Covid-19. Appello dei Garanti: “meno presenze nelle carceri” Ristretti Orizzonti, 17 novembre 2020 Alla vigila dell’esame degli emendamenti per la conversione in legge del decreto Ristori, i Garanti territoriali dei detenuti scrivono ai presidenti dei gruppi parlamentari al Senato La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà ha inviato un appello ai presidenti dei gruppi parlamentari del Senato, dove è in procinto di iniziare l’esame degli emendamenti al decreto legge 137/2020, Ristori, affinché il parlamento adotti “tutte le misure opportune, per poter giungere ad una significativa riduzione del numero delle presenze dei detenuti negli istituti di pena, a partire da quelle già indicate dal Garante nazionale, applicando in modo estensivo e razionale le stesse previsioni previste dal decreto, senza sacrificio della sicurezza sociale, nell’auspicio che le stesse possano andare a beneficio anche dei soggetti più deboli (psichicamente fragili, tossicodipendenti, alcoldipendenti, senza fissa dimora)”. “Si auspica - si legge ancora nell’appello - che la configurazione di queste misure sia tale da facilitare lo scrutinio da parte dei magistrati di sorveglianza, i cui uffici peraltro sono significativamente in sofferenza, e da parte delle procure. Riteniamo pienamente condivisibile e dunque auspichiamo che possa essere accolta anche la proposta di prevedere una liberazione anticipata speciale e la sospensione dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive fino al 31 dicembre 2021”. “Il carcere - sostengono i Garanti delle persone private della libertà nominati dalle regioni, dalle province e dai comuni italiani - è una realtà in cui il rischio della diffusione del Covid-19 è molto alto: il fisiologico assembramento di un numero considerevole di persone in uno spazio angusto non permette, infatti, di rispettare le regole minime di distanziamento fisico e di igiene funzionali alla prevenzione del virus. La patologica situazione di sovraffollamento che caratterizza le nostre carceri contribuisce inoltre fatalmente ad accrescere il rischio di diffusione del contagio”. Appello al Parlamento: carcere, sovraffollamento e pandemia Il carcere è una realtà in cui il rischio della diffusione del covid-19 è molto alto: il fisiologico assembramento di un numero considerevole di persone in uno spazio angusto non permette, infatti, di rispettare le regole minime di distanziamento fisico e di igiene funzionali alla prevenzione del virus. La patologica situazione di sovraffollamento che caratterizza le nostre carceri contribuisce inoltre fatalmente ad accrescere il rischio di diffusione del contagio. Di qui la necessità di incidere significativamente sul numero delle presenze in carcere, strutturalmente, attraverso una politica di coerente e costante decarcerizzazione, e nell’immediato, per la tutela del diritto alla salute di detenuti e operatori penitenziari. In questo senso sono andati gli appelli del Comitato Europeo per la prevenzione della Tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti che nel marzo di quest’anno ha stilato dieci raccomandazioni/principi indirizzati alle autorità degli Stati membri del Consiglio d’Europa, in cui veniva sollecitata l’urgenza di ridurre il numero delle presenze nelle carceri e quello della Commissaria, Dunja Mijatovi?, all’utilizzo, senza discriminazioni, di qualsiasi possibile alternativa al carcere. Il contagio all’interno degli istituti riflette in questi ultimi tempi, purtroppo, in maniera amplificata il trend in crescita registrato anche nelle nostre città. Si sta, infatti, diffondendo in maniera assai preoccupante: in pochi giorni personale e detenuti positivi si sono rapidamente moltiplicati, superando di gran lunga i casi registrati nella primavera scorsa. Dagli ultimi rilevamenti, al 13 novembre, emergono più di 600 positivi tra la popolazione detenuta e più di 800 tra gli operatori del settore penitenziario, di cui la maggior parte afferente alla polizia penitenziaria. Senza contare che troppo spesso la necessità di individuare spazi per l’isolamento delle persone contagiate dal virus implica un’ulteriore contrazione degli spazi destinati alla restante popolazione detenuta. Una significativa riduzione delle presenze in carcere contribuirebbe positivamente ad affrontare nel migliore dei modi la gestione sanitaria interna della prevenzione e dei focolai, favorendo migliori condizioni lavorative per gli operatori penitenziari e permettendo, ove possibile, la prosecuzione in condizioni di sicurezza, delle attività lavorative e formative, di istruzione, culturali o sportive. L’auspicio è quello di non dover tornare a quella chiusura generalizzata delle attività trattamentali imposta in primavera. Devono inoltre essere assicurate alla generalità dei detenuti le telefonate e le videochiamate, anche oltre il minimo garantito da legge e regolamento e, finché possibile, i colloqui in presenza. In questo contesto, le misure adottate dal Governo con il d.l. n. 137/2020 sembrano però, così come articolate, fornire una risposta inadeguata. Dai dati forniti dal Garante Nazionale nel suo report settimanale emerge che solo 2202 persone detenute potrebbero usufruire della detenzione domiciliare, avendo un idoneo domicilio, un residuo di pena inferiore ai 18 mesi e nessuna preclusione ostativa. Rivolgiamo pertanto un appello al Parlamento affinché voglia, in sede di conversione, adottare tutte le misure opportune per poter giungere ad una significativa riduzione del numero delle presenze dei detenuti negli istituti di pena, a partire da quelle già indicate dal Garante nazionale, applicando in modo estensivo e razionale le stesse previsioni previste dal decreto, senza sacrificio della sicurezza sociale, nell’auspicio che le stesse possano andare a beneficio anche dei soggetti più deboli (psichicamente fragili, tossicodipendenti, alcoldipendenti, senza fissa dimora). Si auspica che la configurazione di queste misure sia tale da facilitare lo scrutinio da parte dei Magistrati di Sorveglianza, i cui uffici peraltro sono significativamente in sofferenza, e da parte delle Procure. Riteniamo pienamente condivisibile e dunque auspichiamo che possa essere accolta anche la proposta di prevedere una liberazione anticipata speciale e la sospensione dell’emissione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive fino al 31 dicembre 2021. Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà I numeri su carceri e Covid di Riccardo Arena ilpost.it, 17 novembre 2020 “Noi detenuti viviamo ogni giorno nel terrore di essere contagiati dal virus e di morire qui dentro. Sì terrore, perché in queste celle sovraffollate è impossibile rispettare il distanziamento e non abbiamo mascherine o gel disinfettante. Terrore perché ci sentiamo abbandonati e la nostra incolumità sembra essere lasciata al caso. Ma perché in carcere non contano le regole per il Covid che valgono fuori?”