Zona rossa anche le carceri. Senza spazi e senza ascolto di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 21 novembre 2020 Calano le presenze in cella, ma aumentano i positivi al Covid, i suicidi, i migranti nei Cpr e le preoccupazioni del Garante dei detenuti. Giuseppe I. è morto martedì nel penitenziario di Poggioreale. Aveva 68 anni, si era ammalato di Covid-19 e il virus se lo è portato via. Giuseppe era fra i contagiati di coronavirus di cui non parla nessuno, quelli chiusi fra le mura di un carcere, di cui solo i familiari e l’avvocato conoscono la sorte. Prima di lui, a inizio novembre, un altro detenuto 71enne, di cui non sono note le generalità, era morto di Covid ad Alessandria. E il 28 ottobre era toccato ad Antonino G., 82enne recluso a Livorno. La dolorosa contabilità dei decessi in carcere dall’inizio dell’anno (133, fra cui 51 suicidi, 13 nelle rivolte di marzo, 7 per Covid e uno, Carmelo C. dopo 60 giorni di sciopero della fame) è contenuta in un dossier scaricabile dal sito dell’associazione Ristretti Orizzonti, aggiornato a giovedì 19 novembre e consultato ieri da Avvenire. Dati che si integrano con quelli diffusi ieri dal Garante per i detenuti e le persone private della libertà nel periodico punto della situazione inviato alla stampa, che a fronte di un calo delle presenze nelle carceri (53.758, 400 in meno della scorsa settimana) segnala un aumento “dei casi di positività tra le persone detenute (28%, ossia 172 in più) e tra il personale (19%, 156 in più). In tutto, annota il Garante, sono finora 732 i detenuti positivi in 77 istituti (su un totale di 192). Fra loro, 46 sono sintomatiche (di cui 22 ospedalizzate). Ciò che gli istituti lamentano, si legge nella nota, “è la mancanza di spazi per isolare le persone che entrano in carcere dalla libertà e presentano positività al virus: isolamento essenziale perché la loro situazione di contagio va considerata ben distinta da quella che può svilupparsi tra persone all’interno della sezione, perché è quest’ultima a rappresentare un vero e proprio focolaio”. Il collegio del Garante (composto dal presidente Mauro Palma, Daniela de Robert ed Emilia Rossi), ricorda come “un minore ricorso alla custodia cautelare in carcere” sia uno “strumento particolarmente significativo per la riduzione dei numeri complessivi”. Misure alternative e minori - Le misure alternative (o di comunità) per gli adulti riguardano 28.407 persone (fra cui 2.551 donne), divise tra affidamento in prova al servizio sociale (16.390), detenzione domiciliare (11.251) e semilibertà (766). Negli istituti per minorenni le presenze sono 303 (di cui 10 ragazze). Ma si segnalano “due situazioni di sovraffollamento, seppure lieve, a Bologna e a Milano”. I minorenni e i giovani adulti attualmente messi alla prova sono 2.067 (di cui 1.552 in casa), mentre complessivamente quelli in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni (inclusi anche i messi alla prova) sono 8.561. Cpr e navi quarantena - Sul fronte immigrazione, c’è un aumento delle presenze nei Cpr, i centri di permanenza per i rimpatri: le persone trattenute sono salite da 348 a 455, su 608 posti disponibili, in una settimana. In calo, invece, le presenze negli hotspot (scese da 973 a 894, di cui 763 a Lampedusa. Rispetto alle 5 navi quarantena attualmente alla fonda in Sicilia, dopo un primo invio di dati imprecisi, ieri il Viminale ha fornito al Garante una correzione: a bordo delle navi ci sono 2.448 persone, con “197 positivi al contagio”. Critiche al Guardasigilli - In Parlamento, il capogruppo leghista alla Camera Riccardo Molinari e il deputato Jacopo Morrone annunciano un’interrogazione parlamentare al Guardasigilli, perché “non può continuare a ignorare la situazione drammatica dei penitenziari di Piemonte e Valle d’Aosta, di fatto abbandonati, con carenze di organico importanti e in molti casi senza direttore e comandante, come succede ad Aosta Brissogne, Cuneo, Ivrea, Novara e al carcere minorile F. Aporti di Torino”. Mentre il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello lamenta: “Mi dispiace che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede minimizzi ciò che sta accadendo nelle carceri, utilizzando parametri e percentuali che secondo lui non segnalano lo stato di allarme pandemico: per me, servirebbe una tonalità di colore più violenta del rosso per le carceri”. Ciambriello segnala nella sua regione 223 contagiati tra Polizia penitenziaria, personale sanitario e amministrativo e 188 reclusi positivi (più 2 ricoverati al Cardarelli e al Cotugno). Fra loro, 105 sono a Poggioreale, dove martedì è spirato il povero Giuseppe. Aumentano i detenuti positivi al Covid, più 28% in una settimana di Franco Giubilei La Stampa, 21 novembre 2020 Le famiglie “lamentano la possibilità di avere informazioni circa le condizioni dei propri congiunti”. Il contagio da Covid continua a crescere silenziosamente fra le mura delle carceri italiane: il bollettino del Garante nazionale dei diritti dei detenuti segnala un aumento del 28% dei positivi fra i reclusi rispetto a una settimana fa, 172 in più, incremento che porta il numero complessivo a quota 732 (46 i sintomatici, 22 i ricoverati in ospedale). Anche il personale degli istituti, fra agenti ed educatori, paga il suo tributo al Coronavirus, con 156 positivi in più e una variazione del 19%. Il Garante sottolinea come si tratti di dati parziali, visto che riguardano 77 carceri su un totale di 192. Sono comunque numeri che evidenziano una situazione di sofferenza soprattutto per le difficoltà strutturali di gestire la pandemia all’interno delle prigioni, come sottolinea il Garante riportando gli allarmi provenienti dal mondo carcerario: “Quello che tutti gli istituti lamentano è la mancanza di spazi per isolare le persone che entrano in carcere dalla libertà e presentano positività al virus: isolamento essenziale perché la loro situazione di contagio va considerata ben distinta da quella che può svilupparsi tra persone all’interno della sezione, perché è quest’ultima a rappresentare un vero e proprio focolaio”. L’autorità di garanzia dei diritti dei detenuti coglie dunque l’occasione per ricordare quanto sostenuto dal procuratore generale della Cassazione “circa la previsione della custodia cautelare in carcere come possibilità estrema del nostro sistema ordinamentale: una affermazione del nostro codice non sempre effettiva nell’esperienza della penalità praticata e che, in particolare nella situazione attuale, deve essere fatta pienamente vivere. Un minore ricorso alla custodia cautelare in carcere è strumento particolarmente significativo per la riduzione dei numeri complessivi”. In altre parole, per il Garante è urgente ricorrere alle misure alternative alla detenzione, per i detenuti sottoposti a pene per reati minori, al fine di allentare la pressione su istituti affollati dov’è difficilissimo affrontare la pandemia in maniera adeguata. Oggi le persone in carcere sono in tutto 53.758, 400 in meno rispetto a una settimana fa, cioè meno dell’1% del numero complessivo, un calo che si spiega con le misure dell’ultimo decreto governativo. Misure però ancora insufficienti a “diminuire la densità di presenze ed essere pronti a ogni evenienza di maggiore diffusione del contagio, anche in termini di spazio”. Intanto, le famiglie dei detenuti “lamentano la possibilità di avere informazioni circa le condizioni dei propri congiunti quando questi siano stati trovati positivi e soprattutto quando si siano sviluppati sintomi. La difficoltà della gestione del momento induce a comprendere quanto possa non essere semplice rispondere a questa esigenza; tuttavia, vanno trovate soluzioni praticabili, fermo restando il dovere di informare la famiglia nel caso la persona sia trasferita in una struttura ospedaliera”. Covid in carcere, gli asintomatici “usati” per nascondere l’emergenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 novembre 2020 Per il Dap sono 24 i detenuti con sintomi e 22 gli ospedalizzati, gli altri 781 sono asintomatici e a loro si aggiungono i 1019 agenti. Per il governo non c’è nessuna emergenza Covid in carcere, perché secondo l’ultimo report aggiornato del Dap risultano solo 24 detenuti con sintomi all’interno dei penitenziari e 22 ospedalizzati. Il resto dei detenuti positivi al Covid, ben 781, sarebbero tutti asintomatici. A parte che il parametro di valutazione per considerare il detenuto asintomatico lascia perplessi e più avanti la questione verrà illustrata attraverso testimonianze dirette, se dovessimo adottare lo stesso metodo statistico anche nel mondo libero, il nostro Paese dovrebbe aprire tutto perché l’emergenza non esisterebbe. Sì, perché soprattutto durante la prima ondata in Italia c’era stato chi minimizzava la portata spiegando che chi ha il virus, ma non mostra sintomi, non è malato, così che l’aumento del numero dei soggetti infettati non avrebbe dovuto preoccupare nessuno, perché si sarebbe tratto non di malati, ma quasi di “portatori sani” del virus. Sappiamo che purtroppo non è così. I numeri sono cominciati a crescere, gli ospedali al collasso e lockdown totale per evitare l’irreparabile. Ora siamo nella stessa identica situazione emergenziale. L’assenza di sintomi non implica necessariamente l’assenza di danni - Come si evince da un interessante articolo de Il Foglio del 3 ottobre, a firma di Enrico Bucci, già a giugno Eric Topol, il fondatore e direttore dello Scripps Research Translational Institute in California, scriveva che “l’assenza dei sintomi di Covid-19 nelle persone infettate da Sars-CoV-2 non implica necessariamente l’assenza di danni. C’è bisogno di indagare maggiormente il significato dei cambiamenti subclinici visibili nei polmoni mediante Tac”. A cosa si riferiva Topol? Per esempio, allo studio condotto sulla nave da crociera Diamond Princess: su 76 soggetti in cui il virus non ha dato nessun sintomo apparente, il 54 per cento presentava comunque lesioni polmonari. O anche a uno studio sui bambini (11 mesi - 14 anni) condotto in Cina, in cui una porzione non trascurabile di soggetti dal decorso completamente asintomatico manifestava parimenti le classiche opacità polmonari e quindi le classiche lesioni legate all’infezione nei polmoni. Fra le tante possibili ricadute dannose, per fare un esempio concreto, vi è la possibilità di un accresciuto rischio di eventi infausti per quei soggetti con danno polmonare subclinico da Covid. Non solo. Quasi tutti i detenuti di Tolmezzo sono contagiati - Oltre ad aver chiarito che anche un asintomatico è in realtà un malato, c’è anche l’ovvia considerazione che se il virus aumenta la sua circolazione, inevitabilmente aumentano anche i casi di ricovero in ospedale e in terapia intensiva. E nelle carceri si aggiunge un problema in più: mancano gli spazi per isolare tutti i detenuti positivi al Covid per via del sovraffollamento. E infatti al carcere di Tolmezzo, a causa del mancato isolamento di alcuni detenuti che hanno manifestato evidenti sintomi da Covid, la situazione è sfuggita di mano tanto da arrivare - secondo gli ultimi dati ufficiali del Dap - all’impressionante numero di 115 detenuti infetti. Ma addirittura, secondo fonti interne parrebbe che il contagio riguardi addirittura ben 165 reclusi. Quasi la totalità. Parliamo del focolaio più grande, perché il carcere ospita 206 reclusi su una capienza regolamentare di 149 posti. Ma per il governo è tutto sotto controllo. L’emergenza non c’è, d’altronde ci dicono che sempre al carcere di Tolmezzo, a parte un detenuto ospedalizzato, tutti gli altri sarebbero asintomatici. Ma il condizionale è d’obbligo, perché pare che nemmeno sia esattamente così. L’avvocata Sara Peresson che ha come assistiti alcuni detenuti di Tolmezzo positivi al Covid, è perplessa. A Il Dubbio dice chiaro e tondo: “Se i miei assistiti sono tutti asintomatici, allora dobbiamo prima accordarci sull’esatto significato del termine perché credo che tosse, sensazione di ossa rotte, febbre, mal di testa, naso che cola, siano proprio la manifestazione di sintomi veri e propri del Covid. Sono due le questioni: o il Dap usa un vocabolario tutto suo che non è quello in uso a tutti noi o siamo al solito tentativo maldestro di minimizzare una situazione sfuggita di mano”. Le perplessità degli avvocati difensori sulla salute dei loro assistiti - Forse, anche in questo caso, i dati non sono chiari. Visto che il ministero della Giustizia - a differenza dei bollettini quotidiani sul numero dei contagi e decessi riguardanti il mondo libero - ha deciso di suddividere i detenuti tra asintomatici e non, a questo punto l’analisi andrebbe fatta in modo più accurato. Come appunto fa l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) che compie tale suddivisione: gli asintomatici, i paucisintomatici (con sintomatologia scarsa o poco percettibile), i lievi e i severi/critici. Così forse potremmo avere la risposta sulla perplessità espressa da diversi avvocati che hanno assistiti considerati asintomatici, mentre però manifestano chiaramente dei sintomi. Nel frattempo la seconda ondata ha già provocato la morte di tre detenuti, la gestione sta sfuggendo di mano, un numero consistente di agenti penitenziari sono contagiati (ben 1019), mancano i posti per isolare i reclusi infetti e soprattutto quelli anziani e malati sono a rischio. Però, molto probabilmente, le carceri non sono considerate zone arancioni né rosse. Rimangono semplicemente dei buchi neri. Discriminazione delle donne, anche dentro le carceri “tolti diritti e dignità” di Viviana Lanza Il Riformista, 21 novembre 2020 In Campania sono 321. A Napoli, nella struttura di Pozzuoli, sono 124. Sono le donne in carcere, un universo a parte sotto molti punti di vista. Sono molto meno numerose degli uomini (circa