Anche il carcere forse è una zona rossa. Ma non ci sono i dati di Giulia Merlo Il Domani, 18 novembre 2020 In un mese e mezzo i positivi al Covid sono passati da 20 a 1.694. Il Dap, però, non divulga direttamente i numeri, ma li invia a sindacati e Garante. E mancherebbero i detenuti contagiati in regime di 41bis. Da fine settembre al 16 novembre il numero dei detenuti positivi in carcere è passato da 10 a 758, distribuiti in 76 carceri su 190. Nello stesso mese e mezzo, il personale risultato positivo è cresciuto da 11 persone a 936. Per ora, la situazione sembra gestibile, rispetto alla prima ondata. “Al di là di qualche caso isolato a livello periferico, non notiamo particolari responsabilità che potrebbero essere imputate all’Amministrazione penitenziaria, la quale - per quanto possibile nelle condizioni date - si è adoperata al meglio per fornire dispositivi di protezione individuale in numero adeguato e ha diramato importanti direttive per prevenire e isolare il contagio, che erano mancate nella primavera scorsa”, dice Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-pa Polizia penitenziaria. Tuttavia, “tutto ciò rischia di non essere sufficiente e di mandare la situazione sanitaria fuori controllo”, nel caso in cui non si intervenga sul fattore che determina la diffusione del contagio: il sovraffollamento nelle strutture. Secondo quanto riportato dal Garante nazionale dei detenuti, attualmente in carcere sono “54.767 le persone registrate ma 53.992 quelle fisicamente presenti. L’accentuata differenza tra registrati e presenti è dovuta in larga parte al numero di licenze e permessi che il decreto legge 137/2020 ha prorogato fino alla fine dell’anno”. Un calo che però non è sufficiente, considerando che le strutture detentive hanno una capienza effettiva di circa 47mila posti. Tradotto in percentuale: il sovraffollamento è del 115 per cento. Il numero è anche più alto in alcune strutture, come il carcere di Latina, dove il sovraffollamento tocca il 190 per cento. Inoltre, i posti disponibili in concreto sono meno di quelli ipotizzati se si considera che, per prevenire i contagi, il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha diramato una circolare che impone a tutti gli istituti di creare delle “sezioni Covid” dove separare i positivi, che devono passare la quarantena in isolamento in cella singola. La richiesta è corale: arriva dal Garante, da Antigone, l’associazione che si occupa di detenuti, ma anche dal sindacato della polizia penitenziaria, che chiede “il deflazionamento sensibile della densità detentiva; rafforzamento e supporto efficace della Polizia penitenziaria; potenziamento incisivo dei servizi sanitari”. La carenza di dati - Calcolare il rapporto tra tamponi e positivi in carcere, tuttavia, è fuorviante se confrontato con il dato nel paese perché lo screening è molto più capillare: tutti i nuovi detenuti, infatti, prima di entrare nella propria sezione vengono sottoposti al test e, se trovati positivi, messi in isolamento. Un elemento che complica la mappatura del contagio è legato alla diffusione dei dati. Il “censimento” dei positivi avviene giornalmente, sia per quanto riguarda i detenuti che il personale, e i dati confluiscono al Dap. Il Dipartimento, che dipende dal ministero della Giustizia, però non li rende pubblici e consultabili sul suo sito, ma li mette a disposizione del Garante e dei sindacati che decidono discrezionalmente quando divulgarli. Dubbi sulla completezza dei dati sono stati avanzati in particolare dai sindacati di polizia, con riferimento ai casi di positività dei detenuti al 41bis, il cosiddetto regime di carcere duro che prevede un isolamento molto stringente. Ma soprattutto un regime applicato in 12 carceri a circa 650 detenuti con un’età media di 65 anni e tra i quali figurano molti ultra-ottantenni con problemi di salute pregressi al Covid. Il protocollo quadro sottoscritto dal Dap e dai sindacati di Polizia prevede che “tutte le articolazioni centrali e regionali dovranno comunicare sistematicamente alle organizzazioni sindacali, in forma anonima, il numero del personale e dei detenuti risultati positivi”. Tuttavia, lo stesso sindacato Uilpa polizia penitenziaria ha sollevato dubbi sul fatto che “i dati forniti risultino incompleti e comunque tali, a volte, da suscitare più dubbi di quanti ne dipanino”. A sostenere l’ipotesi è il fatto che alcuni giornali - in particolare il Dubbio - hanno segnalato la positività di almeno 4 detenuti nel carcere di Milano Opera dopo aver ricevuto segnalazioni dagli avvocati difensori, mentre le comunicazioni del Dap ai sindacati indicavano che a Opera nessun detenuto fosse positivo. In una nota del 13 novembre De Fazio ha scritto di aver “ripetutamente sollevato tale incongruenza a margine di riunioni con i vertici del Dap” e chiesto spiegazioni, a cui è seguito un nuovo report che rendicontava 4 detenuti positivi a Opera, senza però indicare in quale regime di detenzione si trovano. Segnalazioni analoghe di detenuti al 41bis contagiati arrivano anche dal carcere di Tolmezzo, dove sarebbero positivi almeno 12 reclusi in regime di carcere duro. Anche in questo caso, però, mancano riscontri ufficiali e il Garante ha solo potuto confermare che ci sono detenuti positivi a Tolmezzo, ma i dati che riceve dal Dap non dividono i reclusi per circuiti di appartenenza. Covid, contagi in aumento nelle carceri di Niccolò Carratelli La Stampa, 18 novembre 2020 Le cause: spazi insufficienti per isolare i positivi, presidi sanitari carenti o inesistenti, buchi di organico della Polizia penitenziaria. Spazi insufficienti per isolare i positivi, presidi sanitari carenti o inesistenti, buchi di organico della polizia penitenziaria. Non è difficile mettere in fila le cause della crisi legata all’epidemia di Covid nelle carceri italiane. Gli ultimi dati diffusi dal Partito Radicale e dall’associazione Antigone registrano, a livello nazionale, 658 detenuti positivi, di cui 32 ricoverati in ospedale, mentre tra gli agenti di Polizia penitenziaria i contagiati sono 824, tra i dipendenti amministrativi 65. Per avere un’idea di quanto la crescita sia allarmante, basta ricordare che lo scorso 8 ottobre le cifre ufficiali diffuse dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parlavano di 34 detenuti e 61 operatori di polizia contagiati. Oggi, su 192 istituti di pena del nostro Paese, 75 sono stati colpiti dal virus. In 11 carceri si contano più di dieci casi, in 66 i positivi oscillano fra 1 e 9. Le situazioni più critiche a Napoli (Poggioreale e Secondigliano), Milano (San Vittore e Bollate), Alessandria, Terni e Larino. Dati allarmanti, tanto che il Garante nazionale delle persone private della libertà sottolinea la necessità di pensare ad una “riduzione di presenze ben più consistente” di quella prevista. Più benefici per svuotare le celle - Nel decreto Ristori sono stati inseriti benefici per una platea di oltre 3300 detenuti: arresti domiciliari per chi ha meno di 18 mesi di pena residua, ma con il braccialetto elettronico (non dovrà indossarlo chi ha una condanna non superiore ai sei mesi), licenze premio straordinarie anche di durata superiore a quella prevista dalla legge, cioè 45 giorni complessivi per ogni anno di detenzione fino al 31 dicembre. Nella maggioranza c’è una discussione in corso, in particolare il Pd spinge per un ulteriore ampliamento delle agevolazioni, per tenere fuori dalle celle un maggior numero di detenuti. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, sembra intenzionato ad assecondare l’orientamento del Parlamento. Nella legge di bilancio, appena approvata dal Consiglio dei ministri, vengono stanziati fondi per le assunzioni anche nella polizia penitenziaria. Intanto le ultime circolari del Dap hanno stabilito nuove regole: qualora in un istituto si arrivasse ad una soglia del 5% di positivi, c’è la possibilità di sospendere tutte le attività, ad eccezione di quelle essenziali. Al commissario per l’emergenza Covid Arcuri, invece, è stato chiesto il reperimento di ambulatori mobili e la fornitura continua di test antigenici rapidi. Detenuti senza dimora - Poi ci sono alcuni problemi oggettivi, come quello che riguarda i detenuti che possono usufruire degli arresti domiciliari, ma non hanno una casa: quasi 1200 sono senza fissa dimora. Il piano prevede che le regioni si attivino per trovare loro un alloggio. È stata stanziata una somma di circa 5 milioni di euro. Nel frattempo sono stati individuati negli istituti spazi specifici per tre tipologie di detenuti, che devono essere separati fra loro e dal resto della comunità carceraria. Quelli in isolamento precauzionale perché provenienti da un altro carcere, dal pronto soccorso o reduci da un ricovero ospedaliero. Quelli in isolamento perché hanno avuto contatti stretti con soggetti positivi. Infine i contagiati in quarantena. Senza dimenticare i nuovi detenuti, che vanno in ogni caso in isolamento preventivo e cautelare. Il problema è dove, perché ricavare nuovi spazi in molte strutture è praticamente impossibile. Tanto più se non si riesce a ridurre sensibilmente il cronico sovraffollamento delle celle. Carcere, continua il pressing: “Ridurre i detenuti in cella” di Giulio Isola Avvenire, 18 novembre 2020 Sovraffollamento, aumento dei casi di contagio e gestione dei soggetti più fragili sono alla base della richiesta dei Garanti regionali dei detenuti. “Accelerare sulle misure alternative”. Non c’è isolamento che tenga, nemmeno quello più severo previsto dal regime 41bis per i reati di associazione mafiosa: cresce ovunque il contagio nelle carceri italiane, anzi la diffusione del Covid proprio nel 41bis “ha superato di gran lunga i casi registrati nella primavera scorsa”. Lo affermano i Garanti regionali dei detenuti, che hanno scritto al Parlamento alla vigilia della conversione in legge del decreto Ristori (il quale già prevede di porre ai domiciliari 2.202 reclusi) per chiedere di diradare ulteriormente le presenze in cella così da “poter giungere a una significativa riduzione del numero dei detenuti negli istituti di pena, a partire da quello già indicato dal Garante nazionale, applicando in modo estensivo e razionale le stesse previsioni dal decreto senza sacrificio della sicurezza sociale, nell’auspicio che le stesse possano andare a beneficio anche dei soggetti più deboli (psichicamente fragili, tossicodipendenti, alcoldipendenti, senza fissa dimora)”. Tradotto: le carceri italiane, notoriamente sovraffollate, stanno diventando pericolosi focolai di contagio e per “spegnerli” è necessario praticare anche lì il distanziamento nell’unico modo possibile: applicando cioè misure di detenzione alternative. Anche perché ormai l’avanzata del virus fa strage pure negli operatori penitenziari: lunedì erano ben 936 i casi accertati di positività fra gli agenti e 758 fra i detenuti, distribuiti in 76 penitenziari, contro rispettivamente 885 e 638 solo venerdì scorso. “Un balzo in avanti” di cui è giustamente preoccupato Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa, che per la Polizia penitenziaria vorrebbe più “deflazionamento”, supporto adeguato e “potenziamento incisivo dei servizi sanitari in carcere”: “Chiediamo alla comunità scientifica e a chi di competenza di calcolare l’indice di contagio (Rt) in carcere e nuove misure da parte del governo. Indugiare ancora potrebbe essere funesto”. Nell’appello al Parlamento i Garanti dei detenuti ritengono che le misure previste dal decreto Ristori siano una “risposta inadeguata”: non è sufficiente far uscire solo le 2.202 persone fornite di “idoneo domicilio” e con “un residuo di pena inferiore ai 18 mesi e nessuna preclusione ostativa”. Occorre aumentare i numeri. Come? “Riteniamo pienamente condivisibile e dunque auspichiamo - scrivono i Garanti - che possa essere accolta anche la proposta di prevedere una liberazione anticipata speciale e la sospensione dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive fino al 31 dicembre 2021”. Inoltre, per assicurare tempestività ai provvedimenti, bisogna facilitare le pratiche dei magistrati di sorveglianza che decidono i domiciliari e potenziarne gli uffici, che “peraltro sono significativamente in sofferenza”. L’emergenza virus in cella è stata rimarcata anche dal presidente dell’associazione Antigone Sicilia Pino Apprendi, che ha appena visitato le carceri palermitane dell’Ucciardone e Pagliarelli: “Il Covid in carcere c’è, ed è un fatto che deve preoccupare tutti perché si tratta di un luogo vissuto oltre che dai detenuti anche da tante persone che ci lavorano: appartenenti alla polizia penitenziaria, assistenti sociali, educatori, psicologi, infermieri, medici, impiegati amministrativi, volontari; quasi lo stesso numero dei ristretti. Il pericolo è alto: nella prima fase eravamo un poco più tranquilli, ma ora il Covid è entrato prepotentemente” in prigione. Persino dove vige il 41bis: ad esempio nel carcere di Tolmezzo su tre positivi, due sarebbero appunto detenuti sottoposti a regime di isolamento e anche trai 15 positivi di Opera (Milano) ci sarebbero reclusi al 41bis. “Il virus è ovunque - assicura il sindacalista De Fazio - e arriva anche nei reparti ad alto isolamento dove comunque i detenuti hanno diritto a un minimo di socialità e poi hanno contatti con gli agenti, con lo spesino e con chi gli porta il vitto”. Appello al Parlamento: carcere, sovraffollamento e pandemia da Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà Il Manifesto, 18 novembre 2020 Una significativa riduzione delle presenze in carcere contribuirebbe positivamente ad affrontare nel migliore dei modi la gestione sanitaria interna della prevenzione e dei focolai. Il carcere è una realtà in cui il rischio della diffusione del covid-19 è molto alto: il fisiologico assembramento di un numero considerevole di persone in uno spazio angusto non permette, infatti, di rispettare le regole minime di distanziamento fisico e di igiene funzionali alla prevenzione del virus. La patologica situazione di sovraffollamento che caratterizza le nostre carceri contribuisce inoltre fatalmente ad accrescere il rischio di diffusione del contagio. Di qui la necessità di incidere significativamente sul numero delle presenze in carcere, strutturalmente, attraverso una politica di coerente e costante decarcerizzazione, e nell’immediato, per la tutela del diritto alla salute di detenuti e operatori penitenziari. In questo senso sono andati gli appelli del Comitato Europeo per la prevenzione della Tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti che nel marzo di quest’anno ha stilato dieci raccomandazioni/principi indirizzati alle autorità degli Stati membri del Consiglio d’Europa, in cui veniva sollecitata l’urgenza di ridurre il numero delle presenze nelle carceri e quello della Commissaria, Dunja Mijatovi?, all’utilizzo, senza discriminazioni, di qualsiasi possibile alternativa al carcere. Il contagio all’interno degli istituti riflette in questi ultimi tempi, purtroppo, in maniera amplificata il trend in crescita registrato anche nelle nostre città. Si sta, infatti, diffondendo in maniera assai preoccupante: in pochi giorni personale e detenuti positivi si sono rapidamente moltiplicati, superando di gran lunga i casi registrati nella primavera scorsa. Dagli ultimi rilevamenti, al 13 novembre, emergono più di 600 positivi tra la popolazione detenuta e più di 800 tra gli operatori del settore penitenziario, di cui la maggior parte afferente alla polizia penitenziaria. Senza contare che troppo spesso la necessità di individuare spazi per l’isolamento delle persone contagiate dal virus implica un’ulteriore contrazione degli spazi destinati alla restante popolazione detenuta. Una significativa riduzione delle presenze in carcere contribuirebbe positivamente ad affrontare nel migliore dei modi la gestione sanitaria interna della prevenzione e dei focolai, favorendo migliori condizioni lavorative per gli operatori penitenziari e permettendo, ove possibile, la prosecuzione in condizioni di sicurezza, delle attività lavorative e formative, di istruzione, culturali o sportive. L’auspicio è quello di non dover tornare a quella chiusura generalizzata delle attività trattamentali imposta in primavera. Devono inoltre essere assicurate alla generalità dei detenuti le telefonate e le videochiamate, anche oltre il minimo garantito da legge e regolamento e, finché possibile, i colloqui in presenza. In questo contesto, le misure adottate dal Governo con il d.l. n. 137/2020 sembrano però, così come articolate, fornire una risposta inadeguata. Dai dati forniti dal Garante Nazionale nel suo report settimanale emerge che solo 2202 persone detenute potrebbero usufruire della detenzione domiciliare, avendo un idoneo domicilio, un residuo di pena inferiore ai 18 mesi e nessuna preclusione ostativa. Rivolgiamo pertanto un appello al Parlamento affinché voglia, in sede di conversione, adottare tutte le misure opportune per poter giungere ad una significativa riduzione del numero delle presenze dei detenuti negli istituti di pena, a partire da quelle già indicate dal Garante nazionale, applicando in modo estensivo e razionale le stesse previsioni previste dal decreto, senza sacrificio della sicurezza sociale, nell’auspicio che le stesse possano andare a beneficio anche dei soggetti più deboli (psichicamente fragili, tossicodipendenti, alcoldipendenti, senza fissa dimora). Si auspica che la configurazione di queste misure sia tale da facilitare lo scrutinio da parte dei Magistrati di Sorveglianza, i cui uffici peraltro sono significativamente in sofferenza, e da parte delle Procure. Riteniamo pienamente condivisibile e dunque auspichiamo che possa essere accolta anche la proposta di prevedere una liberazione anticipata speciale e la sospensione dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive fino al 31 dicembre 2021. I Garanti territoriali: “Meno detenuti per ridurre il rischio contagi in carcere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 novembre 2020 I Garanti territoriali chiedono misure deflattive. Confermati i casi di Covid al 41bis di Tolmezzo, ai quali si aggiungono 23 del reparto Alta sicurezza. Il Covid 19 è entrato prepotentemente anche nelle carceri che, però, rimangono piene. Ormai da giorni arrivano sollecitazioni al governo - garanti territoriali compresi - perché introduca efficaci misure deflattive per permettere una sensibile diminuzione della popolazione carceraria, per poter consentire soprattutto l’applicazione dell’assistenza sanitaria e le misure di contenimento all’interno dei penitenziari. Alle ore 20 di lunedì sera erano ben 758 fra i detenuti (distribuiti in 76 penitenziari) e 936 fra gli operatori i casi accertati di positività al virus. Solo qualche giorno prima erano, rispettivamente, 638 e 885. Scoppiato il caso Tolmezzo - A quanto pare, però, mancano i dati dei positivi al carcere di Tolmezzo. Nel report del Dap risultano solo 3 detenuti contagiati, ma da fonti interne de Il Dubbio e avvocati come Maria Teresa Pintus che assistono i reclusi al carcere duro, risulta che è stata contagiata una intera sezione al 41bis. E nelle ultime è emerso che in Alta Sicurezza ci sarebbero 26 persone positive. Per quanto riguarda il carcere di Opera, solo dopo una sollecitazione da parte del segretario generale della Uilpa Gennarino De Fazio, a distanza di qualche settimana finalmente sono comparsi i dati dei contagiati al 41bis. Anche se, da più parti, giunge notizia che nel carcere milanese risultano contagiati almeno una decina di detenuti in alta sicurezza, come evidenzia la testimonianza che abbiamo pubblicato. Quindi i numeri sarebbero addirittura maggiori da quello che risulta dai dati ufficiali. Come mai l’ennesima distrazione? I Garanti ai presidenti dei gruppi parlamentari del Senato - Nel frattempo la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà ha inviato un appello ai presidenti dei gruppi parlamentari del Senato, dove sta per iniziare l’esame degli emendamenti al decreto Ristori. Un appello affinché il Parlamento adotti “tutte le misure opportune, per poter giungere ad una significativa riduzione del numero delle presenze dei