Il Decreto legge Ristori e le carceri di Fabio Gianfilippi* giustiziainsieme.it, 1 novembre 2020 Le disposizioni emergenziali? per contenere il rischio di diffusione dell’epidemia nel contesto penitenziario. Il carcere alla prova della seconda ondata Mentre il numero di contagi aumenta su tutto il territorio nazionale, anche il carcere soffre la diffusione del Covid-19, in alcuni casi, per come ricordato dal Garante nazionale nel suo comunicato del 28.10.2020 (https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/it/dettaglio_contenuto.page?contentId=CNG9597&modelId=10021), con un coinvolgimento ancora limitato, ed in altri con numeri preoccupanti tra detenuti e personale. Nonostante la messa a punto di un sistema di controlli e la riduzione sensibile, di fatto mai davvero cessata, delle attività trattamentali all’interno degli istituti di pena, era prevedibile che un organismo fatto di tanta umanità, compressa in spazi relativamente limitati, fosse esposta al pericolo di contagio. In questa logica il DL “Cura Italia” n. 18 del 17.03.2020 (poi convertito con legge 24 aprile 2020 n. 27) aveva previsto alcuni interventi volti a deflazionare i numeri dei detenuti negli istituti penitenziari, anche se sin da subito si era percepito come si trattasse di soluzioni non destinate ad incidere con numeri particolarmente importanti sull’endemico sovraffollamento. Non è questa per altro la sede per raccontare invece come molto lavoro sia stato fatto dalla magistratura di sorveglianza utilizzando gli ordinari strumenti previsti dalla legge penitenziaria, soprattutto per mettere al riparo dal rischio di contagio i detenuti con patologie particolarmente gravi e con età avanzata. Si ricorderà come questi provvedimenti siano stati accolti da una certa campagna di stampa e come, di fatto, la risposta del legislatore sia stata in seguito caratterizzata da due DL (28 e 29/2020), che avevano di mira essenzialmente un freno alle uscite o comunque il rientro in carcere delle persone ammesse a quelle misure domiciliari, ove condannate o imputate per delitti di criminalità organizzata ed alcune altre gravi fattispecie di reato. Dopo un’estate che aveva condotto tutti a sperare, contra spem, che il peggio fosse passato, ecco che il virus torna, implacabile e, dopo un nuovo aumento del numero dei detenuti, la necessità di intervenire sul carcere si fa di nuovo pressante, anche se è indubbio che ogni misura volta a ridurre la pressione sul mondo penitenziario avrebbe sortito effetti migliori, e sarebbe stata praticabile in modo più semplice, intervenendo prima di questa seconda fase emergenziale, in cui gli uffici di sorveglianza, gli uffici esecuzione penale esterna e la polizia penitenziaria affrontano carenze ulteriori negli organici già non ampi, a causa del personale in isolamento domiciliare precauzionale, o positivo e in quarantena, o costretto al domicilio in blocco, per la chiusura temporanea degli uffici per la sanificazione degli ambienti. È in questo contesto che si collocano gli interventi contenuti negli art. 28. 29 e 30 del DL n. 137, pubblicato in Gazzetta Ufficiale nella serata del 28 ottobre 2020, e in vigore dal giorno successivo. La disposizione in materia di licenze La prima misura, sulla falsariga di quella prevista nell’art. 124 del dl 18/2020, è inserita nell’art. 28 e concerne la concedibilità al condannato ammesso al regime di semilibertà di licenze “premio”, aggettivo quest’ultimo che, senza una particolare ragione, si aggiunge alla loro denominazione ordinaria, in misura superiore ai 45 giorni annui. Rispetto alla versione del decreto legge di marzo, oggi si precisa che questa possibilità incontra il solo limite della sussistenza di gravi motivi ostativi alla concessione da valutarsi da parte del magistrato di sorveglianza. Le licenze straordinarie, per durata, si sono rivelate assai utili nella gestione di condannati che avrebbero altrimenti quotidianamente alternato momenti in libertà e in detenzione, con evidente maggior rischio di portare il contagio con sé. E’ quindi assai utile che vi si possa nuovamente far ricorso. Il riferimento espresso ai gravi motivi ostativi come gli unici che giustifichino un diniego della concessione appare in tal senso come un incentivo ulteriore al più ampio uso dello strumento, almeno sino alla data del 31 dicembre 2020, indicata espressamente. I permessi premio di durata straordinaria L’art. 29 prevede che, ancora una volta sino al 31 dicembre 2020, si possano concedere permessi premio senza i limiti di durata previsti nell’art. 30 ter ord. penit., e dunque anche più lunghi di quindici giorni e complessivamente più ampi di quarantacinque giorni annui. La misura però è destinata soltanto a chi abbia già fruito di permessi premio e sia stato già assegnato a svolgere un lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21 ord. penit. (o sia ammesso all’istruzione o alla formazione professionale all’esterno, nel contesto dell’ordinamento penitenziario minorile). La formulazione parrebbe per altro fissare il momento in cui si cristallizzano i requisiti che consentono i permessi di durata straordinaria a quello di entrata in vigore del decreto legge. Nell’ottica deflativa che contrassegna l’intervento urgente del Governo, questa misura apre positivi spazi che con il decreto di marzo non erano stati percorsi, ma il riferimento soggettivo al condannato ammesso ai permessi e (con uso inequivoco della congiunzione semplice “e”) anche assegnato al lavoro all’esterno, limita particolarmente il suo campo di applicazione, rinunciando ad una apertura, invece possibile, a tutta la platea dei detenuti già provati mediante positive esperienze premiali, con la quale si sarebbe potuto lasciare alla prudente discrezionalità dei magistrati di sorveglianza il vaglio relativo alla maturazione dei percorsi individuali, e quindi alla capacità dei destinatari di rispettare le prescrizioni con permessi di più lunga durata. Sarebbe in tal senso auspicabile una modifica ampliativa, percorribile in sede di conversione del DL in legge, mediante la sostituzione della congiunzione con una particella disgiuntiva. La disposizione è arricchita, per altro, di ulteriori limitazioni, non potendo trovare applicazione a quei detenuti, che pure abbiano maturato dalla magistratura di sorveglianza una fiducia sufficiente ad aprirli ai benefici premiali e al lavoro all’esterno, ma espiino pene per delitti compresi nel disposto dell’art. 4 bis ord. penit. oppure siano stati condannati per i delitti di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.) o di atti persecutori (art. 612-bis cod. pen.). Il permesso non è neppure concedibile a chi veda compreso nel proprio titolo esecutivo un delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso od altro reato commesso con modalità mafiose o con la finalità di agevolare un gruppo criminale ex art. 416 bis cod. pen., oppure di terrorismo anche internazionale, anche se ha già espiato la quota di pena relativa a questi delitti, se i reati residui siano stati giudicati, anche in sede esecutiva, avvinti da una connessione con quelli ostativi perché commessi con una sola azione od omissione o in esecuzione di un medesimo disegno criminoso (art. 12 co. 1 lett. b) cod. proc. pen.) o per eseguire od occultare i reati ostativi (art. 12 co. 1 lett. c) cod. proc. pen.). Quest’ultima indicazione, contenuta nell’art. 29 co. 2 del DL, introduce un’eccezione espressa al principio, di origine giurisprudenziale, dello scioglimento del cumulo in favore del condannato, alla luce del quale, quando occorre procedere al giudizio sull'ammissibilità di un beneficio penitenziario, ostacolata dalla circostanza che nel cumulo è compreso un titolo di reato rientrante nel novero di quelli ostativi, si considera espiata per prima la parte di pena relativa al reato ostativo (con l’unico limite di cui all’art. 657 co. 4 cod. proc. pen.) e, se si verifica l’avvenuta integrale espiazione di quella quota, si può procedere alla valutazione di merito. Il DL limita quindi, sotto questo profilo, il ricorso allo scioglimento del cumulo, laddove si valutino i permessi di durata straordinaria. Non immediatamente comprensibile appare la scelta di evocare l’art. 12 co. 1 lett. b e c cod. proc. pen., disposizione dagli scopi tutti interni al processo, invece che l’art. 81 cod. pen. e l’aggravante di cui all’art. 61 n. 2 cod. pen. Un profilo non meramente formale, ulteriormente complicato nel testo dal riferimento alla necessità che la sussistenza della connessione sia deducibile dall’accertamento operato dal giudice di cognizione o dell’esecuzione (per quest’ultimo sarebbe stato al più opportuno richiamare l’art. 671 cod. proc. pen., esclusa una rilevanza dell’art. 12 co. 1 lett. c) in questa fase). La disposizione non sembra comunque destinata a mutare sensibilmente la giurisprudenza in merito della magistratura di sorveglianza perché, per come è congegnato l’art. 4 bis co. 1 ord. penit., già oggi tutti i reati commessi con modalità mafiosa o al fine di agevolare i gruppi criminali di riferimento, sono considerati ostativi alla concessione di benefici penitenziari e allo stesso modo, quando venga riconosciuta, anche in fase esecutiva, la continuazione tra il delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen. ed un qualunque altro delitto, la medesimezza del disegno criminoso, che è premessa per quella determinazione, si ritiene che attragga nell’alveo dell’ostatività anche il reato di per sé non ostativo. La scelta normativa appare invece utile a fugare ogni dubbio circa l’operatività del meccanismo di scorporo in tutti gli altri casi, secondo il principio generale riconosciuto ormai pacificamente da molti anni dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. SU 30.06.1999, Ronga), e che deve ritenersi ammettere delle eccezioni, soltanto ove espressamente individuate dal legislatore, come nel caso di specie (vd. anche l’ipotesi dell’art. 41-bis co. 2 ult. parte ord. penit.). Il ritorno della detenzione domiciliare per gli ultimi diciotto mesi di pena L’art. 30 ripropone, in modo sostanzialmente invariato, la misura di detenzione domiciliare per le pene anche residue non superiori ai diciotto mesi, già prevista dall’art. 123 del DL 18/2020, con i marginali correttivi introdotti in sede di conversione con legge 27/2020. Ci si permette in questa sede un richiamo integrale alle considerazioni che si svolsero, immediatamente dopo l’entrata in vigore del DL “Cura Italia” su questa Rivista (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/929-dl-17-marzo-2020-n-18-rischio-di-diffusione-dell-epidemia-di-covid19-nel-contesto-penitenziario). È soltanto necessario richiamare i pochi elementi di novità Il più importante è contenuto nel co. 1 lett. a) poiché viene replicato il già decritto meccanismo impeditivo dello scioglimento del cumulo, in presenza di ipotesi di connessione secondo l’art. 12 co. 1 lett. b e c cod. proc. pen. Il perimetro applicativo, quindi, già segnalatosi nella stesura dello scorso marzo per l’esiguità, appare qui ancora più ridotto. Tra i soggetti esclusi, inoltre, vengono indicati, oltre i destinatari di provvedimenti disciplinari per le infrazioni di cui agli artt. 18, 19, 20 e 21 dpr 230/2000, anche coloro nei cui confronti, in data successiva all’entrata in vigore del decreto legge, venga redatto un rapporto disciplinare per la promozione o la partecipazione ad eventuali disordini o sommosse. Oggetto di particolari critiche era stata, all’entrata in vigore dell’art. 123, la difficoltà di reperimento dei dispositivi di controllo mediante mezzi elettronici (i c.d. braccialetti elettronici), cui è subordinata la concessione della misura quando, e finché, la pena residua sia superiore ai sei mesi residui. Una difficoltà che, in concreto, ha di certo ostacolato la più pronta deflazione degli istituti penitenziari, essendo comunque necessari alcuni giorni perché il dispositivo possa essere effettivamente reperito ed attivato, ma che, per l’esiguo numero complessivo di concessioni di misure, non si è appalesato come l’ostacolo decisivo all’efficacia del nuovo strumento. In sede di conversione, ad ogni modo, si era ritenuto di incrementare, per la verità in modo davvero esiguo, la quota di pena al di sotto della quale la misura non ne richiedeva l’installazione, con la barocca formulazione per cui: “nel caso in cui la pena residua non superi di trenta giorni la pena per la quale é imposta l'applicazione delle procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, questi non sono attivati.” Stessa soluzione oggi replicata. Il co. 9 prevede, sulla falsariga dell’art. 123 co. 8 bis, introdotto in sede di conversione del dl 18/2020, che questa forma particolare di detenzione domiciliare possa applicarsi ai detenuti che ne maturino i presupposti entro il 31 dicembre 2020, e dunque non ne è esclusa la concedibilità anche con istanze pervenute, o soltanto con istruttorie conclusesi, in data successiva. Gli spazi del carcere e gli interventi normativi Le misure introdotte potranno consentire alcuni, più o meno immediati, effetti di deflazione (ad esempio svuotando le sezioni semiliberi o ammessi all’art. 21), ma non sembrano destinate a mutare in modo sensibile il quadro di sovraffollamento penitenziario che, in questa fase dell’epidemia, si fa più grave, perché risulta prioritario destinare spazi adeguati all’isolamento dei detenuti che giungono dall’esterno, ai fini delle opportune verifiche di negatività al virus, e si impongono sforzi organizzativi poderosi, ove si sviluppino cluster epidemici all’interno degli istituti stessi. In questo contesto resta inoltre sempre particolarmente delicata la condizione dei detenuti con maggiori fragilità: anziani ed ammalati, ed assolutamente necessaria una sinergia tra amministrazione penitenziaria e sanità regionale, in grado di gestire in modo adeguato istituti penitenziari cui sempre più si richiede di approntare ampi spazi interni al carcere in grado di garantire effettivi standard igienici e di sanificazione, di tipo persino ospedaliero. Uno scenario di enorme complessità, che ci fa guardare all’arrivo dell’inverno, con l’acuirsi pronosticato del contagio, con una paura per questa stagione che Adam Gopnik (L’invenzione dell’inverno, Guanda, 2016) poteva ritenere archiviata nel nostro passato premoderno, ma che la pandemia ha reso di nuovo contemporanea. *Magistrato di sorveglianza di Spoleto Covid. Al di là dei proclami, nulla è stato fatto per le carceri di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 1 novembre 2020 Impreparati allora, impreparati adesso, con prigioni che con la pandemia sono diventate delle isole tipo Alcatraz. Se poco o nulla è stato fatto per aumentare i posti letto negli ospedali e nelle terapie intensive o per assumere medici e infermieri falcidiati negli anni dalle politiche dei tagli e dalle logiche del profitto là dove il profitto non dovrebbe essere di casa, ancora meno è stato fatto nelle carceri: non sono bastate le rivolte, ancora meno sono bastati i tredici morti di marzo e i tre morti da Covid in primavera. Qualche tenda mobile davanti alle carceri, vetri divisori, colloqui Skype o Zoom e la farsa della liberazione di alcune migliaia di detenuti (subito attaccata e giudicata come liberazione dei boss mafiosi da tanti media, da pezzi di centro destra, dai consueti giustizialisti) sono tutto quello che è stato capace di partorire il nostro esecutivo. Impreparati allora, impreparati adesso, con carceri diventate delle isole tipo Alcatraz (vietate persino le attività trattamentali) ecco che ci troviamo a contare il primo detenuto morto da Covid in questa seconda ondata (è successo nel carcere di Livorno dove la vittima è un ultraottantenne con