Covid e carcere, proposte “per la salute, la dignità, contro l’isolamento” redattoresociale.it, 19 novembre 2020 Lettera indirizzata al Governo e ai parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato e sottoscritta da Antigone, Anpi, Arci, Cgil, Gruppo Abele e a cui hanno aderito altre realtà. Ecco le proposte contro il sovraffollamento e per rendere “non rischiosa e piena di senso la vita in carcere” “Anche il carcere sta subendo le conseguenze della seconda ondata della pandemia di Covid-19, con numeri peraltro più ampi rispetto a quanto non sia avvenuto nei mesi di marzo e aprile. Il numero dei detenuti e degli operatori positivi sta raggiungendo le 1.000 unità per ciascuna di queste categorie, con ritmi di crescita che destano preoccupazione”. Così una nota di Antigone, che rende note alcune proposte contenute nella richiesta sottoscritta assieme ad Anpi, Arci, Cgil, Gruppo Abele. Il tutto in una lettera indirizzata al governo e ai parlamentari della commissione giustizia di Camera e Senato, a cui hanno aderito anche Ristretti Orizzonti, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia-CNVG, CSD - Diaconia Valdese, Uisp Bergamo, InOltre Alternativa Progressista. Afferma l’associazione: “In circa il 40% degli istituti del paese c’è stato almeno un caso di positività tra le persone recluse e, in alcuni casi, abbiamo assistito a veri e propri focolai. Nonostante questa situazione, il tasso di affollamento è ancora preoccupante. Ci sono circa 7 mila detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili. Se si considera poi che alcune sezioni sono state liberate per essere destinate a diventare spazi per accogliere i contagiati, la situazione può essere considerata ancora più difficile rispetto a quanto non ci dicano questi numeri. Per questo c’è bisogno di misure drastiche e urgenti”. Le misure da adottare Le misure proposte - riportate di seguito - sono volte innanzitutto a ridurre in maniera incisiva la popolazione detenuta e a mettere in sicurezza le persone sanitariamente a rischio, ma anche a rendere non rischiosa e piena di senso la vita in carcere. Eccole. 1 - Estensione dell’affidamento in prova per chi ha patologie. “L’estensione dell’affidamento in prova in casi particolari e della detenzione domiciliare senza limiti di pena a coloro che soffrono di pregresse patologie fortemente aggravabili in caso di contagio da Covid-19, naturalmente sempre sottoposta al vaglio della magistratura di sorveglianza, va nella direzione di assicurare l’universale diritto alla salute. 2 - Detenzione domiciliare. “Non è questo il momento di dare un seguito carcerario a quei provvedimenti di esecuzione delle sentenze emesse nei confronti di persone cui il magistrato non ha ritenuto di dover applicare un provvedimento di custodia cautelare in carcere, non considerandole dunque un pericolo per la società. Tali provvedimenti possono venire trasformati in provvedimenti di detenzione domiciliare, così da non andare ad aumentare il numero delle presenze in carcere ma anche da non rischiare l’ingresso del virus. La detenzione domiciliare, piuttosto che la sospensione, permetterà che la pena continui a scorrere e che non ci si ritrovi con una gran mole di sentenze arretrate da eseguire tutte insieme alla fine della pandemia”. 3 - Estendere la possibilità di lavoro all’esterno. “Le licenze per i detenuti semiliberi, che rischiano con più facilità di introdurre il virus in carcere, devono essere estese a coloro che lavorano all’esterno dell’istituto”. 4 - Estensione della detenzione domiciliare. “La possibilità di trascorrere in detenzione domiciliare la parte finale della pena, oggi prevista per residui pena fino a 18 mesi, è estesa a residui pena fino a 36 mesi. Se al 30 giugno scorso erano poco più di 10 mila le persone detenute con residuo pena fino a 18 mesi, il numero si alzava a 18.850 per residui pena fino a 36 mesi. La misura vedrà sempre la discrezione della magistratura di sorveglianza, permettendo dunque un significativo incremento delle uscite dal carcere senza tuttavia compromettere esigenze di sicurezza”. 5 - Estensione della liberazione anticipata per buona condotta. “Già a seguito della sentenza della Corte di Strasburgo che nel 2013 condannò l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, quello che proibisce tortura e trattamenti inumani o degradanti, l’estensione della liberazione anticipata per buona condotta si rivelò uno degli strumenti maggiormente efficaci per deflazionare la popolazione carceraria, che infatti ricominciò a crescere dal 31 dicembre 2015, data in cui cessava la relativa misura provvisoria. Nel momento drammatico che stiamo vivendo, bisogna assolutamente ricorrere a tale strumento, rivolto a coloro che mostrano una volontà di reintegrazione sociale”. 6 - Garantire il diritto alle relazioni affettive e le attività. “La mancanza di contatti con i propri cari è pesantissima da sostenere tanto per le persone detenute quanto per chi si trova fuori dal carcere. È fondamentale che il diritto alle relazioni affettive venga garantito anche nella situazione che stiamo vivendo, attraverso strumenti non portatori di contagio quali le video-chiamate, che hanno dato buona prova di sé nella prima fase della pandemia e che possono essere potenziate. Ma la vita penitenziaria non può ridursi all’attesa del momento in cui si ha un contatto con le persone care. La vita in carcere deve essere in ogni suo aspetto dotata di senso e proiettata al futuro rientro in società. Non possiamo pensare che, per l’intero e indefinito tempo della pandemia, le giornate rimangano sospese nel vuoto della cella e nell’inattività. Così come la vita esterna ha provato ad adeguarsi alla situazione sanitaria, prevendo la didattica a distanza e altri strumenti di lavoro analoghi, così deve fare la vita carceraria”. 7 - Prevenzione dei contagi e reazione sanitaria. “Continuano a essere attuali le proposte che già presentammo nel marzo scorso in relazione alla prevenzione dei contagi e alla stretta reazione sanitaria. Ancora troppo spesso il carcere non è dotato degli strumenti idonei per proteggere chi lo abita. Così come manca una prospettiva di orizzonte che sappia riportare il giuramento di Ippocrate al centro delle politiche sanitarie in carcere”. Carceri sovraffollate e promiscuità forzata. L’epidemia dimenticata tra gli “invisibili” di Luigi Manconi La Stampa, 19 novembre 2020 Dilaga la falsa credenza che il carcere sia il luogo più sicuro. Se i 21 parametri utilizzati dal governo per tracciare la mappa cromatica del contagio Covid fossero applicati al sistema penitenziario italiano, il rosso non basterebbe a segnalare lo stato di allarme pandemico: servirebbe una tonalità di colore più violenta. E forse andrebbero rivisti anche altri indicatori, quali quelli relativi alle fasce di età maggiormente colpite: come spiegare, infatti, che su una popolazione detenuta infantile (avete letto bene: infantile) di 33 minori, si registrino più casi di positività? A quanto riferisce la bravissima Garante dei diritti delle persone private della libertà di Torino, Monica Gallo, due bimbi di appena pochi anni, reclusi con le proprie madri nell’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) presso il carcere cittadino, sono risultati positivi per alcune settimane. Ma quello dei bambini galeotti (o meglio: degli innocenti assoluti prigionieri) è tema da rinviare. Qui si parla di adulti, muovendo dalla vicenda di Antonio Tomaselli, condannato in passato per associazione mafiosa e oggi sottoposto al regime di 41bis nel carcere di Milano-Opera, in custodia cautelare e imputato per fatti non di sangue. Nel luglio del 2017, gli vengono diagnosticati tumori inoperabili ai polmoni e al surrene e pochi anni di vita. Il 31 ottobre scorso viene ricoverato d’urgenza perché risultato positivo al Covid, ma la moglie verrà avvertita solo il 2 novembre da una generica informativa del carcere. Tomaselli è stato per più giorni tra i detenuti positivi “invisibili”. Infatti, per un’intera settimana - come ha documentato il valente cronista del Dubbio, Damiano Aliprandi - i rapporti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sui detenuti positivi indicavano alla voce “Carcere di Opera” un rotondo 0. E ciò nonostante che si avessero notizie certe della presenza di almeno sei contagiati, alcuni dei quali già in terapia intensiva. Nasce anche da qui la credenza che vorrebbe il carcere, e (ancor meglio!) il regime di alta sicurezza e quello di 41bis, come i più efficaci strumenti di protezione dal contagio. Il che non solo ha portato il Fatto Quotidiano a sostenere che la prigione è il luogo ideale per evitare la pandemia, ma anche altri a cadere nel medesimo errore. Il procuratore aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli, ha scritto che l’isolamento imposto dal 41bis “ha il pregio di tutelare la salute dei detenuti”. Grazie al cielo, non tutti la pensano così. Il magistrato di sorveglianza Riccardo De Vito, riferendosi al 41bis, ha scritto: “Benché il detenuto sia sottoposto a regime differenziato e dunque allocato in cella singola, ben potrebbe essere esposto a contagio in tutti i casi di contatto con personale della polizia penitenziaria e degli staff civili che ogni giorno entrano ed escono dal carcere”. Tutto ciò per arrivare a ricordare gli attuali numeri della pandemia in carcere, che sembrano costituire un’autentica emergenza nell’emergenza. Lunedì scorso, i positivi tra i detenuti erano 758, quelli tra il personale amministrativo e di polizia oltre 900. Non c’è da stupirsi. Il carcere è il luogo più affollato d’Italia e la cella può essere lo spazio più congestionato e insalubre dell’intero sistema penitenziario. Bisogna averlo visto: camere dove si trovano anche sei, sette, otto maschi adulti, in una promiscuità coatta e degradante; corpi che si incontrano, si scontrano, si urtano, si incrociano; sudori, umori, efflussi, liquidi; e defecare, urinare, mangiare, lavare, cucinare, tutto in pochi metri quadrati, in un’intimità forzata, antigenica e patogena. Ecco, è qui che si dovrebbe adottare il “distanziamento sociale”. Nel corso della prima ondata del virus tutto ciò restò come trattenuto e i numeri della pandemia si fermarono a circa 250 contagiati tra i detenuti e a circa 500 tra il personale. C’è una spiegazione per una crescita così prepotente del contagio? Sofia Ciuffoletti, docente dell’Università di Firenze, partendo da uno studio di100 anni fa sull’andamento dell’influenza Spagnola nel carcere statunitense di San Quentin, suggerisce: le istituzioni totali, vale anche per le Rsa, “possono essere inizialmente preservate dal contagio ma, appena colpite, la diffusione si rivela assai più rapida, proprio a causa delle condizioni di convivenza altamente integrata”. E tanto più “quando la struttura non riesce a garantire spazi per l’isolamento terapeutico”. Ecco, gli spazi. Secondo i dati più recenti, la popolazione detenuta ammonta a 54.815 unità, rispetto a una capienza virtuale di 50.552, ai quali vanno sottratti 3.447 posti non disponibili, con una percentuale di affollamento pari al 116,37% (e queste sono le cifre ufficiali sulle quali l’esperienza induce a nutrire qualche timido dubbio). Di fronte a una simile situazione, si impone l’ineludibile necessità di ridurre, in tempi stretti e in misura significativa, il numero dei reclusi. Le misure finora adottate si sono rivelate palesemente incapaci di invertire la tendenza alla congestione e, di conseguenza, all’ulteriore diffusione del contagio. E molti segnali fanno temere che l’amministrazione penitenziaria voglia procedere verso una sorta di “chiusura del carcere”, limitando tutte le attività trattamentali, quelle lavorative, scolastiche e formative, i colloqui con i familiari e i rapporti con l’esterno. Sarebbe davvero la soluzione peggiore. All’opposto, a sostegno di provvedimenti di legge che riducano la popolazione detenuta, senza compromettere in alcun modo la sicurezza collettiva, si sono espressi magistrati e sindacati di polizia, associazioni per i diritti umani e la Conferenza dei Garanti territoriali. E attualmente sono in sciopero della fame numerosi cittadini (tra cui Sandro Veronesi, Roberto Saviano e Alessandro Bergonzoni) che, guidati da Rita Bernardini, si battono per evitare un po’, almeno un po’, di sofferenza non necessaria. Mi si chiederà: e la sofferenza delle vittime dei reati? Certo, quella c’è ed è enorme: ma davvero pensiamo che addizionare dolore a dolore produca esiti positivi? Sempre più contagi in carcere, allarme dei Garanti. A Torino “positivi” anche 2 bimbi di Federica Olivo huffingtonpost.it, 19 novembre 2020 I numeri del contagio in cella fanno sempre più paura. Ed è di diffusa la sensazione, maturata anche in alcuni partiti della maggioranza, che le norme introdotte dal decreto Ristori non bastino. I dati ufficiali del Dipartimento di amministrazione penitenziaria sono aggiornati a lunedì sera e restituiscono un panorama preoccupante: 758 positivi fra i detenuti e 936 casi tra agenti penitenziari e altri operatori. “C’è il rischio concreto che la situazione diventi fuori controllo, per questo facciamo appello al governo affinché intervenga”, dice Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa commentando le ultime cifre diffuse dal Dap con HuffPost. Si tratta di dati probabilmente imprecisi, viste alcune discrepanze tra i numeri ufficiali e quelli che riporta in alcuni casi la stampa locale. Un esempio emblematico è quello di Tolmezzo, dove sulla carta ci sono solo tre detenuti positivi, ma i giornali del Friuli Venezia Giulia danno notizia di una trentina di persone affette dal Covid tra reclusi e agenti. Ad ogni modo la situazione è esplosiva e, nel silenzio del Guardasigilli sul tema, sembrano essersene accorti anche esponenti della maggioranza. Il Pd ha presentato degli emendamenti agli articoli del decreto ristori che prevedevano la possibilità di arresti domiciliari per i reclusi con un residuo di pena inferiore a 18 mesi e di il permesso di non rientrare in cella per i detenuti in semilibertà. Una platea di circa 5mila persone. Il conteggio però non tiene in considerazione un dato determinante: non può chiedere i domiciliari chi una casa non ce l’ha. “I detenuti con un residuo di pena inferiore a 18 mesi sono circa 3400, secondo le stime del Garante. Un terzo di queste, però, è senza fissa dimora”, spiega all’HuffPost Michele Miravalle di Antigone. A meno che non venga trovata una potenziale sistemazione queste persone non potranno mai ottenere i domiciliari fino a fine anno, come prevede il decreto. Ma questa è solo una parte del problema. I dem hanno proposto di allargare le misure già previste nel provvedimento: “È evidente che c’è bisogno di ridurre il sovraffollamento delle carceri. Il Governo ha già preso dei provvedimenti in tal senso e al Decreto il Pd ha presentato una serie di emendamenti. Tra le proposte c’è quella di sospendere l’esecuzione delle pene e delle condanne che passano in giudicato (che, però, finita l’emergenza, andranno eseguite), perché c’è, in questa situazione emergenziale, la necessità di ridurre il numero degli ingressi in carcere. Inoltre chiediamo di essere più chiari rispetto alla possibilità, per i detenuti che hanno permessi di uscita o di lavoro, di restare fuori dal carcere fino alla fine dell’emergenza, cioè fino al 31 gennaio”, ha fatto sapere il senatore Franco Mirabelli. Pressing su Bonafede anche da parte di Italia Viva. “Il ministro Bonafede intervenga immediatamente per ridurre il rischio di contagio negli istituti penitenziari dove i nuovi casi aumentano spaventosamente di ora in ora”, commenta la senatrice la senatrice di Nadia Ginetti. Un appello arriva anche da Roberto Giachetti, che propone di accogliere la proposta dei Garanti di una “liberazione anticipata speciale”. La richiesta è che introdotta la possibilità di aumentare da 45 a 75 giorni la riduzione prevista, ogni 6 mesi, per i detenuti che tengono una buona condotta. Giachetti ha aderito nei giorni scorsi allo sciopero della fame intrapreso dalla leader radicale Rita Bernardini. Si chiamava Giuseppe e aveva 68 anni il primo detenuto morto per Covid in Campania. “È deceduto all’ospedale Cotugno”, raccontano all’Huffpost Pietro Ioia e Samuele Ciambriello, il primo Garante dei detenuti di Napoli, il secondo della Campania. “Ad oggi i contagiati a Poggioreale 136, 212 in tutta la Campania. Ho scritto all’Asl - spiega Ciambriello - per sapere se ci sono posti in ospedale destinati ai detenuti positivi, nel caso in cui si aggravino. La situazione è grave e preoccupante”. Il problema principale, come in tutti i penitenziari, sono gli spazi. A Poggioreale vivono quasi 2.200 detenuti, a fronte di una capienza di 1600 posti: “Ci sono due sezioni per i positivi al Covid, ma si sono riempite subito”. La soluzione non può essere tenere i reclusi in isolamento nel carcere: “Ci vorrebbe una struttura esterna, un albergo, un’ex caserma, dove far stare i positivi. Nel carcere non c’è più spazio e il provvedimento di Bonafede non basta”, chiosa Ioia. “Escludere i detenuti per reati ostativi dalle misure è ingiusto”, aggiunge Ciambriello. Poi l’appello del Garante di Napoli al Guardasigilli: “Si faccia vivo, venga a vedere in che condizioni sono le carceri, in particolare Poggioreale”. Alfonso Bonafede, però, al momento tace. Non solo Campania. Mentre a Terni l’allarme sta rientrando, molti casi sono stati registrati anche nel penitenziario di Livorno. “Ne contiamo 23 - spiega all’HuffPost Marco Solimano, Garante dei detenuti della città - tutti in alta sicurezza. La media sicurezza, per ora, è stata risparmiata”. Non c’è emergenza, ma c’è agitazione tra i detenuti. E la consapevolezza che la situazione potrebbe peggiorare: “Il presidio sanitario è molto attento - continua Solimano - ma inevitabilmente, anche se a distanza, nella stessa sezione devono convivere positivi e negativi. Non c’è altra soluzione”. Anche perché il sovraffollamento non manca: “Le celle di alta sicurezza - precisa - erano state progettate per essere doppie, oggi c’è un sovraffollamento di 40 persone. Questo vuol dire che in molte celle ci sono tre detenuti”. Risalendo lo stivale, anche ad Alessandria la situazione è complicata: “Sono positive 33 persone, il 20% dei reclusi”, spiega Miravalle. Nella città piemontese è stato registrato anche un morto tra i detenuti. Contagiati anche dei bambini - A Torino per il momento la situazione è sotto controllo. O almeno lo è molto più rispetto alla prima ondata. “Sono 23 i detenuti e 30 gli operatori positivi, è stata creata una sezione Covid”, spiega all’Huffpost Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti di Torino. Nel capoluogo piemontese, però, nelle scorse settimane sono stati contagiati due bambini ospiti dell’Icam, la struttura dove vivono le mamme detenute con i loro figli. Per chi è vicino al mondo del carcere è stato un brutto colpo: “Si tratta di bimbi piccolissimi, nati nel 2018 e nel 2019, era stata contagiata anche la loro mamma”, racconta Gallo. Ora sono guariti, stanno bene, ma né loro né gli altri piccoli che sono nella struttura con le loro mamme possono tornare all’asilo. “Mi hanno assicurato che sarà garantita l’attività educativa, ma non all’esterno, come invece accadeva prima”, spiega ancora Gallo. Una decisione probabilmente inevitabile, ma che molto racconta di cosa significhi tenere i bambini in posti dove la mamma sconta la detenzione. Al 31 ottobre erano 33, divisi in 13 strutture, alcuni in carcere, altri negli Icam. Reclusi senza colpe, anche durante la pandemia. “Ridurre la popolazione carceraria, un dovere morale” Il Dubbio, 19 novembre 2020 L’adesione di Manconi, Veronesi e “A Buon Diritto” allo sciopero della fame di Rita Bernardini. Di seguito l’appello di Luigi Manconi, Sandro Veronesi e della Onlus “A Buon diritto”, che aderiranno allo sciopero della fame di Rita Bernardini per ridurre la pressione sulle carceri e salvaguardare la salute dei detenuti durante la pandemia di Covid. Il carcere è il luogo più affollato d’Italia. E una cella di prigione può essere lo spazio più congestionato e patogeno dell’intero sistema penitenziario: per chiunque vi si trovi, detenuto o membro del personale amministrativo e di polizia. Il contagio all’interno degli istituti di pena riproduce in maniera gravemente accentuata la crescita del Covid-19 registrata nell’intera popolazione: oltre 750 i contagiati tra i detenuti e oltre 900 tra gli operatori. Di conseguenza, la prima necessità - e il primo dovere morale - è quello di ridurre in maniera significativa la popolazione detenuta. Perciò abbiamo deciso di aderire allo sciopero della