detenuti negli istituti di pena, a partire da quelle già indicate dal Garante nazionale, applicando in modo estensivo e razionale le stesse previsioni previste dal decreto, senza sacrificio della sicurezza sociale, nell’auspicio che le stesse possano andare a beneficio anche dei soggetti più deboli (psichicamente fragili, tossicodipendenti, alcoldipendenti, senza fissa dimora)”. I Garanti territoriali auspicano che “la configurazione di queste misure sia tale da facilitare lo scrutinio da parte dei magistrati di sorveglianza, i cui uffici peraltro sono significativamente in sofferenza, e da parte delle procure. Riteniamo pienamente condivisibile e dunque auspichiamo che possa essere accolta anche la proposta di prevedere una liberazione anticipata speciale e la sospensione dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive fino al 31 dicembre 2021”. I garanti sostengono che il carcere è una realtà in cui il rischio della diffusione del Covid-19 è molto alto, e “il fisiologico assembramento di un numero considerevole di persone in uno spazio angusto - conclude l’appello dei Garanti territoriali - non permette, infatti, di rispettare le regole minime di distanziamento fisico e di igiene funzionali alla prevenzione del virus”. Allarme Covid nelle carceri, i Garanti dicono sì alla “liberazione anticipata speciale” di Liana Milella La Repubblica, 18 novembre 2020 Sono già 1.700 i casi tra i detenuti e il personale. Il Dem Mirabelli presenta tre emendamenti al Senato per allargare le maglie del decreto Ristori del Guardasigilli Bonafede. È tempo, causa Covid, di pensare a una “liberazione anticipata speciale” per chi si comporta bene nelle patrie galere? Una misura praticabile, 75 giorni di sconto di pena anziché 45 ogni sei mesi, com’è già avvenuto cinque anni fa. La propongono i Garanti dei detenuti, mentre il Senato comincia a discutere le misure anti Covid per le carceri contenute nel decreto Ristori, e il Pd propone emendamenti che ne ampliano maglie e applicazione. E mentre resta indigesta l’ipotesi di un indulto e di un’amnistia. Della seconda si è persa la memoria, l’ultima risale al 1990 e riguardava le pene fino a quattro anni. L’ultimo indulto invece è più recente, era il 2006, ma gli si rimproverò, negli anni a seguire, che le carceri si fossero via via riempite rispetto alle scarcerazioni avvenute. Oggi - in tempo di Covid e mentre i numeri del contagio, documentati quotidianamente dai sindacati degli agenti, salgono velocemente - la radicale Rita Bernardini ripropone una misura di clemenza in un generale silenzio. Ma dalla Conferenza dei Garanti dei detenuti arriva una proposta - la “liberazione anticipata” - che potrebbe essere politicamente praticabile. Il virus certo non rispetta i tempi parlamentari. Ecco il “balzo in avanti” in pochi giorni. Oltre duecento contagiati in più tra detenuti e operatori all’interno delle carceri. Venerdì erano in tutto 1.523, 638 tra i detenuti e 885 tra il personale, che però sconta la quarantena a casa. Ieri la cifra era lievitata complessivamente a 1.694 casi, 758 detenuti distribuiti in 76 penitenziari, e 936 tra agenti della polizia penitenziaria e altre persone che lavorano nelle prigioni. Se venerdì le prigioni coinvolte erano 71 su 190, adesso sono cinque in più. Numeri diffusi da Gennarino De Fazio, il segretario generale del sindacato Uilpa della polizia penitenziaria, che al governo chiede “urgenti e ulteriori misure” per “diminuire la popolazione detenuta, aumentare l’organico degli agenti, potenziare i servizi sanitari”. Ai quali però via Arenula replica con queste percentuali: “In 14 istituti, il 7% del totale, ci sono più di dieci positivi; in 63 istituti, il 33% del totale, ce ne sono da uno a dieci; in 113 istituti, il 60% del totale, si registrano zero casi”. Ma è dai Garanti dei detenuti - quelli regionali e il Garante nazionale Mauro Palma - che arriva la proposta della “liberazione anticipata”. Nell’ultimo capoverso di un documento dai toni accorati sullo stato delle carceri, i Garanti scrivono: “È pienamente condivisibile, e dunque auspicabile, che possa essere accolta la proposta di prevedere una liberazione anticipata speciale e la sospensione dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive fino al 31 dicembre 2021”. Come spiega Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, la “liberazione anticipata” non è né un indulto, né tantomeno un’amnistia, ma “un beneficio previsto ordinariamente dalla legge penitenziaria per cui chi si comporta bene, quindi non ha rapporti negativi o sanzioni disciplinari, e partecipa all’offerta di attività proposte dall’amministrazione, può vedersi riconosciuto dal giudice di sorveglianza uno sconto di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata correttamente. La liberazione anticipata speciale, che chiediamo noi Garanti, consiste nel portare eccezionalmente questo sconto di pena a 75 giorni per ogni semestre, come avvenne negli anni 2014 e 2015, durante l’emergenza Torreggiani”. Quando la Corte dei diritti umani di Strasburgo, a gennaio del 2013, proprio per via dell’affollamento (sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa) e per aver violato l’articolo 3 della Convenzione, aveva condannato l’Italia a una multa salatissima, poi evitata a seguito delle misure dell’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. I Garanti ovviamente si rivolgono al Senato, che deve discutere gli articoli 23 e 24 del decreto Ristori del Guardasigilli Alfonso Bonafede con le misure anti Covid per la giustizia, e chiedono “di adottare tutte le misure opportune per poter giungere a una significativa riduzione del numero delle presenze dei detenuti negli istituti di pena applicando in modo estensivo e razionale le stesse previsioni previste dal decreto, senza sacrificio della sicurezza sociale, nell’auspicio che le stesse possano andare a beneficio anche dei soggetti più deboli, quelli psichicamente fragili, i tossicodipendenti, gli alcol dipendenti, i senza fissa dimora”. È facile immaginare, di fronte a misure che con una brutta espressione vengono definite “svuota carceri”, quale possa essere la reazione del centrodestra. Ma il Pd, a palazzo Madama, tiene duro e ottiene che le forze del governo sottoscrivano tre emendamenti al decreto Ristori che il capogruppo in commissione Giustizia Franco Mirabelli riassume così, mettendo subito le mani avanti: “Non si tratta di liberare nessuno, ma di ridurre la popolazione negli istituti. Il governo ha fatto bene a riproporre le misure decise a marzo che hanno consentito di impedire la diffusione del virus nelle carceri. Ma i dati di oggi ci dicono che, per numeri e quantità di istituti colpiti, sarebbe utile fare altri passi avanti: prorogare la scadenza dei provvedimenti al 31 gennaio, cioè la fine dello stato di emergenza; consentire i domiciliari anche senza braccialetto a chi ha ancora un anno di pena da scontare; allargare a tutti coloro che hanno permessi premio o di lavoro di restare fuori dal carcere fino al 31 gennaio e tutelare la salute di tutti coloro che vivono e lavorano in carcere riducendo gli ingressi dall’esterno di altri detenuti, in particolare rinviando l’esecuzione per le condanne passate in giudicato in questi mesi”. Una misura, quest’ultima, che è in linea con le raccomandazioni del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il quale sia in primavera che adesso, ha emesso circolari per sollecitare i colleghi a limitare al massimo gli ingressi in carcere. “Carceri troppo affollate, fuori 20mila persone o il virus prenderà il sopravvento” di Simona Musco Il Dubbio, 18 novembre 2020 La proposta di Catello Maresca, il pm che criticò lo “svuota carceri”. Troppi detenuti in carcere. E nessuna soluzione concreta nel dl Ristori. La denuncia arriva da chi meno te lo aspetti, ovvero il pm anticamorra Catello Maresca. Proprio colui, cioè, che all’epoca della famosa circolare di marzo del Dap che consentì a molti detenuti (la maggior parte dei quali in custodia cautelare e con diverse patologie) di scontare temporaneamente la pena (o la misura cautelare) fuori dal carcere per evitare il rischio Covid, denunciò una sorta di “libera tutti” per boss e gregari della criminalità organizzata, rischio riproposto, a suo dire, anche dalla successiva circolare. “Non ci resta che sperare - scriveva il magistrato a giugno scorso - che non torni il Covid-19, altrimenti ci sarà sicuramente un altro “liberi tutti”. Praticamente passa di nuovo il messaggio che nelle carceri non si possano assicurare dignitosi percorsi sanitari e terapeutici. Cosa peraltro non vera”. Ma le cose sono cambiate. Maresca, che era intervenuto in Commissione Giustizia per un parere tecnico sul dl Ristori, lamenta proprio il basso impatto del provvedimento “sul sovraffollamento carcerario”, come ha spiegato ieri all’Agi. E il sovraffollamento, oltre ad essere un problema strutturale in Italia, con tanto di ripetuti richiami da parte della Cedu, rischia di trasformare le carceri in una bomba sanitaria, così come dimostrato dai casi in continua crescita. L’ideale, per il pm, sarebbe far uscire dal carcere 20mila persone. Altrimenti, ha denunciato, “si perde il controllo della situazione epidemiologica nelle carceri”. Insomma, chi aveva sottovalutato il rischio, definendo le carceri il luogo più sicuro al mondo per stare lontani dal virus, ha dovuto ricredersi. Anche perché perfino il 41bis si è dimostrato un sistema tutt’altro che sicuro per la salute dei detenuti, permeabile al virus come qualsiasi altro luogo. Per Maresca, “fronteggiare il Covid nelle celle con questo modo è sbagliato - ha sottolineato - si deve intervenire in maniera più efficace perché la situazione è grave”. Non con un indulto o un’amnistia, che rappresenterebbero “una sconfitta dello Stato”, ma attraverso “un intervento deflattivo importante, alzando il limite dei 18 mesi di pena residua da scontare per accedere al beneficio dei domiciliari, ma essendo sicuri che da questa misura siano esclusi i detenuti pericolosi”. Nel dl Ristori, come noto, è stato stabilito che le pene detentive sotto un anno e mezzo potranno essere scontate fuori dal carcere, con l’applicazione del braccialetto elettronico, tranne che per i condannati per terrorismo, mafia, corruzione, voto di scambio, violenza sessuale, maltrattamenti e stalking e le persone coinvolte nei disordini delle rivolte in carcere. Ed è stato inoltre previsto il divieto di scioglimento del cumulo di pena per reati associati a mafia e terrorismo. Ma tutto ciò per il pm anticamorra non basta. Ed è per questo che ha chiesto “una sospensione nell’esecuzione della pena”, con il trasferimento dal carcere ai domiciliari, “rendendo prossimo allo zero la possibilità che ne usufruiscano quelli condannati per mafia, terrorismo o gravi reati. Solo questo renderebbe più sopportabile la situazione dell’affollamento nelle carceri italiane”. Invece, “il numero dei contagi negli istituti di pena sale tra gli agenti ma soprattutto tra i detenuti. Lì il lockdown non lo si può fare e le celle sono sovraffollate”. Per farlo tocca partire dal numero di detenuti in carcere: sono 54.767 quelli registrati (53.992 quelli fisicamente presenti), per una capienza regolamentare di 50.553, stando all’aggiornamento fatto al 13 novembre. E bisogna fare i conti, dunque, con le reali condizioni delle carceri, per rendersi conto che alcuni interventi sono, di fatto, irrealizzabili. Come i famosi riparti filtro, dove far permanere i nuovi arrivati fino a che non abbiano fatto il tampone. Ma “dove è possibile realizzarli? - si è chiesto Maresca. E si intende realizzarli spostando per liberarle detenuti da celle in altre celle dove già si è oltre il numero previsto?”. Anche il braccialetto elettronico, misura indicata nel dl Ristori come alternativa al carcere, rimane una soluzione solo sulla carta, così come aveva già più volte denunciato Il Dubbio, evidenziando che dei 15mila braccialetti da produrre entro fine anno ne risultano disponibili soltanto 2600. “Pure ammettendo che la famosa dotazione di 1200 braccialetti al mese sia una fornitura già pagata fino al 31 dicembre - ha dunque concluso Maresca - non è proporzionale alla richiesta. E comunque sembra che già da metà ottobre le risorse finanziarie per quella spesa sono esaurite”. Carceri inferno-Covid, qualcuno sa dov’è finito Bonafede? di Angela Stella Il Riformista, 18 novembre 2020 Altro balzo in avanti dei contagi da Covid 19 nelle carceri italiane: alle ore 20 del 16 novembre erano 758 fra i detenuti - distribuiti in 76 penitenziari - e 936 fra gli operatori i casi accertati di positività al virus. Venerdì scorso erano invece, rispettivamente, 638 e 885. A fornire l’aggiornamento dei dati sul Covid nei penitenziari è stato ancora Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria. Una situazione dunque che si fa preoccupante e che ha spinto la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale a rivolgere un appello al Parlamento per esprimere la “necessità di incidere significativamente sul numero delle presenze in carcere, strutturalmente, attraverso una politica di coerente e costante decarcerizzazione, e nell’immediato, per la tutela del diritto alla salute di detenuti e operatori penitenziari”. A una situazione ordinaria di sovraffollamento c’è infatti da aggiungere che più aumentano i positivi più è urgente trovare luoghi per l’isolamento: di conseguenza si crea un’ulteriore contrazione degli spazi destinati alla restante popolazione detenuta. Per questo, chiedono i garanti territoriali, sarebbe auspicabile che in sede di conversione del Dl 137/2020 “possa essere accolta anche la proposta di prevedere una liberazione anticipata speciale e la sospensione dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive fino al 31 dicembre 2021”. Un’alternativa al carcere diviene improcrastinabile anche perché a pagare le conseguenze potrebbero essere dei bambini: proprio come denuncia l’Associazione Antigone, “sono 33 i bambini con meno di tre anni in carcere con le loro 31 madri. Due di questi bambini sono risultati positivi al Covid 19. Sempre - e ora in particolare - non c’è nessuna ragione di sicurezza, che non possa essere affrontata, che impedisca di trovare alternative al carcere”. Difficile, se non impossibile, pensare a una soluzione diversa dal carcere per i detenuti al 41bis: conosciamo benissimo le polemiche suscitate da alcune “scarcerazioni” concesse per motivi di salute. Tuttavia, sempre secondo il sindacato Uilpa, il Covid 19 sarebbe entrato anche in quelle sezioni, soprattutto nel carcere milanese di Opera e in quello friulano di Tolmezzo. Il condizionale è d’obbligo perché non ci sono dati ufficiali in base ai circuiti penitenziari: non li ha il Garante Nazionale e non li fornisce il Dap. E a proposito di numeri è Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale, a sollevare una polemica quando ci dice: “chiediamo al Ministro della Giustizia che i dati disaggregati dei contagi, istituto per istituto, vengano resi pubblici e aggiornati quotidianamente, come giusto che sia, sul sito del Ministero stesso. Inoltre, al momento, è dato sapere se esista un piano di gestione dell’emergenza sanitaria per le carceri e come si articoli. Dalla pandemia sanitaria a quella informativa”. In più, aggiunge Testa, “dal mese di marzo pende una denuncia per procurata epidemia colposa nei confronti del Ministro della Giustizia e del Dap, inviata alle Procure della Repubblica di tutta Italia, firmata dalla sottoscritta, dal segretario Maurizio Turco e dal presidente della commissione giustizia del Partito Radicale Giuseppe Rossodivita. Ad oggi non abbiamo alcuna notizia su come abbiano proceduto i procuratori; nel mentre assistiamo al rischio di strage all’interno delle carceri italiane”. Per questo Testa dalla mezzanotte del 14 novembre ha aderito allo sciopero della fame proclamato dalla Presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, ormai in digiuno da otto giorni per sollecitare risposte immediate dal Governo, tra cui amnistia e indulto. A unirsi il 19 e il 20 novembre allo sciopero della fame della radicale Bernardini anche il sociologo Luigi Manconi, lo scrittore Sandro Veronesi, la direttrice di A buon diritto Onlus Valentina Calderone insieme ad altri otto operatori dell’associazione, che in una nota fanno sapere: “Il carcere è il luogo più affollato d’Italia. E una cella di prigione può essere lo spazio più congestionato e patogeno dell’intero sistema penitenziario: per chiunque vi si trovi, detenuto o membro del personale amministrativo e di polizia. Di conseguenza, la prima necessità - e il primo dovere morale - è quello di ridurre in maniera significativa la popolazione detenuta. Riteniamo che i provvedimenti di amnistia e indulto previsti dalla Carta costituzionale sarebbero la soluzione più efficace. Ma se essi si rivelassero impossibili a causa di resistenze politiche, chiediamo che si ricorra a modifiche sostanziali al decreto “Ristori” per ampliare la platea dei beneficiari e che si ricorra alla liberazione anticipata speciale”. Servono misure drastiche. Bisogna scarcerare almeno la metà dei detenuti di Piero Sansonetti Il Riformista, 18 novembre 2020 Il Covid sta dilagando nelle carceri. Ora è quasi impossibile fermare il contagio. L’unico modo che c’è è quello di svuotarle. Di ridurre la popolazione carceraria di molte migliaia di unità. Giorni fa abbiamo proposto una misura che può liberare 20 o 30 mila prigionieri. Ora forse non basta più. In ogni caso chiunque abbia la testa sulle spalle capisce che almeno la metà dei detenuti va mandata a casa. Quelli ai quali resta una pena piccola da scontare (due o tre anni) e tutti quelli che comunque non sono pericolosi, cioè la maggioranza. Se non si ricorre a queste misure drastiche in pochi giorni sarà un inferno. Per i detenuti, per le guardie, per tutti gli operatori. E oltretutto è abbastanza probabile che un focolaio carceri poi si espanderà nelle città, perché il personale carcerario torna a casa, frequenta i luoghi pubblici. Quello che stupisce davvero è la totale assenza del Governo, in questo frangente. In particolare l’assenza del ministro. A noi risulta che, almeno sul piano formale, un ministro della giustizia sia ancora in carica. Dicono in molti che si chiami Alfonso Bonafede. È scomparso dai radar da quando è finito sotto il tiro incrociato dell’ex Pm Nino Di Matteo e del mio amico Massimo Giletti. I quali lo hanno accusato di essere colpevole dell’unica cosa intelligente che ha fatto (forse senza accorgersene) da quando è ministro: non opporsi a un po’ di scarcerazioni decise autonomamente dai magistrati di sorveglianza. L’idea di Di Matteo del resto è molto semplice: l’indipendenza della magistratura deve essere garantita in entrata ma non in uscita. Voglio dire: in entrata o in uscita dal carcere. Un magistrato che si rispetti è libero di arrestare chi vuole, anche a capocchia (insieme a un Gip del quale probabilmente è amico) ma perde l’indipendenza nel caso delle scarcerazioni, dove invece si richiede immediatamente l’intervento del Governo. Per fermarle. Di Matteo chiese questo intervento, sostenendo che le scarcerazioni erano avvenute sotto la pressione della mafia (mostrando grande stima e rispetto per i suoi colleghi che le avevano decise nel pieno rispetto della legge) e Bonafede lo assecondò e intervenne. Non con molta convinzione, balbettando un po’, però intervenne. Poi, distrutto dalla fatica, scomparve. Le associazioni che si occupano di carcere da tempo strepitano e mettono le autorità sull’avviso: si rischia un disastro - dicono - se non si interviene. Su questo giornale abbiamo dato molto spazio a questa denuncia. Contraddetti dai sapidi articoli di Travaglio (che poi sarebbe il capo di Bonafede, cioè quello che prende le decisioni per conto di Bonafede), il quale ci spiegò (con la stessa logica ferrea con la quale ci aveva illustrato la teoria dei taxi del mare) che nelle carceri non c’era alcun rischio Covid. Ora che facciamo? Io non credo che possa seriamente esistere il reato di epidemia colposa, che mi pare davvero figlio di un diritto un po’ scombiccherato. Se davvero questo