patologie pregresse, affetto da ipertensione arteriosa, fibrillazione atriale, calcolosi e varie cisti epatiche), i primi contagiati tra i detenuti (145, due dei quali in terapia intensiva) e tra il personale penitenziario (199). Un’emergenza nell’emergenza che anche questa volta viene affrontata con i soliti proclami e le solite fake news: “5 mila detenuti con pene sotto i 18 mesi a casa ai domiciliari grazie ai braccialetti elettronici”. Peccato che i braccialetti elettronici non ci sono, peccato che per uscire dal carcere quei 5 mila non devono avere avuto rapporti disciplinari (e per avere un rapporto basta ad esempio contestare un agente) e non avere compiuto reati ostativi (4 bis). Proclami inutili e di facciata: c’è già la 199 (peraltro applicata dai magistrati di sorveglianza con tantissime difficoltà) che prevede che coloro i quali hanno da scontare una pena sotto i 18 mesi possano essere mandati ai domiciliari. Insomma, proclami e fake news contraddetti dalla realtà. Basta l’esempio accaduto due giorni fa a Chieti, ma sono certo che un episodio analoga possa essere accaduto in qualunque altro istituto penitenziario: ore 11, un’auto dei carabinieri si ferma all’ingresso, viene fatta scendere una persona in manette, questa persona viene consegnata alla matricola per le procedure di rito (identificazione, impronte, foto, denudamento, perquisizione e invio in cella). E sapete chi era? Era un uomo con una condanna alla pena del carcere di 4 mesi. Vi sembra normale in questi tempi? Vi sembra logico non aver applicato una misura diversa dal carcere per un individuo che ha compiuto un reato punibile con 4 mesi? Eppure è scritto chiaro nella nostra Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione. Pene…non pena del carcere è scritto all’articolo 27, terzo comma. Parlo ancora per conoscenza diretta: sempre due giorni fa in carcere a Chieti, in un veloce giro tra i detenuti che seguono il laboratorio di “Voci di dentro” e di “In carta libera” (qui l’ultimo numero della rivista https://ita.calameo.com/read/0003421545e99ba86a1a6) scopro che c’è un ragazzo che deve scontare ancora 5 mesi dopo aver fatto 4 anni, un altro deve fare ancora due mesi dopo essersi fatto un anno e 4 mesi e un terzo ha già fatto 5 anni e gli resta un anno e mezzo. Domani usciranno, ho pensato. La loro risposta: “Nessuno di noi potrà uscire, per una cosa o per un’altra, per una sintesi che non viene chiusa o perché manca la relazione della psicologa…o per altro, alla fine resteremo qui, dimenticati, soprattutto soli e con il concreto rischio di prenderci il virus, di contagiarci e contagiare gli altri”. Mi sono andato a guardare le statistiche pubblicate sul sito del ministero della Giustizia. Ho scoperto così che nella stessa situazione che ho verificato e visto con i miei occhi si trovano migliaia di persone in tutti i 188 istituti del nostro Paese: al 30 giugno di quest’anno si trovano detenuti 18.856 persone che hanno da scontare ancora tre anni di carcere, di questi 6.883 hanno un residuo che è inferiore a un anno, 6.850 fra uno e due anni e 5.173 con una pena ancora da scontare tra i due e i tre anni. Ecco, se davvero si volesse fare qualcosa, ridurre il sovraffollamento e fare spazio per aree detentive per i detenuti scoperti positivi, si potrebbe agire veramente con i fatti, senza delegare ai giudici scelte che sono prima di tutto scelte di chi fa le leggi, e mandare sul serio a casa, ai domiciliari, quelle 18.856 persone che hanno scontato gran parte della pena e poi i malati e gli anziani. Facendo sul serio, cioè con una legge e non propagandando ai giornali le solite fake per paura, per incapacità di uscire dalla logica della punizione a tutti i costi, della logica della vendetta, detto in altri termini. Quella vendetta che ha fatto sì, ed è solo un esempio, che questa estate venisse incarcerato (ancora a Chieti) per il furto di una tronchese un uomo di 44 anni, con gravi problemi di salute, ulcere sanguinolente alle gambe per trombosi, invalido, costretto un giorno sì e un giorno no ad essere portato in ospedale per cure specifiche, addirittura tossicodipendente al punto che ogni giorno - come mi dicono i suoi compagni di cella - si prende 100 ml di metadone, 150 di rivotril, oltre ad altri farmaci al bisogno. Quella logica della vendetta che tiene in carcere in attesa di giudizio (innocenti fino a prova contraria) oltre il 30 per cento delle persone detenute. E poi una cinquantina di mamme con i loro figli sotto i tre anni. E questo in una situazione di emergenza come quella attuale. Ignorando le paure dei detenuti e il loro diritto alla salute che non può essere da meno di quello delle persone libere. Disattendendo le preoccupazioni degli stessi agenti di polizia penitenziaria e dei direttori delle carceri. Riporto qui una storia raccontata da Riccardo Radi nel suo filodiritto: “Nell’estate del 2003, un ragazzo tossicodipendente di 22 anni commette tre rapine armato di un taglierino. All’epoca dei fatti, vive per strada di espedienti e reati per procurarsi i soldi per la droga. Viene arrestato e dopo circa 5 mesi liberato in attesa di giudizio. Nel maggio del 2006, il Gup del tribunale di Roma lo rinvia a giudizio: la prima udienza è fissata per il 19 settembre 2066. Il processo, dopo numerose udienze e rinvii, si conclude con una sentenza il 7 luglio 2014: sono trascorsi 8 anni dall’inizio del processo e 11 anni dai fatti. Viene interposto appello, la Corte di appello di Roma pronuncia la sentenza il 16 febbraio 2018, condanna ad anni 5 di reclusione per una delle rapine ed assoluzione per le altre due in contestazione. La sentenza diviene definitiva nel febbraio del 2020, a distanza di 17 anni dalla data di commissione del reato. Il ragazzo di allora è oramai un uomo maturo e viene arrestato e condotto in carcere per scontare la sua pena. Quest’uomo oggi è un’altra persona, ha risolto i suoi problemi di tossicodipendenza, lavora come fornaio, è sposato con due figli minori e conduce una vita regolare. Per usare un lessico sociologico-giuridico, si è perfettamente “integrato nella comunità sociale”. Ma tutto ciò verrà vanificato e spazzato via, dal nostro sistema punitivo-afflittivo che prevede la pena quale unico strumento di risposta al reato”. Proprio in questi giorni Laterza ha mandato in libreria “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” scritto a quattro mani dal presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, e dal giornalista del Corriere della Sera, Edoardo Vigna. Ho assistito alla presentazione fatta on line a cura della Camera penale di Padova. L’incontro lo trovate qui https://fb.watch/1r7xvyX-JL/. Consiglio il libro, anche per uscire dalla vecchia idea, specie oggi in tempo di Covid, che il carcere serva a qualcosa. ice bene Mauro Palma, garante dei detenuti: “La pena perde la funzione preventiva perché non ha capacità di intimidire, giacché porzioni di tempo da trascorrere nella reclusione sono soltanto segmenti periodici di vite segnate dalla marginalità sociale; perde la funzione di utilità sociale perché non rappresenta una effettiva tendenza rieducativa, in quanto non ricorre a quegli strumenti di modulazione dell’esecuzione che gradualmente avviino verso un diverso ritorno alla realtà sociale esterna; perde la stessa fisionomia retributiva, da molti attualmente auspicata e strillata come unica risposta al reato, perché in realtà si limita a una funzione simbolica volta a ottenere consenso politico e non a determinare effettiva capacità di riannodare quei fili che la commissione del reato stesso ha reciso”. Mentre l’epidemia da Covid avanza, mentre fuori si invita, anzi si obbliga alla distanza, in cella si continuano a tenere anche dieci detenuti in una stanza. “Amnistia e indulto” è lo slogan che comincia a girare tra le carceri. Lo faccio mio. *Giornalista, direttore di “Voci di dentro” Va scongiurata una nuova babele di protocolli nei Tribunali di Silvia Vono* Il Dubbio, 1 novembre 2020 Nonostante i provvedimenti governativi delle ultime ore, una parte dell’attività giudiziaria rischia di restare esposta al vento delle “variabili organizzative” predisposte dai capi di ciascun ufficio. Una nota della Procura generale della Cassazione ha già preannunciato la minaccia. E adesso l’esecutivo non può rispondervi con l’inerzia. Se un Paese senza regole non può esistere, un Paese in cui le regole siano inattendibili perché l’apparato deputato alla loro applicazione non funziona è inaffidabile e non credibile. Il corretto andamento del sistema giudiziario, dunque, lungi dal rimanere argomento a parte e “di nicchia”, ha una valenza trasversale con imprescindibili ricadute anche sul sistema sociale, politico ed economico. Nell’incertezza generale che caratterizza il periodo in cui viviamo, non può che preoccupare e lasciare sgomenti la nota della Procura generale della Corte di Cassazione con la quale si anticipa la possibilità di un ripristino delle procedure contenute nell’articolo 83 del decreto legge 18/2020 che, tra l’altro, prevedevano un affidamento generico dei poteri di organizzazione degli uffici ai presidenti di Tribunale. Detta previsione ha già provocato, nel periodo marzo-giugno 2020, il proliferare di numerosi e diversi protocolli che hanno certamente inciso negativamente rallentando l’intero sistema giustizia e l’attività degli avvocati. Sulle pagine del Dubbio mi ero già espressa sulla questione, ricordando come l’utilizzo del telelavoro, da non considerarsi “smart working”, sia deleterio per l’utenza, anche considerando il rischio sanitario che è limitabile, in ogni settore, con il costante controllo e il rispetto rigoroso delle regole di convivenza in pubblico. Un nuovo stallo dell’attività nei Tribunali potrebbe causare un insanabile accumulo dei procedimenti, un ingolfamento ulteriore della macchina giudiziaria già gravemente compromessa dalle misure emergenziali dettate da provvedimenti passati. È inaccettabile anche la polemica politica sollevata in maniera strumentale e direi, al di là dei ruoli ricoperti, da “ignoranti” della materia e del settore con cui, proprio per la mancata conoscenza degli argomenti, si è addossato il malfunzionamento dell’intero apparato giudiziario al settore dell’avvocatura. Dichiarazioni spudoratamente populiste volte solo ad alimentare il malcontento di fasce di popolazione già ampiamente in difficoltà, mosse dall’unico scopo di sollevare polveroni alla inutile ricerca di un responsabile. Non si deve mai pensare di poter eludere un confronto serio tra politica, operatori e professionisti per arrivare a soluzioni condivise, utili all’operatività e al mantenimento delle garanzie di un sistema strategico per il nostro Paese. La giustizia è un’infrastruttura fondamentale perché il tessuto produttivo di qualsiasi Nazione possa svilupparsi e modernizzarsi. È condizione fondamentale per la crescita sociale e culturale. Il buon funzionamento dell’apparato giudiziario rappresenta dunque il tassello imprescindibile per il processo di sviluppo che l’Italia dovrà affrontare fin da subito, opponendosi con forza e decisione a qualsiasi provvedimento atto a inficiarne o rallentarne la ripresa. *Avvocato, senatrice Iv, vicepresidente commissione Lavori pubblici e Comunicazioni Obbligatorietà dell’azione penale, urge una riforma di sistema di Massimo Krogh Il Mattino, 1 novembre 2020 Dal Mattino (del 26 ottobre scorso) si apprende che Napoli avrebbe raggiunto il primato degli errori giudiziari, con l’effetto di un notevole eccesso di spesa per lo Stato per risarcimenti e indennizzi per ingiusta detenzione. In verità, non solo a Napoli, la giustizia, sia penale che civile, ha sempre peccato in punto di efficienza, sicché è naturale che possano esservi errori ed anche moltiplicarsi. Ora c’è il Covid, una “pandemia” divenuta un “pandemonio”, i processi penali si fanno senza farsi, le parti sono sonnambuli, gli esiti restano nella nebbia; ma lasciamo stare il Covid e parliamo del processo penale in generale. L’esercizio dell’azione penale è obbligatorio in via costituzionale, divenendo quasi la chiave di lettura del bene e del male nei rapporti sociali e personali. Insomma, la legge come morale, in un paese dove la giustizia dei tribunali lascia molto a desiderare per il suo funzionamento. Vi è una pressione giudiziaria all’inizio molto forte, destinata ad attenuarsi per la carenza dei mezzi. Ciò si traduce in provvedimenti cautelari improvvisi e violenti, misure clamorose che poi si concludono non di rado in prescrizioni o addirittura assoluzioni. Diventa normale che, in un percorso di questo tipo, si affollino inutilmente le carceri di persone che poi, in una valutazione più accorta, possano risultare non colpevoli e quindi destinatarie di risarcimenti. Per fare qualche paragone, l’area anglosassone, vale a dire gli Stati Uniti e i paesi che derivano dall’impero britannico, è connotata, invece, dalla discrezionalità dell’azione penale, quindi con la possibilità di valutazioni anteriori e non postume sull’applicazione della prigione. Un sistema dove sembra esservi più testa che nel nostro. Se si considera la possibile influenza dell’immaginario collettivo e si pensi a quanto avvenuto nelle strade di Napoli lo scorso 23 ottobre, non possono sfuggire i pericoli che circondano il principio di obbligatorietà dell’azione penale da noi vigente. Non meraviglia, dunque, quanto appare sulla stampa circa l’abbondanza di errori giudiziari e la relativa spesa di risarcimenti e indennizzi che grava sullo Stato. L’articolo 112 della nostra Costituzione recita “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”; il nostro è fra i pochissimi paesi al mondo ad avere quest’obbligo, addirittura in via costituzionale. Con l’effetto di un affollamento insostenibile di processi, tale da portare anni fa la nostra giustizia a ricevere una censura dalla Corte di Strasburgo per la sua lentezza. Bisogna con amarezza concludere che in Italia, non solo a Napoli, il processo penale non è quel monumento di certezza che dovrebbe essere, donde lo spiacevole primato pubblicato. Occorre più attenzione sulla giustizia nell’intero Paese, sia in sede penale che civile, per risalire la china in termini di civiltà e rendersi conto che la causa non è riconducibile ai magistrati, costretti a un gran lavoro su processi inutili. La realtà sta in un contesto storico-culturale sbagliato, che si trascina dietro la burocrazia ereditata dall’era fascista (era usata per il controllo del cittadino), ed oggi mantenuta da uno Stato che sembra non comprenderne la sua influenza frenante in termini di civiltà. Presto regole comuni su crimini d’odio e prove elettroniche transfrontaliere di Lucilla Vazza gnewsonline.it, 1 novembre 2020 Nel pomeriggio di venerdì si è svolto in videoconferenza il meeting straordinario del Gruppo Vendome, che riunisce i ministri della Giustizia di Italia, Germania, Belgio, Spagna, Francia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Il Gruppo, che prende il nome dalla piazza di Parigi dove è avvenuta la prima riunione il 5 novembre 2018, ha come obiettivo la condivisione di strategie e il confronto su problematiche comuni in tema di Giustizia. Per l’Italia ha partecipato il sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi. Il confronto di oggi nasce su istanza della Francia, in relazione ai tragici attentati di Nizza e Avignone e in particolare sul ruolo amplificatore dei social network di fenomeni virali pericolosi e dei mezzi per limitarne la diffusione. “Sono particolarmente orgoglioso che la Francia oggi abbia ringraziato ben due volte l’Italia per il sostegno alle indagini sugli attentati terroristici a Nizza e Avignone - ha dichiarato il sottosegretario Ferraresi a margine dell’incontro - In un mondo