fame iniziato da Rita Bernardini il 10 novembre, al fine di sollecitare Governo e Parlamento a intervenire prima che sia troppo tardi, attraverso qualsiasi intervento di legge che sia aderente alla nostra Costituzione e alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Riteniamo che i provvedimenti di amnistia e indulto previsti dalla Carta costituzionale sarebbero la soluzione più efficace, anche perché interverrebbero positivamente sull’enorme carico dell’amministrazione della giustizia. Ma se essi si rivelassero impossibili a causa di resistenze politiche, chiediamo che si ricorra a modifiche sostanziali al decreto “Ristori” per ampliare la platea dei beneficiari e che si ricorra alla liberazione anticipata speciale, come proposto dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. La riduzione del numero di persone detenute potrà consentire di creare spazi adeguati a una gestione efficace della prevenzione e dell’assistenza per quanti resteranno reclusi. Per questo, nei giorni 19 e 20 novembre, ci uniamo allo sciopero della fame di Rita Bernardini. Sottoscrivono: Luigi Manconi, sociologo Sandro Veronesi, scrittore Valentina Calderone, direttrice di A Buon Diritto Onlus Gli operatori di A Buon Diritto: Camilla Siliotti, Cecilia Aldazabal, Federica Graziani, Francesco Portoghese, Rita Vitale, Marina de Stradis, Chiara Tamburello, Marica Fantauzzi Mirabelli (Pd): “Da noi proposte serie per affrontare emergenza, da Lega solo propaganda” Ristretti Orizzonti, 19 novembre 2020 “È evidente che c’è bisogno di ridurre il sovraffollamento delle carceri. Il Governo ha già preso dei provvedimenti in tal senso e al Decreto Ristori, il Pd ha presentato una serie di emendamenti. Tra le proposte contenute negli emendamenti c’è quella di sospendere l’esecuzione delle pene e delle condanne che passano in giudicato (che, però, finita l’emergenza, andranno eseguite), perché c’è, in questa situazione emergenziale, la necessità di ridurre il numero degli ingressi in carcere. Inoltre chiediamo di essere più chiari rispetto alla possibilità, per i detenuti che hanno permessi di uscita o di lavoro, di restare fuori dal carcere fino alla fine dell’emergenza, cioè fino al 31 gennaio. Si possono, poi, prendere anche altri provvedimenti come ad esempio aumentare gli sconti di pena per buona condotta. Ci auguriamo che il Governo accolga le nostre proposte che riguardano l’oggi. Poi c’è una strada di più lungo respiro, che riguarda gli investimenti, per mettere le strutture dei nostri istituti di pena in condizioni di consentire una vita migliore agli agenti e ai detenuti. Quello che non vogliamo fare, su un tema così delicato, è giocare una campagna elettorale permanente che la Lega continua a portare avanti. Le nostre sono proposte serie, ed escludono da queste misure i condannati al regime di 4bis. L’unica idea presentata dalla Lega in questi giorni è arrivata da Giulia Bongiorno, che ha chiesto di mettere fuori dal carcere tutti i detenuti in attesa di giudizio, senza distinguere tra i reati. Mi sembra davvero parlare d’altro”. Così il senatore Franco Mirabelli, Vicepresidente del Gruppo PD al Senato e Capogruppo PD in Commissione Giustizia del Senato. Il distanziamento in carcere? Metti un letto in bagno e poi mettine un altro sopra di Adriano Sofri Il Foglio, 19 novembre 2020 Ci sono, a ieri, circa 1.000 agenti penitenziari positivi al virus del Covid, e circa 800 detenuti. Ci sono positivi al virus tra i detenuti delle sezioni “irraggiungibili dal contagio” del 41bis - a Tolmezzo, a Opera e altrove, dicono le cronache più avvertite. C’è un incremento dei contagi di galera molto più veloce che nel mondo di fuori, documentano i sindacalisti degli agenti. Ci sono casi di contagio di bambini incarcerati con le loro madri. Ci sono più di 54.800 detenuti a fronte di 47 mila posti molto teoricamente disponibili. C’è paura e mortificazione. C’è da giorni un digiuno iniziato da Rita Bernardini e Irene Testa, senza scadenza, cui partecipano variamente militanti radicali, personalità e persone solidali, famigliari di detenuti. Le solite cose, insomma. È così raro trovare fatti e parole nuove che vale la pena di trascrivere l’illustrazione del cosiddetto sovraffollamento in tempi di pandemia fornita dal famigerato recidivo Salvatore Buzzi, insieme all’adesione al digiuno: “Per provare a capire cosa si prova basta sistemare un letto nel proprio bagno di casa - continua Buzzi - A quel punto, quando hai disegnato il lavandino, la brandina, i sanitari, va piazzato un letto sopra a quello già esistente. Quello è il sovraffollamento, e lì come lo applichi il distanziamento sociale?”. Il virus in prigione di David Allegranti Il Foglio, 19 novembre 2020 I fu paladini della trasparenza e dello streaming che siedono al ministero della Giustizia (citofonare Alfonso Bonafede) non riescono neanche a fornire i dati precisi dei contagi nelle carceri. Si sa però, grazie al lavoro dei Garanti delle persone private delle libertà e delle associazioni come L’altro diritto e Antigone, che il numero dei ristretti che hanno contratto il coronavirus è in aumento. Per questo i Garanti hanno rivolto un appello al Parlamento: “Il carcere è una realtà in cui il rischio della diffusione del Covid-19 è molto alto: il fisiologico assembramento di un numero considerevole di persone in uno spazio angusto non permette, infatti, di rispettare le regole minime di distanziamento fisico e di igiene funzionali alla prevenzione del virus. La patologica situazione di sovraffollamento che caratterizza le nostre carceri contribuisce inoltre fatalmente ad accrescere il rischio di diffusione del contagio”. Secondo i dati del Garante nazionale aggiornati al 13 novembre 2020, sono 32 le persone detenute ospedalizzate e più di 600 quelle risultate positive a seguito di screening diffusi. “Rispetto al numero di tamponi effettuati in questa nuova tornata di epidemia - scrive il Garante nazionale nell’ultimo report - il tasso di positività in carcere è alto (più del 15 percento), ma comunque in linea con quello del territorio nazionale. Accanto a questi numeri, quello di più di 800 persone dell’Amministrazione penitenziaria che operano con diverse funzioni nel mondo della detenzione penale”. I numeri, dice al Foglio Sofia Ciuffoletti, direttrice dell’Altro diritto e Garante a San Gimignano, “sono super preoccupanti: la questione davvero problematica è dovuta al fatto che prima i risultati dei tamponi arrivavano in 24 ore, adesso i risultati dei tamponi arrivano in 4-5-6-7 giorni. Questo fa sì che le sezioni di isolamento precauzionale, in cui le persone appena giunte si trovano di fatto completamente bloccate, siano piene: il turn over si è molto ridotto. Il problema dunque adesso è non fare arrivare più nuove persone”. I contagi non risparmiano nessuno, neanche i bambini. A Torino ce ne sono due positivi. Il sindacato di polizia penitenziaria Uilpa dice che la situazione è ancora peggiore, citando dati aggiornati a lunedì. “Altro balzo in avanti dei contagi da coronavirus nelle carceri del paese”. Alle ore 20 di lunedì sera erano ben 758 fra i detenuti (distribuiti in 76 penitenziari) e 936 fra gli operatori i casi accertati di positività al virus: “Erano, rispettivamente, 638 e 885 solo venerdì scorso alle ore 13”, dice Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia penitenziaria. “In due settimane” il contagio da Covid-19 nelle carceri è aumentato “di circa il 600 per cento”, diceva venerdì scorso un altro sindacato della polizia penitenziaria, Osapp, in una lettera al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e al capo del Dap Dino Petralia, denunciando “una generale e quanto mai pericolosa promiscuità nei reparti detentivi”, accompagnata dall’”assenza di dispositivi di protezione individuale”. Il sindacato denunciava anche “la sostanziale assenza di disposizioni di carattere nazionale” da parte del Dap per prevenire il contagio. Il Dipartimento ha emanato una circolare, che ha trovato il parere favorevole e il supporto del Comitato tecnico-scientifico, per definire “luoghi adeguati all’assegnazione delle tre tipologie di soggetti che devono necessariamente essere separate tra loro e dalla rimanente comunità penitenziaria”. E quali sono? Coloro che sono in isolamento precauzionale perché provenienti dall’esterno, coloro che sono in isolamento perché venuti a contatto con persone positive al virus, coloro che sono risultati positivi al virus, diversificando “ove possibile” gli asintomatici dai sintomatici. “La necessità di spazi e, quindi, della riduzione dei numeri complessivi emerge chiaramente anche da queste indicazioni”, osserva il Garante nazionale. La circolare individua, inoltre, due soglie di possibile estensione del contagio (al 2 per cento delle persone complessivamente presenti in carcere - sia operatori sia detenuti - e al 5 per cento), per ciascuna delle quali sono previste misure, ricorda il Garante, di specifica cautela rispetto all’igiene dei luoghi e alle attività che possono richiedere maggiore contatto tra le persone. “Deve restare fermo il principio che quella capacità, da più parti affermata, di convivere in modo consapevole con il rischio di contagio senza determinare automaticamente l’impossibilità di condurre una vita il più possibile simile all’ordinarietà, deve riguardare tutte le realtà in cui la complessità sociale si esplicita, incluse quelle dove maggiore deve essere lo sforzo perché tale diversa normalità sia in grado di conciliare tutela della salute individuale, garanzia di non diffusione del contagio e tutela dei diritti fondamentali della persona”. Insomma, non è che se sei detenuto lo stato ha l’autorizzazione a farti ammalare di Covid19. Tutt’altro. “Sin dall’aprile scorso, nel pieno della ‘prima ondata’, il Consiglio d’Europa ha richiamato l’attenzione degli stati membri su norme e pratiche per aiutare i servizi penitenziari e della giustizia ad affrontare la pandemia da Covid-19, nel rispetto dei principi dello stato di diritto e dei diritti umani”, dice Giulia Crivellini, tesoriera di Radicali Italiani. “Ebbene, ancora oggi, nel mezzo di una seconda ondata pandemica e con il numero di contagi tra detenuti e agenti penitenziari in preoccupante aumento, queste indicazioni rimangono colpevolmente ignorate dalle istituzioni italiane e dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede”. Insomma, a oggi, dice Crivellini, “non si conoscono i dati precisi del livello di contagio nei nostri istituti di pena, già sovraffollati, e come si intenda far fronte a questa emergenza. È più che mai urgente introdurre un sistema di monitoraggio quotidiano e centralizzato della pandemia nelle carceri, al contempo approvando misure più incisive per ridurre il numero di detenuti e il sovraffollamento carcerario”. Giacchetti: “Aumentare la liberazione anticipata da 45 a 75 giorni al semestre” affaritaliani.it, 19 novembre 2020 Possibilità di aumentare da 45 a 75 giorni la riduzione prevista, per ogni 6 mesi di pena scontata, per i detenuti che tengono una buona condotta in cella. Accogliere la proposta, avanzata dai Garanti dei detenuti, di una “liberazione anticipata speciale” per affrontare in modo risolutivo l’emergenza Covid nelle carceri. È l’appello che, Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva ed esponente del Partito Radicale transnazionale, rivolge al Governo e ai relatori del dl Ristori - nel quale sono contenute alcune misure in materia penitenziaria - affinché nel corso dell’esame in Senato del provvedimento per la conversione in legge venga introdotta la possibilità di aumentare da 45 a 75 giorni la riduzione prevista, per ogni 6 mesi di pena scontata, per i detenuti che tengono una buona condotta in cella. “Diminuire di 2 o 3 mesi la pena per chi si comporta bene in carcere e che sta finendo di scontarla - osserva Giachetti, che ha aderito nei giorni scorsi allo sciopero della fame intrapreso dalla leader radicale Rita Bernardini per l’emergenza carceraria - vorrebbe dire allargare la platea di beneficiari a 10mila persone: si tratta di una misura che è stata già applicata in passato in fase emergenziale, dopo la sentenza Torreggiani” con cui la Corte di Strasburgo condannò l’Italia nel 2013 per le condizioni detentive nel nostro Paese. I detenuti attualmente presenti fisicamente negli istituti penitenziari sono circa 53.900 (53.965 è il numero reso noto sabato scorso dal ministero della Giustizia), mentre gli ultimi dati - forniti dall’Amministrazione penitenziaria ai sindacati - parlano di 758 positivi al Covid fra i detenuti - distribuiti in 76 istituti di pena - e 936 fra gli operatori. “Dentro le carceri - ricorda inoltre Giachetti - ci sono molti detenuti che non dovrebbero starci: penso a chi è in attesa di giudizio, ai tossicodipendenti e, dopo la chiusura degli Opg, alle persone con problemi psichiatrici. Le misure ora contenute nel decreto Ristori a quanto mi risulta non stanno portando a grandi risultati per ridurre la pressione nelle carceri. Serve un passo ulteriore - conclude - di fronte a un rischio di esplosione, con i numeri che crescono, ed evitare il pericolo che scoppino altre rivolte come accaduto in marzo”. La burocrazia è un gigante spietato che uccide la dignità di Cecilia Gabrielli Il Dubbio, 19 novembre 2020 Gentile direttore e redazione tutta, vi ringrazio per il lavoro di informazione che garantite col vostro giornale e soprattutto per la rubrica “Lettere dal carcere”, perché la lettera è l’unica finestra autentica attraverso un confine di muri, blindati e cancelli. Sono stata istigata a scrivere dall’utile articolo del 14 novembre riguardo l’esplosione dei contagi in carcere, per raccontare esperienza e sensazioni che spero possano servire. Devo premettere che io ho conosciuto il carcere duro e l’ergastolo ostativo perché sono responsabile del Circolo della Lettura di Roma e una sera di sette anni fa presentavo un romanzo che raccontava la storia di un fine pena mai, ma non potevo intervistare l’autore e protagonista. Così gli ho scritto e sono stata risucchiata in un legame e in un’esperienza di autenticità senza paragoni. A distanza di sette anni sono diventata, a dire solo il meno che qui rileva, il tutore legale di quell’uomo incontrato tra le pagine e ho l’autorizzazione di penetrare il varco inaccessibile una volta al mese per pochissime ore. Questo non accade, ovviamente, dal 10 febbraio scorso, in alcuni periodi per i divieti, nel resto del tempo perché ci è sembrato doveroso contribuire con la nostra rinuncia ai rischi di diffusione del contagio, per essere parte dello sforzo collettivo rivolto a vincere una sfida senza precedenti per le nostre generazioni in un’ottica di solidarietà sociale. Un giorno di giugno di due anni fa, dunque molto tempo prima che la pandemia cominciasse, in un tempo normale, dopo essermi messa in viaggio all’alba come di consueto, per raggiungere un carcere di massima sicurezza del Settentrione, giunta allo sportello dell’ufficio colloqui, mi sono scontrata con la faccia stupita del personale che mi informava che “il detenuto” - entità amorfa e indistinta in cui tutti i reclusi vengono inglobati - era in ospedale da diversi giorni. Ma come non è stata avvisata? Ora, io so che è arduo, ma provate solo per pochi secondi a immaginare come possa essere, tentate di figurarvi se accadesse a voi con qualcuno a cui volete bene. Io ho perso le parole, fatto per me davvero insolito. La mia mente dondolava fra due pareti: la preoccupazione per le ragioni del ricovero e l’ansia di doverlo comunicare a sua madre, che è anziana e malata. Mentre andavo e venivo su questa altalena senza respiro, una guardia ha sottolineato che il ricovero era programmato da tempo, che era strano che nessuno lo sapesse, che era impossibile che nessuno ci avesse telefonato a noi fuori. Bisogna capire cosa s’intende nel codice penitenziario con “programmare”, gli spiego, perché c’era un intervento per il quale aspettava di essere chiamato da dieci anni circa, ma ormai avevamo perso le speranze. Nessuno sapeva nulla. Torno a tacere, sono francamente triste, confrontarsi con il “carcere” toglie le forze, annienta, perché è un’impresa quasi sempre inutile. Per fortuna in quel momento io davanti a me ho avuto persone, non solo regole e istituzioni, è stato il personale stesso a fare in modo che avessi subito, pur per pochissimi minuti, un colloquio in ospedale, per rasserenarmi e tranquillizzare a mia volta. Insomma io ho incontrato gli esseri umani e con umanità sono stata aiutata perché c’erano i presupposti per farlo (autorizzazioni, turni compatibili, etc.). Se così non fosse stato, sarei tornata a Roma dopo un viaggio a vuoto, ma carica di dispiacere e preoccupazione. Dopo qualche mese è seguito un nuovo ricovero, è arrivata la consueta telefonata asettica, immediatamente successiva al trasferimento, in cui si viene informati che il detenuto è stato ricoverato per un fatto programmato e niente più. Leggo ora nell’articolo citato a monte che i familiari hanno diritto a ricevere informazioni quotidiane sulle condizioni di salute. Davvero esiste una norma che dispone in tal senso? Dopo dieci giorni, l’unica informazione che abbiamo ricevuto è stata grazie a una parente in visita a un suo congiunto, che ci faceva sapere che l’intervento era riuscito e le dimissioni prossime. Punto. Queste sono le condizioni che si avverano, tra le intercapedini delle norme d’acciaio. Condizioni ulteriormente sconvolte dall’arrivo della pandemia. Ora anche i liberi sono stati privati della loro capacità di programmare, il loro tempo è divenuto una moneta indisponibile, proprio come avviene in carcere in condizioni sociali fisiologiche. Certo chi conosce la reclusione e i gironi più duri non può che sorridere di questo paragone, fatto è che la riduzione della libertà dei “giusti e buoni” si è tradotta inevitabilmente in un aggravamento della reclusione dei prigionieri veri. Ci indigniamo per l’impossibilità di accompagnare i congiunti nel decorso della malattia, ma l’impossibilità per i detenuti c’è sempre stata e ora ne risulta aggravata come si potrà immaginare. Chi volete che abbia tempo di occuparsi di informare e di garantire le comunicazioni minime fra un malato detenuto e i suoi familiari, in un momento in cui il sistema è in corto circuito manifesto per tutti? Quello che vorrei che venisse fuori da questo breve racconto è far capire che in carcere la burocrazia e i meccanismi automatici spersonalizzati sono mastodontici. Vengono ingigantiti dal legislatore per ragioni di sicurezza e prevenzione, per lasciare il meno possibile alla discrezionalità del singolo e proteggerlo così dai rischi conseguenti a una vera responsabilità decisionale. Eppure è quello stesso personale che si ritrova ingabbiato a un certo punto in regole e divieti che lo costringono ad agire contro buonsenso. Le istituzioni penitenziarie devono curare la malattia sociale, non possono essere un rullo che asfalta l’umanità e schiaccia le persone come il cemento. Obiettivo 2040: un laboratorio di idee per ripensare il carcere di Lorenzo Trigiani* Il Dubbio, 19 novembre 2020 Continua con il quotidiano Il Dubbio il viaggio “Sui pedali della libertà”, Italia 2040. Il viaggio in bicicletta di duemila chilometri da Nord a Sud, affrontato a giugno da Roberto Sensi per avere una visione diretta e “dal di dentro” sul mondo del carcere, ha fatto scalo a Gorizia. Le testimonianze delle 12 tappe in occasione delle visite negli istituti penitenziari italiani, le opinioni e le proposte di chi opera nelle istituzioni, dei detenuti e di chi partecipa alla vita carceraria donando tempo e competenze specifiche, sono state raccolte e analizzate da Spoiler, un think tank di futuristi che fin dall’inizio del progetto ha affiancato Il Dubbio con i metodi della previsione sociale (Futures Studies) e dell’anticipazione per provare a costruire immagini alternative per l’esecuzione della pena in Italia nel 2040, nel rispetto delle sole finalità rieducative, o meglio riabilitative. I primi esiti della ricerca sociale ci parlano, invece, di un carcere chiuso, senza speranza e senza idea di futuro, in cui prevale la concezione della pena come penitenza, nella continuità di un processo penale destinato a non concludersi mai. Importanti contributi sono emersi dall’incontro di lavoro organizzato il 30 ottobre nella città di Gorizia - che dopo aver acceso nel lontano 1961 la miccia del dibattito politico e sociale sulla possibilità di trasformare gli ospedali psichiatrici in luoghi dove i diritti del malato fossero rispettati - ha ospitato Spoiler per il primo esercizio di futuri sul carcere del 2040. Nella sede del Comune si