reato esistesse, certo, sarebbe impossibile non contestarlo al ministro e forse a tutto il Governo. Lo dico per provocazione, naturalmente, perché so benissimo che non è la magistratura che deve risolvere questi problemi. Anzi: guai se si intromette con la sua abituale goffaggine. Però un appello al Pd lo rivolgo: capisco che vi siete fitti in capa di governare con questo gruppo scalmanato di manettari, cioè i 5 Stelle, e che avete messo in conto di cedere quasi sempre. Stavolta, però, un po’ di dignità, per favore: dite a Di Maio - o magari direttamente a Travaglio - o affronti il problema carceri o facciamo saltare il Governo. Vedrete che si fanno subito più mansueti. Il Coronavirus porterà l’indulto e l’amnistia? di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 18 novembre 2020 Parlare di Covid-19 in carcere, vuol dire considerare malattia (Salute) e punizione (Giudizio), due diritti voluti dalla legge sempre in bilico tra giusto e ingiusto, tra certezza del diritto e compassionevole azione del perdonare. Ma se un diritto si bilancia con un altro diritto di eguale natura e forza, come comportarsi quando questi due diritti entrano in conflitto tra loro? Infatti ora che siamo di fronte all’esplosione dei contagi in carcere, la sanità e la giustizia, in questo caso, pensano un ricorso alla compassione più ampia utilizzando i benefici regi: l’indulto e l’amnistia, che nella situazione attuale appaiono le soluzioni più immediate e quelle giuridicamente più corrette, ma quali luci ed ombre portano con loro? Se nella prima trance dell’epidemia, che peraltro aveva risparmiato le grandi città, si era pensato a diverse scarcerazioni, occorre ora quel coraggio mancato nell’accettare una verità: l’impossibilità da parte del dipartimento di amministrazione penitenziaria (DAP), di essere unico gestore del contenimento delle persone colpite da provvedimenti giudiziari che includono la carcerazione. Il tentativo precedente di offrire un corrispettivo per un posto letto a chi era privo di alternative, od una famiglia disponibile all’accoglienza, poteva essere valida per i piccoli numeri; non lo è certo in caso di concessione dell’indulto dove i numeri saranno elevatissimi e riguarderanno proprio quelle persone che non possono usufruire di benefici di legge in vigore, in quanto mancano gli elementi soggettivi come la casa o l’accoglienza esterna. In diversi miei interventi, mi appellavo, vanamente; per il recupero di strutture dismesse quali ex ospedali e ex caserme, che potevano essere un serbatoio valido al contenimento di parte di che è detenuto in attesa si attuino gli elementi soggettivi per una vita libera. Il Coronavirus, come va a manifestarsi ora, fa apparire irrisori gli interventi passati sui detenuti, che peraltro portarono a discusse scarcerazioni ed all’uso della forza per arginare alcune rivolte scaturite. Ebbene, a fronte dello scenario nazionale, il Dap non trova altro di meglio che spostare il personale di Polizia Penitenza in altri uffici, con compiti non propri, o che vanno a sovrapporsi ad attività di altri Enti dello Stato. È a tutti gli effetti un nuovo servizio, che non trova giustificazioni in quanto attività, attuata fuori della previsione della Legge, e già assegnato al servizio sociale statuale. Va solo a promuovere nuovi posti lavoro per la polizia penitenziaria con un notevole costo. Peraltro andando a replicare altra attività non ha una giustificazione per nuovi titolo di spesa. La stessa U.E. con propria raccomandazione del 2006 invitava i paesi della unione affinché gli istituti carcerari fossero posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed enti locali, e non dall’essere custoditi da esercito, polizia e dai servizi di indagine penale. Se questo è un monito per il contesto detentivo, tanto più vale per il non carcerario che sono le misure alternativa al carcere, che non prevedono detenzione. Altro che salute e giurisprudenza: e parti in causa ora cambiano; non più detenuti e Polizia Penitenziaria, ma Polizia Penitenziaria e vertici del Dap, un Dipartimento che induce a discordia e pone pretese sempre più aggressive, poste dell’apparato sindacale, stabilizzato nel proporsi in modo spasmodico e tornacontista, nella ricerca di una dichiarata necessità di “visibilità” del Corpo. Ma non è ancora finita! Ecco sopraggiungere la smania di potere e di affermarsi anche dove la Legge non prevede, al solo scopo di assicurare delle pretese di scopo, forzando lo specifico mandato istituzionale, perché le funzioni che ricoprono non corrisponde più alle speranze-esigenze dei singoli incaricati; proprio essi allora, propongono alternative che negano l’ assolvimento dello specifico ruolo funzionale, attraverso progetti di ampliamento di potere della categoria, anche a scapito di un impegno personale per riaffermare le competenze e i ruoli all’interno dell’istituto. Di che cosa sto parlando? Del fatto che il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP) non possa e debba più detenere il monopolio esclusivo della gestione della esecuzione penale, e della limitazione delle libertà personale a causa di reati, ma debba condividerla, specie per soggetti non pericolosi, anziani e malati, con altri attori affini, snellendosi nelle funzioni e nei numeri come fece anni fa il Ministero del Lavoro che divise alcune sue funzioni, cedendole all’allora Provincie e trattenendo presso di se quello del controllo, mentre ora fa l’opposto, inglobando compiti dati ad altre Istituzioni, Carabinieri e Polizia di Stato, Enti Locali e Privato Sociale o figure professionali. Appare superato (ammesso esserci arrivati) l’asserto “rinnovarsi in agilità ed efficienza”, in quanto il fattore nuovo ora è dato dal fare tutto, ma non in carcere e per il carcere, ma il fare in altro posto che non sia il carcere. Lo vogliono gli operatori con lo stare fuori il carcere; lo vogliono i detenuti, con lo stare a casa; lo vogliono le persone di potere con lo slogan “abbattiamo le carceri”; lo vogliono i familiari dei detenuti e le strutture e le organizzazioni che operano nel settore della restrizione della libertà personale, volontà inaccettabile perché non attua il mandato costituzionale del reinserimento. Ecco, a mio parere, i sei punti di maggior criticità, che giustificano le mie riflessioni precedenti: 1. La Polizia Penitenziaria che non riconosce come primario il ruolo di essere operatore interno al carcere, in particolare alla sezione, per la scarsa considerazione che riceve. Chi opera in sezione, è considerato un reietto, poco valido, pertanto si rifugia in attività succedanee come quelle della segreteria o in altre Istituzioni, replicandone le mansioni, dove viene considerato e gratificato. 2. Gli operatori della esecuzione penale esterna, Ente istituito per attuare il mandato costituzionale del reinserimento, evitando o limitando la detenzione e la non rottura col mondo esterno. Questo ora viene identificato come una delle possibilità alla Polizia Penitenzia per lasciare il carcere o dare vita ad un nuovo dipartimento solo di Polizia Penitenziaria, soluzione considerata complessa, inutile, fortemente dispendiosa. 3. La classe dirigente, sia di Magistratura che civile presente nel Dap, oggi più che mai numericamente inferiore a quanto stabilito da organigramma, ma che detiene in sé la quasi totalità del potere. Peggio non appare disponibile a riorganizzarsi, assorbendo direttivi di altre categorie per ricoprire i posti vacanti, come i direttivi di Polizia Penitenziaria. 4. I nuovi mentori che negano la presenza del carcere, perché esso non deve esistere, dimenticando che le carceri, tra le altre funzioni, hanno quelle di preservare il presunto colpevole dalla giustizia sommaria della folla inferocita. 5. L’Ente Locale e il privato sociale, forza riconosciute dall’Ordinamento come parti importanti nello sviluppo di una reclusione meno afflittiva, per cercare soluzioni alternative al carcere, per affermare proprie specifiche identità e indipendenze, senza ricorrere alla famiglia, contenitore universale per ogni fatto non funzionale alla società. Penso che nuove carceri a sicurezza attenuta, recuperando strutture pubbliche dismesse, peraltro già previsto in una passata Legge di Bilancio, sarebbero un bellissimo nuovo progetto, che va incontro sia a chi è detenuto che alla società che chiede più carcere; parlo di un carcere altro, pieno di iniziative e attenzione, al quale il privato sociale specializzato, o personale dell’Amministrazione che opti per questo tipo di detenzione, saprà dare quell’impronta che oggi è mancata, attuando l’offerta di servizi che vuole Ordinamento Penitenziario. 6. L’operazione dell’inserimento della Polizia penitenziaria nell’ambito degli Uffici locali di esecuzione penale esterna (Uepe) muove da una serie di non corrette ed anche errate impostazioni della materia che sembra doveroso evidenziare prima che si proceda, anche se per ora sperimentalmente, su un percorso pericoloso e che può divenire irreversibile. Non sarebbe meglio parlare di Esecuzione della pena da giurisdizionale ad amministrativa lasciando il ricorso alla magistratura solo per gli appelli ai provvedimenti amministrativi? Speriamo che questa nuova emergenza sanitaria e sociale ricordi a tutti che l’ordinamento penitenziario prevedeva che l’amministrazione centrale venisse coadiuvata dall’Ente locale e dal privato sociale, senza dover ricorrere a benefici di bontà del re, come indulto e amnistia, a cui non si è particolarmente legati per gli effetti negativi che hanno in sé il “mettere fuori” persone senza alloggio e sostegno economico. Se oggi, per la mancata previsione e l’espandersi del contagio, divengono le uniche soluzioni giuridicamente auspicabili, direi… W il re e W il Dap! *Ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza Quel “fine pena mai” che nega la Costituzione e uccide la speranza di Valter Vecellio Il Dubbio, 18 novembre 2020 Carcere, il diritto negato alla speranza. Dalla mezzanotte del 10 novembre Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale e di “Nessuno tocchi Caino”, con altri militanti radicali è in sciopero della fame; chiede che Governo e Parlamento “affrontino quanto di drammatico sta avvenendo nelle carceri”. Li accusa di irresponsabile comportamento “di fronte all’espandersi della pandemia negli istituti penitenziari. Amnistia, indulto, liberazione anticipata, modifiche sostanziali del decreto ristori che ristora ben poco detenuti e detenenti, ma qualcosa - subito - lo devono fare”. Secondo Bernardini per prima cosa occorre che la popolazione detenuta diminuisca sensibilmente: “In una settimana siamo passati da 395 detenuti contagiati a 537. Gli operatori in carcere positivi sono 737, di cui 669 agenti. Il virus è entrato perfino nel 41- bis (ma non era il luogo più sicuro?) del carcere di Opera. Scegliere, agire, combattere. Vivere, far vivere, con le armi della nonviolenza”. I radicali hanno, al loro fianco, l’Unione delle Camere Penali. L’Osservatorio delle UCP “rivolge al Parlamento l’invito a emanare l’amnistia e l’indulto”. Le ragioni di tale appello si giustificano nei dati allarmanti sulla diffusione del virus nelle carceri: “Una crescita esponenziale non può attendere oltre una immediata soluzione”. Secondo uno studio del Consiglio d’Europa sugli effetti a medio termine della pandemia sulla popolazione carceraria, l’Italia è tra i Paesi europei che hanno segnalato il più alto numero di persone contagiate dal Covid-19 tra le mura delle prigioni. Da parte del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non giungono, al momento, reazioni di fronte alle innumerevoli “ordinarie” emergenze segnalate. Del “fare” del ministro non si ha notizia; non si sa cosa faccia, cosa intenda fare. “Se si vuole, si può; se si può, si deve”, dice un antico motto di persone animate da buona volontà. È il motto che potrebbe fare da epigrafe a una interessantissima pubblicazione che raccoglie una serie di contributi di giuristi e studiosi del diritto: Emilio Dolcini, professore emerito di Diritto Penale; Elvio Fassone, già magistrato, e autore di un bellissimo “Fine pena: ora”, pubblicato da Sellerio; Davide Galliani, professore di Diritto Pubblico; Paulo Pinto de Albuquerque, giudice presso la Corte dei diritti umani; Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto Costituzionale; Mauro Palma, Garante Nazionale dei diritti dei detenuti. Titolo del volume: “Il diritto alla speranza, l’ergastolo nel diritto penale costituzionale” (Giappichelli editore pagg. 495, 48 euro). È un testo “robusto”; chiede attenzione, merita attenzione. Consigliabile lettura a tutti gli operatori del diritto, e in particolare agli “allievi” di quella scuola di pensiero (in magistratura e nel giornalismo), per i quali il diritto è tale solo se c’è una pena da infliggere. Hanno certamente dottissima erudizione forense, ma poca o nessuna esperienza di quella che Alessandro Manzoni definiva “pratica del cuore umano”. Un libro che parte da un semplicissimo assunto: “Se il fine della pena è la risocializzazione del reo - cosa espressamente sancita dalla Costituzione - la reclusione in carcere non può essere senza fine: ecco perché, da sempre, l’ergastolo è, e resta, un nodo giuridico da dibattere e da sciogliere”. Questo libro lo fa, in modo netto e preciso; definitivo. “L’esercizio di giustizia - osserva Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale - deve offrire un elemento di speranza se non vuole guardare soltanto a ciò che è stato poiché la ricomposizione che il diritto penale deve attuare… segue necessariamente due direttrici, una rivolta al passato, l’altra al futuro”. Il primo dei due contributi del professor Puggiotto si apre con una citazione di Albert Camus: “Nella nostra civilissima società la gravità di un male è rivelata dalla reticenza con cui se ne parla e quanto più lo si presenta come una dolorosa necessità tanto più si tende a non parlarne, perché il fatto è sconveniente”. Epigrafe quanto mai calzante, che ben descrive una situazione dell’oggi, ma che è anche “vizio” antico, e non solo dell’attuale classe politica, ma anche di quelle che l’hanno preceduta. È evidente che discutendo dell’ergastolo, si mette in discussione l’intero impianto, efficacia e utilità del regime penitenziario, nel concreto e nel quotidiano, rilevando ch è in palese contrasto con il dettato costituzionale, e tutto questo nonostante ammirevoli sforzi dei singoli operatori della comunità penitenziaria. Una classe politica degna di questo nome, dotata di visione e capacità di governo, avrebbe già colto l’occasione e l’opportunità da tempo. Che non accada e non sia accaduto, la dice lunga. Diritto all’affettività per i detenuti, al Senato la proposta della Regione Toscana di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 novembre 2020 In futuro San Vittore potrà essere come Beveren, il carcere modello ad un’ora da Bruxelles dove sono presenti le stanze per “l’affettività”. Il Consiglio regionale della Toscana ha depositato una proposta di legge, incardinata nei giorni scorsi al Senato, per dare finalmente riconoscimento normativo al tema del diritto all’affettività e della sessualità nelle carceri. Il tema, va detto, è stato oggetto di numerosi disegni di legge elaborati da Camera e Senato nelle passate legislature, senza tuttavia trovare esito positivo. A parte il caso di Bevern, il carcere da 300 posti dove i detenuti, tutti con celle singole, possono ricevere i propri partner, il diritto all’affettività e alla sessualità dietro le sbarre è stato negli ultimi tempi disciplinato in un numero sempre crescente di Stati. Oltre al Belgio, con forme diverse, in Albania, Austria, Croazia, Danimarca, Francia, Germania, Spagna, Svezia e Svizzera. Si tratta di un “diritto soggettivo” secondo numerosi atti sovranazionali. In Italia la Corte costituzionale, nella sentenza 301 del 2012, pur dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata da un magistrato di sorveglianza di Firenze relativa all’articolo 18 della legge sull’Ordinamento penitenziario del 1975, aveva richiamato l’attenzione del legislatore al tema del riconoscimento normativo del diritto all’affettività e alla sessualità delle persone detenute. La possibilità per la persona sottoposta a restrizione della libertà personale di continuare a mantenere, durante l’esecuzione della pena, rapporti affettivi anche a carattere sessuale, oltre che essere “esigenza reale e fortemente avvertita” corrisponde per la Consulta ad un diritto soggettivo da riconoscersi ad ogni detenuto. Secondo il testo presentato dal Consiglio regionale della Toscana, dovrebbero essere previsti dei luoghi adatti alla relazione personale e familiare e non solo all’incontro fisico. Senza tempi stringenti. Un tempo troppo breve, infatti, rischierebbe di far tramutare la visita in esperienza umiliante e artificiale. Per tale ragione si è inteso prevedere che la visita possa svolgersi all’interno di un lasso di tempo sufficientemente ampio. L’assenza dei controlli visivi e auditivi garantirebbe, poi, la riservatezza dell’incontro Otto azioni per i bambini con un genitore in carcere vita.it, 18 novembre 2020 Dallo Spazio Giallo al teatro, dalla sensibilizzazione dei compagni di classe per evitare lo stigma al diritto al colloquio solo col papà, senza altri adulti. Bambinisenzasbarre presenta il progetto triennale “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie”, selezionato da Con i Bambini. Sarà il primo progetto nazionale in carcere ad avere una valutazione d’impatto Accanto alla “Convenzione sui diritti del Fanciullo” dell’Onu c’è una carta meno nota ma altrettanto importante: la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, firmata il 21 marzo 2014 e recentemente rinnovata il 20 novembre 2018, in occasione della giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza dal Ministro della Giustizia. È stato il primo documento in Europa a riconoscere formalmente “il diritto dei minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, il diritto del medesimo alla genitorialità”. Assicurare la tutela dei diritti di quei minori il cui genitore si trovi in stato di detenzione e garantirne la fruibilità concreta è da anni l’obiettivo dell’associazione Bambinisenzasbarre, presieduta da Lia Sacerdoti. Bambinisenzasbarre è ora impegnata a livello nazionale nel progetto triennale “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie”, selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. L’obiettivo è l’applicazione della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti che, dopo aver ispirato la Raccomandazione del Consiglio d’Europa, diventa attraverso il progetto uno strumento concreto per la sua stessa applicazione in Italia. Sono sedici le regioni italiane coinvolte e altrettanti gli istituti penitenziari e gli enti del privato sociale di tutta la Penisola. Il Progetto nazionale vuole contribuire a realizzare le condizioni perché il sistema penitenziario risponda ai bisogni dei bambini che ogni giorno entrano in carcere per incontrare il genitore, rispettando i diritti dell’infanzia e coniugandoli con i diritti umani degli adulti detenuti. Partner istituzionali nazionali sono il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Garante per l’infanzia e l’adolescenza, insieme a cui Bambinisenzasbarre ha partecipato al bando promosso dall’impresa sociale Con i Bambini. Sedici regioni italiane sono coinvolte e altrettanti istituti penitenziari e enti del privato sociale di tutta la Penisola. Il progetto si articola in otto azioni: l’apertura di nuovi Spazi Gialli; percorsi integrati di tutela del rapporto mamma detenuta e figlio alternativi alla detenzione; gruppi di parola di genitori detenuti e “Il colloquio con solo il papà”; attività teatrali in carcere mirate per figli e genitori detenuti; incontri di sensibilizzazione per le scuole sul tema dello stigma verso i bambini con un genitore detenuto; formazione nazionale della Polizia Penitenziaria. Il progetto potrà contare sulla valutazione d’impatto da parte di un soggetto esterno accreditato (Aragorn Iniziative S.r.l.) che valuterà gli effetti del cambiamento sui destinatari