sempre più connesso la Rete è diventato il non-luogo in cui direttamente si consumano i crimini, come i discorsi di odio o la propaganda terroristica, e dove viaggiano le prove dei reati consumati nella vita reale”. “Per individuare i criminali, l’Italia sostiene un più agile accesso alle prove elettroniche transfrontaliere, coinvolgendo maggiormente i “prestatori di servizi”, va poi approvato il Regolamento da noi proposto sugli ordini di conservazione e produzione delle prove elettroniche e la nostra Direttiva che obbliga i prestatori di servizi operativi all’interno dell’Unione Europea, alla collaborazione con le autorità inquirenti, indipendentemente dal luogo in cui è stabilita la loro sede” ha chiarito Ferraresi. Con specifico riferimento alle attività di terrorismo on-line, per l’Italia costituiscono priorità la severa punizione di attività di propaganda terroristica, di istigazione e di addestramento o istruzione al terrorismo mediante strumenti informatici, il costante aggiornamento della black list di siti utilizzati a fini di terrorismo e la rimozione dei contenuti terroristici per ordine dell’Autorità giudiziaria ai prestatori di servizi. “Reputo essenziale - ha continuato Ferraresi - l’impegno dei ministri della Giustizia nel negoziato che si aprirà a dicembre sul Codice dei servizi digitali proposto dalla Commissione. Al primo posto chiediamo l’adozione di regole comuni in materia di reati d’odio, di hate speech, garantendo l’applicazione delle decisioni nazionali di rimozione dei contenuti illegali in qualunque parte dell’Unione Europea”. In Italia, dal 2015, è prevista la rimozione dalla Rete dei contenuti illeciti e, in determinate condizioni è imposto il sequestro preventivo dei domini Internet. “Non sempre, tuttavia, gli strumenti che abbiamo si rivelano sufficienti a impedire la diffusione dei contenuti illeciti e alla loro rimozione definitiva. Per questo è necessario il ricorso a misure più stringenti nei confronti dei service providers” conclude il sottosegretario. Csm, battaglia per l’uomo che sussurra al Quirinale di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2020 Una nuova nomina al Csm sta facendo discutere i consiglieri, soprattutto togati: quella del segretario generale, che è anche l’interfaccia di Palazzo dei Marescialli con il Quirinale. Mica roba da niente. E poiché le correnti si trascinano quel famigerato “uno a te, uno a me”, anche se Palamara un po’ docet, in questa partita l’appartenenza agli schieramenti ha il suo peso. Il Comitato di presidenza è alla ricerca di una sintesi in modo da presentare una proposta che non produca un due di picche al plenum sovrano. Le audizioni dei candidati si sono concluse, i più papabili, finora, sono Marco Dall’Olio e Alfredo Pompeo Viola, entrambi sostituti pg in Cassazione. Dall’Olio ha dalla sua parte, oltre alle capacità riconosciute da tutti, anche l’essere stato vicesegretario generale e magistrato segretario del Csm. Contro, sempre secondo ragionamenti interni, è l’appartenenza alla “rossa” Md, la stessa dei capi di Corte Piero Curzio e Giovanni Salvi e pure di Stefano Erbani, consigliere giuridico del Quirinale. È stato, inoltre, capo degli ispettori dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. Viola, ben visto anche da alcuni laici, ha dalla sua il ruolo attuale di segretario generale alla procura generale della Cassazione e il ruolo passato di consigliere del Csm. Fu eletto nel 2009 con la centrista Unicost, caduta in disgrazia perché l’uomo forte degli ultimi 10 anni è stato Luca Palamara. A incalzare Viola e Dall’Olio ci sono Luigi Birritteri e Alessandro Pepe, sempre della procura generale della Cassazione. Birritteri, ex consigliere di Stato, è stato capo del Dipartimento organizzazione giudiziaria al ministero della Giustizia con Angelino Alfano e con Paola Severino. Pepe è stato consigliere del Csm, eletto con la conservatrice MI nel 2009. Nel 2015, con Piercamillo Davigo è tra i fondatori di A&I, per prendere le distanze dall’ingerenza del leader ombra di MI, Cosimo Ferri, ex sottosegretario alla Giustizia con centrodestra e centrosinistra, ora deputato renziano. Piemonte. Primo caso di detenuto positivo al Covid morto nelle carceri di Lorenzo Boratto La Stampa, 1 novembre 2020 Primo caso di detenuto positivo al Covid morto nelle carceri piemontesi. “L’unico carcere in provincia di Cuneo toccato dal Covid è stato Saluzzo, nella prima ondata così come oggi, in cui si contano 3 contagiati. Ci sono 56 positivi al tampone nelle carceri del Piemonte in questo momento: divisi equamente tra detenuti, agenti, addetti del ministero. Sono a Torino, Alessandria e appunto a Saluzzo”. Così Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti. In Piemonte ci sono 4.300 reclusi, 3 mila poliziotti penitenziari e 500 amministrativi. Ad Alessandria nella casa circondariale “Don Soria” c’è un focolaio con 26 contagiati e venerdì si è verificato il caso di un detenuto morto e positivo al Covid: non era mai accaduto in Piemonte. Ancora Mellano: “Anche per i garanti è difficile avere dati aggiornati sulla pandemia. Saluzzo è il carcere più affollato in provincia, con oltre 400 detenuti. Altri 280 sono a Cuneo, un centinaio a Fossano e 40 ad Alba, dove però non si registrano positività. Tamponi e verifiche si fanno, ma con difficoltà: a marzo e aprile l’Asl Cn1 è stata l’unica che ha fatto tamponi a tutti i detenuti e operatori delle tre carceri di sua competenza, cosa non avvenuta ad Alessandria. C’è da tenere conto che in una situazione di reclusione il panico arriva prima. E mancano stanze per isolare chi ha sintomi o arriva da fuori”. In Italia ci sono 150 reclusi e 200 tra agenti e amministrativi positivi al Covid. Nella prima ondata c’erano stati 290 positivi in Piemonte: 79 a Torino, 25 a Saluzzo e 4 ad Alessandria. Campania. Positivi al Covid in carcere, il Garante: gli anziani lascino le celle Corriere del Mezzogiorno, 1 novembre 2020 “La situazione in Campania si è ulteriormente aggravata. Nelle carceri crescono il sovraffollamento, i contagi tra gli agenti di polizia penitenziaria e il personale socio-sanitario e ci sono già una decina di casi tra i detenuti”. Sono le motivazioni da cui prende le mosse una lettera inviata dal Garante regionale per i detenuti, Samuele Ciambriello, assieme a quelli della città di Napoli e delle province di Avellino e Caserta ai capi delle Procure di Napoli, Santa Maria Capua Vetere, Salerno, Benevento, Avellino e ai due presidenti dei tribunali di sorveglianza di Napoli e Salerno. Nella missiva si invocano “una serie di decisioni, alcune delle quali già messe in campo all’inizio della pandemia”. Ovvero misure “alternative alla detenzione” là dove è possibile (“il nostro ordinamento prevede un sistema di sanzioni penali calibrato sulla gravità del fatto e la pericolosità dell’autore”) e di “evitare che i detenuti in regime di semilibertà facciano ingresso presso gli istituti penitenziari anche solo per trascorrere le ore notturne”. Le richieste dei Garanti, viene ulteriormente specificato, sono state immaginate “con particolare riferimento ai detenuti anziani e malati, e a quelli che devono scontare pene minime sotto i due anni”. Si chiedono, dunque, misure alternative alla detenzione per ridurre i rischi di diffusione dell’epidemia nelle carceri. Una eventualità su cui starebbe già lavorando da qualche tempo il ministero della Giustizia d’intesa con il Dap se è vero che proprio ieri il Sap, il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, si è detto contrario. “Fonti ufficiose parlano di 15-16 mila detenuti pronti a lasciare le carceri” è stata l’accusa. Contro il “mini indulto” è polemica anche in Parlamento. Campania. “Il decreto ristori non basterà a svuotare le carceri” di Viviana Lanza Il Riformista, 1 novembre 2020 Parla il Giudice di sorveglianza Marco Puglia. Le misure contenute nel pacchetto giustizia del decreto Ristori non svuoteranno le carceri in Campania e non serviranno a risolvere in maniera incisiva i problemi di vivibilità e tutela della salute in carcere, soprattutto in un momento difficile come quello che stiamo vivendo a causa della pandemia. Sono certamente qualcosa, ma non abbastanza. Ci sono tre condizioni che ostacolano possibili scarcerazioni: i reati ostativi, la necessità di braccialetti elettronici e la possibilità di un lavoro all’esterno. Le maggiori difficoltà si prevedono per coloro che potrebbero essere ammessi al lavoro all’esterno: “In un momento storico come quello attuale, in cui le attività lavorative sono molto spesso interrotte o ridotte, è veramente complicata la presenza di questa condizione”. A sostenerlo è Marco Puglia, magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, in forza all’Ufficio della Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, che spiega le criticità del sistema. “In passato ci si è affidati a progetti che hanno trasformato l’attività lavorativa in attività di volontariato. A Carinola, il progetto fiore a occhiello dell’istituto vide i detenuti impegnati nel recupero del giardino della Reggia di Caserta nei pressi di corso Giannone: un’operazione molto interessante che fece bene ai detenuti, ma anche al contesto sociale che constatò in che modo la pena può diventare virtuosa”. Ora lo scenario è meno roseo: “Ci sono attività che hanno chiuso perché non sono sopravvissute al lockdown e attività che hanno contingentato la partecipazione per ridurre i rischi di contagio”, aggiunge Puglia evidenziando come tutto questo renda difficile, se non impossibile, allargare la platea degli ammessi al lavoro esterno. “La grande piaga del nostro territorio è quella dell’occupazione che diventa un vero e proprio dramma quando riguarda i detenuti. Le misure alternative stentato a iniziare perché mancano attività lavorative e, in generale, anche la fine dell’esecuzione della pena rappresenta uno stigma non indifferente per il detenuto che ha difficoltà a trovare un lavoro più di quanto normalmente ne avrebbe”, osserva il magistrato. “Servirebbe una logica di investimento - sottolinea il giudice - Occorre investire nell’esecuzione penale attraverso progetti che coinvolgano l’imprenditoria e interlocutori in grado di rappresentare un’alternativa all’esecuzione della pena in carcere. Ci sono ipotesi virtuose nel nostro territorio ma sono limitate”. Poi ci sono le anomalie del sistema, come quella degli ordini di carcerazione a seguito di condanne divenute definitive anche per residui di pochi mesi o pochi giorni di una condanna espiata quasi per intero in regime alternativo. “Il problema - spiega il giudice Puglia - è che non è possibile una valutazione a priori della liberazione anticipata. La Procura deve emettere l’ordine di esecuzione e deve eseguirlo, anche se poi in concreto non residuerebbe nulla o quasi nulla da espiare. Questa è un’anomalia del nostro sistema”. Eppure, soprattutto con l’emergenza Covid, era stata proposta fra le misure da adottare per evitare che le celle siano occupate in maniera non strettamente necessaria. “Sarebbe opportuno, siamo in un momento estremamente tragico e negli istituti penitenziari i focolai si stanno espandendo sempre di più”. C’è resistenza a svuotare concretamente le carceri, una resistenza soprattutto culturale. “Tutto ciò che ruota attorno al carcere e riguarda l’esecuzione della pena vive, anche a causa di scelte di chiusura della magistratura, un deficit di comunicazione con la società civile che spesso non riesce a comprendere la difficoltà e la fibrillazione del magistrato di Sorveglianza davanti a scelte difficili che però - conclude il magistrato Marco Puglia - sistematicamente assumiamo con consapevolezza e abnegazione sulle nostre spalle, nonostante il mondo intorno a noi ruoti additandoci come dei folli o come soggetti eccessivamente garantisti. Ci si avvinghia ancora al concetto di pena intesa come punizione, invece è previsto che abbia una finalità diversa, senza raccontarci favole, ma alla luce del dettato costituzionale che non può essere disatteso”. Livorno. Coronavirus, focolaio nel carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 novembre 2020 Sono 16 i detenuti con il Covid-19 dov’è morto l’ergastolano. Negli ultimi giorni c’è stato un aumento vertiginoso di Covid-19 nelle carceri italiane. Dopo il focolaio di Terni, in Umbria, e quello di Larino, in provincia di Campobasso, è la volta del carcere di Livorno con 16 detenuti positivi al Covid-19, per ora accertati. Al personale di polizia penitenziario ancora non sono stati effettuati i tamponi, quindi ancora non si conosce l’effettiva entità del problema. Parliamo della sezione di alta sicurezza dove, come ha riportato Il Dubbio, è morto un ergastolano di 81 anni con gravi problemi cardiopatici e gli è fermato il cuore dopo aver contratto il coronavirus. Non ci sono celle per garantire l’isolamento sanitario, lo spazio è ridotto a causa del numero della popolazione penitenziaria. Una problematica dovuta dal sovraffollamento generale che, dopo la parentesi della prima ondata, è ritornato a crescere. Non a caso, alcuni detenuti rientrati dal permesso premio li hanno messi tra detenuti comuni, onde evitare di contrarre il covid. Ricordiamo che il focolaio più importante è al carcere umbro di Terni. Da 62 detenuti positivi, che non presentano sintomi, di mercoledì si è passati in 24 ore a 68, su 514 reclusi, con tre ricoveri. Intanto all’interno del carcere, è stata già allestita una sezione Covid che potrebbe essere raddoppiata qualora i casi dovessero aumentare. Era stata ventilata l’idea di uno spostamento di detenuti risultati negativi al tampone, ma ancora non sembra esserci nulla all’orizzonte. Tra coloro che lavorano all’interno della casa circondariale e soprattutto tra il personale di polizia penitenziaria c’è preoccupazione per il focolaio che non si arresta. Fortunatamente, nella giornata dell’altro ieri, sono arrivati i risultati dei tamponi relativi ai 130 detenuti: tutti negativi, mentre si attendono quelli dei 187 agenti della polizia penitenziaria. Uno screening necessario per avere in mano il polso della situazione. C’è poi il focolaio nella sezione di alta sicurezza del carcere di Larino, in provincia di Campobasso. La sezione è composta da circa 55 detenuti e per ora, i contagi in carcere sono almeno la metà. Un focolaio che desta preoccupazione. Proprio per evitare il panico e le inevitabili preoccupazioni, la direttrice ha incrementato le videochiamate, così i detenuti possono poter parlare con i propri familiari con più frequenza. Disposizione importanti, perché la chiusura totale con l’esterno può creare disagi enormi, già nella prima ondata tante, troppe voci, si erano rincorse e ingigantite. Ma l’allarme è alto, eppure qualcosa si sarebbe dovuto fare per prevenire. Non all’ultimo come si è fatto, e forse anche con una misura insufficiente - parliamo del decreto ristori - che potrebbe riguardare, se tutto va bene, solo circa 3000 detenuti. “Il problema principale, comune alla generalità degli istituti - spiega a Il Dubbio Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa - è correlato alla mancanza degli spazi. Purtroppo, anche questa volta e anche sulle carceri, il Ministro Bonafede e il Governo si sono mossi male e in ritardo; le misure adottate per deflazionare e mettere in sicurezza il sistema, sono tardive e insufficienti. A questo si aggiunga che a breve ci avvicineremo ad almeno un migliaio di assenze fra le file della Polizia penitenziaria, tra positivi al Covid e isolati, motivi per cui la situazione sembra destinata a peggiorare e per fronteggiare la quale sarebbero necessari interventi di più forte impatto”. Napoli. Fiaccolata per i detenuti di Poggioreale. I parenti: “Lasciati morire in cella” di Massimo Romano napolitoday.it, 1 novembre 2020 Marcia dei familiari intorno al carcere di Poggioreale. Don Franco Esposito: “In questo luogo non è garantita la dignità umana”. Il garante Pietro Ioia: “Non si rispettano le distanze: rischio focolaio Covid. Malati e ultrasettantenni devono tornare a casa”. Duecento fiaccole per ricordare che all’interno del carcere di Poggioreale la dignità umana è un optional e che la vita si rischia ogni giorno: per violenza, per suicidio, per Covid. Perché all’interno del penitenziario napoletano, anche in tempi di pandemia, la distanza e lo spazio vitale tra i detenuti e argomento sconosciuto. Lo sanno i parenti di chi sta scontando una pena: “Chi ha sbagliato è giusto che paghi, ma non è giusto che muoia in queste quattro mura” gridano. Don Franco Esposito, con loro lavora ogni giorno: “A Poggioreale si vive in 10-12 persone in una cella, quindi non esiste la dignità dell’individuo. Ci sono tante categorie di detenuti che potrebbero tornare a casa e invece restano chiusi in cella, alimentando una bomba sociale e sanitaria”. Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli, lanci l’allarme sui possibili rischi: “Durante l’emergenza la popolazione del carcere è tornata a crescere: siamo a 2200 persone. Ci sono celle in quarantena perché sono stati registrati contagi da Covid-19. Ma in questo luogo non si rispetta il distanziamento e non ci sono le mascherine. Non vogliamo che diventi un focolaio ingestibile. Chiediamo che i malati, gli ultrasettantenni e coloro che sono agli ultimi mesi di pena escano, così da rendere Poggioreale più vivibile”. Dal canto loro, gli “ospiti” della Casa circondariale hanno risposto ai cori dei con il rumore delle scodelle sulle grate delle celle. c’è chi, urlando, ha cercato di comunicare con il marito, con il fratello, con il padre, mentre, in sottofondo, i duecento in marcia ricordavano in coro “noi non siamo animali”. Terni. Tre infermieri lavorano a turno per gestire oltre 500 detenuti di Giorgio Palenga Corriere dell’Umbria, 1 novembre 2020 Le difficoltà nell’organizzazione del lavoro acuite in questo periodo di emergenza Covid, dopo il focolaio esploso nella casa circondariale ternana. Una popolazione carceraria di oltre 500 detenuti gestita, da un punto di vista sanitario, da soli tre infermieri ogni turno, sugli undici attualmente in servizio nella casa circondariale di vocabolo Sabbione. Basterebbe già soltanto questo dato per rendersi conto in quali condizioni lavorative, e organizzative, sia costretto a lavorare il personale sanitario del carcere ternano, alle prese con problematiche e difficoltà operative che non sono certo di oggi ma che certo l’emergenza Coronavirus sta acuendo in maniera davvero preoccupante. Tre infermieri a turno che devono gestire, ovviamente, anche la sezione Covid, nella quale a venerdì 30 ottobre 2020 erano ospitati i 68 positivi accertati, che però potrebbero aumentare in maniera esponenziale all’arrivo degli esiti dei tamponi effettuati nelle ultime ore. Sempre nella speranza che siano ancora rimasti fuori dai contagi gli agenti penitenziari e gli altri operatori della struttura. “Si parla sempre soltanto delle pur legittime rivendicazioni degli agenti della polizia penitenziaria - spiega Giorgio Lucci, referente del settore della sanità della Cgil Fp - ma in carcere lavorano anche infermieri, medici, psicologi, personale civile del Ministero di grazia e giustizia, tipo gli educatori che fanno colloqui con detenuti, e personale amministrativo. Delle loro condizioni lavorative nessuno sembra volersi interessare”. Stavolta, però, il focolaio sviluppatosi all’interno del carcere ha acceso i riflettori anche su questo tipo di problematiche. “Gli infermieri lavorano su due turni, dalle 7 alle 14 e dalle 14 alle 22 - prosegue il rappresentante sindacale - si occupano di emergenze-urgenze come della consegna delle terapie. Ogni infermiere a turno arriva a dover somministrare circa 170 terapie e deve spostarsi fino a quattro sezioni. Se qualcuno si ammala devono rientrare i colleghi dai riposi, ci sono carenze anche nella dotazione delle divise, con operatori costretti a pagare di tasca propria l’acquisto delle magliette”. L’esplosione dell’emergenza Covid non ha fatto che amplificare i disagi. Le operazioni di sanificazione delle attrezzature, ma anche quelle di smaltimento della dotazione dei presidi monouso, richiede procedure lunghe che fanno diventare praticamente impossibile il rispetto dell’orario di lavoro. E a fronte di queste nuove esigenze non vengono riconosciuti gli straordinari, ma le ore in eccedenza dovrebbero andare a recupero. Per non parlare delle condizioni di sicurezza: le aggressioni agli infermieri sono all’ordine del giorno, non meno di quelle degli agenti penitenziari. Una situazione veramente esplosiva. Frosinone. Rivolta per paura del Covid: chiesto rinvio a giudizio di 21 detenuti ciociariaoggi.it, 1 novembre 2020 L’8 marzo un gruppo di detenuti devastò due sezioni del carcere per protesta. Ad aprile udienza preliminare per decidere il rinvio a giudizio sollecitato dal pm. Rivolta in carcere per paura del Covid, la procura chiede il rinvio a giudizio di 21 detenuti. Questi ultimi ora sono stati trasferiti in altri penitenziari, del Lazio, della Campania e dell’Abruzzo. Tre i frusinati, ma ci sono degli stranieri residenti in Ciociaria. La protesta, come avvenne anche altrove in quei giorni, lo scorso 8marzo. Ai ventuno, che il 9aprile dovranno comparire per l’udienza preliminare, è contestata la devastazione. Sono accusati di aver devastato, “al fine di mettere in atto una protesta”, le sezioni A e 2° del 1° reparto della casa circondariale di Frosinone, “rendendole inagibili, distruggendo suppellettili e arredi, mandando in frantumi vetri di porte e gabbiotti di guardia degli operatori, incendiando delle cassette elettriche e di indumenti, distruggendo le telecamere di sorveglianza, spargendo il contenuto di estintori a terra, scardinando grate di protezione ai locali e mettendo a soqquadro tutte le stanze”. Nel corso della protesta è intervenuto il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia che, poi, avrebbe letto una dichiarazione dei detenuti che così avevano abbandonato la protesta. In ottanta subito erano stati trasferiti in altre carceri. La protesta era scaturita perle disposizioni adottate dalle autorità carcerarie per la prevenzione della diffusione del Covid-19. Nei giorni scorsi una sezione del reparto devastato è stata adibita ad accogliere i detenuti positivi al Covid asintomatici. Subito è scattato lo stato di agitazione dei sindacati della penitenziaria. Bari. Nuova stretta sui processi, l’epidemia frena la giustizia di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 1 novembre 2020 Nuova stretta sulla giustizia a Bari a causa della pandemia. Il Tribunale ha fissato nuove regole a causa della “fase emergenziale che si protrarrà almeno fino al 31 gennaio 2021”. Tra queste lo stop ai processi monocratici con testimoni, fatte salve alcune eccezioni. Tempi duri per la giustizia barese. Le norme per contenere la diffusione del coronavirus devono fare i conti con sedi inadeguate e non adatte per ospitare i processi importanti, soprattutto quelli che prevedono l’ascolto di molti testimoni. “Considerato che la fase emergenziale dovuta alla pandemia Covid 19 si protrarrà almeno fino al 31 gennaio 2021”, i presidenti della prima e seconda sezione penale di Bari, Rosa Calia Di Pinto e Marco Guida, nel recente decreto del 27 ottobre scorso, hanno fissato altre regole. Una nuova “stretta” sulla giustizia. Così “non saranno fissati i processi monocratici con attività istruttoria di ascolto dei testimoni”. Fatta eccezione per quelli con imputati sottoposti a misura cautelare, per quelli relativi a omicidi colposi, lesioni colpose e maltrattamenti in famiglia e stalking nei quali siano costituite parti civili. Saranno i giudici inoltre a valutare l’entità e la durata “dell’attività da espletare, alternando processi con istruttoria a processi di prima udienza o con discussione al fine di evitare assembramenti in aula o fuori dall’aula”. Per ogni udienza monocratica “potranno essere fissati al massimo 25 processi” al giorno (non più 30 come era previsto nel precedente provvedimento anti Covid) e “ogni giudice stabilirà rigide fasce orarie di mezz’ora ciascuna; nelle prime fasce orarie (9-9.30, 9.30-10) saranno fissati massimo due processi per singola fascia oraria mentre nelle successive fasce orarie di mezz’ora ciascuna potranno essere previsti massimo 3 processi per singola fascia oraria. Le fasce orarie continueranno ad abbracciare l’orario dalla 9 alle 17 con una pausa pranzo di almeno mezz’ora collocata tra le 13.30 e le 14.30”. I processi con un elevato numero di imputati a piede libero (vale a dire non più di cinque “in considerazione della limitata capienza delle aule”) saranno fissati tendenzialmente nelle ore pomeridiane. Nel caso in cui l’aula destinata non dovesse essere sufficiente come capienza, il processo dovrà essere celebrato in un’aula più grande o più aule collegate tra di loro in videoconferenza. Laddove non fosse possibile il processo dovrà essere rinviato fino a quanto non sarà possibile “reperire” un’aula idonea. Le uniche alternative possibili sono l’aula bunker di Bitonto o l’aula della Corte di Assise in piazza De Nicola. “Stiamo facendo il possibile per mantenere un servizio che tenga conto dell’emergenza sanitaria e che allo steso tempo assicuri l’esigenza del servizio - dice Guglielmo Starace, presidente della Camera Penale di Bari - abbiamo purtroppo delle strutture che non ci permettono di fare di più”. In merito invece ai processi davanti al Tribunale in composizione collegiale saranno applicati gli stessi criteri previsti per quelli di competenza monocratica. Ma per i processi “complessi” ogni sezione individuerà quelli che, “tenuto conto delle limitazioni”, non si possono celebrare nelle aule di via Dioguardi e quindi “la prosecuzione sarà programmata ove possibile presso l’aula bunker di Bitonto o l’aula della Corte di Assise in piazza De Nicola. Ove nessuna di tali aule fosse in grado di consentire la celebrazione di tali processi - è scritto nel decreto- sarà attivata tempestivamente la ricerca di altra idonea soluzione logistica con l’interessamento di tutte le autorità direttamente coinvolte”. A proposito del Palagiustizia di via Dioguardi a Poggiofranco, i due presidenti sottolineano “gli spazi di sosta e transito ridotti” dell’edificio “con il conseguente concreto rischio di assembramenti non consentiti proprio nelle aule di udienza o nei limitati spazi adiacenti le aule”. Anche all’ufficio Gip/Gup è stato fissato un termine di massimo 10 udienze preliminari al giorno. Ascoli Piceno. “Una comunità in movimento”, progetto per attività sportive in carcere di Marina Denegri marchenews24.it, 1 novembre 2020 L’iniziativa vuole promuovere la pratica sportiva e l’attività di approccio al cane per detenuti all’interno degli istituti penitenziari. Sta entrando nel vivo il progetto “Una comunità in movimento” presso la Casa circondariale di Ascoli Piceno. Si tratta di una iniziativa composta da attività di promozione dell’attività fisica ed attività di approccio al cane per detenuti che viene realizzata a seguito della stipula del protocollo d’intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’Unione Sportiva Acli nazionale. L’iniziativa è realizzata dall’U.S. Acli provinciale grazie al sostegno della Regione Marche, della Chiesa Valdese Fondi 8 per mille, della Fondazione Nazionale delle Comunicazioni e dell’Ambito sociale territoriale XXII (Comune capofila Ascoli Piceno) nell’ambito del Programma di interventi in materia penitenziaria e post-penitenziaria dell’Ats XXII. Grazie alla stipula del protocollo nazionale tra Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’Unione Sportiva Acli nazionale già da alcuni anni sono state realizzate iniziative analoghe in analogia a quelle svolte dal Coni Marche che nell’anno 2020 ha assunto il ruolo di coordinamento delle attività. Le iniziative realizzate con i detenuti vengono portate avanti personale qualificato dell’U.S. Acli”. Con questa iniziativa l’U.S. Acli provinciale si pone di promuovere la pratica sportiva all’interno dell’istituto penitenziario, nella consapevolezza del significativo ruolo svolto dallo sport per la promozione del benessere psicofisico delle persone detenute, per l’educazione a corretti stili di vita, favorendo al tempo stesso forme di aggregazione sociale e di positivi modelli relazionali di sostegno al percorso di reinserimento. Oltre allo sport vengono realizzati anche interventi di carattere socio/educativo come ad esempio l’attività di approccio al cane, in collaborazione con ASD My Dog, per far apprendere ai detenuti la modalità con la quale comunicare ed interagire con gli animali passando per il gioco ed il rinforzo positivo. Conte assediato deve cedere sulla stretta. Si va verso il lockdown a Milano e Napoli di Alessandro Di Matteo e Ilario Lombardo La Stampa, 1 novembre 2020 Vince l’ala rigorista. Il premier irritato per lo scaricabarile di governatori e sindaci chiede più condivisione. Le resistenze di Giuseppe Conte cedono, ancora una volta. Il presidente del Consiglio vede sgretolarsi pezzo dopo pezzo, settimana dopo settimana, la sua strategia che prevedeva di attendere due settimane, il tempo cioè necessario per veder maturare gli effetti delle precedenti restrizioni. Per la terza volta in tre settimane si è mostrato riluttante a firmare un Dpcm che alla fine invece firmerà, subendolo come qualcosa di ineluttabile. Lo farà probabilmente tra lunedì sera e martedì, dopo essere passato lunedì pomeriggio alla Camera e al Senato, per le comunicazioni che, inizialmente previste per mercoledì, ha chiesto di anticipare. Un passaggio propedeutico alle nuove misure inserite nel decreto, e a conclusione dell’intenso giro di confronti avviato nella giornata di ieri, con i capidelegazione, con i ministri della Salute e degli Affari Regionali, e soprattutto convocando gli esperti del Comitato tecnico scientifico. Oggi tocca ai governatori e ai capigruppo parlamentari mentre ai leader delle opposizioni ha proposto di far partire subito un tavolo di confronto permanente. Respinto dal centrodestra come ipotesi di cabina di regia, potrebbe risorgere in Parlamento come una sorta di “bicamerale”. A metà settimana, tra mercoledì e giovedì ci sarà la resa dei conti con la curva dei contagi: se non si fermerà, il prossimo passo darà un lockdown temperato che interesserà tutta Italia. Nel frattempo, la stretta seguirà un doppio binario: da una parte Conte vuole che si decidano con le Regioni, e sulla base del documento del Cts, le zone rosse delle grandi città e delle aree limitrofe, dove i sistemi sanitari sono sull’orlo dell’esplosione. Per ora, Milano e Napoli sicuramente. Forse anche Genova. Mentre si valuta se chiudere Torino e Firenze, altre parti della Lombardia (come la Brianza) e pezzi del Veneto e del Meridione. La situazione di Roma appare diversa, anche se c’è tra gli scienziati del Cts chi spinge per chiuderla. Nelle città più in crisi si dovrebbe arrivare a una vera e propria serrata, con limiti alla mobilità e la chiusura di tutti i negozi non essenziali. Il governo con il Dpcm offrirà la copertura necessaria per i lockdown mirati che gli enti locali, secondo i precedenti decreti, avrebbero il potere di imporre. Il provvedimento però aggiungerà ulteriori restrizioni a livello nazionale. L’orientamento generale di governo e scienziati al momento prevede di estendere la didattica a distanza a tutte le superiori e alle scuole medie, ma in questo caso limitandola forse solo all’ultimo anno perché gran parte degli