sono dati appuntamento alcuni dei protagonisti degli incontri di Roberto Sensi e altri attori rilevanti delle istituzioni e della politica locale, del volontariato, dell’imprenditoria carceraria, della comunicazione nonché professionisti e consulenti filosofici con l’obiettivo di raccogliere una sfida complicata e dalle innumerevoli sfaccettature: immaginare possibili alternative e futuri impensabili per strutture in grado di garantire alla pena di assolvere concretamente alla sua unica finalità, quella riabilitativa. L’incontro, facilitato dall’avvocata e futurista Carla Broccardo e da Fabio Millevoi, socio fondatore dell’Associazione dei Futuristi italiani, ha messo in luce la grande sfida culturale e di civiltà, con la prospettiva di cui è portatore Enrico Sbriglia, già dirigente generale del Dap, di avviare il primo laboratorio sistemico (i contributi sono vari: neuro- scienze, architettura e le sue connessioni ambientali, medicina e discipline sociali e antropologiche) finalizzato a realizzare, con altri paesi europei, un Centro per la sicurezza e la giustizia che possa costituire una cerniera, vista la posizione e la storia di Gorizia, per unire l’Europa, in una visione federalista e rispettosa dei diritti umani e offrire una concreta armonizzazione del trattamento esecutivo con finalità di istruzione e formazione professionale. “Da sempre Gorizia è il luogo ideale in cui far incontrare genti, culture, idee e progetti internazionali e la candidatura a capitale europea della cultura per il 2025, con la città slovena di Nova Gorica, va in questa direzione. Accogliamo con grande favore questa idea che rivoluziona il concetto di detenzione carceraria e mi farebbe davvero piacere che avvenisse a Gorizia, già teatro della grande rivoluzione di Basaglia sulla psichiatria”, ha spiegato il sindaco di Gorizia, Rodolfo Ziberna. L’attività previsionale proposta nella città friulana - solo l’inizio di una più ampia ricerca - ha coinvolto i partecipanti nella strutturazione di pensieri collettivi rendendo evidente la complessità delle interrelazioni e la molteplicità degli impatti che conseguono ad ogni nostra decisione. Il viaggio “Sui pedali della libertà” proseguirà con la metodologia e i contributi dei Futures Studies nel solco dell’alfabetizzazione ai futuri invocata anche dall’Unesco. *Co-founder di Spoiler I bambini in carcere al tempo del Coronavirus di Nicoletta Gandus* dirittiglobali.it, 19 novembre 2020 Dobbiamo occuparci oggi di 33 bambini in carcere? Ovvio che sì. Perché in carcere non dovrebbero stare. E non ci dovrebbero stare a maggior ragione in tempo di pandemia, laddove attualmente i casi di contagio nelle carceri di tutta Italia sono oltre 1.200. E aumentano in continuazione. È comparsa sulla pagina Facebook del Comitato Verità e Giustizia per le morti in carcere la notizia - ignorata dai più - della positività al coronavirus di due dei sei bambini presenti nell’Istituto a custodia attenuata di Torino. L’informazione proviene dal garante delle persone private della libertà della regione Piemonte, Bruno Mellano. Allo stato non sappiamo ad esempio né l’età dei piccoli (che non frequentavano luoghi esterni alla struttura) né la nazionalità della madre. Da questo fatto si può però trarre spunto per affrontare il tema della detenzione delle madri con figli piccoli, che come quello delle donne carcerate certo non è al centro dell’attenzione generale. Questo accade perché le detenute sono una minoranza (circa il 4% del totale delle persone in carcere) e fra esse quelle che tengono con sé i propri bambini sono ancora meno: 11 italiane e 20 straniere, con 33 figli in tutto. Tanto risulta dai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 31 ottobre 2020, in cui è precisato che gli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (ICAM) attualmente sono Torino “Lorusso e Cutugno”, Milano “San Vittore”, Venezia “Giudecca”, Cagliari e Lauro. In caso non siano presenti “detenute madri con figli al seguito” (questo il linguaggio ministeriale…), l’istituto non compare nella tabella. Esaminando i dati dei mesi precedenti, si verifica una progressiva diminuzione del numero delle detenute con figli: dalle 54 (con 59 bambini) del febbraio 2020 alle 29 (con 32 bambini) del giugno 2020: evidente conseguenza delle disposizioni nazionali e internazionali (in particolari le raccomandazioni pubblicate dall’OMS) finalizzate a mitigare la diffusione del virus Covid-19 e favorire l’uscita dal carcere delle persone fragili, in particolare anche mamme con bambini. E poi il leggero aumento sopra documentato. Dobbiamo occuparci oggi di 33 bambini? Ovvio che sì. Perché in carcere non dovrebbero stare. E non ci dovrebbero stare a maggior ragione in tempo di pandemia, laddove attualmente i casi di contagio nelle carceri di tutta Italia sono oltre 1.200 (più esattamente 1.265 al 10 novembre 2020). E aumentano in continuazione, così come in tutto il paese. I Garanti delle persone private della libertà in tempi Covid, fin dall’inizio, hanno chiesto particolari provvedimenti a tutela della salute dei detenuti. A maggior ragione dei bambini che sono coi detenuti. In particolare, in Piemonte più volte negli ultimi mesi è stata chiesta la realizzazione di una “casa protetta”. Dopo il caso dei bambini dell’ICAM di Torino ancora una volta lo chiede il Garante piemontese Bruno Mellano: “Appare urgente e improrogabile la verifica di soluzioni alternative al carcere almeno per le mamme con bambini, nell’attesa di un intervento mirato per la piena applicazione della legge 62/2011: realizzazione di una rete di Case Famiglia per mamme in esecuzione penale con figli al seguito”. È lunghissimo il percorso della legislazione su questo tema[1]. Qui basti ricordare che con la legge n. 62 del 2011 sono stati istituiti il circuito penitenziario a custodia attenuata rivolto al genitore (di fatto solo alle madri) “con figli al seguito”, gli ICAM, e le Case famiglia protette, queste ultime da realizzarsi e gestirsi senza oneri per lo Stato. Ma gli ICAM sono solo 5 in tutta Italia, e le Case famiglia solo 2, a Roma e Milano. Gli Stati Generali dell’esecuzione penale[2] avevano trattato il tema, sottolineando la necessità della decarcerizzazione dei bambini. Ma le esigenze di riforma sono state sacrificate sull’altare della certezza della pena, e i successivi decreti n. 123 e 124 del 2 ottobre 2018 non hanno toccato il punto, non potenziando, fra l’altro, le misure alternative. C’è voluta la pandemia per allargare le ipotesi di applicazione di tali misure. Ma non si parla ancora, in nessuno dei numerosi provvedimenti di questi mesi, dei bambini in carcere: era stato proposto da numerosi parlamentari un emendamento al D.L. 28/2020 (emanato con occhio attento alle esigenze securitarie) per la realizzazione di Case famiglia e relativo finanziamento, ma esso è stato trasformato in un non vincolante ordine del giorno. Certo qualcosa di nuovo c’è, e si tratta dell’importante “Progetto di inclusione sociale per persone senza fissa dimora in misura alternativa” dell’aprile 2020, che Riccardo De Vito così descrive [3]: “La Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova - afferente al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità - aveva individuato, tra gli obiettivi operativi del triennio 2020-2022, la “realizzazione di percorsi di fuoriuscita dal carcere in favore di persone detenute prive di risorse familiari, economiche e alloggiative”. Questo programma di inclusione proprio al tempo del Covid-19 ha subìto una spinta propulsiva notevole e ha conseguito risultati incoraggianti. Gli uffici dell’esecuzione esterna - con il contributo di Casse ammende - sono divenuti veri e propri catalizzatori delle risorse del territorio e, attraverso la costruzione di una rete tra enti locali, privato sociale, terzo settore, mondo del volontariato, istituti di pena e magistratura, hanno consentito l’ammissione alle misure alternative a moltissimi soggetti senza fissa dimora che si trovavano nella fase conclusiva dell’espiazione. Le misure messe in campo non assumevano significato puramente deflattivo, né si rivelavano tese a guadagnare spazio nel carcere - profilo pure rilevante -, ma erano pensate per favorire l’inserimento di soggetti economicamente vulnerabili in enti e strutture che potessero facilitare l’acquisizione di abilità finalizzate all’autonomo reinserimento nel tessuto sociale. Bisogna augurarsi (e impegnarsi per) che questo progetto divenga strutturale e organico, dal momento che, oltre a rappresentare un successo di per sé, costituisce il concretizzarsi di un pensiero innovativo sul ruolo dell’amministrazione e sulla cultura delle pene. Non pare eccessivo ritenere che da questa filosofia, sottostante la stessa nascita di un dipartimento autonomo affiancato a quello dell’amministrazione penitenziaria, possa contribuire a riplasmare anche il modello della pena carceraria”. Ma siamo ancora indietro. Ci si ricorderà di quello che è stato detto e scritto dopo la tragedia di Rebibbia del settembre 2018, quando una madre detenuta ha ucciso i due figli piccoli che erano con lei? Doveva essere la tragica occasione per aprire una fase diversa, in cui i bambini non debbano più vivere dietro le sbarre, “in ambienti che non sono adatti a una crescita sana e a un armonioso sviluppo”, ma quanto meno in Case Famiglia o comunque “con libero accesso alle aree all’aperto, ai nidi, alle scuole, ad adeguate strutture educative e di assistenza, preferibilmente esterne”: così Filomena Albano, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, in una intervista dell’epoca. Nello stesso senso, fra gli altri, anche il Garante nazionale Mauro Palma: “Dobbiamo partire dall’idea che il bisogno e il diritto di un bambino che deve evolvere e sviluppare la sua vita deve essere prevalente anche alle nostre esigenze di punizione rispetto al genitore. A partire da questo, le amministrazioni locali devono predisporre le strutture che garantendo la sicurezza all’esterno offrano Case famiglia protette e la possibilità di vivere in un ambiente non detentivo”. Sono passati più di due anni, Covid-19 e le conseguenti limitazioni alle relazioni (particolarmente pesanti per le donne, che delle relazioni familiari sono al centro e si fanno carico) hanno solo aggravato il problema, pur tenendo conto delle numerose misure alternative applicate dai giudici a tutela della salute dei detenuti, e soprattutto delle detenute con figli, che sono comunque a oggi, come si è visto, oltre trenta. Le parole non bastano, è necessaria una svolta concreta e radicale. È necessaria una visione sistemica. Certo, il carcere non può essere la risposta di uno stato civile alla commissione di qualsiasi reato. Certo, dobbiamo assistere a una maggiore applicazione di misure alternative. Certo, lo Stato si deve far carico di quelle situazioni in cui la misura alternativa non potrebbe esser applicata per l’inesistenza di un “domicilio sicuro” nella disponibilità di chi è in prigione: e il problema concerne in particolare le donne, per lo più detenute per reati che consentono le pene alternative, in maggioranza straniere, in maggioranza Rom. E le diseguaglianze aumentano. Se è vero come è vero che “tornare alla normalità” non può essere tornare al mondo di prima, se è vero come è vero che il sistema di sviluppo capitalistico sta dimostrando tutta la sua pervasiva capacità di creare diseguaglianze - e nella pandemia ancor più - dobbiamo pensare a come invertire la tendenza anche nel mondo del carcere e in particolare per la carcerazione dei bambini. L’abolizione del carcere è l’irrealizzabile, ora, visione radicale. Una fitta rete su tutto il territorio di Case famiglia è l’obiettivo raggiungibile in un’ottica riformista. Ripensando la qualità dell’abitare, il rapporto centro/periferie, città/campagna, grandi metropoli e piccoli borghi in progressivo abbandono (l’esperienza di Riace, in un diverso contesto, non ci insegna niente?). Ripensando le attività lavorative per le madri, la loro integrazione sociale, il rapporto dei bambini con il mondo. Ripensando gli stili di vita, soprattutto per le generazioni future, e in particolare per i bambini con madri che sono in custodia cautelare o hanno una pena da scontare. Possibile che per numeri così piccoli non si possano trovare fin da subito soluzioni concrete, studiate caso per caso? E più in generale: non sarebbe il caso di riprendere e ampliare le proposte degli “Stati Generali”, rinnovandoli dal basso, senza formali convocazioni? Questo è il tempo. *Già magistrata ------------------ [1] Cfr. Claudia Pecorella, “Trent’anni di riforme per ridurre il numero dei bambini dietro le sbarre”, in “Doppia pena. Il carcere delle donne”, Ed. Mimesis, 2019. [2] Convocati nel 2015 e conclusi nell’aprile 2016, erano composti da circa 200 esperti e componenti della società civile impegnati in 18 tavoli tematici che hanno formulato numerosissime proposte, anche specifiche per le detenute madri, con la richiesta, in attesa della realizzazione di una estesa rete di ICAM e Case famiglia protette, del massimo ricorso alla detenzione domiciliare o degli arresti domiciliari, cui si oppongono interpretazioni a volte restrittive del concetto di “domicilio sicuro”. [3] In “Questione Giustizia”, trimestrale, n.2/2020: “Camere senza vista: il carcere e l’emergenza sanitaria - il nuovo sotto il vecchio”. Mai più madri e bambini in cella. E non solo in caso di Covid di Marica Fantauzzi Il Dubbio, 19 novembre 2020 La detenzione domiciliare dovrebbe essere la norma, non l’eccezione. Sabato scorso, fuori da un supermercato di Roma, una bambina ha chiesto al padre quale fosse il motivo per cui solo lei e i cani non avessero la mascherina. “Anche tutti gli altri bambini come te non la devono indossare” - ha risposto il padre. “Noi bambini, i cani e i gatti”. - “Sì, diciamo così” - “Ok - ha concluso la bambina - ho capito”. La bambina aveva appena tre anni e cosa avesse capito non sembrava chiaro neanche al padre, però, tutto sommato, l’idea che in questo strano gioco la accompagnassero cani e gatti pareva rasserenarla. Dentro l’Istituto penitenziario di Rebibbia a volte un gatto entra, ma difficilmente un bambino potrebbe trovarci un cane, anzi, è praticamente impossibile. Questo significa che i quattro bambini detenuti con le loro madri all’interno della sezione Nido non possono, per evidenti motivi, giocare al gioco di quella bambina che sabato era fuori dal supermercato. Significa, per altrettanti evidenti motivi, che le spiegazioni che le madri possono dare a quei quattro bambini sono ben diverse da quelle che poteva dare quel padre. Elena ha passato un anno e un mese all’interno della sezione nido di Rebibbia, poi, nel 2017 ha finito la condanna all’interno di una casa-famiglia. Elena ricorda bene spazi e tempi della reclusione. Ricorda, per esempio, la fila che in maniera disordinata facevano i bambini davanti al portone, mentre aspettavano con ansia che qualcuno li portasse fuori. Il cappellino, i guanti e il biberon. Per qualche ora, lo stupore per il mondo attorno gli avrebbe congelato il pensiero di aver lasciato dentro la mamma. Ricorda, per esempio, il terrore che ha provato quando ha capito che il figlio capiva. Riconosceva le sbarre, le chiavi e gli agenti. Sa, infine, che i sabati di libertà, come vennero chiamati da Leda Colombini agli anni inizi degli anni ‘90, rappresentavano l’unico spiraglio di realtà per suo figlio. O comunque, l’unico che, in quel momento, la madre poteva garantirgli. Certo, a Rebibbia c’è un giardino ma, conclude, rimane un carcere. Un carcere con il giardino. Oggi, nel pieno della pandemia, quei sabati son stati sospesi. Durante la prima ondata le 12 sezioni nido delle carceri d’Italia si erano praticamente svuotate. Poi, nei mesi estivi, a pandemia dimenticata, i bambini son tornati. In più di vent’anni gli appelli affinché le madri potessero scontare la pena fuori dalle carceri e sì, anche fuori dagli Icam (gli istituti a custodia attenuata), si sono quadruplicati. Negli anni, la pietà che gli adulti provano verso i bambini, anche se figli di detenute, ha fatto sì che a fasi alterne qualcuno si ricordasse che in Italia ancora circa sessanta bambini dormivano in una cella piuttosto che in una cameretta con le stelle attaccate sul soffitto. Ci si chiedeva perché non permettere al figlio di crescere in libertà mentre la madre, colpevole, pagava il prezzo alla società. Ma per chi non è mosso da pietà, bensì, da fiducia verso una giustizia diversa, sa che dentro alle carceri, non solo non dovrebbero starci quei bambini, ma neanche le loro madri. I reati commessi dalla quasi la totalità di queste donne non prevede la custodia in carcere e se il problema, come spesso avviene, è “l’idoneità del domicilio”, l’alternativa non può più essere la galera. “Lo Stato c’è e non è affatto muto”, dichiarava Mario Perantoni, presidente della Commissione Giustizia della Camera, dopo l’approvazione del primo decreto “Ristori” il 27 ottobre scorso. Infatti, tra un ristoro e l’altro, non troppo visibile ma neanche troppo nascosto, compare una frase: “Ridurre le eccessive presenze negli istituti penitenziari per la durata e il procrastinarsi del periodo di emergenza igienico-sanitaria”. Durante questi mesi, braccialetti elettronici permettendo, il magistrato di sorveglianza può permettere al detenuto, che abbia una pena inferiore ai 18 mesi, di uscire dal carcere e accedere alla detenzione domiciliare. La riduzione dell’eccessiva presenza è, dice lo Stato che non è muto, collegata al procrastinarsi del periodo di emergenza sanitaria. La preoccupazione, quindi, è che il ministero della Giustizia si accorga dell’alternativa alla detenzione solo quando non c’è alternativa. In un appello, firmato il 16 ottobre da A Roma Insieme, La Gabbianella e Terre des Hommes, si chiede che la Commissione Giustizia prenda in mano le proposte di modifica della legge 61/11 e si attivi affinché lo Stato permetta alle madri detenute di scontare la propria pena in una casa-famiglia sempre, e non solo quando il Covid- 19 fa tremare le celle degli istituti. Elena domani andrà al supermercato con i suoi tre figli. Il più piccolo, dice, non sembra ricordare il carcere. In fondo, spera che quel momento arrivi anche per lei. Grimaldi (cappellani carceri): al tempo del Covid “essere sentinelle di speranza” per i detenuti agensir.it, 19 novembre 2020 “Noi tutti, operatori pastorali che svolgiamo il nostro prezioso servizio nelle carceri, con quali modalità vivremo” l’Avvento “in questo tempo di distanziamento, dove tutto è rallentato e ostacolato dall’irruzione del virus? Che cosa dobbiamo fare? Come vivere il nostro impegno accanto ai ristretti? Quali programmi e attività pastorali possiamo nei nostri limiti organizzare?”: è la domanda che don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, pone all’inizio del suo messaggio per l’Avvento. “San Francesco, all’inizio della sua avventura di fede e di discepolato, consegnava ai suoi frati, anche loro un po’ scoraggiati, un messaggio semplice ma ricco di ottimismo valido anche per noi oggi: cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”, il suggerimento offerto a cappellani, diaconi e suore. Nelle carceri, a causa della paura dei contagi, “molte attività si sono rallentate e i detenuti vivono ancora di più una forte solitudine e l’abbandono, pur sapendo con chiarezza che la prigione che si apre alle relazioni genera una società più sicura”; perciò, “noi uomini e donne, mandati da Dio a sanare le molte ferite, dobbiamo essere, nei nostri istituti penitenziari, una finestra spalancata nella vita dei ristretti, per indicare loro orizzonti nuovi”. Di qui l’invito: “In questo tempo nascosto e sospeso, siamo chiamati a fare ‘ciò che è necessario’. Queste limitazioni imposte non viviamole come frustrazioni che paralizzano il nostro agire, ma come stimolo per mettere in atto la nostra capacità di trasformare ciò che sempre abbiamo fatto”. Infatti, “il Natale del Signore, che ci apprestiamo a vivere, ci parla di fragilità, povertà e umiltà. E questo tempo burrascoso ci ha fatto scoprire ancora di più i nostri limiti e debolezze e ci ha fatto comprendere ancora di più che noi non siamo i padroni del tempo. Questo lungo periodo d’incertezze, che il mondo sta vivendo, percorriamolo con la vigilanza del cuore, capaci di scrutare la notte e saper attendere con fede il domani che verrà”. Il cammino di Avvento sarà, dunque, “per noi tutti un tempo per l’ascolto dello Spirito e di essere sentinelle di speranza che annunciano, dopo l’oscurità della notte, il nuovo giorno, ma anche a possedere il coraggio della fede che ci chiede di vivere il quotidiano ricco di speranza”. Caro Caselli, sul 41bis sbagli, ci porti allo stato d’eccezione di Andrea Pugiotto Il Riformista, 19 novembre 2020 Replicando al collega Woodcock, l’ex procuratore antimafia tralascia del tutto il dato normativo, usa parole feroci: per lui l’affiliazione mafiosa “può cessare solo col pentimento/confessione, o con la morte”. Ma per la Costituzione nessuno è mai perso per sempre. I regimi ad hoc, come il carcere duro, conducono al diritto penale del nemico a cui non vanno riconosciuti diritti, né garanzie. 