansour Hadi, sostenuto dai sauditi, a lasciare Sana’a. La guerra ha ucciso nel Paese decine di migliaia di persone, causato quasi 4 milioni di sfollati e spinto oltre 20 milioni di persone sull’orlo della carestia. Libano. Decine di detenuti evasi a Beirut, 5 morti durante la fuga agi.it, 22 novembre 2020 Lo riportano i media locali. Gli imputati sono scappati, all’alba, dopo aver demolito le porte delle loro celle e attaccato gli agenti delle forze di sicurezza sul posto. Decine di detenuti sono evasi dalle celle del Palazzo di Giustizia di Baabda, nella capitale libanese Beirut. Lo riportano i media locali. Gli imputati sono fuggiti, all’alba, dopo aver demolito le porte delle loro celle e attaccato gli agenti delle forze di sicurezza sul posto. Cinque di loro sono morti in un incidente stradale dopo che il mezzo su cui erano fuggiti è finito contro un albero. Secondo un primo bilancio, gli evasi sono una settantina. Le forze di sicurezza hanno isolato l’area che circonda il Palazzo di Giustizia, 15 detenuti sono stati arrestati e quattro si sono consegnati. Ma al momento rimangono 44 carcerati evasi e ancora in libertà. I detenuti sono fuggiti dalla struttura abbattendo le porte delle loro celle: erano più numerosi delle guardie e sono stati in grado di rinchiudere i secondini in una stanza prima di fuggire. Il procuratore Ghada Aoun ha ordinato un’indagine immediata sull’evasione. Non ha escluso la possibilità di “collusione tra i detenuti e le guardie di sicurezza responsabili di sorvegliare le loro celle”. Il giudice Fadi Akiki, un rappresentante del governo al tribunale militare, ha tenuto una riunione con i funzionari della sicurezza dopo aver ispezionato il carcere e il luogo dell’incidente automobilistico. La popolazione locale è stata avvertita di rimanere in allerta. La clamorosa evasione fa da corollario alla richiesta avanzata dai detenuti al Parlamento perché’ approvi un’amnistia generale che vedrebbe migliaia di loro, che affollano le celle e sono a rischio Covid, tornare in libertà. Messo in ginocchio da una profonda crisi politica ed economica, il Libano ha finora registrato 113 mila contagi da Covid e 884 morti. Il Paese attualmente è in lockdown fino alla fine del mese nel tentativo di fermare i contagi.