studenti hanno 14 anni di età. Quasi certamente ci saranno nuove limitazioni ai negozi mentre ancora si discute se e come impedire gli spostamenti tra le Regioni. Nell’ultimo confronto con il Cts ieri sera, qualcuno ha proposto di limitarli solo per i viaggi “senza comprovata necessità” da e per le zone rosse. Si starebbe anche valutando di predisporre gli “hotel Covid”, dove ospitare i positivi che rischiano di contagiare i familiari. Le divisioni restano, la discussione è nervosa. Sulla chiusura dei centri commerciali, per esempio, il capodelegazione dem Dario Franceschini ha rilanciato: chiudendo solo alcuni esplodono le proteste di chi viene colpito e si sente discriminato. Altro punto delicato è la scuola: le lezioni in streaming non piacciono proprio a M5s e a Iv e lo stesso Conte è insofferente all’idea, nonostante abbia aperto sulle terze medie: “Ma continuo a pensare che la dad sia solo una extrema ratio”. In diversi colloqui, il premier ha espresso la propria contrarietà a questa accelerazione drammatica sui Dpcm. Non vuole che gli italiani pensino non ci sia un’alternativa. Lui, un’alternativa, l’aveva offerta, spazzata via dal rosario quotidiano dei contagi, da metà governo, dagli scienziati. Il coinvolgimento di tutti questi interlocutori gli serve anche a schermarsi, di fronte a provvedimenti che altri avevano gli strumenti per attuare. Il premier è irritato con presidenti di Regioni e sindaci che vogliono sia il governo nazionale ad assumersi la responsabilità di chiudere le aree metropolitane. È irritato con chi nell’esecutivo non asseconda la sua strategia. La discussione con i capidelegazione è stata faticosa, come ormai accade regolarmente. E vista dal fronte “rigorista” guidato da Roberto Speranza e Franceschini, non viene apprezzato che il premier abbia chiesto di “condividere” con Regioni e Parlamento le nuove misure. Non perché Pd e Leu non ritengano giusta una consultazione: “Ma non può solo dire “ne parlino Speranza e Boccia con Regioni e opposizioni”, lui è il premier e deve anche decidere”. Il timore dello scaricabarile è assai forte, basta ascoltare anche il vice-segretario Pd Andrea Covid, per sognare la rinascita dobbiamo imparare la sofferenza di Antonio Scurati Corriere della Sera, 1 novembre 2020 Ci tocca di nuovo soffrire. Ma non basta: bisogna saper soffrire. Tenere duro, stringere i denti, fare fronte. Queste non sono frasi vuote, sono l’efflorescenza linguistica di una sapienza, espressioni di un’attitudine alla sofferenza consapevole, matura, lungimirante. La prima manifestazione della capacità di soffrire sta nel riconoscere la sofferenza come nostra, appropriarcene e, dunque, smettere di frignare incolpando per la sua esistenza il destino, i cinesi o i governanti. Solo in apparenza possiamo scegliere tra il lockdown e le scuole, i teatri, i ristoranti. Se sceglieremo le scuole, i teatri, i ristoranti, avremo comunque il lockdown. Ma con più danni, più morti, più sofferenza. La fenomenologia della sofferenza dissennata è varia e vasta: l’estate sciagurata, la sua sottocultura balneare che ha autorizzato nel pieno di una pandemia a viaggiare all’estero e a ballare in discoteca; l’autunno di autobus affollati in cui superdiffusori diciottenni infettano, mentre vanno a scuola sbadigliando, con il morbo delle notti di movida i padri che vanno a lavorare; leader da tempo di pace che si aggirano smarriti e rintronati in zona di guerra, governanti locali (lombardi) incapaci di ordinare per tempo e al giusto prezzo una fornitura di vaccini, governanti nazionali che cedono alle pressioni confuse di quegli stessi governanti locali; gitanti compulsivi che rischiano la morte (propria e altrui) pur di fare la mangiata domenicale fuori porta; intellettuali che invocano la riapertura dei teatri (comunque vuoti) quali fonti di una preziosa cultura del tragico, dimostrando così di non aver nessun senso della tragedia incombente nella vita reale; virologi affaristi pronti a dichiarare, per interessi di bottega e liti da pollaio, contro ogni evidenza, la pandemia clinicamente estinta. E, poi, certo, le tante, troppe inadempienze, errori di previsione, mancanza di programmazione da parte del Palazzo, che riecheggiano nelle urla gutturali e negli schianti di vetrine infrante sulle piazze di nuovo invase dall’eterna accozzaglia di teppisti, fascisti, camorristi. Infine, su tutto, un professore dato in pasto al surreale perché costretto a fare lezione da solo, in un’aula vuota, come un pazzo delirante e, nell’aula accanto, vuota anch’essa, una schiera di costosi banchi a rotelle, nuovi di fiamma, sgombri, muti, immobili, completamente perduti alla loro velleitaria semovenza, ben allineati e lindi come un monumento all’imbecillità eretto nei deserti della quarantena. Si potrebbe continuare, la lista è lunga, ma non avrebbe senso. La capacità di soffrire pretende da noi serietà, tenacia, lungimiranza, non consente abbandoni all’orgia polemica, alla voluttà del disastro, all’estasi della lagnanza. Bisogna tenere, con coraggio, gli occhi fissi sull’abisso finché l’abisso non ti restituisce lo sguardo. E cosa ci dice, dunque, l’abisso che minaccia di aprirsi sotto i nostri piedi? L’abisso proclama tre verità ovvie e brutali. Prima verità: temporeggiare, procrastinare decisioni gravi di fronte a una tendenza di crescita esponenziale del contagio epidemico è una mossa suicida. Seconda verità: se fino a ora si è temporeggiato, si è procrastinato, lo si è fatto soprattutto perché - al di là delle motivazioni ufficiali - non ci sono abbastanza soldi per indennizzare i tanti che soffrirebbero per le conseguenze di quelle gravi e necessarie decisioni. Terza verità: scienza e sentimento tragico della vita concordano pienamente nel prevedere che quella sofferenza - economica, sociale, psichica - appare oramai comunque inevitabile. Si tratta, al punto in cui siamo, soltanto della scelta tra saper soffrire, con discernimento, prudenza, lungimiranza oppure abbandonarsi a una sofferenza cieca, maggiore, devastante. Nessuna speranza, dunque? Al contrario. La speranza è parte essenziale della capacità di soffrire. Una ragionevole speranza. E la ragione ci suggerisce oggi di lasciar perdere il Natale, di piantarla di crogiolarci in queste sciagurate illusioni di miracolistica redenzione a breve termine. Non lo mangeremo quest’anno il panettone tutti insieme, con amici e parenti, lieti e sereni. La ragione ci suggerisce, invece, di sperare nella primavera. Sogniamo pure, in accordo con i cicli naturali, la rinascita a primavera. Sogniamo a occhi aperti, però, tenendo duro, stringendo i denti, facendo fronte. Questa è una ragionevole speranza. Se viene l’inverno - scrisse il poeta - non può essere lontana primavera. La gente non capisce? La politica ha fallito di Roberto Saviano L’espresso, 1 novembre 2020 La prima città ad esser scesa in piazza contro l’ipotesi di nuove misure restrittive per arginare la pandemia è stata Napoli. Come avevo detto a caldo, non si sarebbe trattato di un episodio isolato, ma ben presto anche altrove sarebbero iniziate proteste. Facile previsione, ma parliamoci con onestà, che sia accaduto prima a Napoli e che ci siano stati episodi di violenza, ha dato il via a una serie di analisi che hanno volutamente glissato sulla gravità della situazione per concentrare l’attenzione sui camorristi e sui fascisti che hanno messo la piazza a ferro e fuoco. La loro presenza è fuor di dubbio; i primi sempre pronti a mostrarsi dalla parte dei deboli, salvo poi fare affari sulla disperazione, i secondi sempre attivissimi sui social e molto probabilmente solo lì. E se non è mai possibile giustificare la violenza, è invece nostro dovere rintracciarne le cause evitando, se possibile, analisi banali. Le dichiarazioni di Vincenzo De Luca sono state la miccia e hanno fatto danni incalcolabili dimostrando quanto sia pericoloso parlare senza considerare gli effetti che le parole arrivano a produrre. Il discorso in cui Vincenzo De Luca annunciava ai campani un nuovo lockdown imminente ha generato panico e disperazione non tra i camorristi, che invece dal lockdown hanno tutto da guadagnare, ma tra le persone per bene che da un momento all’altro si sono viste negare non certo la possibilità di accesso alle piazze di spaccio dopo le 23 o l’aperitivo serale, ma la possibilità di lavorare e quindi di poter vivere dignitosamente. La disperazione a Napoli (come altrove) è reale, non è sceneggiata; il senso di abbandono che si prova quotidianamente è ora esacerbato dalla paura e dall’incertezza di non sapere cosa stia esattamente accadendo, quali decisioni verranno prese e perché. Ecco, quello che spesso sfugge sono i tanti perché che non vengono spiegati se non usando il bastone; sul presupposto che noi cittadini non saremmo in grado di comprendere, viene tutto comminato come fosse una giusta punizione da accettare in ragione di colpe che senz’altro ci appartengono. Eppure riusciamo a scorgere la differenza enorme che passa tra chi scende in piazza senza mascherina per dire che il virus non esiste e chi scende in piazza per affermare che, come il virus, uccide la crisi. Ho seguito con orrore il dibattito sulla chiusura di cinema e teatri, misura contenuta nell’ultimo Dpcm firmato dal Presidente del Consiglio. E devo dire che non è chiaro quali siano i criteri secondo cui un servizio venga considerato essenziale o inessenziale. Cinema e teatri per il governo sono attività inessenziali, sono essenziali altre attività come per esempio i luoghi di culto e i centri commerciali. Dietro questa distinzione tutti scorgiamo una ratio, ovviamente, ma è aberrante: pregate il vostro Dio, spendete i vostri soldi, ma la cultura è superflua. È chiaro che non è possibile decidere arbitrariamente cosa sia essenziale e cosa inessenziale perché, nel farlo, si compie non solo un atto profondamente autoritario e antidemocratico, ma si decide a tavolino quali attività e ambiti possano sopravvivere e quali morire. Si è deciso di condannare a morte cinema, teatri, compagnie teatrali, progetti culturali, tutto ciò che aiuterebbe ad affrontare questo momento difficile con maggiore consapevolezza, a fronte di un pericolo di contagio che non è oggettivamente né superiore né inferiore rispetto ad altri ambiti. Oppure no, oppure è addirittura inferiore, considerando che teatri e cinema non vengono presi d’assalto la domenica come i centri commerciali. Eppure, a Dario Franceschini, ministro per i Beni Culturali, il giorno successivo alla firma del Dpcm sono stati offerti pulpiti da cui è riuscito a dire ciò che un politico non dovrebbe mai dire, e cioè che chi si lamenta non ha capito la gravità della situazione legata ai contagi. Ed eccola la frattura che spesso abbiamo provato a indicare ma che non sempre si manifesta in maniera tanto evidente: quando la politica afferma che le persone non capiscono, la politica ha fallito. “Ecco perché l’Italia grida” di Marco Damilano L’Espresso, 1 novembre 2020 “Basta con la retorica della sanità che funziona. La negazione dell’ingiustizia sociale. La politica che cerca il consenso sul virus”. Lo scrittore Roberto Saviano racconta il paese disperato. Sono i giorni italiani dell’ira. Di rabbia, di protesta, di grida nelle piazze di antichi professionisti e di giovanissimi sconosciuti. Avevamo in programma di vederci per parlare del suo nuovo libro, una lunga lettera indirizzata a un ragazzo che frequenta il liceo Diaz di Caserta, che si chiama Roberto, l’alter ego dello scrittore, sé stesso, “coi lunghi capelli ramati - dove sono finiti, maledizione, quei capelli?”. Una mappa per non perdersi, una cartina, una bussola tra personaggi, parole, storie. “Volevo intitolarlo “Manuale per non diventare stronzi”. I siti e i giornali ci rimandano al fuoco per le strade, il discorso va subito su quanto sta succedendo, e viene fuori una conversazione intima, sincera, senza muri o pudori: “Ti confesso una cosa: sono stanco della retorica sulle bellezze del nostro Paese e sulla sanità pubblica che ce la invidia tutto il mondo, perché non è vero. E sono stanco anche di una sinistra che si rintana dentro i buoni modi, la buona educazione, la gentilezza. Io invito a gridare contro tutto questo”. Non ti sembra che in Italia ci sia già abbastanza gente che grida? In tv e ora nelle piazze, contro le chiusure decise dal governo? “Sapevo che scegliere come titolo di un libro “Gridalo” era scivoloso. Il grido non è soltanto lotta o rivolta, può essere anche un vaffanculo, un grido della disperazione o dell’orgasmo, tu scegli cosa gridare. Gridare significa prendere parte. Grido dunque sono, lo scrisse il cubano Reinaldo Arenas. Ma quando la parola diventa martello non riesci neppure a svuotare la tua rabbia”. Tu di recente hai mandato “a cagare”, cito, il segretario del Pd, però. “L’ho fatto perché non basta più rintanarci dentro i buoni modi, la buona educazione. Basta con le prediche contro l’odio. Io, per esempio, sento di odiare tantissimo. Devo disciplinarmi per non far emergere in pubblico un odio che provo in modo assoluto”. Chi odi? “Io odio chi mi ha fatto del male. Odio quelli che stanno dalla mia parte ma poi mi pugnalano alle spalle perché mi detestano. Li odio profondamente, personalmente. Devo lavorare per andare oltre, perché questo odio mi delegittima, corrompe le mie parole e il mio impegno, corrode me stesso. Ma non credo la strada da seguire sia la gentilezza. È ora dire basta: basta con il mondo mediatico che ospita il peggio, con giornali che hanno fatto cose ignobili, dossieraggio e istigazione al razzismo, che hanno perso qualsiasi autorevolezza ma vengono tenuti al tavolo perché deve esserci tutto, anche la quota della merda”. Non sono questi i giorni della gentilezza. Si sta gridando in quasi tutte le città italiane, a partire da Napoli. Si sfasciano le vetrine, si aggrediscono i giornalisti. “È una rivolta arrivata in ritardo. La gente ha pensato che la pandemia fosse finita, si è scatenata la rabbia quando si è visto che non era così e ora i soldi mancano, i locali chiudono, il lavoro nero diventa l’unico possibile. Napoli è stato l’inizio, come al solito, ma ora le manifestazioni si sono spostate nelle altre città italiane. E sono pronte a scoppiare le banlieues in Francia, Spagna, Inghilterra”. Cosa vedi in queste piazze? “C’è una parte violenta che è abituata a vivere di disagio. Gli ultras, i disoccupati organizzati, gente che vuole l’obolo. Ma anche tantissime persone che sono disperate. I commercianti che hanno messo i locali a norma. I soldi che mancano sono l’ossessione. E i ragazzi sottosopra che non capiscono come mai siamo di nuovo qui. Anche i saccheggi di Torino e Milano sono componenti di una rabbia generalizzata in cui poi si inserisce chi è abituato agli scontri”. Abbiamo scritto per anni che la società italiana era anestetizzata e che il vulcano sociale non esplodeva. Ora invece scopriamo che non si vedeva l’ora di andare in piazza a spaccare tutto: è una nostra schizofrenia interpretativa? “Chi vive oggi il disagio non va neppure in piazza, è soltanto disperato. L’usura è a livelli impressionanti, le mafie diventano i protettori che mediano con l’usuraio. Questa seconda ondata non è una sventura inaspettata. Nel momento di tregua bisognava pensare a risorse, strumenti, flussi, sui trasporti e nelle scuole. Anche i teatri e i cinema sono stati messi in sicurezza e poi chiusi. Franceschini ha detto una frase terribile: non vi rendete conto della gravità della situazione. No, Franceschini, sei tu che non ti rendi conto che la gente si sente presa per il culo! La politica ha vissuto di speranza, il virus è finito, e non ha organizzato nulla perché si sarebbe creato molto disagio e poco consenso”. In primavera il nemico invisibile di tutti era il