Pandemia carceraria: dai contagiati al 41bis al sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 novembre 2020 Sono 22 i detenuti positivi al Covid 19, tra i 41bis e quelli in alta sicurezza reclusi nel carcere di Tolmezzo., ma potrebbero essere molti di più. Non solo tre, come invece risultava dall’ultimo report del Dap consegnato ai sindacati della polizia penitenziaria. I dati, ma quelli giusti, provengono dal provveditorato regionale di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. Accanto ai detenuti, risultano positivi anche 16 agenti penitenziari. Parliamo, quindi, di un focolaio importante. Ma ci sono numerosi avvocati che polemizzano su come sia stato gestito inizialmente il contagio. Con l’aggiunta che alcuni familiari non sono stati messi a conoscenza dei loro cari positivi al Covid. Ancora adesso, mentre va in stampa il giornale, ad esempio c’è l’avvocato Valerio Vianello che non ha avuto risposta alle pec in merito a tre suoi assistiti. Ma c’è anche il caso dell’avvocata Sara Peresson che ha segnalato a Rita Bernardini del Partito Radicale il fatto che lei stessa è in isolamento in attesa dell’esito del tampone. Perché? È stata a colloquio con diversi suoi assistiti al 41bis, ora risultati positivi, a cui era stato detto che era una semplice influenza. “Se il mio tampone fosse positivo - dice con amarezza l’avvocata Peresson - sarei stata contagiata non al supermercato, ma nel luogo che ritengono più sicuro: ovvero il 41bis. Comunque un mio assistito mi ha appena comunicato che lui e altri in As. hanno parlato e, qualora fossero positivi, vorrebbero mettersi a disposizione, una volta guariti, per donare il plasma”. Ma Il Dubbio ha potuto visionare anche un esposto presentato dallo studio legale Cesare Vanzetti che fa una pesante denuncia. “Tutta la catena di controllo all’interno del carcere - si legge nell’esposto indirizzato alla magistratura di sorveglianza di Udine è clamorosamente saltata: mi ha riferito in data odierna (17 novembre, ndr) uno dei miei assistiti di essere positivo al Covid, di essere sintomatico (febbre, dolori articolari ed altri sintomi affini), e di non essere isolato”. Non solo. Aggiunge anche che “è a conoscenza della sua positività da 4 giorni e il suo compagno di cella continua a condividere con lui un’angusta stanza di 10 mq (arredi compresi) per tutto il giorno; a oggi (17 novembre, ndr), inoltre, il compagno di cella non è neppure stato sottoposto ad alcun test volto ad accertare la sua positività”. Risulta che attualmente i detenuti positivi con sintomi vengono curati secondo un piano preventivo farmacologico. Non si limitano alla semplice tachipirina, ma il dipartimento sanitario competente somministra un incrocio di tre farmaci: antibiotico, cortisone e l’eparina per prevenire coaguli e trombosi al livello polmonari. I controlli medici vengono effettuati due volte al giorno e poi al bisogno. Anche di notte sono reperibili. Quindi la situazione, dal punto di vista sanitario, ora è sotto controllo. Morti già tre detenuti in meno di un mese - Ma il problema, in generale, è grande. Il virus ha fatto breccia nei 41bis di almeno due istituti penitenziari. Quello più problematico è il carcere milanese di Opera dove sono finiti in terapia intensiva alcuni detenuti con gravi patologie pregresse, tra cui un malato terminale in custodia cautelare al carcere duro. Ma più in generale la seconda ondata è di fatto più devastante di quella iniziale. Sono già tre i detenuti morti per Covid. Il primo decesso, come riportato da Il Dubbio, è avvenuto il 29 ottobre nel carcere di Livorno dove attualmente c’è un focolaio. Era un ergastolano ultraottantenne con patologie pregresse. Durante la prima ondata gli rigettarono l’istanza per i domiciliari. Solo per caso riuscì a passarla indenne. Ma con la seconda ondata alla fine il contagio è arrivato, e il cuore non ha retto. Il secondo morto per Covid c’è stato il primo novembre. Ma questa volta al carcere “Don Soria” di Alessandria. Aveva 71 anni, patologie pregresse, ed era stato ospedalizzato perché la sua salute si era aggravata. Non ce l’ha fatta. Da pochi giorni è arrivata la terza morte, questa volta riguarda un detenuto recluso nel carcere campano di Poggioreale. L’uomo, 68enne, presentava sintomi ed era affetto da patologie pregresse. Trasferito al Cardarelli, dopo essersi aggravato, era stato trasferito all’ospedale dei Colli. La famosa Circolare del Dap potrebbe tornare utile? - Tutte queste morti hanno un unico filo denominatore: erano detenuti con patologie pregresse. Motivo per cui la “famigerata” nota circolare del Dap messa all’indice prima da l’Espresso e poi dal programma “Non è l’arena” di Massimo Giletti, ritorna utile. Il Dubbio ha dato notizia che a giugno il Dap l’ha revocata perché “il numero dei ristretti positivi al Covid-19, pari oggi a 66 persone su poco più di 53.000 detenuti, è in costante diminuzione. Negli istituti penitenziari risultano in atto protocolli di prevenzione dal rischio di diffusione del contagio”, quindi, conseguentemente “si dispone la sospensione dell’efficacia delle disposizioni impartite con la nota n. 95907 del 21 marzo 2020”. Ora però i contagi, tra personale e detenuti, stanno raggiungendo se non superando i 2000 casi. Numeri maggiori rispetto alla prima ondata. Ci sarà il buon senso e coraggio da parte del Dap? Quello volto nel mettere nuovamente nero su bianco le disposizioni per la comunicazione alla Autorità giudiziaria, dei nominativi dei ristretti in condizioni di salute tali da comportare un elevato rischio di complicanze in caso di contagio? Nel frattempo le carceri sono piene e il protocollo sanitario per isolamento e cura è di difficile applicazione. Occorre ridurre. Sono giorni che c’è Rita Bernardini e Irene Testa del Partito Radicale in sciopero della fame per chiedere misure efficaci. Dall’amnistia alla liberazione anticipata speciale. Con loro, a staffetta, stanno partecipando diverse autorevoli personalità tra i quali, oltre al già senatore Luigi Manconi e lo scrittore Sandro Veronesi, anche Roberto Saviano e Alessandro Bergonzoni. Ma non manca nemmeno la partecipazione di attivisti, persone comuni e da poco è arrivata l’adesione di un numero consistente di detenuti del super carcere di Sulmona. Le istituzioni sapranno accettare di intraprendere questo necessario dialogo chiesto con la non violenza? Nel sovraffollamento corrono i contagi. Come fermarli di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 20 novembre 2020 Come esistono i negazionisti del Covid, così esistono i negazionisti dell’afflittività e patogenicità del carcere. Con pragmatismo e senso di umanità bisognerebbe, in tempi strettissimi, evitare che le carceri arrivino a produrre lo stesso numero di morti e disastri già visti nelle Rsa. Se c’è un luogo in conflitto ontologico con il Covid, esso è il carcere. A chiunque affermi che sia il posto più sicuro del mondo rispetto al rischio di contrarre il virus, suggerirei una passeggiata per le sezioni del carcere di Brescia, che ha il doppio dei detenuti rispetto alla capienza regolamentare. O per i corridoi dell’istituto di Latina, che stipa 151 detenuti nei soli 77 posti previsti. O ancora a Taranto, che nei 304 posti letto regolamentari rinchiude 552 persone. O a Poggioreale, a Napoli, dove 2.177 detenuti devono dividersi i 1.571 posti disponibili, con celle che ospitano fino a 12 detenuti, talvolta prive di doccia, con letti a castello anche su tre livelli, e in qualche caso con wc vicino a dove si dorme. Carceri del nord, del centro e del sud. Tutte o quasi affollate al punto da essere patogene a prescindere dal virus. Carceri dove con grande fatica straordinari operatori stanno cercando di creare reparti dove assicurare la quarantena e l’isolamento per i detenuti risultati positivi. Figuriamoci quanto possano costituire un luogo riparato e sicuro celle, sezioni, istituti con tassi di affollamento tali da averci portato in passato a subire condanne ignominiose da parte della Corte europea dei diritti umani per trattamento disumano e degradante. Come esistono i negazionisti del Covid, così esistono i negazionisti dell’afflittività e patogenicità del carcere. Secondo i dati di cui si ha conoscenza - e qui c’è un inspiegabile mancanza periodica di comunicazione da parte del ministero della Giustizia e dell’amministrazione penitenziaria - alla data del 16 novembre erano 758 i detenuti positivi al Covid-19 (distribuiti in ben 76 penitenziari), nonché ben 936 gli operatori. Al momento, l’1,4% dei detenuti ha contratto il virus. La crescita è stata nei giorni scorsi impetuosa. Se non si interviene in fretta non è chiaro potrebbe accadere. Si dirà che anche fuori la gente si contagia e si ammala. Certo, ma quanto meno possiamo sgomberare il campo dalla prima sciocchezza, ossia che il carcere sia il luogo più sicuro al mondo. Proviamo a raccontarlo a quel signore sessantottenne morto nell’ospedale Cotugno di Napoli che era detenuto in quel luogo strapieno di corpi che è Poggioreale, una tra le situazioni più critiche in Italia con - pare - circa 100 detenuti positivi. La popolazione detenuta complessiva - 54.000 persone circa - supera di oltre 7.000 unità la capienza regolamentare, pari a circa 47 mila posti considerando anche le sezioni provvisoriamente chiuse. Nelle carceri vi sono alcune migliaia di detenuti ultrasessantacinquenni, persone con patologie oncologiche, cardiopatici e diabetici. Vi sono anche circa 18.000 detenuti con una pena residua inferiore ai tre anni. È partendo da loro che va creato spazio nelle carceri, assicurando quel distanziamento fisico oggi impossibile. Con pragmatismo e senso di umanità bisognerebbe, in tempi strettissimi, evitare che le carceri, così come è avvenuto tragicamente negli Usa (oltre 196.000 detenuti contagiati e ben 1.321 detenuti morti per Covid), arrivino a produrre lo stesso numero di morti e disastri già visti nelle Rsa. Va creato spazio utilizzando strumenti alternativi al carcere per chi dovrebbe entrarvi dall’esterno, come ha richiesto il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Infine, di fronte alla necessità medica di evitare che parenti, insegnanti, volontari possano entrare nelle carceri per portare affetto, vicinanza, sostegno, istruzione è urgente affidarsi alla tecnologia per telefonate, colloqui, didattica. Si mettano a disposizione dei detenuti gli strumenti per non restare isolati. Si consenta loro, in un momento così drammatico come quello che stiamo tutti vivendo, di telefonare quotidianamente ai propri cari. Si protegga la comunità penitenziaria - personale e detenuti - con mascherine, distanziamento, informazioni, prevenzione. Lo si faccia ora, senza paura di essere attaccati da demagoghi vari che impazzano sui vecchi e nuovi media. “Cercavi giustizia ma trovasti la legge”, cantava Francesco De Gregori, come hanno scritto in un loro appello alcune detenute del carcere di Torino chiedendo una misura da molti suggerita, ossia l’ampliamento della liberazione anticipata. Antigone, Anpi, Arci, Cgil, Gruppo Abele, insieme a Ristretti, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia-CNVG, CSD - Diaconia Valdese, Uisp Bergamo, InOltre Alternativa Progressista, sin da marzo scorso e ancora nei giorni scorsi, hanno chiesto misure urgenti nel nome della dignità e della salute delle persone detenute e per chi lavora in carcere. Ascoltiamo chi il carcere lo conosce. Ascoltiamo il buon senso, e non pericolosi e falsi allarmi sociali creati ad arte. Proposte a Governo e Parlamento per la salute e la dignità dei detenuti durante la pandemia di Marta Rizzo La Repubblica, 20 novembre 2020 Associazione Antigone, Anpi, Cgil, Gruppo Abele e uno schieramento composto da sindacati e associazioni legati alla tutela dei diritti delle persone, firmano una lettera al Governo e alla Commissione Giustizia di Camera e Senato, per ridurre il numero delle persone ristrette (sono 7.000 in più rispetto ai posti letto), mettere in sicurezza quelle a rischio, garantire una quotidianità decorosa in questa nuova emergenza pandemica. I numeri dei detenuti, oggi. Secondo i dati del Garante delle Persone Private delle Libertà Personali, al 13 novembre scorso le persone detenute e registrate sono 54.767, 53.992 quelle fisicamente presenti. La seconda ondata dell’epidemia da Covid-19 sta portando conseguenze pesanti negli istituti di pena, con numeri maggiori rispetto a quelli di marzo e aprile. Quasi 1.000 sono detenuti e operatori positivi, per ciascuna di queste categorie, con ritmi di crescita preoccupanti. In circa il 40% delle carceri del Paese, c’è stato almeno un caso di positività e, in alcuni penitenziari, Antigone ha testimoniato veri e propri focolai. Nonostante ciò, il sovraffollamento è ancora preoccupante: ci sono circa 7.000 detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili. Se si considera che alcune sezioni sono state liberate per i contagiati, la situazione è ancora più difficile di quanto non dicano questi numeri. “C’è bisogno di misure drastiche e urgenti”. Le chiedono Associazione Antigone, Anpi, Arci, Cgil, Gruppo Abele, in una lettera al Governo e ai parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato. Hanno aderito anche Ristretti, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia-CNVG, Diaconia Valdese, Uisp Bergamo, InOltre Alternativa Progressista. Le misure proposte tendono a ridurre la popolazione detenuta, a mettere in sicurezza le persone sanitariamente a rischio, a rendere non rischiosa e piena di senso la vita in carcere: 1. Estendere affidamento in prova e domiciliari. L’affidamento in prova ai servizi sociali è una misura alternativa alla detenzione che, in base alla funzione rieducativa della pena, favorisce il reinserimento sociale del condannato, con minori restrizioni della libertà personale. La lettera al Governo, chiede prima di tutto l’estensione dell’affidamento in prova in casi particolari e della detenzione domiciliare senza limiti di pena a coloro che soffrono di pregresse patologie fortemente aggravabili in caso di contagio da Covid-19 (sempre sottoposta al vaglio della magistratura di sorveglianza, ma sempre per assicurare l’universale diritto alla salute). 2. Domiciliari per chi è ritenuto non pericoloso. Non è il momento di dare un seguito carcerario a quei provvedimenti di esecuzione delle sentenze emesse verso persone cui il magistrato non ha ritenuto di dover applicare la custodia cautelare in carcere, non considerandole un pericolo per la società. Tali provvedimenti possono venire trasformati in detenzione domiciliare, per non aumentare le presenze in carcere e per non rischiare l’ingresso del virus. La detenzione domiciliare permetterà che la pena sia sempre in atto e che non ci si trovi con una gran mole di sentenze arretrate da eseguire tutte a fine pandemia. 3. Licenze. Le licenze per i detenuti semiliberi, che rischiano con più facilità di introdurre il virus in carcere, devono essere estese a coloro che lavorano all’esterno dell’istituto. 4. Estendere i domiciliari per il residuo della pena. La possibilità di trascorrere in detenzione domiciliare la parte finale della pena, oggi prevista per residui pena fino a 18 mesi, è estesa a residui pena fino a 36 mesi. Se al 30 giugno scorso erano poco più di 10.000 le persone detenute con residuo pena fino a 18 mesi, il numero si alzava a 18.850 per residui pena fino a 36 mesi. La misura vedrà sempre la discrezione della magistratura di sorveglianza, permettendo un incremento delle uscite dal carcere senza compromettere esigenze di sicurezza. 5. Liberazione per buona condotta. Già a seguito della sentenza della Corte di Strasburgo, che nel 2013 condannò l’Italia per tortura e trattamenti inumani o degradanti, l’estensione della liberazione anticipata per buona condotta si rivelò strumento assai efficace per diminuire la popolazione carceraria, che infatti ricominciò a crescere dal 31 dicembre 2015, quando cessò quella misura provvisoria. Nel momento che stiamo vivendo, bisogna ricorrere a tale strumento, rivolto a chi mostra una volontà di reintegrazione sociale. 6. Dignità e organizzazione per i carcerati. È fondamentale che il diritto alle relazioni affettive venga garantito anche in pandemia, attraverso strumenti come le video-chiamate, che hanno dato buoni risultati nella prima fase del virus e che possono essere potenziate. Inoltre, la vita in carcere deve avere un senso, proiettata al futuro rientro in società. Non si può pensare che, per l’indefinito tempo della pandemia, le giornate rimangano sospese nel vuoto della cella e nell’inattività. Come la vita esterna ha provato ad adeguarsi alla situazione sanitaria, con la didattica a distanza per esempio, così deve fare la vita carceraria. 