il 4,2% della popolazione carceraria) e per questo i loro problemi sembrano meno urgenti, meno drammatici, e rischiano di ricevere meno attenzione. L’universo femminile della popolazione penitenziaria è segnato da grave marginalità sociale. Basti considerare i reati per cui sono in cella: droga, reati contro la persona, reati contro il patrimonio. La marginalità sociale, poi, si abbina spesso alla solitudine, perché le donne in carcere sono, nella maggior parte dei casi, anche le più sole. Non possono condividere spazi e attività con la componente maschile della popolazione carceraria e si ritrovano a vivere in celle e in strutture declinate perlopiù al maschile. Anche sul piano delle attività formative, quelle dedicate alle donne detenute sono nettamente inferiori a quelle previste per la popolazione penitenziaria maschile. Nel 2019, negli istituti e nelle sezioni femminili delle carceri della Campania, sono stati attivati corsi di formazione in estetica (il corso tenutosi nel carcere femminile di Pozzuoli ha visto la partecipazione di 11 detenute) e in sartoria (previsti nelle carceri di Benevento e Avellino per un totale di 23 partecipanti). Stando a questi numeri, è chiaro che l’offerta formativa dedicata alla componente femminile del popolo delle carceri è decisamente limitata non solo per quantità ma anche per tipologia. Va meglio con il lavoro in carcere, se si considera che in Campania, a inizio anno, si contavano 167 detenute alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e nove impegnate in lavori non alle dipendenze del carcere. A Napoli la prigione per le donne è il carcere di Pozzuoli. Ha sede in un edificio che risale al Quattrocento, in un ex convento fondato dai frati minori, trasformato nel secolo scorso in un manicomio criminale femminile e, negli anni Ottanta, in carcere vero e proprio. Per numero di detenute ospitate, è il secondo istituto di pena per donne d’Italia. In Campania il resto delle detenute è diviso fra le sezioni femminili degli istituti di Santa Maria Capua Vetere, Avellino, Benevento e Salerno e l’istituto a custodia attenuata di Lauro dove vivono le detenute madri con figli al seguito. È un universo a parte, quello femminile. “Siamo nella disperazione più totale”, scrivono dal carcere. A Santa Maria Capua Vetere c’è il reparto per le detenute in alta sicurezza. In una lettera lamentano la condizione di solitudine e paura vissuta soprattutto in questo momento, a causa della pandemia. “Non chiediamo di essere liberate perché è giusto che paghiamo per i nostri errori ma perché pagare significa non avere diritti e dignità?”, chiedono auspicando un intervento della politica a tutela della salute anche all’interno delle carceri. Il Covid è la nuova emergenza dietro le sbarre. E mentre da Poggioreale, dopo settimane di contagi in aumento, arriva la prima notizia di detenuti guariti dal Covid, in tutte le carceri della Campania il numero dei positivi resta alto. I garanti, assieme ai penalisti, sono in prima linea per chiedere interventi mirati, per alleggerire il peso del sovraffollamento, modificare le misure indicate nel decreto Ristori per allargare la platea dei beneficiari e valutare la possibilità di un indulto. Intanto ieri il garante regionale Samuele Ciambriello, assieme al garante provinciale Emanuela Belcuore, ha incontrato il prefetto di Caserta Raffaele Ruberto. Si è parlato di carcere e Covid, di proposte da sottoporre al Governo, ma anche dei cronici problemi strutturali delle carceri casertane. I garanti hanno posto al prefetto una serie di interrogativi, evidenziando in particolare datate e irrisolte criticità. Possibile che nel 2020 ci sia acqua non potabile in carcere? Possibile che vi siano problemi irrisolti alla rete idrica e alla linea telefonica nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere? Possibile che nella casa lavoro di Aversa i reclusi non lavorano? Possibile che vi siano problemi organizzativi e sanitari legati all’emergenza pandemica nelle carceri di Arienzo e Carinola? Il Senato sta davvero “perdendo tempo” con il Ddl sul diritto all’affettività dei detenuti? pagellapolitica.it, 21 novembre 2020 Il 17 novembre il senatore leghista Andrea Ostellari ha scritto su Facebook che la Commissione Giustizia del Senato, di cui fa parte, “sta perdendo tempo perché il Pd vuole “gli appartamenti dell’amore” nelle carceri”. Il senatore ha allegato al post un’immagine con il frontespizio del disegno di legge “Norme a tutela delle relazioni affettive dei detenuti” e la foto della senatrice del Partito democratico Monica Cirinnà, relatrice del provvedimento. Non è facile affrontare il tema da un punto di vista oggettivo: chi può stabilire se il tempo dedicato a un tema è “sprecato”? Però abbiamo verificato quanto spazio questo tema ha occupato nel dibattito parlamentare: per ora, la Commissione Giustizia ha tenuto una sola seduta sull’argomento, proprio il 17 novembre. Il senatore riporta correttamente, per quanto in maniera “più colorita”, una delle proposte contenute nel disegno di legge. Vediamo con ordine che cosa prevede il testo e in che modo se ne è occupata, e se ne occuperà, la Commissione Giustizia del Senato. Il percorso della legge - Il disegno di legge n. 1876, intitolato “Norme a tutela delle relazioni affettive dei detenuti”, è nato da un’iniziativa legislativa del Consiglio regionale della Toscana. È stato depositato in Senato il 10 luglio 2020 ed è stato assegnato in sede redigente alla Commissione Giustizia, dove la relatrice è la senatrice del Pd Monica Cirinnà. Che cosa significa “in sede redigente”? L’espressione definisce i casi in cui la commissione non si limita - come avviene “in sede referente” - a esaminare il testo articolo per articolo, modificandolo con gli emendamenti, ma lo vota come normalmente avverrebbe in Assemblea. Questa è poi chiamata ad approvare o respingere gli articoli votati dalla commissione. Come risulta dal sito del Senato, la trattazione in commissione del disegno di legge sulle relazioni affettive si è limitata a una sola seduta, il 17 novembre, lo stesso giorno in cui Ostellari ha scritto il post. In quella seduta, la commissione ha solo deciso di “rimettere il testo all’assemblea”. Traducendo il linguaggio tecnico del Parlamento, significa che la commissione svolgerà il proprio esame sul provvedimento con la procedura ordinaria, in sede referente: il testo verrà discusso in commissione, eventualmente modificato, ma alla fine sarà l’aula a votarlo. L’incontro della Commissione Giustizia in cui è stata presa questa decisione è iniziato alle 15:40 ed è finito alle 17:20. Per cui, al momento, il Parlamento ha dedicato al tema una minima parte di una seduta di meno di due ore. In più, l’esame del disegno di legge rimarrà in sospeso e, per ora, non prenderà altro tempo. Dalla commissione Giustizia hanno infatti fatto sapere a Pagella Politica che le commissioni del Senato dovranno esaminare solo “i testi legati all’emergenza Covid e i provvedimenti del governo”. Una richiesta in tal senso sarebbe arrivata ufficialmente alle commissioni il 19 novembre tramite una lettera della presidente del Senato Elisabetta Casellati (Forza Italia). Che cosa prevede il disegno di legge - Il testo contiene quattro articoli e ha lo scopo, principalmente, di dare ai detenuti la possibilità di mantenere vivi i propri legami familiari e avere anche rapporti sessuali durante il periodo in carcere. All’articolo 1 (comma 1) si introduce infatti il concetto di “diritto all’affettività”, prevedendo una nuova regola. Per “coltivare i rapporti affettivi” i detenuti avrebbero diritto, una volta al mese, a una visita di persone autorizzate “della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore”. Queste visite dovrebbero svolgersi “in apposite unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi”. Ostellari si riferisce a quest’ultimo passaggio quando parla di “appartamenti dell’amore” (puntando a ridicolizzare il contenuto del disegno di legge). La definizione è soggettiva, ma il disegno di legge prevede effettivamente che si dispongano delle “unità abitative” per lasciare ai detenuti la privacy necessaria in occasione delle visite dei partner. Il provvedimento non si occupa solo di questo. L’articolo 2 modifica la legge sull’ordinamento penitenziario (legge n.354 del 26 luglio 1975), aggiungendo una tipologia di permesso speciale. Attualmente i permessi speciali vengono concessi (art. 30 della legge sull’ordinamento penitenziario) come permessi premio o come permessi di necessità, cioè “nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente” ed “eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità”. L’articolo 2 del disegno di legge cambierebbe la definizione di “eventi familiari di particolare gravità” in “eventi familiari di particolare rilevanza”. Questa modifica darebbe quindi ai detenuti la possibilità di ottenere permessi non solo legati a eventi negativi. Il dossier del Servizio Studi sul disegno di legge, citando la relazione illustrativa, spiega che la modifica intende “riconoscere che anche gli eventi non traumatici hanno una “particolare rilevanza” nella vita di una famiglia, quindi rappresentano un fondato motivo perché la persona detenuta vi sia partecipe. A ben vedere quindi il criterio della rilevanza - in luogo della gravità - dovrebbe consentire il rilascio dei permessi anche per eventi non traumatici”. L’articolo 4 del testo infine punta ad ammorbidire le regole sulle telefonate in carcere. Se il disegno di legge dovesse passare, i colloqui telefonici con i familiari e i conviventi potrebbero essere svolti quotidianamente, e non più una volta alla settimana, e la durata della conversazione passerebbe da dieci a 20 minuti. Va specificato che questi benefici valgono oggi (art. 4 della legge n.354 del 26 luglio 1975) e sarebbero quindi estesi solo per quei detenuti a cui non venga riconosciuta la “pericolosità sociale” (terroristi, mafiosi, condannati per crimini violenti, ecc.). Prima di concludere, ricordiamo comunque che il dibattito sul “diritto all’affettività” non è una novità nel nostro Paese. Da anni infatti si discute anche di questo tema nelle varie proposte di riforma delle carceri, citando gli esempi di altri Paesi - come Spagna, Francia e Germania - che hanno norme specifiche su questa materia. In conclusione - Secondo il senatore leghista Andrea Ostellari, la Commissione Giustizia del Senato, di cui fa parte, “sta perdendo tempo perché il Pd vuole “gli appartamenti dell’amore” nelle carceri”. Ostellari fa riferimento a un disegno di legge, di cui è relatrice in commissione la senatrice del Pd Monica Cirinnà. Il provvedimento punta a introdurre il “diritto all’affettività” dei detenuti. Per questo motivo, prevede che i detenuti abbiano diritto, una volta al mese, a una visita di persone autorizzate della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore. Queste visite dovrebbero svolgersi in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi. Ostellari si riferisce a quest’ultimo passaggio quando parla di “appartamenti dell’amore”. Su questo, il senatore riporta un’informazione sostanzialmente corretta, con una definizione soggettiva (e che punta a ridicolizzare il contenuto del disegno di legge). Non è possibile rispondere da un punto di vista oggettivo a quanto e quale sia il tempo “sprecato” per la discussione di un tema. Ci siamo quindi limitati a verificare quanto spazio questo argomento ha di fatto occupato nel dibattito parlamentare: ad oggi, il disegno di legge è stato al centro di una sola seduta della Commissione Giustizia, il 17 novembre, occupando solo una parte delle due ore di discussione. Parliamo di carcere di Ascanio Celestini comune-info.net, 21 novembre 2020 In Italia si parla di carcere quando arriva l’estate. Fingiamo di non sapere che i problemi che viviamo qui fuori lì dentro sono enormemente più grandi. Negli ultimi giorni la crescita dei contagi è stata impetuosa. Credo che dobbiamo cominciare a migliorare la società cominciando dagli ultimi. Qualcuno condividerà questo pensiero perché è credente. Qualcuno perché è di sinistra. Io penso che possiamo condividerlo anche per egoismo. Perché dobbiamo arginare il contagio dove è più facile che faccia danno. E soprattutto perché non vorrei un vicino di casa che esce da una galera che l’ha torturato. Nel nostro paese si parla di carcere quando arriva l’estate. Con il caldo c’è qualcuno che si ricorda del sovraffollamento nelle galere. Poi, ovviamente, la maggior parte dei cittadini se ne frega, ma intanto c’è qualche commentatore che ha fatto bella figura ricordando con un po’ di pietà i poveri detenuti. Adesso sta cominciando il freddo e nei prossimi mesi nessuno parlerà dei ristretti nelle nostre prigioni. Io ne parlo lo stesso perché i problemi che viviamo qui fuori… lì dentro sono enormemente più grandi. Qualcuno dirà: - se stanno in galera è perché se lo sono cercato - stanno in “albergo”, mangiano e dormono a spese nostre - è vero, stanno stretti. Facciamo nuove galere! - pensate alle vittime! - fateli lavorare gratis così servono a qualcosa - chissenefrega Sarebbe facile rispondere che molti stanno in carcere in attesa di giudizio e altri perché non hanno avuto i mezzi per difendersi. Moltissimi perché sono finiti in un circolo vizioso dal quale nessuno ha provato a salvarli. Eppure nell’articolo 27 della nostra Costituzione è scritto che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” e che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Io penso ancora che “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. E soprattutto credo che dobbiamo cominciare a migliorare la società cominciando dagli ultimi. Qualcuno condividerà questo pensiero perché è credente. Qualcuno perché è di