virus, oggi sono i poliziotti, i giornalisti, ma anche il vicino, quello che fa il tampone o che riceve il sussidio e io no. “Carl Schmitt ti racconta che puoi governare solo quando metti tutti contro e ti fai garante, quando fai sì che il potere difenda da un nemico. Mi sono chiesto perché Assad e Putin possano godere di simpatie in Occidente e mi sono risposto che nella disperazione finisci per appoggiare qualunque cosa superi il tuo quotidiano. Odio l’esperto che non mi aiuta. Odio la democrazia che non mi ha dato nulla”. Schmitt parla di stato di eccezione che, scrivi, “per un politico è come il miracolo per chi crede”. Mai avremmo pensato in un regime democratico di ritrovarci nello stato di eccezione provocato dal Covid, con i decreti ministeriali che codificano gli aspetti più minuti delle nostre vite. “Nell’eccezione si osserva la dinamica del potere nella sua nudità. In questo stato di eccezione, in realtà, c’è anche un commissario incompetente, ministri fragilissimi, l’assenza di soldi. All’inizio c’è stato un serrarsi intorno al premier perché cercavamo un capo che volesse salvarci, proteggerci. Conte si era trovato nella condizione di chiudere ed è stato sufficiente per riconoscerlo come una giusta guida. Ora comincia a sentirsi la mancanza di autorevolezza. E sarà molto difficile per il governo non pagare le conseguenze di questa incompetenza”. Il potere può dire la verità ai governati? “È stato Goebbels a dire che la verità non è sopportabile. Il popolo vuole vivere, se gli dai la verità non vorrà più farlo. Devi proteggere il popolo dalla verità e dare una lettura delle cose per sollevarlo da questa fatica. Per Goebbels lo faceva il partito nazista, oggi lo fa l’algoritmo che non è mai neutrale ma è un’idea politica scritta matematicamente, come ha scritto Cathy O’ Neil”. Nel libro parli di Anna Politkovskaja, che prima di essere uccisa fu delegittimata con insinuazioni di tipo privato. È il percorso del potere: mandare in frantumi una vita. Scrivi: il web è vorace, è una sabbia mobile. E la cronaca scandalistica è “vita compressa”. “Se vuoi fermare qualsiasi posizione politica la prima cosa è delegittimare la persona. La Cia metteva i microfoni nelle stanze di albergo dove dormiva Martin Luther King e faceva ascoltare alla moglie Coretta i suoi ansimi con altre donne. Quando a sinistra viene pretesa la purezza, l’assoluta morale, i difetti, le contraddizioni, i vizi distruggono l’intera tua moralità. Trump è un presidente che ha avuto rapporti provati con la mafia e ha negato il covid, ma non ha subito il trattamento ricevuto da Clinton con Monica Lewinsky. Il gossip non è innocenza, è squadrismo”. Parli anche di te stesso? “Io ho due fortune: sono sempre accompagnato da altre persone. E il mio passato da scandagliare è molto poco perché sono emerso da giovane. Nonostante questo, per anni hanno intervistato persone vicine a me, sono andati a prendere le lettere che scrivevo ai giornali quando avevo sedici anni. All’inizio le leggende su di me mi mettevano paura, poi ho capito che non potevo starci dietro. È il meccanismo che si aziona verso chiunque mette la sua notorietà al servizio di un progetto di cambiamento. Il bene è sospetto. Dovremmo rifondare un modo di raccontare tenendo fuori il gossip, lo spiare dalla serratura. Dire che l’intimo di una persona mi interessa, il privato no. Il privato è sempre estorsione. Negli anni ‘60 la destra era sessuofobica e la sinistra libertina, adesso è il contrario”. Abbiamo le carte in regola per dirlo? Penso a Berlusconi, inchiodato alla sua vita sessuale dalla sinistra. E oggi a Trump. Invece di essere contestati sulla loro politica pessima. “Forse il gioco è stato mostrare una vita così inaffidabile da rendere inaffidabile il loro operato politico. Non ha funzionato, per molte ragioni. Innanzitutto perché la loro inaffidabilità privata la proclamavano. E poi perché nel privato delle persone tutto si consuma, il gossip oggi funziona e domani viene dimenticato. E intanto non racconti un orizzonte politico, una convivenza con il peggio”. È stato ucciso 45 anni fa, per il suo tempo Pasolini era l’intellettuale che gettava il corpo nella lotta. Tu scrivi: dire verità e giustizia non è un atto narcisistico. Di nuovo stai parlando anche di te? “Dopo la morte Pasolini è stato santificato da tutti, ma da vivo era odiatissimo anche dai colleghi. Si teneva lontano dalle edicole per non vedere associato il suo nome a titoli cubitali a azioni abiette. Ma all’epoca lo attaccavano giornali che vedevi se li compravi, oggi la delegittimazione è indirizzata a chi ti sostiene, punta a metterti contro chi è con te. Oggi testimoniare è pericolosissimo. È la storia di Khashoggi e di Daphne Caruana. Chi testimonia non si candida e non diventa ministro o senatore, ma resta solo. Una settimana fa in tribunale al processo per le minacce dei Casalesi io ero da solo, a parte la Federazione nazionale della stampa. Non c’erano colleghi, non c’è stata nessuna presa di posizione”. Per anni si è detto che saresti entrato in politica. Con altri partiti, con un tuo partito, perfino da candidato premier. “Vero. Persone che mi volevano bene mi chiedevano di candidarmi: vai alla Camera o al Parlamento europeo”. Perché hai rifiutato? “Perché la mia testimonianza non poteva declinarsi in quel modo. È un modo nobile, ma non sopporto chi lo fa per poi uscirne come se non fosse accaduto nulla”. Tu hai gettato il tuo corpo nella lotta. Il tuo corpo protetto, il tuo corpo scortato, ma anche la fisicità dei tuoi interventi per chi ti ha seguito dal vivo o in televisione. Al tempo stesso è un corpo prigioniero che non può andare in persona a vedere le cose. Quanto ti manca non andare in una piazza oggi a vedere che succede? “Non posso andare, diventerei non l’occhio che racconta ma l’oggetto della notizia. C’è stato un tempo in cui sono stato simbolo di un sud diverso, di persone che si identificavano in un progetto di resistenza. Da tempo sono soprattutto un bersaglio. Io ho perso la possibilità di considerare il mio corpo libero, anche quando sono solo con me stesso. Non vado al mare non solo per condizioni di sicurezza, ma perché non sopporterei che qualcuno scrivesse che lo faccio con la scorta a spese dello Stato”. In mezzo alle grida c’è l’eco di quello che non si può dire. Nella parola, nella scrittura resta la parola sottratta. Tu scrivi: per me è impronunciabile la luce, voglio raccontare l’ombra. “Guarderò sempre l’ombra perché questo è il compito di chi racconta. Guardare le ferite per guarirle, sapendo che sarai accusato di aver creato tu le ferite che hai illuminato. Questo grido è scritto con il mio corpo. Una cosa è denunciare, un’altra è testimoniare. Denunciare è affidare alle parole il compito di lasciare traccia. Testimoniare significa che sul tuo corpo cadrà la responsabilità di quello che dici e che fai. Come Emile Zola, per difendere Dreyfus mise il suo corpo a garanzia di una persona che neppure stimava ma era un innocente e distrusse la sua vita. Perse tutto per testimoniare. Testimoniare è prendere parte, stare in strada. E anche sbagliare”. Dove sono finiti, maledizione, i tuoi capelli? “Mi hanno abituato fin da giovane a misurarmi con qualcosa che perdevo... alla fine resisto per appartenere. È molto facile essere ribelli quando si ha un grande consenso. Io non l’ho avuto, ho sentito vicinanza ma i guai sono stati moltissimi. Quando lotto sento che sono io. E che forse ha avuto senso pagare quel che ho pagato”. Il Covid sdogana come nemici i vecchi improduttivi di Enzo Scandurra Il Manifesto, 1 novembre 2020 Essere vecchi è una colpa? Nell’età cosiddetta moderna lo è sempre stato. Il neoliberismo con la sua spietata ideologia produttiva ha tanto più sancito questa affermazione: chi non produce non serve, tanto più se con la sua pensione ruba il futuro ai giovani. Così si è fatta largo tra i media e la pubblica opinione l’idea di un conflitto di generazioni, in base al quale giovani e vecchi sono (inconsapevolmente) avversari, se non nemici. Ora con il Covid questa idea, che appena si aveva il coraggio di sussurrare in alcuni ambienti, è venuta alla ribalta: tutto sommato se non ci fossero i vecchi ad occupare le terapie intensive e a morire, il virus potrebbe essere considerato poco più di una banale influenza, perché sono pochi i giovani che muoiono e si ammalano gravemente. In alcuni reparti ospedalieri (quelli sotto stress per i troppi ricoveri) si comincia a pensare che sarebbe giusto dare la precedenza a chi ha maggiore probabilità di sopravvivere (ovvero i giovani). È sbagliato? Non avremmo mai dovuto affrontare un conflitto di questo genere, ovvero chi far sopravvivere e chi no e il fatto di essere arrivati quasi a questo punto ci dice che c’è qualcosa che non va. E questa volta la colpa non di questa o quella parte politica: tu vecchio avverti che stai sottraendo spazio alle future generazioni, che impedisci loro di svolgere quelle attività ludiche che i giovani hanno sempre svolto, la sera, la notte. Se continuano a farlo, sai che la prossima vittima del virus sei tu. Perché ai vecchi il coprifuoco non cambia di una virgola la loro vita, ma sono i giovani (quelli chi vivono in famiglia a contatto con i vecchi) che sono costretti a rinunciare a molte delle loro libertà. Ora i vecchi sono ancora più vecchi perché avvertono che la loro fragilità è esposta a maggiori rischi e dovrebbero reagire (chi può, chi ha la preparazione culturale per farlo) con coraggio accettando prima di tutto la propria realtà demografica senza nasconderla e accettando che il tempo futuro che resta può essere anche breve. Non di rassegnazione si tratta né di passiva attesa, ma essere consapevoli, come non mai prima di adesso, che il progresso e la modernità non hanno cancellato questo destino finale, questo attrattore strano verso il quale tutti convergiamo. Bisogna avere anche pazienza e tolleranza verso i giovani; non vederli solo come possibili untori, come responsabili del contagio, ma in un’ottica di fratellanza di specie e di rinnovata solidarietà, qualunque sia il destino dei vecchi. Quello che invece è inaccettabile è vedere la razza padrona, Confindustria in testa, affermare, più o meno esplicitamente, che le “ragioni” dell’economia sono più forti di quelle della salvaguardia della salute. Essi sostengono che sia meglio morire di Covid piuttosto che di economia, ovvero di fame. Loro che di fame non moriranno di sicuro. Ma se tutti gli Stati (almeno) d’Europa per un momento lasciassero stare le “ragioni dell’economia” e si preoccupassero di destinare tutte le risorse e le infrastrutture per combattere il virus (e i cambiamenti climatici), costi quel che costi, non sarebbe questo l’avvio di un diverso modello di sviluppo? Un tempo (non so se ancora adesso) quando iniziavano i grandi lavori magari per un traforo di una montagna lungo decine di Km, si predisponevano anche delle bare (ben nascoste agli occhi) perché tra i “danni collaterali” c’era anche la quasi certezza di alcune morti. In compenso la grande opera inaugurava un grande progresso di cui avrebbero usufruito le generazioni future. Vale ancora oggi? “Non ci faremo chiudere in casa: in piazza contro l’apartheid degli anziani” di Massimo Franchi Il Manifesto, 1 novembre 2020 Intervista a Ivan Pedretti. Il segretario dello Spi Cgil: la proposta degli economisti è un’idiozia, non tiene conto della dignità delle persone, ci mobiliteremo. Gli economisti Carlo Favero, Andrea Ichino e Aldo Rustichini propongono sostanzialmente di isolare gli anziani per diminuire i costi sociali ed economici della pandemia da Covid. Da segretario del sindacato cui sono iscritti 2,5 milioni di pensionati cosa ne pensa? Mi sembra francamente un’idiozia. Come sempre si guarda ad altro invece di risolvere problemi complessi. Si accorgono adesso che la nostra società è invecchiata? Serviva farlo 20 anni fa rimodulando tutto il welfare, a partire da una sanità di prossimità sul territorio. E invece veniamo da 20 anni di tagli alla sanità pubblica che oggi paghiamo davanti alla pandemia. Scegliere scappatoie all’ultimo minuto non ha senso. L’emergenza si affronta assumendo medici e infermieri, spostandoli sul territorio. La proposta di una “apartheid anagrafica” ha avuto molte critiche ma non sono pochi i commentatori che la ritengono perseguibile per “la tutela della salute”... Chi lo pensa non si rende conto che stiamo parlando di milioni di persone, non vuoti a perdere. Gli anziani sono ormai un terzo della società e sono già i più colpiti dalla pandemia: persone che hanno liste di attese lunghissime nella sanità per tutte le patologie e molti dei quali non si curano più perché hanno paura proprio del Covid. Questa è la vera emergenza: l’aver consegnato buona parte del nostro territorio, specie in Lombardia, alla sanità privata. Gli economisti che hanno lanciato questa proposta ragionano senza tener conto della realtà, della vita quotidiana di milioni di persone. Voi difatti state pensando addirittura ad una mobilitazione nazionale per far sentire la vostra voce. Come pensate di organizzarla? L’abbiamo decisa unitariamente con Fnp Cisl e Uilp per fine novembre per ribadire le nostre priorità di intervento. Dalla sanità territoriale all’assistenza sociale costruendo nuove tipologie di strutture come le Case della salute che possano aiutare gli anziani vicino casa. Senza dimenticare la Legge nazionale sull’autosufficienza che non è ancora stata implementata. Per fare tutto questo serve un intervento finanziario cospicuo e noi siamo favorevoli ad usare anche il Mes. In più, pur apprezzando l’intervento del governo sul blocco dei licenziamenti fino a fine emergenza, pensiamo che lo Stato deve puntare ora forte sulla sanità pubblica come priorità della legge di bilancio. La pandemia come ha impattato e come impatta nella vita di una grande organizzazione come lo Spi che faceva leva sulla partecipazione diretta della cosiddetta terza età che voi definite “liberetà”? Abbiamo dovuto attrezzarci usando il più possibile la tecnologia. Durante la prima ondata abbiamo contattato il maggior numero di persone possibili per sentire se stavano bene e se avessero necessità di aiuto, organizzandoci per fornirlo. Poi abbiamo ricostruito il legame con le persone facendo assemblee in videoconferenze, che a volte sono state più partecipate che in presenza. Alla lunga però l’elemento fisico, sociale è necessario e per questo torneremo a mobilitarci. Credo che gli economisti si sbaglino se pensano che chiudendoci in casa si risparmia. Anzi, isolando le persone sole si rischia di aggravarne la situazione e di dover spendere più in assistenza e sanità. E qui veniamo al grande scandalo delle Rsa, le residenze sanitarie assistenziali nelle quali durante la prima ondata sono morti migliaia di anziani e che ora, denuncia l’Fp Cgil, sono state svuotate di medici e infermieri... Sì, noi ci costituiremo parte civile in molti processi che stanno partendo in Lombardia. Inoltre stiamo portando avanti delle ricerche per valutare non solo gli effetti sui malati ma anche sull’isolamento a cui sono stati sottoposti centinaia di migliaia di anziani ospiti delle Rsa nel nostro paese. La cosa grave è che ci risulta che anche in questi giorni si pensa di rifare come a marzo e di spostare gli anziani positivi al Covid dagli ospedali alle Rsa: una cosa gravissima e inaccettabile. Meglio dichiarare che non si vogliono più curare gli anziani come hanno fatto gli svizzeri. Invece stiamo facendo passi indietro nel rispetto della dignità delle persone. Cerchiamo di chiudere con un po’ di ottimismo: nonostante tutto la vostra mobilitazione dimostra che gli anziani hanno la forza di reagire a questo incubo della pandemia... Con tutte le cautele del