1. Giunge inatteso il dibattito sulle criticità del 41bis avviato dal procuratore Henry J. Woodcock sulle pagine del Fatto Quotidiano (6 novembre). Così inatteso - per firma, tema e tribuna - da strappare un plauso ai direttori del Foglio (7 novembre) e di questo giornale (10 novembre). Come insegna il vangelo, “oportet ut scandala eveniant”, specialmente quando squarciano il velo dell’apparenza rivelando la realtà delle cose. È questo il caso, grazie anche ai successivi interventi dell’ex procuratore antimafia Giancarlo Caselli (8 novembre) e del pm Luca Tescaroli (13 novembre), ospitati sul quotidiano di Marco Travaglio. 2. Woodcock sospetta che il 41bis sia un regime punitivo inteso a fabbricare pentiti. Lo nega invece Tescaroli: la ratio dell’istituto è tutelare la collettività, interrompendo le comunicazioni con l’esterno di capimafia finalmente dietro le sbarre. Che cosa prevede il 41bis? “La facoltà di sospendere, in tutto o in parte”, e solo temporaneamente, talune regole del trattamento penitenziario, all’unico fine di “impedire i collegamenti” tra il dentro e il fuori. È davvero così? Verifichiamolo empiricamente. Accade di rado, ma accade che un tribunale di sorveglianza revochi a un detenuto il regime del 41bis. La notizia non passa mai inosservata: la stampa amplifica lo sconcerto dell’opinione pubblica, alimentato da sponde parlamentari e sdegnate arene televisive. Eppure, se il magistrato ha così deciso è perché ha verificato, nel caso concreto, che non ricorrono più i presupposti per l’applicazione del regime speciale: cioè che il cordone ombelicale tra quel detenuto e il sodalizio criminale esterno è stato reciso. Il 41bis ha, dunque, raggiunto il suo fine (dichiarato). Il magistrato si trova, così, nel tritacarne mediatico avendo semplicemente applicato la legge per ciò che essa espressamente prevede. È un paradosso che scaturisce, svelandola, da una premessa normativa fasulla. Simili grida, infatti, rivelano l’autentico fine del 41bis: indurre alla collaborazione con la giustizia o punire chi non collabora, attraverso un regime aspramente afflittivo mascherato da misura di prevenzione. 3. Questa (mal)celata finalità emerge anche dalla difficoltà di ottenere la revoca del 41bis in modo diverso dalla collaborazione. Il regime speciale ha durata pari a quattro anni, prorogabile per successivi periodi, ciascuno pari a due anni. A giustificarlo è la circostanza che “vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti” tra l’associazione criminale e il detenuto. Spetta a lui dimostrare il contrario, ma come? Per legge, il mero decorso del tempo - lustri, se non decenni, trascorsi isolati in “carcere duro” - non costituisce, di per sé, elemento sufficiente. Gli indizi su cui può fare leva il ministro di Giustizia nel disporre la proroga (dal profilo criminale del reo al suo ruolo apicale, dal tenore di vita dei familiari alla perdurante operatività dell’associazione a delinquere) sono vere e proprie presunzioni legali. Finisce così per gravare sul detenuto la pretesa dimostrazione dell’inesistenza di suoi legami con l’esterno. Una prova negativa, dunque. Ma la prova negativa di qualcosa che non esiste appartiene alla sfera della teologia, non del diritto processuale. Si spiega così la serialità stereotipata dei rinnovi del regime speciale, giustificati con un inespugnabile condizionale: “potrebbe ancora…”. Si può dire anche così (cfr. Commissione Antimafia, 9 luglio 2002): “Le motivazioni delle proroghe appartengono a quella categoria di cose che si firmano previa bendatura degli occhi”; l’opposizione a tali proroghe “è quasi una probatio diabolica”; “l’inversione dell’onere della prova è una questione sempre molto borderline, se non oltre il borderline”. Così si esprimeva l’allora sottosegretario alla Giustizia, e già membro del pool palermitano antimafia, Giuseppe Ayala, alla vigilia della legge n. 279 del 2002 che stabilizzerà nell’ordinamento il 41bis, trasformandolo da misura emergenziale a strumento ordinario di politica criminale. Gli oltre 600 detenuti in 41bis (e gli oltre 1.000 pentiti sottoposti a speciale regime di protezione) sono lì a dimostrarlo: su ciò, Woodcock ha ragione. 4. Dal dato normativo, invece, Caselli prescinde del tutto. Ad esso antepone convinzioni maturate “sul campo” della lotta alla mafia, espresse con parole di rara ferocia nella loro inappellabilità: pentimento “significa solo confessione” e “confessione significa delazione”, poiché l’affiliazione mafiosa “può cessare solo col pentimento/confessione o con la morte”. Testuale. Il presupposto di tale ragionamento è che per i membri della criminalità organizzata non è possibile alcuna prospettiva di recupero, perché è un dato storicamente e culturalmente certo che mafiosi non si diventa per scelta: mafiosi si nasce. Da qui la “regola” - conclamata anche da Tescaroli - per cui da Cosa nostra non si può uscire “se non con la morte o il tradimento”. È un argomento ontologico che riveste assunti sociologici da verità fattuali incontrovertibili. Soprattutto, evita di fare i conti con la Costituzione secondo cui nessuno è mai perso per sempre: parlando di risocializzazione del “condannato”, infatti, il 3° comma dell’art. 27 usa deliberatamente la forma singolare. Perché l’esecuzione penale riguarda singole persone, e non organizzazioni criminali. Perché - come si legge nella sent. n. 148/2019 della Corte costituzionale - “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile, ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”. Da giuristi, Caselli e Tescaroli non possono ignorare il principio costituzionale “della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (così, ancora la sent. n. 148/2019). 5. Conosco l’obiezione: davanti a mostruose biografie criminali, l’orizzonte di una risocializzazione è colpevolmente irenico. Anche in questi casi, però, resta fermo il divieto costituzionale di trattamenti contrari al senso di umanità: è un limite negativo che il regime differenziato del 41bis travalica? Lo adombra Woodcock, cui Caselli contrappone l’alternativa di un progressivo ritorno al passato, quando in carcere comandavano i mafiosi, giustificando una modulazione della detenzione sulla caratura criminale del reo: “in breve, il 41bis “punisce” la maggior pericolosità dei mafiosi irriducibili”. Senonché, a dispetto della sua denominazione gergale, il “carcere duro” non è - né può diventare - una pena ulteriore, di specie diversa, più afflittiva delle altre, neutralizzatrice, riservata a determinati detenuti. Qui il dato normativo recupera tutta la sua cogenza: le misure penitenziarie legittimate dal 41bis devono essere finalizzate all’unico scopo di interrompere la catena di comando tra chi è in galera e chi è fuori. Diversamente, la misura applicata è illegittima perché “puramente afflittiva” (sent. n. 351/1996 della Corte costituzionale). Che così debba essere lo ammette persino Tescaroli (“il 41bis non è una ulteriore pena afflittiva”), denunciando il problema della carenza di spazi detentivi “rispondenti a esigenze di umanità, idonei ad assicurare l’isolamento effettivo”. Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra, sottaciuta, è l’applicazione di uno stillicidio di misure - dettagliate da severissime circolari ministeriali - che vanno a comporre un trattamento degradante per la dignità di detenuti i quali, ancorché irredimibili, restano esseri umani. È questa la preoccupazione che percorre, come un filo conduttore, le principali indagini sul regime del 41bis: la relazione della Commissione del Senato per la tutela dei diritti umani nella scorsa legislatura, il report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura all’indomani della visita in Italia nel marzo 2019, il rapporto del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, reso noto nel febbraio 2019 dopo aver visitato tutte le sezioni per detenuti in 41bis. Non si spiegano altrimenti le numerose questioni di costituzionalità promosse dalla magistratura di sorveglianza sul 41bis, come pure le non poche pronunce contro l’Italia della Corte europea dei diritti umani, pronunciate in relazione a specifiche applicazioni del regime speciale. 6. L’art. 41bis esprime, de jure e de facto, la tendenza normativa a configurare i detenuti per “tipi di autore”, individuati sulla base del titolo astratto del reato commesso, e per i quali opera di default un regime ad hoc (processuale, penitenziario, premiale, giurisdizionale). Nei loro confronti il momento dell’esecuzione penale, invece di guardare (come dovrebbe) a un futuro possibile, risponde a esigenze investigative e di difesa sociale. Costi quel che costi. Magistrati di grande esperienza e preparazione, la cui biografia fa tutt’uno con il rispetto sacrale della legalità, dovrebbero ben sapere che questo “doppio binario” rischia di condurre, progressivamente, sul binario morto dello stato d’eccezione e del diritto penale del nemico, cui non vanno riconosciuti né diritti né garanzie. Chi teme questa deriva, ritiene che il contrasto alla criminalità organizzata non debba essere impermeabile alle regole e ai limiti imposti dal costituzionalismo, italiano ed europeo. Perché non è vero che il fine giustifica i mezzi. È semmai vero il contrario: in una democrazia costituzionale, sono i mezzi a prefigurare i fini. Ecco perché certi mezzi sono fatti oggetto di divieto assoluto e incondizionato, anche in caso di “pericolo pubblico che minacci la vita della nazione” (art. 15 Cedu). Il divieto di trattamenti inumani e degradanti è esattamente uno di questi. 7. Il dibattito è destinato ad allargarsi: il 24 marzo 2021, infatti, è calendarizzata a Palazzo della Consulta la quaestio sul divieto di concessione della liberazione condizionale all’ergastolano non collaborante, condannato per un reato associativo incluso nella black-list dell’art. 4bis, 1° comma, dell’ordinamento penitenziario. Se ne è già parlato su queste pagine (Il Riformista, 9 luglio). L’augurio è che si sviluppi una discussione laica e razionale. Non una fatwa pronunciata da chi esibisce al petto lo stemma dell’antimafia contro chi non lo sarebbe abbastanza. Se tanto mi dà tanto, temo non andrà così. Accetto scommesse. Salviamo la giustizia dal diritto penale di Maria Brucale* e Matteo Angioli** Il Riformista, 19 novembre 2020 “Se la storia ci ha mostrato qualcosa è che non possiamo arrestare e incarcerare i sistematici problemi sociali che affliggono le nostre società”. È il principio che guida l’azione di un ex-vice procuratore statunitense che aggiunge: “Quando parliamo di riforma della giustizia penale, come società, ci concentriamo su tre cose: ci lamentiamo, twittiamo e manifestiamo su polizia, sanità e carcere. Raramente, per non dire mai, parliamo dei Procuratori”. È nero, di origine colombiana, adottato e cresciuto in una famiglia di bianchi, rasta, avvocato, per otto anni vice procuratore distrettuale della contea di Suffolk, nel Massachusetts (800.000 abitanti circa). Si chiama Adam J. Foss e con la sua organizzazione “Prosecutor Impact” si batte perché nessuna persona sia destinata a consumarsi in una cella di prigione. L’obiettivo è un approccio più sensibile ed equo alle questioni sociali, sconfiggendo il populismo giudiziario che produce discariche umane chiamate carceri da un lato, recidiva, diseguaglianze, insicurezza dall’altro. Le riforme che propone mirano a modificare un sistema ordinamentale che vede nella sanzione penale e, in particolare, nella reclusione in carcere la soluzione di ogni patologia sociale; che non mira a risolvere i conflitti ma a nasconderli con misure meramente repressive ed eliminative. Propone un’erosione graduale delle competenze del sistema giudiziario attraverso la predisposizione e l’incremento di misure di aiuto concreto nell’ambito dell’istruzione, della sanità, della formazione e della responsabilizzazione delle forze di polizia e, non ultimo, attraverso una modifica sostanziale del ruolo dei Procuratori. Parole e concetti che evocano il sentire di Marco Pannella o di Rita Bernardini sulla malagiustizia, sugli istituti di pena afflitti da un sovraffollamento strutturale troppo spesso determinato dall’abuso degli strumenti custodiali anche per reati di minima offensività, sulla necessità che i magistrati visitino le carceri affinché si rendano conto del peso delle loro decisioni esasperatamente punitive che incidono drammaticamente sui percorsi di vita dei reclusi comportando una ricaduta inevitabile nel crimine e incrementando, in Paesi come l’Italia, il tasso di recidiva fino al 60%. L’approccio “law and order” (ordine e disciplina) ha, ormai da tempo, dimostrato i suoi limiti. L’uso e l’abuso del diritto penale non mitigano ma incrementano i conflitti e le disarmonie sociali. In Italia i numeri crescenti della popolazione detenuta in spazi sempre più inadeguati, a fronte di una lentezza endemica dei processi, comportano una situazione di allarme crescente tanto più in tempo di pandemia. La strutturale impossibilità di mantenere il distanziamento e condizioni igieniche accettabili in spazi infimi e promiscui di coabitazione coatta rende i luoghi di privazione della libertà bombe epidemiologiche pronte ad esplodere a danno di tutta la comunità penitenziaria. Per tale ragione dal 10 novembre Rita Bernardini è in sciopero della fame, per chiedere al governo e al parlamento misure deflattive urgenti ed efficaci a protezione di un mondo, quello recluso, in grave pericolo. In Italia, come negli Stati Uniti, si è negli anni sempre più esasperato il ricorso alla sanzione penale e si è assistito a una proliferazione inconcludente di fattispecie di reato espressione della medesima tendenza ad alimentare il disagio sociale con la repressione. Tuona l’allarme di Marco Pannella che, nel luglio 2015, paventava una società che, animata dal miraggio dell’ordine costituito, indulgesse a vestire di legalità azioni illegittime perché, nella sostanza, ingiuste e illiberali: “forme di legalità che sono nemiche delle visioni liberali, delle visioni laiche nelle quali la libertà di pensiero viene sempre temuta piuttosto che coltivata”. Come Pannella, anche Foss è convinto che l’incarcerazione di massa e il conseguente sovraffollamento siano un epifenomeno. Con l’elezione di Joe Biden alla Presidenza degli Stati Uniti, le riforme che propongono procuratori progressisti come Foss non sono più irrealizzabili. Andando oltre l’asfissiante pseudo-scontro tra “fascisti” da una parte e “politicamente corretti” dall’altra, nei suoi interventi pubblici, Foss va alla radice del problema snocciolando numeri impressionanti, a partire da quelli dell’incarcerazione di massa: 2,3 milioni di persone negli Stati Uniti sono in prigione, rendendo gli Stati Uniti il Paese che più incarcera al mondo. 50 anni fa erano 250.000 circa. Se gli americani costituiscono il 5% della popolazione mondiale, quelli dietro le sbarre sono il 25% della popolazione carceraria mondiale. Altri 7 milioni sono in libertà vigilata o in condizionale e 12 milioni hanno precedenti penali. Si tratta di un’industria, quella carceraria, che divora annualmente 80 miliardi di dollari. Un uomo nero su tre nato oggi negli Stati Uniti trascorrerà del tempo in prigione. Una donna nera su tre ha un parente già in prigione. Ci sono più scuole con segregazione razziale oggi che nel 1954 quando, con una sentenza storica, la Corte Suprema stabilì unanimemente l’incostituzionalità della segregazione razziale dei bambini nelle scuole pubbliche. C’era più rappresentanza al Congresso per le persone di colore durante il periodo di ricostruzione dopo la guerra civile che adesso. Ci sono più persone sotto il controllo del sistema penitenziario oggi, che schiavi alla vigilia della guerra civile. Altro dato agghiacciante riguarda i minori: ogni giorno, negli Stati Uniti quasi 60.000 minorenni vengono reclusi. Ogni anno vengono spesi 110.000 dollari per incarcerare un adolescente per un anno, con una probabilità del 60% di recidiva e di rientro nel sistema della giustizia penale. Su 800 bambini detenuti nel Massachusetts, il 75% di loro ha avuto una media di tre interazioni con il sistema di assistenza all’infanzia prima dei tre anni. E infine, tornando all’istruzione, i bambini da zero a sei anni di quartieri poveri, quando entrano in prima elementare, avranno avuto qualcuno che avrà letto loro in media 18 ore. Questa cifra sale a 2400 ore per i bambini di quartieri benestanti. Ciò significa che, in media, i bambini più poveri avranno ascoltato 30 milioni di parole in meno rispetto ai bambini più ricchi. Questo divario nell’alfabetizzazione determina un ritardo cognitivo che si rivelerà determinante. L’instabilità economica e un condiviso senso di precarietà, aggravati dalla pandemia, hanno indotto governi incapaci di adottare misure di protezione sociale ad un ricorso sempre più frequente al diritto penale ed allo Stato di emergenza. È sempre più urgente investire in programmi alternativi all’incarcerazione e superare il vecchio approccio “ordine e disciplina”. Occorrono leggi democratiche tese alla tutela dei diritti umani. Il dilagare del Covid-19 ha dimostrato come la detenzione e le carceri siano un problema che non conosce confini. Salviamo le carceri, la giustizia dal diritto penale sostenendo Rita Bernardini nella richiesta di adozione di un provvedimento di amnistia e di riforme basate sulle pene alternative che diano dignità alla giustizia, alla comunità penitenziaria intera e che, come dice Foss, mettano fine “al modo in cui perseguiamo, incarceriamo, etichettiamo e screditiamo le persone”. *Avvocato, membro del Direttivo di Nessuno Tocchi Caino **Membro del Consiglio Generale del Partito Radicale Depositi via Pec: gli avvocati chiedono regole certe, non appelli alla “benevolenza” dei giudici di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2020 In caso di tilt informatici va prevista la sospensione dei termini; a Milano il Riesame non accetta ricorsi via Pec. Giustizia telematica nel caos. Dal civile al penale, l’assenza di regole certe - per esempio, cosa succede in caso di tilt informatici? - ha trasformato il deposito degli atti in una lotteria, con regole diverse anche a seconda dell’orientamento dei tribunali. A Milano il Riesame non accetta impugnazioni via Pec. A Napoli, in un documento ufficiale, il vicepresidente della Corte d’Appello si è appellato alla “benevolenza” dei colleghi magistrati invitandoli a concedere l’agognata remissione in termini chiesta dai legali, per via del blocco dei server che ha impedito i depositi telematici. Intanto, il Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Maria Masi, ha invitato il Ministro della Giustizia Bonafede ad intervenire con un proprio decreto che dichiari il fermo degli uffici giudiziari. Per “evitare valutazioni, caso per caso”, “più che la concessione da parte del singolo magistrato della rimessione in termini di cui all’art. 153”, si legge in una lettera inviata dalla Presidente Masi a Via Arenula, occorre attivare - per i distretti di Napoli, Catanzaro, Reggio Calabria, Salerno, Potenza, Campobasso, Bari e Lecce - la procedura prevista dal Dlgs n. 437/ 1948 relativa alla “Proroga dei termini di decadenza in conseguenza del mancato funzionamento degli uffici giudiziari”. Si tratta, spiega la nota del Cnf, di uno strumento di carattere generale, attivabile ai sensi dell’art. 1: “Qualora gli uffici giudiziari non siano in grado di funzionare regolarmente per eventi di carattere eccezionale”. In base al quale, conclude la missiva, “per quanto attiene, ai termini di decadenza per il compimento di atti presso gli uffici giudiziari scadenti durante il periodo di mancato o irregolare funzionamento, o nei cinque giorni successivi, sono prorogati di quindici giorni, a decorrere dal giorno in cui è pubblicato in gazzetta ufficiale il DM”. L’interpretazione data dal Tribunale del Riesame di Milano, “preoccupa moltissimo” gli avvocati della Camera penale. “Ci sembra - affermano - che trasmetta la volontà (isolata, ci auguriamo) di non procedere verso la informatizzazione del deposito degli atti da parte dei difensori”, nemmeno “in un momento di grossa tensione sanitaria”. I penalisti spiegano che il “Presidente della sezione Riesame ha informato il Presidente del Tribunale che la sezione Riesame ritiene inammissibili tutte le impugnazioni presentate tramite Pec” è “ciò in forza della interpretazione che i Giudici della sezione Riesame danno oggi alla normativa esistente, anche sulla base di una ultima decisione della Cassazione”. Il riferimento è alla sentenza n. 21981 del 2020. Per i penalisti tuttavia la decisione della Cassazione “è superata dall’emissione del decreto ministeriale del 9 novembre 2020 che indica quali siano le Pec a cui trasmettere gli atti, nonché quali siano le modalità di formazione degli atti digitali”. Gli avvocati a Milano, però, “dovranno presentarsi, per ora, al Tribunale del Riesame per non veder dichiarata inammissibile la loro impugnazione”. Sul fronte civilistico il tilt informatico del fine settimana ha impedito il deposito degli atti da parte di molti avvocati. Le Camere civili con una certa preveggenza, in una nota di qualche giorno fa, avevano scritto: “A qualcuno non resta che affidarsi al buon cuore del giudice di turno, sperando che autorizzi una remissione in termini”. Aggiungendo che “è chiaramente un assurdo”, ed “occorre stabilire una volta per tutte che ogni qualvolta vi siano disfunzioni del sistema tutti i termini processuali connessi con il suo utilizzo devono restare sospesi”. Ebbene, un decreto dell’Ufficio di Presidenza della di Corte di appello di Napoli rivolge ai magistrati proprio l’invito a “valutare con sufficiente benevolenza eventuali richieste di remissione in termini...”