7. Prevenzione dei contagi ed efficienza sanitaria, dentro. Troppo spesso il carcere non è dotato degli strumenti idonei per proteggere chi lo abita. Così come manca una prospettiva di orizzonte che sappia riportare il giuramento di Ippocrate al centro delle politiche sanitarie in carcere. Un carcere più umano per dare più sicurezza anziché riprodurre illegalità di Franco Mirabelli* huffingtonpost.it, 20 novembre 2020 Da sempre il carcere e l’esecuzione penale sono oggetto di scontro. Il tema, però, non è la necessità di garantire che le pene vengano espiate, questo nessuno lo mette in discussione: la certezza della pena non è il nodo su cui si divide davvero la politica. Le idee divergono sulla funzione della pena, sul senso della carcerazione. Certo chi subisce una condanna deve pagare un debito con la società, il carcere è una punizione ma per noi deve diventare anche un’opportunità: deve avere una funzione rieducativa, deve consentire alle persone, quando escono, di non ripetere gli errori del passato, per impedire che tornino a delinquere. Questa è la strada indicata dalla Costituzione, la più utile e la più umana. L’altra è la strada di chi, per speculare, vuole trasformare la giustizia in vendetta e considera ogni persona che delinque una persona persa per sempre, per cui bisogna “buttare via le chiavi” e, soprattutto, per loro la pena deve essere non solo una punizione ma una meritata sofferenza. Questo scontro tra noi e la destra oggi, di fronte alla diffusione del Covid in alcune carceri italiane (per fortuna ancora una minoranza), si traduce ovviamente in proposte politiche assolutamente contrapposte. Mentre serve prendere provvedimenti per salvaguardare la salute di tutti coloro che vivono in carcere (agenti, detenuti e operatori), la destra di Salvini e della Meloni fa propaganda, alimenta paure, paventa la liberazione dei peggiori criminali, lancia il messaggio che di carcere non bisogna occuparsi contrapponendo la salute di chi sta in carcere a quella di chi è fuori. Il governo in questi mesi ha preso e, di fatto, prorogato con il Decreto Ristori, iniziative importanti con la consapevolezza che per combattere il virus, garantire spazi per evitare il contagio e consentire l’isolamento e la cura di chi si è infettato, bisogna ridurre la popolazione carceraria. Ora più che mai bisogna intervenire su un problema patologico del nostro sistema penale: quello della sovrappopolazione, della presenza di più detenuti di quelli che gli Istituti possono ospitare. Nessuno è stato liberato: si è fatta la scelta di mandare agli arresti domiciliari coloro a cui mancano non più di 18 mesi da scontare per ridurre le presenze in carcere, escludendo da questi benefici tutti i condannati per reati di mafia o terrorismo. Riproporre questo provvedimento è giusto ma, come chiedono i Garanti dei detenuti e centinaia di associazioni e di operatori, bisogna fare di più per metter in sicurezza gli istituti e le persone che vi vivono e quelle che vi lavorano. Per questo abbiamo presentato una serie di proposte emendative al Decreto Ristori. Innanzitutto pensiamo che sia necessario, per accelerare le procedure, consentire a chi ha ancora un anno di pena da scontare, e non sei mesi come adesso, di andare agli arresti domiciliari senza braccialetto elettronico. Pensiamo poi si debba consentire a chi beneficia di permessi premio o di permessi per il lavoro esterno di restare fuori fino alla fine dell’emergenza: sono persone che hanno già fatto un percorso e che già escono dai penitenziari; ed è più sicuro per loro, ma soprattutto per gli altri detenuti, che non rientrino ogni giorno. Ancora: i detenuti già oggi possono beneficiare, per buona condotta, ogni sei mesi, di uno sconto di 45 giorni che proponiamo di aumentare a 75 per il periodo dell’emergenza, così da anticipare ulteriormente il fine pena per persone che lo hanno meritato. Infine, sospendere fino al 31 gennaio del 2021, l’esecuzione di condanne passate in giudicato è una soluzione che ridurrebbe i nuovi ingressi in carcere sia a tutela della salute di tutti sia per non aumentare ulteriormente le presenze. Sono scelte, che proponiamo a governo e maggioranza, che possono aiutare a ridurre i rischi di contagio nelle carceri. Ovviamente stiamo parlando di norme necessarie per affrontare un’emergenza, ma questa deve essere anche l’occasione per riflettere sulla necessità di fare scelte per affrontare il problema della precarietà della condizione detentiva in Italia. Sia il governo che il Parlamento hanno indicato l’intervento sulle carceri come un intervento necessario su cui presentare progetti per l’utilizzo dei finanziamenti del Recovery Fund. Non si tratta, però, di intervenire solo per costruire nuove carceri e creare più posti: la priorità deve essere quella di realizzare strutture che aumentino gli spazi per la socialità, il lavoro, la formazione. Serve realizzare carceri più vivibili e più umane, così come servono strutture dedicate alle donne con figli o ai detenuti tossicodipendenti. Tutto ciò è possibile e va fatto e il buonismo non c’entra. C’entra la consapevolezza che un carcere più umano e in cui si rispetti il dettato costituzionale serve a dare più sicurezza a tutti, anziché riprodurre malessere e illegalità. *Senatore Pd, capogruppo nella Commissione bicamerale Antimafia La sentenza della pandemia in carcere di Livio Ferrari* Ristretti Orizzonti, 20 novembre 2020 Nel quadro della pandemia in corso i reclusi delle nostre patrie galere si ritrovano a pagare un sovraprezzo non previsto in sentenza, a causa di mancanza di attenzione e responsabilità nei loro confronti, il loro essere sempre e solo vite a perdere per una società che non è in grado di integrare, soprattutto non coloro che hanno il torto di essere soprattutto poveri. È un baratro di cattiveria collettiva inaudito il carcere, con la sua strutturale impossibilità di garantire quel distanziamento sociale necessario ad evitare il rischio di contagio tra detenuti, personale che vi lavora e dunque collettività esterna, rappresenta la condizione ideale per il diffondersi del virus e il morbo da cui difendersi è ancora una volta il carcere stesso. I dati nazionali della pandemia in carcere vedono 658 detenuti positivi, di cui 32 ricoverati in ospedale, 824 i contagiati della polizia penitenziaria e 65 tra i dipendenti amministrativi. Questo a fronte di spazi insufficienti per isolare i positivi, presidi sanitari carenti o inesistenti, buchi di organico della polizia penitenziaria. Per avere poi un’idea di quanto la crescita sia allarmante, basta ricordare che lo scorso 8 ottobre le cifre ufficiali diffuse dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parlavano di 34 detenuti e 61 operatori di polizia contagiati. Su 192 istituti per adulti del nostro Paese, 75 sono stati colpiti dal virus. In 11 carceri si contano più di dieci casi per istituto, in 66 i positivi oscillano fra 1 e 9. Le situazioni più critiche a Napoli (Poggioreale e Secondigliano), Milano (San Vittore e Bollate), Alessandria, Terni e Larino. La vulnerabilità sociale e la mancanza di risorse, per chi è ristretto nelle carceri italiane, è l’elemento caratterizzante della distanza che li separa dal resto della società, del disinteresse o peggio dell’odio nei loro confronti. Ciò si sta evidenziando anche in questo momento dell’emergenza pandemica, in cui il concorrere della limitatezza delle disposizioni di legge finalizzate a ridurre il numero dei reclusi e delle ristrettezze dei contatti con l’esterno, col pretesto di evitare il contagio, hanno confermato il prevalere di una cultura punitiva e discriminatoria, disconoscendo di fatto il criterio del distanziamento sociale. Vediamo dunque l’effetto ci ciò che era ampiamente prevedibile in base alle politiche adottate per far fronte all’epidemia in carcere, già con la prima ondata. Da un lato la compressione dei reclusi in spazi ancor più ristretti, con le limitazioni alla sorveglianza dinamica e alle attività interne; dall’altro con il mantenimento, al di là della persecutoria sospensione delle visite, di un’ampia e variegata rete di contatti con chi viene da fuori. Una volta di più, in occasioni come questa, si può cogliere la sensatezza dell’abolizione della prigione, perché il carcere è barbarie e i percorsi di sofferenza che produce sono evidenti e dannosi non solo per i soggetti coinvolti ma anche per la società. Continuare a sostenere il sistema carcerario significa in fondo autorizzare la pratica della cattiveria di Stato, con l’imposizione del dolore e della sofferenza ai ristretti. Non vi è alcun motivo di credere che lo spettro della prigione ridurrà la criminalità, è pertanto assurdo ritardare la ricerca di una soluzione non carceraria; questa situazione emergenziale per tutti, fuorché per i ristretti, lo evidenzia ancora maggiormente. Non sprechiamo l’ulteriore occasione che abbiamo per vedere cosa sono veramente questi luoghi di tortura: aboliamo il carcere, che vuol dire scegliere percorsi di pace per ridare dignità alle persone che commettono reati, ridurre la sofferenza e la vendetta di questi luoghi disumani che alimentano solo l’odio, ridare ai condannati la responsabilità per quanto hanno commesso affinché possano essere messi in grado di produrre gesti di restituzione del danno, di riconciliazione e di reinserimento sociale. *Portavoce “Movimento No Prison” Carceri, emergenza dimenticata di Alessandro Giordano* Il Messaggero, 20 novembre 2020 Un Paese moderno deve essere in grado di saper gestire le emergenze, ma anche di programmare il proprio futuro, sia prossimo che a lungo termine. Si tratta di scelte di indirizzo, non soltanto dettate dalla rincorsa del contingente, ma fondate su di una visione ad ampio raggio. I responsabili di una nazione efficiente, insomma, sono tenuti a governare l’oggi e il domani dei problemi degli amministrati. Cito, a mero titolo esemplificativo, i temi delle infrastrutture e del territorio, che necessitano di una programmazione anche per quanto riguarda gli interventi manutentivi dell’esistente prima che si verifichino delle tragedie, spesso annunciate, la gestione dell’inquinamento e dei rifiuti (ricordo in Germania che già nell’anno 1980 era stata avviata un’attenta raccolta differenziata, tanto che oggi, dopo quarant’anni, i tedeschi si collocano al primo posto in Europa in tale campo), le politiche della sanità, che devono tenere conto del fabbisogno di assistenza medica della popolazione nei decenni a venire, ma pure in caso di scenari critici e tanti altri. Anche il sistema carcerario nel suo complesso, dimenticato (spesso volutamente) dalla maggioranza della popolazione, rientra tra questi temi: uno Stato efficiente deve prospettarsi i fabbisogni futuri e supplire alle carenze di strutture e di personale con interventi risolutori, ma anche porsi il problema della gestione straordinaria, oggi costituita dalla pandemia da Covid-19 negli Istituti penitenziari afflitti dall’ormai cronica piaga del sovraffollamento. È infatti di poco tempo fa la notizia di nuovi casi verificatisi proprio all’interno della Casa Circondariale di Rebibbia. Già la scorsa Pasqua, in pieno lockdown, il Papa aveva rivolto un appello ai potenti al fine di trovare “una strada giusta e creativa” per risolvere il problema del sovraffollamento nelle carceri nell’epoca della diffusione del virus. In quella occasione avevo proposto alla Politica di approvare una normativa, non già demenziale, ma diretta ad applicare delle nuove misure alternative al carcere, più “agili”, come l’impiego in lavori socialmente utili di quei ristretti destinatari di pene brevi, non pericolosi, non macchiatisi di reati odiosi e non autori di disordini o sommosse (il suggerimento è stato pubblicato nella rubrica “Lettere” di questo giornale, mercoledì 15 aprile 2020). Una soluzione del genere permetterebbe di alleggerire il carico penitenziario in un periodo così delicato per la situazione sanitaria del Paese e di garantire l’esecuzione della pena in condizioni umane e non degradanti. Dunque, il messaggio di Papa Francesco oggi è sempre attuale, sia nell’ottica dello spirito evangelico diretto alla ricerca del bene comune, sia nella prospettiva laica, programmatica e gestionale, di uno Stato di diritto. Tuttavia, finora l’invito del Papa è rimasto senza eco, la pandemia continua a far sentire la sua voce, il legislatore il suo silenzio. *Magistrato presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma “Le prigioni scoppiano, che aspettate a varare amnistia e indulto?” di Viviana Lanza Il Riformista, 20 novembre 2020 Parla Ceraudo, pioniere della medicina penitenziaria. “L’Iran e la Turchia (non proprio un esempio di democrazia) hanno rilasciato i propri detenuti. Perché dobbiamo essere più khomeinisti degli ayatollah? La politica deve saper recuperare in un momento così grave e oscuro la dignità, la forza e il senso di responsabilità che le dovrebbe competere. Il Governo e il Parlamento devono avvertire la sensibilità di intervenire prima che sia troppo tardi per ridurre drasticamente la popolazione detenuta attraverso qualsiasi intervento di legge che sia aderente alla nostra Costituzione e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Francesco Ceraudo, pioniere della medicina penitenziaria, già direttore del centro clinico di Pisa e presidente del Consiglio internazionale dei servizi medici penitenziari, sottolinea la necessità di intervenire sul sistema carcere. “L’amnistia e l’indulto - spiega - in questo particolare momento costituiscono un atto significativo di medicina preventiva”. Dunque, non è solo un discorso di clemenza e garantismo. Viste le curve dei contagi e i dati sempre più allarmanti che arrivano dagli istituti di pena, la questione diventa anche di tipo strettamente sanitario. “L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stilato precise linee di comportamento per prevenire e controllare la diffusione del Coronavirus nelle carceri. Tra queste - osserva Ceraudo - assume un significato particolare il distanziamento che prefigura l’abitudine a stare ad almeno un metro di distanza. Questo non può essere assolutamente assicurato in carcere in preda a un cronico sovraffollamento, mentre è forte la difficoltà di rispettare accuratamente le norme igienico-sanitarie e le opere di sanificazione degli ambienti”. Come si può quindi immaginare di gestire la pandemia in un luogo dove la prima basilare regola di prevenzione e sicurezza, quella del distanziamento, non può essere rispettata perché non c’è lo spazio fisico per consentirlo? “Tra la popolazione detenuta è alto il numero delle persone maggiormente esposte al rischio di gravi conseguenze in caso di contagio: anziani, soggetti affetti da malattie pregresse, persone immunodepresse. Le carceri - dice Ceraudo - costituiscono delle bombe epidemiologiche. Vi è di fatto l’impedimento di approntare opportunamente degli spazi idonei per l’isolamento dei contagiati e la quarantena delle persone entrate in contatto con i contagiati. Pertanto devono essere messe in atto, con estrema urgenza, politiche deflattive, laddove le misure alternative al carcere devono trovare un legittimo riconoscimento”. Che il Covid potesse fare vittime anche all’interno delle carceri non era difficile da prevedere. Dopo i primi decessi per Covid nelle carceri piemontesi e toscane, l’altro giorno è accaduto anche a un detenuto del carcere napoletano di Poggioreale. Il sovraffollamento gioca un ruolo più cruciale che mai. “Il sovraffollamento carcerario al momento attuale si configura come una sorta di tortura ambientale e rende tutto più difficile e aleatorio. Sovraffollamento e promiscuità in ambienti fatiscenti sono gli elementi di una miscela esplosiva - sottolinea Ceraudo - Le celle piene di detenuti, con letti a castello fino a rasentare il soffitto, rassomigliano sempre più a porcilaie, a canili, a polli stipati nelle stie. Umanità ammassata, promiscuità assoluta che confonde e abbrutisce, unisce e divide, distrugge ogni rispetto, riservatezza e intimità e condanna inesorabilmente a una disperata solitudine. Di frequente si presenta la necessità di stare in compagnia di persone che non si sono scelte, talvolta non desiderate e non gradite, e dividere con loro ogni minuto di ogni giornata: rapporti sociali imposti o subiti; odori, rumori, sapori sporcizia di altri; promiscuità assoluta che degrada. Il carcere è stress”. Inoltre, “in carcere continuano a entrare a ritmo incalzante tossicodipendenti, extracomunitari, disturbati mentali, emarginati sociali, una fetta di umanità ferita e debole. E ora, come era facilmente prevedibile, siamo costretti a riscontrare il dilagare del Covid tra la popolazione detenuta e tra gli agenti di polizia penitenziaria e a contare, purtroppo, i primi detenuti deceduti. Temo - conclude Ceraudo - che esista un sommerso che supera ogni immaginazione”. Dal carcere si esce ma malati di mente o di tumore di Viviana Lanza Il Riformista, 20 novembre 2020 Circa il 40% dei detenuti che escono dal carcere dopo anni di detenzione presentano patologie psichiatriche o oncologiche. È una percentuale alta, che rende l’idea di come espirare la pena in celle sovraffollate, fra scarsa igiene e troppa promiscuità, con poca luce e poco spazio, e farlo per anni e anni, possa segnare duramente la mente e il corpo di un detenuto. Sono ferite interne. “Chi entra in carcere colpevole di aver commesso un reato rischia di uscirne vittima di malagiustizia o malasanità”, tuona il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. Il garante è in prima linea a tutela della salute dei detenuti, soprattutto in questo periodo di grande emergenza sanitaria causata dal Covid che avanza nelle carceri e fa moltiplicare i contagi. Nelle prigioni campane, in poche settimane, si è sfondato il tetto dei 500 contagiati fra detenuti reclusi nelle celle e personale in servizio negli istituti di pena. I detenuti positivi al Covid sono 202, gli agenti della penitenziaria 221 e 30 gli operatori socio-sanitari risultati positivi al virus. E, come se non bastasse, i posti per l’isolamento dei contagiati negli istituti di pena sono sempre più scarsi. In tutto questo la politica resta in silenzio e per sollecitare un intervento che contribuisca concretamente a risolvere il dramma delle carceri si stanno mobilitando soltanto garanti, cappellani e penalisti. Dopo aver incontrato nei giorni scorsi il prefetto di Napoli Marco Valentini, oggi il garante campano Ciambriello incontrerà il prefetto di Caserta Raffaele Ruberto. Si chiedono interventi da parte del governo Conte per alleggerire il peso del sovraffollamento negli istituti di pena, liberare spazi che possono servire a gestire meglio l’emergenza ed essere utilizzati per la quarantena e l’isolamento dei positivi. Il Covid, in questo momento, è un problema primario nelle carceri. Per sopperire alle più stringenti restrizioni che la zona rossa impone, sono state autorizzate le videochiamate tra i detenuti e i garanti, non solo con quello regionale ma anche con i garanti di Napoli, Pietro Ioia, di Caserta Emanuela Belcuore, e di Avellino Carlo Mele. Uno spiraglio riluce nel buio della pandemia. Mentre sullo sfondo restano le criticità di sempre, quelle che in decenni non si sono mai risolte. Quelle legate alla qualità di vita nelle carceri e alla qualità della tutela della salute dei detenuti. Vivere dietro le sbarre e in celle affollate può produrre un arresto del processo biologico di maturazione e una diminuzione delle facoltà sensoriali. Abituandosi alle minuscole dimensioni di una cella, si perde il senso della distanza e delle proporzioni e, assuefacendosi ai colori non naturali, si può cadere facilmente in alterazioni e infermità della vista. Inoltre il moto, ridotto ai soli spostamenti fra stanze e corridoi, incide sull’equilibrio fisico riducendolo. Per non parlare della sfera più intima, legata all’equilibrio psicologico: in carcere si perde l’intimità, non c’è riservatezza, si è costretti a convivere con persone che non si sono scelte e la solitudine diventa uno dei sentimenti prevalenti che, assieme a fattori come la privazione della libertà, la convivenza coatta, la monotonia, l’ozio, il microclima, la lontananza dai parenti, l’abolizione dei rapporti sessuali, le preoccupazioni processuali, l’esposizione al pubblico giudizio, la perdita dell’autodecisione, finiscono per diventare fonte enorme di stress e capaci di segnare il detenuto, nel fisico o nella mente. La legge impossibile sull’amore in carcere di Liana Milella La Repubblica, 20 novembre 2020 Si torna a parlare di stanze dove i detenuti possano incontrare privatamente le mogli e le carcerate i loro compagni, o stare per qualche ora con i figli. La Regione Toscana ritenta l’avventura dopo vent’anni che si parla di affettività e sesso dietro alle sbarre. In Europa è la regola, ne esistono dall’Albania alla Svizzera, dalla Germania alla Spagna, ma in Italia sono ancora un tabù. Esistono i miraggi. E le “camere dell’amore”, nelle carceri italiane, sono uno di questi. Il