diretti del progetto: è la prima valutazione d’impatto su un progetto nazionale in carcere. La valutazione considererà anche il biennio successivo alla durata del progetto, che è triennale. Il lancio del progetto “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie” avverrà online venerdì 20 novembre dalle 10 alle 12, in occasione della Giornata mondiale dell’infanzia, con la presenza del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia, della Presidente della rete europea Children of Prisoners Europe, Rachel Brett, della Presidente di Bambinisenzasbarre Lia Sacerdote, capofila del progetto, di Arianna Saulini, Coordinatrice del Gruppo CRC, dei partner NPO, e delle istituzioni regionali e locali. È stato invitato il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Lo Spazio Giallo è il luogo fisico e relazionale, all’interno del carcere, in cui i bambini si preparano all’incontro con il genitore. Qui, dopo, “decantano” le emozioni dell’incontro appena avvenuto, accompagnati da operatori opportunamente formati. Per quanto riguarda i percorsi integrati di tutela del rapporto mamma detenuta e figlio alternativi alla detenzione, nonostante le molte previsioni normative di fatto alcuni bambini di età inferiore ai tre anni vivono ancora all’interno del carcere con le proprie madri: con questa azione si vuole sostenere il potenziamento delle prime case famiglia protette e strutture similari avviate in Italia per garantire accoglienza abitativa e ascolto alle mamme detenute con bambino (Milano, Roma, Venezia, Torino, Lauro (Av) e Castrovillari). I gruppi di parola sono momenti di confronto tra genitori detenuti per affrontare e condividere difficoltà e momenti critici della loro condizione detentiva in relazione al tema della paternità/maternità mentre il “Colloquio con papà” è un’azione che prevede incontri esclusivi tra genitore detenuto e figlio in cui la relazione possa esprimersi senza la presenza-interferenza di altri parenti adulti solitamente presenti nei colloqui ordinari in carcere: queste azioni verranno implementate a Milano Opera e Bollate, Brindisi, Napoli Poggioreale, Ancona Barcaglione e Montacuto, Pesaro, Cosenza, Catania Piazza Lanza, Firenze Gozzini. L’attività teatrale in carcere per figli e genitori detenuti si farà a Milano San Vittore, Opera e Bollate; Catania Piazza Lanza: si tratta di un’azione pilota di applicazione del metodo teatrale a sostegno del rapporto genitoriale e prevede laboratori genitore detenuto/figlio che pongono al centro la relazione, la fiducia, il gioco, il rispetto, la conoscenza. Passando agli incontri di sensibilizzazione per le scuole sul tema dello stigma verso i bambini con genitore detenuto, sono previsti 2 incontri plenari a Milano e Napoli con le scuole, per sensibilizzare gli insegnanti e gli alunni sul tema della povertà educativa dei loro compagni con genitore detenuto. L’incontro darà vita a riflessioni, spunti, confronti e successivamente a materiali didattici che verranno prodotti dagli alunni durante l’anno scolastico. Processo penale. Interrogatori anche da remoto, ma il difensore si può opporre di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2020 Udienze a porte chiuse. A distanza solo se limitate a pm, parti private avvocati e ausiliari. Gli articoli 23 e 24 del decreto Ristori (Dl 137/2020) contengono le misure per arginare gli assembramenti negli uffici giudiziari, efficaci sino al 30 gennaio 2021. In materia penale si prende spunto dall’articolo 83 del decreto Cura Italia (Dl 18/2020), senza però alcune manifestazioni estreme di telematizzazione delle attività giudiziali che avevano suscitato diffuse polemiche per la loro inconciliabilità con i princìpi costituzionali di oralità e immediatezza del processo penale, soprattutto nella formazione dibattimentale della prova. Il pubblico ministero e la polizia giudiziaria possono compiere da remoto tutti gli atti che richiedono la partecipazione della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa, del difensore, di consulenti tecnici, di esperti o di altre persone. Sono molte attività: le principali - nell’ottica di evitare assembramenti - sono gli interrogatori di testimoni e indagati. L’atto si svolge nell’ufficio di polizia giudiziaria più vicino al luogo di residenza dell’interessato, se ha strumenti tecnici idonei, e vi partecipa anche un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, che identifica i partecipanti e redige il verbale delle operazioni compiute. L’interessato detenuto o internato si collega, se possibile, dal luogo di custodia. Il difensore, se deve partecipare all’atto, può opporsi in modo insindacabile allo svolgimento da remoto. Altrimenti può scegliere di collegarsi telematicamente dal suo studio o di essere fisicamente presente nell’ufficio di polizia giudiziaria dove si trova il suo assistito. Conle stesse modalità il giudice può svolgere l’interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare in carcere di cui all’articolo 294 del Codice di procedura penale. La principale misura precauzionale è lo svolgimento a porte chiuse, con la partecipazione solo delle parti necessarie. Le udienze cui partecipano solo il pm, le parti private coni rispettivi difensori e gli ausiliari del giudice si possono celebrare anche da remoto, con modalità idonee a salvaguardare il contradditorio e l’effettiva partecipazione delle parti. Tale possibilità non è prevista per le udienze in cui devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti, nonché per le udienze di discussione finale nel giudizio ordinario e abbreviato. Sono comunque molte le attività effettuabili da remoto: udienze di convalida dell’arresto o del fermo; procedimenti cautelari (riesame e appello); opposizioni a richieste di archiviazione; udienze di patteggiamento e messa alla prova; incidenti di esecuzione. Con il consenso delle parti, si possono svolgere da remoto anche le udienze preliminari e quelle dibattimentali dedicate alla costituzione delle parti, alle questioni preliminari, alle richieste istruttorie e, più in generale, a tutte le attività diverse dalla formazione della prova e dalla discussione della causa. La partecipazione di detenuti e internati avviene sempre, ove possibile, tramite collegamento dal luogo di custodia. Il collegamento dell’imputato libero, o sottoposto a misura cautelare diversa dal carcere, può avvenire dallo studio del difensore. Se si tratta di arrestato o fermato custodito agli arresti domiciliari, la connessione avviene dall’ufficio di polizia giudiziaria più vicino e attrezzato: nel primo caso, è il difensore che attesta l’identità del cliente, nel secondo l’ufficiale di polizia giudiziaria. Il collegamento del difensore e dell’assistito deve avvenire sempre dalla stessa posizione. Le deliberazioni collegiali dei giudici incamera di consiglio possono essere sempre adottate da remoto, tranne quelle conseguenti alle udienze di discussione finale svolte in presenza fisica delle parti. Il rito di legittimità torna principalmente cartolare, come in vigenza del decreto Cura Italia. La discussione orale si tiene solo se le parti fanno apposita richiesta - a pena di inammissibilità - 25 giorni prima dell’udienza. Diversamente, 25 giorni prima dell’udienza, il procuratore generale trasmette con posta elettronica certificatala requisitoria alla cancelleria, che la invia conio stesso mezzo immediatamente alle altre parti, che hanno facoltà di replicare entro cinque giorni dall’udienza. La deliberazione dei giudici avviene in camera di consiglio, sempre che l’udienza non si sia svolta in presenza delle parti, e il dispositivo viene comunicato alle parti via pec. Le disposizioni introdotte dal decreto Ristori non si applicano alle udienze di trattazione che ricadono entro 15 giorni dall’entrata in vigore (29 ottobre); mentre per i procedimenti per i quali l’udienza ricade nei 25 giorni successivi, la richiesta di trattazione orale è valida se formulata entro il 7 novembre. Le memorie, i documenti, le richieste e le istanze formulate al pubblico ministero dopo la conclusione delle indagini preliminari vanno depositate esclusivamente sul portale del processo penale telematico. Viene altresì specificato che, con altri decreti del ministro della Giustizia, saranno indicati ulteriori atti per i quali sarà resa possibile questa forma di deposito telematico. Tutti i differenti atti, documenti e istanze, possono essere depositati con pec. Gli indirizzi Pec degli uffici giudiziari e le specifiche relative ai formati degli atti e alle modalità di invio sono indicati nell’apposito provvedimento del direttore generale del Dgsia. Processo penale. Giudizio di appello cartolare fino al 31 gennaio 2021 di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2020 Discussione orale ipotesi residuale: solo se chiesta entro 15 giorni dalla data d’udienza. A circa dieci giorni dalle misure emergenziali del decreto Ristori, il Governo delibera un drastico giro di vite sul giudizio di appello, scegliendo di sacrificare la dialettica orale tra le parti, in favore del contraddittorio scritto, per diminuire le presenze nelle aule di giustizia. L’articolo 23 del decreto Ristori bis (Dl 149/2020) prevede infatti che, sino al 31 gennaio 2021, la Corte di appello procederà in camera di consiglio alla trattazione delle impugnazioni proposte contro le sentenze di primo grado - a prescindere dal titolo di reato e dalla competenza per materia del giudice dell’impugnazione - senza la presenza del pubblico ministero e dei difensori. Viene poi stabilito che il dispositivo della decisione verrà comunicato alle parti a mezzo Pec. La discussione orale si terrà solo se, entro il termine perentorio di 15 giorni liberi prima dell’udienza. una delle parti ne faccia richiesta a mezzo Pec inviata alla cancelleria della Corte di appello, oppure se l’imputato esprima la propria volontà di comparire - a mezzo del difensore, non munito di procura speciale - negli stessi modi e termini. Entro dieci giorni dalla data dell’udienza, in assenza di richiesta di discussione orale o di partecipazione dell’imputato, il pubblico ministero formulerà le conclusioni scritte, con atto trasmesso via Pec alla cancelleria che, immediatamente, le inoltrerà con lo stesso strumento ai difensori delle altre parti. Questi avranno la facoltà, cinque giorni prima dell’udienza, di presentare le conclusioni con atto scritto, da inviarsi alla cancelleria sempre con lo stesso mezzo elettronico. Il rito scritto non si applica ai giudizi in cui l’udienza è fissata nei15 giorni successivi all’entrata in vigore del decreto (avvenuta il 9 novembre): per i procedimenti in cui l’udienza è fissata nei 15 giorni ancora seguenti la richiesta di trattazione orale deve invece essere formulata perentoriamente entro cinque giorni dalla vigenza del decreto Ristori bis. Viene altresì anticipato che la Pec verrà sostituita da altri “sistemi informativi e autorizzati” che saranno resi disponibili e individuati da un futuro decreto ministeriale; è il preannuncio dell’estensione all’appello dei depositi disciplinati dal “processo penale telematico”, al momento applicabile solo agli atti difensivi successivi all’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Le camere di consiglio dei giudici dedicate alla deliberazione saranno tenute da remoto: in tal caso, viene altresì stabilito che il dispositivo della decisione verrà comunicato alle parti a mezzo Pec. Ma la camera di consiglio telematica sarà preclusa nei casi in cui la discussione si sia svolta in presenza fisica delle parti e il dispositivo sarà letto in udienza. Le disposizioni riguardanti l’appello ricalcano, in definitiva, quelle contenute nell’articolo 23 del decreto Ristori per il giudizio di Cassazione, con una fisiologica distinzione collegata alla diversità strutturale dei due giudizi, dato che - in caso di necessità di rinnovazione dibattimentale - la Corte di appello, diversamente dalla Cassazione, non rinvia al giudice di primo grado per la formazione della prova ma procede direttamente. In tal caso, per garantire l’oralità del contraddittorio, è infatti previsto che il giudice d’appello non potrà applicare il nuovo rito scritto e la prova - testimoniale, ma anche di altra natura - andrà assunta sempre in aula in presenza fisica delle parti. L’impossibilità di procedere alla formazione orale della prova da remoto è infatti preclusa dall’articolo 23 del decreto Ristori, pienamente applicabile al giudizio di appello. Non è chiarito invece se, alla discussione in udienza successiva alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, si applichino le disposizioni emergenziali: la lettura piana della norma sembra escluderlo, dato che, nello stabilire il divieto di procedere con rito scritto, non fa distinzione tra la fase dell’assunzione della prova e quella della successiva discussione finale. Processo penale. Prescrizione sospesa per impedimento di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2020 Congelamento termini. Le conseguenze del rinvio per l’assenza di un testimone, consulente tecnico, perito o imputato di reato connesso. L’articolo 24 del Dl Ristori bis introduce una causa di sospensione del giudizio penale - la cui conseguenza più rilevante è il congelamento anche dei termini di prescrizione del reato e della custodia cautelare - in conseguenza dell’impossibilità di presenziare al processo, per ragioni sanitarie, di alcuni soggetti chiamati a rendere prove dichiarative. La disposizione, efficace sino al 31 gennaio 2021, stabilisce che la sospensione opera quando l’udienza penale è rinviata per assenza di un testimone, consulente tecnico, perito o imputato di reato connesso - regolarmente citati per essere interrogati - dovuta alle restrizioni ai movimenti imposte agli stessi dall’obbligo di quarantena° dalla sottoposizione all’isolamento fiduciario, nei termini di cui alla normativa epidemiologica vigente. Il legislatore non ha inserito la figura dell’imputato perché gli effetti sospensivi sulla prescrizione del reato e sui termini di custodia di ogni sua impossibilità a partecipare al giudizio sono già previsti dall’articolo 159 del Codice penale e dall’articolo 304 del Codice di procedura penale. La sospensione non si applica alle misure diverse dalla custodia cautelare e riguarda anche i termini dei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati, se rinviati per le stesse ragioni. Il rinvio previsto dall’articolo 24 ha un limite temporale: l’udienza non può essere rinviata oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione degli effetti delle misure restrittive sanitarie che riguardano l’interessato; se entro tale termine non sono cessate, per calcolare la durata della sospensione del corso della prescrizione, nonché dei termini di custodia cautelare previsti dall’articolo 303 del Codice di procedura penale, il giudice deve avere riguardo al tempo effettivo della restrizione, aumentato di 60 giorni. Ai fini della durata massima dei termini della custodia cautelare, di cui all’articolo 304 comma VI del Codice procedura penale, non si tiene conto dei periodi di sospensione del giudizio. La disposizione lascia spazio a perplessità. La prima è che non è chiarito quali siano le conseguenze sul decorso della prescrizione e dei termini della custodia cautelare quando all’udienza in cui sia stato citato il soggetto impedito a partecipare siano stati convocati anche altri testimoni, consulenti o periti regolarmente presentatisi e interrogati. In tal caso, è irragionevole pensare che possa operare la sospensione: così facendo, si verificherebbe infatti una forma estremamente ingiusta e sproporzionata di penalizzazione dell’imputato, in conseguenza dell’effettiva celebrazione dell’udienza. Dunque la sospensione sembra poter operare solo quando il programma dell’udienza sia l’escussione di un unico testimone, perito, consulente o imputato di reato connesso, e questo non partecipi per ragioni sanitarie. A ciò si aggiunga che, normalmente, quando un testimone non si presenta in un processo adducendo un legittimo impedimento, non opera la sospensione della prescrizione del reato e dei termini di custodia cautelare: non si vede perché detta regola non dovrebbe valere per gli impedimenti derivanti da una ragione sanitaria soggettiva. Ma il tema forse più rilevante è che l’articolo 24 del decreto Ristori bis - soprattutto ai fini della prescrizione - introduce una norma penale di sfavore, dato che, nelle intenzioni del Legislatore, si applica anche ai fatti precedenti all’entrata in vigore del decreto, perciò in violazione del divieto di irretroattività di cui agli articoli 25 della Costituzione e 7 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo. Si tratta di un argomento caldo, dato che analoga previsione di sospensione della prescrizione - collegata alla sospensione dei processi nel periodo della prima ondata dell’epidemia - era contenuta nell’articolo 83 del Dl Cura Italia (decreto legge 18/2020), in relazione al quale diverse autorità giudiziarie hanno sollevato questioni di costituzionalità che verranno trattate dalla Consulta proprio oggi. Appare quindi evidente che la sentenza della Corte avrà una diretta ricaduta anche sulla sospensione della prescrizione introdotta dal decreto Ristori bis. Allarme processi di mafia: “Rischio scarcerazioni” di Massimiliano Nerozzi Corriere della Sera, 18 novembre 2020 C’è il rischio di vedere “scarcerati pericolosi imputati”, scrive il Procuratore di Torino Anna Maria Loreto in una lettera al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e all’antimafia. Motivo: il contagio da Covid di alcuni imputati, che fanno saltare i processi: “È un problema serissimo”. Eventuale effetto del contagio da Covid, durante i processi, compresi quelli alla criminalità organizzata: “Possibilità di scarcerazione di pericolosi imputati”, per scadenza dei termini di custodia cautelare, riassume in una nota il Procuratore di Torino, Anna Maria Loreto. “Un problema che esiste, ed è serissimo”, sottolinea lei che, da anni, coordina anche la Direzione distrettuale antimafia (Dda). Per questo, spiega, ha scritto “una nota per informare il Procuratore nazionale antimafia, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), nonché il Procuratore generale di Torino” dei problemi emersi, “e che possono avere portata di carattere generale in ogni sede d’Italia”. Ovvero: “Incidere negativamente sui termini di fase della custodia cautelare”. Rischiando di rilasciare presunti boss, in attesa di giudizio. Dopodiché, è ovvio che bisogna pur sempre coniugare “le esigenze di prevenzione con quella della salute degli stessi imputati e degli operatori penitenziari”. Tutto inizia giovedì scorso, nell’aula bunker delle Vallette, davanti al tribunale di Asti - presidente il giudice Alberto Giannone - dove si sta svolgendo il processo “Carminius-fenice”, sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta e sull’ipotesi di voto di scambio politico-mafioso. Dal carcere arriva la comunicazione che uno degli imputati è positivo al Covid, anche se asintomatico: ergo, legittimo impedimento chiesto dal difensore e processo rinviato di un mese, al 16 dicembre. Va da sé, la sospensione dei termini - di prescrizione e di custodia cautelare - vale per quella persona, non per tutti gli altri coimputati. Un bel problema, per il quale Loreto si è rivolta alle altre istituzioni: “Perché se ne facciano interpreti ai vari livelli di decisione, anche con proposte che, se necessario, potranno essere anche di carattere normativo”. Che potrebbe essere una strada - del resto durante il primo lockdown ci fu la sospensione dei termini - ma non di banale e semplice attuazione: si interviene pur sempre sulla libertà delle persone. Una soluzione l’offrirebbe già il codice, con l’eventuale stralcio della posizione, ma in processi con decine di imputati non è percorribile. Il problema rischia però di ripresentarsi subito, con il processo “Barbarossa” (ad Asti, sempre su la ‘ndrangheta), visto che pure qui un imputato, detenuto nella medesima ala delle Vallette, è risultato contagiato. Stesso rischio per l’udienza preliminare (il 30 novembre) di “Cerbero”, la maxi inchiesta dei pm della Dda Monica Abbatecola e Paolo Toso, che vede quasi 80 imputati. Riassume il Procuratore: “Quello che si rivela come un formidabile ostacolo alla celere trattazione e definizione di processi per gravi fatti di reato collegati all’azione della criminalità organizzata (e non solo) è la necessità di applicare rigorosi protocolli sanitari che sono diretta conseguenza delle linee nazionali in tema di prevenzione e precauzione sanitaria e ai quali non è consentito derogare, neppure da parte del vertice del Dap”. Però: “Il problema esiste, si pone ed è serissimo”. Da affrontare, appunto: “Con adeguati strumenti, di carattere normativo, di vario possibile rango”, per regolare gli effetti del Covid, e dei relativi rinvii. Motivo: “Non vanificare un lavoro giudiziario che, avendo come obiettivo la decisione finale del giudice, deve procedere, nonostante la gravissima situazione epidemiologica, in tempi ragionevoli”, ma sempre “in condizioni di sicurezza sanitaria, per tutti i protagonisti”. Detto tutto ciò, rimangono le carenze strutturali e organizzative di ministero e amministrazioni. Per dire, un giorno, per mancanza di personale, il giudice Giannone e i colleghi avrebbero dovuto fare da centralisti, per consentire le comunicazioni tra difensori e detenuti. Un grande classico italiano. Procura Ue, primo incontro tra Bonafede e Codruta Kovesi (capo dell’Eppo) di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2020 “L’Italia è pronta a garantire un contributo significativo, sia per numero di magistrati che per le risorse”. Presente anche il Pg della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi. Prosegue il percorso per rendere operativa la Procura europea (Eppo, European Public Prosecutor Office) e definire il contributo dell’Italia al nuovo organismo dell’Ue. Lo rende noto Via Arenula informando di un colloquio che si è svolto questa mattina in video-collegamento tra il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il primo Procuratore capo europeo Laura Codru?a Kövesi. Presente anche il Procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, mentre in video-collegamento ha partecipato alla riunione Danilo Ceccarelli, rappresentante italiano nel Collegio dei Procuratori di Eppo, nominato di recente Vice Procuratore Europeo. In Italia, la legge di attuazione del Regolamento istitutivo della Procura Europea sta seguendo l’iter parlamentare-governativo previsto e la procedura si chiuderà entro febbraio 2021. Il Ministro Bonafede ha espresso il suo apprezzamento per “l’attenzione che la Procura Europea dedica all’Italia e all’esperienza investigativa della Magistratura Italiana”. Al centro della discussione anche aspetti specifici del percorso di strutturazione di Eppo e della partecipazione italiana, quali: il numero dei Procuratori Europei Delegati (PED) espressi da ciascun Paese, il regime previdenziale e contributivo e l’inquadramento giuridico dei magistrati da destinare alla Procura Europea, la fase del reclutamento e la distribuzione degli uffici dei PED su base distrettuale. “L’Italia - ha concluso Bonafede - è pronta a garantire alla Procura Europea un contributo significativo, sia per numero di magistrati che per le risorse dedicate, mettendo a disposizione il bagaglio di esperienze e capacità che contraddistingue il nostro Paese”. Fiammetta Borsellino, una lezione sul coraggio di Silvia Bombino Vanity Fair, 18 novembre 2020 Sono passati quasi 30 anni dalla strage di via D’Amelio, e da una stagione difficile per il Paese. E adesso che l’Italia vive un’altra crisi, Fiammetta Borsellino ci dà una lezione sul coraggio, ovvero “la capacità di raccontarsi una storia diversa”. Nell’epoca in cui le regioni d’Italia virano sempre più al rosso, e i contagi totali hanno superato il milione di casi, Fiammetta Borsellino, fino a pochi giorni fa, usciva di casa ogni mattina con la mascherina per accompagnare Felicita, 10 anni, e Futura, 7, alla scuola steineriana che “anche in una realtà complessa come Palermo, esiste”. Sembra quasi estate, anche se siamo a novembre, nel quartiere della Kalsa, a pochi metri dalla casa in cui nacque, il 19 gennaio 1940, suo padre Paolo. Nonostante la sua vita sia stata sconvolta il 19 luglio 1992 dalla strage di via DA’ melio, non ha mai pensato di abbandonare questo posto. “Era una città che papà amava visceralmente. All’inizio non gli piaceva, ed era per questo che, diceva, poi se ne era innamorato così tanto”. Come passa le sue giornate? “Ci sono le restrizioni per la pandemia, la sera non si esce. Fino al 16 novembre, la giornata era assorbita completamente dagli impegni delle bambine, tra scuola, attività sportive e musica. Adesso ci stiamo riorganizzando. Se sarà possibile, nel fine settimana con mio marito continueremo ad andare nella casa in mezzo al bosco a Cefalù, un’oasi di benessere”. Ha paura del virus? “Seguo le regole e il buonsenso. Abbiamo avuto dei conoscenti malati, ma per fortuna nessun morto. La serenità di fondo che ho, mi deriva dal fatto di avere vissuto esperienze forti e dolorose. Ognuno di noi ha un rapporto personale con la morte”. Anche lei non riuscì a salutare suo padre, proprio come i parenti dei malati di Covid non riescono a salutarli se in ospedale non ce la fanno... “Quel 19 luglio ero in vacanza in Indonesia con una famiglia di amici, e ho sempre pensato che se non fossi stata lì probabilmente sarei morta, perché sarei andata anche io a trovare la nonna in via D’Amelio, con papà, dopo il mare. Che era morto l’ho saputo invece da una telefonata. Per questo capisco bene chi vede andar via i genitori, e li perde senza poterli nemmeno abbracciare. In più, mio padre aveva 52 anni: non abbiamo avuto molto tempo insieme. Tra l’altro è una pena che provo ancora adesso, la sto vivendo con mia sorella Lucia, che vive a Roma. Ha una grave malattia, è immunodepressa e posso metterla in pericolo, non posso starle vicino. L’ho vista a settembre dopo molti mesi, oggi spostarsi è ancora più complicato”. Lei che rapporto ha con la morte? “Sin da quando ero bambina è sempre stata una di famiglia. Vedere mio padre con la scorta, vedere morire i suoi amici, colleghi, giornalisti... ha fatto sì che per me fosse un pensiero sempre presente. Allo stesso tempo ho interiorizzato quello che diceva mio padre, ossia che bisogna comunque vivere. La paura è un fatto umano, ma bisogna farsi forza e andare avanti, perché la paura non diventi un ostacolo”. Non teme proprio nulla? “Avendo vissuto un clima di perdita perenne, posso solo dire che mio padre è stato bravo a prendere le cose con ironia, a scherzarci su, a farci vivere una normalità nell’anormalità degli anni 70 e 80. Le paure di oggi sono più che altro delle preoccupazioni sul futuro dei figli”. Da qualche anno ha iniziato a girare le scuole e le università, per chiedere la verità sulla morte di suo padre. Non ha paura anche che, dopo di lei, nessuno ne parli più? “Più che paura è sofferenza, il dolore che può provocarmi l’idea che tutto finisca nell’oblio, nel silenzio. Che questa possa diventare l’ennesima tragedia italiana che molto probabilmente rimarrà nel mistero. Mi riferisco ovviamente alla ricerca della verità, perché se parliamo della memoria, le vie e le piazze che vengono intitolate a mio padre, i ragazzi delle scuole, quella c’è ed è molto viva. Ma non basta. Occorre che accanto alla memoria ci sia la ricerca della giustizia, e la giustizia passa attraverso la verità. Se non c’è la verità è come fare morire due volte Paolo Borsellino, uno Stato che non riesce a far luce su queste ferite non ha futuro e non hanno futuro neanche i nostri figli. Non ha possibilità di progresso, che passa soprattutto sul far luce su fatti gravi che hanno segnato tutto il popolo italiano”. La sua vita, dopo quel 1992, ha avuto due fasi. Una prima parte di cui non si sa molto di lei, poi a 25 anni dalla strage è diventata più visibile, per chiedere, appunto, la verità. “Ho fatto il mio dovere, quello che mio padre diceva sempre di fare. A 19 anni il mio dovere era studiare, perché attraverso la cultura si combatte la mafia. E creare le basi per crescere, essere uomini e donne maturi. Non mi sono bloccata a quell’evento, come i miei fratelli”. Sua sorella Lucia diede un esame universitario poche ore dopo la morte di suo padre... “Era appunto il miglior modo di mettere in pratica gli insegnamenti di mio padre”. Dopo aver studiato, che cosa ha fatto? “Dopo la laurea in Legge ho lavorato 17 anni al Comune di Palermo come funzionario dei servizi educativi. Con la nascita della mia prima figlia ho però scelto di cambiare vita e dedicarmi totalmente a lei. Adesso che invece le bambine sono più grandi ho di nuovo cambiato vita. E ora che sono più consapevole, dopo anni a seguire le udienze e studiare i processi, ho deciso di impegnarmi per chiedere che cosa davvero è successo. Non avrei potuto farlo a 19 anni”. Se avesse la certezza che le rispondessero la verità, quale domanda farebbe? “Le sentenze ci dicono chi è stata la mano armata della strage, chi materialmente, appartenendo all’organizzazione criminale denominata mafia o Cosa Nostra, ha ucciso. Quello che oggi non si sa è la verità su quel fatto, quali sono state le menti che hanno voluto che ciò accadesse e che quindi hanno dato un contributo fondamentale all’attuazione della strage. Se quindi dovessi fare una domanda, questo presupporrebbe un contributo di onestà dalle istituzioni. Chiederei che queste fossero chiare e non reticenti, perché è stato penoso vedere in tribunale poliziotti e magistrati che difendevano la loro posizione senza dare alcun contributo alla ricostruzione dei fatti”. Ai processi molti ora dicono “non ricordo”, “non c’ero”, “sono passati 28 anni”. C’è ancora chi sa? “Sì, c’è assolutamente. Non sono tutti morti, e comunque le persone non agiscono da sole, gli alti vertici non potevano non sapere. Certo, più passa il tempo più la verità si allontana, ogni giorno che passa si sgretolano le prove”. Lei dopo i quattro processi sulla strage, ha denunciato il depistaggio in ogni sede. È cambiato qualcosa? “Il “Borsellino quater” si è concluso nel 2017 con una sentenza che sanciva il depistaggio. Si è aperto un nuovo processo nei confronti di alcuni poliziotti che aveva preso un buon ritmo, ma la pandemia ha rallentato tutto. Per i magistrati invece è stata chiesta l’archiviazione, abbiamo fatto ricorso e stiamo aspettando”. Che cos’è per lei il coraggio? “Credo che sia la capacità di andare avanti nonostante gli ostacoli che possono essere un freno a ideali o progetti. Coraggio è andare contro la corrente, la capacità di raccontarsi delle storie diverse da quelle che circolano”. Si sente simile a suo padre? “Avevamo un rapporto speciale, ero la piccola di casa, anche se poi abbiamo avuto i nostri screzi. Ricordo in particolare una litigata bestiale e una tensione che durò diverse settimane perché lui non mi fece andare a un concerto dei Duran Duran per cui mi avevano regalato dei biglietti. Del carattere di papà mi è arrivato molto, soprattutto la serenità di parlare di cose dolorose, di saperle condividerle. Lui era anche un po’ frivolo, amava l’ironia, il bello, giocare con i bambini, provocarli, insegnargli per gioco le parolacce, fare il bambino lui stesso, essere goliardico, strafottente. Era un cane che non aveva padroni, ho sempre detto. Mio fratello Manfredi ha più quel modo di fare, scherzoso. Non credo che abbiamo voluto emularlo, credo però che abbiamo assorbito molto di lui, i pochi anni che abbiamo vissuto insieme sono stati molto intensi, ed equivalgono a una vita intera”. Che cosa ha raccontato, alle sue figlie, di suo padre? “Non ho bisogno di raccontare, da quando sono nate sono cresciute a “pane e nonno Paolo”. Ne parliamo tanto, raccontiamo come se fosse accanto a noi, ci sono foto, libri che rimandano ai nonni. Le mie figlie hanno saputo sempre tutto, sia la parte felice sia quella dolorosa. Sono serene, anche se hanno la tristezza per non averlo potuto conoscere, e sono soprattutto orgogliose di avere avuto un nonno che era anche un esempio”. Perché le ha chiamate Felicita e Futura? “Felicita è un nome legato a mio padre, che, essendo un cultore della letteratura - adorava Dante che citava a memoria, era autodidatta della lingua tedesca -, tra i tanti amava anche Guido Gozzano. In particolare la poesia La signorina Felicita, ovvero la felicitˆ. Me l’aveva fatta imparare a memoria e mi faceva anche esibire, sulla sedia, davanti agli altri, gli piaceva come la recitavo. Quando ho scoperto, al parto, che era una femmina, questo era uno dei nomi prescelti. Futura invece si chiama così perché è il nome di una canzone di Lucio Dalla che amiamo particolarmente”. Liliana Segre, a 90 anni, ha deciso di terminare la sua testimonianza pubblica. Lei ha mai pensato di smettere? “Per ora non mi sono data una scadenza, non so come sarò tra cinque o sei anni, bisogna fermarsi se non si sta più bene. Ho avuto momenti difficili e di stanchezza. Ero passata da essere una madre iperpresente a una assente, stavo sempre fuori casa, giravo per l’Italia, avevo sempre la valigia in mano ed ero sempre in un aeroporto. Ho cercato un equilibrio. Non è facile raccontare i propri fatti personali e dolorosi davanti a un pubblico. Da una parte ti dà un benessere infinito, dall’altra un’enorme fatica”. Riesce a trattenere le lacrime? “È capitato che ho pianto, ma nel 90 per cento dei casi mi trovo a gestire le lacrime degli altri e riesco a mantenere la calma. È come se mi uscisse una determinazione, come se capissi che bisogna parlarne con il sorriso, solo così riesci a far breccia, a trasmettere la forza di questa storia. Se la prendi per quella che è, genera sconforto. Invece porsi in maniera decisa, con energia, è meglio, genera la volontà di andare avanti. E forse anche perché piangere lo vivo come una sconfitta. Sono convinta che noi, alla fine, con le nostre domande, ne usciamo vincitori. Sono altri che sono morti. Sono ancora vivi, ma sono morti dentro”. Bassolino e la giustizia giustiziera di Marco Demarco Corriere del Mezzogiorno, 18 novembre 2020 Diciannove processi, diciannove assoluzioni. C’è modo e modo di amministrare la giustizia, ma una cosa è certa: quello adottato dalla magistratura napoletana per accertare come e per responsabilità di chi si arrivò all’emergenza rifiuti, quella che Elena Ferrante definì il più osceno degli assedi che Napoli avesse mai subito, è stato di gran lunga il peggiore. Ecco perché, dopo il caso Tortora, la giustizia napoletana sarà ora ricordata anche come quella del caso Bassolino; di un leader politico, cioè, che dal 2003, anno in cui è iniziato il suo calvario processuale, solo ora può ritenersi definitivamente sciolto da ogni accusa e da ogni sospetto. Ed ecco perché - ancora - l’intervista rilasciata ieri a questo giornale da Domenico Lepore, capo della Procura dal 2004 al 2011, non è solo uno scoop, un significativo fatto giornalistico, ma è soprattutto - complimenti alla collega Titti Beneduce - un rilevante documento storico. Per la prima volta, infatti, non un passante, non un osservatore esterno, ma uno dei protagonisti assoluti di questa vicenda rivela come funzionava la macchina della Procura, come si procedeva nell’accertamento dei fatti. Come? Sparando a pallettoni e non già di precisione, così da limitare, per quanto è possibile, i danni collaterali. “Un errore - dice Lepore - l’abbiamo commesso: non dovevamo aprire tanti fascicoli. Dovevamo concentrarci su pochi fatti concreti e individuare i colpevoli. Di quell’errore Antonio Bassolino ha certamente pagato le spese”. Fin qui c’è almeno un’ammissione che è una sostanziale offerta di scuse, e dunque un fatto lodevole che va a merito di Lepore. Il quale, va ricordato, allora non aveva i poteri che hanno oggi i suoi colleghi dopo la riforma Castelli del 2005, e anche volendo non avrebbe potuto indurre i titolari dell’inchiesta a cambiare strategia. Aperta parentesi: ma era meglio allora o è stato meglio dopo, quando con la gerarchizzazione delle procure è stato più facile, attraverso il gioco delle nomine, determinarne anche la politicizzazione? Chiusa parentesi. E torniamo al punto. Dopo la prima ammissione, il procuratore capo ne fa un’altra ancora più clamorosa. Rivela anche lo spirito con cui quella scelta fu fatta. E qui si avverte invece un clima che avvolge tutti indistintamente. “Era il 2010 - dice Lepore - e anche se il picco dell’emergenza rifiuti era superato, le strade erano ingombre di sacchetti. Ci chiedevamo in che modo spingere i sindaci ad intervenire, a darsi da fare, e ci venne in mente di contestare l’epidemia colposa. Funzionò abbastanza bene, servì da sprone”. Si agì, insomma, con un’idea opposta alla prima, questa volta colpendo uno - Bassolino - per avvisare tutti gli altri amministratori. Un fine, a voler essere buoni, di stampo pedagogico, proprio di chi più che individuare fatti, reati e possibili responsabili da sottoporre a processo vuole correggere condotte pubbliche, impartire lezioni morali e atteggiandosi a commissario di protezione civile - risolvere un grave problema sociale. Eppure, è risaputo che un magistrato che cede alla tentazione di una finalità sociale o etica smette la toga e indossa impropriamente i panni, se va male, del giustiziere e, se va bene, del maestro di vita; essendo il suo compito esclusivo quello di lavorare alla soluzione dello specifico problema sottoposto al suo ufficio. Ma se anche si volesse attribuire all’azione dei pm una legittima funzione dissuasoria, allora le cose si metterebbero ancora peggio. Dopo tanti anni, infatti, non solo abbiamo avuto un innocente “in ostaggio” giudiziario ma non si è neanche riusciti a risolvere problema di cui sopra. A tutt’oggi, tanto per dire, nel mentre resta da accertare chi trascinò la Campania nella più oscena delle emergenze, ancora non è chiuso il ciclo dei rifiuti. Produciamo immondizia ma non ne smaltiamo a sufficienza. Insomma, sconfitti due volte: nei tribunali e nelle aree di stoccaggio. Detenzione inumana e 41bis: anche aerazione e luminosità incidono sulla qualità della pena di Veronica Manca quotidianogiuridico.it, 18 novembre 2020 Cassazione penale, sezione I, sentenza 29 ottobre 2020, n. 30020. Le Sezioni Unite fanno chiarezza sul reclamo: l’amministrazione penitenziaria è legittimata ad agire personalmente nel procedimento. Con la sentenza n. 30020/20, la Prima Sezione della Cassazione penale ha deciso in merito a un reclamo ex art. 35-ter O.P. per un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale del 41bis, che lamentava di essere stato recluso presso la struttura di Cuneo in condizioni inumane e degradanti, di rilievo per l’integrazione della violazione del parametro convenzionale dell’art. 3 Cedu. Anche se non si può parlare tecnicamente di sovraffollamento, dato che i detenuti sono dislocati in cella singola, tutti gli altri parametri - secondo la Corte di Cassazione - non sono stati adeguatamente valutati e quindi l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza deve essere annullata, per un nuovo esame nel merito delle altre condizioni di detenzione (come l’aerazione, l’illuminazione, ecc.). *Dottore di ricerca dell’Università degli Studi di Trento e Avvocato in Trento Abnorme la sentenza predibattimentale di appello che dichiara l’estinzione del reato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2020 Parte dall’affermazione che si tratti non di nullità, ma di atto abnorme, il rinvio alle sezioni Unite sull’impugnabilità. La Corte di cassazione a sezioni Unite penali affronterà di nuovo la questione della prevalenza della causa estintiva del reato sulla nullità assoluta processuale. La sentenza n. 32262/2020 ha infatti rinviato la questione al massimo consesso della Cassazione penale, che ha prodotto già numerosi precedenti sulla questione di tale prevalenza e della sussistenza o meno dell’impugnabilità in sede di legittimità. La Cassazione con la pronuncia di rinvio mette indubbio la regola della prevalenza quando sia stato leso il diritto al contraddittorio. Nell’effettuare il rinvio alle sezioni Unite la sentenza ripercorre i diversi precedenti di