caso, non bisogna farsi scoraggiare. Pensare al dopo e intanto teniamo unito il paese, come ha chiesto il presidente Mattarella. Per questo noi stiamo già preparando delle iniziative come i nostri Campi della legalità che in estate riporteranno giovani e anziani nei luoghi sottratti alla malavita e iniziative culturali per avvicinare giovani e anziani: i giovani ci insegneranno ad usare la tecnologia, noi insegneremo loro l’importanza della memoria. Lo stigma della cannabis terapeutica nell’Italia che dimentica chi soffre di Luigi Manconi La Stampa, 1 novembre 2020 Walter De Benedetto ha 49 anni e da 35 soffre di artrite reumatoide. Una malattia cronica che colpisce le articolazioni portando a una perdita della mobilità e a dolori lancinanti. Per lenirli, De Benedetto ha fatto ricorso a farmaci a base di cannabis, prescrittagli dal suo medico. Ma la difficoltà a reperirli, la disponibilità limitata e il costo elevato, hanno causato frequenti interruzioni della terapia. Quando è stato necessario aumentare il dosaggio, il servizio sanitario della regione Toscana non è stato più in grado di provvedere. Da qui la decisione di De Benedetto di avviare la coltivazione di cannabis nel proprio giardino. Il 23 settembre del 2019 una perquisizione dei carabinieri trova nella sua abitazione e in una vicina struttura piante, semi e oggetti per la coltivazione. L’indagine per violazione dell’articolo 73 del Testo Unico sulle Sostanze Stupefacenti è ancora in corso. E si tratta di una storia tutt’altro che rara. Il 23 luglio scorso Fabrizio Pellegrini è stato assolto dal Tribunale di Chieti perché “il fatto non sussiste”, in considerazione della “destinazione di tipo domestico e del numero ridotto di piante detenute”. La sentenza arriva a conclusione di una storia iniziata vent’anni fa, quando a Pellegrini fu diagnosticata la fibromialgia. Una malattia autoimmune che causa forti dolori, rigidità muscolare, cefalea e disturbi del sonno: negli stadi avanzati, porta all’erosione di tutte le articolazioni. Quando Pellegrini verifica che il ricorso alla cannabis gli consente di recuperare un po’ di mobilità, decide di coltivare alcune piante nella sua abitazione. Ne consegue una sequela di perquisizioni e arresti e una condanna a due anni di carcere. Infine, un medico gli prescrive l’uso della cannabis terapeutica, ma il suo costo si rivelerà presto insostenibile; e questo induce Pellegrini a riprendere la coltivazione domestica, fino a quando, nel 2016, viene nuovamente arrestato per possesso di 5 piante e di 430 grammi di infiorescenze. E questo nonostante l’Abruzzo si fosse dotato di una legge per regolamentare la distribuzione dei farmaci cannabinoidi. Dopo un’ulteriore lunga attesa, finalmente, nel luglio scorso l’assoluzione. Osservando queste due vicende, si dovrebbe dedurre che in Italia il ricorso alla cannabis terapeutica sia fuorilegge. Ma così non è. Al danno, dunque, si aggiunge il grottesco. Infatti, dal 2007, la cannabis per fini medici è perfettamente legale. Da quell’anno, il Thc - il principio attivo della cannabis sativa - è inserito nella lista delle sostanze utilizzabili per la produzione di medicinali. La successiva norma, che costituisce il fondamento della regolamentazione dell’uso medico della cannabis, si trova nel Decreto Ministeriale del 9 novembre 2015, che autorizza la coltivazione per la produzione di medicinali di origine vegetale. In questo caso, è il Ministero della Salute a dover rilasciare le relative autorizzazioni. Dunque, oggi la cannabis terapeutica può essere prescritta da qualsiasi medico; e la possibilità di accedervi è duplice: a pagamento o, attraverso il Servizio sanitario nazionale, gratuitamente. Ciò è ragionevole. Negli ultimi decenni, numerose ricerche hanno validato i benefici che la cannabis terapeutica può arrecare a chi soffre di sclerosi multipla, dolore oncologico e cronico, cachessia (in anoressia, Hiv, chemioterapia), glaucoma, sindrome di Tourette; sono in corso studi sugli esiti positivi per pazienti affetti da epilessia, patologie vascolari, metaboliche e gastro-infiammatorie. Sia chiaro: la cannabis di per sé non guarisce alcuna patologia e non garantisce alcun risultato miracoloso, ma produce benefici accertati. Tuttavia, il ricorso ai farmaci cannabinoidi in Italia risulta non solo estremamente limitato, ma anche osteggiato e persino sanzionato penalmente. Non esistono linee guida nazionali e, di conseguenza, l’elenco delle patologie per le quali è consentito il ricorso a tali medicinali varia da Regione a Regione e tende, in ogni caso, a ridurre al minimo la possibilità di accesso, fino alla totale indisponibilità in alcune aree del territorio nazionale. La prescrizione a pagamento tramite “ricetta bianca” dovrebbe risultare più semplice, se non fosse che una parte assai significativa della classe medica continua a non considerare la cannabis un farmaco e ne ostacola l’utilizzo. C’è, poi, il problema della crescente difficoltà di approvvigionamento. Come ha scritto Marco Perduca, sul Manifesto del 3 giugno scorso, è prevedibile che “il fabbisogno del 2020 tenda a superare la soglia dei 1000 chilogrammi annui (con un incremento del 50% rispetto al 2019)”. L’ente autorizzato, lo stabilimento Chimico Farmaceutico militare di Firenze, produce annualmente infiorescenze pari a circa un sesto di quanto necessario e, di conseguenza, si deve ricorrere al mercato estero, con tutte le difficoltà che ciò comporta. Le ragioni di questa scarsità sono molteplici e vi si è accennato, ma la principale rimane una diffusa diffidenza verso quell’oggetto oscuro e inquietante che è la droga e la sua rappresentazione mitico-irrazionale. La conseguenza è desolante: secondo le denunce dell’Associazione Luca Coscioni di Filomena Gallo, Marco Gentili, Marco Cappato e Mina Welby, del Partito Radicale di Rita Bernardini, della neonata Meglio Legale di Antonella Soldo, del Forum Droghe di Franco Corleone e della rubrica, condotta ormai da vent’anni (mirabile esempio di resistenza anche fisica), da Roberto Spagnoli su Radio Radicale, centinaia di malati si trovano a dover patire sofferenze non lenibili per la combinazione tra perversione burocratico-amministrativa e preconcetti ideologico-morali. A dicembre, le Nazioni Unite sono chiamate a esprimersi sulla riclassificazione della cannabis: una volta cancellata dalle tabelle definite dalla Convenzione sugli stupefacenti del 1961, la cannabis dovrebbe ottenere - come chiede l’Organizzazione Mondiale della Sanità - il riconoscimento di pianta con proprietà mediche. Se accadrà, si potrà immaginare che un giorno, nemmeno troppo lontano, guardando indietro ci sorprenderemo delle resistenze antiscientifiche e delle credenze esorcistiche che hanno impedito per lungo tempo alla ricerca di procedere in questo campo. Ciò che non potremo dimenticare saranno le sofferenze di Walter De Benedetto, Fabrizio Pellegrini e di tanti altri. In Bosnia l’oasi sociale per i profughi della rotta balcanica di Luca Geronico Avvenire, 1 novembre 2020 A Usivak la distribuzione del tè costruisce relazioni mentre gli operatori Caritas svolgono corsi per i ragazzi. Il nunzio Pezzuto: vitale sostenere la speranza. “Non so quanto è durato il viaggio dall’Iran fino a qui, mi ricordo che abbiamo viaggiato tanto a piedi. Prima - ti spiega la ragazzina in giacca a vento arancione - abbiamo passato del tempo in Turchia”. Adesso sorseggia una tazza di tè sulla scalinata in cemento che porta al “Social corner”, inaugurato pochi giorni fa al “campo di ricezione temporanea” di Usivak, a una ventina di chilometri da Sarajevo. È stato il nunzio apostolico Luigi Pezzuto a inaugurarlo perché il prefabbricato, montato alla sommità di una preesistente area spettacoli ad anfiteatro, è stato acquistato grazie a una donazione di papa Francesco in occasione della recente Giornata mondiale del migrante. Questa è “l’ultima tappa del percorso migratorio, prima di entrare in Europa. Quindi, è di vitale importanza sostenere la speranza di queste famiglie con bambini e minori non accompagnati in un futuro migliore”, spiega l’arcivescovo Pezzuto. Una scelta certo non casuale il campo di Usivak. Fino al 2018 la rotta balcanica non transitava da qui: più conveniente - quando nel 2015 iniziò la grande ondata di profughi - entrare in Croazia o in Ungheria, le prime frontiere dell’Ue, direttamente dalla Serbia. Da un paio d’anni i violenti respingimenti delle polizie di frontiera hanno riversato decine di migliaia di profughi in Bosnia Erzegovina, totalmente impreparata a questa emergenza. Il campo di Usivak è gestito dall’Organizzazione delle migrazioni (Onu) grazie a fondi Ue mentre le autorità locali “di fatto si sono rifiutate di organizzare una politica migratoria lasciando le agenzie umanitarie senza reali interlocutori”, spiega Daniele Bombardi coordinatore di Caritas Italiana nei Balcani. Una emergenza inaspettata per un Paese da cui tradizionalmente si emigrava, e con numeri importanti: si stima siano stati 35mila i transiti nel 2019 in Bosnia, mentre lo scorso agosto i campi con una capienza di 5mila posti accoglievano oltre 6.300 persone e altre 4mila dormivano per strada. Uomini soli, famiglie con bambini e anche minori non accompagnati - il più piccolo a Usivak ha solo 10 anni e viene dall’Afghanistan - che aspettano solo il momento buono per varcare la frontiera. “Vogliamo andare in Germania perché lì ci sono i miei nonni paterni. Invece la mia sorella più grande è rimasta in Iran con i nonni materni”, ti spiega la piccola iraniana. Anche lei tenterà il “game” come lo chiamano tutti, il passaggio alla frontiera. Gli uomini soli provano ad avventurarsi sulle montagne in cerca di un valico, ma a rischio delle percosse, o peggio, della polizia di frontiera, che su molti di loro ha già lasciato profonde cicatrici. Le famiglie, con tariffe che vanno dai 3mila euro in su, si affidano ai “passeur” che, di confine in confine, hanno già prosciugato il piccolo capitale realizzato spesso vendendo casa. E a Usivak si aspetta di passare, con l’emergenza Covid che da marzo a fine maggio ha costretto in lockdown duro pure i profughi. Poi mascherine e dispensatori di gel sono comparsi fra i vani ricavati da quella che era una vecchia caserma dismessa. Si aspetta, sapendo che il distanziamento fisico è impossibile. Si aspetta, ma non si vive: “Sono qui con tutta la mia famiglia: 2 fratelli, mamma e papà. Vogliamo andare in Germania, le mie zie sono già lì. Ma è da 3 anni che siamo in viaggio, è difficile” confida un ragazzino afghano. “È noioso stare sempre dentro al campo, ma il problema è anche uscire: non abbiamo soldi, e se anche uscissimo più spesso cosa potremmo fare?”. Così ogni giorno, al “Social corner”, Caritas Italiana distribuisce il tè. È un modo di intessere relazioni e ascoltare i bisogni dei profughi in questa oasi sociale: “Cerchiamo di animare le loro giornate: si crea un punto di incontro e proponiamo dei corsi di alfabetizzazione per i più piccoli”, spiegano i responsabili, due operatori di Caritas fissi e due volontari presenti ogni giorno. A Usivak non si vive, ma si può prepararsi al dopo: apprendere una lingua straniera o frequentare dei corsi professionali. Il distanziamento da Covid impone non più di 30 presenze al giorno, suddivise in due turni. Primi passi di una attività (il tè per tutto il campo e i primi corsi) che costa almeno 2mila euro mal mese e che si può sviluppare ulteriormente con psicologi o insegnanti specializzati. “Il 27 marzo, in una piazza San Pietro vuota, papa Francesco ha enunciato i valori e le idee per costruire una comunità migliore dopo la crisi della pandemia”, ricorda Daniele Bombardi. “Ho in mente questa frase di Francesco: Dobbiamo trovare il coraggio di aprire nuovi spazi, dove ognuno possa sentirsi benvenuto, e dove possiamo mettere in campo nuove forme di ospitalità, di fratellanza e solidarietà”. Al Social corner di Usivak il tè caldo è servito. Grecia. A Lesbo l’inferno degli sfollati di Moria dove una doccia è un miraggio di Francesca Ghirardelli Avvenire, 1 novembre 2020 Nell’isola greca il coronavirus è solo uno dei tanti problemi di questa gente rimasta senza terra né casa, fuggita da guerre e terrorismi. Doccia, chi ha parlato di doccia? La notizia della distribuzione, tenda per tenda, di ticket per accedere al servizio-docce è circolata veloce tra i 7.700 sfollati di Moria rimasti sull’isola di Lesbo, ora alloggiati nel campo temporaneo di Kara Tepe, tirato su in fretta (e male) dopo i roghi dell’8, 9 e 10 settembre. Da allora, nessuno ha più fatto una doccia vera, almeno non dentro il campo che ne è sprovvisto. Malgrado il coronavirus circoli anche lì (in quarantena ora ci sono 33 persone, di cui 27 positive al Covid-19) non c’è allacciamento alla rete idrica comunale, cioè niente acqua corrente. Fino ad ora le persone si sono lavate in mare, con l’acqua salata. O hanno dovuto contare sulla distribuzione di bottiglie e sui pochi rubinetti lava-mani dell’Acnur, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, collegati a sacche d’acqua per il rifornimento. Per questo la novità dei ticket-doccia è parsa subito rilevante: “Però non capisco: dicono che ognuno deve portarsi la propria acqua”, riferisce via Whatsapp Morteza H., un ragazzo afghano sempre ben informato che vive nel campo. Qualche ora dopo, con le istruzioni multilingua fra le mani, fornisce tutti i dettagli: occorre portarsi “la propria acqua e il proprio secchio” perché viene offerto solo un posto appartato in cui lavarsi, lontano da occhi indiscreti. “Ai rubinetti lava-mani la fila è lunghissima e le toilette sono chimiche, di plastica. Quindi quando si va in bagno, ci si porta una bottiglia anche lì”, racconta Morteza H: “L’acqua del mare per lavarsi è fredda, questo non va bene per i bambini”. Soprattutto non va bene per suo figlio che ha appena quattro settimane. È nato nell’ospedale di Mitilene, il capoluogo dell’isola, dopo 8 giorni che lui e la moglie (e altri 12mila sfollati di Moria) erano in strada, fuori dal vecchio campo incenerito. “Ci hanno detto che dovremmo fargli il bagnetto ogni due giorni. Non è facile: mettiamo a scaldare bottiglie al sole e quando sono tiepide lo laviamo. Inizia a fare freddo, così di notte mettiamo i nostri sacchi a pelo attorno a lui”. Mamma e bambino sono entrati nella nuova tenda di Kara Tepe a pochi giorni dalla nascita, malgrado lei avesse subito un intervento chirurgico durante il parto. Anche per lei l’acqua del mare non è indicata. Contro il virus sono state distribuite 48.500 mascherine dalla cooperazione svizzera, ma è tutto il resto a mancare: dopo mesi passati nel malsano campo di Moria, nessuno si sarebbe aspettato di vivere in condizioni ancora peggiori. Delle 900 tende allestite, al momento solo 300 hanno teli d’isolamento e 376 hanno pallet per terra. Nelle altre si è a contatto con il terreno (e con resti di munizioni di questo che era un poligono militare, tanto che c’è chi ha denunciato il rischio di intossicazione da piombo). Quando il 13 ottobre sono arrivate le prime piogge, l’acqua ha inondato diverse tende, “come ci fosse il mare dentro” dice Morteza. Intanto, come accadeva a Moria, si fa la fila per tutto, e il distanziamento sociale pare l’ultimo dei problemi. Per il primo mese il cibo è stato distribuito solo una volta al giorno, con migliaia di persone in coda. Ora si è aggiunta una distribuzione mattutina ma è sempre più difficile fare approvvigionamento all’esterno: di domenica il campo è sigillato, non esce nessuno, e negli altri giorni si resta in fila ai cancelli, con quote massime per le uscite. Intanto, secondo il meteo, su Kara Tepe si attendono nuovi temporali, una beffa per chi, senza potersi fare una doccia, deve mettersi in coda per lavarsi le mani e