sinistra e pensa che, come si diceva un tempo, bisogna spezzare le catene che ci imprigionano. Tutte le catene. Io penso che possiamo condividerlo anche per egoismo. Perché dobbiamo arginare il contagio dove è più facile che faccia danno. E soprattutto perché non vorrei un vicino di casa che esce da una galera che l’ha torturato. Preferirei che avesse ricevuto gli strumenti per migliorarsi. Anm: “Più processi da remoto” Il Cnf: “Il diritto alla difesa è sacro” di Simona Musco Il Dubbio, 21 novembre 2020 Il no dell’avvocatura all’opzione che subordina la scelta di fare udienza in presenza ad una richiesta “motivata”. L’Ucpi: “Così a decidere sarà solo il giudice”. Più processi da remoto, più ricorso al cartolare e un protocollo nazionale per proteggersi dal rischio epidemico. Sono le proposte avanzate dall’Anm al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che ha dato il suo ok all’istituzione di un tavolo permanente con le categorie interessate. La richiesta è quella di un intervento normativo finalizzato ad “ampliare al massimo gli strumenti per la trattazione dei processi in sicurezza, e tra essi i casi di udienza da remoto”. Un’idea che non trova d’accordo il Consiglio nazionale forense, contrario a qualsiasi compressione dello spazio decisionale delle difese: “Tocca agli avvocati scegliere quando è il caso di chiedere l’udienza in presenza”. Le richieste dell’Anm - Per il sindacato delle toghe, la possibilità di udienze da remoto prevista dal dl Ristori è “eccessivamente ristretta”. Al punto da chiederne l’estensione anche per le discussioni nei giudizi abbreviati e dibattimentali, lasciando al difensore la possibilità di avanzare richiesta “motivata” di trattazione in presenza, così come per l’appello. Ed è proprio questo il punto più delicato, quello che rischia di svilire, secondo il Cnf, il ruolo del difensore. Per l’Anm, l’udienza online andrebbe estesa anche per le preliminari e dibattimentali in cui non si debba svolgere attività istruttoria, mentre per le camerali l’auspicio è di consentire “la trattazione cartolare in mancanza di richiesta motivata delle parti di procedere da remoto ovvero in presenza”. La sospensione dei giudizi penali per le udienze istruttorie andrebbe estesa anche ai casi in cui il testimone debba spostarsi da e verso zone rosse, per limitare il più possibile gli spostamenti tra regioni, mentre ai dirigenti degli uffici giudiziari delle regioni più a rischio dovrebbe essere concessa la possibilità di stabilire criteri di priorità nella celebrazione degli affari penali in presenza, con la possibilità di differire nel tempo la trattazione dei processi considerati non prioritari. Per il settore civile, le toghe chiedono una precisazione normativa “sull’applicabilità delle disposizioni previste per il processo civile al rito del lavoro, caratterizzato da concentrazione, immediatezza e oralità, e ad altri riti speciali”, mentre per i giudizi di Cassazione “una generalizzata trattazione scritta”. E una revisione complessiva delle materie delegabili ai giudici onorari, “per verificare se sussistano le condizioni per estenderle a materie finora precluse”. Il Cnf dice no - L’avvocatura è chiara: la salute viene prima di tutto. Ma per tutelarla bastano le indicazioni del dl Ristori, “equilibrate”, secondo il Cnf, e comprensive dei criteri necessari per stabilire cosa svolgere da remoto, cosa in presenza e dove sia facoltà della difesa scegliere. Una soluzione che, conferma il Consiglio nazionale forense, deve essere in sinergia con una corretta organizzazione dei tribunali, sia in termini di calendarizzazione oraria delle udienze in presenza, sia in termini di distanziamento generale. Ma ciò che lascia perplessi, nel documento dell’Anm, è il riferimento - “per la prima volta” - a subordinare l’udienza in presenza ad una “richiesta motivata dell’avvocato”. Il no è secco: “si tratta di una valutazione che tocca al difensore fare, sulla base delle esigenze e dalle indicazioni del cliente. Se dipendesse dalla valutazione di un giudice allora va da sé che tutte le udienze sarebbero da remoto, perché gli avvocati non avrebbero alcun concreto potere decisionale sulla gestione del processo”. Non è chiaro, infatti, quale sarebbe il criterio di valutazione, così come nel caso della scelta delle udienze da svolgere in via prioritaria. Per quanto riguarda il civile, il Cnf condivide “l’esigenza di chiarezza” sui termini della limitazione temporale al 31 gennaio del dl Ristori per la trattazione scritta. Non ci sarebbero gli estremi, invece, per applicare le modalità cartolari al giudizio di Cassazione, anche sotto il profilo della mancata copertura normativa. In merito al monitoraggio dell’attività dei giudici onorari, invece, l’approccio sarebbe sbagliato: “È una valutazione importante, ma non in un contesto emergenziale, perché si corre il rischio che la stessa sia viziata e che l’obiettivo non sia realizzabile”. Le obiezioni dei penalisti - Per Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, il documento di Anm mira ad un’estensione del processo da remoto non necessaria, allo stato attuale. Mentre ciò che effettivamente va fatto è mettere in sicurezza i tribunali. “È un’idea burocratica del processo che si è impossessata dell’attuale dirigenza di Anm in modo desolante - sottolinea Caiazza. La discussione, così come l’attività istruttoria, è fisica per definizione, è la rappresentazione fisica delle ragioni del proprio assistito. E soprattutto è il luogo dove il difensore ha la percezione chiara dell’attenzione del giudice. Non so l’Anm a questo punto a nome di chi parli: abbiamo firmato un documento con dieci tra le più importanti procure d’Italia, per le quali la fisicità della trattazione del processo non doveva essere messa in discussione. Il provvedimento governativo è stato fortemente ispirato da quel documento. Anm dovrebbe porsi qualche domanda”. Anche per Caiazza è inaccettabile “l’idea che ci debba essere una motivazione a supporto della richiesta della trattazione orale da parte del difensore, che equivale a dire che è il giudice che decide se la richiesta è giustificata - afferma. Ma l’unico criterio per alterare le modalità fisiologiche di svolgimento di un processo è l’interesse dell’imputato”. Riforma della prescrizione retroattiva? Allarme dopo la sentenza della Consulta di Errico Novi Il Dubbio, 21 novembre 2020 Timori eccessivi? Chi può dirlo. Enrico Costa, che ha il merito di essere il solo vero guardasigilli ombra oggi in Parlamento, avanza un quesito tremendo per lo Stato di diritto: “La Corte costituzionale sdogana la retroattività delle norme in materia di prescrizione?”. Secondo il deputato di Azione, l’incubo potrà essere allontanato solo dopo aver letto “la motivazione” della pronuncia anticipata due giorni fa, quando in una nota la Consulta ha spiegato di aver rigettato le questioni di legittimità poste sulla norma che ha bloccato il decorso della prescrizione per i procedimenti penali sospesi del lockdown (dal 9 marzo all’ 11 maggio). Solo dopo aver studiato al microscopio il filo logico che ha portato la Corte a quella decisione si potrà, eventualmente, “scongiurare il rischio che qualche giudice utilizzi questa sentenza per applicare retroattivamente la riforma Bonafede, che sopprime la prescrizione dopo il primo grado”, nota Enrico Costa. Mercoledì scorso il collegio presieduto da Mario Morelli ha dichiarato infondate le questioni di legittimità, avanzate da tre diversi Tribunali, sull’articolo 83 quarto comma del decreto Cura Italia. Si tratta del primo vero provvedimento di chiusura del Paese, entrato in vigore nel marzo scorso, con cui s’introdussero limitazioni a tutto, processi compresi. Nel decreto (il 18 del 2020) c’era pure il rinvio della gran parte dei processi civili e penali, con contestuale stop al fluire dei termini, prescrizione inclusa. Fin qui nulla di sconvolgente anche per i Tribunali di Siena, Spoleto e Roma. I giudici dei tre uffici giudiziari hanno però deciso di sottoporre al giudice delle leggi un particolare profilo di quello stop al termine di estinzione dei reati: l’efficacia della sospensione rispetto agli illeciti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto. Hanno riscontrato, in quella possibile estensione, un tradimento del principio sancito all’articolo 25 della Costituzione, la irretroattività della legge penale sfavorevole alla persona accusata. Non si è trovata d’accordo la Consulta, che nel comunicato diffuso mercoledì ha spiegato appunto di aver ritenuto immotivato l’allarme sia rispetto all’articolo 25 che al diritto europeo. Insomma, per il giudice delle leggi un improvviso stop al corso della prescrizione decisa dal legislatore in virtù di una paralizzante pandemia può estendersi ai reati del passato. Ieri Costa, alfiere alla Camera di Azione dopo esserlo stato per tre lustri di FI, ha svelato un retroscena della riforma “universale” della prescrizione, inserita tre anni fa da Bonafede nella spazza-corrotti: “Avevo, a suo tempo, presentato un emendamento per precisare che la norma si applicasse solo ai fatti sopravvenuti, in linea con la riforma Orlando che contiene la norma transitoria: nel respingerlo il governò specificò che era inutile, vista la natura sostanziale della prescrizione. Ora”, dice Costa, “ribadire quella certezza giuridica sarebbe quanto mai opportuno”. Il blocca-prescrizione voluto dal M5S è entrato in vigore il 1° gennaio del 2020. Si è sempre ritenuto potesse applicarsi solo ai reati commessi a partire da quella data. Ne è sempre stato convinto lo stesso Alfonso Bonafede, che provò a rassicurare, almeno su questo, gli avvocati e i partiti ostili alla riforma con il seguente discorso: “Prima che la nuova prescrizione faccia sentire i propri effetti passeranno almeno quattro o cinque anni, visto che riguarderà solo i nuovi reati”. Al di là dei motivi tecnico- processuali che sembrano anticipare a ben prima del 2024 l’effetto della mannaia, nessuno aveva mai contestato il fatto che la norma Bonafede inserita nella spazza-corrotti si sarebbe davvero applicata ai soli reati successivi all’entrata in vigore. Ma ora la pronuncia della Corte costituzionale sul mini- blocco della prescrizione in tempo di covid rende non del tutto astratto il timore di Costa su una sorta di effetto valanga. Come dice il deputato di Azione, adesso si dovrà studiare al microscopio la logica seguita dalla Corte costituzionale. Intanto, un dato di cronaca: mercoledì sera il giudice Nicolò Zanon ha rinunciato al ruolo di relatore sulla prescrizione-covid, in dissenso dal resto del collegio. Non è un segreto: Palazzo della Consulta l’ha voluto rendere noto, con apprezzabile rispetto della diversità di giudizio, in una appendice al comunicato stampa relativo alla decisione. Lo si potrebbe considerare persino l’indizio di una preoccupazione che forse inquieta lo stesso Zanon (sulla quale il Dubbio ha provato, senza successo, a interpellare il giudice costituzionale): anche lui potrebbe aver notato i pericoli, indicati da Costa, della collisione con l’articolo 25. Anche Zanon potrebbe non escludere del tutto il rischio di una retroattività estesa, almeno da qualche singolo giudice ordinario, al blocca- prescrizione vero, quello voluto da Bonafede dopo tutte le sentenze di primo grado. Oltretutto, all’ipotesi che la riforma inserita tre anni fa nella spazza-corrotti possa essere modificata, dall’attuale Parlamento, in direzione garantista, non ci crede più manco Renzi. Nella commissione Giustizia della Camera, che esamina il ddl penale, si parla di tutto fuorché di rendere più tranchant il lodo Conte bis, come pure ha esortato a fare Giovanni Canzio nei giorni scorsi. Ora, la prescrizione- covid era inserita in un decreto riguardante un periodo breve, di otto settimane, e chissà se la stessa Consulta sarebbe mai potuta arrivare a giudicare retroattivo anche il blocca prescrizione universale del 2019. Ma ora chi può metterci la mano sul fuoco? Violenza sulle donne, con il lockdown salite le richieste d’aiuto. Ma i centri sono senza fondi di Elena Tebano Corriere della Sera, 21 novembre 2020 Tra marzo e giugno 2020 sono raddoppiate le chiamate al numero antiviolenza 1522. Ma le Regioni non hanno ancora erogato il 90% dei fondi del 2019 per le strutture che aiutano le vittime. E quelli del 2020 non sono ancora stati stanziati. Durante la prima settimana di lockdown, a marzo, il cellulare per le emergenze del Centro contro la violenza sulle donne Roberta Lanzino di Cosenza non ha mai squillato. “Era un silenzio assordante: abbiamo capito subito che la situazione era così difficile per le vittime che non riuscivano neppure a fare una telefonata” racconta Chiara Gravina, una delle avvocate del Lanzino. “Poi ha squillato e abbiamo avuto la dimensione della nostra impotenza”, aggiunge. A chiamare era una donna che era dovuta fuggire da casa perché rischiava la vita. “Era nella piazzola di un distributore di benzina e non sapeva dove andare. Le strutture di prima accoglienza, a causa del lockdown, non potevano far entrare nuove ospiti. Il nostro centro era chiuso alle persone esterne. Gli spostamenti tra comuni erano vietati. Dopo un pomeriggio al telefono con case rifugio e forze dell’ordine siamo riuscite ad accordarci con la prefettura ed è andata lì. Ma una volta arrivata abbiamo perso tutti i contatti” spiega. È un problema, perché il percorso per uscire dalla violenza è complesso e le donne hanno bisogno di un sostegno integrato - psicologico, legale, a volte medico, spesso di inserimento al lavoro - che solo l’assistenza continuativa dei centri riesce a dare. Non è un caso isolato. Secondo il rapporto 2020 di Action Aid sul sistema antiviolenza in Italia, le richieste di aiuto al numero antiviolenza 1522 tra marzo e