legittimità, partendo dalla sentenza che aveva affermato che in caso di nullità assoluta della sentenza che afferma l’estinzione del reato non vi sia interesse dell’imputato “prosciolto” a ricorrere contro la violazione della norma processuale che ha determinato la nullità. La decisione di rinvio pone in dubbio, infatti, tale prevalenza e anche la definizione di atto nullo, invece che abnorme. L’abnormità scatta tutte le volte che la conduzione del processo si rilevi eccentrica piuttosto che illegittima per violazione di norme processuali. Il giudice emette perciò un atto abnorme se fa esercizio di un potere giurisdizionale che non essendogli attribuito dal Codice non è di fatto neanche specificatamente sanzionato con la previsione di annullabilità o nullità assoluta. Quindi dice la Cassazione con l’odierna pronuncia che quando c’è abnormità non vi è neanche modo di stabilire la prevalenza di tale illegittimità sull’eventuale causa di estinzione del reato. Nel caso specifico la Cassazione tende a ravvisare come preminente l’interesse della parte alla fase del contraddittorio, completamente bypassato dalla sentenza di appello predibattimentale che afferma la prescrizione del reato come nel caso di specie. Infatti, come dice la sentenza, nel caso della sentenza predibattimentale di appello che dichiari - senza formalità di procedura - l’estinzione del reato per prescrizione vengono impediti di fatto sia l’esercizio del diritto di difesa nel merito sia la facoltà dell’imputato di valutare la rinuncia alla declaratoria della causa estintiva. È quindi una lesione del diritto della parte al contraddittorio a cui non può negarsi l’interesse a ricorrere. Campania. Piccoli dietro le sbarre, nelle carceri regionali 10 bambini chiusi in cella di Viviana Lanza Il Riformista, 18 novembre 2020 Possibile che ci siano ancora bambini chiusi in carcere? Possibile che non si riescano a trovare luoghi alternativi? Il Riformista aveva già sollevato questi interrogativi a giugno scorso, affrontando il tema delle detenute madri con figli al seguito. E ora torna a riproporli alla luce degli effetti che la pandemia sta scatenando all’interno degli istituti di pena, dell’assenza di provvedimenti mirati nei decreti del Governo e alla luce delle ultime statistiche del Ministero della Giustizia secondo cui, dalla scorsa estate, i bambini in carcere sono addirittura aumentati. Ebbene sì, mentre i contagi si diffondono, il numero di piccoli costretti a vivere in una cella anziché diminuire aumenta. E in Campania è più alto che altrove. Negli istituti di Lauro, Pozzuoli e Salerno si contano, secondo dati ministeriali aggiornati al 31 ottobre scorso, complessivamente otto detenute madri (tre delle quali straniere) con figli al seguito, per un totale di dieci bambini. Si tratta, quindi, di dieci piccoli, che hanno meno di tre anni d’età e vivono in cella con le loro mamme, costretti a scontare una condanna per una colpa mai commessa. La loro casa è una cella, con poca luce e le sbarre alle finestre. Spazi e affetti sono ridotti al minimo e le giornate hanno sempre gli stessi ritmi. L’orizzonte è una linea vicinissima, i suoni e i colori sono pochi e sempre uguali: grigio alle pareti e rumore di ferraglia ogni volta che una cella si apre o si chiude. Le prime parole che si apprendono sono “apri”, “fuori”, “aria” e le prime regole non sono quelle della libertà e dell’esperienza, ma della reclusione e della privazione. E non basta certo qualche giocattolo o una ninna nanna a restituire loro quel diritto all’infanzia negato e calpestato. “Come Commissione per l’infanzia e l’adolescenza visitammo poco dopo la costituzione della Commissione l’Icam di Lauro, struttura dove ho avuto modo di tornare anche successivamente - racconta la deputata Gilda Sportiello, membro della Commissione - Nel dicembre 2019, con il collega Paolo Siani, ho invece visitato la casa di Leda a Roma, un bene confiscato con tre donne, con una pena inferiore a quattro anni, e quattro bambini, lontani da una classica situazione di detenzione, in un contesto molto più vicino a un ambiente comunitario in cui i bambini e le loro madri hanno la possibilità di vivere una condizione sicuramente meno repressiva”. Una soluzione alternativa, quindi, sulla carta sarebbe possibile. “Fu allora - continua Sportiello - che decidemmo di depositare una proposta di legge per superare il modello dell’Icam a favore di un contesto molto più simile a quello della casa famiglia”. Intanto i dati ministeriali fotografano una realtà ancora difficile. “Nessun bambino dovrebbe vivere la detenzione - conclude Sportiello - È chiaro che, soprattutto in un’emergenza come quella che stiamo vivendo, bisogna adottare misure specifiche per le madri detenute con i loro figli”. E allora non resta che raccogliere il grido dei garanti: “Bisogna agire presto”. In Italia si contano 31 detenute madri e 33 bambini. La percentuale maggiore è in Campania: a Lauro, istituto a custodia attenuata, ci sono sei detenute con sette bambini in totale; nel carcere femminile di Pozzuoli c’è una detenuta con due figli al seguito; nella casa circondariale di Salerno ancora una con un figlio. Totale dieci bambini costretti a vivere dietro le sbarre. In Lazio e Piemonte se ne contano in tutto sei, in Lombardia quattro. E se si confrontano i dati di ottobre con quelli degli anni scorsi, si nota che il dato attuale, a eccezione del picco nel 2018 (14 bambini nelle celle campane), è superiore a quello degli ultimi anni: nel 2016 solo due bambini, nel 2017 tre, nel 2019 sette. A rendere la situazione più drammatica c’è il fatto che siamo in periodo di pandemia e sembra quasi paradossale che mentre si discute di come svuotare al più presto le carceri in vista del diffondersi dei contagi (102 detenuti positivi a Poggioreale, 55 a Secondigliano, 7 a Santa Maria Capua Vetere, uno a Salerno, 5 a Benevento), il numero di detenute madri con figli al seguito è in aumento. Sicilia. Tirocini formativi da Dusty per il reinserimento sociale dei detenuti cataniatoday.it, 18 novembre 2020 Offrirà opportunità di occupazione ai detenuti in prospettiva di un loro reinserimento sociale e lavorativo. Dai laboratori di riciclo, arte-terapia e riuso creativo con la realizzazione di opere artigianali in mostra, ai tirocini lavorativi retribuiti e alle assunzioni all’interno dell’azienda Dusty, leader nel settore dell’igiene urbana. In questo saranno impegnati un gruppo di detenuti all’interno del progetto “Fuori le Mura” ideato e realizzato dalla cooperativa Prospettiva Futuro insieme all’ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Sicilia, con il sostegno di Fondazione con Il Sud. Per tre anni il progetto coinvolgerà le carceri di Catania Piazza Lanza, Barcellona Pozzo di Gotto, San Cataldo, Gela, istituto penale per i minorenni etneo e anche gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna di Messina, Catania, Caltanissetta, Enna e Palermo con l’apporto dell’Ufficio del Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Sicilia. “Fuori Le Mura rappresenta una rarità non solo nel campo dell’inclusione sociale di soggetti deboli nel mercato del lavoro - afferma Domenico Palermo, responsabile del progetto - ma anche nel settore della progettazione sociale. In genere, si propongono a queste persone solo misure di politica attiva del lavoro, come i tirocini. Fuori Le Mura, invece, offrirà vere e proprie opportunità di occupazione”. “Fuori le mura è inoltre un percorso di inclusione sociale nella comunità - racconta Rosanna Provenzano, direttrice dell’Uepe di Caltanissetta - grazie agli uffici di esecuzione penale esterna della Sicilia si attiveranno percorsi di riabilitazione sociale e di promozione di reti abilitanti e inclusive”. “Fuori le Mura è un progetto semplice - dichiara Silvio Indice, presidente della Cooperativa Prospettiva Futuro - ma fortemente ambizioso. L’obiettivo, in linea con il nostro impegno che va avanti da oltre 20 anni, è offrire posti di lavoro stabili a soggetti fortemente svantaggiati”. Grazie alle partnership con Arché Impresa Sociale, Centro Astalli Catania, Centro di Accoglienza Padre Nostro, Consorzio Il Nodo e Cooperativa Sociale Golem i detenuti potranno partecipare a un innovativo percorso formativo nell’ambito della raccolta e del riciclo dei rifiuti solidi. La Dusty, durante il triennio del progetto, si impegnerà a inserire in azienda (nelle cinque sedi provinciali: Catania, Messina, Palermo, Siracusa e Caltanissetta) 60 candidati in qualità di tirocinanti. Di questi, 50 verranno assunti con un contratto di lavoro a tempo determinato per 6-12 mesi con orario part-time. Ad almeno 5 soggetti che avranno svolto con ottimo esito sia il tirocinio che il rapporto di lavoro, Dusty riserverà un contratto a tempo indeterminato per 24 ore settimanali. “La nostra responsabilità sociale d’impresa - afferma l’amministratore di Dusty Rossella Pezzino de Geronimo - ci spinge a operare al servizio dell’Ambiente e della sua salvaguardia, ma ci sprona anche, da oltre 40 anni, a combattere per un mondo migliore, per la sua bellezza, intesa non soltanto come concetto meramente esteriore, ma come etica, solidarietà, credibilità, rispetto di noi stessi, del prossimo e del territorio. Contribuendo all’obiettivo del progetto ‘Fuori le Mura’, Dusty concretizza ancora una volta i valori aziendali su cui si fonda. Offriremo un’opportunità di tirocinio e di assunzione ai detenuti e alle detenute che prenderanno parte al progetto perché siamo convinti che possano essere nuove risorse. Soltanto diventando tali il loro futuro può essere di cambiamento, di rigenerazione e rinascita”. Napoli. Detenuto di Poggioreale muore per Covid, i cappellani chiedono l’indulto cronachedellacampania.it, 18 novembre 2020 Il Covid fa registrare il primo detenuto morto in Campania mentre di fronte all’avanzare della pandemia delle carceri i cappellani delle carceri della Campania scrivono al ministro Alfonso Buonafede chiedendo un indulto che liberi posti degli istituti penitenziari. Il detenuto vittima del Covid - come riporta Cronache di Napoli - è deceduto al Cotugno dopo due settimane di lotta al virus. Era stato prima trasferito al Cardarelli e poi nell’ospedali dei Colli specializzato nelle malattie infettive. Attualmente si registrano 115 detenuti positivi a Poggioreale, 62 Secondigliano 220 tra genti penitenziari e personale ausiliario. È risultano positivo anche Antonio Fullone, direttore del carcere di Poggioreale. A livello nazionale ci sono 1.694 casi, 758 detenuti distribuiti in 76 penitenziari, e 936 tra agenti della polizia penitenziaria e altre persone che lavorano nelle prigioni. Numeri diffusi da Gennarino De Fazio, il segretario generale del sindacato Uilpa della polizia penitenziaria, che ha chiesto al governo “urgenti e ulteriori misure” per “diminuire la popolazione detenuta, aumentare l’organico degli agenti, potenziare i servizi sanitari”. Il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma chiede la “liberazione anticipata”. Lo dicono anche i cappellani delle carceri della Campania dicono che scrivono una lettera al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in cui chiedono di “rivedere la sua posizione sull’indulto, che in questo momento sarebbe una misura di civiltà giuridica che porrebbe freno alla condizione inumana in cui i detenuti versano”. E poi aggiungono: “Chi era ai margini lo è ancora, e aggiunge alla sua ordinaria condizione di precarietà anche quella di un’esposizione al rischio di contagio sicuramente maggiore. Con effetti deflagranti anche dal punto di vista psicologico. Ma chi soffre di più sono i detenuti, che sono dimenticati e pagano il prezzo del venir meno di un ordine normale delle cose, di provvedimenti restrittivi che hanno acuito la sofferenza di chi è recluso, causando rivolte e morti”. Nella lettera (sottoscritta dal direttore della pastorale carceraria di Napoli don Franco Esposito, da don Alessandro Cirillo della Casa di tutela attenuata di Eboli, dai cappellani di Poggioreale don Giovanni Liccardo e padre Massimo Giglio, di Secondigliano don Giovanni Russo, di Salerno don Rosario Petrone, dal vicario episcopale della Carità della diocesi di Nola don Aniello Tortora, dal cappellano dell’ex carcere Lauro di Nola don Carlo De Angelis, oltre a padre Alex Zanotelli e numerosi magistrati ed esponenti della società civile), i firmatari - come riporta Avvenire - parlano di “un’informazione su quanto accade tra le mura delle carceri pressoché inesistente e quindi di uno stato di paura e angoscia costante”. I cappellani della Campania invocano “la riforma dell’ordinamento penitenziario che è stata procrastinata da tutti i governi. In un momento in cui le carceri si affollano e prende corpo nella società una visione spregiudicata che tende a presentare la sanzione penale e il carcere come gli antidoti ad ogni male. Istituti penitenziari gonfi all’inverosimile, in cui, di fatto, la situazione è ingestibile”. E per questo che chiedono di “estendere a quanti più soggetti possibile la liberazione anticipata e, con la collaborazione dei Comuni, provvedere a dare un domicilio a tutte le persone detenute che ne sono prive. È necessario considerare con urgenza l’ipotesi di una legge sulle misure alternative, che le potenzi, le sviluppi e le favorisca. Riformando gli uffici di sorveglianza, troppo spesso lenti, anzi lentissimi. Questa lentezza - scrivono i sacerdoti - si traduce in una sostanziale violazione dei diritti dei detenuti. È necessario scarcerare chi, anche come residuo di maggior pena, si trova nella condizione di dover espiare pochi anni. Ciò favorirebbe il reinserimento nella società”. La richiesta è, dunque, quella di un carcere più umano, in cui i colloqui non siano eliminati ma, con le dovute cautele, solo ridotti. E, nello specifico, siano istituiti presidi sanitari interni perché - è la conclusione - “non possiamo arrenderci. Non accettiamo l’idea che il principio di solidarietà debba essere espunto dal nostro contratto sociale. Crediamo in una giustizia dal volto umano”. Roma. A Rebibbia protesta per gestione contagi, i detenuti si rifiutano di rientrare in cella Corriere della Sera, 18 novembre 2020 “Molti del Reparto G8 hanno fatto resistenza per problemi legati alla positività al Covid-19 di due compagni e all’isolamento sanitario cautelativo dei loro contatti”. Momenti di tensione oggi nel carcere di Rebibbia. “Molti detenuti del Reparto G8 si sono rifiutati di rientrare dal cortile del passeggio per problemi legati alla positività al Covid 19 di due loro compagni e al conseguente isolamento sanitario cautelativo di altri a diretto contatto. Dopo un intervento del personale di polizia penitenziaria e un colloquio con un vice direttore, i detenuti sono poi rientrati pacificamente nelle celle” riferisce Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. “Secondo gli ultimi dati diffusi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio nella casa circondariale nuovo complesso di Rebibbia i detenuti positivi al Covid-19 sono cinque, solamente uno dei quali gestito all’esterno del carcere: positivi anche 14 poliziotti penitenziari e un impiegato - precisa il sindacato. Nelle ultime settimane c’è stato un netto aumento di contagi negli istituti penitenziari. Secondo gli ultimi dati sono positivi al virus 866 poliziotti penitenziari e 758 detenuti, quasi tutti seguiti e gestiti internamente agli istituti. Settanta i positivi tra i dipendenti civili, appartenenti alle funzioni centrali. Se fossero state raccolte le nostre grida di allarme lanciate lo scorso gennaio, avremmo forse potuto fronteggiare meglio l’emergenza”. “Non entriamo nel merito di eventuali amnistie, indulti e condoni - aggiunge Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. A poco servono, se non seguono riforme strutturali. Piuttosto, servirebbe un potenziamento dell’impiego di personale di polizia penitenziaria nell’ambito dell’area penale esterna. Fondamentale potenziare i presidi sul territorio per farsi carico dei controlli sull’esecuzione delle misure alternative alla detenzione. Servono nuove assunzioni”. Busto Arsizio. Il virus entra in carcere: positivi 22 detenuti. Creata una sezione Covid malpensa24.it, 18 novembre 2020 Un focolaio di Coronavirus è stato scoperto nella Casa circondariale di via per Cassano. Sono 22 i detenuti risultati positivi al Covid, tutti asintomatici. Si tratta di reclusi di due sezioni l’una posta di fronte all’altra e già unificate, creando così di fatto una sezione speciale Covid all’interno del carcere. Lo ha confermato all’Ansa il direttore della Casa circondariale, Orazio Sorrentini: “È stata creata una sezione Covid interna al penitenziario, i detenuti stanno dimostrando collaborazione e responsabilità, e non hanno avanzato alcuna protesta”. Tamponi per tutti - Il direttore ha inoltre confermato che il 23 novembre prossimo verranno effettuati i tamponi di controllo. Nel frattempo, si sta calendarizzando l’esecuzione dei tamponi anche su tutto il personale di Polizia penitenziaria impiegato nel carcere di via per Cassano. L’obiettivo è contenere il focolaio. Tolmezzo (Ud). Covid in carcere, già 41 casi tra agenti e detenuti Messaggero Veneto, 18 novembre 2020 Situazione difficile nel carcere di Tolmezzo, dove, durante lo screening mensile al personale sono stati riscontrati per ora (il dato è provvisorio, in attesa nei prossimi giorni di ulteriori esiti) 16 positivi tra gli agenti di polizia penitenziaria. Tra i detenuti sono invece risultate positive 25 persone, di cui 7 in regime di 41bis. Erano state sottoposte a tampone dopo aver manifestato alcuni sintomi. Il sindaco, Francesco Brollo, sta seguendo questa situazione, che si somma ad altri fronti in città. A metà aprile durante la prima ondata il virus era giunto in carcere in seguito a cinque positività riscontrate tra i detenuti che erano stati trasferiti dal carcere di Bologna e un agente di polizia penitenziaria poi era risultato positivo. I successivi tamponi avevano dato esito negativo. In questo caso, vista anche la crescente diffusione in Carnia del Covid, è difficile dire come sia entrato in struttura. Il carcere conta circa 200 detenuti e altrettanti addetti, tra agenti di polizia penitenziaria, personale amministrativo e sanitario) vi prestano servizio. “Oggi stiamo finendo gli ultimi tamponi al personale - spiega la direttrice della Casa circondariale, Irene Iannucci - c’è ancora una cinquantina di persone da dover verificare, perciò i numeri sono ancora parziali. Per quanto riguarda i casi di positività fra i detenuti, sono 25, di cui 7 in regime di 41bis. Era stato concordato con l’azienda sanitaria di effettuare i tamponi a tutta la popolazione detenuta e a tutto il personale una volta al mese. Quindi abbiamo iniziato una settimana fa dai dipendenti e poi avremmo finito col personale e iniziato coi detenuti. Ci sono stati dei tamponi effettuati a detenuti perché in quei casi avevano lamentato dei sintomi e quindi abbiamo proceduto con la verifica. Per il grosso dei detenuti i tamponi iniziano domani (oggi per chi legge ndr). I detenuti positivi si trovano in reparti diversi. In un reparto c’è una sezione isolamento destinata come con la prima ondata a trattare le persone positive al Covid, nell’altra Sezione i detenuti sono in camera singola e pertanto restano isolati nella loro stanza” commenta la direttrice. Milano. Più che un “Hub Covid” quello del carcere di Bollate sembra un lazzaretto di Andrea Sparaciari businessinsider.com, 18 novembre 2020 Il personale sanitario dell’Hub Covid del carcere di Bollate: un medico e tre infermieri. Chiamereste “Hub Covid” un reparto con 198 posti-letto affidati a un solo medico e a tre infermieri? Probabilmente no. Ma nell’universo delle carceri italiane, anche un reparto adibito a ospitare solamente detenuti positivi diventa automaticamente un “Hub Covid”. Pur assomigliando più a un lazzaretto di manzoniana memoria che a un padiglione di terapie intensive. Parliamo del nuovo “Hub” aperto il 9 novembre scorso nella Casa di Reclusione di Milano Bollate. Il reparto - partito con i primi 66 posti e che nei prossimi giorni sarà ampliato fino a