detenuto che, per 24 ore o anche per meno, riesce a ricongiungersi con la sua famiglia. Vede i figli. Prepara un pasto e mangia con loro. Ha un rapporto con la sua donna, moglie o compagna che sia. In un ambiente, anche solo una stanza, che sembra quello di casa. Una parentesi “rosa” nella pena oscura. Per rivivere e desiderare il mondo che c’è all’esterno. Fuori dall’Italia i momenti di vera affettività, anche se stai chiuso in galera, sono considerati giusti. E pure importanti. Lo sono in tanti paesi. Tanto per citarli in ordine alfabetico, Albania, Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera. In Italia no. Per colpa di un pregiudizio. Perché la pena serve solo se è la peggiore possibile, se ti fa soffrire, se azzera i tuoi diritti, se ti abbrutisce. Così non delinquerai più perché avrai paura di tornare in prigione. Di solito funziona al contrario, il carcere cattivo fa diventare più cattivi. Chi, da sempre, crede nella tesi opposta, come Franco Corleone, ci riprova. Insiste da 20 anni. Ostinato, con le alleanze necessarie, pronto a citare un maestro come Alessandro Margara, giudice giusto, padre della legge Gozzini, che fu anche un grande capo delle carceri. Ed ecco che, con la sua regia dietro, le “camere dell’amore” in carcere si materializzano al Senato. In commissione Giustizia. Con una legge presentata dalla Regione Toscana, poiché le Regioni hanno il diritto di mettere sul tavolo le loro proposte e magari di vedersele pure approvate. Dietro c’è sempre lui, l’ex sottosegretario alla Giustizia Corleone (con Flick, con Fassino, con Diliberto), che in Toscana è stato Garante dei detenuti. E ha lavorato con Stefano Anastasia che è il Garante nel Lazio. Pochi articoli, quanto basta. Una relatrice che ci crede, la Dem Monica Cirinnà che battezza la sfida subito, “è una legge di grande civiltà”. E uno sponsor come il capogruppo del Pd Franco Mirabelli che sul carcere migliore di quello che è adesso, in questa legislatura, non s’è certo risparmiato. Ma l’opposizione è già in agguato, pronta a sciorinare paure che fanno presa su chi vuole avere paura. Allusioni grossier, come quella di Balboni, senatore della Meloni, che parla di “droga nascosta negli orifizi corporei”. Come se ignorasse che anche adesso, per un colloquio, si viene attentamente perquisiti. Figurati per entrare e vivere nella “stanza dell’amore”. Il primo round comunque va a loro, alla destra, perché la legge non sarà approvata in commissione ma dovrà andare in aula. Dove i numeri sono a rischio perché anche dentro M5S ci sono perplessità. C’è poi una coincidenza che potrebbe fare breccia in negativo. Riguarda la scelta dei tempi. Se c’è il Covid, se già le carceri sono in affanno, se il virus si propaga, se le distanze non vengono rispettate o si fatica a rispettarle, come sempre del resto, vagheggiare la “stanza dell’amore” sembra come aprire il libro dei sogni. E, in fondo, un po’ lo è. Ma anche su questo Corleone ha la risposta pronta: “A chi obietta che la proposta sull’affettività non è la priorità perché c’è la pandemia ricordo che nel maggio 1978, pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, il Parlamento approvò la legge 180 e sempre a maggio quella sull’aborto. Nessuno obiettò che c’era il terrorismo. Ma forse erano altri tempi”. Libro dei sogni? Basta andarsi a leggere il primo articolo della proposta di legge per rendersi conto che non lo è: sotto il titolo “Rapporti con la famiglia” ecco le modifiche alla legge Gozzini sull’ordinamento penitenziario del 1975. Tra gli scopi del carcere, teso alla rieducazione del condannato, quello nuovo recita: “Particolare cura è altresì dedicata a coltivare i rapporti affettivi. A tale fine i detenuti e gli internati hanno diritto a una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore, delle persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in apposite unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi”. In queste poche righe c’è l’annuncio delle “stanze dell’amore” e dell’ingresso anche, ma non necessariamente, di una sessualità sana in carcere. “È quello che ho visto già vent’anni fa quando, in vista di questa stessa legge, ho fatto un sopralluogo in Europa”. Corleone ce l’ha ancora negli occhi quelle visite: “In Svizzera trovai un’unità immobiliare separata dal resto del carcere. In Olanda c’erano stanze in buone condizioni, ma non edifici distinti dal resto della prigione. In Spagna, sia a Barcellona che a Madrid, erano ugualmente previste”. Ma la sua proposta di cambiare solo l’ordinamento penitenziario fallì, il Consiglio di Stato si mise di traverso, espresse un parere contrario scrivendo che era assolutamente necessaria una legge e non bastava soltanto mettere mano all’ordinamento penitenziario. Da quel momento l’ipotesi delle camere dell’amore è rimasto lettera morta. Anche se la Consulta, a più riprese, ha ribadito il diritto all’affettività anche per un condannato. Non ha avuto fortuna neppure l’ex Guardasigilli Andrea Orlando quando a Milano nel 2018 ha organizzato gli Stati generali sul carcere. L’innovazione rivoluzionaria delle stanze dell’amore era prevista, ma - come ricorda Glauco Giostra, il docente di procedura penale a Roma che aveva collaborato con l’intero progetto - si arenò di fronte alle troppe perplessità che via via si rovesciarono sul tavolo del Guardasigilli. Che alla fine accettò di stralciarla. Dei tentativi simili nel frattempo non sono mancarti. Come quello del carcere di Bollate dove dal 2005 l’allora direttrice Lucia Castellano aveva sperimentato, ma solo per le famiglie che avevano dei problemi, stanze che simulavano un ambiente domestico, con una cucina, un angolo cottura, in cui le famiglie si potevano riunire, ma venivano sempre monitorate dai poliziotti che si mantenevano all’esterno senza però essere invasivi. Adesso Corleone rilancia la sua sfida, che parte da una frase di Margara: “Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile, in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà”. Così disse Margara l’11 marzo del 1999 davanti alla commissione Giustizia della Camera. Già allora il testo riconosceva il tema dell’affettività “nell’ambito dei rapporti con la famiglia” come uno degli elementi del trattamento previsto dalla legge penitenziaria. I detenuti avrebbero avuto la possibilità di trascorrere con i propri familiari fino a ventiquattro ore consecutive in apposite unità abitative realizzate all’interno dell’istituto penitenziario. Dopo vent’anni si riparte da lì, ma questa volta con una legge. Fuori dal carcere i bambini! Basta poco perché sia realtà imgpress.it, 20 novembre 2020 Bambini detenuti nelle carceri italiane: è una realtà che non può essere più accettata. Se ne contavano 33 nel mese di ottobre, qualcuno in compagnia di un fratellino / sorellina, essendo 31 le mamme, secondo le statistiche del Ministero della Giustizia. Possono sembrare numeri piccoli, ma se si pensa alle conseguenze che la detenzione ha sul piano psicologico, emotivo e fisico di un bambino piccolo, la portata del fenomeno è devastante e inaccettabile. Per questo A Roma, insieme, La Gabbianella e Terre des Hommes chiedono con urgenza che venga riformata, con interventi non più procrastinabili, la legge 62/2011 che, oggi, permette questo. L’Italia deve disporre di una legislazione in materia di infanzia in grado di assicurare sempre il rispetto del superiore interesse del minore e questo, a maggior ragione, se i bambini destinatari delle sue disposizioni vivono una condizione di estrema vulnerabilità, quale quella causata dalla detenzione con la propria mamma. Pur animata da nobili finalità, quella legge fu un tentativo non riuscito di migliorare la condizione dei bambini a rischio di detenzione, come dimostra il corso dei dieci anni di applicazione della legge. Infatti, a causa di storture e limiti di applicazione della legge, paradossalmente l’hanno per taluni versi aggravata. Oggi ad esempio è previsto che un bambino possa rimanere nel carcere (o in una struttura di detenzione attenuata quali sono gli Icam) sino ai 6 anni, quando prima il limite era 3. Inoltre la legge, pur introducendo, finalmente l’istituto delle Case Famiglia Protette, alternativa concreta alla detenzione, nei fatti non le rende facilmente accessibili, prevedendo, tra le altre cose, che non vi siano oneri a carico dello Stato per il loro sostentamento. Questi e molti altri sono gli elementi che fanno richiedere una tempestiva riforma dell’attuale disciplina, che permetta finalmente di rispondere ai bisogni di protezione, cura, assistenza e promozione del diritto del bambino di vivere e crescere davvero in un ambiente adatto alle sue necessità. Cosa chiediamo: Che il numero di bambini che ancora oggi varcano la soglia del carcere con la madre detenuta (in misura cautelare o in esecuzione pena) sia il più basso possibile considerando la carcerazione, anche attenuata nelle Icam, l’estrema ratio; Che al 3° anno di età i bambini siano obbligatoriamente fatti uscire dal carcere e/o dagli Icam e la madre sia sempre coinvolta nel percorso di uscita del figlio, permettendole di svolgere quel naturale ruolo “ponte” con l’esterno, che eviterebbe al bambino un trauma all’atto della separazione; Che dal 9° mese di vita i bambini presenti in carcere o Icam siano inseriti in strutture per l’infanzia, esterne al sistema penitenziario; Che nell’ottica di ridurre al massimo la frequentazione dei luoghi carcerari da parte del bambino, siano favorite attività ulteriori rispetto al nido e alla scuola dell’infanzia: laboratori, iniziative di svago e gioco etc. In quest’ottica sia quindi promosso e favorito l’istituto dell’affidamento diurno (affidamento ad una famiglia e/o singola persona individuata dal Comune che accoglie il bambino durante il giorno, mentre la sera e in caso di malattia il bambino resta con la madre). Solo ed esclusivamente per le residue ore in cui il bambino è costretto a frequentare il carcere si chiede che tali attività siano previste anche al suo interno. Una proposta di riforma della legge, quella a firma dell’On. Siani, riprende gran parte di queste richieste, ma non è stata ancora calendarizzata la sua discussione in aula della Commissione Giustizia alla Camera. Le tre organizzazioni invitano dunque il Parlamento a riattivare urgentemente il dibattito sul tema, per permettere l’approvazione di alcune modifiche all’attuale impianto normativo, non più rimandabili. “Non si può crescere bene tra mura intrise di dolore” è la frase guida del mio libro “Uscire di carcere a 6 anni (Franco Angeli Editore)”, dichiara Carla Forcolin, presidente dell’Associazione La Gabbianella. “I bambini devono stare in carcere il minor tempo possibile. Se proprio devono seguire la madre in istituti di pena, dagli stessi devono uscire presto e, finché la madre è lì, devono comunque frequentare l’asilo nido e la scuola materna. Io sono da sempre contraria all’istituzionalizzazione. La Gabbianella è un’associazione che nasce sulle tematiche dell’affidamento. Credo che se i Comuni in cui ci sono istituti di pena dessero a persone “solidali” il compito di accompagnare i bambini fuori per molte ore, diciamo fino a sera, e poi queste persone (educatori o persone appositamente formate e seguite) li riportassero dalla mamma, i bambini non subirebbero quella deprivazione di stimoli, rapporti, esperienze, conoscenze, linguaggi, che il carcere porta purtroppo con sé”. “La legge 62/11 ha introdotto finalmente l’istituto delle Case Famiglia Protette, ma troppo esiguo è il ricorso a questa soluzione. Si sceglie ancora troppo il carcere o, in alternativa l’ICAM - Istituto a Custodia Attenuata per Madri, come fosse la soluzione e dimenticando invece che anche questa è una struttura fondamentalmente carceraria, non adeguata a rispondere al bisogno di un bambino di poter crescere i primi anni della vita con la mamma” afferma Federica Giannotta, Responsabile Advocacy e Programma Italia di Terre des Hommes. “Ci riconosciamo in generale nei contenuti e finalità della proposta di legge di cui è primo firmatario l’On. Siani. Su di essa, come su altre proposte riguardanti questo tema specifico, si apra finalmente in Parlamento un vero confronto e il legislatore decida, su una linea di indirizzo che abbia riguardo innanzitutto all’interesse del bambino, alla salvaguardia del rapporto di affettività genitore figlio. La legislazione penale italiana in questo campo attende finalmente segni concreti di misure improntate alla umanizzazione della pena che siano degne di un paese civile”, ricorda Giovanna Longo, presidente di A Roma, insieme. Associazione A Roma, insieme Giovanna Longo Presidente aromansieme@gmail.com La Gabbianella e altri Animali Carla Forcolin Presidente info@lagabbianella.org Fondazione Terre des Hommes Italia onlus Federica Giannotta Responsabile Advocacy e Programmi Italia f.giannotta@tdhitaly.org No agli educatori in divisa! camerepenali.it, 20 novembre 2020 Pubblichiamo il documento dell’Osservatorio Carcere in merito al disegno di Legge n. 1754, che prevede l’accorpamento dei funzionari giuridico-pedagogici del Dap del Ministero della Giustizia ai ruoli tecnici del Corpo di Polizia Penitenziaria. Apprendiamo della discussione, in sede redigente, presso la Commissione Giustizia del Senato del disegno di legge n. 1754 a firma dei Senatori D’Angelo, Riccardi, Romano, Angrisani, Donno e Leone, che prevede l’accorpamento dei funzionari giuridico-pedagogici del Dap del Ministero della Giustizia ai ruoli tecnici del Corpo di Polizia Penitenziaria. La relazione illustrativa invoca l’esigenza di conferire maggiore effettività alla funzione rieducativa della pena, ostacolata da frequenti dispute tra istanze di risocializzazione e istanze di sicurezza fra tutti gli operatori penitenziari dell’esecuzione penale intramuraria, in ragione di un assetto organizzativo dicotomico dei profili professionali, che coinvolge nell’attività di osservazione e trattamento dei detenuti sia il personale di Polizia Penitenziaria, sia i funzionari dell’Area giuridico - pedagogica. L’accorpamento dei secondi nei ruoli tecnici della Polizia Penitenziaria - secondo i proponenti - perseguirebbe la finalità di garantire una maggiore armonia ed un’osmosi culturale professionale tra il personale di polizia penitenziaria ed i funzionari giuridico pedagogici. In realtà, siamo preoccupati per l’evidente rischio che la dichiarata finalità dell’armonizzazione possa comportare una pericolosa e distorta omologazione dei funzionari giuridico pedagogici alla Polizia Penitenziaria, con l’inevitabile conseguenza di rafforzare l’istanza securitaria, prevalente nel corpo di polizia, in danno della istanza di risocializzazione scolpita nella nostra Costituzione. Il trattamento rieducativo rappresenta un principio cui deve tendere l’impegno quotidiano di ogni singolo operatore, compreso quello del personale di polizia penitenziaria, non più legato in maniera esclusiva alla sicurezza e al controllo. Un passaggio, quindi, opposto rispetto a quello disegnato nella proposta di legge in questione. È vero, come scrivono i proponenti, che il punto 79 delle “Regole Penitenziarie Europee” prevede il godimento delle stesse condizioni e benefici economici tra gli operatori penitenziari in senso lato ed il personale di polizia penitenziaria, ma è altrettanto vero che proprio le stesse “Regole Penitenziarie Europee” segnalano, più volte, la netta separazione tra i diversi operatori professionali e soprattutto, al punto 71, l’autonomia della gestione degli istituti penitenziari “dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale” In buona sostanza, se occorre valorizzare la professionalità dei funzionari giuridico pedagogici anche attraverso riconoscimenti morali ed economici, non si comprende come mai tutto ciò debba essere perseguito attraverso il loro passaggio al Comparto Sicurezza o, addirittura, costringendo queste professionalità, che nulla hanno a che vedere con le funzioni tipiche della Polizia, ad indossare una divisa. Ancora meno comprensibile appare la previsione, nella proposta di legge in discussione, della riserva di un quinto dei posti disponili nel citato ruolo tecnico al “personale appartenente al Corpo di polizia penitenziaria”, attribuendo, addirittura, a parità di merito, titolo di preferenza alla citata appartenenza. Preoccupa, in buona sostanza, il pericoloso salto nel passato che una simile proposta di legge rappresenterebbe, tradendo l’ispirazione progressista che indusse, con la riforma dell’Ordinamento penitenziario di circa quarant’anni fa, a prevedere figure professionali diverse da quelle in divisa, per accompagnare i detenuti nel loro percorso trattamentale. Inquieta, infine, il fatto che una decisione così grave - che ignora la complessità di un risalente dibattito su questi temi (basti pensare alle forti obiezioni che analoghe proposte avevano incontrato, qualche anno addietro, nel pertinente tavolo degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale) - sia stato calendarizzato in Commissione Giustizia in sede redigente, con il rischio di una mortificazione anche del dibattito parlamentare. Se davvero siamo in presenza di dispute tra le istanze securitarie e quelle risocializzanti, si apra un confronto a più voci, convocando un tavolo di discussione tra operatori, esperti di settore e mondo accademico per valorizzare e rendere il giusto riconoscimento economico e professionale alla funzione svolta dal personale educativo senza alcuna militarizzazione L’Osservatorio Carcere Ucpi La giustizia spettacolo stritola gli innocenti: “Sembra di essere tornati al Medioevo” di Simona Musco Il Dubbio, 20 novembre 2020 Intervista a Enzo Ciconte: “La legge dello scioglimento va rivista. La magistratura non ha sempre ragione e chi fa politica deve avere un proprio punto di vista autonomo e fare battaglia per affermarlo”. “La legge dello scioglimento va rivista. La magistratura non ha sempre ragione e chi fa politica deve avere un proprio punto di vista autonomo e fare battaglia per affermarlo, anche quando ci sono accuse pesanti. Oggi una semplice indagine comporta l’abbandono dell’amministratore coinvolto”. A scrivere queste parole è Enzo Ciconte, fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle associazioni mafiose, docente di ‘ Storia delle Mafie Italianè all’Università di Pavia ed ex deputato Pci. Uno di quelli che la legge sullo scioglimento dei Consigli comunali l’ha vista nascere mettendoci mano. Ma quella legge, nata come emergenziale, denuncia oggi Ciconte, va cambiata. “Perché la scelta di sciogliere un’amministrazione - spiega al Dubbio - è inevitabilmente politica”. E, soprattutto, lascia su troppi innocenti uno stigma gratuito di mafiosità. Professore, perché questa legge secondo lei non è efficace? Il problema, sin da quando abbiamo fatto la legge all’epoca ero deputato -, è che, essendo una decisione che passa dal