giugno 2020 sono state 15.280, più del doppio che nello stesso periodo del 2019 (+119,6%). Le donne chiuse in casa erano ancora più esposte agli abusi degli uomini maltrattanti. Ma i cronici ritardi nei finanziamenti e la mancanza di un coordinamento tra le istituzioni sui territori hanno reso ancora più difficile il lavoro dei centri: molti, ha rilevato Action Aid, sono stati costretti a sospendere gli stipendi delle operatrici e a cercare fondi esterni per comprare mascherine e guanti (distribuiti solo in pochissimi casi dalle istituzioni locali). Non hanno avuto la possibilità di accedere ai tamponi necessari per far entrare le donne nei rifugi, si sono trovati senza spazi adeguati per le quarantene cautelative delle donne e dei bambini soccorsi e hanno dovuto pagare extra bed & breakfast e alloggi per le vittime che avevano bisogno di protezione immediata dagli uomini violenti. “Noi accogliamo molte donne in emergenza: di norma stanno da noi una settimana e poi vengono trasferite in strutture specifiche. Ma è diventato e tuttora è tutto molto più difficile, perché c’è la quarantena cautelativa e tutti i percorsi si sono allungati, compresi quelli giudiziari e l’assistenza dei servizi sociali per i figli. Anche il codice rosa, il triage nei pronto soccorso per le possibili vittime di violenza, che permette di ricoverarle in ospedale per 24 ore in attesa di trovare una struttura di accoglienza, è messo in difficoltà dalla crisi sanitaria” dice Cristina Rubagotti, operatrice del centro Cadom Monza. Il 21 marzo il Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri ha stabilito che le spese in più dovute all’epidemia sarebbero state a suo carico. E il ministero dell’Interno ha chiesto a tutti i prefetti di individuare ed eventualmente requisire delle strutture, una sorta di hotel Covid per la quarantena preventiva, che funzionassero da cuscino tra la presa in carico in emergenza delle vittime e l’ingresso nelle strutture di accoglienza. Ma i fondi straordinari non sono ancora arrivati ai centri. E anche le strutture intermedie prefettizie mancano ancora, praticamente ovunque. “Con la seconda ondata della pandemia e le nuove chiusure territoriali, i centri antiviolenza corrono il rischio di arrivare al limite delle proprie capacità di sopravvivenza - spiega Elisa Visconti, Responsabile dei Programmi di Action Aid. Servono un Fondo di emergenza straordinario e coordinamenti per le reti territoriali”. Anche perché sul sistema antiviolenza pesano i problemi strutturali di finanziamento che già ne mettono a rischio il funzionamento ordinario. “Nonostante le Regioni negli ultimi tre anni abbiano fatto qualche passo, i fondi ci mettono ancora dai 10 ai 12 mesi per arrivare” dice Isabella Orfano che ha curato il rapporto di Action Aid. Al 15 ottobre, data d chiusura del rapporto, le Regioni dovevano ancora erogare il 28% dei finanziamenti per il 2015-2016, il 33% di quelli del 2017, il 61% per il 2018. E il 90% dei soldi stanziati per il 2019. Ma i centri li hanno già spesi. Solo cinque regioni hanno iniziato a trasferire i fondi dell’anno scorso e solo parzialmente: Abruzzo, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Molise e Veneto. Il Dipartimento delle Pari opportunità, infine, non ha ancora firmato il decreto per stanziare i 28 milioni di euro previsti per il 2020. La giudice scrive al ragazzo separato dalla mamma: “Se sbagliamo, è in buona fede” di Silvia Ferreri La Repubblica, 21 novembre 2020 Il carteggio tra F., 16 anni, e la magistrata che ha firmato il decreto per consentire al padre, accusato di abusi sessuali sui figli, di incontrarli. “Perché devo vedere chi ci ha fatto del male? A volte penso che mia madre abbia fatto male a denunciare”. La risposta: “Decidiamo nella speranza di farvi stare meglio”. Scrive a nome di tutti F., il più grande dei quattro fratelli di Cuneo. Scrive al ministro della giustizia, Alfonso Bonafede pregandolo di rivolgere gli occhi verso la loro vicenda che è diventata un calvario. Il ragazzo sedicenne, insieme alla sorella di 14 anni, a luglio aveva fatto uno sciopero della fame, per chiedere di tornare a casa dalla madre insieme ai suoi fratelli, dopo che un decreto del tribunale dei minori di Piemonte e Val d’Aosta, il 10 luglio, li aveva traferiti coattamente in comunità, con un blitz dei carabinieri che, di mattina presto, mentre i ragazzi erano ancora nei loro letti, erano entrati dalla finestra per impedirgli la fuga. Destinazione, per i più grandi tre comunità differenti, per la piccola una famiglia affidataria. Una battaglia legale tra i genitori, dopo una separazione consensuale, che comincia nel 2018, quando tre dei quattro bambini raccontano abusi sessuali del padre. La madre denuncia e chiede l’affidamento esclusivo dei figli, ma il tribunale dei minori li colloca prima presso i nonni paterni, poi in comunità tutti divisi. Questo su richiesta del padre, perché i ragazzi smettano di influenzarsi a vicenda e ritrattino finalmente le accuse a lui rivolte, che i suoi legali negano fermamente, per le quali è fissata oggi l’udienza per il rinvio a giudizio. Come se non bastasse, all’atto del prelevamento coatto, ai più grandi vengono requisiti telefoni e pc, per non comunicare tra loro e con la madre. Facendo trasparire il dubbio che le accuse di abuso siano frutto di condizionamento. Sono passati più di 4 mesi e i ragazzi sono ancora lì. Quattro mesi in cui non hanno mai smesso di chiedere di tornare a casa dalla madre. Intanto, però, la corte d’Appello il 21 ottobre ha rigettato il ricorso del legale della donna, Domenico Morace, e ha confermato che i bambini debbano restare in comunità e inoltre che debbano riprendere a vedere il padre in incontri protetti. Cosa che i tre più grandi si rifiutano di fare, e si domandano perché debbano essere costretti a incontrarlo. Lo chiede F. in una lettera che scrive alla giudice onoraria Raffaella Taricco che è parte di quel collegio che ha firmato il primo decreto. Perché? “Se io e i miei fratelli glielo abbiamo detto in tutte le lingue che non vogliamo più avere a che fare con lui?” E comincia un carteggio tra il ragazzo e la sua giudice, in cui lei risponde che “ascoltare i minori, non significa poi fare tutte le cose che i ragazzi chiedono o desiderano. (...) Spesso i ragazzi non sanno da soli individuare le scelte migliori per loro, anche se ne sono convinti”. Ma lui, che ha 16 anni, dice di sapere quello che è bene per lui e per i suoi fratelli. E le domanda perché dopo aver subito quello che raccontano di aver subito, “i giudici, gli avvocati, gli assistenti sociali ci stanno infliggendo altro dolore?” Non si spiegano, loro, nella logica lineare e rigorosa degli adolescenti che la colpevolezza è un fatto di sentenze, non capiscono che il buon senso degli adulti delle volte si perde nelle maglie del diritto. E aggiunge: “Lei dovrebbe prima vedere se è vero ciò che diciamo, e in attesa tenermelo lontano e consolarmi e sostenermi e proteggermi, da lui e dai brutti ricordi”. Una riflessione impietosamente pura la sua, su un’istituzione che dei minori dovrebbe essere protettrice ma che finisce per tutelare prima i diritti degli adulti. Che ha perso il principio per cui, in caso di dubbio, il gesto supremo è farsi scudo per il bambino. Una riflessione alla quale la giudice risponde, apparentemente abbassando la guardia: “Quando i giudici decidono per i ragazzi lo fanno sempre nella speranza e con l’obiettivo di farli stare meglio e risolvere le difficoltà che hanno: non sempre ci riescono e a volte si possono sbagliare come tutti, ma non c’è nessuna cattiva fede”. Ma se errare humanum est, due sentenze non dovrebbero lasciare spazio a dubbi. E lo capisce anche un ragazzo di 16 anni che le risponde. “Mi dice che lavorate in buona fede, e che se sbagliate non c’erano cattive intenzioni. Ma quando la verità verrà fuori lei semplicemente dirà che ha lavorato in buona fede? E tutta la vita schifosa che mi state facendo fare?”. È sufficiente avere buone intenzioni? E poi affonda, alla richiesta della giudice di ricominciare a frequentare la scuola: “Mi ricorda che noi ragazzi abbiamo diritti e doveri come quello di andare a scuola. E i suoi doveri di tutelare i minori dove sono? Di tutelare mia madre che con coraggio ha denunciato?”. Ed è commovente l’immagine di un ragazzo di 16 anni, metà uomo e metà bambino, che si alza per proteggere sua madre, dalle stesse istituzioni che avrebbero dovuto proteggere lui e lei. Come F. scrive amaro al ministro Bonafede e in copia alla senatrice Valeria Valente, presidente della commissione d’inchiesta per il femminicidio: “A volte penso che sarebbe stato meglio se mia madre non avesse denunciato, o meglio se non avessimo raccontato nulla su nostro padre, perché forse a quest’ora saremmo a casa con la nostra famiglia”. Terrorismo e “anni di piombo”. Le ragioni di una rimozione di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 21 novembre 2020 Un’omertà sociale e culturale ha visto protagonisti specialmente ambienti significativi di borghesia democratica laica e cattolica di alcune città simbolo del nostro Paese - Milano, Roma, Firenze, Torino - la quale, direttamente o per il tramite dei propri figli, si trovò in varia misura a costeggiare fatti o protagonisti dell’eversione rossa. Che cosa fu il terrorismo italiano? Che cosa accadde davvero nell’Italia negli “anni di piombo”? Sono queste le domande che pone libro di Mario Calabresi sull’assassinio di Carlo Saronio Quello che non ti dicono con la discussione che ne è nata anche in seguito a un’intervista con Aldo Cazzullo. Domande allora e poi rimaste almeno in certo senso senza risposta. In verità di terrorismi, come si sa, in quegli anni ce ne furono due, uno nero e uno rosso. Ma del primo - tranne i suoi rapporti in parte tuttora oscuri con apparati deviati dei servizi di sicurezza, ciò che vale anche per l’altro - ormai sappiamo tutto quello quel che importa di sapere. È vero, su alcuni episodi anche gravissimi come l’attentato alla stazione di Bologna restano dei dubbi soprattutto circa eventuali collegamenti internazionali, ma in generale conosciamo i fatti e i nomi dei responsabili e dei loro referenti. Il terrorismo nero fu opera di gruppi di giovani militanti delle organizzazioni neofasciste e neonaziste e di alcuni loro capi, ma fatto salvo quanto ho detto sopra, dietro di esso socialmente c’era il nulla ed esso non ha lasciato nulla. Cosa ben diversa fu il terrorismo rosso. Perché dietro il terrorismo rosso ci fu un ambiente. Ci furono infatuazioni intellettuali diffuse, collusioni personali in buon numero, e un frequente voltarsi di molte “persone normali” da un’altra parte per poter dire di non aver visto né sentito. Tutto di svolse come in un crescendo. Prima degli atti terroristici veri e propri, infatti, e a lungo intrecciata con essi, ci fu una vasta e dura violenza di strada. Auspicata, preparata ed esaltata dai gruppi dirigenti extraparlamentari di Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia, il Movimento studentesco. La violenza dei cortei con le spranghe, con i caschi e i passamontagna, con le molotov; la violenza del ritornello “basco nero, basco nero, il tuo posto è al cimitero” gridato contro i carabinieri. Rapidamente nei luoghi sociali più inaspettati la legalità sembrò divenuta un optional. Tutto ciò che appariva contestazione, rottura delle regole, eversione iconoclasta, venne divulgato dai cataloghi delle migliori case editrici, approvato da stuoli d’intellettuali influenti, predicato da cattedre autorevoli. La rivoluzione insomma assurse a fatto di moda, e come si sa una rivoluzione senza almeno un po’ di violenza non s’è mai vista. Fu questo clima che preparò la successiva omertà nei confronti del terrorismo che ci sarebbe stata per tutti gli anni a venire. La quale è stata sì, anche un’omertà generazionale, come ha scritto Giampiero Mughini, ma assai di più, mi pare, è stata un’omertà sociale e culturale. Un’omertà che ha visto protagonisti specialmente ambienti significativi di borghesia democratica laica e cattolica di alcune città simbolo del nostro Paese - Milano, Roma, Firenze, Torino - la quale, direttamente o per il tramite dei propri figli, si trovò in varia misura a costeggiare fatti o protagonisti dell’eversione rossa. E anche a condividerne il retroterra ideologico; talvolta non sapendo né vedere né capire; più spesso, invece, vedendo e capendo benissimo ma restando zitta perché incapace di dirsi contro o perché percorsa dal pericoloso brivido della complicità. È a causa dell’atteggiamento di questi settori della classe dirigente - incaricata assai spesso di importanti ruoli di direzione culturale e intellettuale - che ha preso piede un meccanismo di rimozione di questo passato. E così, come già accadde dopo la fine del fascismo, anche questa volta è stata rimossa una fase cruciale della storia del Paese. È stato rimosso il deposito di suggestioni e di modi di pensare che negli anni 60 e 70 numerose élite intellettuali e molti esponenti di una certa borghesia colta fecero propri sotto l’influenza della sinistra di orientamento marxista. E insieme è stata rimossa tutta una serie di comportamenti conseguenti, vale a dire i molti casi di una condotta compiacente o benevolmente accomodante, quando non concretamente collusa, con la violenza e con lo stesso terrorismo, con le giustificazioni e gli attori dell’uno e dell’altro. Ma la rimozione evidentemente non poteva che valere per tutti. Per chi stava negli studi professionali, nelle aule universitarie o nei salotti, come per chi invece frequentava da militante le strade e le piazze. Nessuna meraviglia dunque se - come si legge nelle parole del figlio del commissario Calabresi che ha rifiutato di stringere la mano ad alcuni di loro