raggiungere una disponibilità di 198 letti su tre piani detentivi - è stato ricavato all’interno del 7° reparto, di solito occupato dai sex offenders. Scelto perché l’unico ad avere una porta con apertura elettromagnetica all’ingresso, unica minima misura di sicurezza anche in ottica sanitaria. Ma non bisogna farsi illusioni: il 7° reparto per il resto è assolutamente identico agli altri, con gli stessi spazi angusti che portano promiscuità, certamente non concepiti per il distanziamento sanitario. L’unica differenza rispetto agli altri reparti è di avere un paio di locali adibiti ad infermeria, in modo da renderlo “autonomo” nella dispensazione delle terapie. Stop. Nonostante ciò, l’Hub a regime dovrà ospitare tutti i detenuti positivi delle carceri lombarde, ora assistiti dai singoli istituti: secondo il Provveditore regionale all’Amministrazione penitenziaria, Pietro Buffa, oggi ci sarebbero complessivamente 156 detenuti Covid-positivi tra tutte le carceri della regione. L’associazione Antigone stima che a San Vittore, al 7 novembre 2020, fossero 82 tra malati e asintomatici; a Bollate 45; 4 a Opera, più due in regime del 41bis. Questi i numeri ufficiali, tuttavia sono decine (probabilmente centinaia) i reclusi che attendono di fare il tampone. Una situazione che si fa ogni giorno più pesante e quindi preoccupante, perché tutti hanno ancora fresco il ricordo delle rivolte scoppiate nelle carceri italiane del marzo scorso. E dei morti che esse causarono, sui quali si sta ancora indagando. Palermo. Antigone Sicilia visita il Pagliarelli: “In carcere il Covid c’è” palermotoday.it, 18 novembre 2020 ìIl presidente dell’associazione Pino Appprendi e Simona Di Dio: “Nel penitenziario ci sono 1.278 detenuti a fronte di una capienza di 1.158 e 760 appartenenti alla polizia penitenziaria, assistenti sociali, educatori, psicologi, infermieri, medici, impiegati amministrativi, volontari e un direttore. Il pericolo è alto”. Dopo la visita di venerdì al carcere Ucciardone, oggi il presidente dell’associazione Antigone Sicilia Pino Appprendi, insieme a Simona Di Dio, hanno visitato il carcere Pagliarelli. “Il Covid in carcere c’è, ed è un fatto che deve preoccupare tutti - afferma Apprendi - Il carcere è un luogo vissuto oltre che dai detenuti anche da tante persone che equivalgono quasi il numero dei reclusi. A Pagliarelli ci sono 1.278 detenuti a fronte di una capienza di 1.158 e 760 appartenenti alla polizia penitenziaria, assistenti sociali, educatori, psicologi, infermieri, medici, impiegati amministrativi, volontari e un direttore. Quasi lo stesso numero dei ristretti. Il pericolo è alto: nella prima fase eravamo un poco più tranquilli, ma ora il Covid è entrato prepotentemente in carcere”. Alla fine della visita, gli osservatori di Antigone si sono incontrati con i rappresentanti del comitato Esistono i Diritti con i copresidenti Gaetano D’Amico e Alberto Mangano, Giulio Cusumano e Domenico Pane e dagli esponenti radicali Donatella Corleo e Marco Traina, che hanno organizzato un sit in su viale Regione Siciliana, all’altezza del carcere di Pagliarelli, per chiedere l’istituzione del garante comunale dei detenuti e l’amnistia. “Bisogna alleggerire la presenza in tutte le carceri con l’amnistia e, in attesa, applicare misure alternative come gli arresti domiciliari, soprattutto per chi non ha commesso reati gravi, chi è in attesa di giudizio o gravemente malato - conclude Apprendi - Anche la Corte Europea ha richiamato l’Italia per applicare misure alternative alla detenzione in carcere”. Milano. Videochiamata tra un detenuto e compagna: Lei: “Sei positivo?”. “No, tanti altri sì” Il Dubbio, 18 novembre 2020 La videochiamata tra un detenuto all’Alta Sicurezza di Opera e la sua compagna nella quale si parla di Covid e contagi nel carcere milanese. Attesa. Oggi c’è la videochiamata. Cellulare sempre in mano perché se la perdi non la puoi più recuperare. 15 minuti per dirsi un’infinità di cose. 15 minuti per leggergli negli occhi, per interpretare il suo sguardo, i suoi gesti; per comprendere quello che sta dietro alle parole, alle frasi. 15 minuti per riuscire a capire la sfumatura di verità che oggi avrà quel “Tutto bene amore… fidati”. Finalmente ecco comparire il numero non registrato in rubrica, il cellulare vibra e le mani, come sempre, tremano un po’ accettando la chiamata. A volte compare subito il suo volto, a volte un ambiente che non conosco, che è fatto solo da un muro in secondo piano, uno spazio vuoto e impersonale. Sempre quel sottofondo disturbato di voci metalliche e tonanti lontane, di sedie spostate e di porte sbattute che precede l’inizio dell’incontro a lungo atteso. Ora a riempire lo schermo, per me, c’è solo l’immagine dell’amore della mia vita, il resto lo cancello. Mi sforzo di isolare la sua voce dai disturbi sonori, continui e fastidiosi. - “Sciatu mio”. Lui mi saluta sempre così, un’espressione siciliana che significa sei il mio fiato, sei il mio respiro. Per me è sempre un pugno al cuore che mi strozza la gola perché so che gli manco davvero come il fiato, lo so perché io provo la stessa cosa. Ora ancora di più, da quando per la seconda volta ci hanno tolto i giorni di permesso, quei giorni in cui respiravamo la stessa aria. L’aria innamorata della nostra casa, della nostra stanza, del nostro giardino. “Ciao amore mio…”. Capisco subito che qualcosa non va, non mi serve tempo per decifrare o per leggere oltre. Oggi ha due mascherine, quella FFP2 che gli ho spedito e quella di stoffa che si è cucito lui; le mani ricoperte da quei guanti larghi e grandi che solitamente indossiamo ai reparti frutta e verdura del supermercato, lo rendono goffo e impacciato. È irrequieto, impiega più del solito a sedersi e a sistemarsi. Continua a chiedere di chiudere per piacere la porta. - Allarmata chiedo: “Cosa c’è amore, come stai? Tutto bene?” Un interminabile momento di silenzio, il tempo che di solito si prende per trovare le parole adatte a dire qualcosa di grave. “È arrivato amore, è arrivato fin qua…” Dalla mia parte il gelo, un brivido infinito corre lungo tutta la schiena e si punta come una lama sottile nella testa. “Noooo, sei positivo?” Il cuore in tumulto, la testa che scoppia, quel contorcimento di budella che ti lascia senza fiato. Il pensiero corre subito ai suoi polmoni, polmoni che da quasi 30 anni inspirano fumo incuranti del rischio che corrono perché la vita fino a qualche anno fa per lui non aveva importanza, che respirano solo l’aria stantia e umida della cella, un’aria condivisa con persone che non ha scelto o respirata e rirespirata nello spazio dell’isolamento. - “No, non io…” Domando subito del suo compagno di stanza, poi di coloro che conosco attraverso i suoiracconti. - “No amore, è arrivato al piano, ma nell’altro corridoio. Sono positivi in 14. Li hanno portati via tutti. Entrano ed escono tutti bardati, nelle tute bianche, è terribile…”. Immagini alle quali siamo ormai abituati, bombardati dai servizi dei media, dalle foto dei quotidiani e dei rotocalchi. Immagini che ora si materializzano accanto a lui. Vedo un volto sgomento, uno sguardo turbato, un corpo ripiegato sulla paura. Anche se il virus non è entrato nella sua stanza io non sono per niente tranquilla. La commistione per chi vive in carcere è un dato di fatto. Anche se si è di due sezioni differenti, di due regimi differenti le guardie girano su tutto il piano. I lavoranti passano di cella in cella, di corridoio in corridoi. Gli spesini smistano la spesa insieme ai detenuti di corridoi diversi dal loro e poi la distribuiscono a loro compagni di sezione. E poi gli spazi condivisi. La stanza delle telefonate e delle videochiamate. E poi le mascherine che latitano, molti non la indossano o non la indossano correttamente, o non la cambiano come raccomandato. Gli igienizzanti sono inesistenti, si arrangiano con i detersivi che possono comprare nella spesa. La paura ormai si è presa tutti i miei pensieri. Anche se lui cerca di tranquillizzarmi io non riesco a smettere di tremare. Ho perso la lucidità e ho perso l’opportunità di vivere e condividere 15 minuti di leggerezza con la persona che amo. Sento il baratro sempre più vicino e come ogni volta il senso di impotenza mi svuota. Se tarda a telefonare o se la chiamata non arriva vivo nell’ansia e nel terrore che non abbia potuto raggiungere il telefono perché è successo qualcosa, perché l’hanno isolato, perché sta male. Da ieri la preoccupazione si è amplificata insieme al malessere e all’incertezza del futuro. Firenze. Bambini in carcere. “Il Comune decida in merito alla realizzazione dell’Icam” comune.fi.it, 18 novembre 2020 “Il Consiglio comunale di Firenze non ha ancora avuto modo di esprimersi su una risoluzione depositata a inizio gennaio 2020 sulla realizzazione dell’Icam, per evitare di vedere bambine e bambini in carcere”. “Il Foglio di ieri ha dedicato alle figlie e ai figli della popolazione detenuta un lungo articolo. Viene citato anche Sollicciano e il territorio di Firenze. Si affrontano - spiegano i Consiglieri di Sinistra Progetto Comune Dmitrij Palagi e Antonella Bundu insieme al presidente dell’associazione Progetto Firenze Massimo Lensi - le problematiche dell’Icam, un istituto sicuramente imperfetto, come tutto il sistema penale italiano, ma che avrebbe il vantaggio di “tirare fuori” dal carcere bambine e bambini di pochi anni. Nel nostro Comune una soluzione, per quanto parziale, sarebbe stata già individuata, grazie alla disponibilità di un edificio di proprietà della Madonnina del Grappa e alle risorse già previste dalla Regione Toscana. Da quando furono compiuti i primi passi nel lontano 2006, poco è stato fatto di concreto: solo una lunga fila di rinvii a tempo illimitato, burocrazie e tante promesse. Siamo nel 2020 e l’unica struttura territoriale per i bambini, le bambine e le loro madri detenute è tuttora il nido interno del carcere di Sollicciano. La risoluzione presentata a inizio gennaio da Sinistra Progetto Comune in Palazzo Vecchio - aggiungono Palagi, Bundu e Lensi - giace in cima all’ordine dei lavori senza neanche un parere di commissione. Dando seguito all’iniziativa carcere e città a breve organizzeremo un appuntamento dedicato a questa tematica, ma nel frattempo vorremmo chiedere alle istituzioni e alla politica di riconoscere almeno un minimo delle proprie responsabilità. Tolte le promesse e i raffinati ragionamenti, rimane l’assurda situazione di una soluzione trovata ma non attuata, cui la Giunta - concludono Palagi, Bundu e Lensi - risponde sempre con rassicuranti “è vero, ma da domani cambierà”. Un domani che slitta di volta in volta”. Cagliari. La sfida della lavanderia del carcere: le commesse esterne di Massimiliano Minervini ìgnewsonline.it, 18 novembre 2020 Ha preso il via il progetto Lav(or)ando, che prevede un servizio di lavanderia industriale all’interno del carcere “E. Scalas”, di Cagliari-Uta. Una opportunità di lavoro e possibile reinserimento sociale per i detenuti che vi prenderanno parte. Marco Porcu, direttore dell’istituto di pena sardo, ricorda il cammino che ha condotto a un simile risultato: “Abbiamo aderito come partner a un progetto presentato dalla cooperativa Elan, che già gestisce il servizio di lavanderia al carcere minorile di Quartucciu, partecipando al bando della Fondazione per il sud e siamo stati selezionati. L’iniziativa, che ha durata quadriennale, si basa sulla formazione di circa 24 detenuti, con graduale immissione al lavoro di altre persone, in base alle necessità contingenti”. “Verrà gestito il servizio interno di lavaggio - prosegue Porcu - oltre alle altre attività connesse. La vera sfida, però, sarà ottenere commesse esterne, in modo da equiparare l’attività interna alle modalità operative di una qualsiasi azienda. Prima di essere adibiti alle mansioni lavorative, gli interessati prenderanno parte a un tirocinio della durata di due mesi. Questo percorso permetterà, magari, agli interessati di acquisire competenze spendibili anche successivamente al termine della pena”. Il direttore quindi rimarca che: “Nella fattispecie, non parliamo di semplice attività di pubblica utilità, ma di vera e propria attività di impresa che ci auguriamo possa incrementare nel tempo in maniera sempre più significativa”. “Viviamo in un tessuto economico piuttosto disagiato - conclude Marco Porcu - per cui non è facile trovare un soggetto imprenditoriale che voglia investire in un istituto di pena e, quindi, questa iniziativa è da salutare con grande favore”. Ferrara: Unife: detenuto laureato con 110 e lode di Federico Di Bisceglie Il Resto del Carlino, 18 novembre 2020 È il primo caso nella storia del nostro ateneo. Il relatore: “Ha trattato un tema attuale, parlando anche di sicurezza e di legalità”. Centodieci e lode dietro le sbarre. Il carcerato-studente dell’Arginone ora potrà fregiarsi del titolo di dottore. E potrà anche vantare il primato di essere stato il primo studente iscritto all’Ateneo ferrarese ad essersi laureato da detenuto. Il corso di laurea scelto dal neo dottore è stato Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Nella stesura della tesi, con un taglio antropologico e sociale, il laureato si è concentrato su come sono cambiate le nostre città dal punto di vista della sicurezza e in particolare relativamente all’applicazione del Daspo urbano. Forse, anche per dimostrare che l’orizzonte della cella non era il suo confine. Voleva andare oltre. E ci è riuscito. “Si è trattato - dice Giuseppe Scandurra, professore di Antropologia culturale a Unife e relatore della tesi del ragazzo - del coronamento di un bellissimo percorso accademico. Peraltro, anche nell’ambito della discussione della tesi, avvenuta in presenza con cinque commissari, il laureando ha fatto un’ottima impressione. Tanto più che ha trattato un tema di assoluta attualità, con un cappello politologico piuttosto interessante, oltre ad aver approfondito tematiche come legalità e sicurezza”. Secondo Scandurra “è stata un’esperienza molto importante, che ha rafforzato un impegno che il nostro ateneo, auspico, prosegua nel tempo con la casa circondariale”. E su questo punto si esprime entusiasticamente anche Stefania Carnevale, delegata del rettore ai rapporti con la casa circondariale. “Dal 2016 - puntualizza - la nostra Università collabora con l’Arginone avviando questo tipo di progetti. Penso che si tratti di un tassello fondamentale per la socializzazione dei detenuti e anche per la reintegrazione una volta finito di espiare la pena”. Dall’anno scorso, racconta Carnevale, “abbiamo quattro studenti detenuti iscritti a Unife. Uno è uscito dal carcere e continua il suo percorso universitario da libero. Uno, appunto, è diventato dottore mentre gli altri due proseguono dalla casa circondariale il loro percorso”. Peraltro, aggiunge, “abbiamo sperimentato l’efficacia delle prime giornate di orientamento che ci hanno portato quantomeno all’interessamento di altri tre detenuti. E probabilmente ne arriverà un quarto”. “Il conseguimento del titolo da parte di questo ragazzo - conclude Carnevale - rappresenta un risultato importantissimo per Unife. Credo che in questo modo anche l’ateneo possa vantare l’offerta di servizi che, seppur in crescita negli atenei italiani, sono tutt’altro che scontati e secondari”. Crotone. Donazione ai detenuti, inviate oltre 2.000 mascherine e gel igienizzante corrieredellacalabria.it, 18 novembre 2020 Ottimo riscontro della società civile all’appello del Garante comunale: consegnati oltre 2.000 dispostivi di protezione individuale e gel igienizzante. Anche questa volta la generosità dei crotonesi non si é fatta attendere! Risposta positiva, al di là delle aspettative, da parte della società civile all’appello del Garante comunale avv. Federico Ferraro sulla necessità di invio ai detenuti di Crotone di strumenti di protezione individuale anticovid-19. In seguito alla comunicazione pubblica lanciata da Federico Ferraro nei giorni scorsi, si sono susseguite ben tre donazioni da parte di privati cittadini e associazioni; le consegne sono state effettuate alla presenza oltre del Garante comunale anche della Direttrice del Carcere d.ssa Caterina Arrotta, della Comandante della Polizia Penitenziaria Manon Giannelli e del Vice Comandante Francesco Tisci. Con oggi si sono concluse in ordine temporale tre consegne di materiali : lunedì 9 novembre, sono state consegnate le prime 150 mascherine per detenuti, tramite una donazione effettuata del Sig. Aurelio Capogreco; lunedì 16 novembre sono state portate altre 1.500 mascherine anti contagio, questa volta ad opera dalla Caiservice Group nelle persone dei dott. Cesare e Mario Spanò; ed infine oggi 17 novembre, il Lions Club Crotone Host ha effettuato la consegna di altre 250 mascherine, 200 paia di guanti, 4 spray igienizzanti per superfici e ben 25 litri di igienizzante per le mani, tramite il Presidente del Club dott. Franco Palermo e la avv.ssa Segretaria Tiziana Paletta. Tali gesti di solidarietà sono particolarmente significativi poiché consentono di dare risposte concrete e fattuali alla popolazione detenuta, andando incontro alle necessità primarie quali, prima fra tutte, la tutela della salute, diritto costituzionalmente garantito dalla nostra carta fondamentale ex art 32: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Tale diritto non è solo dell’individuo ma attiene alla sfera collettiva, infatti nel caso di specie attraverso le dotazioni dei dispositivi di profilassi, viene assicurata la tutela di tutti colori i quali operano nella Casa circondariale di Crotone: dalla Polizia Penitenziaria ai funzionari D.a.p., dai familiari dei detenuti alle persone recluse. Il totale delle dotazioni ammonta a ben 2.100 dispositivi di protezione tra mascherine e guanti, oltre il liquido igienizzante per mani e superfici. Il Garante comunale Federico nell’esprimere grande soddisfazione per la missione compiuta si congratula con i donatori che hanno risposto con grande generosità all’appello. Le autorità europee vogliono poter spiare tutte le nostre conversazioni di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 18 novembre 2020 Documenti ufficiali trapelati sulla stampa di diversi paesi Ue mostrano i piani per mandare in pezzi il sistema di crittografia che protegge la riservatezza dei messaggi che scambiamo ogni giorno. Di metafore ne hanno inventate tante, pure sfiziose. Da quelle più sofisticate per gli hacker a quelle più terra terra per il famoso “utente qualunque”. La più semplice resta comunque la più efficace: se buchi con una spilla un pallone di gomma e ci metti un cerotto, inevitabilmente quel cerotto salterà e uscirà l’aria. Il cerotto salterà o più probabilmente, nel nostro caso, qualcuno lo toglierà di proposito. Sì, di proposito. Perché la metafora, sicuramente banale, racconta del sistema di crittografia. Quello che consente di scambiarsi messaggi, informazioni, dati senza che nessun altro, oltre al ricevente, possa metterci il naso. Possa vedere, controllare cosa ci sia dentro. Un pallone-metafora fino ad oggi sicuro, quasi impenetrabile. Eppure da anni, gli Stati Uniti - soprattutto durante la gestione Trump ma non solo - hanno provato ad accedere ai dati crittografati. Sempre nel nome della sicurezza nazionale. L’ultima volta pochi mesi fa, quando il procuratore generale William Barr aveva chiesto istericamente una legge per avere un “accesso a tutti i tipi di comunicazione”. Poi, fortunatamente l’America è stata distratta da altro. Nessuno, però, poteva immaginarsi che la stessa cosa, più o meno la stessa richiesta, potesse echeggiare anche dall’altra parte dell’Oceano, in Europa. Invece è esattamente quel che sta avvenendo. Nulla di deciso ancora ma le premesse sono allarmanti. Eccole: poche settimane fa il sito ORF.at - un sito austriaco generalista, autorevole ma non particolarmente attento ai temi delle libertà digitali - è entrato in possesso e ha pubblicato un documento che probabilmente sarebbe dovuto restare riservato, scritto dal governo tedesco e rivolto agli altri paesi del Consiglio europeo. Scritto e pensato dopo gli ultimi attentati islamisti. È una bozza, dichiaratamente aperta a integrazioni anche se - dicono