ministero dell’Interno, si tratta inevitabilmente di una scelta politica. Quanto pesa la componente politica nel giudizio? Molto. Se tu sciogli organismi politici elettivi e questa decisione la fai prendere ad un organismo di governo è chiaro che la tentazione di sciogliere i tuoi avversari ci sta. Ma l’altro aspetto che stride è che teoricamente la ratio della legge è “liberarsi” degli amministratori collusi e fare in modo che si eleggano cittadini che non siano nella condizione di far infiltrare il Consiglio. Ma questo non è avvenuto: ci sono Comuni le cui amministrazioni comunali vengono sciolte più e più volte. Cos’è, una tara di quel Comune? È nel suo dna avere amministratori mafiosi? O il problema non riguarda tanto gli amministratori quanto l’apparato burocratico? Vuol dire che c’è un meccanismo che non funziona. Perché l’apparato burocratico non viene rimosso. Quindi qual è la soluzione? Di questa questione se n’era occupata la Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi, che proponeva di accompagnare, anziché scioglierlo, il Consiglio comunale, con un sostegno esterno in grado di guidare e aiutare l’amministrazione a non cadere in questi errori. C’è un eccessivo uso discrezionale delle parentele come causa di scioglimento. Nei piccoli paesi, però, è quasi scontato avere parenti anche scomodi, ma ciò non significa nulla: perché dovrebbe essere un criterio per sciogliere un’amministrazione? È arrivato il momento di affrontare questo problema. Nelle relazioni non risulta mai che ogni singolo consigliere sia veicolo di infiltrazione. Allora perché si deve affibbiare lo stigma a tutti quanti? Se ci sono persone perbene, perché vanno messe nel calderone come gli altri? Il problema, però, c’è sempre stato... La maggior parte degli scioglimenti è sicuramente corretta, però gli errori e le forzature sono parecchi e per evitarli è giusto modificare la legge, a tutela dell’onorabilità di persone che non c’entrano nulla con la mafia e non possono finire in questo calderone senza avere alcuna responsabilità. Perché quel marchio ti rimane, non viene cancellato. Il caso Bassolino dimostra che basta un’indagine per distruggere un amministratore... La sua storia è clamorosa e vergognosa. Non è possibile subire 19 processi e che tutti finiscano male per la pubblica accusa. Due sono le cose: o era un atto politico per mettere sotto accusa una persona di rilievo oppure c’è un’incapacità nel fare le indagini. Non c’è altra spiegazione. Però ad abbandonarlo sono stati la politica e parte dell’opinione pubblica... Sì, perché c’è stato un lungo periodo, in Italia, per cui si è dato per scontato che l’attività della magistratura fosse salvifica. E quindi ci si è affidati alla magistratura per risolvere i propri problemi. Nel momento in cui si fa questa operazione, che è culturale, si rinuncia ad avere un punto di vista autonomo. Ciò spesso impedisce di capire dove la magistratura fa bene e dove fa male, perché i magistrati possono sbagliare, come tutti gli altri. Però l’idea che si tratti di “super eroi” è molto diffusa... Una delle responsabilità serie del movimento antimafia in Italia è stata quella di avere delegato alla magistratura la soluzione del problema della mafia. Abbiamo guardato le cose come se fossimo degli spettatori, chiedendo ai magistrati che risolvessero il problema per conto nostro. Ma il problema non si risolve da un punto di vista giudiziario. È una questione sociale, culturale, politica. Ci sono atteggiamenti che non hanno a che fare con il codice penale: la magistratura può intervenire sui fenomeni mafiosi macroscopici, però per il resto devono intervenire la politica, la chiesa, la scuola. Un altro esempio di questi giorni è quello dell’ex rettore de La Sapienza, Eugenio Gaudio: dopo la sua nomina a commissario della sanità calabrese i giornali hanno tirato fuori la vecchia indagine sui concorsi truccati a Catania e l’opinione pubblica lo ha crocifisso... Bisogna capire che una comunicazione giudiziaria non significa nulla. Questo caso, come quello di Bassolino, sollevano un problema di rapporti tra magistratura, opinione pubblica e politica di grande livello. Non so se c’è lo spirito necessario per affrontarlo con la dovuta serenità. Come si potrebbe agire per interrompere questo circolo vizioso? Se il giornalista, anziché fare l’inchiesta, si affida alla velina della magistratura o prende per ora colato quello che dice la magistratura senza approfondire, non fa il suo mestiere, fa un’altra cosa. C’è un problema della stampa, della magistratura, della politica e dell’economia, perché le forze economiche hanno interesse a fare queste cose. Bisogna mettere insieme tutto questo e ragionare serenamente. Non è possibile che avvengano queste cose, è un fatto di civiltà. Sul suo profilo Facebook, ha ricordato quando Pino Commodari, nel 1991 assessore ai lavori pubblici del Comune di Sant’Andrea Apostolo sullo Jonio, fu arrestato e mostrato nei tg nazionali con le manette ai polsi. Perché? Rimasi sconvolto nel vedere un mio compagno di partito - lo conoscevo bene e tutto poteva essere meno che un mafioso - sbattuto in tv con le manette ai polsi, come Enzo Tortora. Un arresto che, poi, si rivelò, sbagliato: lui e il sindaco Mimmo Frustagli furono scagionati e risarciti per ingiusta detenzione e lo scioglimento del Consiglio comunale annullato. Perché è stato esibito in quel modo? Prendiamo il modo in cui i giornalisti hanno trattato Bassolino: quanto tempo è durato e con quanta evidenza il racconto sulle accuse e quanto quello sull’assoluzione? Una sproporzione pazzesca. C’è una distorsione, un corto circuito, e non se ne riesce a venire a capo. La cosa che a me interessa è salvaguardare gli innocenti. Oggi, però, posso dire che siamo tornati al medioevo. E l’Anm si scoprì ingovernabile: avanti con Poniz e 4 commissari di Errico Novi Il Dubbio, 20 novembre 2020 No di “Mi” al “nazareno” con Area, l’esecutivo provvisorio durerà mesi. È l’Anm più spaccata dell’ultimo ventennio. Domani si va a una riunione del “parlamentino” drammatica. Con Area e Unicost che non potranno confidare nell’appoggio esterno di “Autonomia & Indipendenza”, il gruppo fondato da Piercamillo Davigo. Se una giunta e un presidente potevano esserci, per l’Associazione magistrati, dipendeva dagli intransigenti magistrati di “A&I”. Alla loro disponibilità ad accordare una fiducia limitata e istituzionale al gruppo progressista e a quello centrista. Disponibilità che non c’è. A 24 ore dal direttivo più teso che si potesse immaginare, non si vede dunque all’orizzonte una rinnovata investitura “politica” per Luca Poniz, di Area, presidente uscente ma anche candidato più votato al parlamentino. Resterà sì, ma in prorogatio. Sono naufragati i tentativi compiuti negli ultimi quindici giorni di costruire un esecutivo esteso a tutti. Unicost e Area non sono arrivati a persuadere l’avversario, Magistratura indipendente. Sabato 7 novembre, a quasi tre settimane dalle elezioni Anm del 18- 20 ottobre, l’assise togata si era riunita per la prima volta. Senza esito. Parità di seggi perfetta fra l’unico blocco solidamente unito, Area e Unicost appunto, e il resto del mondo. I progressisti guidati da Poniz hanno ottenuto 11 seggi, i centristi “affrancatisi” dalla leadership debordante ma anche vincente di Palamara si sono fermati a 7: fa 18 seggi. Nell’altra metà campo, Magistratura indipendente, la corrente “moderata”, arricchita dal gruppo, coalizzato in una lista unitaria, di Movimento per la Costituzione, ha preso solo un seggio in meno di Area, dunque 10. Ne hanno ottenuti 4 a testa sia i davighiani di “A& I”, capitanati da un magistrato di grande lucidità ed esperienza associativa come Aldo Morgigni, sia gli “antisistema” di Articolo 101, il gruppo ribelle contrario alla stessa configurazione per correnti che oggi persiste nel Csm. Anche qui ovviamente fanno in tutto 18: stallo totale. Che ha trascinato nel labirinto delle distanze incolmabili i 36 “deputati in toga” per un intero weekend. Estenuati dal nulla di fatto, domenica 8 novembre si è convenuto di sospendere i lavori. E non per qualche ora: per due settimane. Ora ci siamo: domani si riscende in campo. La giunta unitaria non c’è. A dire il vero persino alcuni in “Mi” l’avevano accarezzata. Ad esempio Antonio Sangermano. Fa il procuratore presso il Tribunale dei minori di Firenze, nella vita di tutti i giorni, ma è anche il cofondatore, con Enrico Infante, di Movimento per la Costituzione, il sopraricordato gruppo fuoriuscito da Unicost e alleato con “Mi”. Ebbene, Sangermano aveva parlato l’altro sabato di “giunta covid”: “Di fronte a quanto accade non dobbiamo dividerci, il momento è drammatico”. Ma ha posto una condizione: “Discontinuità”. Su due versanti. Primo, non si può andare avanti con l’idea che “Mi” avesse quella che Sangermano ha definito una “responsabilità tribale” sul caso Palamara, così riassumibile: Ferri e al centro del caso, Ferri è il capo storico di “Mi”, tutta “Mi” è coinvolta. Ha chiesto, Sangermano, il riconoscimento che la questione morale riguarda tutti, e che non si possa trattare più il fronte moderato come accolita di appestati. Però ha preteso pure la testa di Poniz. “Colpevol” in quanto presidente della giunta senza “Mi”: non può ora, dicono i “moderati”, essere al vertice di una nuova che accoglie i figlioli prodighi. E qui però entra in gioco il giusto diritto di Area. Poniz è stato il più votato alle elezioni del 18- 20 ottobre, e non di poco: 739 preferenze; ha staccato di oltre 300 lunghezze il secondo dei magistrati eletti al direttivo, Salvatore Casciaro di “Mi” (scelto da 415 colleghi). Nella lista di Area, a seguire Poniz è invece Silvia Albano (381 voti), figura di spessore notevolissimo ma idealmente portatrice delle istanze più schiettamente progressiste, quelle di Magistratura democratica, componente interna ad Area ma dotata di propria autonomia. Area però non vede perché dovrebbe forzosamente addivenire all’ipotesi di una giunta presieduta da Albano. Che certo, sarebbe la seconda presidente donna nella storia dell’Anm e che forse avrebbe attenuato le ruvidezze di “Mi”. Ma è legittimo pretendere da chi, come Area, esprime non solo il maggior numero di voti alla lista ma anche il candidato nettamente più votato, che rinunci a proporre quell’eletto come presidente? No. Ed ecco lo stallo, che non sarà risolto neppure domani. I 4 eletti di Autonomia & indipendenza lamentano di aver visto scivolare le priorità indicate ai colleghi in fondo alla lista di un ipotetico “governo” guidato ancora da Poniz. Ci si chiederà: e quindi? Risposta: si va avanti con Poniz a oltranza. L’uscente, eletto di nuovo, resta in carica accompagnato da un delegato per ciascuno degli altri quattro gruppi. La prorogatio infinita? Sì, non c’è alternativa. Ieri è andata così: incontro telematico tra il ministro Alfonso Bonafede e i 5 rappresentanti della giunta “provvisoria”: con Poniz, il citato Casciaro per “Mi”, i due più votati di Unicost, ossia Alessandra Maddalena, e di “A&I”, Morgigni. Articolo 101 ha scelto non l’eletto con più preferenze, Andrea Reale, ma la prima delle magistrate donna per numero di preferenze, Ida Moretti. Argomento della call con il guardasigilli: non fate morire di covid né noi né avvocati e cancellieri, Tanto per dire: dei 36 eletti al direttivo, 3 si sono infettati. Il Pg di Torino: stop ai termini di scarcerazione, rischiamo di liberare gente pericolosa Gazzetta del Mezzogiorno, 20 novembre 2020 “Lo Stato eviti la scarcerazione degli imputati”. Dopo l’allarme per i processi di mafia del Procuratore di Torino, Anna Maria Loreto, anche il Procuratore generale del Piemonte, Francesco Saluzzo, chiede un intervento normativo, o in alternativa la revisione delle linee guida sanitarie negli istituti penitenziari, per celebrare i processi che oggi si devono misurare con le stringenti previsioni a contrasto del pericolo di contagio. La proposta non piace però alla Camera Penale, che invoca “lo Stato di Diritto” e la “presunzione di innocenza”. La questione riguarda i collegamenti in videoconferenza fra le aule di tribunale e le carceri: una soluzione che permette ai giudici di celebrare un’udienza con il detenuto presente (sia pure “a distanza”). Ma se l’imputato è positivo non se ne fa nulla, neppure se si tratta di un asintomatico. La conseguenza è uno stop del processo con uno slittamento anche di parecchie settimane. In Piemonte, in particolare, è successo nel corso del dibattimento di ‘ndrangheta chiamato “Carminius-Fenice” davanti al tribunale di Asti. Uno dei numerosi imputati, positivo al Covid ma asintomatico, ha fatto sapere che non intendeva rinunciare a seguire l’udienza. Allestire il collegamento, però, non è stato possibile, e ai giudici, in base alla procedura, non è rimasto che aggiornare i lavori. La dilatazione dei tempi, oltre ad allontanare il giorno della sentenza, avvicina quello delle scarcerazioni “facili”. Anche di chi, una volta fuori, potrebbe “riappropriarsi degli spazi criminali sul territorio”. Ecco perché per il Procuratore generale del Piemonte “sarebbe necessario, pur nel rispetto del termine massimo complessivo della custodia cautelare, che venisse previsto che la sospensione dei predetti termini per la fase processuale in corso operasse non solo per l’imputato che abbia un impedimento di carattere sanitario”, ovvero perché positivo, “ma per tutti gli altri coimputati - detenuti - nel medesimo processo”. Non la pensa così l’avvocato Alberto De Sanctis, presidente della Camera penale del Piemonte occidentale. “I termini di custodia cautelare sono necessari per tutelare il principio di presunzione di innocenza”, sostiene ricordando che “il nostro è uno Stato di Diritto che tutela la presunzione di innocenza. Quegli imputati sono tutti presunti innocenti, non sono colpevoli che devono “solo” essere condannati. Pertanto, i termini di custodia cautelare non possono essere dilatati oltre il ragionevole”. “Processo penale, lo Stato risarcisca i cittadini assolti: chi ha torto paga” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 20 novembre 2020 Emendamento di Enrico Costa (Azione) alla legge di bilancio. È pronto per essere presentato dall’onorevole Enrico Costa (Azione) l’emendamento alla legge di Bilancio per la “modifica delle norme in materia di spese di giustizia”, con la previsione del “risarcimento” da parte dello Stato nei confronti del cittadino assolto al termine del processo. L’emendamento prevede che “se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, l’imputato ha diritto di ripetere dallo Stato tutte le spese sostenute per il giudizio”. Nel penale, al contrario di quanto avviene nel processo civile e in quello amministrativo, il pagamento delle spese di giustizia e delle spese legali non segue la regola della soccombenza. Dunque, anche in caso di proscioglimento o di assoluzione con le formule ampiamente liberatorie (perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non ha commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato) le spese legali restano a carico dell’imputato. A nulla vale che questi sia riuscito a dimostrare la propria estraneità al reato o l’insussistenza di qualunque fatto di rilevanza penale. Allo stesso modo a nulla vale che lo Stato abbia esercitato “erroneamente” la propria pretesa punitiva, sottoponendo senza ragione la persona al lungo ‘ calvario’ delle indagini e del processo. Secondo Costa, “questa peculiarità negativa del processo penale contraddice non solo il comune buon senso e i più ovvi criteri di giustizia sostanziale, i quali peraltro dovrebbero rappresentare la stella polare della legislazione, ma anche i princìpi cardine dello Stato di diritto e della Costituzione”. La regolamentazione delle spese di lite è processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che la definisce in quanto tale ed è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito. Il “normale complemento” dell’accoglimento della domanda è costituito proprio dalla liquidazione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa, come scrive la Consulta nella sentenza n. 77 del 2018. La regola della soccombenza non ha una portata assoluta e ben possono esistere situazioni eccezionali che giustificano la compensazione delle spese, cui in ogni settore dell’ordinamento si conferisce rilievo. Il processo penale, rappresentando quindi un “unicum” rispetto al sistema processuale civile e amministrativo, dove vige come detto la regola della soccombenza, appare, sempre secondo Costa “del tutto privo di ragionevolezza e quindi in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione: Non si comprende, infatti, perché la parte pubblica, ove soccombente, non possa essere chiamata a rifondere le spese processuali, almeno nel caso di assoluzione con una formula ampiamente liberatoria”. Neppure può invocarsi una presunta esigenza di salvaguardare le finanze pubbliche. A conforto di ciò, vale la pena ricordare un’ampia casistica di esperienze comparatistiche: in ben ventotto Stati del Consiglio d’Europa sono previste, pur con accezioni diverse, forme di ristoro delle spese legali a beneficio del soggetto assolto con una formula ampiamente liberatoria. Sì a una legge che vieti di usare a sproposito la parola “colpevole” di Silvia Vono* Il Dubbio, 20 novembre 2020 Nel nostro Paese il principio di non colpevolezza ha subito un’evoluzione tormentata. È passato attraverso accese dispute, ma continua a restituirci l’affermazione del diritto al più alto grado della gerarchia delle fonti. Ciononostante, il riconoscimento di questo diritto non è bastato a garantirne un soddisfacente livello di attuazione. Occorre comprendere nella giusta luce il profondo significato di questa garanzia, le ampie potenzialità che vi sono sottese, le ragioni della sua evoluzione e affermazione, per avvedersi della funzione propulsiva e riformista che la presunzione di non colpevolezza riveste nel sistema processuale. Non è un caso che detto principio sia accolto negli ordinamenti moderni e recepito a livello europeo come un diritto fondamentale dell’uomo. Tuttavia, credo per una questione culturale, ancora appare difficile ad alcuni, sebbene legislatori, comprendere e recepire il senso, non solo giuridico, della garanzia che questo principio assicura a qualunque persona, la cui colpevolezza dev’essere legalmente provata prima di essere utilizzata impropriamente nelle dichiarazioni pubbliche. In una società in cui il crescente rancore sociale si è trasformato in cultura giustizialista, il principio sancito dall’articolo 27 è stato praticamente capovolto. La condanna mediatica arriva molto prima e con effetti molto più invalidanti di quella giudiziale, senza considerare che spesso detti effetti superano le risultanze del processo e anzi si pongono con esse in senso diametralmente opposto. In un Paese che annovera, purtroppo, numerosi errori giudiziari, che