incontrati casualmente - nessuna meraviglia, dicevo, se da molto tempo ci troviamo in mezzo a noi capi e sottocapi dei gruppi extraparlamentari i quali a suo tempo si fecero banditori di violenza o in vario modo non si tirarono indietro neppure davanti al terrorismo. Non solo indisturbati e magari con ruoli importanti in questo o quel settore (di preferenza giornalistico-culturale), ma magari anche pronti a farci lezioni di moralità e di civismo, a spiegarci le regole della democrazia. Naturalmente senza essere stati mai costretti a ricordare nulla, senza aver mai ammesso nulla, senza aver chiesto mai scusa di nulla. Fiduciosi per l’appunto nella generale rimozione scesa dall’alto sul passato della Repubblica. Un passato che tuttavia chi ha buona memoria e conserva in casa qualche libro e qualche giornale ricorda ancora benissimo. Nella nuova Anm c’è sempre la solita vecchia battaglia tra le correnti di Giulia Merlo Il Domani, 21 novembre 2020 Oggi nuova riunione per eleggere la giunta, ma non c’è convergenza né sul presidente né sul programma. L’ipotesi di proroga dell’uscente Poniz con 4 rappresentanti per gruppo non convince ma è l’unica sul tavolo. Due settimane non sono bastate per trovare un accordo sul nome del presidente e su un programma unitario per la nuova Associazione nazionale magistrati, anzi sono servite a fare qualche passo indietro nel dialogo tra gruppi. I 36 eletti entrano oggi in assemblea con meno certezze di quelle con le quali erano usciti i17 novembre. L’esito da alcuni temuto e da altri considerato inevitabile è quello di una non scelta: la proroga del presidente uscente di Area Luca Poniz, a cui affiancare informalmente 4 commissari in rappresentanza delle altre correnti. Una soluzione del genere, tuttavia, rappresenterebbe una sconfitta per chi auspicava un cambiamento radicale delle logiche che guidano il sindacato delle toghe: la certificazione dell’impasse in cui galleggia la magistratura. La situazione attuale sarebbe il prodotto di un duplice irrigidimento nei due gruppi che contano il maggior numero di eletti. Da una parte c’è Area, la corrente progressista che può contare sulla maggioranza relativa con 11 eletti: a lei spetta di indicare il presidente e il gruppo, seppur non compatto al proprio interno, ha scelto di continuare a sostenere il nome del più votato Luca Poniz, ritenendolo inscindibile dal programma. Dall’altra c’è Magistratura indipendente, la corrente dei moderati che conta 10 eletti e che chiede prima di tutto “discontinuità” rispetto all’Anm uscente. Una discontinuità che Poniz non potrebbe garantire, proprio perché è stato il presidente che ha estromesso Mi in seguito al caso Palamara-Ferri. Il punto cardine rimane la cosiddetta “questione morale”: la nuova Anm dovrebbe essere quella del nuovo corso, che riforma gli assetti delle correnti. Ha avviato nei mesi scorsi un difficile processo di rinnovamento interno e chiede che la nuova giunta riconosca pari dignità a ogni gruppo. Poniz, invece, rappresenterebbe una figura divisiva. Di fatto, ogni gruppo si è arroccato sulle sue posizioni. Unitari contro scettici C’è chi ancora non dispera che dalla riunione si possa arrivare a una soluzione condivisa. Unità per la Costituzione, il gruppo centrista, chiede che le correnti di maggioranza si adoperino proprio in questa direzione: dare all’Arun una giunta unitaria e un programma comune. Un auspicio che non trova porte chiuse, soprattutto in Mi. La segretaria, Paola D’Ovidio, ha confermato che “in questo momento una convergenza è ancora tutta da costruire”, ma spera che “lo si faccia nella discussione: noi lavoriamo per l’unità e io ritengo che sia ancora possibile una nuova Anm, che dia un taglio netto col passato. Non prendo nemmeno in considerazione che si esca con un nulla di fatto, ma ci vorrà il tempo per un lungo e responsabile confronto”. Chi invece non vede soluzioni sono le due correnti estreme. “Non ci sono 19 voti per Poniz e nemmeno un programma condiviso. Finirà che ognuno vota il suo capolista e un niente di fatto”, si dice in Autonomia e indipendenza, che però non drammatizza la situazione: il direttivo è organo insediato, sta funzionando con metodo confederativo con un rappresentante per gruppo e con questo assetto ha incontrato il ministro Alfonso Bonafede per discutere dell’emergenza Covid pubblicando anche un documento condiviso, è il ragionamento. Tradotto: si può anche continuare così, con Poniz prorogato che sarebbe solo il portavoce collettivo. In questo modo, l’Anm tornerebbe a svolgere una funzione più sindacale e meno politica. Anche Articolo 101 si è sfilato dalla logica della giunta unitaria. “Non condividiamo le dinamiche politiche con cui ci si approccia alla giunta: nessuno rinuncia alle sue priorità e manca comprensione delle ragioni altrui”, dice Andrea Reale. Il suo gruppo “anti-correntista” chiede l’introduzione del sorteggio nell’elezione del Csm, per rompere la dinamica clientelare. Ma su questo solo Mi ha condiviso un’apertura, con il sorteggio temperato. “Non abbiamo pregiudizi su nessuno ma servono una giunta operativa e un programma forte e di questo non si vede l’ombra”, conclude Reale, scettico sull’ipotesi del presidente prorogato e dei commissari. L’Anm è un mare in burrasca, che solo un grande lavoro di diplomazia potrà provare a calmare. La faida tra correnti paralizza l’Anm senza capo (né coda) di Paolo Comi Il Riformista, 21 novembre 2020 La riunione odierna per eleggere il nuovo leader finirà quasi certamente con una fumata nera. Si va verso l’ennesima proroga a Poniz. Area non molla. E sono poi toghe di sinistra i capi delle Procure più importanti del Paese, da Milano a Napoli. Area, che per circa centotrenta voti ha battuto Mi alle elezioni di ottobre, ottenendo così un seggio in più, vorrebbe allora il bis per il presidente uscente, il pm milanese Luca Poniz, primo degli eletti. “Fuoco amico” sull’ipotesi di affidare la presidenza alla seconda classificata, il giudice del Tribunale di Roma Silvia Albano. Ad esacerbare gli animi, poi, un comunicato dei giorni scorsi in cui Area dettava la linea per i prossimi anni, ad iniziare dal “riconoscimento della piena legittimazione dell’Anm ad intervenire nella discussione pubblica sui temi della giustizia e della tutela dei diritti fondamentali”. Immediata era stata la risposta delle toghe di Mi secondo le quali l’Anm “per essere un interlocutore serio e credibile non deve porsi quale soggetto politico oppositore o collaterale a questo o quel governo e non deve essere lo strumento per affermare tesi e posizioni ideologiche funzionali a determinate interpretazioni valoriali ed etiche”. Il compito dell’Anm, per le toghe di Mi, è “la tutela dei magistrati e i temi sindacali, evitando comunicati pro o contro l’indirizzo politico del governo e le scelte che ne costituiscono attuazione”. Tradotto per i profani, basta iniziative, come nel recente passato, contro i due Mattei nazionali, dopo Silvio Berlusconi, i bersagli preferiti delle toghe di sinistra. Su tali presupposti, ovvio, che una giunta unitaria dell’Anm risulta impraticabile. Cosa succederà allora? Nella riunione in programma oggi, molto probabilmente si valuterà una nuova proroga per il presidente uscente Poniz, affiancandolo a un direttorio composto da un rappresentante di ogni gruppo associativo. Sul fronte Csm, infine, sono ormai due mesi che si attende la sostituzione dell’ultima “vittima” del Palamaragate, il giudice Marco Mancinetti, costretto alle dimissioni dopo la pubblicazione della sua chat con lo zar delle nomine. Pasquale Grasso, che dovrebbe subentrargli in quanto primo dei non eletti alle suppletive del 2019, è ancora in attesa di conoscere la decisione del Plenum. Non essersi candidato alle prime elezioni del 2018, secondo alcuni, renderebbe nulla la sua nomina. Difficilmente, comunque, accetterà di far parte del Csm quando manca poco più di un anno e mezzo alla sua scadenza naturale, preferendo ricandidarsi per un intero mandato. Dura accusa, infine, da parte di Andrea Reale, giudice a Ragusa e neo eletto all’Anm, sulla decisione di “graziare” quasi tutte le toghe coinvolte del Palamaragate. “Ritengo che il potere di “cestinazione” senza controllo vada al più presto abolito e che, nel caso in esame, per la gravità dei fatti emersi dalle chat e per il discredito prodotto alla magistratura, la Procura generale presso la Cassazione dovrebbe usare la “cortesia” di rendere conoscibili i motivi per i quali condotte che sembrano di analoga gravità siano rimasti senza capi di accusa e senza accusati”. Niente riviste porno al 41-bis, il caso finisce in Cassazione di Federico Garau Il Giornale, 21 novembre 2020 Il caso di un ‘ndraghetista ristretto da 10 anni al 41-bis. Il tribunale di sorveglianza aveva concesso la rivista, purché fossero rimosse le parti scritte che potevano veicolare messaggi, ma l’amministrazione ha fatto ricorso in Cassazione. Ricorso in Cassazione per impedire l’ingresso di riviste porno all’interno del penitenziario: il caso, che ha dell’incredibile, si è verificato nel carcere di Rebibbia (Roma), dove un detenuto al 41-bis ha chiesto di poter ricevere un giornale per adulti, innescando una vera e propria querelle giudiziaria che va avanti da ormai più di un anno. A riportare la notizia è “Il Tempo”, che racconta come il carcerato, un ‘ndraghetista condannato all’ergastolo e da 10 anni dietro le sbarre, abbia fatto richiesta di avere una rivista porno lo scorso settembre 2019. Il regime 41-bis è molto duro, ed ai condannati viene concessa soltanto un’ora di socializzazione al giorno con altri 4 soggetti che hanno ricevuto la medesima pena. Incontrare qualcun altro è impensabile, e neppure internet può essere d’aiuto, dato che all’interno dei penitenziari non è possibile accedere alla rete e trovare nei meandri del web immagini osè. I detenuti, pertanto, possono solo ricorrere al vecchio sistema delle riviste. La richiesta del carcerato, tuttavia, era stata inizialmente respinta sia dall’amministrazione carceraria che dal magistrato del tribunale di sorveglianza. Il timore di entrambi gli organi era che la rivista in questione potesse essere utilizzata come tramite per far pervenire al detenuto ristretto al 41-bis messaggi oppure oggetti nascosti. È infatti capitato in passato che giornali o altri elementi cartacei fossero stati utilizzati dai complici dei carcerati per comunicare con i mafiosi rinchiusi all’interno delle strutture penitenziarie. Per questa ragione il tribunale di sorveglianza aveva negato la rivista non riscontrando nella richiesta alcun tipo di necessità correlata al “diritto alla sessualità”, quanto piuttosto “un mero interesse alla visione delle immagini non essenziale per l’equilibrio psicofisico”. Da qui l’intervento di Lorenzo Tardella, legale che rappresenta il detenuto. L’avvocato ha infatti deciso di presentare ricorso, spiegando che per evitare problemi “basterebbe strappare le pagine di testo e lasciare le immagini”. Una motivazione che ha convinto il tribunale di sorveglianza, il quale ad ottobre ha infatti deciso di procedere alla sottoscrizione di un abbonamento ad una rivista pornografica “a spese dell’interessato”. Rivista che sarebbe stata consegnata al detenuto solo in seguito a rigorosissimi controlli (con tanto di eliminazione di parti scritte). Tutto sembrava risolto, ma l’amministrazione carceraria ha deciso di fare a sua volta ricorso, rivolgendosi giorni fa alla corte suprema di Cassazione. “Mi pare assurdo togliere a un detenuto persino la possibilità di crearsi un ambiente mentale per la propria sessualità”, ha commentato l’avvocato Tardella, come riportato da “Il Tempo”. “Per di più trattandosi di persona condannata all’ergastolo e, dunque, con un orizzonte sessuale molto ridotto. E un’afflizione ingiustificata”. Campania. Covid in carcere: contagiati 188 detenuti e 223 tra agenti e dipendenti Il Mattino, 21 novembre 2020 Il Garante regionale dei detenuti: “Bonafede non minimizzi. “Mi dispiace che il ministro della giustizia Bonafede minimizzi quello che sta accadendo nelle carceri, utilizzando parametri e percentuali che secondo lui non segnalano lo stato di allarme pandemico: secondo me servirebbe una tonalità di colore più violenta del rosso per le carceri”: così Samuele Ciambriello, Garante campano dei detenuti, che rende note le cifre del contagio nelle carceri della regione. Sono 188 detenuti positivi in Campania più uno ricoverato nell’ospedale Cardarelli e uno al Cotugno. A Poggioreale i detenuti attualmente positivi sono 105 e 69 a Secondigliano. Sono invece 223 i contagiati tra la polizia penitenziaria, il personale sanitario e amministrativo. Umbria. Coronavirus nelle carceri: operativa la task-force della Regione perugiatoday.it, 21 novembre 2020 L’emergenza coronavirus non ha risparmiato nemmeno le carceri e proprio per monitorare la diffusione del Covid negli istituti penitenziari la Regione Umbria ha deciso di costituire una specifica Task Force che si è riunita proprio oggi (venerdì 20 novembre) per la prima volta. La Task Force è composta dal commissario straordinario all’Emergenza Sanitaria dell’Umbria, da due referenti della Direzione regionale Salute e Welfare e da un referente per ciascuna delle Aziende Usl dell’Umbria, con il compito di verificare le condizioni sanitarie e le condizioni specifiche in materia di prevenzione, trattamento e aspetti organizzativi sanitari per la gestione covid-19 all’interno degli Istituti Penitenziari che insistono sul territorio regionale. Durante l’incontro di ieri - presenti i referenti covid di tutti gli istituti - sono state condivise le varie situazioni e gli obiettivi programmatici ed è stato stabilito di avviare una serie di visite negli istituti penitenziari, a partire dalla prossima