. È questa una delle tante lettere inviate dalle persone detenute a “Radio Carcere”, rubrica in onda su Radio Radicale. Lettere in cui le parole “terrore” e “Covid” sono sempre più ricorrenti. Un terrore questo che è fondato e che trova conferma nella realtà dei numeri sui contagi nei penitenziari italiani. Numeri di contagi nelle carceri che dimostrano come la diffusione del virus sia aumentata a dismisura in soli tre mesi e con una rapidità senza precedenti. Un’impennata del virus dietro le sbarre che dovrebbe indurre, sia la politica sia chi è chiamato ad amministrare le italiche galere, ad intervenire prima che sia troppo tardi. D’altra parte i dati, che non è mai facile reperire (ma la continuano a chiamare “trasparenza!”), parlano chiaro. Infatti se il 10 settembre c’erano solo 10 detenuti e 11 agenti positivi, alla data del 12 novembre risultavano contagiati 653 detenuti, 824 agenti e 66 operatori che lavorano nelle carceri. Totale: 1.543 positivi. Un numero di contagi che nelle carceri non si era raggiunto neanche durante la scorsa primavera e che è anche in continua evoluzione. E non solo. Quello che colpisce è la rapidità di diffusione del virus nei penitenziari. E questo perché, non solo in tre mesi si è passati da 21 contagiati a oltre 1.500, ma anche perché in poche settimane si è registrato un incremento dei positivi nelle carceri pari a quasi il 450% (il 27 ottobre risultavano contagiati 344 persone tra detenuti, agenti e operatori). Numeri questi che, rispetto a quelli sui contagi dei cittadini liberi, possono sembrare a prima vista modesti, ma che invece, per quel mondo separato e abbandonato che sono le nostre prigioni, modesti non sono. Anzi, sono i numeri di una tragedia annunciata. Infatti, esattamente come vale per le Rsa ovvero come vale per tutti i luoghi chiusi, occorre contestualizzare questi dati e occorre calarli all’interno della realtà delle carceri. Carceri che sono spesso luoghi osceni, insalubri e dove la promiscuità è regola. Carceri che sono vecchie, sovraffollate e dove ci vivono più di 54.800 persone a fronte di circa 47 mila posti effettivi. Carceri dove il diritto alla salute è da sempre una chimera, figuriamoci ora! Carceri dove sta diventando praticamente impossibile trovare posto per poter isolare tutti i detenuti che ogni giorno si scoprono positivi. Ma non basta. Infatti, a tutto ciò si deve aggiungere che l’emergenza Covid nei penitenziari viene affrontata in modo disomogeneo e manca una strategia unitaria. Tradotto: ogni carcere è una Repubblica a sé. E così, in alcune carceri si fanno i tamponi in modo razionale (asintomatici e non) e con cadenza regolare, ma in tante altre no. Come manca un’applicazione omogenea di quelle poche regole che sono previste proprio per arginare la diffusione del Covid nelle prigioni. Ad esempio, è stato stabilito che le persone appena arrestate debbano essere messe da sole in una cella per un po’ di giorni. L’obiettivo è chiaro: evitare che un nuovo arrestato contagi gli altri detenuti. Lo chiamano “isolamento precauzionale”. Bene. Peccato che in alcuni penitenziari questa regola venga applicata in modo assai irrazionale, per non dire pericoloso. In particolare accade, e non di rado, che questo isolamento “precauzionale” venga fatto chiudendo tre detenuti nella stessa cella e senza neanche fargli il tampone. Lo chiamano “isolamento di corte”. Ora il Governo, su impulso del Ministro Bonafede, ha cercato quantomeno di intervenire sul sovraffollamento e nel decreto “Ristori” ha previsto la detenzione domiciliare per chi ha un residuo pena entro 18 mesi. Misura questa che era già stata adottata ad aprile e che già allora portò risultati assai modesti, tanto che ne beneficiarono poco più di mille detenuti. Una goccia nel mare. “Prendere misure necessarie per evitare una tragedia nelle carceri” disse a marzo Papa Francesco. Ed ecco allora la questione ancora attuale. L’inerzia, l’incertezza, o peggio ancora, l’indifferenza di chi già oggi può evitare una tragedia annunciata. Adesioni bipartisan allo sciopero della fame Radicale per amnistia e indulto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 novembre 2020 Grande mobilitazione all’azione non violenta promossa da Rita Bernardini. I numeri dei contagi crescono, l’inevitabile chiusura delle attività nelle “zone rosse” carcerarie dove ci sono importanti focolai, riportano nella disperazione i detenuti e i familiari stessi angosciati per i propri cari. Soprattutto per quelli che hanno già gravi patologie pregresse. Il rischio che possa ripetersi una rivolta come è accaduto a marzo diventa nuovamente concreto. Ma c’è un antidoto, che è la non violenza di pannelliana memoria. Quella che ha fatto conoscere ai detenuti il metodo più ribelle di tutti: l’arma della legge attraverso ricorsi, esposti e denunce contro tutto ciò che nella condizione del carcere viola i suoi diritti. E poi c’è l’altro metodo non violento, lo sciopero della fame promosso da Rita Bernardini del Partito Radicale. Ogni giorno che passa aumentano le adesioni, dai nomi comuni a nomi importanti e trasversali. Dal deputato Roberto Giachetti a Salvatore Buzzi, dai familiari dei reclusi al già senatore e presidente di “A Buon Diritto” Luigi Manconi. Non manca una grande mobilitazione dal basso che raccoglie l’adesione di numerosi familiari dei reclusi. C’è il gruppo Facebook “Diritti umani dei detenuti calpestati da uno Stato assente” amministrato da Monica Bizaj che ha già coinvolto nella staffetta dello sciopero della fame circa un centinaio di familiari, così come sta dando un incisivo contributo il regista Umberto Baccolo, raccogliendo anche l’adesione di Rainaldo Graziano, l’ex leader di Meridiano Zero e figlio di uno dei fondatori di Ordine Nuovo. Rainaldo, da tempo, gestisce la cooperativa sociale Arnia che si occupa anche del reinserimento sociale dei detenuti. Da destra a sinistra, quindi, cresce l’appoggio allo sciopero della fame per intavolare un dialogo al governo: quello di attivare qualsiasi misura, amnistia e indulto compresi, per ridurre sensibilmente la popolazione carceraria. Succede dovunque, nelle carceri italiane, che ci siano dei disperati per l’astinenza, o disperati imbottiti di terapia, o semplicemente disperati che incendiano il materasso e rischiano così di soffocare assieme ai loro compagni. Disperati che si tagliano, che sanguinano, che ingoiano qualunque cosa per cercare di essere “visibili”. Modi estremi di denuncia che poi, com’è accaduto durante le rivolte di marzo scorso, possono sfociare anche in violenze di dimensioni devastanti. Lo sciopero della fame è l’opposto, è la non violenza che dovrebbe essere appunto recepita dalle istituzioni, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in primis. Il dialogo è possibile, prima che la situazione sfugga di mano. E il fatto che il Covid sia entrato anche nei 41bis del carcere di Opera e Tolmezzo, fa comprendere in pieno la reale dimensione dell’emergenza. Riforma del carcere: così il Pd può smentire i critici di Errico Novi Il Dubbio, 17 novembre 2020 Orlando dice che il garantismo si misura sull’esecuzione penale. È stato lui a ridisegnarla nel 2017: è il momento di recuperare quel progetto. Andrea Orlando ha risposto a Calenda con argomenti non banali. La prescrizione, ha detto, non l’abbiamo riformata noi, ci ha pensato la Lega. È stata lei ad accettare che Bonafede bloccasse