hanno devastato l’esistenza a molti, non è accettabile che nel corso di conferenze stampa, articoli e servizi giornalistici ben poco professionali, diffusi attraverso i vari mezzi di comunicazione, gli imputati e, ancor prima, addirittura i semplici sospettati e poi gli indagati vengano presentati come colpevoli, inculcando in tal modo nel pensiero comune una certezza inaccettabile in uno Stato di diritto. È gravissimo infatti che le notizie spesso indotte unicamente dalla gogna mediatica prendano il sopravvento sulla verità giuridica e dei fatti condannando le “vittime” a subire gli effetti di un processo virtuale fatto di ipotesi e congetture che influiscono pesantemente e negativamente sulla vita loro e, in molti casi, dei familiari, anche in presenza di assoluzione. Considerando inoltre che nel nostro Stato la pena ha funzione rieducativa, la condanna mediatica sempre, ma a maggior ragione se priva di fondamento, rappresenta una violazione alla nostra Costituzione che è, invece, intrisa di principi di piena garanzia alla tutela della persona e dei diritti fondamentali. È necessario lavorare a una legge che responsabilizzi chi, attraverso la propria azione, molto spesso indirizza l’opinione pubblica creando un livello distorto dell’informazione che lede ogni forma di garantismo democratico e costituzionale. Se comunicare è importante, ancor di più è il modo con cui si veicola l’informazione. *Avvocata, senatrice di Italia Viva Sufficiente anche una trasgressione isolata per affermare la responsabilità amministrativa di Fabrizio Ventimiglia e Laura Acutis Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2020 Corte di Cassazione, Sezione 4, Penale Sentenza del 26 ottobre 2020, n. 29584. Con la decisione in commento, la Corte di Cassazione, quarta sezione penale, ha affermato che è configurabile la responsabilità dell’ente per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies co. 3, D.lgs. n. 231/2001, in relazione al reato di cui all’art. 590 c.p., ogniqualvolta l’autore del reato del presupposto, violando consapevolmente una regola cautelare, adotti una condotta anti doverosa che, pur non connotata del carattere della sistematicità, venga posta in essere allo scopo di rispondere a istanze funzionali e strategiche dell’ente. Questa in sintesi la vicenda processuale. La Corte di Appello di Messina riformava parzialmente la sentenza emessa dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, con la quale, nell’ambito di un procedimento penale per il reato di lesioni colpose, due società venivano ritenute responsabili dell’illecito di cui all’art. 25-septies co. 3, D.lgs. n. 231/2001. Nella vicenda al vaglio dei Giudici di legittimità era accaduto che due operai di una ditta erano stati impiegati nella esecuzione di taluni lavori su incarico di altra Società presso un capannone industriale. I ridetti, dopo essere saliti sulla copertura del capannone, a seguito del cedimento di uno dei pannelli, erano precipitati nel solaio sottostante riportando le lesioni. A seguito delle indagini era emerso che la ditta per la quale le persone offese erano impiegate fosse intervenuta nel cantiere in questione, al fine di velocizzare i lavori, senza alcun contratto con la committente. Dalle indagini era pure emerso come non fossero stati svolti corsi sulla sicurezza e che i lavoratori non fossero stati muniti di imbracature di ancoraggio o di cinture di sicurezza. Una delle due società ricorreva per cassazione con un unico motivo di ricorso deducendo violazione di legge in ordine alla affermazione della responsabilità amministrativa dell’ente, assumendo il difetto del requisito dell’interesse o del vantaggio scaturito all’Ente dalla condotta oggetto di imputazione. Più nello specifico rilevava la ricorrente nel proprio gravame che ai fini del coinvolgimento dell’ente fosse necessario - soprattutto nell’ipotesi in cui il reato presupposto è ascritto alla persona fisica a titolo di colpa - che la condotta imputata all’autore del reato fosse espressione di una sistematica violazione di regole cautelari, consapevolmente assunta quale politica di impresa. La Corte di Cassazione, respingendo la doglianza difensiva, ha dichiarato infondato il ricorso. Più nello specifico i Giudici di legittimità, con specifico riferimento alla posizione della società committente, condividevano le conclusioni della Corte di Appello di Messina nella parte in cui i Giudici affermavano la responsabilità della ricorrente sulla scorta del fatto che l’iniziativa estemporanea di impiegare nel progetto lavoratori di altra ditta non facente parte della commessa fosse correlata alla necessità di accelerare i tempi di realizzazione del progetto. La Corte di Cassazione ha altresì l’occasione di affermare che il criterio della sistematicità della violazione non rilevi quale elemento tipico dell’illecito ascritto all’ente rivestendo più una funzione di filtro nell’assicurare che l’ente non risponda del reato in virtù del mero rapporto di immedesimazione organica. La Corte ha, tuttavia, modo di precisare che sarebbe “eccentrico” - rispetto allo spirito stesso della legge - ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari potendo “l’interesse […] sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata, allorché? altre evidenze fattuali dimostrino tale collegamento finalistico, cosi? neutralizzando il valore probatorio astrattamente riconoscibile al connotato della sistematicità”. Possibile ottenere lo status di rifugiato se ci si rifiuta di fare il servizio militare in Siria Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2020 In molti casi il rifiuto è espressione di opinioni politiche o di convinzioni religiose o è motivato dall’appartenenza a un determinato gruppo sociale. Nel contesto della guerra civile in Siria, sussiste una forte presunzione che il rifiuto di prestare servizio militare in tale paese sia collegato a un motivo che può far sorgere il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato. In numerosi casi, infatti, tale rifiuto è espressione di opinioni politiche o di convinzioni religiose o, ancora, è motivato dall’appartenenza a un determinato gruppo sociale. Lo ha chiarito al Cgue con la sentenza 19 novembre 2020 nella causa C-238/19. Un cittadino siriano soggetto all’obbligo di leva che è fuggito dal suo paese per eludere il servizio militare, esponendosi pertanto al rischio di subire azioni giudiziarie o sanzioni penali in caso di ritorno in Siria, contesta dinanzi al Verwaltungsgericht Hannover (Tribunale amministrativo di Hannover, Germania) la decisione del Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Ufficio federale per l’immigrazione e i rifugiati, Germania) di concedergli la protezione sussidiaria senza riconoscergli lo status di rifugiato. Secondo il Bundesamt für Migration und Flüchtlinge, l’interessato, di per sé, non avrebbe subìto persecuzioni che lo abbiano spinto alla partenza e, avendo soltanto fuggito la guerra civile, non dovrebbe temere persecuzioni se ritornasse in Siria. In ogni caso, non sussisterebbe alcun collegamento tra le persecuzioni temute e uno dei cinque motivi di persecuzione che possono far sorgere il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato, ossia la razza, la religione, la nazionalità, l’opinione politica o l’appartenenza a un determinato gruppo sociale. Il Verwaltungsgericht Hannover ha chiesto alla Corte di giustizia di interpretare la direttiva sulla protezione internazionale secondo la quale gli atti di persecuzione possono, tra l’altro, assumere la forma di azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che escludono il riconoscimento dello status di rifugiato, come un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità. Secondo il Verwaltungsgericht Hannover, l’interessato avrebbe potuto essere indotto a commettere crimini del genere in qualità di coscritto nell’ambito della guerra civile siriana. La Corte di giustizia rileva, anzitutto, che in mancanza, nello Stato di origine, di una possibilità prevista dalla legge di rifiutare di prestare servizio militare, non si può opporre all’interessato il fatto che non abbia formalizzato il suo rifiuto seguendo una determinata procedura e sia fuggito dal suo paese di origine senza presentarsi alle autorità militari. Inoltre, in un contesto di aperta guerra civile caratterizzato dalla commissione ripetuta e sistematica di crimini di guerra o contro l’umanità da parte dell’esercito mediante l’impiego di militari di leva, è irrilevante il fatto che l’interessato non sia a conoscenza dell’ambito dei suoi futuri interventi militari. Per contro, deve sussistere un collegamento tra le azioni giudiziarie o le sanzioni penali conseguenti al rifiuto di prestare servizio militare e almeno uno dei cinque motivi di persecuzione che possono far sorgere il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato. Secondo la Corte, l’esistenza di un tale collegamento non può essere considerata accertata né, di conseguenza, può essere sottratta all’esame delle autorità nazionali responsabili dell’esame della domanda di protezione internazionale. Il rifiuto di prestare servizio militare, infatti, può anche avere motivi distinti dai cinque motivi di persecuzione summenzionati. In particolare, esso può essere motivato dal timore di esporsi ai pericoli che lo svolgimento del servizio militare comporta in un contesto di conflitto armato. Tuttavia, in numerosi casi, il rifiuto di prestare servizio militare è espressione di opinioni politiche, consistenti nel rifiuto di qualsiasi impiego della forza militare o nell’opposizione alla politica o ai metodi delle autorità del paese di origine, di convinzioni religiose o, ancora, è motivato dall’appartenenza a un determinato gruppo sociale. Sussiste infatti una forte presunzione che il rifiuto di prestare servizio militare nelle circostanze che caratterizzano la causa sottoposta alla Corte si ricolleghi a uno dei cinque motivi che possono far sorgere il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato. Non è onere dell’interessato fornire la prova di tale collegamento, spetta invece alle autorità nazionali competenti verificare, alla luce di tutte le circostanze di cui trattasi, la plausibilità di tale collegamento. La Corte rileva inoltre che, in un contesto di conflitto armato, in particolare di guerra civile, e in assenza di una possibilità prevista dalla legge di sottrarsi agli obblighi militari, è altamente probabile che il rifiuto di prestare servizio militare sia interpretato dalle autorità come un atto di opposizione politica, a prescindere dalle motivazioni personali eventualmente più complesse dell’interessato. Orbene, secondo la direttiva sulla protezione internazionale, nell’esaminare se l’interessato nutra un timore fondato di essere perseguitato è irrilevante che egli possegga effettivamente le caratteristiche razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche che provocano gli atti di persecuzione, purché una siffatta caratteristica gli venga attribuita dall’autore delle persecuzioni. Tolmezzo (Ud). Il Covid colpisce 132 persone in carcere: contagiati 116 detenuti su 203 di Giacomina Pellizzari Messaggero Veneto, 20 novembre 2020 Positivi anche 15 agenti e un impiegato: due sono stati accompagnati in Pronto soccorso. Il virus sta mettendo a dura prova il carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, dove tra detenuti, agenti di polizia penitenziaria e amministrativi si contano 132 casi di contagio da Sars-Cov2. Il coronavirus ha colpito più della metà dei detenuti, 116 dei 203 presenti in questo momento nella struttura, 16 guardie carcerarie e un amministrativo. La maggior parte degli infettati sono asintomatici, ieri sera però due detenuti manifestavano sintomi importanti e sono stati accompagnati in pronto soccorso e sottoposti ai controlli medici. “Stiamo navigando a vista, dobbiamo inventarci una strategia” ammette la direttrice, Irene Iannucci, impegnata nella gestione di un’emergenza senza precedenti. Il risultato degli ultimi 150 tamponi processati è arrivato ieri e di fronte a questi numeri è venuta meno anche la prevista organizzazione dell’area isolamento con 20 posti letto. “Stiamo aspettando i referti che devono essere consegnati alla direzione e comunicati ai detenuti, dopodiché - aggiunge Iannucci - valuteremo se saranno necessari alcuni spostamenti”. È evidente che se un’intera sezione risulta contagiata automaticamente si trasforma in una sezione Covid. “Il personale del servizio sanitario che opera nel carcere e che dipende dall’Azienda sanitaria ci darà le indicazioni per evitare l’allargamento del contagio” sperando che nessuno si aggravi: “Qualcuno - ribadisce la direttrice - manifesta sintomi più importanti di altri, ma non certamente da richiedere ricoveri in terapia intensiva”. Intanto, da lunedì scorso sono state sospese le lezioni scolastiche e, nelle prossime ore, saranno annullate tutte le attività. Si lavora per limitare i contatti e per tutelare tutti, il personale, chi arriva dall’esterno e i detenuti. Il sindaco, Francesco Brollo, e il garante regionale dei detenuti, Paolo Pittaro, stanno seguendo con apprensione la situazione. Il primo cittadino non nasconde la sua preoccupazione: “Tolmezzo l’altro ieri era il settimo comune con il peggior rapporto positivi-popolazione, su questo incidono i contagi presenti in carcere e nella casa di riposo. È evidente che stiamo scontando il ruolo comprensoriale della città”. Brollo ricorda, infatti, che il carcere non è un’isola chiusa in sé stessa, c’è un numero importante di persone che lavora nel penitenziario e che, ogni sera, rientra in famiglia. “È una porta girevole e la preoccupazione c’è tutta - conclude il sindaco -, siamo di fronte a una situazione complessa provocata da un virus che non risparmia nessuno”. A preoccupare il garante, invece, è il cronico sovraffollamento che sicuramente non facilita il compito a chi si trova a gestire l’emergenza sanitaria. “Nei giorni scorsi - riferisce Pittaro - ho chiesto ai direttori dei cinque penitenziari regionali una relazione sull’emergenza sanitaria provocata dal coronavirus. La situazione più complessa è quella di Tolmezzo visto che a Pordenone, Gorizia e Trieste, al momento (il dato si riferisce a mercoledì) l’infezione non è stata rilevata. Nella Casa circondariale di Udine è risultato positivo un agente penitenziario che è in via di guarigione”. Pittaro aggiunge che anche nel Cpr di Gradisca non sono stati registrati contagi. Caserta. Sono 60 i contagiati Covid nelle carceri casertane di Biagio Salvati Il Marrino, 20 novembre 2020 Il bilancio è emerso in un incontro tra i garanti dei detenuti e il prefetto. Si torna a parlare di Covid tra detenuti e personale di Polizia Penitenziaria, circostanza che non risparmia le case circondariali del Casertano. Sono infatti una decina i detenuti e una cinquantina gli agenti della Polizia Penitenziaria contagiati al Covid-19 complessivamente nelle quattro strutture carcerarie della provincia: ovvero Santa Maria Capua Vetere, Carinola, Arienzo e Aversa. È quanto emerso dall’incontro avuto con il prefetto di Caserta, Raffaele Ruberto, dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello e dalla garante provinciale Emanuela Belcuore, che hanno esposto le criticità delle carceri del casertano in periodo Covid-19. I due rappresentanti hanno inoltre consegnato al Prefetto sia le proposte dei garanti regionali e locali di modifica del decreto Ristori in materia di carcere, sia l’invito al Parlamento per l’indulto. La “parte del leone” la fa ovviamente il carcere di Santa Maria Capua Vetere, 935 rispetto ad una capienza di molto inferiore: qui sono cinque i detenuti positivi, tutti asintomatici e sono circa 25 gli agenti contagiati. Al carcere casertano sono anche riprese le proteste dei detenuti, al momento piuttosto contenute, dopo che sono stati sospesi, causa Covid, i colloqui con i familiari (per ogni detenuto sono consentite due videochiamate e cinque telefonate a settimana). I due garanti hanno poi portato all’attenzione del prefetto i problemi strutturali che affliggono le carceri, come la rete idrica ancora non potabile (i lavori entro l’inizio dell’anno) e la linea telefonica carente all’istituto di Santa Maria Capua Vetere. Poi ci sono le difficoltà che si registrano alla casa lavoro di Aversa, dove sono presenti 123 reclusi, unica casa lavoro della Campania dove i ristretti non lavorano. A ciò si aggiungono i problemi organizzativi e sanitari legati all’emergenza pandemia per le altre carceri di Arienzo (57) e Carinola (337). I garanti hanno manifestato le richieste dei detenuti, dalla mancanza di prodotti per sanificare le celle ad una maggiore attenzione all’igiene personale e a un contatto più frequente tramite videochiamate e telefonate con i familiari. Il prefetto Ruberto, vista la situazione critica delle carceri, si è impegnato a scrivere alle istituzioni governative per rappresentare le problematiche affinché si riesca a trovare una soluzione in merito. “La politica ai vari livelli spiegano i garanti - deve fare scelte coraggiose e giuste. Il diritto alla salute, alla vita vale anche per i detenuti. Il parlamento e il governo devono mettere in campo risposte concrete, il carcere non va rimosso”. Intanto, a sette mesi di distanza dai pestaggi avvenuti lo scorso aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, a seguito dei quali la locale Procura della Repubblica indagò 57 agenti penitenziari, nei giorni scorsi è arrivata anche una risposta del ministero della Giustizia, in particolare quella del sottosegretario Vittorio Ferraresi (M5S). Il viceministro, infatti, ha risposto a una interpellanza urgente presentata il 12 ottobre da Riccardo Magi (Radicali Italiani, +Europa) che aveva interrogato il Guardasigilli per sapere se fosse informato, insieme al Dap, della perquisizione che si è svolta quel giorno nel carcere e se siano in corso indagini interne. Per Ferraresi “l’intervento di altri uomini esterni per calmare i detenuti è stata una doverosa azione di ripristino della legalità e agibilità dell’intero reparto, alla quale ha concorso, oltre che il personale dell’istituto, anche un’aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi”. Siracusa. “Temo per mio figlio: non lo vedo da mesi, il telefono non basta” di Giuseppe Cantatore Gazzetta del Mezzogiorno, 20 novembre 2020 “Mamma, spediscimi qualunque cosa qui in carcere. Perché quello in cui apro il tuo pacco è l’unico momento in cui mi sento a casa”. Si è chiusa così l’ultima telefonata tra Michael e Daniela. Lui ha 27 anni ed è in carcere da quasi un anno e mezzo, gli ultimi otto mesi trascorsi nel penitenziario di Siracusa. Lei è sua madre e vive a Corato insieme al bambino di Michael, che ha solo due anni e mezzo. La loro storia aveva fatto il giro dei giornali e dei programmi tv poco più di tre anni fa, quando mamma Daniela fece arrestare suo figlio latitante e poi scrisse una lettera struggente per spiegare il suo gesto e finanche un libro, intitolato “Oh, mà!”