settimana. La Regione ha deciso di costituire la Task Force dedicata a seguito di una serie di interlocuzioni avviate dopo che il 28 ottobre si era tenuta la riunione del Tavolo dell’Osservatorio Permanente sulla Sanità Penitenziaria, strumento del quale la Regione si è dotata per monitorare e attuare gli indirizzi istituzionali ritenuti strategici ai fini della tutela della salute, globalmente intesa, dei detenuti e delle persone sottoposte a provvedimenti penali. La Regione ha inteso quindi adottare una strategia interistituzionale volta alla massima efficacia con i diversi soggetti coinvolti nel Tavolo dell’osservatorio, tra i quali l’Amministrazione Penitenziaria, la Magistratura di Sorveglianza e il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale. In particolare in tale sede - anche alla luce della situazione registrata nei giorni scorsi nel carcere di Terni dove attualmente i detenuti positivi sono 22, visto che dei 75 positivi al covid, 53 si sono negativizzati - è stato stabilito con l’Amministrazione Penitenziaria di procedere a un aggiornamento condiviso delle procedure e dei protocolli già attivati in fase precedente, con la creazione di una Linea di indirizzo regionale finalizzata a garantire omogeneità interpretativa e applicativa, quindi con un’efficacia ancora maggiore nell’ attuale fase critica, volta a bloccare l’ingresso e la propagazione del virus negli istituti penitenziari. Milano. Viaggio nel reparto Covid del carcere di Bollate: detenuti positivi da tutta la regione di Roberta Rampini Il Giorno, 21 novembre 2020 Liberata un’ala della prigione per isolare e curare i reclusi contagiati: oggi sono 59, presto diventeranno 198. “Siamo consapevoli che in un momento di emergenza sanitaria ognuno deve fare la sua parte. A Bollate, con grande professionalità e impegno, ci siamo messi in gioco e abbiamo accettato questa nuova sfida”. All’avanguardia per il trattamento avanzato dei detenuti, nei giorni scorsi, nel carcere di Milano Bollate è stato aperto il reparto di degenza Covid. Si tratta del più grande hub della Lombardia, destinato a ospitare i detenuti risultati positivi al coronavirus provenienti dagli istituti penitenziari della regione. Cosima Buccoliero, direttore uscente del carcere, spiegare come, insieme al personale di polizia penitenziaria, ha lavorato per attivare questo reparto. “Il carcere di Bollate è stato individuato dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria perché strutturalmente è quello che ha lo spazio e le caratteristiche richieste per il Covid hub. Abbiamo destinato a questo servizio alcune parti del settimo reparto (di solito occupato dai sex offenders, nda), spostando i detenuti in altri reparti. L’hub ha un accesso indipendente, con una porta ad apertura elettromagnetica, e tutti i requisiti sanitari richiesti, come per esempio la doccia nella cella, l’ambulatorio nel caso in cui sia necessario fare delle visite mediche e la postazione per il personale di polizia - racconta il direttore uscente - in questo momento abbiamo 59 detenuti positivi al Covid ma asintomatici, nei prossimi giorni sarà ampliato fino a raggiungere una disponibilità di 198 posti su tre piani detentivi”. La gestione del reparto è affidata agli operatori sanitari, medici e infermieri, il personale di polizia penitenziaria invece è predisposto al controllo. “È dotato di tutti i dispositivi di protezione individuali per evitare il contagio, come legittimamente richiesto dalle organizzazioni sindacali di categoria”, spiegano dal carcere. Inizialmente c’era stata un’alzata di scudi contro il reparto di degenza Covid per il mancato coinvolgimento della polizia penitenziaria nella fase decisionale. Prima lettere di protesta e poi un confronto con la direzione del carcere hanno placato i malumori. Anche il comandante Samuela Cuccolo della polizia penitenziaria, ha espresso orgoglio per “l’impegno profuso dal personale di Polizia penitenziaria nella creazione del nuovo reparto che servirà alle esigenze di diversi istituti lombardi in questo periodo di emergenza”. Gli ultimi dati resi noti sull’andamento della situazione sanitaria all’interno degli istituti penitenziari lombardi dal Provveditore per la Lombardia, Pietro Buffa, confermano che anche nelle carceri il virus si è diffuso più velocemente rispetto all’ondata di marzo e quindi è stato necessario cambiare strategia. Questi i numeri: 174 i detenuti contagiati, accolti in gran parte nei Covid hub di San Vittore e Bollate, 11 ricoverati e 142 operatori in quarantena fiduciaria per positività o contatti con persone risultate positive. “In questi primi giorni c’è stato un gran turn over di detenuti - conclude la Buccoliero - quelli accolti sono positivi ma senza sintomi, restano in isolamento nell’hub fino al secondo tampone negativo. A quel punto vengono riportati nel carcere di provenienza”. Viterbo. Covid nelle carceri, sciopero della fame dei detenuti a Mammagialla di Francesca Buzzi tusciaweb.eu, 21 novembre 2020 L’allarme Covid-19 non risparmia il carcere viterbese di Mammagialla. Anche qui, come in molti istituti penitenziari italiani, è esplosa da alcuni giorni una dura protesta dei carcerati per il rischio che sentono di correre ogni giorno per via del Coronavirus. Dall’inizio dell’epidemia, infatti, i detenuti non possono più ricevere visite dall’esterno, ma il timore è che qualcuno che lavora nella struttura (ad esempio i poliziotti penitenziari o il personale sanitario) possano inconsapevolmente portare il virus nella struttura. “Da qualche giorno a questa parte - racconta Alessandra (nome di fantasia), fidanzata di un detenuto di Mammagialla - i carcerati hanno iniziato a rifiutare il vitto che gli viene consegnato per donarlo alla Caritas. Inoltre hanno ridotto al minimo anche la loro spesa per il sostentamento e comprano soltanto acqua, caffè, zucchero e tabacchi”. Una protesta simbolica, ma molto organizzata e strutturata che punta ad appoggiare la battaglia della ex deputata dei Radicali Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino, che da giorni ha iniziato lo sciopero della fame per ottenere l’applicazione di indulto, amnistia e altre misure per liberare il più rapidamente possibile gli spazi delle carceri. “Il Covid in carcere fa molta paura - prosegue Alessandra -. Il mio compagno e tutti gli altri detenuti sono ben consapevoli che se il virus entra la possibilità che si propaghi con velocità tra tutti loro è altissima. È già successo in altri istituti penitenziari d’Italia e anche a Viterbo nei mesi scorsi c’erano stati dei contagi tra il personale di polizia penitenziaria”. Ora, in questa seconda ondata, che nella Tuscia è stata molto più veemente della prima, il pericolo che possa svilupparsi un cluster a Mammagialla non è da escludere. I detenuti, oltre a rifiutare il vitto, stanno mettendo in atto anche altri comportamenti di protesta pacifici che possano però richiamare l’attenzione di chi vive fuori da quelle celle. “Ogni sera dalle 19 alle 19,15 - continua Alessandra riportando quello che il suo compagno le ha scritto in una lettera - i carcerati fanno la cosiddetta “battitura” sulle finestre, ovvero danno colpi sulle grate delle loro celle per fare rumore tutti insieme e farsi sentire, se possibile, anche dall’esterno”. Il Covid, poi, si somma al problema del sovraffollamento con il quale Mammagialla fa i conti ormai da anni. “Se già contrarre il virus è facile in una qualsiasi struttura chiusa all’esterno dove però vengono mantenute tutte le massime distanze di sicurezza del caso - conclude Alessandra -, figuriamoci in un posto in cui la distribuzione delle persone è ancor più contingentata del previsto”. La richiesta dei detenuti, quindi, è di applicare (o creare ad hoc) il prima possibile e il più possibile delle norme che puntino a uno svuotamento graduale o parziale degli istituiti penitenziari. Almeno fino a che l’epidemia continuerà a correre come in queste settimane. Alessandra in questi giorni scriverà una lettera di risposta al suo compagno cercando di rassicurarlo e spiegandogli che lei, da qui fuori, sta cercando di far sentire la sua voce e quella degli altri reclusi. La sua risposta, però, la potrà leggere soltanto la prossima settimana perché fino a lunedì a lui è vietato inviare altre email. Terni. Covid-19: si riduce il focolaio del virus nel carcere, i positivi scendono a 22 terninrete.it, 21 novembre 2020 Sono attualmente 22 i positivi al virus fra i detenuti nel carcere di Terni. Negli ultimi giorni infatti 53 dei 75 soggetti positivi sono risultati nuovamente negativi. Il dato è emerso durante la riunione, avvenuta nel pomeriggio, della Task Force regionale costituita nei giorni scorsi proprio per verificare le condizioni sanitarie all’interno degli Istituti Penitenziari situati in Umbria. La Task Force è composta dal Commissario straordinario all’Emergenza Sanitaria dell’Umbria, da due referenti della Direzione regionale Salute e Welfare e da un referente per ciascuna delle Aziende USL dell’Umbria, con il compito di verificare le condizioni sanitarie e le condizioni specifiche in materia di prevenzione, trattamento e aspetti organizzativi sanitari per la gestione covid-19 all’interno degli Istituti Penitenziari che insistono sul territorio regionale. La Regione Umbria ha deciso di costituire la Task Force dedicata a seguito di una serie di interlocuzioni avviate dopo che il 28 ottobre si era tenuta la riunione del Tavolo dell’Osservatorio Permanente sulla Sanità Penitenziaria, strumento del quale la Regione si è dotata per monitorare e attuare gli indirizzi istituzionali ritenuti strategici ai fini della tutela della salute, globalmente intesa, dei detenuti e delle persone sottoposte a provvedimenti penali. La Regione ha inteso quindi, adottare una strategia interistituzionale volta alla massima efficacia con i diversi soggetti coinvolti nel Tavolo dell’osservatorio, tra i quali l’Amministrazione Penitenziaria, la Magistratura di Sorveglianza e il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale. Pistoia. Carcere sovraffollato. “Il sindaco dovrebbe chiuderlo subito” Il Tirreno, 21 novembre 2020 “Il carcere di Pistoia ha una capienza ufficiale di 56 unità. Attualmente vi sono internati 86 detenuti, il 50% in più di quanti, per ragioni di salubrità ed igiene, potrebbe ospitarne. Il sindaco, massima autorità cittadina sul tema, dovrebbe procedere all’immediata chiusura della struttura (Vicofaro docet)”. La denuncia della situazione in cui, in tempo di Covid, versa la casa circondariale di Santa Caterina in Brana, arriva dall’avvocato Fausto Malucchi, noto penalista di Pistoia, tra l’altro fra i legali che assistono don Massimo Biancalani nelle sue vicende legate all’accoglienza di migranti nella parrocchia di Vicofaro. In effetti, ormai da qualche settimana, proprio per evitare un sovraffollamento che sarebbe una bomba innescata per il propagarsi del contagio nel caso vi fosse qualche detenuto positivo, il carcere di Pistoia ha di fatto chiuso le sue porte a nuovi ingressi: tutti i nuovi arrestati che devono essere messi in cella in attesa di comparire davanti al giudice vengono difatti portati nel carcere di Prato. Fatto sta che per quella che è la sua capienza, il Santa Caterina continua ad ospitare un numero di detenuti al di sopra della sua capienza. “Trattandosi peraltro di una drammatica e ricorrente situazione su tutto il territorio nazionale, non esiste alternativa ad un indulto o meglio ancora ad un’amnistia che risolverebbe anche l’insostenibile carico oggi gravante sui singoli uffici giudiziari. Rita Bernardini - prosegue l’avvocato Malucchi riferendosi alla parlamentare radicale - ed altre 500 persone stanno portando avanti uno sciopero della fame per questa battaglia di civiltà e soprattutto di legalità”. Il carcere di Pistoia deve fare i conti con il fatto che fu realizzato agli inizi del 1900, con spazi e concezione di altri tempi. Anche l’immagine del penitenziario doveva conformarsi ai canoni stabiliti dal periodo storico, ovvero dare un aspetto di forza e sicurezza a difesa dello Stato. I lavori definitivi terminarono agli inizi del 1921. Dopo anni di sovraffollamento e di condizioni di vita al limite (con anche 8 detenuti costretti a vivere in celle concepite per due persone), un notevole miglioramento è arrivato, paradossalmente, con la tempesta di vento che nel 2015 distrusse parte del tetto e con i lavori di ristrutturazione terminati all’inizio del 2019. Perugia. Riattivato protocollo tra Comune e carcere per lavoro reinserimento detenuti umbriajournal.com, 21 novembre 2020 Radicali Perugia: approvare un nuovo protocollo per ampliare le possibilità di inserimenti lavorativi con il coinvolgimento della Cassa delle Ammende. “Accogliamo favorevolmente la notizia, comunicata ieri durante i lavori in Commissione Consigliare, che già tre detenuti hanno iniziato a svolgere attività lavorative nel territorio comunale di Perugia e che un quarto inizierà a breve sulla base del protocollo esistente fra Comune e Carcere di Capanne, riattivato dopo lo stop durato qualche anno”. È quanto affermano in una nota i rappresentanti dell’Associazione Radicali Perugia, Michele Guaitini e Andrea Maori commentando l’esito dei lavori dei lavori della Commissione Consigliare del Comune di Perugia. “Questo importante risultato” continuano i Radicali Perugia, “è stato possibile grazie all’iniziativa di sensibilizzazione e di lavoro politico svolto in commissione che ha permesso di sbloccare una situazione burocratica insostenibile”. Il tutto ha preso il via a seguito dell’iniziativa “Ferragosto in carcere” di questa estate. In quell’occasione, grazie all’azione intrapresa dal Partito Radicale, il consigliere comunale del PD, Francesco Zuccherini, accompagnato dal