il decorso dei termini dopo la condanna di primo grado. Noi, ha ricordato l’ex guardasigilli e attuale numero due del Nazareno, ci siamo trovati di fronte al fatto compiuto. “Se la critica è di non averla cambiata, converrai che parlare di “leggi votate dal Pd” non sta in piedi ed è semplicemente falso”, recita testualmente il tweet rivolto da Orlando a Calenda. Certo, la replica può comunque autorizzare lo spirito critico di chi guarda ai dem come a una sentinella non abbastanza vigile sulle regole del processo. Ma è vero pure che finora in Italia ancora non si sono visti un partito e un leader che abbiano seriamente minacciato la fine della legislatura a fronte di un mancato affossamento del blocca- prescrizione. Di più: la legge sta lì. I tentativi, piuttosto goffi, di attenuarla con il “lodo Conte bis” partono comunque dallo svantaggio iniziale: se non arrivano al traguardo, resta la brutta norma, introdotta con la spazza-corrotti, che a breve comincerà a mietere concretamente vittime. Maramaldeggiare col Pd sulla prescrizione, insomma, è comodo, ma anche poco convincente. Il punto è un altro, e si chiama riforma dell’ordinamento penitenziario. Ecco la prova regina. Si tratta, tanto per cominciare, di un progetto politico firmato personalmente da Orlando. Proprio lui, anche con un’intervista a questo giornale, disse alcuni mesi fa che “sul carcere si misura il coraggio del fronte garantista”. Ne convengono altri esponenti della maggioranza, come il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, anche lui del Pd, e il predecessore di quest’ultimo, Gennaro Migliore, di Italia viva. Tutti hanno evocato un ripescaggio della riforma penitenziaria. Vorrebbe dire rimettere sul tavolo la norma chiave dell’impianto disegnato tre anni fa da Orlando (aspetti collaterali e minori sono stati parzialmente recuperati dallo stesso Bonafede): il superamento di automatismi e preclusioni nell’accesso ai benefici per i detenuti. Pur senza arrivare alla vera rivoluzione, cioè alla messa al bando dell’articolo 4 bis, quello che individua i reati ostativi. Il senso ultimo del progetto che Orlando affidò agli Stati generali dell’esecuzione penale è la libertà del giudice di sorveglianza nel riconoscere il percorso positivo compiuto da qualsiasi recluso (con le solite eccezioni della mafia, del terrorismo e degli altri reati più gravi). Ecco, se il Pd vuole dare una lezione a Calenda ritiri fuori quel progetto. Sfidi Bonafede e i 5 stelle su quel tabù. Risponda d’un colpo ai veleni di chi ha cercato di attaccare l’attuale guardasigilli sulle scarcerazioni, di chi ha alimentato la leggenda nera, l’ignobile mistificazione dei 400 capimafia messi in libertà causa Covid. Erano 4, tutti malati di cancro, e sono pure rientrati al 41bis. Se vuole dimostrare che la prescrizione è un incidente della storia, il Pd faccia giustizia sul carcere. Magari qualcuno a destra, neppure tanto lontano da Calenda, si scoprirà assai più in imbarazzo del centrosinistra democratico. È praticabile, una strada simile? Forse la domanda va rovesciata: Bonafede ha seguito la sua strada “carcerocentrica”, ha prodotto due decreti per limitare la solitudine dei giudici di sorveglianza nella scelta sulle istanze di concessione dei domiciliari presentate in tempo di Covid. La Corte costituzionale l’ha pure rincuorato: quei decreti non erano in contrasto con la Carta. Bonafede potrebbe continuare ad avere una linea sostanzialmente restrittiva sulla detenzione, persino di fronte all’incubo dei contagi in cella, se non avrà nel Pd un alleato in grado di spingerlo in un’altra direzione. La responsabilità non è verso Calenda: è verso i diritti. E stavolta il partito di Zingaretti non avrebbe motivi per rifiutarla. La cultura giurisdizionale non prevede l’esaltazione del “carcere duro” di Giuseppe Gargani* Il Dubbio, 17 novembre 2020 In un recente articolo l’ex magistrato Gian Carlo Caselli senza ipocrisie fa un osanna al “giustizialismo” e quindi scava un solco ancora più profondo con il “garantismo”. In vero non ho mai accettato questa distinzione perché ritenevo e ritengo che come cittadini schierati per lo Stato di diritto dovessimo tutti essere ubbidienti alla Costituzione Repubblicana che, dopo anni e anni di battaglie per la libertà e per la democrazia, recepisce quel valore. Caselli si dichiara contrario alle recenti prese di posizione della Corte Costituzionale sui detenuti sottoposti al “carcere duro” dell’art. 41bis e sostiene che la mafia non è un fenomeno occasionale, una emergenza destinata ad essere superata, ma è una “realtà che può cessare o con il pentimento o con la morte”. Sono parole gravi per un servitore dello Stato che dovrebbe essere rispettoso fino in fondo, per il ruolo che ha svolto, dello Stato di diritto e dei diritti delle persone. La funzione da lui svolta è quella del pubblico ministero, cioè di una “parte” nel processo che “accusa” in base agli indizi raccolti, che nel dibattimento debbono diventare prove. Caselli da sempre in polemica con chi ritiene che la funzione del pm debba essere separata nettamente nella carriera e nelle funzioni da quella del giudice, sostiene che questo non è possibile perché il pm deve acquisire la “cultura della giurisdizione”, quindi in qualche modo deve essere giudice. Le prese di posizione di tanti pm hanno dimostrato il contrario, ma l’ultima presa di posizione di Caselli dimostra in maniera incontrovertibile che non è possibile per un pm la cultura della giurisdizione altrimenti non potrebbe esaltare il “carcere duro” del 41bis contro la Costituzione e la dichiarazione dei diritti umani! Caselli, dunque, dopo una vita di intenso lavoro a lottare contro la corruzione e contro la mafia, ha certamente maturato un’esperienza concreta di contrasto alla mafia, ma probabilmente l’ha maturata in maniera così intensa con un lavoro assiduo a cui si è sottoposto, che è scomparsa nella sua cultura ogni altra valutazione serena e equilibrata e appunto la “cultura giurisdizionale”. Egli fa il mestiere dell’accusatore, quello di chi “lotta” contro la mafia, contro la corruzione contro la società malata e quindi ha i paraocchi anche ora da pensionato: la “lotta” presuppone una scelta politica, e in questo caso una utilizzazione del diritto per dimostrare un proprio pensiero e un proprio teorema. D’altra parte è indicativo che Caselli in un recente articolo del Corriere della Sera dichiari anche lì senza infingimenti e ipocrisie che: “Mani pulite e le inchieste su mafia e politica segnarono un forte recupero di legalità. E rispolverarono la questione morale, fin lì relegata in soffitta. Nel senso che le inchieste rivelarono anche responsabilità sul piano politico e morale che altrimenti (senza il disvelamento giudiziario) nessuno avrebbe mai neanche pensato di far valere”. Ecco la prova della grave anomalia delle indagini non solo di “tangentopoli” per cui la “responsabilità morale” invade quella penale e il giudice, come sostengo da anni, diventa “giudice etico” per uno Stato etico! Per fortuna le sue indagini non hanno retto al giudizio del giudice e un esponente delle istituzioni come lui dovrebbe prenderne atto e