. Mike, come lo chiama la mamma, finì subito in carcere, poi ottenne il trasferimento nella comunità “Exodus” di don Mazzi che si occupa di recuperare ragazzi difficili e tossicodipendenti. “Lì si stava rimettendo a posto, poi me l’hanno strappato di nuovo per un fatto di tre anni prima, tutto da dimostrare” racconta Daniela. Nel giugno 2018 Michael venne infatti arrestato di nuovo, stavolta con la pesante accusa di associazione di tipo mafioso. Finì in cella a Melfi e nel gennaio scorso venne condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi. Poi è arrivato il Covid e le cose, se possibile, sono peggiorate. “All’improvviso, un pomeriggio di marzo, è scattata una rivolta in carcere e molti detenuti sono stati trasferiti in altri penitenziari, in maniera così brutale e in condizioni talmente pietose che ho dovuto denunciare tutto in Procura” ricorda Daniela. “Mio figlio è finito a Siracusa, ma io per due angoscianti settimane non ho avuto sue notizie. Non sapevo neppure dove si trovasse e come stesse. Ho scoperto da una sua telefonata, fatta grazie a due euro donati a Mike dal cappellano del carcere, che era in Sicilia”. I chilometri e il Covid hanno subito messo una distanza incolmabile tra il giovane e la sua famiglia. “Io l’ho visto l’ultima volta a febbraio, quando era ancora a Melfi. Poi i colloqui sono stati sospesi per la pandemia, ma anche quando sono ripresi non sono stata in grado di andare a trovarlo a Siracusa perché costa troppo. Un mese fa ci è andata solo la compagna con il loro bimbo”. Ora che le visite sono state nuovamente bloccate, la vita scorre attraverso le videochiamate. “Ci vediamo per una ventina di minuti una volta alla settimana. Ma non può essere sufficiente. Noi siamo preoccupati per lui e lui per noi. Là dentro, dove tutto è amplificato, l’unica fonte d’informazione è la tv e non si parla d’altro che di Covid. Speriamo nell’appello, ma la verità è che in tutto questo caos non ci si ricorda più che abbiamo figli, mariti e fratelli in carcere. Loro invisibili e abbandonati in cella, mentre le famiglie a casa con difficoltà e costi enormi devono provvedere a tutto”, sottolinea Daniela, che ha scritto una lettera indirizzata al figlio per rappresentare i sentimenti e le angosce di molte madri come lei. “Amatissimo figlio, è da febbraio che non ho più un tuo abbraccio, che non leggo più la speranza nei tuoi occhi. Sei diventato uno dei tanti invisibili di cui la società può fare a meno. Ma io faccio parte di quella società e di te, non posso fare a meno. Il terrore si sta impadronendo di me, ma non è il virus che temo, temo piuttosto l’indifferenza di chi continua a non vedervi e a non occuparsi di voi. Temo che in caso di necessità non possa essere al tuo fianco per aiutarti. Temo che in caso di necessità tu non possa essere al nostro fianco e so quanto soffriresti. Tutto si è bloccato - prosegue la lettera - le vite si sono bloccate, la quotidianità si è bloccata, ma per fermare gli affetti non basta un Dpcm, non bastano le promesse di qualcuno che non ha la minima idea di cosa si provi ad avere un figlio oltre le sbarre. Un figlio che si mantiene in vita con una videochiamata in cui deve concentrare amore, rabbia, pazienza, affetto e rimpianti. Non so quando potrò rivederti e abbracciarti, il virus non è l’unico impedimento, ma sta sicuro che per me non sarai mai un invisibile”. Rovigo. Diciamo un no deciso al carcere minorile in centro città di Gianmario Scaramuzza* Il Gazzettino, 20 novembre 2020 Volevo fare alcune considerazioni in merito alla questione oggetto del Consiglio comunale del 18 novembre a Rovigo, a proposito delle vicende del tribunale e del carcere minorile, nel corso del quale ho fatto la seguente dichiarazione. A mio avviso, allo stato attuale è inutile ragionare su quello che è stato fatto in passato e frugare fra le cose fatte bene e quelle sbagliate. Noi dobbiamo preoccuparci con maggiore determinazione di quello che succede oggi, di quello che abbiamo davanti, e in prospettiva pensare, al futuro. Una cosa è certa, i poteri nazionali, in questo caso il Ministero di Grazia e Giustizia, spesso incidono in maniera decisiva, e senza possibilità di confronto, sulle scelte locali. La domanda che mi pongo è: con quali criteri logistici, politici, sono state fatte determinate scelte da parte del Nazionale, non avendo nessuna conoscenza di quello che la comunità di Rovigo ha bisogno e la finalità a cui si vuole perseguire? Siamo nel campo dell’assurdo, che nel caso in esame oggi vuole imporre alla città scelte non condivise. La scelta è di merito della questione dell’Istituto penale minorile in centro città, cioè si vuole alloggiare una quindicina di detenuti minori in un luogo dove erano alloggiati circa trecento detenuti maggiorenni. I maggiorenni, fortunatamente, dopo pressanti richieste, sono stati spostati in un nuovo carcere moderno e adeguato a tale scopo appena fuori città. Il Ministero, però, ha pensato di riportare nel vecchio carcere, in città appunto, un altro tipo di detenuti, senza valutazione di ogni genere e senza ponderare la necessità dell’ampliamento dell’attuale Tribunale attiguo a quel carcere, che soffre da troppo tempo per la mancanza di spazi essenziali e adeguati alle nuove esigenze. La ristrutturazione del vecchio carcere è stata progettata dal Ministero e a nulla, ad oggi, sono valse le ragioni opposte di chi ci vive in questa città. Questa decisione dell’Istituto di pena minorile è quindi fatta d’imperio da parte del Nazionale, mentre le necessità del Tribunale sono lasciate ai politici locali, che devono arrangiarsi per trovare gli spazi necessari in altro luogo che diverrà naturalmente poi proprietà del Ministero. Forse, con maggiore ponderatezza e logica, era meglio fare al contrario, cioè trovare altrove nuovi spazi per il carcere e lasciare al Tribunale la possibilità di ampliarsi in un unico sito senza spezzettarlo in luoghi diversi e scomodi per magistrati, avvocati e personale. Siamo alle solite Rovigo non può essere considerata la Cenerentola del Veneto, e utile solo per favorire scelte nazionali non condivise; dall’altra parte, lasciarla al suo destino senza nessun tipo di supporto sostanziale per costruire uno sviluppo sostenibile e un’innovazione per la città. Serve dare, invece, una speranza ai tanti giovani costretti da anni ad abbandonare la loro città per mancanza di lavoro e di prospettive. Mai, come in questo caso, maggioranza ed opposizione del Comune di Rovigo hanno la possibilità di alzare con forza la loro voce senza sbandamenti e distinguo, ma unitariamente per il bene comune di tutta la città. Noi non dobbiamo chinare il capo in segno di resa, non serve a questo punto, in questa sede, elencare possibilità alternative come quelle che sono state dette con piani A, B e C per il Tribunale, ma dobbiamo restare sul punto in esame per affermare all’unisono noi non vogliamo il carcere minorile in centro città e siamo per il sì all’ampliamento del Tribunale nell’ex carcere. In seguito, le altre opzioni ci ragioneremo sopra. *Consigliere comunale del Forum dei Cittadini Padova. Ceste-regalo con prodotti tipici di Vo’ e Codogno per la presidente del Senato di Federica Cappellato Il Gazzettino, 20 novembre 2020 I prodotti di un territorio simbolo della lotta alla pandemia insieme a quelli di Codogno come segno di solidarietà e di unione. Boscoletto: “Un gesto di testimonianza di come ci si può aiutare mettendo al centro un sostegno al lavoro delle aziende”. Un ponte che parte da Vo’ e arriva a Codogno e fonda i suoi pilastri sul sociale, in particolar modo su anziani e persone svantaggiate. La Cooperativa Giotto e l’Opera Immacolata Concezione di Padova, enti che si occupano di lavoro nelle carceri e assistenza e cura degli anziani, ieri sono state ricevute dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, a cui hanno consegnato tre ceste regalo confezionate dai detenuti del carcere di Padova e contenenti prodotti tipici di Vo’ e di Codogno. “È un gesto - ha spiegato il capo della cooperativa Giotto Nicola Boscoletto - che abbiamo voluto condividere con la seconda carica dello Stato per ricordare come questa pandemia ci abbia unito tutti; le ceste saranno disponibili a chiunque ci contatti per dei significativi regali di Natale, e mettono insieme le eccellenze di due territori profondamente colpiti per primi dalla pandemia. L’iniziativa vuol essere un semplice gesto di testimonianza di comeci si può aiutare, mettendo al centro, prima ancora dell’aiuto economico, un sostegno al lavoro delle aziende e perciò alle persone che vi operano. Perché siamo convinti che, come ripete instancabilmente Papa Francesco - ha concluso - il lavoro è ciò che dà dignità”. Le aziende di Vo’, appartenenti al Consorzio volontario Tutela dei vini dei Colli Euganei, rappresentano un micro tessuto di realtà famigliari che nei momenti difficili cercano di rispondere assieme, con tutte le difficoltà che questo comporta. Nell’occhio del ciclone a marzo, isolata a lungo dal resto d’Italia, l’intera comunità collinare ha saputo reagire, supportando la ricerca dell’Università di Padova da un lato e con il proprio lavoro dall’altro. Lo testimoniano l’ottima vendemmia e i riconoscimenti che diverse cantine socie del Consorzio Vini Colli Euganei hanno ottenuto. Ma un grande messaggio arriva anche dalle due realtà sociali proponenti. Significativo è il sostegno della Fondazione Opera Immacolata Concezione Onlus di Padova che svolge tutta la sua attività a sostegno e cura delle persone anziane e fragili, proprio le più a rischio in questa pandemia. La cooperativa Sociale Giotto invece è da decenni impegnata nell’inserimento lavorativo di persone in disagio sociale (ad esempio in carcere) e con problematiche fisiche, psichiche e psicofisiche. In questi mesi salvaguardare più persone possibile al lavoro è stato il primo obiettivo. Mai come in questo periodo si è capito quanto valga il lavoro oltre il giusto e dovuto stipendio. Con questo intento la cooperativa è riuscita a convertire un’attività, che svolgeva in carcere per conto di una azienda fortemente colpita dalla pandemia, nella produzione di mascherine di comunità in tessuto. Questo ha permesso di salvare una decina di posti di lavoro. Allo stesso modo ha consolidato i servizi rivolti alle persone e alle imprese attraverso supporti informatici e telefonici. Sondrio. Galbusera dona “dolcezza” ai detenuti della casa circondariale sondriotoday.it, 20 novembre 2020 La ditta Galbusera di Cosio Valtellino, grazie all’interessamento di Giorgio Nana e della signora Gerosa, ha donato alla Casa circondariale di Sondrio biscotti e cracker come segno di interessamento e vicinanza a chi vive ogni giorno rinchiuso e ristretto. In questi mesi in cui l’attenzione e la preoccupazione di tutti è rivolta al Covid19 e alle sue conseguenze, c’è chi non si dimentica di chi è “in zona rossa” tutto l’anno. I detenuti della casa circondariale di Sondrio, infatti, vivono con particolare sofferenza questi tempi di pandemia, perché si vedono annullate le visite dei parenti e le attività che in passato venivano svolte con la partecipazione di volontari esterni. La paura, l’isolamento, l’ansia, la sfiducia di queste persone sono state recentemente mitigate da un gesto di squisita solidarietà. “Anche in questa occasione Giorgio Nana - commenta il direttore della casa circondariale, Carla Santandrea - ha dimostrato di avvicinarsi alle persone con una semplicità e naturalezza uniche e rare. Per questo lo ringrazio perché il gesto di portare è stato particolarmente apprezzato come un bel segno e un incoraggiamento per tutti in questo momento particolarmente difficile”. È giusto ringraziare anche tutto il Personale che opera giorno dopo giorno nella Casa Circondariale, il Comandante, gli Agenti, il personale civile e gli operatori sanitari, come anche i cittadini che in vari modi si interessano all’Istituto dimostrando sensibilità e umanità mettendo a disposizione tramite il Cappellano generi di prima necessità. Milano. “Noi guerra! Le meraviglie del nulla”: teatro impegnato a Opera di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 20 novembre 2020 Noi guerra! Le meraviglie del nulla è il titolo dello spettacolo teatrale andato in scena nel carcere di Opera. La particolarità dell’evento, oltre alla proposizione di una diretta streaming, sta nel fatto che i costumi di scena sono stati realizzati anche grazie al lavoro degli studenti della classe V dell’Istituto Tecnico Moda Olga Fiorini di Busto Arsizio. Le modalità di realizzazione dell’iniziativa sono chiarite da Silvio Di Gregorio, direttore del penitenziario: “I detenuti mettono in scena opere drammaturgiche, suggerite dalla regista Ivana Trettel, e poi sviluppate dai reclusi stessi. I costumi vengono autoprodotti, eventualmente chiedendo collaborazioni esterne come accaduto in questo caso. Abbiamo, inoltre, al momento fruito del supporto di Giovanni Anceschi, che ha fornito idee innovative per la scenografia”. “Opera liquida - prosegue Di Gregorio - è la compagnia teatrale che ha calcato la scena e che partecipa a un progetto regionale di lotta al bullismo. Con alcuni detenuti della compagnia, in tempi non pandemici, andiamo nelle scuole, oppure sono gli studenti a venire da noi ogni 15 giorni, visitando l’istituto e assistendo a uno spettacolo contro il bullismo in tutte le sue forme. Al termine della rappresentazione si tiene un dibattito sull’argomento. Questa ulteriore iniziativa si chiama Stai all’occhio. Quindi, c’ è un risvolto di sensibilizzazione dei più giovani di educazione alla legalità. Vogliamo che i ragazzi imparino a riconoscere l’autorità. Solo così è possibile comprendere il senso del limite e rispettarlo”. Nemmeno la pandemia ha però fermato gli spettacoli: “La scommessa in tempi di Covid - conclude il direttore - ritenendo questa attività valida a 360 gradi, è portare in scena gli spettacoli, raggiungendo i destinatari con la forma della trasmissione streaming”. Saluzzo (Cn). Il libro per bambini dei papà-detenuti va in ristampa gazzettadalba.it, 20 novembre 2020 La casa editrice Scritturapura ha deciso di ristampare “Il bosco Buonanotte”, libro illustrato per bambini frutto di una scrittura collettiva di tredici papà-detenuti di alta sicurezza della Casa di reclusione Morandi di Saluzzo. Il libro, la cui realizzazione è avvenuta all’interno del laboratorio di scrittura del progetto Liberandia (2019-2020, realizzato grazie al contributo delle fondazioni bancarie Compagnia di San Paolo e Cassa di risparmio di Torino) promosso dall’associazione Voci erranti Onlus di Savigliano autrice del volume, era stato presentato sabato 19 settembre al teatro Milanollo di Savigliano ed è subito andato a ruba. “Il bosco Buonanotte” è in vendita a 20 euro sul canale di distribuzione Messaggerie, nelle librerie, su Amazon e su Ibs oppure alla sede operativa dell’associazione Voci erranti a Savigliano (piazza Turletti, 7). I diritti d’autore provenienti dalla vendita del libro serviranno a sostenere altri progetti di inserimento lavorativo di detenuti del territorio cuneese. Per maggiori informazioni scrivere all’indirizzo email info@vocierranti.org o contattare la casa editrice Scritturapura all’indirizzo email stefano@scritturapura.it. “La prima uscita del libro è stata un successo”, dichiara Grazia Isoardi, direttrice artistica di Voci erranti. “In vista delle imminenti festività natalizie crediamo che Il bosco Buonanotte possa essere un’ottima idea regalo, una storia per bambini per dare voce a chi rimane a casa ad attendere. Il progetto ha coinvolto tredici detenuti-padri, due educatrici dell’istituto penitenziario, l’equipe psico-antropologica dell’associazione Mamre di Torino, lo scrittore Yosuke Taki, l’illustratrice Francesca Reinero, la casa editrice Scritturapura e l’associazione Voci erranti. Il libro parla di maschere e solitudini, illusioni e assenze, mancanze e non detti. È una storia nata in carcere che però parla a tutti perché a tutti può capitare di perdersi in un bosco e di far fatica a ritrovare la strada giusta che riporta a casa. Il progetto ha anche una bella valenza sociale: una fascetta in copertina infatti, oltre a segnalare la ristampa, indicherà che una parte dei proventi di vendita, quelli riservati al diritto d’autore, saranno reinvestiti per altri progetti mirati all’inserimento lavorativo dei detenuti della provincia di Cuneo”. Il percorso che ha portato alla realizzazione de Il bosco Buonanotte, della durata di sei mesi, si è sviluppato attraverso un laboratorio di scrittura creativa che è stato, costantemente, accompagnato e condiviso da tutti i professionisti coinvolti nel progetto. Il metodo di lavoro laboratoriale ha privilegiato il linguaggio della scrittura e del disegno, con momenti di dialogo e rielaborazione insieme ai detenuti. Nell’ultima fase di lavoro il gruppo si è concentrato sulle parole più utilizzate durante il percorso, parole che poi sono diventate gli “ingredienti” principali della storia finale. “Per chi vive e conosce l’editoria, è sempre un bel risultato ristampare un libro a soli due mesi dalla sua prima uscita”, dichiara Stefano Delmastro, titolare della casa editrice Scritturapura. “Questa ristampa, che vedrà anche una sorta di serigrafia in copertina, sarà in pratica una nuova edizione anche perché conterrà quattro pagine in più di testi con gli interventi dei vari professionisti che sono stati coinvolti nel progetto e nella sua realizzazione. Non solo: alla ristampa è associata anche la diffusione di un filmato visibile sulla pagina Youtube di Voci erranti e di Scritturapura anche in lingua inglese e giapponese, con l’obiettivo di far conoscere a un pubblico più vasto possibile l’alto valore sociale che si cela dietro la concretizzazione di progetti editoriali come Il bosco Buonanotte”. Covid. In Italia la maggior mortalità d’Europa per gli anziani in cattiva salute di Andrea Capocci Il Manifesto, 20 novembre 2020 Con oltre 36 mila nuovi casi positivi al coronavirus rilevati con 250 mila tamponi, nelle ultime 24 ore il contagio in Italia sembra essersi stabilizzato. Da circa una settimana i casi oscillano intorno agli stessi numeri e il rapporto tra casi positivi e persone testate, ritornato sotto il 30%, dimostra che l’effetto non è dovuto alla raggiunta saturazione della capacità diagnostica. Non si ferma però l’ondata di decessi. I 653 registrati ieri sono un centinaio in meno rispetto a 24 ore prima, ma rimaniamo il paese con il più alto numero di vittime giornaliere in Europa. Il record si spiega in gran parte con fattori demografici. L’Italia ha una delle popolazioni più anziane del mondo, con un’età mediana di circa 47 anni contro i 44 dell’Unione Europea. Inoltre, i nostri anziani sono