Capogruppo del Pd in Regione Tommaso Bori, si sono recati presso l’istituto penitenziario di Capanne per una visita. Nel corso dell’incontro con i vertici dell’Istituto, si è discusso anche dell’aspetto lavorativo dei detenuti. A questa attività è seguito un ordine del giorno presentato per la discussione presso la III commissione del comune di Perugia (primo firmatario lo stesso Zuccherini). Nella proposta si chiedeva di rinnovare e ampliare il protocollo d’intesa esistente tra il carcere di Capanne e il Comune di Perugia per l’impiego di detenuti per piccoli lavori di manutenzione e decoro urbano. Nello stesso documento si prevedeva il coinvolgimento della Casse delle Ammende, l’ente che eroga finanziamenti per programmi di reinserimento di detenuti e di internati. “Prendiamo atto che questo ordine del giorno sta riscontrando un consenso anche da parte della maggioranza e quindi auspichiamo una sua rapida approvazione del Consiglio comunale” hanno concluso i rappresentanti di Perugia Radicale. Milano. Cosima Buccoliero: “L’Ambrogino d’oro premia un lavoro comune” di Antonella Barone gnewsonline.it, 21 novembre 2020 “Non me l’aspettavo, mi sembrava un riconoscimento irraggiungibile, mi rende felice averlo ottenuto perché è il risultato di una candidatura forte da parte di rappresentanti del mondo penitenziario. L’Ambrogino d’Oro premia anche tutti quelli con i quali collaboro e attesta i buoni risultati di un lavoro comune”. Cosima Buccoliero, direttrice reggente dal 2019 della casa di reclusione di Milano Bollate e dell’Istituto Minorile Beccaria, commenta così l’assegnazione della massima onorificenza concessa dal Comune di Milano. Per i tanti rappresentanti del mondo penitenziario che hanno sostenuto la sua candidatura si tratta di “un grande riconoscimento alla professionalità, alla competenza, al coraggio e all’umanità di chi sa guardare oltre”. Il riconoscimento alla direttrice di un carcere, uno dei contesti più “a rischio” non solo per la diffusione del contagio ma anche per la tensione causata nei detenuti dalla sospensione di colloqui, benefici e molte attività, ha il merito anche di mettere in luce le tante misure adottate in tutti gli istituti penitenziari per fronteggiare un’emergenza senza precedenti. Bollate è stato il primo carcere a utilizzare il sistema Webex-Cisco Systems - messo poi a disposizione di altre strutture italiane - che ha consentito migliaia di incontri virtuali, telefonate e videochiamate, tra detenuti e familiari. “Durante la prima fase della pandemia - racconta Buccoliero - abbiamo messo in atto queste e altre misure, come la didattica a distanza. Abbiamo anche lavorato su altri fronti, avviato la produzione di mascherine chirurgiche con il progetto #Ricuciamo e creato un hub per malati Covid. Iniziative come queste non ci sono state solo a Bollate e sono contenta se il premio diventa un’occasione per far conoscere l’impegno di tutto il mondo penitenziario”. Buccoliero, arrivata a Milano dalla Puglia nel 2003, ha iniziato a lavorare come direttore aggiunto nel carcere bollatese affiancando dirigenti ‘illuminati’, autori di molti progetti innovativi, i quali - ci tiene a sottolineare - “hanno cambiato la mia visione del carcere” tiene a sottolineare. In chiusura un pensiero alla ‘sua’ Milano: “Ormai sento di appartenere a questa città che amo profondamente. Devo molto all’associazionismo, qui molto radicato e all’intero territorio lombardo, sempre presente e determinante nei risultati che abbiamo conseguito. Un apporto che testimonia proprio quanto sia importante la contaminazione tra interno ed esterno, tra società libera e mondo penitenziario”. La direttrice capace di “guardare oltre” immagina un futuro in cui videochiamate, didattica a distanza e tutti gli strumenti d’inclusione digitale, utili a renderei luoghi di detenzione parte del territorio, possano trovare spazio: “Spero che ci sarà una riflessione generale sull’uso della tecnologia in carcere. Credo che molti direttori la pensino come me e che si possa discutere sulla possibilità di utilizzare questi mezzi anche per contatti che vadano oltre i colloqui con i familiari, ovviamente per quanto riguarda solo i detenuti di media sicurezza. Abbiamo sfatato il mito che fosse impossibile introdurre la comunicazione tecnologica in carcere, ora dobbiamo riflettere sui benefici che può portare mantenerne l’uso”. Gorgona (Li). Dai frantoi il riscatto dei detenuti, ecco i vincitori del premio Agro-Social Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2020 Si chiama Recto Verso, il progetto di agricoltura sociale che insegnerà a fare l’olio extra-vergine d’oliva ai detenuti del carcere della Gorgona: dalla conduzione dell’oliveto fino alla spremitura delle olive nel frantoio, dall’imbottigliamento fino alle strategie di marketing. A mettere insieme detenuti e produzione olivicola è stata Betarice Massaza, dell’azienda Santissima Annunziata di San Vincenzo, in provincia di Livorno. Che per questa iniziativa si è aggiudicata il primo premio del bando “Agro-Social: seminiamo valore” realizzato da Confagricoltura e JTI Italia. Dopo aver appreso la tecnica della coltivazione e della trasformazione delle olive, i detenuti della Gorgona esporteranno questo modello prima in altri istituti penitenziari, e poi in altre aziende, con l’obiettivo di inserire nel mondo del lavoro chi come loro appartiene a una categoria socialmente fragile. E proprio di persone fragili l’agricoltura sociale si occupa: malati psichici, portatori di handicap, detenuti, anziani. Istituite in Italia con una legge del 2015, le fattorie sociali sono oggi quasi 4mila, danno un lavoro vero a 35mila persone e producono un fatturato che sfiora i 250 milioni di euro. Una vera e propria realtà economica, questa, capace di crescere a un ritmo annuo del 25% e di generare non solo reddito, ma anche servizi di welfare in aree del territorio nazionale periferiche. Per sostenere questo - che è un vero e proprio comparto della nostra economia - il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, e quello di Japan Tobacco?Italia, Gian Luigi Cervesato, hanno voluto istituire da quest’anno un bando di finanziamento a fondo perduto, con un primo premio di 40mila euro e un secondo di 30mila. Lanciato la scorsa estate, il concorso ha ricevuto oltre 20 candidature provenienti dai territori coinvolti di Toscana, Umbria, Veneto e Campania. Ad aggiudicarsi il secondo premio è stata l’Associazione Cenci di Amelia, in provincia di Terni, che coinvolge persone con fragilità fisica e psichica. Grazie ai fondi ricevuti, Franco Lorenzoni costruirà uno strumento astronomico a cui ci si affiderà per coltivare l’orto, secondo la più antica tradizione contadina. “Il nostro Paese - ha ricordato il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti - è leader in Europa per l’agricoltura sociale. La nostra associazione ha sempre creduto al ruolo determinante del settore nel contesto sociale ed economico. In questo momento storico poi, così delicato per l’Italia, siamo convinti della necessità di investire in questo modello di sviluppo virtuoso e competitivo, che permette di coniugare le politiche del welfare con la produttività e la salute”. “Non può esserci crescita se non si garantiscono sostenibilità economica, sociale e ambientale - ha aggiunto Gian Luigi Cervesato, presidente e ad di JTI?- in questa visione rientra il nostro impegno pluriennale per supportare e stimolare le capacità innovative che il territorio stesso può esprimere”. Alla premiazione hanno preso parte anche il viceministro all’Economia e Finanze, Antonio Misiani, e il sottosegretario al ministero dell’Agricoltura, Giuseppe L’Abbate: “Abbiamo avuto il piacere e l’onore - ha detto il sottosegretario L’Abbate - di premiare progetti che hanno saputo dare concretezza alle potenzialità del welfare rurale su cui abbiamo creduto sin dal 2015 quando, in Parlamento, approvammo la tanto attesa norma sull’Agricoltura Sociale. I soggetti più vulnerabili della società, grazie ad iniziative come queste, divengono così protagonisti attivi della vita agricola e produttiva dei territori, coniugando innovazione e antichi saperi”. Ulteriori informazioni sui progetti vincitori sono consultabili sul sito www.coltiviamoagricolturasociale.it Slitta ancora il dl immigrazione il governo pensa al voto di fiducia di Carlo Lania Il Manifesto, 21 novembre 2020 Il testo atteso in aula il 27 novembre. Ma intanto il Movimento 5 Stelle torna a dividersi. Slitta ancora l’arrivo nell’aula della Camera del decreto immigrazione, mentre è sicuro che il governo metterà la fiducia quando si arriverà al voto. Il testo destinato a mandare in soffitta i decreti sicurezza di Matteo Salvini ha fatto posto in Commissione Affari costituzionali alle nuove misure sul Covid e se non ci saranno sorprese riceverà il via libera da Montecitorio venerdì 27 novembre. Se non ci saranno sorprese, perché tra ostruzionismo delle opposizioni e l’ennesima fronda interna al Movimento 5 Stelle, il percorso del provvedimento in Commissione è stato fino a oggi a dir poco complicato. L’ultimo incidente si è avuto giovedì, quando 21 deputato pentastellati hanno presentato un emendamento riguardante le navi delle ong che, pur mantenendo l’abolizione delle maxi multe volute dal leader leghista, ripristinava però la confisca del mezzo. Una misura decisamente controcorrente rispetto al testo varato dal governo. L’emendamento è stato prima ritirato, poi riammesso e infine bocciato, ma quanto accaduto la dice lunga sugli umori che un tema come l’immigrazione suscita all’interno del Movimento. Il presidente della Commissione Affari Costituzionali Giuseppe Brescia (M5S), ha ridimensionato l’incidente ricordando come la maggioranza alla Camera sia solida e non correrebbe rischi neanche se dovessero mancare i voti dei 21 deputati dissidenti. Ciò non toglie che quanto accaduto allunga un’ombra sul successivo voto del Senato, dove i numeri sono differenti e dove Lega e Fratelli d’Italia potrebbero approfittare del malumore che l’immigrazione suscita anche tra qualche senatore 5 Stelle. In attesa di eventi futuri il decreto va avanti a piccoli passi, con l’esame degli emendamenti che riprenderà lunedì. Ieri la Commissione ha approvato un emendamento presentato dalle dem Laura Boldrini e Barbara Pollastrini con cui si vieta l’espulsione - e quindi estende il diritto alla protezione - dei migranti che nel proprio Paese di origine rischiano di essere perseguitati anche per motivi di “orientamento sessuale e identità di genere”, aggiungendo le due nuove motivazioni a quelle già previste dalla legge e che riguardano la razza, il sesso, la religione, la cittadinanza e le opinioni politiche. “È vero che le commissioni territoriali nel loro operare, già ne tengono conto - ha spiegato Boldrini - ma è altrettanto vero che nella nostra legislazione esisteva un vuoto normativo che con questo emendamento è stato finalmente colmato”. La norma ha suscitato le proteste di Lega e Fratelli d’Italia. Tra gli emendamenti approvati in precedenza ci sono quello presentato da Riccardo Magi (+Europa) e Luca Rizzo Nervo (Pd) che prevede la possibilità di convertire in permesso di soggiorno per motivi di lavoro i permessi di soggiorno concessi per cure mediche, a patto che il richiedente abbia trovato un impiego in Italia. E quello presentato dal deputato Stefano Ceccanti (Pd) che abroga le quote massime di stranieri da ammettere regolarmente nel territorio dello Stato per lavoro subordinato tramite i decreti flussi. Turchia. Diritti ancora nel mirino: arrestati 20 avvocati accusati di terrorismo Il Dubbio, 21 novembre 2020 Un’altra ondata di arresti di massa contro gli avvocati per i diritti umani e le loro attività legittime e professionali si è verificata oggi di prima mattina, a Diyarbakir, in Turchia. L’elenco dei mandati di arresto comprende 101 persone in totale, inclusi avvocati per i diritti umani molto noti, rappresentanti di organizzazioni per i diritti umani e così via. Il numero degli avvocati arrestati non è ancora certo, ma per ora almeno 20 professionisti sono finiti agli arresti, tra i quali Bünyamin Seker, co-presidente dell’Öhd/Lawyers Association for Freedom. La polizia, nell’ambito dell’indagine contro il Congresso della società democratica (Dtk) condotta dall’ufficio del procuratore capo di Diyarbak?r. ha fatto irruzione nelle case degli avvocati e dei rappresentanti delle organizzazioni della società civile e sono stati confiscati computer, libri e molti materiali digitali. Secondo l’accusa, i detenuti avrebbero “fondato organizzazioni a favore di un’organizzazione illegale”. “L’Ordine degli avvocati di Diyarbakir non si è arreso e non si inchina - si legge in una nota dei legali turchi. La riforma giudiziaria è iniziata con l’arresto di avvocati e rappresentanti di organizzazioni non governative. Alle 4:30 di questa mattina, nell’ambito di un’indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Diyarbakir, con l’affermazione che “i loro nomi sono stati trovati nei documenti fisici e digitali ottenuti nelle ricerche effettuate nell’edificio del Congresso della Società Democratica in date diverse”. Per molto tempo sono state fatte repressioni sistematiche, minacce e osservazioni nei confronti della struttura istituzionale dell’Ordine degli avvocati di Diyarbakir, dei suoi membri e dipendenti nel campo della società civile. Ci hanno dimostrato ancora una volta che con i raid effettuati questa mattina si voleva soffocare la voce dell’Ordine degli avvocati di Diyarbakir e che la società civile è stata direttamente ostacolata. Stiamo attraversando i giorni in cui la legge viene calpestata e la magistratura cerca di reprimere gli avvocati agendo su ordini e istruzioni dell’autorità di governo. Ribadiamo