intanto vede fiumi d’acqua piombare dentro la propria tenda. Somalia. Un milione di persone in fuga nel 2020 di Paolo M. Alfieri Avvenire, 1 novembre 2020 “Cambiamenti climatici, insicurezza e violenza hanno alimentato l’esodo”. Lo studio a 25 anni dall’omicidio a Merca di Graziella Fumagalli. Un Paese in cui “la pericolosa sinergia di violenza e cambiamenti climatici produce i suoi effetti più devastanti”. In cui “all’insicurezza, al gran numero di sfollati interni (2,6 milioni) e di rifugiati all’estero (più di 800 mila), alla carenza di tutti i servizi sociali” si devono sommare “le sempre più frequenti carestie dovute a siccità, inondazioni e altre catastrofi (come la recente invasione di locuste)” che la colpiscono in modo ricorrente. Tanto che “nei primi otto mesi del 2020 circa 700mila persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case per le alluvioni e altre 200mila a causa di espulsioni, insicurezza, violenze”. È il ritratto di una Somalia drammaticamente instabile quello che viene emerge dall’ultimo dossier Caritas intitolato, non a caso, “Nazione a frammenti. Crisi perenne di un popolo senza Pace”. Un documento lucido, pieno di dati e storie, diffuso ieri a 25 anni esatti dall’omicidio di Graziella Fumagalli, medico e capo progetto di Caritas Italiana, coordinatrice del centro anti-tubercolosi di Merca. Il dossier fa il punto sulla crisi istituzionale, sociale e umanitaria che la Somalia attraversa dalla caduta del regime di Siad Barre, nell’ormai lontano 1991. Una situazione che mai viene affrontata nei grandi summit internazionali e che sembra non interessare a nessuno. Nel silenzio del mondo è stato Papa Francesco, lo scorso 29 dicembre, a ricordare la tragedia del Paese, pregando per la Somalia ferita al cuore in quei giorni dall’ennesimo attentato terroristico che nella capitale Mogadiscio aveva tolto la vita a oltre un centinaio di persone. Il Pontefice in quell’occasione aveva espresso vicinanza ma anche condanna per un gesto folle, “orribile”, rivendicato dagli islamisti di al-Shabaab. Ma l’estremismo islamico, nelle diverse forme assunte in Somalia negli ultimi tre decenni, è solo uno dei fenomeni che hanno contribuito a devastare quello che è stato a più riprese definito un “failed state”, uno Stato “fallito”. La frammentazione dei suoi clan, gli interessi dei signori della guerra, un governo centrale mai veramente riconosciuto a livello locale e la vulnerabilità agli choc climatici sono tutti aspetti che minano la stabilizzazione e che rendono un terzo della popolazione dipendente dall’assistenza umanitaria. E dire che, nonostante le difficoltà, prima della pandemia del Covid-19, l’economia della Somalia non solo era in forte crescita, ma si era ormai consolidata anche la ripresa in seguito alla siccità del 2016-17. La crescita economica per il 2019 ha avuto un tasso stimato del 2,9% e le previsioni per il 2020 erano del 3,2%. Ma la pandemia ha interrotto questo trend e il futuro resta più che incerto. In mezzo a questo disastro umanitario importanti sono state in questi anni le iniziative della stessa Caritas Italiana: complessivamente dal 2011 al 2020 sono stati realizzati progetti per oltre 2,5 milioni di euro. Impossibile non menzionare poi la presenza della Chiesa in Somalia, composta da una piccola comunità costretta a vivere nel nascondimento per paura delle rappresaglie dei fondamentalisti islamici. Molte anche le vittime, da monsignor Salvatore Colombo a padre Pietro Turati dalla missionaria laica Annalena Tonelli a suor Leonella Sgarbati e molti altri, che, come la stessa Graziella Fumagalli, hanno versato il loro sangue nel servizio dei malati, dei poveri e della giustizia. India. Assalto alla società civile kashmira con la scusa della lotta al terrorismo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 novembre 2020 Mercoledì 28 ottobre è stata l’ennesima giornata nera nella regione indiana di Jammu e Kashmir. Per tutto il giorno le forze speciali antiterrorismo hanno effettuato raid nelle case e negli uffici di difensori dei diritti umani, giornalisti e gruppi della società civile. Vittime di queste intimidazioni sono stati, tra gli altri, Khurram Parvez, coordinatore della Coalizione della società civile di Jammu e Kashmir e Parveena Ahanger (nella foto), presidente dell’Associazione dei genitori delle persone scomparse. Secondo l’Agenzia investigativa nazionale, come sono chiamate le forze speciali antiterrorismo, vi erano “informazioni credibili” che le due organizzazioni stessero usando fondi provenienti dall’interno e dall’esterno dell’India “per finalità di secessione e terrorismo nel Jammu e Kashmir”. Le due organizzazioni pagano in realtà il prezzo delle loro costanti denunce sulle violazioni dei diritti umani, come la tortura, le esecuzioni extragiudiziali e la detenzione amministrativa a tempo indeterminato. A settembre, l’Associazione dei genitori delle persone scomparse aveva trasmesso alle Nazioni Unite quasi 40 testimonianze di vittime di detenzione arbitraria e tortura. Un mese prima, nel suo rapporto biennale, la Coalizione della società civile di Jammu e Kashmir aveva denunciato 32 casi di esecuzioni extragiudiziali. Altri raid hanno riguardato le organizzazioni non governative Athrout e GK Trust e l’abitazione del corrispondente locale dell’Agence France-Presse, Parver Bukhari. Ricordiamo che la stessa Amnesty International ha dovuto sospendere tutte le sue attività dal 1° ottobre dopo il congelamento dei suoi conti bancari, ordinato poco dopo che aveva diffuso un aggiornamento sulla situazione dei diritti umani in Jammu e Kashmir in cui aveva denunciato, tra l’altro, attacchi e intimazioni nei confronti di 18 giornalisti in poco più di un anno. Nel Nagorno Karabakh assediato dai tiranni si annienta un popolo di Domenico Quirico La Stampa, 1 novembre 2020 Gli armeni sono un ostacolo ai piani imperialisti turchi. Mentre l’Europa con tutto l’Occidente sta a guardare. Nel Caucaso esiste un angolo di terra che si chiama Armenia e un altro, ancor più piccolo, che si chiama Alto Karabakh. È un luogo. Pianure e montagne vi sono, e fiumi, laghi, foreste, città e burroni di pietra, e tutto è bello, non meno bello che in un altro luogo qualunque al mondo. Soltanto armeni vi sono e abitano da secoli questa terra. Ecco: esiste la terra e su di essa gli uomini, tre milioni di uomini. Dalla fine di settembre, da quando gli azeri e i loro alleati turchi hanno attaccato l’Alto Karabakh per conquistarlo, c’ è la guerra. Gli armeni la conoscono. Possono aprire un libro e raccontare un genocidio, il primo del secolo. Fulmineamente sembra che il tempo non sia passato per questo popolo risorto; abitano quella terra e pensavano di essersi finalmente meritati la benedizione di quella bellezza, il dono della sua ricchezza, per gli anni che hanno passato, e le città che erano state distrutte, i padri figli i fratelli uccisi, i cuori viventi ottenebrati dall’odio. Guardiamo le foto che Roberto Travan ha scattato in Armenia e nell’Alto Karabakh. Le fotografie sono parole, sono atti di accusa, prove a disposizione del tribunale della Storia. Perché quello per l’Artsakh, così gli armeni chiamano questa regione, non è un conflitto guizzato fuori dalle mani maldestre della diplomazia; è un tentativo di eliminare gli armeni, un altro, l’ennesimo di distruggere questa piccola tribù cristiana che per i suoi nemici è gente che non ha nessuna importanza, e la cui storia è finita, le cui guerre sono state già tutte combattute e perse. Gli armeni, asserragliati in quel loro campo di pietre, montagne che si sono sfasciate sul terreno come se il tempo le avesse invecchiate e fossero rimaste le ossa, conoscono la guerra: l’ultima negli Anni 90 sempre contro gli azeri ha fatto trentamila morti. Non si illudono più, sanno che essa non è romantica ma barbara. La foto del cimitero di Stepanakert, la capitale. La fila in alto, con le corone e i fiori appassiti, è quella dei martiri del conflitto del Novanta; un gradone e sotto, la terra ancora fresca, la trincea dei morti di queste settimane di combattimenti. Più in basso attende lo scasso, appena spalancato dal badile degli sterratori, che abbraccerà i caduti di oggi, di domani. Tre tregue sono già state violate, gli azeri hanno bombardato anche l’ospedale pediatrico della capitale. Gli armeni sanno che sono soli, la guerra per loro durerà anni, rubando un insostituibile brano di vita. Negli Anni 90 si combatté quasi corpo a corpo, i civili si rifugiavano nei boschi ma il cielo era azzurro e vuoto, dava speranza. Adesso la guerra è mille volte più orrenda, più bestiale, più disumana. Anche il cielo uccide, è nemico: è la guerra vigliacca, meccanica, il delitto perfetto dei droni che gli azeri, padroni del cielo, lanciano in continuazione. Un arsenale con il modello russo Bayraktar e quelli israeliani, i droni kamikaze, Orbitar e Harep2. Sfrecciano, le sirene urlano, i rifugi, le cantine non servono a nulla. Lassù così in alto e così in lontananza da poterlo appena vedere un volo di terribili uccelli di ferro si muove in circolo cercando le sue vittime. Un rifugio: coperte di lana, giacigli da cui sbucano guance scavate e occhi scintillanti, facce sbiancate dalla tragedia, spossate da notti insonni. Ritirati in se stessi questi armeni come tutti i profughi di sempre, pensano alla vita e alla morte. E poi un soldato con occhi da bambino, occhi di un campagnolo poco avvezzo alla guerra, scruta il cielo da una finestra della sua postazione, in mano l’inutile fucile. È all’opera qui una nuova, moderna, diabolica arte di annientamento. Uccidere non basta più. Gli azeri inviano sui telefonini degli armeni fuggiti (il 90% dei 150 mila abitanti del Karabakh si è rifugiata in Armenia, sono rimasti solo gli uomini a combattere), atroci messaggi: abbiamo torturato tuo fratello tuo padre tuo marito... Un uomo ha aperto il suo profilo Instagram: c’erano le immagini del fratello decapitato nel loro villaggio. Dall’altra parte c’è la bestialità ruggente e infuriante dei mercenari siriani, islamisti che la Turchia impiega per le sue guerre imperialiste, contro i curdi, in Libia, ora qui. Attirati dal soldo, indifferenti all’ essere a fianco degli azeri sciiti e con un governo post sovietico e laicista, sono in fondo povera carne da cannone. Hanno perdite elevatissime, gettati nella mischia senza rimorsi dai reclutatori di Ankara. Abbiamo inventato noi la privatizzazione della guerra, in Iraq. Ora si ritorce contro. Un vecchio ucciso in un rifugio improvvisato la cui volta non ha retto alle bombe. Una mano pietosa gli chiude le palpebre, per sempre. Senti la necessità di urlare come se avessi preso in mano un ferro rovente. E vorresti sapere come erano gli occhi di questo vecchio spalancati sulla vita prima di quell’istante, la sua andatura, i suoi silenzi, la sua insonnia, la sua schiena curva. Quante esistenze ha vissuto un uomo prima di morire. Ho bene in mente la foto di una madre che abbraccia, sdraiata a terra, la tomba fresca del figlio ucciso. Non ci sono ombre, neppure scialbe. Senti l’infelicità dilagarti dentro. Tutto il dolore ci appartiene prima che i ricordi diventino minuscole, remote immagini sempre più piccole e lontane, finché non si dileguano del tutto. Su questo contano gli assassini di ogni tempo. Questo massacro non è una appendice delle guerre del fanatismo, delle guerre di dio. È semplicemente un passaggio del disegno del nuovo impero ottomano che Erdogan ha raccolto dalle mani del subdolo sultano Abulhamid, dalle elucubrazioni omicide dei Giovani turchi che firmarono l’eliminazione di un milione e mezzo di armeni durate la Prima Guerra mondiale. Il progetto prevede che la Turchia e l’Azerbaigian si colleghino in questa area turcofona dell’asia centrale. Il Karabakh armeno sta in mezzo, bisogna spazzarlo via. Eppure dio viene ucciso con gli uomini. Nella cattedrale di Shushi demolita, negli occhi di questo soldato ferito che accende in chiesa una piramide di candele. Nessuno in Armenia crede più nella giustizia delle guerre volute da dio, neppure ha più fede nella giustizia e nella durevolezza della pace che si vuole conquistare. Gli armeni come gli ebrei sanno come con la stessa rapidità con cui si cancellano dalle superficie della terra le orme del massacro può anche svanire dalla memoria degli uomini il ricordo del suo orrore. Un piccolo popolo, una nazione che si sforza di esser democratica assediata da uno scenario di tiranni più o meno ipocriti. Si illudono che Putin intervenga. Illusi. I despoti non si mordono, sono sempre complici. E noi Occidente, noi Europa? In Francia e negli Stati Uniti teppisti turchi istigati da Erdogan assaltano impunemente armati di martelli e cacciaviti i cortei degli armeni che chiedono solidarietà. Gli armeni si uniranno agli altri che abbiamo tradito, che abbiamo fatto finta di non vedere: i siriani i curdi gli ucraini i somali. Perché dovremmo spendere denaro e diplomazia, batterci per Paesi che la maggior parte degli occidentali non saprebbero neanche scrivere correttamente? Il Caucaso con il suo guazzabuglio di popoli, le lotte che si perdono nei millenni… Suvvia! Rinneghiamo ogni giorno la legge più alta, sei vittima, tu sei mio fratello, che onora la storia umana. Afflosciati dalla pandemia e dall’economia chi immagina di affrontare Erdogan? Meglio restare alla memorabile formula di lord Hugh Cecil: grattare la testa del coccodrillo per fargli fare le fusa. Lo chiamarono anche lo spirito capitolardo di Monaco, 1938. Agli armeni braccati dai droni possiamo al massimo donare gli sterili piagnistei di belle anime contristate. El Salvador. Gesuiti uccisi, la Corte suprema salva i mandanti di Claudia Fanti Il Manifesto, 1 novembre 2020 Con due voti a uno, i giudici hanno chiuso il procedimento contro i mandanti della strage del 1989 di cui il Tribunale di pace aveva disposto la riapertura. Accolto il ricorso della difesa dei militari, secondo cui si tratterebbe di “un fatto già giudicato”. I mandanti del massacro dei sei gesuiti dell’Università centroamericana di San Salvador, della loro cuoca Julia Elba e di sua figlia Celina, avvenuto il 16 novembre del 1989, non pagheranno per il loro crimine. Il muro di impunità alla cui ombra hanno potuto dormire sonni tranquilli in questi trentuno anni è infatti rimasto in piedi, più forte delle pressioni internazionali, dell’annullamento della legge di amnistia nel 2016, del clamore suscitato dalla condanna in Spagna (lo scorso settembre) di uno dei mandanti della strage, l’ex viceministro della Sicurezza Inocente Orlando Montano. Lui sarà l’unico a pagare, ma solo grazie all’Audiencia Nacional di Madrid, competente per giudicare il caso di assassinii di cittadini spagnoli all’estero (come erano cinque dei sei gesuiti uccisi). La Corte suprema di giustizia salvadoregna ha invece un’altra volta dato scandalo, ordinando la chiusura del processo contro i mandanti della strage di cui il Tribunale di pace di San Salvador aveva disposto la riapertura nel 2017. Per due voti a uno, i giudici hanno infatti accolto il ricorso, chiaramente inammissibile, della difesa dei militari, secondo cui si tratterebbe di “un fatto già giudicato” estraneo a crimini di lesa umanità. Una sentenza, definita dall’avvocato delle vittime Arnau Baulena “un’aberrazione giuridica”, che pone probabilmente la parola fine a un iter giudiziario iniziato già nel 1991. Quando, cioè, si era svolto un processo contro nove militari viziato da clamorose irregolarità e senza un solo interrogatorio ad accusati e testimoni, terminato con la sola condanna del colonnello Guillermo Alfredo Benavides e del tenente René Mendoza, rimessi in libertà appena 15 mesi più tardi grazie all’amnistia decretata nel 1993 dall’allora presidente Alfredo Cristiani.