. “Sono certo - scrive il Presidente delle Camere civili de Notaristefani - che le intenzioni di chi ha rivolto quell’invito fossero le migliori; ma giudico inaccettabile che il rispetto del diritto di difesa venga predicato in termini di benevolenza: quel rispetto costituisce un dovere per tutti, ed in primo luogo per i giudici, non una concessione graziosa di un sovrano, che la elargisce oppure no secondo il suo piacere”. Del resto, prosegue, “nessun avvocato è incorso in decadenze, tanto da dover implorare remissioni in termini ex art. 153 comma 2: noi gli atti li abbiamo trasmessi, e tempestivamente. Se il Ministero della giustizia non è stato in grado di acquisirli per tempo, ha un problema che deve risolvere, se non vuole rispondere dei danni arrecati”. E se un giudice dovesse decidere di giudicare senza un atto che è stato trasmesso tempestivamente, credo sarebbe difficile assai evitare la sanzione di nullità di tutta l’attività successiva”. “Per questo - conclude - serve non benevolenza, ma un provvedimento normativo che consenta la sospensione di tutti i termini, sia ora che in futuro, mediante una procedura agile ed immediata, oggi che tutto dipende dal Pct”. Un po’ di pragmatismo quando si parla di terroristi e pentiti di Bruno Ferraro* Libero, 19 novembre 2020 Anni addietro, un titolo sulle colonne di questo giornale si chiedeva “ma cosa bisogna fare per essere terroristi?”, in relazione alla decisione di un magistrato che aveva condannato per associazione sovversiva escludendo l’ipotesi di una banda armata con finalità di terrorismo. Orbene, a parere dello scrivente, una cosa è la protesta contro il sistema che si spinge fino all’identificazione dei nemici di classe e propugna lo scontro di classe (nel che consiste l’associazione sovversiva); altra cosa è il terrorismo, che mira a diffondere il terrore, parla di guerra, vuole indurre i governanti a far uso di misure eccezionali e finisce per uccidere indiscriminatamente (in ciò la banda armata con distribuzione in commandi operativi ed il ricorso ad una forte gerarchia interna). Lo stesso vocabolario viene in soccorso definendo il terrorismo come concezione e pratica di lotta politica che fa uso della violenza (omicidi, attentati, rapimenti) per sconvolgere gli assetti politici ed istituzionali esistenti. Diverso discorso, benché collegato al terrorismo, è quello sul pentitismo. Le Sezioni Unite della Cassazione si esprimono chiaramente affermando testualmente: “In tema di prova del mandato omicidiario, la chiamata in reità da parte di un collaboratore di giustizia deve essere, oltre che intrinsecamente attendibile con riferimento sia al dichiarante che alla fonte primaria, altresì sorretta da convergenti ed individualizzanti riscontri estrinseci inerenti sia al fatto che alla specifica condotta concorsuale dell’accusato in qualità di mandante; di talché la dichiarazione accusatoria del collaboratore di natura indiretta, a differenza di quella diretta, deve essere sottoposta ad un più rigoroso ed approfondito controllo del contenuto narrativo e della sua efficacia dimostrativa”. Mi permetto di osservare che i collaboratori di giustizia sono cosa ben diversa dai “pentiti”. Il pentitismo è ben altro in quanto presuppone un processo interiore di catarsi, di rimorso, di esecrazione per i delitti commessi, di riavvicinamento al mistero di Dio: sentimenti che la legge non richiede e che pertanto non giustificano alcuna forma di simpatia pregiudiziale verso i collaboratori. Ci si chiede ancora se sia opportuno pensare ad una superprocura europea antiterrorismo. Se ne parla da anni senza pervenire a soluzioni concrete. Se è prevalente, come sembra, la preoccupazione di evitare cessioni di sovranità alle istituzioni comunitarie, nulla vieta di optare per una soluzione che incrementi al massimo la collaborazione fra le diverse super procure nazionali ed armonizzi i singoli ordinamenti. Il terrorismo, infatti, è eminentemente sovra nazionale, sia come genesi, sia come modus operandi, sia con riferimento ai collegamenti fra le diverse sue estrinsecazioni territoriali. Una conclusione in una materia così delicata? Si usi, ad ogni livello, un pragmatismo di fondo, senza innamorarsi delle parole. Si eviti il ricorso alle illusioni ed alle chimere, come pure ai paroloni. Qualche tempo fa c’è voluta una decisione del Garante della Privacy per impedire un paradosso ed evitare che dal web sparisse il ricordo di fatti cruenti che sono ancora vivi nella storia d’Italia e dei quali l’opinione pubblica ha il diritto di sapere, a fronte del cosiddetto “diritto all’oblio” invocato dal condannato. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Obblighi antiriciclaggio e criptovalute di Marco Letizi e Giulio Soana Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2020 La crescente funzione delle cripto-valute quale strumento di consumazione e remunerazione della criminalità online. Sin dalla loro introduzione nel 2008, ad opera del fantomatico Satoshi Nakamoto, le cripto-valute sono state circondate da un’aurea di fascinazione mista a sospetto. La spettacolare ascesa del valore relativo si è accoppiata alla conferma della potenzialità criminogena attestando la natura bifronte di questi strumenti; casi quali Silk Road, Alpha Bay ed il nostrano e recentissimo Berlusconi Market hanno esposto chiaramente la potenzialità delle cripto-valute di divenire strumento di scambio che, sfruttando l’emancipazione dalle istituzioni finanziarie garantita dal sistema peer-to-peer, possa permettere di condurre transazioni online “off the radar”. Al di là di mezzo di scambio per transazioni illecite, le cripto-valute hanno confermato la loro potenzialità criminogena in diversi altri settori: da una parte sono divenuti lo strumento di remunerazione di elezione delle estorsioni del XXI secolo, i c.d. ransomware; dall’altra, sfruttando la summenzionata fascinazione e la limitata alfabetizzazione tecnologica del pubblico, le cripto-valute, anche attraverso lo strumento delle Initial Coin Offering (ICO), sono divenute un redditizio espediente per la perpetrazione di frodi online. Nonostante tali evidenti rischi, le cripto-valute - e in particolare la tecnologia a queste sottostanti denominata blockchain - rappresentano una rivoluzione copernicana in tema di struttura delle transazioni commerciali. Invero, la blockchain elimina un elemento fondamentale negli scambi commerciali degli ultimi secoli: il terzo garante. Mediante una sorta di libro mastro decentrato, la blockchain sposta la funzione di garanzia dal singolo alla rete permettendo ai partecipanti di scambiarsi dati in modo sicuro e senza doversi affidare a terzi per evitare frodi. A prescindere dalla vaticinata portata distruttiva per le istituzioni finanziarie tradizionali, la blockchain ha enormi potenzialità in termini di aumento della trasparenza, diminuzione dei costi e semplificazione degli scambi. Tali opportunità non sono sfuggite ai maggiori players internazionali, quali la Commissione europea (che, di recente, ha lanciato un Pre-Commercial Procurement proprio in tema di blockchain), le tradizionali istituzioni finanziare che hanno formato partnership per sviluppare soluzioni blockchain o colossi tecnologici quali IBM. La natura bifronte delle criptovalute, per come originariamente introdotte, sembra quindi aver indotto una scissione semantica nel discorso pubblico il quale ha identificato, probabilmente semplificando, le criptovalute quale rischio e la blockchain quale opportunità. L’identificazione e la caratterizzazione del “rischio cripto” da parte del regolatore nazionale ed internazionale si è rivolta, principalmente, alla modernizzazione di uno strumento che ha costituito il fulcro dell’azione economica in tema di repressione della criminalità transnazionale: la prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo. Questo strumento normativo, nato nei primi anni ‘90 quale metodo di contrasto alla criminalità organizzata, spinto dalla “War on terror” americana post 11 settembre, è divenuto la chiave di volta di quella modalità di prevenzione della criminalità che segue il lemma “follow the money”. Sotto gli auspici di questa visione criminologica la quale, in una prospettiva razionalistica dell’individuo, predica l’annullamento della remunerazione del reato quale strumento di dissuasione e prevenzione della criminalità, il regolatore ha operato una responsabilizzazione di tutti quei soggetti i quali, data la loro funzione di intermediari, si pongono quali collettori di informazioni e che svolgono, in questo sistema, una funzione di allarme decentrato per le autorità investigative. Dato questo breve inquadramento, è evidente che le criptovalute costituiscono un rischio esistenziale per il sistema AML/CFT e si comprende per quale motivo questi strumenti siano divenuti in breve tempo la valuta di elezione per la criminalità online. Invero, le criptovalute, girando su un sistema di scambio da pari a pari, by-passano tutti quei soggetti che formano la struttura di allarme diffuso predisposto dal sistema AML/CFT; in tal senso, l’elemento essenziale della tecnologia blockchain risiede proprio nell’eliminazione della necessaria intermediazione di terzi garanti negli scambi di dati online. Tale peculiarità cozza con un sistema di prevenzione del riciclaggio basato sulla collaborazione degli intermediari per effettuare un’attività di polizia diffusa del mercato finanziario internazionale. Secondo elemento chiave del rischio cripto è la globalità che assume due forme: una più familiare relativa alla permeabilità dei confini nazionali e alla mobilità degli attori coinvolti sia utenti che prestatori di servizi; l’altra specifica della decentralizzazione delle condotte e degli oggetti di regolazione. Per quanto riguarda il primo tema, i problemi che si pongono non sono differenti rispetto a quelli afferenti ad altri fenomeni del mondo cyber: forum shopping; limitatezza territoriale dei poteri investigativi e della giurisdizione; concorrenza regolamentare; difficile ricostruzione del disegno criminoso. Per quanto invece riguarda il secondo dei problemi, le cripto-valute pongono un tema specifico in termini di a-territorialità piuttosto che di transnazionalità: invero, questi strumenti si sostanziano in null’altro che annotazioni contabili su un registro - per l’appunto la catena di blocchi - il quale indica chi ha diritto a trasferire quanto; in tal senso, l’utente più che essere proprietario di determinate criptovalute ha una pretesa rispetto al registro e ai nodi dello stesso di poter ritrasferire un certo numero di coins ad nutum; ora tale registro è per sua natura decentralizzato, con ciò si intende che ogni nodo della rete blockchain possiede una copia di tale registro e partecipa al processo di formazione del consenso per l’aggiunta dei successivi blocchi. In tal senso, le criptovalute esistono contemporaneamente in ogni nodo che compone la blockchain di riferimento, il che vuol dire - nel caso delle criptovalute più comuni che si basano su una blockchain pubblica - in più di un continente contemporaneamente. Ovviamente, questa caratteristica territoriale impatta direttamente sulla capacità di governance dei regolatori, nonché sulla congruenza delle categorie utilizzate dalla normativa preesistente con la tecnologia attuale. Da ultimo, elemento chiave del rischio cripto è la pseudonimia delle valute virtuali; più nel dettaglio, attesa la libertà e decentralizzazione nel processo di creazione di account, l’identificazione delle parti di una transazione in valute virtuali è difficoltosa; invero, seppur ogni account è ricollegato ad una stringa alfanumerica nota come chiave pubblica, tale chiave non consente di identificare in modo immediato la persona fisica che ne ha il possesso. Tale caratteristica è accentuata per le c.d. Anonymity Enhanced Cryptocurrencies (AEC), quali Monero o ZCash, le quali utilizzano differenti strumenti per rendere ancor più difficoltosa l’identificazione della chiave pubblica o della catena di transazioni. I primi segnali d’allarme, la risposta legislativa nazionale e la 32372011: prospettive regolatorie. Le criticità fin qui evidenziate sono state oggetto di analisi approfondite da parte dei regolatori nazionali e internazionali. In particolare, nel giugno 2014, in risposta alla nuova minaccia posta dalle valute virtuali e dai loro meccanismi di pagamento, il GAFI ha pubblicato il report “Virtual Currencies: key definitions and potential AML/CFT risks”, affrontando per la prima volta a livello globale la tematica, sino a quel momento quasi sconosciuta e successivamente, nel giugno 2015, ha adottato la “Guidance for a risk- based approach to virtual currencies”, sottolineando la centralità del concetto di approccio basato sul rischio non solo con riferimento all’effettiva implementazione dei suoi standards ma anche quale essenziale metodologia di analisi delle valute virtuali. Questo report, oltre ad individuare i rischi posti dalle criptovalute in termini di trasparenza e liceità dei flussi finanziari, ha dettato la linea regolamentare per questo settore, linea che è stata pedissequamente recepita dal legislatore nazionale e comunitario. Segnatamente, il GAFI, con le linee guida del 2015, concentra la propria attenzione sui “punti di intersezione” tra mercato cripto e mercato tradizionale; in tal senso, la regolamentazione delle valute virtuali passa per la regolamentazione di questi punti di intersezione in modo tale da evitare l’inquinamento del mercato legale da parte di fondi illeciti scambiati mediante criptovalute; questa strategia di delimitazione rinuncia espressamente a regolare il mondo delle valute virtuali, semplicemente puntando a salvaguardare il sistema finanziario tradizionale da possibili elementi di instabilità provenienti da tale “mercato parallelo”. A tal proposito, la principale linea guida regolatoria è la sottoposizione dei cambiavalute (exchanger) - purché operino attività di cambio cripto-to-fiat - agli stessi obblighi AML/CFT previsti per le istituzioni finanziarie, nonché ad obblighi di registrazione. A tale linea guida ha dato attuazione il legislatore nazionale il quale, primo in Europa ed in anticipo sul legislatore comunitario, ha inserito nel D.Lgs. n. 90/2017 (che dava attuazione della IV Direttiva) tra gli operatori non finanziari obbligati a svolgere i controlli antiriciclaggio “i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, limitatamente allo svolgimento dell’attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso”. Tale scelta è stata seguita a stretto giro dal legislatore comunitario il quale l’anno successivo, ha affrontato per la prima volta il tema delle criptovalute con la direttiva (UE) 2018/843 del 30 maggio 2018 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo. Con la V direttiva, il legislatore europeo ha ampliato la platea dei soggetti obbligati includendo, tra gli altri, i prestatori di servizi di cambio tra valute virtuali e valute aventi corso legale (valute fiat) e i prestatori di servizi di portafoglio digitale custodiale. Tale ampliamento operato dal legislatore comunitario ai prestatori di servizi di portafoglio, rispetto alle linee guida 2015 del GAFI, segna un primo timido scostamento rispetto alla summenzionata strategia di contenimento. Tuttavia, tale scostamento è parziale in quanto nello stesso momento in cui il legislatore include i prestatori di portafoglio esclude i cambiavalute che effettuino attività cripto-to-cripto; ciò porta ad ipotizzare che più che una cosciente svolta normativa l’estensione sia dovuta alla solo apparente somiglianza tra gestori di portafoglio e banche. La nuova guidance del GAFI. Platea più ampia, approccio invariato. Il GAFI è tornato ad occuparsi di regolamentazione delle valute virtuali mediante l’aggiornamento delle sue Raccomandazioni pubblicato nel 2018 e la guidance su “virtual asset e virtual asset service providers” del 2019. Mediante questi due documenti, il GAFI ha fondamentalmente rivoluzionato l’approccio precedentemente adottato con i report del 2014 e 2015. Fulcro di tale rivoluzione è l’estensione della platea di soggetti obbligati i c.d. Virtual Asset Service Providers (VASPs): a norma di questa ultima raccomandazione è sottoposto agli obblighi antiriciclaggio ogni persona fisica o giuridica (non diversamente disciplinata nelle raccomandazioni GAFI) che ponga in essere una o più delle seguenti attività od operazioni per conto di un’altra persona fisica o giuridica: scambio tra valute virtuali e fiat, scambio tra una o più forme di valute virtuali, il trasferimento di valute virtuali, custodia e/o amministrazione di valute virtuali o di strumenti che consentano un controllo di dette valute, nonché l’erogazione di servizi finanziari correlati ad un acquisto e/o vendita da parte di un emittente di valute virtuali. Elemento chiave, dal punto di vista dell’approccio regolatorio, di tale raccomandazione è, pertanto, l’estensione della platea degli obbligati a soggetti i quali hanno una funzione meramente intra-mercato; tale estensione rappresenta l’abbandono della strategia di contenimento adottata mediante il report del 2015, la quale limitava il controllo ai punti di intersezione tra mercato cripto e mercato fiat e l’estensione della governance antiriciclaggio anche a ciò che accade dentro il mercato delle cripto-valute. Il D.Lgs. 125/2019, il Legislatore Nazionale nuovamente all’avanguardia. Il D.Lgs. n. 125/2019 ha dato attuazione alla V Direttiva nell’ordinamento nazionale; nel procedimento di trasposizione di tale Direttiva, il legislatore ha colto l’occasione per porsi nuovamente all’avanguardia, rispetto alla traccia comunitaria; in particolare, cogliendo gli stimoli provenienti dal GAFI, la normativa italiana, a differenza di quella comunitaria, ha compiuto una decisa svolta in termini di regolamentazione degli operatori intra-mercato. Invero, rientrano tra i soggetti obbligati, oltre ai fornitori di portafoglio digitale custodiale, tutti i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale definiti come “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute”. Da questo esaustivo elenco si coglie chiaramente la volontà di sottoporre agli obblighi di registrazione e compliance AML/CFT tutti gli operatori che a qualsiasi titolo operino professionalmente nel mercato delle cripto-valute. I limiti dell’approccio attuale: temporaneità e non specificità della normativa. L’approccio normativo attuale, per come corretto ed espanso dalle ultime linee guida del GAFI, adotta una prospettiva prettamente tradizionale; invero, il filo rosso delle regolamentazioni analizzate è individuare quei soggetti che assomiglino, per struttura o per funzioni, agli intermediari tradizionalmente regolati dalla normativa AML/CFT e imporre su questi ultimi gli stessi obblighi previsti per gli operatori del mercato fiat. Tale approccio è confermato dalle recentissime linee guida del GAFI, le quali semplicemente operano un ampliamento della platea dei soggetti