la nostra opinione che l’unico modo per vivere in pace e tranquillità è convertirsi alla democrazia. Chiediamo la fine di questa operazione non legale, che elimina la libertà personale e la sicurezza e la sicurezza legale, e l’immediato rilascio dei nostri colleghi e di altri rappresentanti di Ong arrestati”. Dall’Italia arriva la solidarietà dei Giuristi democratici, che condannano con fermezza l’accaduto. “Si tratta dell’ennesimo uso politico della legislazione antiterrorismo, in violazione del diritto di difesa, non essendo avvenute tali perquisizioni in presenza del Pubblico Ministero e del Presidente dell’Ordine degli avvocati, come previsto dalla legge. Richiamiamo le autorità turche al rispetto degli obblighi internazionali e chiediamo un immediato interessamento delle autorità italiane, europee, del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite per verificare le condizioni degli arrestati e favorire la loro immediata liberazione. L’appello di Lazzarini per i profughi palestinesi di Paolo Lepri Corriere della Sera, 21 novembre 2020 Il direttore dell’Unrwa - svizzero, 56 anni - teme che la crisi finanziaria dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati pastinesi, sorretta dal contributo volontario dei Paesi Onu e Ue, possa provocare un “disastro totale” nella striscia di Gaza e accrescere l’instabilità del Libano. “Sarebbe una conseguenza drammatica - ha avvertito - dover chiudere le nostre scuole e i nostri centri sanitari proprio durante la pandemia”. “Siamo sull’orlo del precipizio”, avverte Philippe Lazzarini, che da marzo dirige l’Unrwa, l’agenzia della Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi, fondata nel 1949. Il suo bilancio, coperto dalle donazioni volontarie dei Paesi Onu e dell’Unione europea, ha un buco di quasi 60 milioni di euro per i mesi di novembre e dicembre. È fortemente minacciata, quindi, la sussistenza di circa 5,7 milioni di profughi in Cisgiordania, a Gaza, a Gerusalemme Est, in Libano e in Giordania. Sono a rischio anche i salari di dei 28.000 dipendenti. “Le nostre risorse finanziarie - ha detto nei giorni scorsi Lazzarini - sono al loro livello più basso di sempre. Ci auguriamo di poter mantenere l’Unrwa operativa. Faremo tutto il possibile per riuscirci”. Svizzero, 56 anni, studi a Losanna e Neuchâtel, sposato con quattro figli, Lazzarini ha un’esperienza trentennale nell’assistenza umanitaria e nel coordinamento internazionale nelle aree di crisi. Lavora dal 2003 nel sistema della Nazioni Unite. È proprio la grande conoscenza dei problemi maturata in questo lungo periodo a renderlo molto preoccupato. A suo giudizio la crisi finanziaria dell’Unrwa, in particolare, potrebbe provocare un “disastro totale” nella striscia di Gaza e accrescere l’instabilità del Libano. “Sarebbe una conseguenza drammatica dover chiudere le nostre scuole e i nostri centri sanitari proprio durante la pandemia”, ha sottolineato in una intervista alla Neue Zürcher Zeitung. Un colpo determinante all’agenzia dell’Onu, già in difficoltà, è arrivato nel 2018 con la decisione del presidente americano Donald Trump di sospendere i contributi degli Stati Uniti. Alle casse dell’organizzazione sono venuti a mancare oltre 300 milioni di dollari. Con il cambio della guardia alla Casa Bianca è ora certamente possibile un’inversione di rotta, ma è necessario che sia rapida: la posta in gioco è troppo alta. Lazzarini sembra abbastanza fiducioso. “Tutti i segnali indicano che ci sia disponibilità a ripristinare la partnership che abbiamo avuto per lungo tempo con l’amministrazione americana”. Non è l’unico a sperare in Joe Biden. G20 in Arabia Saudita: dedicato alle donne, ma le riformatrici stanno in carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 novembre 2020 L’emancipazione delle donne spicca tra i punti in agenda del vertice del G20, ospitato virtualmente oggi e domani dall’Arabia Saudita. Quello dell’empowerment femminile è il nuovo tema dell’incessante campagna di pubbliche relazioni con la quale il principe della Corona Mohamed bin Salman vuole promuovere le sue politiche riformatrici e mostrare al mondo che l’Arabia Saudita è un paese moderno e aperto agli affari. Purtroppo, le autentiche protagoniste delle riforme languono in carcere dalla metà del 2018, “colpevoli” di aver rivendicato a sé stesse e alle loro lotte alcuni passi avanti verso la fine della discriminazione di genere, come l’abolizione del divieto di guida per le donne e l’attenuazione de sistema del “guardiano”, che affidava al “maschio della famiglia” ogni decisione riguardante la vita delle parenti. Loujain al-Hathloul, una delle protagoniste della campagna per il diritto a guidare, è stata arrestata nel maggio 2018. Era stata già arrestata nel 2014 e detenuta per 73 giorni. Dopo il rilascio, aveva continuato a lottare per l’abolizione del divieto di guida per le donne e per la fine del sistema del tutore maschile. Il 26 ottobre ha intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro il rifiuto di farle mantenere contatti regolari con la famiglia. Si sente molto debole ed esausta e vi sono molte preoccupazioni per le sue condizioni di salute. Nassima al-Sada e Samar Badawi sono state arrestate nell’agosto 2018. Badawi, oltre ad aver preso parte alla campagna per porre fine al divieto di guida per le donne, si è spesa per chiedere la scarcerazione di suo marito, l’avvocato per i diritti umani Waleed Abu al-Khair, e di suo fratello, il blogger Raif Badawi. Al-Sada ha svolto per molti anni campagne per i diritti civili e politici, i diritti delle donne e quelli della minoranza sciita della Provincia orientale dell’Arabia Saudita. Nouf Abduaziz, blogger e giornalista, è stata arrestata nel giugno 2018. Lo stesso è accaduto all’attivista Maya’a al-Zahrani, che aveva pubblicato un post per chiedere la scarcerazione di Abdulaziz. Amnesty International ha chiesto ai leader del G20 di cogliere l’occasione del vertice per chiedere il rilascio immediato delle cinque donne, in carcere da oltre due anni a causa del loro impegno in favore dei diritti umani. Afghanistan. Il “lavoro sporco” della guerra: detenzioni irregolari e torture sui prigionieri di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 21 novembre 2020 In ogni conflitto ci sono abusi: dalle operazioni segrete delle truppe speciali all’attività di contractor con pochi scrupoli che non rispondono direttamente alle autorità politiche. In tutte le guerre ci sono “lavori sporchi”, di cui qualcuno si fa carico: l’idea di uno scontro su regole cavalleresche, con correttezza estrema e rispetto, è la bugia più vecchia del mondo, che gli Stati maggiori ripetono e le opinioni pubbliche ascoltano guardandosi bene dall’approfondire. In Afghanistan poi le distanze culturali incolmabili fra le truppe occidentali e le frange più tradizionaliste della popolazione hanno complicato le comunicazioni e facilitato gli abusi. È quasi un luogo comune: dopo l’invasione seguita all’11 settembre, chi aveva un nemico, un vicino di casa antipatico o un concorrente negli affari, doveva solo denunciarlo come simpatizzante dei talebani. E il malcapitato sarebbe finito a Guantánamo, a vestire per un lungo periodo la tuta arancione e nutrire odio per anni, senza potersi spiegare i motivi della detenzione e senza poter dire la sua versione. Nel 2019 il Washington Post ha avuto accesso a una robusta documentazione che testimoniava le bugie del governo americano sui progressi nella guerra, i cosiddetti Afghanistan Papers. In mezzo c’erano le prove del sostegno statunitense ai signori della guerra, quale che fosse il loro record di abusi. “Questo fa fare agli Usa la parte di protagonisti cinici, pronti a chiudere gli occhi davanti a ogni abuso”, denunciava un funzionario meno spregiudicato degli altri. Com’è ovvio, i casi che emergono sono solo una piccola parte. Gli esperti e gli psicologi garantiscono che la tortura non serve a ottenere informazioni, perché davanti agli abusi chiunque è pronto a mentire, accusando anche le persone più vicine. Eppure il metodo resta diffuso, più o meno nascosto nelle aree opache fra le pieghe dei regolamenti. Human Rights Watch denunciava già nel 2013 che le truppe di Enduring Freedom erano coinvolte in almeno 18 omicidi di civili slegati dai combattimenti, in almeno 600 casi di abusi sui detenuti, per non parlare dell’utilizzo abituale di sistemi di tortura come il waterboarding per estorcere informazioni. Al centro delle denunce c’era il carcere ospitato nella base aerea di Bagram, poco lontano da Kabul. A giudicare dalle foto delle gabbie circondate da filo spinato, o dai disegni delle posizioni insostenibili a cui i detenuti venivano costretti, non è fuori luogo un parallelo con il famigerato centro di detenzione iracheno di Abu Ghraib, rimasti famoso per gli orrori sui prigionieri immortalati dagli stessi secondini e diventati oggetto di scandalo in tutto il mondo. Di fronte allo sdegno delle proprie opinioni pubbliche, gli eserciti dei Paesi democratici hanno escogitato vari sistemi. Una delle strade è l’utilizzo dei cosiddetti contractor, in genere ex militari disposti a menare le mani senza troppi scrupoli e ovviamente non obbligati a rendere conto alle autorità politiche, oltre che slegati dalle “regole di ingaggio”. C’è poi una cappa di opacità che copre l’uso delle truppe speciali. Omicidi mirati di leader talebani, attacchi a cellule di insurgents, distruzione di assetti nemici in territori lontani: le operazioni sono segrete, e questo non vuol dire ovviamente che siano irregolari. Ma in questi ambiti si creano spazi di scarsa trasparenza, di cui i governi approfittano per evitare di rendere conto ai parlamenti e che possono offrire opportunità per abusi. Uganda. Scontri dopo l’arresto del cantante Bobi Wine: già 37 morti di Raffaella Scuderi La Repubblica, 21 novembre 2020 Da due giorni si protesta per la detenzione del musicista (poi rilasciato su cauzione) che sfida Museveni alle presidenziali di gennaio. Il ministro della Sicurezza: “La polizia ha il diritto di sparare e uccidere”. Sono almeno 37 le vittime degli scontri in Uganda per l’arresto di Bobi Wine, il 38enne musicista che il prossimo 14 gennaio sfiderà alle urne l’attuale presidente Yoweri Museveni, al comando da 35 anni. Il rapper, rilasciato ieri su cauzione, è stato accusato di violazione delle misure imposte contro la diffusione del Covid. Restrizioni che prevedono che i candidati alla presidenza non possano parlare a gruppi di più di 200 persone. Il candidato presidenziale è stato arrestato mercoledì scorso poco dopo essere arrivato nella sede della sua campagna elettorale nel distretto di Luuka e da allora era detenuto presso la stazione di polizia di Nalufenya, nel distretto di Jinja. Alla notizia del suo arresto, migliaia di persone si sono riversate in piazza in tutto il Paese. Museveni, che con i suoi 76 anni è alla ricerca di un sesto mandato, ha schierato l’esercito in strada affiancandolo agli agenti. Nelle proteste sono state arrestate e fermate 350 persone. La polizia ha giustificato gli arresti affermando che i dimostranti hanno partecipato alle violenze, appiccando incendi e attaccando chi non fosse sostenitore della Piattaforma di Unità nazionale (Nup) - il partito di Wine - e il ministro della Sicurezza ieri ha dichiarato che “ha anche il diritto di sparare e uccidere se si raggiunge un certo livello di violenza. Posso ripetere? La polizia ha il diritto di spararti e tu muori per niente”. Dai manifestanti e i video sui social, sale invece la denuncia contro uomini armati in abiti civili e non affiliati ad alcun servizio di sicurezza, accusati di aver aperto il fuoco contro la folla. Intanto gli altri quattro candidati dell’opposizione, Mugisha Muntu, Henry Tumukunde, Norbert Mao e Fred Mwesigye, hanno sospeso le loro campagne elettorali in solidarietà nei suoi confronti. La moglie di Wine, Barbara Itungo, ha rilasciato un’intervista alla Bbc in cui racconta l’arresto di mercoledì scorso: prelevato con forza dalla sua auto mentre si recava al comizio. Due giorni, racconta, senza poter vedere parenti né avvocati. Tutti coloro che si oppongono a Museveni e stanno facendo comizi in giro per il Paese, sono stati presi di punta dalle autorità. Bobi Wine è il suo nome da rapper. Il giovane oppositore si chiama Robert Kyagulanyi, è parlamentare dal 2017 ed è la grande paura del longevo dittatore ugandese, l’unico che potrebbe davvero esautorarlo. Sfida Museveni da sempre e lo fa a ritmo di rap. Conosce bene le carceri del Paese e i modi brutali della polizia. Questo non è il suo primo arresto. Ad agosto 2018 fecero il giro del mondo le immagini che lo ritraevano massacrato da calci e pugni in faccia e su tutto il corpo, subiti durante il suo ennesimo arresto. Due anni fa il mondo della musica internazionale insorse, tra cui grandi nomi come Brian Eno e Chris Martin. Un ragazzino del ghetto che ha qualcosa da dire attraverso la musica. Così si definisce il popolare rapper che fa musica dal 2000 e sostiene di portare ai giovani ugandesi la speranza di un futuro migliore proprio in virtù della sua provenienza dalla strada. In tribunale, prima della libertà su cauzione, rivolgendosi al giudice ha detto: “Questo caso non dovrebbe essere l’Uganda contro Kyagulanyi, dovrebbe essere l’Uganda contro Museveni. Dovrebbe essere Museveni su questo banco degli imputati”. Wine dovrà comparire nuovamente in tribunale il prossimo 18 dicembre. “Quando i nostri leader sono diventati imbroglioni e maestri, sono diventati aguzzini. Quando la libertà di espressione diventa il bersaglio dell’oppressione, l’opposizione diventa la nostra posizione”. È uno dei testi di Wine che si intitola Situka, “alzatevi” in Uganda, cantata dal musicista prima delle elezioni generali del 2016.