comprendere che il giudice non garantisce la “questione morale”, né la legalità, ma reprime l’illegalità, condanna il reo, non il costume, il sistema o il fenomeno. Questo il ruolo del giudice necessario per garantire l’equilibrio dei poteri e l’assetto giuridico e sociale. Il diritto è mite e la sanzione serve per riparare lo strappo che il reato ha determinato nel tessuto della società e ha la funzione di “redimere” il reo, di reintegrarlo nella società. In questo consiste l’armonia del diritto e la garanzia democratica delle norme della Costituzione. Quando una società dimentica questi principi fondamentali che configurano lo Stato di diritto, non è più solidale, è piena di rancori e di rivalsa e le conseguenze sono il giustizialismo e il populismo che da vari anni hanno accentuato la crisi del diritto. La crisi della norma infatti non ha più carattere generale, non è erga omnes, e ha aggravato l’incertezza del diritto alimentando l’idea che tutto si risolve con la condanna e con la persecuzione del reo, con il “carcere duro”, perché solo così si riscatta la società e trionfa la questione morale. Questa sub cultura ha dilagato dopo gli anni 90 e in particolare dopo le indagini di Tangentopoli che hanno condannato il sistema politico e sociale nel suo complesso e che hanno processato i fenomeni, e si è riadirata a tal punto da ispirare i rappresentanti del governo grillino per i quali l’unica prospettiva è quella di risolvere ogni questione con l’aggravamento delle pene, con la introduzione nel codice di nuovi reati, con la eliminazione delle prescrizioni, e con l’esaltazione del carcere come rimedio di tutti i mali. Ha la prevalenza il sospetto generalizzato che sostituisce la prova: uno degli aspetti più vistosi del giustizialismo. Una parte della magistratura utilizzando il potere di indagine ha alimentato questa (sub) cultura che ha determinato lo squilibrio istituzionale aggravato dalla rinunzia del potere politico ad affermare il primato della politica. Il direttore del giornale ha scritto un editoriale importante per una analisi che va al di là delle cose di casa nostra, cioè dell’Italia riferendosi alla crisi della giustizia che getta ombre anche nella democrazia americana, e ha ricordato che il diritto è garanzia contro la sopraffazione, è dignità della persona. Senza diritto c’è sopraffazione. Ricordare questi principi elementari che sono la conquista di un processo storico che ha portato allo Stato moderno democratico, diventa importante per difendere la nostra democrazia in un periodo di grandi difficoltà. Il contenuto della democrazia è questo e presuppone la “cultura delle istituzioni”, e l’ossequio ai diritti fondamentali della persona. *Ex parlamentare Carcere e Covid: l’emergenza sanitaria smaschera i problemi di un’istituzione di Anna Franzutti thepasswordunito.com, 17 novembre 2020 L’emergenza sanitaria ha colpito tutti, in un modo o nell’altro. Mentre noi ci chiudevamo in casa per limitare i contagi, cosa succedeva là dove le persone sono già chiuse e con pochi contatti? Nelle 231 carceri italiane, da subito si è rivelato essenziale limitare che il Covid-19 si trasmettesse ai detenuti e al personale. La situazione del sistema carcerario italiano però non ha facilitato il compito. Primo fra tutti i problemi, il sovraffollamento: secondo i dati del Ministero della Giustizia del 29 febbraio 2020, infatti, i detenuti previsti a livello regolamentare sarebbero dovuti essere 50.931, ma quelli effettivi erano 61.230, con le logiche conseguenze in termini di igiene, privacy, salute fisica e mentale. In alcune strutture la situazione è notevolmente peggiore, ma la media nazionale è di 120% di affollamento e il rispetto dei 3 metri quadrati per persona detenuta previsti in cella è ben lontano dalla realtà. Durante quella che viene ormai chiamata prima ondata, tra marzo e giugno, sono state decise limitazioni ai colloqui con visitatori e legali, possibili solo a distanza, e sono state sospese le attività interne o esterne all’edificio, parte fondamentale dell’obiettivo rieducativo previsto dalla costituzione per la pena. La parziale soluzione che è stata messa in atto per cercare garantire il distanziamento necessario alla gestione dei contagi, è stata quella di diminuire le persone presenti negli istituti penitenziari. Col Decreto Cura Italia del 17 marzo 2020 è stata introdotta la possibilità di ottenere la detenzione domiciliare per coloro con una pena o un residuo di pena inferiore ai 18 mesi per un reato non grave. In questo modo circa 5000 detenuti hanno potuto “liberare il posto”. Il provvedimento ha ricevuto numerose critiche in quanto con l’occasione sono stati concessi i domiciliari anche ad alcuni detenuti di alta sicurezza o in regime di 41bis, tra cui boss mafiosi. Nella nota del 21 marzo del dipartimento responsabile, che richiedeva di segnalare i detenuti a rischio per una possibile scarcerazione, si individuavano parametri riguardanti l’età (over 70) e patologie eventuali, ma non si teneva conto della situazione giudiziaria, che era invece citata nel decreto del 17 marzo, a cui la nota non faceva però riferimento, creando confusioni e scarcerazioni probabilmente non previste inizialmente. Adesso che stiamo vivendo la seconda ondata, i numeri dei contagi crescono tra detenuti e polizia penitenziaria. Il ministro della giustizia Bonafede esprime l’importanza di nuove misure come quelle attuate a marzo, che non si applichino per chi sia condannato per reati gravi, con vittime, abbia preso parte alle sommosse o sia in regime di sorveglianza speciale. Nei confronti di un tale provvedimento non mancano le critiche, che trovano legittimazione con le scarcerazioni di condannati per reati gravi avvenute tra marzo e giugno. Sicuramente è necessario che questa volta ci sia un controllo e una limitazione più stretta e definita, ma finora si è evitata una crisi sanitaria almeno per quanto riguarda il sistema penitenziario. La certezza non si può avere, ma un contributo essenziale potrebbe essere arrivato dai provvedimenti effettuati. È necessario fare tutto il possibile per evitare che la crisi colpisca ora. Bisogna tener conto che sì, esistono persone condannate per reati gravi, ma la maggior parte dei detenuti non sono parte di quella categoria. In Italia il 31% delle persone recluse lo è per crimini di droga, caratterizzati da scarsa pericolosità. Il sovraffollamento è una realtà, la pratica di concedere i domiciliari a chi ha fine pena brevi potrebbe andar oltre le sole tempistiche per l’emergenza sanitaria. Inoltre, spesso la pena detentiva non soddisfa l’obiettivo della rieducazione come dovrebbe. Che questa crisi, dopo aver messo in luce i problemi quotidiani del carcere, sia anche un’occasione per rivalutare l’istituzione e modificarla di conseguenza, o, perché no, cercare un’alternativa? L’incremento del 600% in 14 giorni di casi Covid nelle carceri è il fallimento dello Stato di Roberta Errico thevision.com, 17 novembre 2020 Da marzo a oggi, per prevenire l’emergenza Covid-19 nelle carceri italiane è stato fatto ben poco. Ci sono state diverse scarcerazioni dei soggetti fragili o a rischio per età, ma