più longevi ma non godono di ottima salute. “Sono tante le patologie croniche che colpiscono la popolazione” spiega Giovanni Maga, virologo al Cnr. “Diabete, ipertensione, obesità, malattie cardiovascolari. Ma sappiamo che queste malattie, associate al Covid, possono aggravare il quadro clinico, fino purtroppo al decesso”. I numeri gli danno ragione. Mentre l’aspettativa di vita in Italia è di circa 83 anni, due in più del resto d’Europa e tra le più elevate al mondo, la classifica cambia se si contano gli anni in salute. Un anziano italiano, a 65 anni, può contare mediamente su altri dieci anni di vita senza disabilità, più o meno nella media europea: significa un anno meno dei francesi, due di tedeschi e spagnoli, addirittura sei meno che in Svezia. Il gran numero di anziani in cattive condizioni di salute fornisce dunque una parziale spiegazione al numero dei decessi del nostro paese. Conta poi la struttura sociale, secondo Maga: “Gli anziani da noi sono molto più coinvolti, stanno di più in famiglia, suppliscono alle carenze del welfare occupandosi dei nipoti. Questo chiaramente alza il livello di rischio”. Il numero dei decessi è quello che cresce più velocemente, secondo il report settimanale della fondazione Gimbe. I 4.134 morti dell’ultima settimana sono il 42% in più di quelli della settimana precedente. Nello stesso periodo, i nuovi casi sono cresciuti del 24% e i pazienti in terapia intensiva del 22%. “Tuttavia - puntualizza il presidente della fondazione Nino Cartabellotta - non conoscendo i flussi dei pazienti in entrata e in uscita, non si può escludere che questo dato sia influenzato dall’effetto saturazione dei posti letto che nelle terapie intensive purtroppo causano un incremento della letalità”. Per l’attesa rivalutazione del rischio delle regioni, più del numero dei decessi conta il tasso di saturazione dei reparti ospedalieri, che secondo l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali ieri è calato al 41% (-2%) in terapia intensiva e al 50% (-1%) nell’area medica. Sono valori comunque elevati, entrambi al di sopra della soglia di allarme. Prima della pandemia, infatti, i reparti erano quotidianamente riempiti al 70% per le altre patologie. Se i pazienti Covid-19 richiedono più del 30% dei posti letto in terapia intensiva, la coperta diventa corta e altri pazienti devono rinunciare a cure potenzialmente salva-vita. Solo Friuli, Veneto, Molise e Sicilia non sforano la soglia. Le attese valutazioni sulle nuove zone rosse, arancioni e gialle si baseranno sui dati della settimana 9-15 novembre a causa del ritardo dovuto alla comunicazione e all’elaborazione dei dati. In quella settimana, le regioni con la maggiore crescita dei nuovi casi sono state la Valle d’Aosta e l’Abruzzo (già zona rossa). Anche Puglia, Basilicata, Emilia-Romagna e Sicilia, ora arancioni, rischiano misure più restrittive a causa dei casi in aumento. Se l’indice Rt supererà il valore di 1,5, il declassamento sarà inevitabile. Le regioni dovranno comunicare al commissario Arcuri entro lunedì gli ospedali e le Rsa in cui prevedono di somministrare le prime dosi del vaccino Pfizer, quello con la logistica più complicata per la bassa temperatura di conservazione. “Per gli altri vaccini in arrivo, destinati invece a tutte le altre categorie di cittadini - ha detto Arcuri - saranno previste modalità differenti di somministrazione, in linea con l’ordinaria gestione vaccinale attraverso una campagna su larga scala”. Migranti. Il nuovo populismo che penalizza i soccorsi di Luigi Ferrajoli* Il Manifesto, 20 novembre 2020 Vengono colpite condotte lecite e virtuose come i salvataggi in mare per alimentare paure e razzismi e cercare consensi a misure illegali, come avviene con la chiusura dei nostri porti alle navi delle ong. Sulla questione migranti si gioca il futuro della nostra civiltà: dell’identità democratica dell’Italia, ma anche dell’Europa e di tutti i paesi ricchi dell’Occidente, oggi accomunati da una guerra crudele contro i migranti e dalla perdita di memoria dei “mai più” opposti, all’indomani della Liberazione, ai razzismi e ai genocidi, ai campi di concentramento e ai fili spinati, alle oppressioni e alle discriminazioni razziali. Questa identità sta crollando a causa della stridente contraddizione tra i principi costituzionali di libertà e di uguaglianza che informano le nostre democrazie e le nostre politiche di esclusione dei migranti, fino all’assurda penalizzazione di chi salva vite umane in mare. È una contraddizione che, se non risolta, renderà impronunciabili i diritti fondamentali, i quali sono universali e indivisibili o non sono, e non potranno essere ancora proclamati se continuerà la loro lesione, ogni anno, in danno di milioni di esseri umani che muoiono per fame e mancanza di farmaci salva-vita e delle migliaia di persone che affogano in mare nel tentativo di raggiungere i nostri paesi. Lo stesso diritto di emigrare, non dimentichiamo, è un diritto fondamentale vigente, stabilito dalla nostra Costituzione, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Non solo. È anche il più antico dei diritti umani, essendo stato formulato fin dal secolo XVI da Francisco De Vitoria a sostegno della conquista del “nuovo mondo”, e poi rivendicato da John Locke, che lo pose alla base del diritto alla sopravvivenza, la quale, egli scrisse, è garantita a tutti dalla possibilità di emigrare “negli incolti deserti dell’America” giacché c’è “terra sufficiente nel mondo a bastare al doppio dei suoi abitanti”. Oggi che non sono più gli occidentali, ma quanti fuggono dai paesi impoveriti dalle nostre politiche predatorie a far uso del diritto di emigrare, l’esercizio di questo diritto si è capovolto in delitto, e lo si reprime con la stessa feroce durezza con cui lo si brandì alle origini della civiltà moderna a scopo di conquista e colonizzazione. C’è poi un altro capovolgimento perverso e ancor più paradossale che contrassegna, in particolare, le politiche italiane contro gli immigrati: il capovolgimento dello stesso populismo penale in tema di sicurezza, esplicitamente operato dal secondo decreto Salvini ma di fatto confermato, sia pure dietro un mistificante giro di parole, dal recente decreto n. 130 dell’ottobre di quest’anno. Il vecchio populismo penale faceva leva sulla paura per la criminalità di strada, cioè per fenomeni enfatizzati ma pur sempre illegali, onde produrre paura e ottenere consenso a misure inutili e demagogiche ma pur sempre giuridicamente legittime, come gli inasprimenti delle pene decisi con i vari pacchetti di sicurezza. Il nuovo populismo securitario fa leva, esattamente al contrario, sull’istigazione all’odio e sulla diffamazione di condotte non solo lecite ma virtuose e addirittura eroiche, come il salvataggio di vite umane in mare, al fine di alimentare paure e razzismi e ottenere consenso a misure esse stesse illegali, come la chiusura dei porti, le preordinate omissioni di soccorso, i sequestri delle persone salvate e le lesioni dei diritti umani dei migranti. Questo nuovo populismo ha così prodotto e continua a produrre, oltre alle morti in mare, un danno gravissimo alle basi sociali e ideali della nostra democrazia: l’abbassamento del senso morale e dello spirito pubblico nella cultura di massa. Quando l’indifferenza per le sofferenze e per i morti, la disumanità e l’immoralità di formule come “prima gli italiani” a sostegno dell’omissione di soccorso sono praticate e ostentate dalle istituzioni, esse non soltanto sono legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Diventano contagiose e si normalizzano. Non capiremmo, senza questa corruzione del senso morale operata dall’esibizione dell’immoralità ai vertici dello Stato, il consenso di massa di cui godette il fascismo e di cui godono oggi, nei loro paesi, Trump e Bolsonaro, Orban ed Erdogan. Queste politiche crudeli hanno avvelenato e incattivito la società. Hanno seminato la paura e l’odio per i diversi. Hanno fascistizzato il senso comune. Hanno screditato, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica del soccorso di chi è in pericolo di vita e, con essa, i normali sentimenti di umanità che formano il presupposto della democrazia. Per questo - per non vergognarci dei nostri governanti - ci aspetteremmo, da questo governo, una svolta radicale, consistente nella cancellazione pura e semplice della parte del decreto in via di conversione che ancora lascia aperta la possibilità di impedire e sanzionare l’accesso nelle nostre acque territoriali delle navi che salvano vite umane in mare. È in questione non solo il diritto alla vita e la dignità di persone dei naufraghi, ma anche la nostra dignità e la dignità della nostra Repubblica. *Professore emerito Filosofia del diritto Università RomaTre Il diritto di migrare, rivoluzione mancata di Silvia Albano* Il Manifesto, 20 novembre 2020 Il testo in discussione alla Camera. Troppe ombre nel provvedimento con cui il governo vuole sostituire i decreti sicurezza. Il testo del decreto-legge di modifica dei decreti sicurezza contiene sicuramente importanti novità, ma anche molte ombre che fanno ritenere che non si tratti affatto della rivoluzione annunciata. In primo luogo si stabilisce che la richiesta di permesso di soggiorno può essere rifiutata o il permesso di soggiorno revocato “salvo ricorrano seri motivi derivanti dagli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano”, nelle intenzioni del legislatore (così si afferma nella relazione) risponderebbe al monito del presidente della Repubblica all’atto della promulgazione del primo decreto sicurezza (D.L. n. 113/2018), ma porrà un grave problema agli interpreti, perché non specifica che tipo di permesso di soggiorno verrebbe rilasciato in questo caso, mentre il vecchio comma 6 prevedeva che il questore rilasciasse un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nonostante una giurisprudenza consolidata che affermava che la protezione umanitaria era una fattispecie aperta che permetteva di offrire tutela ai diritti fondamentali dello straniero protetti a livello costituzionale e internazionale, il legislatore ha compiuto la scelta di mantenere solo ipotesi tipiche di protezione speciale, che dovrebbero sostituire la vecchia protezione umanitaria, ampliandole in modo certamente condivisibile, ma con il limite della tipizzazione delle situazione cui offrire tutela. Si pone, quindi il problema del raccordo tra questa tipizzazione e la modifica dell’art 5 comma 6 del Testo unico sull’immigrazione, permanendo la necessità di dare piena attuazione al diritto di asilo costituzionale. Si ampliano i casi di protezione speciale. Al rischio tortura in caso di rimpatrio è stato aggiunto il rischio di trattamenti inumani e degradanti e si inserisce anche il riferimento all’art 8 Cedu, il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Che ne sarà, però, della necessaria tutela, in ossequio agli obblighi costituzionali e internazionali dell’Italia, di tutte quelle condizioni di vulnerabilità che non sembrano rientrare nella normativa modificata e che sfuggono necessariamente a una tipizzazione, e che ruolo avrà nella possibilità di offrire tale tutela la nuova formulazione dell’art 5 comma 6 del TU sull’immigrazione? Un esempio che riguarda un numero rilevante di migranti, è l’obbligo scaturente dall’art 14 della Convenzione contro la Tortura di assicurare una riabilitazione completa alle vittime di tortura, soggetti vulnerabili per eccellenza. Pensiamo a tutti coloro che sono stati imprigionati nei centri di detenzione in Libia. Restano norme di dubbia costituzionalità che erano state soggette a serrate critiche. Non potrò citarle tutte per ragioni di spazio. Non è stato ripristinato l’appello per i procedimenti relativi al diniego del permesso di soggiorno per casi speciali, ove non c’è nemmeno un procedimento innanzi a un’autorità amministrativa quali le Commissioni Territoriali. È stata abolita la procedura immediata, incompatibile con la direttiva procedure, ma resta immutato l’impianto delle procedure accelerate e l’allargamento dei reati che costituiscono cause di esclusione del riconoscimento dello status di rifugiato o protezione sussidiaria introdotto dal D.L. 113/2018 a fattispecie di scarsa offensività o allarme sociale a fronte dei gravissimi comportamenti e della gravità estrema delle condotte previste dagli strumenti internazionali. Ciò aveva destato forti perplessità in ordine alla ragionevolezza di tale previsione, e con la nuova normativa la sussistenza di una delle ipotesi di esclusione accertata con condanna anche non definitiva diventa anche una nuova ipotesi di trattenimento nei CPR dei richiedenti asilo e diventa anche motivo di esclusione dal sistema di accoglienza per i titolari di protezione speciale, mentre la semplice denuncia per una di queste ipotesi di reato comporta l’applicazione della procedura accelerata (prima era prevista la procedura immediata). È stato poi inserito un ulteriore autonomo motivo di trattenimento del richiedente asilo nell’ipotesi in cui vi sia stata la presentazione della domanda reiterata di protezione internazionale in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento (art. 29 bis del D.lgs. n. 25/2008), che sembra essere di applicazione automatica. Resta la possibilità di revoca della cittadinanza italiana, prevista a seguito della condanna per reati gravissimi, ma che aveva suscitato pesanti critiche da parte dei costituzionalisti per la grave discriminazione operata in base al modo di acquisto della cittadinanza a fronte della configurazione costituzionale dell’istituto, non suscettibile di ogni possibile frammentazione. Non a caso, per risalire storicamente a forme differenziate di cittadinanza, occorre tornare con la memoria alla stagione coloniale italiana. Si modifica anche il cd. decreto sicurezza bis prevedendo che le operazioni di soccorso siano escluse dalle eventuali limitazioni o divieti di transito nei porti, purché immediatamente comunicate alle autorità e condotte nel rispetto delle direttive del competente centro di coordinamento dei soccorsi in mare. Qui sta la criticità della norma perché lo stato italiano riconosce la zona Sar libica con la conseguenza che per ampi spazi di mare sarebbe competente per il coordinamento dei soccorsi la guardia costiera libica alle cui istruzioni le Ong si dovrebbero attenere. Insomma, come dicevo all’inizio mi pare che l’impostazione dell’approccio al tema dei migranti e della “sicurezza” non sia mutato nel modo radicale in cui tutti gli operatori del settore si aspettavano. *Magistratura democratica Nazioni Unite, 120 stati a favore della moratoria sulle esecuzioni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 novembre 2020 Il 17 novembre una schiacciante maggioranza di stati membri delle Nazioni Unite ha approvato la proposta di risoluzione, sottoposta al Terzo comitato dell’Assemblea generale, per una moratoria sull’uso della pena di morte. Il testo è stato presentato da Messico e Svizzera a nome di una Task force interregionale di stati membri e sponsorizzato da 77 stati. Il voto finale, nella sessione plenaria, avrà luogo a metà dicembre. Centoventi stati hanno votato a favore del testo, 39 hanno espresso voto contrario e 24 si sono astenuti. Per la prima volta Gibuti, Libano e Corea del Sud hanno detto sì alla proposta di risoluzione. Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Eswatini, Guinea, Nauru, Filippine e Sierra Leone sono tornati a votare a favore, cosa che non avevano fatto nel 2018, così come lo Zimbabwe è tornato ad astenersi dopo che nel 2018 aveva votato contro. Nove stati hanno fatto marcia indietro: Dominica, Libia e Pakistan hanno mutato il voto favorevole in contrario, Niger e Isole Salomone sono passati dal sì all’astensione, Antigua e Barbuda, Sud Sudan, Isole Tonga e Uganda dall’astensione al voto contrario. Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Gabon, Palau, Somalia e Vanuatu, che nel 2018 avevano votato a favore, non hanno preso parte alla votazione. Dal 2007, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato sette risoluzioni per l’istituzione di una moratoria sulle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena capitale, ottenendo un crescente sostegno interregionale. Le risoluzioni dell’Assemblea generale godono di un notevole peso politico e morale e la continua approvazione di queste risoluzioni ha fatto diventare la pena di morte una priorità in tema di diritti umani per la comunità internazionale. I voti a favore sono saliti da 104 nel 2007 a 121 nel 2018, coerentemente con la tendenza globale sull’uso della pena di morte. Il numero degli stati totalmente abolizionisti è cresciuto dal 90 nel 2007 a 106 nel 2020. Nel 2019 vi sono state esecuzioni in una minoranza di stati, 20 in tutto. Di questi, 13 possono essere definiti “esecutori costanti”, avendo eseguito condanne a morte negli ultimi cinque anni consecutivi. Dall’ultima approvazione, nel 2018, di una risoluzione sulla moratoria delle esecuzioni, progressi verso l’abolizione sono stati registrati in tutte le parti del mondo: il Ciad ha cancellato la pena di morte nel giugno 2020; negli Usa, New Hampshire e Colorado sono diventati rispettivamente il 21° e il 22° stato abolizionista e il governatore della California (lo stato col più grande braccio della morte) ha dichiarato una moratoria sulle esecuzioni. Kazakistan, Federazione Russa, Tagikistan, Malaysia e Gambia hanno continuato a rispettare la moratoria sulle esecuzioni; Barbados ha rinunciato all’obbligatorietà della condanna a morte per il reato di omicidio; Angola e Stato di Palestina hanno presentato richiesta di accessione al Secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici che ha per obiettivo l’abolizione della pena di morte, mentre Armenia e Kazakistan l’hanno sottoscritto. Iraq. In un giorno 21 impiccati senza nome di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 20 novembre 2020 Lunedì scorso, il 16 novembre, le autorità irachene hanno impiccato 21 uomini. Un numero sconcertante. Erano accusati di terrorismo. Il Ministro degli Interni nel darne notizia non ha fornito dettagli né sull’identità dei giustiziati, né sui reati compiuti, limitandosi a dire che tra loro c’erano i responsabili di due attacchi suicida che causarono dozzine di morti nella città settentrionale di Tal Afar. Le impiccagioni sono avvenute nel carcere di Nasiriyah, nel sud del Paese, l’unico in cui si compiono le esecuzioni. Gli iracheni lo hanno soprannominato la “balena”, perché questo vasto complesso carcerario, dicono, “inghiotte le persone”. L’Iraq ha dichiarato vittoria sullo Stato Islamico nel 2017, mettendo un numero impressionante di sospetti sotto processo e compiendo esecuzioni di massa. L’Iraq aveva dichiarato vittoria anche su Saddam Hussein nel 2006, mandandolo al patibolo ad Abu Grahib, il carcere di Baghdad che dopo essere stato la