interessati operando un cambio di prospettiva quanto all’ambito ma non al metodo. Invero, seppur la ricomprensione tra i soggetti obbligati, nelle ultime linee guida, degli operatori che operano esclusivamente internamente al mercato cripto - quali i cambiavalute cripto-to-cripto - segna la fine di quella strategia di delimitazione e contenimento del mercato cripto e contemporaneo approccio hands-off riguardo le vicende intra-mercato che caratterizzava le precedenti normative, la metodologia regolamentare rimane sostanzialmente la stessa. Invero, la normativa, come con le valute tradizionali, si focalizza sulla collaborazione forzosa di quei partecipanti al mercato i quali svolgendo funzione, a vario titolo, di intermediari sono dei collettori di informazioni. Il regolatore non sembra ritenere, pertanto, che le criptovalute pongano rischi diversi né offrano opportunità ulteriori rispetto alle valute a corso forzoso. Ebbene, questo approccio appare, se si considerano le caratteristiche delle valute virtuali e della tecnologia blockchain, non rispondente alla realtà tecnologica; al riguardo, ragion d’essere delle criptovalute è proprio la liberazione dell’utente dalla tirannia degli intermediari creando un sistema che sostituisca la “fiducia con la prova crittografica”; in questo ecosistema gli intermediari saranno sempre, a differenza delle tradizionali transazioni online, soggetti eventuali e mai necessari. Tale parzialità della rete normativa è riconosciuta dallo stesso legislatore eurounitario nel considerando 9 della V Direttiva il quale afferma: “l’inclusione dei prestatori di servizi la cui attività consiste nella fornitura di servizi di cambio tra valute virtuali e valute reali e dei prestatori di servizi di portafoglio digitale non risolve completamente il problema dell’anonimato delle operazioni in valuta virtuale: infatti, poiché gli utenti possono effettuare operazioni anche senza ricorrere a tali prestatori, gran parte dell’ambiente delle valute virtuali rimarrà caratterizzato dall’anonimato”. Si comprende quindi come lasciare il fuoco normativo sugli intermediari non colga nel segno e sia piuttosto frutto di un approccio tradizionalista alla regolamentazione AML/CFT. Invero, data la funzione completamente differente dei prestatori di servizi in ambito di transazioni fiat rispetto alle transazioni cripto, utilizzare un approccio normativo fondamentalmente identico non sembra adeguato. Tale inadeguatezza è accentuata se si considera la summenzionata natura bifronte delle criptovalute: se dal punto di vista della dimensione soggettiva le criptovalute causano difficoltà in termini di pseudonimia e assumono caratteristiche di rischio simili al contante con l’”aggravante” della circolazione online; dal punto di vista oggettivo, le valute virtuali offrono opportunità in termini di trasparenza che potrebbero avere una portata rivoluzionaria per il sistema di controllo AML/CFT. In particolare, le transazioni in criptovalute vengono salvate su un registro il quale è pubblico, consequenziale e immodificabile; in tal senso, queste ultime potrebbero risolvere annosi problemi quali il segreto bancario, la cooperazione tra giurisdizioni e, più in generale, l’accessibilità per le autorità investigative ai dati finanziari. Non a caso l’adozione della blockchain è stata proposta in diversi ambiti - dalla sicurezza alimentare alla tassazione internazionale - proprio in chiave antifrode. In quest’ottica, il legislatore piuttosto che continuare a perseguire un approccio soggettivo dovrebbe spostare il proprio focus sulla potenzialità che tale registro blockchain offre e sviluppare soluzioni di controllo le quali sfruttino le potenzialità offerte da questo nuovo strumento in un’ottica di technology rooted legislation. In altri termini, si potrebbe pensare di spostare il controllo sul registro mediante AI based web crawlers i quali possano identificare pattern di transazioni sospette; a seguito di tale identificazione, le criptovalute associate a quella transazione potrebbero essere bloccate - mediante un sistema di blacklisting - richiedendo al possessore di identificarsi e giustificare la transazione stessa; tale blocco potrebbe essere operato tramite una presunzione - sulla falsariga ti quanto accade in tema di accertamenti tributari - di abusività del pattern di transazioni. Insomma, il legislatore dovrebbe valutare la possibilità di spostare, in tema di valute virtuali, la propria attenzione dall’identificazione dei soggetti all’identificazione delle transazioni, invertendo il processo attuale. Consulta: “Giusto bloccare la prescrizione se per il Covid si fermano anche i processi” di Liana Milella La Repubblica, 19 novembre 2020 Dopo quella sulle scarcerazioni, seconda vittoria legislativa del Guardasigilli Bonafede. Ma la Corte si divide e il relatore Zanon non scriverà la sentenza. I giudici confermano la legge del leghista Molteni che esclude il rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo. Resta tutto com’è, sia la prescrizione bloccata in tempi di Covid, sia il divieto di chiedere il rito abbreviato se il reato commesso è di quelli da ergastolo. La Corte costituzionale, in una sola giornata, respinge le richieste dei giudici sia per la prima che per la seconda questione. Con la formula “censure non fondate”. Nel primo caso vince il Guardasigilli Alfonso Bonafede, che in primavera aveva bloccato i processi, ma anche la relativa prescrizione per due mesi. Nel secondo la vittoria è del leghista Nicola Molteni che aveva firmato e proposto lo stop all’abbreviato, che dà diritto allo sconto di un terzo della pena, se il crimine commesso è punito con l’ergastolo. Legge della primavera 2019 assai vantata da Matteo Salvini. I consueti comunicati stampa, che anticipano il tenore della successiva sentenza, questa volta sono assai stringati. In particolare quello sulla prescrizione, segno di una divisione tra i giudici. Perché il relatore della questione, il costituzionalista milanese Nicolò Zanon non era d’accordo sul via libera ai decreti di Bonafede tant’è che non sarà lui a scrivere le motivazioni. Un dissenso che, da quanto trapela, sarebbe però numericamente contenuto. La legittimità dei decreti legge era contestata dai tribunali di Siena, Spoleto e Roma, ma la Corte ha stabilito che il blocco della prescrizione non contrasta con l’articolo 25 della Costituzione, laddove dice che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. In questo caso, invece, i decreti che bloccano la prescrizione sono ovviamente successivi. E riguardano quindi reati risalenti al periodo precedente. La decisione della Consulta è di particolare importanza perché nel decreto Ristori di ottobre, che copre la nuova emergenza Covid, ci sono altre norme che riguardano sempre lo stop della prescrizione in parallelo con i processi da remoto che richiedono ovviamente tempi più lunghi. Dopo due settimane comunque Bonafede vede confermate dalla Consulta le sue norme sull’emergenza virus, perché la Corte aveva già dato il via libera al decreto che obbliga i magistrati di sorveglianza a rivedere, la prima volta dopo 15 giorni e poi con cadenza mensile, la concessione degli arresti domiciliari. Una decisione quella sulla prescrizione che Gian Luigi Gatta, docente di diritto penale all’università di Milano e direttore della rivista online Sistemapenale, si era augurato nei giorni scorsi ponendo questo interrogativo: “Una violenza sessuale perpetrata sul luogo di lavoro per dodici anni ai danni di una donna affetta da grave invalidità psico-fisica: davvero è ragionevole ritenere che il lockdown della giustizia penale - l’esigenza di tutelare la salute pubblica degli attori della giurisdizione e di tutti coloro che in essa sono coinvolti - possa determinare la prescrizione di quell’odioso e gravissimo reato, nonostante lo Stato stia celebrando, per quanto lentamente, un processo per accertare fatti e responsabilità?”. La decisione della Consulta, che conferma i decreti della primavera, va proprio nella direzione di salvare la prescrizione. Quanto alla conferma dello stop al rito abbreviato per i reati gravi e gravissimi puniti con l’ergastolo, legge contestata dai tribunali di La Spezia, Napoli e Piacenza, la futura sentenza, che sarà scritta dal relatore Francesco Viganò, motiverà che la legge “è espressione della discrezionalità legislativa in materia processuale, e non si pone in contrasto con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione), con il diritto di difesa (articolo 24), con la presunzione di non colpevolezza (articolo 27), né con i principi del giusto processo, in particolare con quello della ragionevole durata (articolo 111)”. Una decisione questa che invece dispiacerà molto ai super garantisti e agli avvocati che hanno molto contestato la legge. Consulta: emergenza Covid, non fondate le censure sulla sospensione della prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2020 Infondate anche le censure sull’esclusione del rito abbreviato per i delitti punibili con l’ergastolo. La Corte costituzionale, riunita oggi in camera di consiglio, ha dichiarato non fondate le censure sulla sospensione della prescrizione per l’emergenza Covid. Ed ha giudicato ugualmente non fondate le censure sull’esclusione del rito abbreviato per i delitti punibili con l’ergastolo. Per quanto riguarda la prescrizione, la Consulta ha esaminato le questioni di legittimità riguardanti l’applicabilità della sospensione - prevista dai decreti legge 18 e 23 del 2020, emanati per contrastare l’epidemia - anche nei processi per reati commessi prima dell’entrata in vigore delle nuove norme. Secondo i Tribunali di Siena, di Spoleto e di Roma, la sospensione retroattiva della prescrizione (per la stessa durata della sospensione dei termini processuali: 9 aprile-11 maggio 2020) violerebbe il principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che le questioni sono state dichiarate non fondate. In particolare, la Corte ha ritenuto che la disciplina censurata non contrasti con l’articolo 25, secondo comma, della Costituzione né con i parametri sovranazionali richiamati dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane. Con riferimento alle questioni relative all’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai reati punibili con la pena dell’ergastolo - sollevate dai Tribunali di La Spezia, Napoli e Piacenza - anche in questo caso, in attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa fa sapere che le questioni sono state dichiarate non fondate. La disciplina censurata, si legge nella nota ufficiale, è espressione della discrezionalità legislativa in materia processuale, e non si pone in contrasto con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione), con il diritto di difesa (articolo 24 della Costituzione), con la presunzione di non colpevolezza (articolo 27, secondo comma, della Costituzione), né con i principi del giusto processo, in particolare con quello della ragionevole durata (articolo 111, secondo comma, della Costituzione). Processo penale, la Corte costituzionale dà ragione al Conte uno e due di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 19 novembre 2020 Respinte due questioni di costituzionalità sollevate entrambe da tre tribunali. Promossa l’esclusione dal rito abbreviato dei reati condannabili con l’ergastolo (vecchia bandiera della Lega) e lo stop retroattivo alla prescrizione per l’emergenza Covid. Respingendo due questioni di costituzionalità sollevate entrambe da tre diversi tribunali, la Corte costituzionale ha messo ieri sera il sigillo su due delle norme più contestate in materia di processo penale del governo Conte uno e del governo Conte due. Nel primo caso si tratta dell’esclusione dal rito abbreviato dei reati punibili con l’ergastolo, legge bandiera della Lega firmata dall’allora sottosegretario all’interno e colonnello di Salvini Nicola Molteni. Nel secondo di un ulteriore stop alla prescrizione - ormai cancellata per tutti i processi dopo la sentenza di primo grado - legato all’emergenza Covid nei tribunali, e stabilito retroattivamente prima dal decreto Cura Italia a marzo e poi dal decreto Liquidità ad aprile. In questo secondo caso le questioni di costituzionalità erano state sollevate dai tribunali di Siena, Spoleto e Roma, convinti che la sospensione dei termini di prescrizione violasse il principio di legalità penale - scolpito sia nella nostra Costituzione (articolo 25) sia nella Convenzione europea per i diritti umani (articolo 7) - che vieta l’applicazione retroattiva di norme sfavorevoli al reo. E la prescrizione nell’ordinamento italiano è (era?) pacificamente considerata un istituto di natura sostanziale, non una regola processuale. La decisione della Corte - relatore il giudice Zanon - per quanto limitata al caso della sospensione a causa dell’emergenza Covid (che ha tenuto fermi i tribunali) andrà letta con attenzione nelle motivazioni. Perché può pesare nel dibattito politico sulla prescrizione più in generale, congelato dal compromesso di maggioranza nella formula bizantina dell’articolo 14 del disegno di legge delega Bonafede sul processo penale. Dove si introduce lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado, prescrizione che però si recupera se in appello interviene il proscioglimento. Così come la prescrizione si ferma ugualmente, per 18 mesi, se viene proposto appello contro l’assoluzione in primo grado e il reato rischia di prescriversi entro l’anno. Il disegno di legge delega di riforma del processo penale che contiene questa norma, presentato otto mesi fa, è ancora in commissione alla camera sottoposto alle critiche dagli esperti che sfilano in audizione. La seconda sentenza della Corte ieri sera in camera di consiglio è stata ugualmente di non fondatezza, in questo caso con qualche sorpresa in più. Oltre al gip di La Spezia, al gup di Piacenza e alla Corte di assiste di Napoli che avevano sollevato la questione di legittimità sulla non applicabilità ai reati punibili con l’ergastolo del rito abbreviato, diversi tribunali avevano nel frattempo scelto di fermarsi per aspettare la decisione dei giudici delle leggi. In effetti i reati gravi astrattamente punibili con l’ergastolo sono quelli per i quali gli imputati hanno più convenienza ad accedere al giudizio abbreviato e ai conseguenti sconti di pena, anche perché è frequente che le prove siano già agli atti e il dibattimento non sia indispensabile. Riportare questi reati nel rito tradizionale sta già avendo pesanti ricadute sui tribunali oberati dalle cause. Tant’è che sia il Csm in un parere del febbraio 2019, sia l’Unione camere penali, sia la stessa Associazione magistrati nel novembre 2018 si erano espressi contro questa legge voluta dalla Lega (5 Stelle a ruota) prevedendone l’effetto negativo sulla durata dei processi. Ma la Corte, anche in questo caso in attesa delle motivazioni (il relatore ieri in udienza è stato il giudice Viganò), non ha ravvisato la violazione degli articoli 3 (uguaglianza), 24 (diritto di difesa), 27 (presunzione di non colpevolezza) e 111 (ragionevole durata del processo) della Costituzione. La Consulta “promuove” il blocca-prescrizione del lockdown e la legge di Salvini sull’ergastolo di Errico Novi Il Dubbio, 19 novembre 2020 Non è una notizia esaltante per la tutela delle garanzie. Ma è una lezione doppia. Che arriva da quella stessa Corte costituzionale capace, con altre recenti pronunce, di estendere i confini dello Stato di diritto ben oltre i pregiudizi del giustizialismo. Con due decisioni assunte ieri, e di cui naturalmente si conosce solo il senso ma non le motivazioni, la Consulta ha infatti dichiarato infondate le questioni di legittimità poste sia sullo stop al decorso della prescrizione nella fase 1 del lockdown (blocco esteso dal Dl Cura Italia ai reati commessi in epoche precedenti le restrizioni anti- covid) sia per la legge con cui la Lega a inizio 2019 riuscì ad abolire l’abbreviato per i reati da ergastolo. Sarebbero due pessime notizie, al primo sguardo. In realtà, a chi le vorrà leggere in modo serio, suoneranno come una sveglia. Nel senso che ci sono norme tollerabili, sì, all’interno del perimetro della Carta ma comunque viziate da una logica restrittiva, claustrofobica, sul significato del processo e della pena. Non è pensabile che il giudice delle leggi ripari a qualsiasi strappo deciso o avallato dal Parlamento. Non si può sempre confidare, con un filo di vigliaccheria, nel solito provvidenziale intervento della Consulta, di fronte alle inerzie (come sul fine vita) o alle iperboli giustizialiste. O il legislatore riesce da solo, senza tutele postume, a tenere l’ordinamento sui binari dello Stato di diritto, o i deragliamenti possono essere così perfidi da non consentire neppure la sanzione della Corte costituzionale. Certo, è un discorso che vale soprattutto per lo stop all’abbreviato sui reati da ergastolo, legge bandiera del Carroccio e contestatissima - soprattutto per il conseguente ingolfamento delle Corti d’assise - non solo dagli avvocati ma pure dalla magistratura, Csm in prima linea. È chiaro che la decisione assunta ieri a Palazzo della Consulta sulla “prescrizione bloccata causa covid” ha un altro orizzonte. Evidentemente si è ritenuto che un evento straordinario qual è il rinvio di gran parte dei processi imposto dalla pandemia rientri nel novero delle circostanze che possono bloccare i termini di estinzione dei reati, a prescindere dall’epoca in cui i reati sono stai commessi. Non esulteranno i giudici di Siena, Spoleto e Roma che nelle loro ordinanze di remissione avevano proposto ben altre valutazioni. Ma sulla prescrizione il vero rischio è che una pronuncia tecnica come quella comunicata ieri venga tradotta in incoraggiamento da chi, come il guardasigilli Alfonso Bonafede, ha voluto il blocco della prescrizione dopo tutte le sentenze di primo grado, non solo di fronte alle pandemie. Quando uno snodo delicatissimo delle garanzie qual è la prescrizione diventa oggetto di trattative disinvolte, come quelle condottte dalla Lega con i 5 Stelle, il minimo è che una sentenza costituzionale metta il bavaglio anche chi, come Renzi, vorrebbe ora ridiscutere la riforma. Se una frittata è fatta, le cose possono solo peggiorare. In ogni caso, nel primo dei due comunicati diffusi nel tardo pomeriggio di ieri, la Consulta ha fatto sapere di aver innanzitutto “esaminato le questioni di legittimità riguardanti l’applicabilità della sospensione della prescrizione - prevista dai decreti emanati per contrastare l’emergenza coronavirus - anche nei processi per reati commessi prima dell’entrata in vigore delle nuove norme, dichiarando che “le questioni sollevate non sono fondate”. Secondo i tribunali di Siena, di Spoleto e di Roma”, ricorda il comunicato della Corte, “la sospensione retroattiva della prescrizione, prevista per la stessa durata della sospensione dei termini processuali, dal 9 marzo all’ 11 maggio del 2020, poteva violare il principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole”. Ma il giudice delle leggi ha appunto ritenuto che invece “la disciplina censurata non contrasti con l’articolo 25 della Costituzione né con i parametri sovranazionali richiamati dall’articolo 117”. Nella seconda nota diffusa da Palazzo della Consulta si legge che “non viola la Costituzione la legge che esclude la possibilità di essere giudicati con rito abbreviato per reati per cui è prevista la pena dell’ergastolo. La Corte costituzionale”, ricorda il comunicato, “ha esaminato le questioni di legittimità sollevate dai tribunali di La Spezia, Napoli e Piacenza e”, appunto, “le ha dichiarate “non fondate”. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane, ma la Consulta fa già sapere che “tale legge, approvata dal Parlamento nell’aprile 2019, è “espressione della discrezionalità legislativa in materia processuale”, e che “non si pone in contrasto” con i “principi di uguaglianza e di ragionevolezza” (articolo 3 della Costituzione), con il “diritto di difesa” (articolo 24), con la “presunzione di non colpevolezza” (articolo 27, secondo comma, della Costituzione), “né con i principi del giusto processo, in particolare con quello della ragionevole durata” (articolo 111, secondo comma, della Costituzione)”. Due notizie non incoraggianti. Di fronte alle quali chi, nell’attuale maggioranza, dal Pd a Italia viva, crede nelle garanzie, non dovrebbe arrendersi ma cominciare a scuotersi. L’imputato non può impugnare per assenza della parte civile il sequestro conservativo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2020 Solo la parte civile può ricorrere per la lesione dei propri diritti a seguito della misura cautelare richiesta dal Pm. Contro il sequestro preventivo per lesione dei diritti della parte civile può ricorrere solo quest’ultima. Il sequestro conservativo non è ricorribile per cassazione da parte dell’imputato se non per violazione di legge od omessa motivazione e non nel merito, come il valutato rischio di incapienza del suo patrimonio. Non ha quindi interesse l’imputato a ricorre contro l’ordinanza del tribunale della libertà per la lesione dei diritti della parte civile perché impossibilitata a costituirsi. Così la Corte di cassazione ha respinto, con la sentenza n. 32467/2020, il ricorso e ha chiarito che il sequestro preventivo richiesto dal Pm non incide sul medesimo diritto della parte civile, anzi precisa che la misura domandata dal Pubblico ministero e disposta dal Gip tutela anche gli interessi della persona offesa assente nel procedimento una volta che si sia costituita. Il caso - Nel caso in esame si procedeva per il reato di circonvenzione di incapace e la vittima non era costituita in giudizio all’atto del sequestro. La misura era stata quindi esplicitamente richiesta a garanzia del pagamento della pena pecuniaria e delle spese del procedimento, ma ciò - come già chiarito in altro precedente dalla stessa Cassazione - va a vantaggio anche della parte civile, che è la sola legittimata a ricorrere contro il decreto di sequestro per lesione della garanzia delle obbligazioni civili. Infatti, se ricorrono problemi e conseguenti ritardi alla costituzione della parte offesa il sequestro chiesto dal Pm tutela anche la parte civile, la sola figura che oltre al Pm ha la prerogativa di richiedere la misura. Quindi se è vero che il Pm può chiedere la misura solo a garanzia della pena pecuniaria, delle spese processuali e di qualsiasi altra somma dovuta all’Erario è anche vero che la concreta difficoltà alla costituzione della parte civile determina che la misura conservativa tuteli anche la parte civile assente non ancora costituita. Umbria. Ginetti (Iv): “Contagi in carcere aumentano di ora in ora, Bonafede intervenga” umbriadomani.it, 19 novembre 2020 “La situazione di diffusione del contagio da Covid 19, dovuto anche al sovraffollamento, sta diventando esplosiva negli istituti penitenziaria di tutta Italia. Il Ministro Bonafede intervenga immediatamente per ridurre il rischio di contagio negli istituti penitenziari dove i nuovi casi sera aumentano spaventosamente di ora in ora”. A chiederlo è la senatrice di Italia Viva, Nadia Ginetti, in un’interrogazione urgente presentata al Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. “Nel solo carcere di Terni - prosegue - risultano oltre 70 gli infettati tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria. È notizia di pochi giorni fa che di questi 30 sono risultati negativi ma che ci sia malcontento sia per la gestione dei tamponi sia per l’assenza di percorsi dedicati ai detenuti Covid. Sempre nelle stesse ore, inoltre, si sono registrati i primi positivi alla Casa Circondariale di Perugia con 10 casi tra detenuti ed agenti”. “I dati del Ministero sembrano non coincidere con l’allarme lanciato dal personale e dai sindacati che riportano alle 20 di ieri sera 758 casi fra i detenuti - distribuiti in 76 penitenziari - e 936 fra gli operatori. Bonafede faccia immediatamente chiarezza: occorre un Piano di gestione che indichi una modalità per affrontare subito tale emergenza con sezioni separate per detenuti contagiati, personale sanitario per una adeguata assistenza e personale di polizia per la sorveglianza”, conclude la senatrice Nadia Ginetti. Napoli. Muore per Covid detenuto di Poggioreale, era ricoverato al Cotugno di Nico Falco fanpage.it, 19 novembre 2020 Un detenuto di 68 anni, che stava scontando la pena nel carcere di Poggioreale, è deceduto ieri mattina, 17 novembre, nell’ospedale Cotugno di Napoli, dove era ricoverato da alcune settimane dopo essere stato contagiato dal coronavirus. L’uomo soffriva di diverse patologie pregresse. I garanti dei detenuti hanno chiesto di applicare i domiciliari a chi ha meno di un anno da scontare. Un 68enne napoletano, Giuseppe I., detenuto nel carcere di Poggioreale da tempo per reati gravi, è deceduto per Covid nell’ospedale Cotugno di Napoli, dove era stato trasferito alcune settimane fa; l’uomo, in sovrappeso e con 3 pacemaker, soffriva già di diverse patologie ed era stato inizialmente ricoverato all’ospedale Cardarelli, dove era rimasto per qualche giorno, per essere poi trasferito nella struttura specializzata in malattie infettive in seguito al peggioramento delle condizioni di salute. La morte risale a ieri mattina, martedì 17 novembre, il contagio sarebbe avvenuto in cella. Nei giorni scorsi Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, garanti dei detenuti rispettivamente per la Campania e per il Comune di Napoli, insieme ai rappresentanti di associazioni di ex detenuti e ai parenti di alcuni detenuti si erano rivolti al prefetto di Napoli Marco Valentini perché si facesse portavoce col Governo delle problematiche all’interno delle carceri per quanto riguarda l’emergenza Covid-19 in carcere. “Rilancio il mio appello alla politica a fare la sua parte - dice Ciambriello - si ridiscutano gli articoli 23, 24 e 28 del decreto Ristori del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede relativamente alle norme anti Covid. È una questione di civiltà”. Per i garanti sarebbe preferibile convertire in arresti domiciliari la pena per chi ha un anno di carcere da scontare e fare ricorso al braccialetto elettronico per chi ha invece ancora da espiare pene tra uno e due anni. Arresti domiciliari chiesti anche per chi ha una pena residua di 6 mesi, compresi i condannati per reati ostativi, con la possibilità di curarsi al di fuori delle carceri per chi soffre di malattie croniche. Napoli. Positivo al Covid nel carcere di Poggioreale: “In cella con altri 6 detenuti” di Stefano Di Bitonto internapoli.it, 19 novembre 2020 Una bomba epidemica. È quella che si rischia nel carcere di Poggioreale dove ogni giorno si conta un positivo al Covid in più. Nello specifico sono stati accertati 102 casi nel carcere di Poggioreale. Una situazione di estrema criticità testimoniata da una drammatica lettera inviata da un detenuto, risultato positivo al Covid. L’uomo, Raffaele Di Grazia, tramite il suo legale, l’avvocato Gandolfo Geraci, ha scritto di suo pugno una missiva in cui racconta il dramma che si sta consumando all’interno delle celle. Una lettera che arriva a poche ore dalla notizia di un detenuto morto di Covid proprio nel carcere napoletano. “Sono costretto a condividere la mia quarantena con altri sei detenuti in un’unica cella. Non sono state messe in atto misure anti-contagio adeguate lasciando le celle aperte a regime dinamico, mettendo in quarantena un’unica cella senza un’adeguata misura di sanificazione o spostamenti specifici tra reparti specifici per quarantena”. I detenuti specificano che il contagio si sarebbe propagato nel padiglione Venezia a causa di un uomo che, prima di essere stato trasferito in comunità, è stato trasferito in quest’ala del carcere di Poggioreale: “Così il virus si è propagato provocando il diffondersi dell’epidemia tra noi detenuti tra cui uno grave che è stato portato all’ospedale Cardarelli di Napoli a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni. In seguito al risultato dei tamponi effettuati a pandemia già in corso i detenuti sono stati suddivisi tra positivi e non positivi in stanze non sanificate nello stesso reparto riunendo i carcerati positivi da un minimo di sette o nove persone a un massimo di tredici”. Nonostante queste misure il rischio contagio rimane alto come si evince da un altro passaggio della lettera: “Gli spazi del passeggio e i telefoni del reparto sono condivisi tra detenuti positivi e non e non assistiamo alle necessarie opere di sanificazione”. Il vero alleato del virus è il sovraffollamento grazie al quale non si riesce ad arginare la diffusione. “Nel nostro padiglione ci sono tossicodipendenti, malati di Hiv, epatite, detenuti che necessitano di cure costanti. Non ci sono strumenti funzionanti nella struttura, l’altro giorno il termometro era sprovvisto di batterie, dopo essere state sostituite dall’infermiere di turno davano una temperatura di 33,3 gradi, ovviamente non corretta e mi è stata misurata la temperatura con il termometro al mercurio risultando di 38,5 gradi. Solo a quel punto sono stato trasferito al pronto soccorso interno dove viene ripetuta la misurazione con un termometro elettronico risultando 36,6. Mi è stata data una pasticca di Bentelan e senza approfondire il caso sono stato riportato nel padiglione di provenienza. La mia preoccupazione riflette quella degli altri detenuti”. Sulla situazione a Poggioreale è intervenuto anche Pietro Ioia, garante cittadino dei detenuti: “La situazione è esplosiva, il vero problema è il sovraffollamento. È successo quello che non avremmo mai voluto accadesse. Ormai la pandemia sta prendendo il sopravvento e i carcerati hanno poco spazio, difficilmente potranno difendersi da questa pandemia che porterà sulla coscienza in primis il ministro della giustizia Bonafede”. Torino. Dopo il cancro il Covid-19, appello del vecchio boss per non morire in carcere di Luca Fazzo Il Giornale, 19 novembre 2020 Guida è stato un luogotenente della camorra. Ma ora è in cella per storie di denaro prestato. È stato uno dei nomi importanti della mala milanese degli anni Ottanta, il rappresentante sotto la Madonnina della camorra napoletana: ora Enzo Guida è un detenuto alle prese con problemi di salute drammatici che rischiavano di spedirlo al Creatore già prima che in carcere contraesse il Covid. Cancro e Coronavirus fanno di lui un paziente a massimo rischio, eppure non gli viene permesso di curarsi fuori dalla prigione. Così la figlia, la compagna e il fratello ieri hanno scritto al Dap, la direzione delle carceri, per chiedere quali siano i provvedimenti che sono stati presi o che verranno presi per fronteggiare la situazione in cui versa l’anziano boss. Ma la risposta si sa già: nessuno. Il Tribunale di sorveglianza di Torino (Guida è detenuto alle Vallette) continua a respingere tutte le istanze di differimento della pena presentate dal legale di guida, il milanese Angelo Colucci. Unica finestra, quella tra aprile e maggio, quando Guida venne mandato a casa insieme a qualche centinaio di altri detenuti proprio per l’emergenza Covid. Si sollevò un’ondata di indignazione e il ministero rispedì Guida e gli altri detenuti di peso a scontare la pena in cella. Eppure, rispetto alla primavera scorsa, la situazione di Guida è peggiorata: allora doveva fare i conti con il tumore, ora in carcere ha contratto anche il virus. Era stato lui stesso a segnalarlo al difensore il 12 novembre scorso: “Il virus Covid-19 è stato contratto all’interno della sezione di appartenenza - scrisse il giorno stesso l’avvocato al giudice - e oltre a lui altre diciotto persone sono state attinte dal virus”. Niente da fare, anche se persino dalla Procura generale della Cassazione è venuto nei giorni scorsi un appello alla magistratura perché riduca all’indispensabile le carcerazioni. Certo, Enzo Guida ha un passato di grande caratura: è a Milano da una vita (“ormai mi sento milanese, se giro per Napoli mi perdo”), ha diretto traffici di droga, organizzato rapine, contrabbandato, si è seduto al tavolo delle trattative con gli emissari della mafia siciliana. Nel 2005 gli diedero l’ergastolo per l’omicidio di Carlo Biino, un camorrista ammazzato alla Bovisa nel 1991, ma poi fu assolto. E ora è in carcere per un reato quasi da pensionato, i prestiti a tassi spropositati che faceva insieme al suo vecchio sodale Alberto Fiorentino, Un brutto reato, ma abbastanza da farlo morire dentro? Lodi. Venti detenuti e due guardie positivi al Covid: focolaio nel carcere di Carlo Catena Il Cittadino, 19 novembre 2020 Situazione precipitata in poche settimane nonostante i controlli serrati, ma in dieci sono già guariti. Venti detenuti positivi nel carcere di Lodi su un totale di poco meno di settanta, e alcuni giorni fa la situazione sarebbe stata ancora più critica con una trentina di persone positive, quasi la metà del totale: nella casa circondariale di via Cagnola a Lodi si è sviluppato un focolaio di covid-19, come ha confermato nel pomeriggio di ieri anche la Commissione speciale sulla situazione carceraria di Regione Lombardia, dopo aver incontrato il provveditore dell’amministrazione penitenziaria regionale Pietro Buffa. Il carcere di Lodi viene indicato come sede di un focolaio assieme a quello di Busto Arsizio. A Lodi la malattia ha colpito anche due agenti della polizia penitenziaria, almeno uno dei quali ha avuto bisogno di cure ospedaliere. Ad affrontare la situazione, il direttore Gianfranco Mongelli, che è in applicazione e che è anche impegnato come vice direttore del carcere di Bollate, ma il sistema carcerario lombardo non si è presentato impreparato alla seconda ondata: l’organizzazione prevede il trasferimento di tutti i detenuti positivi in un carcere hub, inizialmente individuato solo a San Vittore e poi con il coinvolgimento anche di Bollate, e, in caso di necessità, anche di altre strutture, per un totale di 403 posti Covid. Il bilancio fornito ieri dalla Commissione regionale speciale sulla situazione carceraria in Lombardia era di 172 detenuti contagiati, 11 ricoverati e 142 operatori in quarantena per positività o contatti con positivi. L’obiettivo è di tenere la maggior parte delle carceri, Lodi compresa, covid free, allontanando subito chi ha segni di contagio per riportarlo poi nella struttura di provenienza solo a guarigione avvenuta. Situazioni critiche di salute non ce ne sarebbero, anche per l’età media non elevata dei detenuti, e rispetto al picco di alcuni giorni fa, una decina di loro sono già rientrati a Lodi. A preoccupare è la velocità con la quale è esploso il contagio, appena tre settimane fa si parlava di una guardia e di un solo detenuto. Chiunque acceda è sottoposto a prova della temperatura e saturimetria nella tenda triage esterna. I colloqui con i familiari sono possibili solo via telefono e sono sospesi quelli con i volontari. Aosta. Coronavirus: 20 detenuti e 9 agenti positivi al carcere di Brissogne aostasera.it, 19 novembre 2020 Tutti positivi asintomatici o paucisintomatici. Solo un 62enne ha avuto bisogno di ricovero, ma è già stato dimesso ed è rientrato in carcere. Sono 20 i detenuti della casa circondariale di Brissogne, all’11 novembre, risultati positivi al Coronavirus. “Sono tutti positivi asintomatici o paucisintomatici - ha spiegato in Consiglio regionale l’Assessore regionale alla Sanità Roberto Barmasse, rispondendo ad una interrogazione del capogruppo della Lega Vda Andrea Manfrin - Solo per un caso un 62enne con altre patologie si è reso necessario il ricovero in ospedale”. L’uomo, dopo essersi negativizzato, ha fatto ritorno nei giorni scorsi in carcere. Nove sono invece i casi positivi al virus rilevati fra gli agenti penitenziari, di cui sei “per contagio extra-lavorativo” e tre a seguito dello screening - 143 tamponi rapidi, seguiti dai tamponi molecolari per i positivi - effettuato su tutti i detenuti e il personale. Positivi anche due amministrativi, mentre nessun caso è stato rilevato fra il personale sanitario. Per cinque detenuti, con patologie, in accordo con il Magistrato, sono state previste misure alternative alla carcerazione. “Il primo caso riscontrato nella casa circondariale - ha spiegato Barmasse - risale al 10 ottobre e riguarda un detenuto tradotto dal carcere Lorusso Cutugno di Torino, dove non venivano effettuati test prima del trasferimento”. L’Assessore ha, quindi, spiegato come in base al protocollo sanitario adottato a maggio gli spazi siano stati rimodulati, andando ad individuare “dieci posti letti per isolamenti per detenuti asintomatici, 22 posti di isolamento per eventuali sintomatici”. I colloqui con i visitatori sono stati sospesi, mentre vengono garantite le telefonate e le videoconferenze. Ai detenuti è stata poi proposta la vaccinazione antinfluenzale e sono state fornite, “regolarmente” le mascherine chirurgiche. Busto Arsizio. Covid in carcere: 90 detenuti in quarantena. Difficile trovare medici di Simona Carnaghi malpensa24.it, 19 novembre 2020 Sono 22 i detenuti in isolamento nel carcere di Busto Arsizio perché positivi al Covid 19. Ma questi “Se ne aggiungono una novantina circa che sono stati messi in quarantena. Proprio oggi (mercoledì 18 novembre) abbiamo incontrato una delegazione dei detenuti dopo aver concordato, che i vertici regionali della sanità penitenziaria, che per contenere il contagio sarebbe stato meglio adottare questa misura per tutti coloro che hanno avuto contatti stretti con i positivi. Perché tra questi potrebbero nascondersi dei negativi in incubazione”. Il direttore della casa circondariale bustocca Orazio Sorrentini inquadra così una situazione complessa che si sta cercando di tenere sotto controllo. Quarantena meno rigida - “La quarantena è meno rigida dell’isolamento - spiega ancora il direttore - I detenuti in quarantena possono, ad esempio, uscire per il periodo d’aria consentito”. Naturalmente sempre a distanza e con tutte le cautele del caso. “Al momento non mi risultano episodi di contrarietà alle misure”. Il punto sulla situazione della diffusione del Covid-19 nelle carceri lombarde è riassunta in questi numeri: 174 detenuti contagiati, accolti in gran parte nei Covid hub di San Vittore e Bollate, 11 ricoverati e 142 operatori in quarantena fiduciaria per positività o contatti con persone risultate positive. Sono alcuni dei dati resi noti ieri pomeriggio, mercoledì 18 novembre, nella Commissione speciale sulla situazione carceraria, presieduta da Gianantonio Girelli (PD), che ha fatto il punto sull’andamento della situazione sanitaria all’interno degli istituti penitenziari lombardi con il Provveditore per la Lombardia, Pietro Buffa. Buffa ha spiegato che rispetto all’ondata del marzo scorso, si è voluto cambiare strategia, vista la velocità di diffusione del virus. Si è passati quindi da un hub solo, quello di San Vittore, a 403 posti, distribuiti tra le varie carceri lombarde, per accogliere i detenuti malati. Buffa ha poi sottolineato che focolai importanti sono stati registrati negli istituti di Busto Arsizio e Lodi e ha sollevato il problema della difficoltà di reperire sanitari, medici e infermieri, in grado di eseguire e processare i tamponi. Concludendo il suo intervento ha confermato l’impegno dell’amministrazione anche sul tema del tracciamento “passaggio fondamentale per capire come si muove il virus e come si veicola l’infezione”. Struttura pronta davanti all’emergenza - “Non si può che esprimere apprezzamento per il lavoro che si sta facendo nelle carceri lombarde - ha detto il Presidente Girelli - in un momento ancora più critico rispetto a quello già impegnativo del marzo scorso. Significa che ci troviamo di fronte a una struttura penitenziaria pronta ad affrontare l’emergenza, che non dimentica ma anzi fa tesoro di quanto vissuto nei mesi scorsi”. Busto Arsizio. Covid nelle carceri: situazione esplosiva e detenuti in sciopero della fame di Orlando Mastrillo legnanonews.com, 19 novembre 2020 Una parte dei detenuti del carcere bustocco ha iniziato una protesta chiedendo misure alternative al carcere e più telefonate coi parenti. La Regione convoca il responsabile del Dap Lombardia. La situazione nel carcere di Busto Arsizio sta emergendo in tutta la sua drammaticità. In alcune celle della struttura di via per Cassano Magnago è iniziato uno sciopero della fame da parte di un gruppo di detenuti che, tramite i loro legali, hanno fatto avere alle testate giornalistiche un testo che racconta il grande disagio che si sta vivendo nelle anguste celle delle realtà penitenziarie come quella di Busto Arsizio che già da anni soffre una situazione di sovraffollamento. I detenuti chiedono la valutazione e l’accelerazione delle decisioni sulle misure alternative al carcere, colloqui telefoni giornalieri con i parenti, scarcerazioni anticipate dove possibile e risoluzione dei problemi di chi ha figli minori a carico. La situazione è stata affrontata oggi dalla commissione speciale sulla situazione carceraria in Lombardia. Un punto della situazione voluto dal presidente Gianantonio Girelli con il provveditore Dap della Lombardia, Pietro Buffa. Il quadro è il seguente: 174 detenuti contagiati, accolti in gran parte nei Covid hub di San Vittore e Bollate, 11 ricoverati e 142 operatori in quarantena fiduciaria per positività o contatti con persone risultate positive. Sono alcuni