restano invariate le condizioni igieniche precarie dei detenuti e il grave sovraffollamento delle strutture. La situazione, a causa di questi problemi, è peggiorata in maniera drammatica ed è ormai fuori controllo. Come ha scritto il 13 novembre Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale e presidente d’onore dell’associazione Nessuno tocchi Caino: “Gli ultimi [dati] ci dicono che i casi positivi tra i detenuti sono arrivati a 537 e fra gli operatori, agenti compresi, a 737”. Per avere un’idea di quanto questi numeri crescano con allarmante rapidità, basti sapere che l’8 ottobre del 2020, le cifre ufficiali diffuse dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Dap, e rese note pubblicamente dall’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria, parlavano di 34 detenuti contagiati e di 61 operatori di polizia. Sempre l’Osapp, denuncia in una lettera indirizzata, tra gli altri, al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che in due settimane i numeri delle persone contagiate, tra detenuti e personale penitenziario, sono aumentati del 600%. In base agli ultimi dati diffusi dal Dap ai sindacati di polizia, risalenti a domenica 8 novembre, il totale di persone contagiate nelle carceri arriva a 1.274 unità. Tutto questo a fronte di una popolazione carceraria che aumenta: oggi il numero di detenuti in Italia è pari a 54.868, un numero esorbitante soprattutto se rapportato con i posti ufficiali effettivi, 47.000 - che comunque andrebbero ricalcolati a causa di quelli che sono stati dedicati all’isolamento in caso di Covid-19. E c’è di più, tanto l’Osapp quanto la Uil penitenziaria nelle persone, rispettivamente, dei Segretari Leo Beneduci e Gennarino De Fazio, esprimono perplessità sulla tempestività dei dati forniti dal Dap e lamentano una sospetta incompletezza. Un caso eclatante: non abbiamo riscontri su quanti siano gli agenti di polizia penitenziaria isolati per Covid-19, un numero che incide sul depauperamento delle già scarse forze di polizia penitenziaria andando a porre in sofferenza un organico che da anni si definisce insufficiente. A Radio Radicale, Riccardo Arena ha ricordato le anomalie incresciose e gli effetti devastanti del totale disinteresse della politica nel porre un freno all’emergenza sanitaria negli istituti di pena: eclatante il caso di due bambini risultati positivi nel carcere di Torino dove è detenuta la loro madre e gli ultimi due suicidi per impiccagione. Il 7 novembre, a Verona, un detenuto maliano di soli 23 anni si è tolto la vita usando i lacci della sua tuta nella cella di isolamento in cui era confinato, mentre a Ivrea il 9 novembre scorso si è ucciso un detenuto rumeno di 39 anni, anche lui in isolamento precauzionale perché accusava sintomi legati al Covid-19 da alcuni giorni. Nel corso del 2020, 51 detenuti hanno volontariamente posto fine alla loro vita; altri 79, invece, sono deceduti per malattia o per cause ancora da accertare. Se immaginiamo gli istituti di pena come l’ultima tappa di un lungo viaggio e risaliamo le sue fasi, ci accorgiamo che ogni tappa dell’iter giudiziario di un detenuto esprime l’inadeguatezza di un sistema già profondamente compromesso prima dell’emergenza sanitaria, e questo non certo per colpa della maggior parte dei magistrati e degli operatori del diritto che intervengono nel corso dello stesso. Come denunciato il 9 novembre dall’Unione Camere Penali: “Nei Palazzi di Giustizia e negli Istituti di pena, i ritardi per giungere a sentenza, dovuti all’enorme carico processuale, si sono ulteriormente aggravati per l’emergenza sanitaria, che ha ridotto il personale e ha imposto la drastica diminuzione dei fascicoli da trattare in udienza […] I tempi della Giustizia saranno, pertanto, ancora più lunghi, con gravi riflessi individuali su imputati e persone offese e conseguenze negative per la credibilità del Paese e per la sua economia”. L’Associazione nazionale magistrati già a marzo avvertiva “[è] assolutamente necessario che siano adottati interventi urgenti e realmente incisivi che, senza abdicare alla fondamentale funzione dello Stato di garantire la sicurezza della collettività, tengano realmente conto del fatto che le carceri sono pericolosissimi luoghi di diffusione del contagio che espongono a rischio intere comunità, costituite dai detenuti e da tutti coloro che continuano a prestarvi servizio”. Pochi giorni prima di questo comunicato, tra il 7 e il 9 marzo, parte della popolazione carceraria era insorta contro le limitazioni imposte a causa dell’emergenza sanitaria, tra cui la sospensione dei colloqui con i famigliari. All’epoca il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede reagì con un provvedimento, molto discutibile, contenuto all’interno del decreto “Cura Italia” che non solo non mise freno al problema dei contagi crescenti in carcere, ma salì agli onori della cronaca per aver favorito - prevedendo gli arresti domiciliari per i detenuti ai quali restavano da scontare non più di 18 mesi - le decisioni dei magistrati di sorveglianza atte ad accordare tale beneficio, ma anche in questo caso il quadro normativo disciplinato presentava numerose incongruenze. Al giorno d’oggi, le risposte del Governo si sono ripresentate altrettanto inadeguate e insufficienti e, se possibile, più blande di quelle di marzo. Anche il “Decreto ristori” non prevede misure efficaci, funzionali a contrastare il reale e sistematico problema delle carceri, tra le altre cose principale causa di diffusione del virus: il sovraffollamento. “L’indifferibile esigenza di prevenire ed evitare una massiva diffusione del contagio tra la popolazione carceraria può essere soddisfatta solo con una significativa diminuzione della stessa, in misura tale da eliminare il sovraffollamento cronico rispetto ai posti disponibili e assicurare, anche all’interno degli istituti penitenziari, la praticabilità delle misure di prevenzione del contagio che lo stesso Governo impone ai cittadini liberi”, scrivono dall’Unione Camere penali, “i provvedimenti adottati sino ad ora appaiono totalmente inadeguati ad affrontare la nuova ondata del virus, che si presenta molto più pericolosa e cruenta della prima. Non a caso il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, con una sua circolare, ha rinnovato l’invito - già espresso nell’aprile scorso - di ridurre la richiesta di misura cautelari in carcere e di procrastinare l’esecuzione delle misure già emesse”. La diminuzione effettiva della popolazione carceraria per evitare ulteriori rischi di contagio non è una decisione che si può delegare ai giudici - i quali non possono fare molto di più in base agli strumenti normativi che hanno a disposizione - ma una decisione politica. È arduo trovare soluzioni che accontentino tutti, ma chi conosce profondamente la vita negli istituti di pena ne suggerisce alcune in merito alle quali andrebbe intavolato un serio dibattito tra istituzioni, politica e operatori del settore: depenalizzazione, liberazione anticipata speciale, rafforzamento della disastrata sanità penitenziaria, acquisto e utilizzo massiccio dei braccialetti elettronici, e infine i più contrastati: amnistia