centrale delle torture del regime sadamita è divenuto poi la centrale degli abusi compiuti durante l’occupazione americana. Oggi Abu Grahib è chiuso. Ma la logica male scaccia male imperversa ancora. La pena di morte può essere imposta per circa 48 reati, inclusi reati non di sangue come il danneggiamento di proprietà pubbliche. Ma la raffica di condanne capitali ed esecuzioni a cui abbiamo assistito nell’Iraq “liberato” è stata determinata per lo più dal reato di terrorismo introdotto nel 2005 con una definizione tanto ampia e generica da spiegare i numeri elevati, seppur sottostimati, che ci troviamo di fronte. Il Governo iracheno non fornisce dati sulle carceri né dice quanti sono quelli che vi si trovano con un’accusa di terrorismo. Però secondo alcuni studi sarebbero circa 20.000 i detenuti per rapporti con l’Isis. Oltre 1000 quelli mandati al patibolo dopo la “liberazione” dal dittatore Saddam. Sono stime, approssimazioni comunque sconcertanti. E a preoccupare ancora di più è il fatto che la mancanza di conoscenza sulla realtà carceraria e sulla pratica della pena di morte si riflette su quella relativa ai processi, assolutamente carenti sotto il profilo del giusto processo con casi ben documentati di confessioni estorte con la forza. E allora cerco un senso a tutto questo. E lo ritrovo nel “Nessuno tocchi Saddam”, quella iniziativa nonviolenta che Marco Pannella condusse per scongiurare l’esecuzione di chi era stato un suo grande avversario politico. Fu lo sciopero della sete più lungo della sua vita, quasi 8 giorni e rischiò di andare in dialisi. Pannella mise in gioco la sua vita per quella di Saddam! Quel fatto, quella lotta incredibile giunse all’orecchio delle opinioni pubbliche mediorientali che allora compresero il senso dell’appello a una moratoria universale delle esecuzioni capitali che chiedevamo le Nazioni Unite facessero proprio. Fu anche così che riuscimmo a porre nel 2007 la pietra miliare nel processo abolizionista storicamente in atto della Risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU per la moratoria universale delle esecuzioni capitali. Ora quell’appello alla moratoria, per il quale tanto lottammo, è l’unica proposta pragmatica, concreta, umana e civile che si possa avanzare in contesti come quello iracheno. Le Nazioni Unite, i Governi e le organizzazioni per i diritti umani se ne fanno forza. Dal 2008 ogni due anni al Palazzo di Vetro di New York è calendarizzato il voto di un nuovo testo di Risoluzione pro-moratoria. Proprio pochi giorni fa, nella notte tra martedì e mercoledì, il Terzo Comitato dell’Assemblea Generale a New York ha votato una nuova bozza con 120 voti a favore, 39 contrari e 24 astenuti. È un buon risultato se pensiamo che nel 2007 i voti a favore furono 104. Ed è facile la previsione che in vista del passaggio della Risoluzione nella plenaria in dicembre i voti a favore aumentino come solitamente avviene. Tutto questo dimostra come il processo abolizionista sia inarrestabile. La pena di morte è ormai un ferro vecchio del passato dove i colpi di coda come quello trumpiano o iracheno non sono più la regola ma eccezioni giustizialiste mortifere. Nessuno tocchi Caino concepisce allora una nuova frontiera di lotta a difesa dell’inviolabilità della dignità umana. Dopo l’abolizione della pena di morte, noi andiamo verso l’abolizione della pena fino alla morte e soprattutto della morte per pena. Stati Uniti. Giustiziato un detenuto in Indiana: Trump non rispetta lo stop alle esecuzioni La Stampa, 20 novembre 2020 È consuetudine che l’amministrazione uscente eviti le sentenze capitali. Il governo federale americano ha giustiziato un afroamericano - condannato per il sequestro, lo stupro e l’omicidio di un’adolescente in Texas - nonostante la tradizione che vuole che l’amministrazione uscente eviti di eseguire sentenze capitali. Orlando Hall è l’ottavo detenuto federale a essere messo a morte quest’anno, dopo una pausa di 17 anni. Hall è stato ucciso con un’iniezione letale nel carcere federale di Terre Haute, in Indiana, come ha reso noto il dipartimento di Giustizia. Il suo processo era stato macchiato da razzismo, secondo i legali dell’uomo, condannato nel 1995 per aver partecipato al brutale omicidio della 16enne Lisa Rene. L’esecuzione capitale è seguita al respingimento dell’appello dell’ultimo minuto fatto dagli avvocati di Hall alla Corte Suprema: si tratta della prima decisione presa dalla giudice scelta dal presidente Donald Trump, Amy Coney Barrett, che ha votato con i cinque colleghi - su nove totali - conservatori a favore dell’esecuzione. Egitto, cresce l’offensiva contro il fronte dei diritti umani di Francesca Caferri La Repubblica, 20 novembre 2020 Dopo il fermo di due attivisti di Eipr, l’ong con la quale collaborava anche Patrick Zaky, in molti al Cairo temono che gli arresti non saranno gli ultimi. Il presidente dell’organizzazione: “Siamo di fronte a violazioni che non avremmo immaginato cinque o dieci anni fa”. Karim Ennarah è stato fermato alle due del mattino di mercoledì, mentre era in vacanza con alcuni amici in un ristorante di Dahab, località balneare egiziana. Aveva scelto di andare lì per mettersi alle spalle la tensione che da giorni respirava al Cairo, ma non è bastato. Domenica, nella capitale egiziana, era stato arrestato un suo collega, Mohammed Basheer: entrambi lavorano per l’Egyptian initiative for personal rights (Eipr) una delle principali ong in difesa dei diritti umani rimaste attive in Egitto, la stessa con cui collaborava Patrick Zaky. Dopo l’arresto di Basheer, che non si occupa di contenuti ma dirige la contabilità, al gruppo di Eipr era stato subito chiaro che il cerchio si stava stringendo e che ci sarebbero stati altri fermi: diverse persone avevavo lasciato le loro case, altri come Karim, erano andati fuori città, ma non è bastato. Gli arresti, temono al Cairo, non saranno gli ultimi: prima del fermo di Karim, i media pro-governativi avevano iniziato a pubblicare articoli critici di Eipr, accusando il gruppo di lavorare per danneggiare la reputazione dell’Egitto e di essere affiliato ai Fratelli musulmani e al Qatar. Due affermazioni che nell’Egitto di oggi portano con sè un messaggio chiaro: essere nel mirino delle autorità. I fermi seguono l’incontro di due settimane fa fra i rappresentanti di Eipr e gli ambasciatori dei Paesi occidentali (fra cui il rappresentante italiano, l’ambasciatore Giampaolo Cantini) per fare il punto sulla situazione dei diritti umani in Egitto. Un incontro di routine che, secondo Gasser Abdel Razek, presidente di Eipr, ha scatenato i timori delle autorità per la possibile riapertura di un fronte diplomatico sul tema dei diritti umani, in coincidenza con l’avvio dell’amministrazione Biden. Il timore delle autorità egiziane sarebbe dunque che la nuova Casa Bianca possa essere molto più dura contro il Cairo di quanto non sia avvenuto finora, riportando le relazioni ai tempi dell’amministrazione Obama, quando il governo del presidente Abdel Fatah Al Sisi si vide bloccare milioni di dollari in aiuti militari proprio a causa della pessima situazione sui diritti umani. Basheer e Ennarah, come Patrick Zaky, sono accusati di aver diffuso informazioni false e di aver complottato contro lo Stato: la situazione non sembra semplice perché il loro caso è stato inserito nello stesso file di quello dell’avvocatessa Mahienour el-Massry, collaboratrice di Amnesty International, arrestata più di un anno fa e da allora in attesa di giudizio. “L’estremo fastidio provocato nelle autorità dal nostro incontro con gli ambasciatori è la dimostrazione di quanto sia pessima la situazione dei diritti umani in Egitto - ha detto in un’intervista al giornale indipendente Mada Masr, Gasser Abdel Razek - non solo in termini di quantità ma anche di qualità. Siamo di fronte a violazioni che non avremmo immaginato cinque o dieci anni fa”. Amnesty International ha definito “oltraggiosi” gli arresti e invitato i governi i cui ambasciatori erano presenti all’incontro a fare pressione per il rilascio degli attivisti e perché in carcere non finiscano altre persone. Un appello rivolto anche a Roma da cui si attende una risposta chiara e autorevole, in linea con le promesse del governo sui rapporti con l’Egitto dopo l’uccisione di Giulio Regeni e l’arresto di Patrick Zaky. Afghanistan. Crimini di guerra a Kabul per i marine australiani di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 20 novembre 2020 Un rapporto inchioda i soldati: giustiziarono a sangue freddo quaranta civili. Lo scandalo, insabbiato da alti ufficiali, scuote l’opinione pubblica Sotto accusa il corpo d’élite Australian Defence Force (Adf). Esistono “prove credibili” che un corpo d’elite del contingente australiano stanziato in Afghanistan come parte della coalizione anti talebani abbia commesso crimini di guerra. È la conclusione a cui è giunto un rapporto dell’Australian Defence Force (Adf) a seguito di un’inchiesta durata 4 anni. L’Australia è scossa da uno scandalo dalle proporzioni enormi che coinvolge la stessa posizione internazionale del paese. L’accusa principale è quella di aver giustiziato 39 civili senza nessuna plausibile giustificazione tra il 2009 e il 2013. L’indagine è stata condotta dal Magg. Gen. Justice Paul Brereton che ha ascoltato più di 400 testimoni. Nel rapporto vengono indicati 25 soldati delle forze speciali che hanno preso parte a uccisioni illegali direttamente o indirettamente nel corso di 23 “incidenti”. In totale si tratta di 36 esecuzioni che ora saranno soggette alla lente d’ingrandimento della polizia federale. stato lo stesso capo dell’ADF, il generale Angus Campbell, a confermare che nessun caso può essere “definito come determinato dalla concitazione di una battaglia… o in circostanze di confusione”. In particolari, riferisce il rapporto, “ai soldati sarebbe stato ordinato di uccidere la loro prima persona come parte di una sorta d’iniziazione. Inoltre per coprire i crimini venivano lasciate armi vicino ai morti. Tradotto: crimini di guerra e trattamento crudele, figlio di una cultura distorta… abbracciata e amplificata da alcuni sottufficiali esperti, carismatici e influenti e dai loro protetti, che hanno cercato di confondere l’eccellenza militare con l’ego, l’elitarismo e il diritto”. In ogni caso per l’ADF non sarebbe corretto incolpare i comandi superiori in quanto le violazioni sarebbero iniziate e nascoste da parte dei comandanti di pattuglia. Una ricostruzione che conferma le conclusioni di chi, per prima, ha iniziato ad indagare sugli accadimenti. Si tratta della ricercatrice per i diritti umani Samantha Crompvoets: fin da subito aveva rilevato come ad essere coinvolti fossero anche sottufficiali molto influenti. “I comandanti di plotone incoraggiavano o insistevano che i giovani soldati giustiziassero i prigionieri per compiere la loro prima uccisione, quindi era quel tipo di comportamento per preparare questi giovani soldati o per farli entrare nello squadrone, questo è stato molto inquietante”. La dottoressa Crompvest dice di aver affrontato “un’enorme resistenza” quando il suo rapporto iniziale è trapelato. “Sono stata criticata per essere una donna, una civile, una femminista, che in qualche modo stava cercando di femminilizzare la difesa delle vittime”. I vertici militari avrebbero cercato di ostacolare l’inchiesta, per questo la Commissione indipendente per i diritti umani dell’Afghanistan (Aihrc) insiste per andare a fondo. “Solo con inchieste indipendenti - spiega un portavoce della Commissione - potremo scoprire la reale portata di questo disprezzo per la vita afgana, che ha normalizzato l’omicidio ed è sfociato in crimini di guerra”. Armeni, il pericolo di un “genocidio culturale” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 20 novembre 2020 L’allarme che giunge per le basiliche, le biblioteche, i cimiteri, le scuole, i luoghi di culto cristiani nelle regioni dell’ex provincia sovietica, passata agli armeni dopo la guerra del 1991-93 e adesso cadute nelle mani dell’esercito dell’Azerbaijan musulmano sostenuto dalla Turchia di Erdogan, ricorda tragiche dinamiche mai sopite dell’antichissimo rituale della guerra. Lo scenario che si prospetta nelle province armene del Nagorno-Karabakh non è molto diverso da quanto nel terzo millennio prima di Cristo avveniva nelle guerre di sterminio della Mezza Luna Fertile. Dopo la pulizia etnica arriva quella dei templi, dei monumenti, degli dei, dell’intero retaggio culturale del nemico. Dell’avversario battuto non deve restare più nulla, neppure la memoria della sua identità. L’allarme che giunge per le basiliche, le biblioteche, i cimiteri, le scuole, i luoghi di culto cristiani nelle regioni dell’ex provincia sovietica, passata agli armeni dopo la guerra del 1991-93 e adesso cadute nelle mani dell’esercito dell’Azerbaijan musulmano sostenuto dalla Turchia di Erdogan, ricorda tragiche dinamiche mai sopite dell’antichissimo rituale della guerra. Solo quattro o cinque anni fa la missione archeologica italiana nell’antica città ittita e assiro-babilonese di Karkemish, sull’attuale confine tra Turchia e Siria, aveva divulgato la scoperta del “pozzo delle civiltà”. Un profondo anfratto all’interno delle mura dove ogni popolo vincitore gettava le statue, le monete, i simboli, le divinità di quello appena vinto. Sono memorie che fanno capire quanto difficile e delicato sia ora il compito del contingente russo mandato da Putin a sorvegliare gli accordi di pace. Gli armeni sono in ritirata dalle regioni che stanno passando sotto il controllo musulmano. Quasi un ventennio fa erano le autorità sconfitte di Baku a chiedere la protezione Onu contro i vandalismi armeni. Ora la situazione pare rovesciata, ma in violenze e distruzioni molto peggiori. Si parla già di un nuovo “genocidio culturale” dei cristiani. Lo denunciava ieri con forza sul Wall Street Journal la studiosa Christina Maranci. “I governi dell’Azerbaijan e della Turchia hanno messo in atto da tempo la ben documentabile politica di distruzione metodica del patrimonio culturale armeno nei loro territori. Tra il 1997 e il 2006 nella zona di Nakhichevan hanno abbattuto 89 chiese medioevali, 5.840 croci di pietra, 22.000 antiche pietre tombali”, notava, riportando una lunga serie di località e dettagli. Ma a suo dire il peggio dovrebbe ancora arrivare, visto che negli ultimi due mesi di combattimenti le artiglierie musulmane avrebbero mirato a luoghi di valore inestimabile, come la Cattedrale del Santo Salvatore di Shushi. Al suo appello fa eco quello inviato al governo italiano e alla Santa Sede da 43 studiosi, tra cui una trentina di italiani. Segnalano che il patrimonio artistico armeno rischia di venire distrutto come “ai tempi del genocidio turco del 1915”. La Turchia arresta l’attivista anti-velo in fuga da Teheran di Monica Perosino La Stampa, 20 novembre 2020 In Iran Nasibe Semsai protestava contro lo hijab obbligatorio. Condannata a 12 anni, cercava di raggiungere la Spagna. Questione di pochi metri e una manciata di minuti e Nasibe Semsai, architetta di 36 anni, avrebbe raggiunto il suo posto sull’aereo diretto in Spagna. Non ce l’ha fatta. L’attivista iraniana in fuga dalla Repubblica islamica è stata arrestata all’aeroporto di Istanbul dalle autorità turche mentre cercava di imbarcarsi. Aveva un passaporto falso, dicono ora da Ankara. Nasibe Semsai è una delle attiviste della protesta del “mercoledì bianco”, bianco come lo hijab che le donne si tolgono e sventolano come una bandiera, una “blasfemia” in Iran, una sfida al regime degli Ayatollah e alle leggi islamiche che impongono alle donne di coprirsi sempre il capo e i capelli. Nasibe, condannata a 12 anni di carcere per aver partecipato alle proteste nel 2018 contro l’obbligo del velo, è chiusa in un centro per migranti irregolari a Edirne, vicino al confine con la Grecia. Ora l’attivista rischia l’espulsione verso il suo Paese d’origine. E in Iran rischia di uscire dal carcere alla soglia dei 50 anni, se non peggio. L’arresto dell’architetta appassionata di montagna non è che l’ultimo esempio di come la Turchia vìoli le regole internazionali che prevedono di non deportare nel Paese d’origine le persone che rischiano di finire in prigione a causa delle proprie idee. Lo scorso 9 settembre Ankara aveva arrestato Maryam Shariatmadari, un’altra attivista del “mercoledì bianco” che aveva cercato rifugio in Turchia. Ora anche lei rischia l’estradizione. E Nasibe Semsai non sarà l’ultima ad essere arrestata per aver sventolato uno hijab, o per aver semplicemente partecipato alle proteste. Anche a fine ottobre, in Iran, una giovane donna era stata arrestata per “aver insultato l’hijab islamico”. Sui social era apparso un video - girato da qualcuno con un telefonino - che la mostrava in bicicletta senza velo e con un braccio alzato nel centro di Najafabad. “La mia libertà nascosta” - Dal 2014 sono state decine le donne incarcerate, punite con frustrate e perseguitate per la “rivolta del velo”, il movimento nato online da un’idea di Masih Alinejad, attivista di origine iraniana in esilio a New York. Tutto era iniziato con una pagina Facebook, “My Stealthy Freedom”, dove le donne in Iran pubblicavano foto di se stesse senza hijab scattate di nascosto. La pagina raccolse oltre tremila immagini in pochi mesi, fotografie e video di donne che si liberavano dello hijab in pubblico e lasciavano “che il vento scompigli i nostri capelli”. Ma dal 2017 qualcosa è cambiato, e le donne con un coraggio eccezionale hanno preso a manifestare apertamente in pubblico. Ha iniziato, il 27 dicembre 2017, la 31enne Vida Movahed, conosciuta anche come “La ragazza di Enghelab Street”: un video la mostrava in piedi, nel centro di Teheran, mentre sventolava silenziosamente il suo hijab bianco. Fu arrestata dopo un’ora. Nei giorni successivi altre 29 donne furono fermate per aver seguito l’esempio di Vida. Da allora non hanno mai smesso. La rivoluzione islamica - Prima della rivoluzione islamica del 1979 molte donne iraniane indossavano abiti in stile occidentale, comprese minigonne e top sbracciati, ma tutto è cambiato quando il defunto Ayatollah Khomeini è salito al potere. La legge islamica oggi prevede che le donne che non indossano lo hijab possano essere incarcerate da dieci giorni a due mesi e fino a dieci anni se commettono “atti immorali e prostituzione”. I reati previsti dagli articoli 638 e 639 del codice penale islamico sono appunto quelli che vengono contestati alle donne, poiché togliersi il velo in pubblico, simbolo della “modestia” femminile, equivale a sfidare la rispettabilità e il proprio ruolo nell’obbedienza. E Teheran non risparmia neanche gli avvocati che tentano di difenderle: Nasrin Sotoudeh, la famosa e pluripremiata avvocatessa iraniana 56enne, dovrà scontare la condanna a 33 anni di carcere e 148 frustate. La pena più severa mai inflitta finora in Iran ad attivisti per i diritti umani.