sempre le indiscrezioni - dopo il voto nel gruppo di lavoro nella sicurezza (Cosi), potrebbe passare direttamente al Consiglio (Coreper). E avviare così l’iter che dovrebbe portare alla fine il parlamento a vararlo. E sarebbe un disastro. Perché nel testo si parla esplicitamente della possibilità che le “autorità competenti” - non meglio specificate - abbiano “accesso” ai messaggi crittografati. In un’Europa che pure ha messo nero su bianco - nella normativa di protezione dei dati - la promozione della crittografia per garantire “la privacy e la sicurezza di governi, aziende e cittadini” (Il Gdpr di quattro anni fa, recepito in Italia nel 2018). C’è scritto, insomma, che è lo strumento principale per la sicurezza di tutti. Eppure lo vogliono rompere. Non lesionare, proprio rompere. Bucare, come il pallone-metafora. Perché il sistema di crittografia o funziona in un modo inaccessibile o non funziona. E diventa un’altra cosa. Il documento pubblicato dal sito austriaco non dà indicazioni tecniche su come realizzare quest’accesso alla crittografia. Dice solo che è un tema da approfondire. Già, ma come? Dopo la prima, c’è stata una seconda fuga di notizie. Grazie al sito politico si è venuti così a conoscenza di un rapporto tecnico, che è stato richiesto dalla commissaria per gli Affari Interni, Ylva Johansson, socialdemocratica svedese, ad una squadra di “esperti”. Che alla fine hanno suggerito di intervenire “scansionando il lato client”. Intervenire dal lato degli utenti, insomma. Ipotesi, come spiega perfettamente l’Electronic Frontier Foundation in un lungo saggio semplicemente “impossibile”. “Come far quadrare un cerchio”. Perché il sistema criptato end to end - quello utilizzato da WhatsApp per capire - funziona così: Tizio manda un messaggio a Caio, con Tizio che utilizza una cifratura con chiave pubblica. Caio legge e decifra il messaggio utilizzando però una chiave privata, che solo lui - la sua app, sul suo dispositivo in quel momento - può conoscere. Ed il canale che gestisce la comunicazione non può controllare la creazione della chiave privata. L’idea dei tecnici sollecitati dalla Ue sarebbe invece quella di introdurre nelle applicazioni di messaggistica un sistema per il quale un testo o un’immagine prima di essere spedita al mittente, dovrebbe essere filtrata da un data base. Ovviamente su un server. Che controllerà se ci sono parole o immagini che riguardano la pedofilia o il terrorismo. In quel caso bloccherebbe tutto, prima di girare i file alle autorità. Inutile aggiungere che la trasmissione di dati fatta in questo modo sarebbe a rischio. E non avrebbe più senso parlare di comunicazioni sicure. Tantomeno riservate. Tema in qualche modo affrontato dagli stessi esperti che ipotizzano anche un piano B, pensando di inserire quel data base filtrante - chiamiamolo così - direttamente sull’applicazione che l’utente si scarica. Ognuno col proprio controllore locale, che bloccherebbe i contenuti illegali. Ipotesi questa, ancora più ridicola, per dirla sempre con l’Eff. Così, senza soluzioni tecniche possibili, quello che le autorità europee stanno sollecitando non è altro che una back door, una porta. Uno spioncino. Per guardare cosa c’è dentro. Che farebbe però saltare l’impianto, la filosofia delle comunicazioni crittografate. Così la polizia polacca potrebbe sapere chi e dove organizza le manifestazioni contro la legge sull’aborto, così Orban potrebbe sapere dove e chi discute della legge contro i rom. Così qualunque polizia saprebbe chi e quando partecipa a un corteo. O così una Rsa nostrana saprebbe quale suo dipendente denuncia la mancanza di protezioni e medicinali in pandemia. Ce n’è abbastanza, insomma, perché tutte le organizzazioni che si battono per i diritti digitali, da Access Now ad Article19 e decine di altre ong, raggruppate nella sigla Edri (European Digital Rights), abbiano scritto una lettera alla presidenza tedesca. Per ricordare che la riservatezza delle comunicazioni - e quindi la crittografia - sono alla base di qualsiasi sviluppo digitale. E se proprio la Ue non è interessata alla difesa della privacy personale, se proprio la Ue vuole rinnegare se stessa e infischiarsene del diritto a comunicare in via riservata, il rassemblement di associazioni ricorda all’Europa che introdurre un varco nella crittografia - anche un piccolo varco - nel giro di poco diventa una voragine, ed è rischiosissimo per tutti. Per gli Stati, per le loro economie, per le transazioni economiche. Per il business, insomma. E ricorda anche che a prevenire l’attentato di Vienna e quelli che l’hanno preceduto, sarebbe bastato coordinare le polizie europee, che mai come in questi ultimi casi avevano tutte le informazioni per intervenire. Raccolte con gli strumenti che hanno già a disposizione. Non spiando i messaggi di chiunque. Che invece è esattamente quello che le polizie vorrebbero fare. E qui va citato l’ennesima scoperta di un sito tedesco, NetzPolitik.org, che un po’ di mesi fa ha pubblicato una lettera del coordinatore del Ctc, l’antiterrorismo europeo che, senza giri di parole, chiedeva ai legislatori la possibilità di “introdurre una porta d’ingresso” in modo che le forze dell’ordine possano accedere ai dati crittografati. Le indagini, invece, - e si ritorna alla lettera firmata dall’Edri alla presidenza tedesca - andrebbero fatte solo “con l’autorizzazione dei tribunali, e sempre rispettando i principi di legalità, trasparenza, necessità e proporzionalità”. Definizione però incompatibili con la voglia di rompere la crittografia. Definizione a questo punto incompatibili con la loro voglia di controllo. Relazione antidroga, senza politica e tanta repressione di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 18 novembre 2020 Cannabis che, pur in calo, continua a farla da padrona anche nelle operazioni di polizia. Il numero delle operazioni con obiettivo la cocaina ha ricominciato a salire dopo anni di letargo e distrazione. La scorsa settimana è stata finalmente pubblicata sul sito del Dipartimento Antidroga, la “Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia”, riferita ai dati del 2019. Un ritardo di quattro mesi rispetto alla prescrizione di legge ma anche sul Libro Bianco sulle droghe che invece, puntuale da 11 anni, è stato presentato il 26 giugno scorso. Quest’anno la relazione governativa appare molto più completa rispetto alle ultime, addirittura 100 pagine in più di dati, alcuni interessanti. È però assente la stima aggiornata del consumo delle sostanze da parte della popolazione generale. L’ultimo studio pubblicato risale al 2017, quello di quest’anno è stato rinviato causa Covid. In questa relazione da un lato vengono riportate le stime dell’Istat basate sui dati 2017 sul mercato delle droghe, dall’altro viene presentato lo studio sulle acque reflue, che appare una rimasticatura di ricerche assolutamente inutili. È evidente che non sono elementi sufficienti per capire quali sostanze consumino e con che modalità gli italiani. Fra i dati disponibili invece, vi sono quelli dell’indagine del CNR sugli studenti. Secondo lo studio Espad 2019 ci sarebbe una sostanziale stabilità nei consumi, con addirittura una tendenza alla diminuzione dei consumi di molte sostanze e di alcune di queste anche dell’uso frequente. Nonostante i periodici allarmi della stampa, la realtà sembrerebbe quindi assai diversa. Il dato sull’accessibilità delle sostanze per i più giovani contraddice le aspettative che potrebbero venire dal vantato sforzo dell’apparato delle forze dell’ordine. L’83% degli studenti che la usano dichiara di potersi procurare con facilità la cannabis, quasi l’80% di questi “in strada”. La cocaina è facilmente reperibile per il 77,5% degli utilizzatori, l’eroina per il 68%. Si conferma dunque la forza del mercato illegale. Veniamo alla cannabis: nel 2019 sono 15.446 gli utenti in carico ai SerD, in aumento del 2% rispetto al 2018. Rappresentano circa lo 0,2% dei consumatori italiani di cannabis, mentre per 426 persone (0,007%) è stato necessario un ricovero a seguito del consumo di cannabinoidi. Anche quest’anno nessun morto è attribuibile alla sostanza illegale più consumata e perseguita in Italia, mentre sono state 373 le morti per overdose, la maggior parte per eroina, purtroppo in aumento di circa il 10% come accade ormai da tre anni. Interessante l’analisi nel dettaglio delle segnalazioni ai Prefetti per consumo (art. 75): l’età media è 24 anni e si conferma un costante aumento dei minorenni segnalati, la quasi totalità (97%) per cannabis. Cannabis che, pur in calo, continua a farla da padrona anche nelle operazioni di polizia. Il numero delle operazioni con obiettivo la cocaina ha ricominciato a salire dopo anni di letargo e distrazione. Importanti conferme emergono per le nostre analisi dal capitolo riguardante il rapporto fra i processi per droga e le condanne. Se analizziamo i dati consolidati, constatiamo come nel 2009 il 70% dei reati per droga ha portato alla condanna passata in giudicato. Un rapporto che arriva all’85% via via che ci avviciniamo al 2019 (dato che sconta la velocità dei riti abbreviati). Comunque sia un terzo dei condannati per droga termina l’iter processuale entro l’anno dalla denuncia, il 76% entro i tre anni. Il Testo Unico sulle droghe conferma un’efficienza senza pari nel mandare in carcere le persone. Drammatica conferma che viene dai dati abnormi del carcere per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90, sia sulle presenze che sugli ingressi. Manca anche questa volta una qualsiasi assunzione di responsabilità politica e una vera discussione sulla riforma non è all’orizzonte. Altro che discontinuità. Negli Stati Uniti anche con i referendum si legalizzano cannabis e psilocibina e in Italia dobbiamo difenderci dall’arresto anche per i fatti di lieve entità! In Afghanistan la guerra è persa. E l’America va a casa di Giuliano Battiston Il Manifesto, 18 novembre 2020 Exit strategy. Ritiro delle truppe Usa dal terreno, Trump vuole procedere più in fretta di quanto stabilisca l’accordo firmato con i Talebani. Biden, che nel frattempo ha cambiato idea e pensa che sia un conflitto impossibile da vincere, eredita una scelta che non potrà cambiare. E lo scontento del governo di Kabul, escluso dal tavolo. L’ordine esecutivo del presidente uscente, Donald Trump, ancora non c’è, ma potrebbe arrivare a giorni: via le truppe da Afghanistan, Iraq e Somalia il prima possibile. “Non siamo gente da guerra perpetua - è l’antitesi di ciò per cui ci battiamo e per cui i nostri avi hanno combattuto. Tutte le guerre devono finire”. Così il segretario in carica alla Difesa Usa, Chris Miller, in una lettera del 13 novembre inviata agli impiegati del Dipartimento della Difesa. “Confermiamo l’impegno a completare la guerra che al Qaeda ha portato sulle nostre coste nel 2001”, ma “è tempo di tornare a casa”, scrive l’uomo con cui Donald Trump ha sostituito Mark Esper. Secondo il Washington Post, Esper pochi giorni fa aveva inviato un memo classificato alla Casa Bianca dicendosi preoccupato di un ritiro “precipitoso” dall’Afghanistan. È stato poi silurato. La nomina di Miller segnala la volontà di Trump di procedere in fretta. Più in fretta di quanto stabilisca l’accordo tra Stati uniti e Talebani firmato a Doha il 29 febbraio 2020, che prevede il ritiro completo entro l’1 maggio 2020. Trump finora ha rispettato i patti: le truppe americane sono passate da 13mila a febbraio a 8.600 a giugno, oggi sono 4,500 circa ed entro il 15 gennaio - 5 giorni prima dell’insediamento di Joe Biden - potrebbero essere ridotte a 2.500, secondo il calendario fornito in passato da Robert Charles O’ Brien, consigliere per la sicurezza nazionale, e confermato dalle indiscrezioni di questi giorni. A Trump potrebbe non bastare: alla vigilia delle elezioni ha dichiarato di voler portare tutti a casa entro Natale. Riuscire a farlo entro Natale o gennaio è impossibile, a meno di non lasciare tutto l’equipaggiamento sul terreno, ha notato l’esperto militare Jonathan Schroden: in Afghanistan ci sono 4.500 soldati Usa, 6.500 circa della Nato, almeno 20mila contractor e poi elicotteri, camion, armi, strumenti sensibili che il Dipartimento della Difesa non vuole abbandonare o distruggere. “Servono mesi per il ritiro completo”. Mesi durante i quali Kabul spera di rafforzarsi. Donald Trump lascia infatti in eredità a Joe Biden un accordo bilaterale tra Usa e i Talebani che ha fortemente penalizzato il governo di Kabul, escluso dall’accordo, e rafforzato i Talebani, passati all’incasso. Hanno ottenuto il ritiro, legittimità politica internazionale e il rilascio di 5mila prigionieri, senza dover mai riconoscere il governo afghano e senza dover abbandonare le armi, se non contro gli americani. I Talebani e Kabul, che il 12 settembre hanno inaugurato il dialogo intra-afghano, aspettano di vedere le mosse di Biden: un periodo di incertezza che verrà sfruttato dagli attori contrari alla pace, dentro e fuori dal Paese, dentro e fuori dai due fronti. Il presidente Ashraf Ghani si dice pronto alla collaborazione con Biden e a ospitare una forza residuale per il controterrorismo, opzione che Biden coltiva da anni ma a cui si oppongono i Talebani. Questi ultimi mandano a dire che l’accordo di Doha rimane “un documento eccellente”, mentre alcuni esponenti politici afghani ne negano la validità giuridica. Che Biden possa rivedere l’accordo è difficile, revocarlo impossibile: sarebbe una replica di quanto fatto da Trump con l’accordo sul nucleare iraniano. Partito da posizioni interventiste e muscolari, dal 2008-2009 Biden considera la guerra afghana impossibile da vincere, il governo di Kabul corrotto e inefficiente. Di recente, su Foreign Affairs e su Stars and Stripes, ha confermato di “sostenere il ritiro delle truppe”. Potrebbe rallentare il calendario di Trump, esercitare pressioni sui Talebani affinché riducano davvero la violenza e poi accettino il cessate il fuoco. Ma ha margini stretti. Trump si è già giocato tutte le carte migliori, a eccezione della leva finanziaria: Trump o Biden, per gli Stati uniti la guerra afghana è chiusa. E persa. La città nel deserto dove Israele prepara la guerriglia urbana di Fabiana Magrì La Stampa, 18 novembre 2020 La città nel deserto dove Israele prepara la guerriglia urbana. Tra i soldati della base vicino a Gaza, qui è stata girata la serie “Fauda”. Il campo di addestramento è un insediamento arabo costruito dal nulla. Nessuna troupe cinematografica prima di Fauda aveva mai messo piede alla Mala, il più grande centro di addestramento alla guerriglia urbana dell’esercito israeliano. E anche se adesso - dopo il successo planetario della terza stagione di una delle serie “made in Israel” più viste di sempre - piovono le richieste da parte delle produzioni cinematografiche, a Tsahal non sembrano essere interessati più di tanto. Forse perché, alla Mala, già da quindici anni si vive come in un film, per prepararsi alla realtà più dura. Per arrivare alle porte della Mala, si entra nella base militare di Tzèelim, il centro nazionale di addestramento, il più grande in Israele per le forze di terra, dove l’esercito affina le competenze dei soldati in artiglieria, tattica e strategia, logistica e assistenza sanitaria. L’area, 20 chilometri quadrati di attività militari ben celate a sguardi indiscreti, confina a Ovest con il territorio della città di Bèer Sheva, che si trova ad appena 45 minuti di auto. Alla stessa distanza, ma verso Est, c’è il valico commerciale di Kerem Shalom, sui confini tra Israele, Striscia di Gaza ed Egitto. Superati uffici, dormitori e negozi, la strada sbocca nel deserto del Negev, su una distesa di terreni a perdita d’occhio, adatti ai più diversi tipi di addestramento. Dietro un cumulo di sabbia, compare una squadra di giovani soldatesse, alcune a riposo, sedute per terra, il casco tra le braccia. Altre stanno prendendo lezioni di guida a bordo di un mezzo ibrido tra un fuoristrada e un carro armato leggero. Sono loro che guidano, in caso di un’operazione di terra, la prima linea all’interno del territorio nemico. Dopo qualche chilometro di apparente tranquillità, spuntano i minareti. I primi edifici, alla periferia del villaggio fantasma, sono case basse. Sulle pareti, graffiti e murales di bandiere e ritratti di leader palestinesi, slogan come “Free Gaza”, scritte in arabo. Lasciamo l’auto a bordo strada, accanto all’ingresso di un cimitero senza tombe. I soldati non sono abituati a vedere una civile aggirarsi per la Mala, anche se ad accompagnarla è il loro comandante operativo, Itai Zigdon. Eppure non fanno una piega mentre, strisciando silenziosi lungo i muri ai bordi della strada, a fucili spiegati, vengono nella nostra direzione scambiandosi sguardi e cenni convenzionali con le mani. In mezzo a loro, un team di istruttori impartisce ordini ad alta voce: “Continuate ad avanzare!”. La prima squadra scavalca il muro del cimitero e sparisce al di là, tra le indicazioni dell’addestratore. La città si fa più fitta addentrandosi in 6 km e mezzo di vicoli che si dipanano tra oltre 500 edifici. Ogni tanto la carcassa di un’auto o di un furgone - vetri sfondati, gomme a terra, sedili divelti - ostruisce il passaggio. L’area più densamente costruita si affaccia su una grande rotonda. È la piazza dove, nell’ottavo episodio di Fauda, Doron, Avichai, Sagi e Eli tengono d’occhio il padre di Bashar all’uscita dal negozio di telefoni cellulari. L’insegna è ancora lì, appesa sulla porta. Tutto il resto - pneumatici, banchi del mercato, ombrelloni e altri ingombri urbani - sono apparsi e poi scomparsi nel giro di tre giorni, i più torridi dell’estate 2018, assieme alle cento comparse, alla troupe e alla produzione. “Tutto può succedere qui alla Mala. Uno dei vantaggi di questo posto è che può essere personalizzato fin nei minimi dettagli, così che possiamo addestrare ogni tipo di forza militare. Anche i riservisti. E a volte anche eserciti stranieri, ma non posso dire di dove. L’addestramento coinvolge tutto quello che puoi vedere e immaginare. Puoi paracadutare soldati, guidare droni, fare arrivare aerei”. Dalla cima del minareto di una delle moschee, il tenente colonnello Zigdon osserva l’addestramento che ha luogo ai suoi piedi e all’ottavo piano dell’edificio di fronte. Da comandante di battaglione, Tzèelim l’ha conosciuta bene. Tanto da restarvi come istruttore e, dopo due anni, ricoprire l’incarico di responsabile della divisione operativa. Ogni tanto le sue parole sono coperte da spari ed esplosioni. Alla Mala vengono ricreate le situazioni più complesse, ambientate fuori e dentro banche, scuole, ospedali e perfino edifici dell’Unrwa. “Ci sono telecamere ovunque per riprendere gli addestramenti e poi riesaminare i comportamenti delle truppe. Gli altoparlanti diffondono rumori di spari, traffico, persone che gridano, il richiamo del muezzin. Li impostiamo da una app per creare l’atmosfera. Abbiamo squadre che fanno la parte del nemico. Ogni angolo, ogni fessura, può nascondere una minaccia. Nella zona più densa di edifici, dove i passaggi sono stretti e bui, non si vede niente. Le esercitazioni, di giorno e di notte, possono durare settimane. Anche dormire qui fa parte dell’addestramento. Quando entri alla Mala, non sai mai cosa ti aspetta. Non sarà una vera zona di guerriglia, ma è quanto di più simile possa esserci”. E quando la topografia non corrisponde ai requisiti, arrivano i bulldozer a spostare la sabbia del deserto fino a ricreare ciò di cui hanno bisogno gli addestratori. L’Urban Warfare Training Center è operativo dal 2005, da quando l’esercito israeliano comprese che il campo di battaglia sarebbe passato dal territorio aperto agli spazi urbani, a presenza mista di civili e terroristi. Proprio questa è una delle maggiori sfide: distinguere i buoni dai cattivi, condurre operazioni di precisione, ingaggiare soltanto il nemico. Zigdon ha divorato la terza stagione di Fauda in appena due giorni. “Dopo aver visto la serie, mia madre è molto più preoccupata per me. Ora - scherza - pensa di sapere che lavoro faccio. Ma anche se ormai tutti conoscono l’esistenza della Mala, chiunque arrivi qui per la prima volta resta senza parole”.