e indulto. Il Governo è l’espressione del sentire comune della nostra società e alla nostra società che spesso si mostra purtroppo insensibile rispetto alle rivendicazioni dei più elementari diritti umani da parte dei detenuti e delle loro famiglie. Oggi, i detenuti e le loro famiglie invocano da più parti, come nel caso delle proteste annunciate e poi attuate nel carcere di Poggioreale, la tutela del loro diritto alla salute che in questo caso si esprime attraverso l’attuazione di serie misure per prevenire il dilagare dei contagi. La legge sancisce il principio della proporzionalità della pena in relazione al delitto compiuto, ma per la maggior parte dell’opinione pubblica aver commesso un reato è ragione necessaria e sufficiente per mettere colui che ha sbagliato nella condizione di dover subire a sua volta qualsiasi ingiustizia, anche quelle che ledono i diritti più elementari, come una sorta di punizione ulteriore. Nel 1890, lo scrittore russo Anton ?echov si recò sull’isola di Sachalin, luogo di deportazione zarista di detenuti comuni e politici: voleva andare lì per testimoniare con i suoi occhi quali fossero le condizioni di vita dei reietti della società. In una lettera al suo editore, Aleksej Suvorin, scrisse: “Sachalin è il luogo delle più intollerabili sofferenze che possa sopportare l’uomo, libero o prigioniero che sia […] è chiaro che abbiamo fatto marcire in prigione milioni di uomini, li abbiamo fatti marcire invano, senza criterio, barbaramente; […] li abbiamo contagiati con la sifilide, li abbiamo corrotti, abbiamo moltiplicato i delinquenti […] Sachalin […] è un inammissibile luogo di sofferenze […] l’intera Europa colta sa chi sono i responsabili: non i carcerieri, ma ognuno di noi”. Sono passati più di cento anni, ma le cose non sembrano essere cambiate: questa indifferenza nei confronti degli ultimi continua a martoriare le nostre società. “Economia carceraria”, l’e-commerce con i valori dentro di Erica Battaglia vita.it, 17 novembre 2020 Lanciata la piattaforma che riunisce in un unico grande contenitore di vendita online i prodotti realizzati nelle case circondariali italiane. Obiettivo dell’iniziativa, accelerata dal Covid-19, spiega il cofondatore Paolo Strano “è quello di aumentare le attuali 13 realtà d’impresa presenti e coprire tutti gli istituti di pena impegnati in attività produttive, pur nella difficoltà di una mappatura in Italia”. Vino, birra, caffè, croccanti, condimenti, sale, ma anche creme dolci, biscotti, dolciumi, miele: sono solo alcuni dei prodotti realizzati dalle imprese sociali che operano in contesti complicati e complessi come quelli delle case circondariali italiane. A mettere insieme tutti questi prodotti, in un unico grande contenitore di vendita online, è la piattaforma “Economia Carceraria”, lanciata pochi giorni fa dai suoi ideatori e sostenitori. “Un obiettivo concreto - ha spiegato Paolo Strano, cofondatore della piattaforma insieme ad Oscar La Rosa - che parte da un sogno costruito un paio di anni fa in occasione del primo Festival dell’economia carceraria. Eravamo a Roma, all’interno della Città dell’Altra Economia, e ci è sembrato naturale immaginare un luogo, o forse anche un modo, in cui dare ai prodotti realizzati dalle persone detenute il giusto contesto competitivo e di mercato. Si tratta infatti di buone esperienze di impresa che, prese singolarmente, sono troppo deboli per affrontare le sfide della vendita; insieme invece si è capito che si potevano evidenziare numeri, qualità e quindi anche spazi competitivi”. “Da quel momento, è nata la società che sottintende tutto questo lavoro di rete e anche la piattaforma che consente un vero e proprio e-commerce. Si tratta - ha continuato Strano - di una operazione importante perché permette al comparto di presentarsi insieme con una varietà di prodotti, ma anche perché consente di dare supporto ad un settore che è fortemente condizionato dal pregiudizio di fare impresa in un contesto carcerario”. “Il Covid - ha poi concluso - ha accelerato il processo di costituzione della piattaforma per il commercio online. L’obiettivo è quello di aumentare le attuali 13 realtà d’impresa presenti e coprire tutti gli istituti di pena impegnati in attività produttive, pur nella difficoltà di una mappatura in Italia”. Impossibilitati, causa pandemia, a realizzare il “Gran Mercato dell’economia carceraria” a Roma nelle giornate comprese tra l’11 e il 13 dicembre prossimo, presso i locali del “We Gil” gentilmente concessi dalla Regione Lazio, “Economia carceraria” lancia comunque il suo appuntamento in rete. “Faremo comunque un momento di acquisto aperto a chiunque voglia avvicinarsi alla qualità di questi prodotti - ha chiosato Strano. Dall’11 dicembre apriremo alla possibilità di confezionare pacchi e cesti natalizi, con prodotti che tengono insieme la qualità, ma anche i valori”. Frutto di tanto orgoglio, i prodotti “carcerari” hanno quella qualità in più che deriva dalla capacità di mettere insieme l’impresa con il lavoro delle persone che vivono uno stato di detenzione. Sono stati tanti in questi anni i buoni esempi che hanno visto splendere, nella loro funzione di rieducazione e reinserimento lavorativo, alcuni contesti detentivi italiani: la produzione di beni e prodotti ha permesso molte volte di dare un senso ad una vita dietro le sbarre, ma soprattutto fuori da esse. Al di là di tanta ipocrisia e di tanto pregiudizio che ancora ostacola l’effettivo reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute. Per saperne di più, anticipare gli acquisti o semplicemente farsi un’idea, si può sempre visitare il sito https://economiacarceraria.com Carceri, da Venezia parte una petizione per aiutare i figli delle detenute Corriere del Veneto, 17 novembre 2020 Ci sono bambini che possono arrivare a trascorrere sei anni in carcere, pur essendo gli innocenti per definizione: sono i figli delle detenute, che le madri portano con sé negli Istituti a custodia attenuata per madri (Icam). Ci restano fino a quell’età e poi possono uscire, ma il loro distacco spesso avviene senza l’accordo con la madre, nonostante una legge, la 62 del 2011. Per tenere viva l’attenzione sulle necessità dei bimbi “indirettamente detenuti” si è mossa l’associazione “La Gabbianella e altri animali” di Venezia, che per 16 anni ha accompagnato alla scuola dell’infanzia i bambini provenienti dal carcere della Giudecca, e ha lanciato una petizione al Parlamento italiano perché si ponesse fine a questa situazione. A Venezia esiste un Istituto a custodia attenuata per madri (Icam), struttura prevista dalla legge e costruita appositamente alla Giudecca, dove sono passati decine di bambini. Le stanze sono più belle ma non si può uscirvi con la mamma; non ci sono porte blindate ma porte robuste, che però rimangono invalicabili. “Nei tribunali il lavoro è quasi impossibile, ma la giustizia non può fermarsi” di Liana Miella La Repubblica, 17 novembre 2020 La giudice Ezia Maccora contro le norme anti-Covid di Bonafede. La presidente aggiunta dei gip di Milano, già vittima del virus a marzo, boccia come insufficienti le misure del decreto Ristori per fare comunque solo una