dei dati resi noti questo pomeriggio nella Commissione speciale. Buffa ha spiegato che rispetto all’ondata del marzo scorso, si è voluto cambiare strategia, vista la velocità di diffusione del virus. Si è passati quindi da un hub solo, quello di San Vittore, a 403 posti, distribuiti tra le varie carceri lombarde, per accogliere i detenuti malati. Buffa ha poi sottolineato che focolai importanti sono stati registrati negli istituti di Busto Arsizio e Lodi e ha sollevato il problema della difficoltà di reperire sanitari, medici e infermieri, in grado di eseguire e processare i tamponi. Concludendo il suo intervento ha confermato l’impegno dell’amministrazione anche sul tema del tracciamento “passaggio fondamentale per capire come si muove il virus e come si veicola l’infezione”. “Non si può che esprimere apprezzamento per il lavoro che si sta facendo nelle carceri lombarde - ha detto il Presidente Girelli - in un momento ancora più critico rispetto a quello già impegnativo del marzo scorso. Significa che ci troviamo di fronte a una struttura penitenziaria pronta ad affrontare l’emergenza, che non dimentica ma anzi fa tesoro di quanto vissuto nei mesi scorsi”. Benevento. Covid, 13 contagi tra operatori e detenuti del carcere di Capodimonte Il Mattino, 19 novembre 2020 Il coronavirus varca le porte del carcere: sono 13 i positivi tra operatori e detenuti nel carcere di Capodimonte a Benevento. Il direttore è “pronto a fronteggiare qualsiasi emergenza”. Covid nel carcere di Capodimonte. “Ad oggi - ha spiegato il direttore del carcere di Capodimonte Gianfranco Marcello a proposito dell’accertata positività al Covid di alcuni dipendenti e detenuti - sono risultati positivi 6 poliziotti penitenziari e 1 dipendente amministrativo. Sono tutti a casa con sintomi lievi. I detenuti positivi sono 6, si tratta di 5 uomini e una donna, giunti da poco nella struttura. Sono stati separati dagli altri fin dall’ingresso, sono in isolamento e quando il tampone darà esito negativo saranno reintegrati in struttura”. Le visite ai familiari al momento sono sospese “ma la durate delle videochiamate è passata da 20 a 30 minuti”. Sulmona (Aq). Covid, salgono a sei i positivi nel penitenziario reteabruzzo.com, 19 novembre 2020 Salgono a sei i casi accertati di Covid 19 nel carcere di Sulmona, tre nell’area sanitaria e altri tre tra i poliziotti penitenziari. Lo screening sul personale ha portato alla luce i sei nuovi casi. Casi subito isolati che non hanno avuto contatti stretti con i detenuti. Il sistema di prevenzione adottato dall’amministrazione penitenziaria dà quindi risultati. Proprio a causa dei casi covid nel penitenziario Mauro Nardella ha sollecitato il Dipartimento per l’immediata conversione dell’unità operativa collaboratori in reparto Covid riservato agli eventuali detenuti positivi. “Resta ovvio che la responsabilità per le eventuali disfunzioni che ne potranno derivare dalla non predisposizione immediata di un idoneo presidio covid saranno da ascrivere a chi osteggerà l’unico percorso fattibile per l’individuazione di un reparto ermetico ed esclusivo covid quale è appunto il reparto collaboratori esentando da possibili inefficienze e responsabilità invece(oltre a tutti gli operatori di Polizia penitenziaria) il direttore e il comandante di reparto ai quali va il mio plauso per l’ottimo lavoro sinora svolto” afferma Nardella, che ha inviato la proposta al “Garante Regionale delle persone detenute o private della libertà personale Abruzzo la cui presente è indirizzata affinché si faccia anch’esso portavoce di questa impellente e non più procrastinabile conversione”. Lucca. Colloqui sospesi, detenuti in una gabbia di silenzi di Elena Marmugi La Nazione, 19 novembre 2020 Da mesi senza poter vedere i propri cari. Chiusi in spazi al limite del distanziamento. E nella maggior parte dei casi la “pretesa” è solo quella di fare due parole. La condizione in cui versano le carceri fin dal lockdown di marzo, aggravata ora dalla seconda ondata dell’epidemia, è al limite dell’umano. Una situazione, drammaticamente diffusa nei penitenziari di tutta Italia e che, certamente, riguarda anche quello lucchese per il quale la garante dei detenuti dà voce a un allarme sociale senza precedenti che non risparmia certo chi sta scontando una pena detentiva. L’avvocato Alessandra Severi denuncia infatti, sul piano sociale oltreché emergenziale, la deriva distruttiva della quotidianità carceraria che, appunto, si riversa su quella di intere famiglie: “Nel carcere di Lucca c’è un forte senso di angoscia e di abbandono da parte dei detenuti proprio per queste ragioni, dall’assenza dei colloqui con i volontari, alla mancata ripresa delle attività e in alcuni casi per l’impossibilità di vedere i propri cari e i figli minori. Durante i colloqui molti di loro esprimono la semplice esigenza di parlare con qualcuno. L’introduzione delle videochiamate durante il lockdown, e mantenuta fino a oggi, ha migliorato lo stato delle cose, permettendo ad alcuni di loro di mantenere un contatto con i propri cari, anche lontani - spiega Severi - Durante il lockdown grande è stato l’impegno degli agenti penitenziari, delle educatrici, della direzione e di tutta l’area sanitaria, che si trovano oggi, di nuovo, a dover gestire questa nuova fase emergenziale, momento particolarmente delicato per il fatto che anche nella Casa Circondariale di Lucca, attualmente, le persone presenti sono in numero maggiore rispetto alla capienza ordinaria della struttura”. Un’altra problematica è legata alla mancanza di uno spazio esterno nella struttura: “Nonostante la criticità di questo periodo il Comune di Lucca mi coadiuva regolarmente nel monitoraggio della situazione complessiva del San Giorgio - conclude Severi - Inoltre il Comune ha recepito l’esigenza dei detenuti di avere uno spazio esterno avviando la progettazione di un campo polivalente nell’istituto, oltre ad aver rafforzato il controllo e la collaborazione con il Gruppo volontari carcere, associazione che gestisce la Casa San Francesco, dove si trovano persone ai domiciliari”. Biella. È bufera sulle schede Sim in dono ai detenuti: la Lega contro la raccolta fondi La Stampa, 19 novembre 2020 L’hanno battezzata “Un minuto vale oro - Chiamarsi accorcia le distanze” la raccolta fondi per far sì che i detenuti della casa circondariale di Biella possano continuare ad avere contatti con i familiari. L’iniziativa, promossa dalle associazioni che aderiscono al Tavolo del Carcere in collaborazione con la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, ha però indispettito i rappresentanti della Lega. Le porte di via dei Tigli con la pandemia sono state chiuse ai visitatori e l’operazione ha l’obiettivo di permettere ai reclusi, che non possono avere telefoni personali, di mantenere vivi i loro rapporti affettivi con mogli, figli e congiunti. “Nel corso del lockdown di marzo, una raccolta fondi interna alle associazioni aveva garantito la disponibilità di oltre 9 mila minuti di telefonate - spiegano dal Tavolo -. Minuti importanti, fondamentali per il benessere della popolazione della casa circondariale, per le famiglie e per gli operatori che a vario titolo agiscono all’interno del sistema carcerario. Con l’ultimo Dpcm, sono stati nuovamente sospesi i colloqui in presenza e l’urgenza di aiutare chi non riesce a coprire con i suoi risparmi l’acquisto di una Sim telefonica è tornata con prepotenza. Per questo motivo, abbiamo promosso una nuova raccolta per aiutare chi, in questo momento, si trova nuovamente in difficoltà”. Ma la Lega, schierata dalla parte delle guardie carcerarie ha subito incalzato: “L’iniziativa - dice il capogruppo in Comune Alessio Ercoli - appare un’inutile beffa. Ci risulta che i detenuti dispongano già di 5 chiamate vocali a settimana più 8 videochiamate al mese che possono quindi coprire tutti i giorni settimanali. L’iniziativa del Tavolo si manifesta come una decisione unilaterale, assunta ignorando gli agenti penitenziari e senza considerare l’ulteriore lavoro che andrebbe a gravare sulle loro spalle e ad aggravare una situazione già molto difficile sia per il Covid che per l’atavica carenza di personale, che si riflette sulle loro condizioni di sicurezza e li costringe a turni massacranti. Appoggiamo quindi l’invito dei sindacati della polizia penitenziaria di non dare seguito all’inutile iniziativa e rivolgiamo anche l’invito alla Garante dei detenuti di non abusare della nostra fiducia”. Non si è però fatta attendere la risposta della direttrice del carcere, Tullia Ardito, che ha chiarito la situazione: “Nell’impossibilità di avere colloqui in presenza, già nella scorsa primavera erano state autorizzate videochiamate su Whats’app e telefonate in misura maggiore rispetto a quanto previsto dall’ordinamento penitenziario - spiega in una nota. L’amministrazione ha individuato i detenuti non abbienti per destinare loro una somma allo scopo e, vista la positiva esperienza della prima volta, è stata la direzione stessa a chiedere al Tavolo del carcere di attivarsi per un analogo sostegno. Il progetto è da considerarsi esclusivamente come un segnale di solidarietà alla stessa stregua per il quale all’interno del carcere era stata attivata la raccolta di generi alimentari da donare all’esterno in occasione della Giornata nazionale del banco alimentare”. Rovigo. Fp-Cgil: “Nel carcere sempre meno personale, la situazione è drammatica” polesine24.it, 19 novembre 2020 L’allarme lanciato dal sindacato con una lettera ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Il sindacato Fp-Cgil Veneto denuncia la grave situazione in cui si trova oggi la Casa Circondariale di Rovigo, causata dai continui distacchi in uscita di unità di polizia penitenziaria e di un’assenza, a breve, di un Direttore. Infatti l’attuale Direttore terminerà a giorni il suo distacco per ritornare nuovamente nella propria sede di provenienza, in una città della Sicilia. I recenti distacchi del personale di polizia penitenziaria risalgono a pochi giorni fa, uno al Gom e l’altro in un altro Istituto per rinforzo. Se la situazione dei distacchi in uscita da Rovigo continua si arriverà ben presto a un punto di non ritorno, dove molto probabilmente non ci saranno più le condizioni di garantire/assicurare i diritti sia ai poliziotti che ai detenuti”, comincia così la lettera che il sindacato veneto ha inviato ai vertici del Dap e al Garante Nazionale dei detenuti sulla criticità all’interno del carcere di Rovigo. “Occorre sottolineare che, all’interno della Casa Circondariale di Rovigo è stata collocata, un anno fa, una sezione di detenuti classificata AS 3, seppur l’Istituto essendo di recente costruzione non è idoneo a contenere la suddetta tipologia di detenuti, questo lo si deduce da come è strutturato il carcere, che dimostra in tutti i suoi lati l’inadeguatezza a contenere la suddetta sezione. Questo dimostra che le realtà, quella del carcere e quella del Dap, sono completamente diverse e prive di qualsiasi collegamento tra di loro. Dove il Dipartimento che Lei dirige risulta essere sordo e indifferente ai problemi rappresentati dalla periferia, nonostante che la stessa informi codesto Ufficio della vacanza di organico, dei numerosi problemi strutturali, dei problemi dati dai detenuti AS 3 e non ultimo dei problemi, la pandemia, dove ci sono ben 4 unità positive al Covid-19 e altre unità poste in isolamento fiduciario, che incidono negativamente sul buon andamento dell’Istituto, mentre non vi è nessun positivo tra i detenuti”. “Come O.S. abbiamo chiesto più volte la Sua presenza e intervento in quanto responsabile del Dipartimento per affrontare insieme ai problemi che affliggono il personale giornalmente. Per onestà intellettuale alcuni sono stati affrontati quali le aggressioni al personale ma altri ancora devono ancora essere affrontati. Abbiamo anche più volte chiesto a codesta Amministrazione di ascoltare i bisogni del proprio personale e non di calare dall’alto protocolli o convenzioni, che sono senza dubbio utili, ma che al personale non interessa. Signor Presidente, ci ha fatto piacere sentire il suo videomessaggio di vicinanza al personale, si spera che esso non sia solo di facciata o di circostanza perché al personale non serve questo, soprattutto a Rovigo in questo momento difficile dove la vacanza di personale di polizia penitenziaria si fa sentire fortemente come, fra poco, si farà sentire fortemente anche la vacanza di un Direttore stabile. Il carcere di Rovigo ha necessità di risposte e d’interventi decisivi atti a migliorare la situazione lavorativa e detentiva, che ora non ha. Per i motivi suesposti, la scrivente O.S. Fp-Cgil Veneto penitenziari chiede di aprire un confronto con Lei sulla grave situazione di Rovigo al fine di evitare il gap, che esiste tra Centro e periferia e allo stesso tempo Le chiediamo la revoca dei distacchi in uscita dall’Istituto rodigino non rientranti in quelli previsti dalla Legge, il tutto per evitare una debacle dei diritti sia dei poliziotti che dei detenuti”. Milano. L’Ambrogino d’Oro alla direttrice del carcere di Bollate Cosima Buccoliero di Roberta Rampini Il Giorno, 19 novembre 2020 Pugliese d’origine, milanese d’adozione, 52 anni, da 17 è alla guida del carcere di Bollate: “Un riconoscimento per quello che stiamo facendo”. C’è anche Cosima Buccoliero, direttore uscente del carcere di Bollate, tra i personaggi che il prossimo 7 dicembre riceveranno l’Ambrogino d’Oro, la massima onorificenza concessa dal Comune di Milano a chi ha dato lustro alla città. Cinquantadue anni, originaria della Puglia, la Buccoliero lavora nel carcere bollatese dal 2003 quando le è stata assegnata la poltrona di direttore aggiunto, nel febbraio 2019 è diventato direttore. In tutti questi anni ha garantito la continuità affiancando i direttori che si sono succeduti. “Sono felicissima non solo per me ma anche perché è il giusto riconoscimento dell’impegno del carcere di Bollate in questa difficile gestione del Covid. Sono grata alla città di Milano per questa attestazione di stima e di vicinanza”, ha commentato. Laureata in giurisprudenza nel 1992 presso l’università degli studi di Bologna con una tesi in diritto penitenziario, lavora nell’amministrazione penitenziaria dal 1997 e nel 2003 è stata assegnata come direttore aggiunto all’istituto penitenziario di Milano-Bollate e nel febbraio 2019 è diventato direttore. Sono stati anni intensi in cui ha dato il contributo per avviare numerose iniziative dietro le sbarre: dalla Academy Cisco, che consente ai detenuti di acquisire certificazioni nel settore informatico da spendere sul mercato del lavoro fino all’asilo nido aziendale inaugurato destinato ai figli del personale ma aperto ai bambini del territorio e ai figli delle mamme detenute. La sua candidatura all’Ambrogino d’Oro è stata sottoscritta da chi in questi anni ha lavorato e collaborato con lei dentro e fuori il carcere. “Noi operatori, a diverso titolo rappresentanti la società civile all’interno del carcere siamo orgogliosi che sia stata accettata la nostra proposta al Comune di Milano per la benemerenza civica dell’Ambrogino d’Oro - commentano le associazioni che hanno sottoscritto la richiesta. Un atto dovuto. Un grande riconoscimento alla professionalità, alla competenza, al coraggio ed all’umanità e a chi nel e del carcere sa guardare oltre”. Ultima nota positiva è la capacità della Buccoliero nella gestione estremamente complessa e rischiosa del Covid-19. Buccoliero ama la sua terra ma anche Milano, da lei descritta cosi, “Milano è una città in cui si possono coniugare lavoro e passioni, impegni e amicizie. Un luogo in cui è radicato un associazionismo straordinario, un mondo che in questi anni ha dato molto al carcere e a tutto ciò che ruota intorno. Questa città, ma più in generale direi tutta la Lombardia, è la culla ideale per il mio mestiere: qui è nata la visione diversa del carcere di cui vi ho parlato. Qui c’è terreno fertile per il cambiamento, qui mi sento a casa”. Il futuro dell’Italia si deve scrivere adesso di Venanzio Postiglione Corriere della Sera, 19 novembre 2020 Il traguardo più lontano è Natale, con i dubbi sul cenone e i parenti, mentre un discorso serio sul Paese del 2021 e magari del 2022 non lo fa quasi nessuno. La zona rossa diventerà arancione. E viceversa. La gialla aspetterà un po’, vedremo. Il governatore che chiude vuol restare aperto. Ma quando aprono chiederà la chiusura. Il federalismo sognato da Carlo Cattaneo due secoli fa ora si è trasformato in una macchia di colore sulla cartina: dalla questione meridionale o settentrionale alla questione cromatica. Non si vive mese per mese (avercene), ma giorno per giorno. Il traguardo più lontano è Natale, con i dubbi sul cenone, i parenti stretti e i regali, mentre un discorso serio sull’Italia del 2021 e magari anche del 2022 non lo fa nessuno. O quasi nessuno. Il futuro si scrive adesso: se solo qualcuno decidesse di farlo. La sanità è quella della primavera ma anche di dieci e venti anni fa. Come un palazzo in zona sismica che spera solo non arrivi il terremoto perché non è stato messo in sicurezza o ricostruito ex novo. Paolo Valentino ci ha raccontato il modello tedesco (Corriere di sabato 14): la presenza capillare con i medici della porta accanto, i posti in terapia intensiva passati da 28 mila a 40 mila, i tamponi allargati e anche veloci, il localismo che ha fatto un passo indietro di fronte all’emergenza. A volte non si sa dove pescare: qui ci sarebbe già un sistema pronto da osservare e tradurre in italiano. E non è solo perché ora siamo bastonati dalla pandemia. L’investimento sulla salute, sulla sanità, avrebbe senso per noi tutti e per le prossime generazioni, “ce lo ritroviamo” per dirla facile. L’attuale modello si basava (e si basa) soprattutto sullo slancio e la generosità dei singoli, lo sanno anche i ragazzini e adesso sta succedendo di nuovo. Ci affidiamo ai medici, sperando sempre di trovare in corsia il dottor Rieux che illumina La Peste di Camus: “Non so quello che mi aspetta né quello che accadrà, dopo. Per il momento ci sono dei malati e bisogna guarirli”. È così ogni giorno, nei nostri ospedali. Poi la tempesta passerà e prenderà forma un modello diverso: se viene immaginato, pensato, discusso, deciso, organizzato. Si tratta di guardare oltre la prima curva, epidemiologica e non solo. Il Recovery fund non è ancora uscito dai labirinti europei, ma poi succederà: anche qui sarà meglio arrivare preparati invece che studiare la sera prima. Questione di idee, progetti, legati a risorse e scadenze. “The great reset”, per citare Time: nel senso di azzerare ma soprattutto di riavviare. Il digitale non l’ha inventato la pandemia, ma lo scatto è sotto i nostri occhi: una crescita da accompagnare, seguire, sospingere. L’ambiente sarà la prateria del 2021: un bimbo delle elementari nativo ecologista e Joe Biden parlano la stessa lingua, era anche ora, il Paese ha tutte le caratteristiche per giocare la partita. La scuola ripartirà dalle scartoffie e dalle riunioni o riscoprirà i professori più bravi e appassionati. E così il turismo, il nostro turismo, che può trascorrere questi mesi in letargo o prendere la rincorsa. Se è vero che ognuno ha due patrie, e la seconda è l’Italia, avremo un mare di programmi da scrivere o riscrivere. Chi ci sta pensando? Una task force e una cabina di regia per ogni settore? O gli attuali ministri (e i vari staff, che esistono e sono pagati dallo Stato) tireranno fuori le idee e la tenacia? Le Regioni hanno altre proposte illuminanti al di là della clausura dei settantenni? E per le prossime emergenze si tornerà al metodo che ci invidiava tutto il mondo, quello inventato da Giuseppe Zamberletti, o si ripeterà il festival del non coordinamento? L’ansia per il Natale è sacrosanta ma non può diventare il nuovo alibi nazionale: mezza apertura, un cambio di colore, potete passeggiare addirittura senza cane, il resto si vedrà. Sarebbe anche il tempo della leadership. Nel senso di competenza, talento, fiducia, testa e cuore: al governo e all’opposizione, a Roma e nelle Regioni. Ma è un tema troppo grande per un solo articolo. L’esempio più bello, in questi giorni di tragedia, ci arriva da un signore di 92 anni, Silvio Garattini, fondatore del Mario Negri, grande scienziato. Vorrebbe fare il vaccino antinfluenzale: la Lombardia è tra le aree più ricche del mondo, chiede da anni maggiore autonomia, però non è riuscita ancora a vaccinare tutti gli anziani. Garattini potrebbe procurarsi la dose in un attimo. Ma si è rivolto al suo medico e adesso attende la chiamata. “Da cittadino voglio aspettare, come tutti, il mio turno in coda”. A proposito di leadership.