parte dei processi da remoto. E critica i colleghi dell’Anm che non hanno ancora eletto i nuovi vertici. “Preoccupazione, paura, negazionismo, impreparazione e improvvisazione”. Ma anche “l’esigenza di rendere comunque giustizia e di pensarsi come collettività”. Le norme “inadeguate” del decreto Ristori, il Covid, la sua seconda ondata. Ezia Maccora, presidente aggiunto dei giudici per le indagini preliminari di Milano, è già stata vittima del virus tra febbraio e marzo. Ne parlò, su Questione giustizia, la rivista online di Magistratura democratica, in un articolo che un mese dopo conteneva una scioccante testimonianza. Adesso torna a scrivere della pandemia, sotto un titolo apparentemente di routine - “La mia seconda testimonianza”. Partendo da una critica che va al di là della sua materia, la giustizia, perché “la ricaduta della virosi era del tutto prevedibile ed era attesa dal mondo scientifico, eppure nel periodo estivo la politica ha agito come se la pandemia fosse alle nostre spalle e non dovesse più tornare, e nessuno ha utilizzato il periodo di remissione per attrezzarsi ad affrontare adeguatamente quanto oggi stiamo rivivendo”. Moglie di un cardiologo, anche lui vittima del Covid e ricoverato al suo fianco, Ezia Maccora anche stavolta fornisce un’analisi che si basa non solo sulla sua vita da giudice nel tribunale di Milano, ma anche di chi vive a stretto contatto con il mondo ospedaliero, per di più in una città come Bergamo, protagonista di una drammatica stagione di malattia. “Un lavoro improbo e quasi impossibile” - La giustizia non può fermarsi, ma “il lavoro è improbo, e quasi impossibile”. Ezia Maccora parte da qui per portare la sua testimonianza sui tribunali nei giorni di pandemia: “La virosi galoppa, colpendo magistrati, avvocati, personale amministrativo, tirocinanti, polizia giudiziaria. Rendere giustizia rimane l’obiettivo primario di tutti, che però si scontra con la realtà organizzativa ed amministrativa. Le condizioni logistiche di molti palazzi di giustizia sono assolutamente inadeguate, non vi sono sufficienti aule di udienza in grado di assicurare il distanziamento, le condizioni igieniche e di sanificazione lasciano a desiderare, gli strumenti per la protezione personale mancano e quelli informatici sono del tutto insoddisfacenti. Siamo di fronte all’inadeguatezza assoluta dei luoghi di lavoro, ma la giustizia, quale servizio essenziale, non può fermarsi. Ed ecco il rischio che sui singoli, qualunque sia il loro ruolo, si scarichi di fatto la responsabilità di far funzionare la macchina. I dirigenti (magistrati e amministrativi) cercano, con direttive più o meno stringenti, di predisporre possibili linee guida per assicurare lo svolgimento dell’attività giurisdizionale nel rispetto delle regole sanitarie poste a presidio del diffondersi della virosi. Un lavoro improbo e quasi impossibile”. La giustizia non può fermarsi - Se il punto di partenza imprescindibile è che “la giustizia non può fermarsi”, allora il giudizio negativo sulle norme in vigore diventa inevitabile. Su queste, ma, come vedremo, anche sui colleghi. Maccora analizza il decreto Ristori, in particolare l’articolo 23, inserito dal Guardasigilli Alfonso Bonafede nel testo due settimane fa. Norme che Maccora definisce “del tutto insoddisfacenti e inadeguate a garantire il funzionamento della giustizia e il rispetto delle regole sanitarie per contenere la virosi”. Frutto quantomeno di “improvvisazione” perché consente il processo da remoto “per una parte veramente minima della giurisdizione penale di primo grado”. All’opposto Maccora cita la disponibilità data dagli avvocati milanesi che riguardava invece un’area molto ampia, che volutamente il presidente aggiunto dei gip cita testualmente nel suo articolo: “Udienza di smistamento; udienze di conferimento di incarico peritale; udienza a seguito di opposizione al decreto penale di condanna con richiesta di patteggiamento, messa alla prova, oblazione; udienza preliminare; udienza preliminare in caso di patteggiamento e di discussione sulla richiesta di rinvio a giudizio; udienza di discussione abbreviato su istanza del difensore dell’imputato; udienza di rinvio; udienza per la valutazione della capacità dell’imputato a partecipare coscientemente al processo; udienza di declaratoria di intervenuta prescrizione; udienza di discussione in giudizio su istanza del difensore dell’imputato”. La negazione dei diritti - Tutti casi - chiosa Maccora - “in cui non vi è, all’evidenza, alcuna lesione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa e che consentirebbero alla giurisdizione penale di continuare ad operare nell’emergenza e nel rispetto delle regole stabilite per fronteggiare la virosi, un accesso contenuto al palazzo di giustizia, udienze tenute nel pieno rispetto del contraddittorio e senza rischio di possibili contagi”. Conclude Maccora: “La vera posta in gioco la conosciamo tutti: il blocco della giurisdizione si traduce nella negazione dei diritti, ma se non si tutela innanzitutto la salute dei cittadini, non vi saranno comunque diritti da tutelare. In questa morsa occorre agire a tutti i livelli per ricercare un possibile punto di equilibrio avendo in mente la precisazione terminologica richiamata da Nello Rossi (il direttore della rivista Questione giustizia ed ex avvocato generale in Cassazione nonché per anni pm a Roma, ndr.): si tratta sempre di ragionare su un diritto nell’emergenza e non di un diritto dell’emergenza”. Le critiche a Bonafede - Non mancano, seppure garbate, le critiche al ministro della Giustizia, il quale “non ha fornito le risorse necessarie materiali, personali e informatiche per consentire lo svolgimento dell’attività giudiziaria in piena sicurezza”. Secondo Maccora “i presidi di sicurezza personale stanziati sono sicuramente insufficienti, le stesse dotazioni di computer e videocamere faticano ad arrivare, l’assistenza informatica non è adeguata e vi è il rischio concreto che la piattaforma Teams, sui cui dovrebbero svolgersi i processi da remoto, possa non reggere effettivamente il carico di lavoro complessivo sia del settore penale, sia del settore civile”. Maccora aggiunge che “solo lunedì 9 novembre sono stati forniti agli uffici giudiziari gli indirizzi Pec per consentire il deposito telematico di alcuni atti nel settore penale senza dare agli uffici tempi congrui per predisporre i necessari adeguamenti organizzativi”. In più, anche lo smart working utilizzato dal personale amministrativo, in assenza, per il settore penale, della possibilità di accedere ai registri informatrici, “se si rivela utile per contenere gli accessi sul luogo di lavoro non favorisce però lo svolgimento regolare delle incombenze amministrative indispensabili per il funzionamento della attività giudiziaria”. In conclusione, “chi vive oggi negli uffici giudiziari ha la netta impressione che tutto continua ad essere affidato ad interventi estemporanei, non ragionati ed adottati sull’onda dell’emergenza”. Secondo Maccora “di certo la situazione che stiamo vivendo è senz’altro eccezionale, ed è giusto sottolinearlo e tenerne conto, ma forse, in questa seconda ondata della virosi già annunciata, ci si poteva attendere quantomeno un tempismo diverso e scelte più adeguate costruite nel periodo estivo per mettere in campo un progetto organizzativo complessivo che oggi avrebbe attenuato le disfunzioni e i forti disagi che tutti viviamo. Purtroppo ciò non è avvenuto”. Bocciata anche l’Anm senza presidente - Inevitabile anche la bocciatura per la nuova Anm. Perché “in molti si aspettavano che i nuovi eletti, sentendo appieno la drammaticità del momento, riuscissero a eleggere, all’esito di un confronto anche duro, che poteva proseguire senza limiti e orari, la giunta esecutiva centrale e il suo presidente predisponendo un programma anche minimo ed essenziale in grado di affrontare le questioni vere che affliggono la magistratura e la giurisdizione, in questo momento storico, senza privarla in queste settimane di una voce di rappresentanza unica e autorevole verso l’esterno”. Invece così non è stato, il nuovo appuntamento è per sabato 21 novembre, ma le divisioni tra le correnti sono profonde. Ed è auspicabile, secondo Ezia Maccora che è stata anche componente del Csm, che “i nodi evidenziati in quel dibattito associativo vengano sciolti al più presto per consentire all’Associazione piena agibilità politica”. Le “fughe in avanti” dei procuratori - E non manca una bacchettata anche per i suoi colleghi procuratori della Repubblica che hanno stilato un accordo con l’Unione delle Camere penali proponendolo al Guardasigilli. “Nel difficile contesto che viviamo non sono mancate fughe in avanti da parte di alcuni procuratori della Repubblica, che, pur di far fronte alle carenze organizzative e legislative, senz’altro esistenti, si sono di fatto posti come interlocutori privilegiati del ministro della Giustizia. I risultati che ne sono conseguiti in termini di previsioni normative e di predisposizione delle risorse necessarie sottovalutano che la principale fetta della giurisdizione, cioè quella giudicante, doveva essere messa in condizione di operare. Il sistema giudiziario è come una filiera di lavoro, mettere solo un settore in condizione di operare non raggiunge l’obiettivo di far funzionare l’intero sistema. Di questo forse non si è tenuto sufficientemente conto”. Un appello per tutti, no al blocco della giurisdizione - Quando il virus colpisce il Paese deve essere unito. Per questo, secondo Maccora, “tutti sono chiamati a mettersi in gioco pensandosi non come singoli ma come collettività, in cui ognuno fa la propria parte, sapendo che la giurisdizione è una macchina complessa che richiede soluzioni non improvvisate”. La sua conclusione va letta con attenzione e meditata: “Un compito importante spetta a ogni singolo magistrato, che deve evitare di essere intrappolato dalla paura che i cambiamenti spesso ingenerano, acquisendo uno sguardo lungo che vada oltre il rischio oggi non rimediabile di creare un arretrato sul proprio ruolo e tempi più lunghi per la fissazione e trattazione dei processi, investendo sempre di più sulle prospettive di gestione informatica del procedimento, ripensando e innovando tutti i modelli organizzativi fin qui adottati. Tutte le attività produttive e tutte quelle essenziali del Paese si stanno confrontando con questa tremenda emergenza sanitaria, la giustizia non può tirarsi fuori e ognuno di noi deve essere responsabile anche oltre ciò che può oggi apparire un limite invalicabile. Il rischio, da un lato, di assumere atteggiamenti di sottovalutazione di questa emergenza sanitaria continuando a operare come prima senza curarsi delle esigenze di tutela della salute di tutti i soggetti che entrano in rapporto con noi, e l’idea, dall’altro, che occorra rassegnarsi a questa pandemia accettando il blocco della giurisdizione, sono i due estremi a cui non bisognerebbe avvicinarsi”. La politica ritrovi autonomia, inutili le vendette sulle toghe di Davide Varì Il Dubbio, 17 novembre 2020 Nel centrosinistra si litiga sul garantismo e sul giustizialismo. E forse è una buona notizia. Dopo anni di “sudditanza psicologica”, la politica, e il centrosinistra in particolare, sembra aver finalmente aperto una crepa nel “soffitto di cristallo” della giustizia italiana. La prima falla nella visione panpenalista che ha dominato la nostra politica da tangentopoli in poi è arrivata quasi per caso, con l’esplosione del caso Palamara. Il sistema delle nomine e del correntismo malato - perché il problema non è il correntismo ma la sua degenerazione a sistema di potere - ha infatti mostrato il lato più nebbioso della magistratura italiana. E per la prima volta quella stessa magistratura si è mostrata dilaniata e attraversata dalle stesse logiche di potere che in questi decenni ha combattuto. Si è presentata come una sorta di autorità superiore agli altri poteri dello Stato, quasi fosse la sentinella della tenuta morale della società italiana, per poi disvelare meccaniche sembrano mutuate da quella stessa politica additata come il più negativo dei termini di paragone. Negli anni in cui ha implicitamente rivendicato una propria superiorità morale, la magistratura ha spesso trattato il diritto di difesa e l’avvocatura come una sorta di ostacoli quasi furfanteschi, rivolti ad impedire, con artifici e retorica, la scoperta dei responsabili e della verità. Paradossalmente, la prima vittima della degenerazione è stata la magistratura stessa. La stragrande maggioranza dei giudici - convinti che il proprio ruolo fosse quello di esercitare la funzione giurisdizionale con la massima serietà e serenità - è stata arruolata suo malgrado in una battaglia pericolosissima e portata avanti da una “avanguardia” che, non di rado, ha superato i confini tracciati dalla Costituzione. Il tutto col beneplacito della gran parte dei partiti, impauriti e incapaci di bilanciare l’equilibrio dei poteri. Ma è bene ribadire che il Dna della nostra magistratura è sano e che il processo di riforma probabilmente è già iniziato con la saggia e discreta supervisione del Colle. E la politica? La politica in tutto questo deve ritrovare la sua centralità e liberarsi da paure, pigrizie e scorciatoie. E chissà che il caso Bassolino, il governatore processato diciannove volte e diciannove volte assolto, possa rappresentare l’inizio di questa trasformazione. Certo, ha fatto bene il direttore di Huffington post, Mattia Feltri, a ricordare alle vittime della giustizia malata di oggi - Bassolino compreso - la connivenza interessata con le degenerazioni di alcune Procure nei confronti degli avversari politici. E potremmo contare sulle dita d’una mano il numero di onorevoli che si indignarono quando nel nostro Parlamento venivano esibite le manette usate come simbolo osceno di vendetta e non di giustizia. Ciò non toglie che oggi qualcosa finalmente si muove. E si muove proprio a cominciare dalla parte sana della magistratura che ha deciso di prendere in mano il proprio destino e liberarsi delle scorie avvelenate che in questi anni hanno portato a più di un deragliamento. Ma l’ultimo miglio spetta proprio alla politica, che sbaglierebbe a presentare il conto a un ordine giudiziario in difficoltà e al minimo storico del gradimento popolare, perché il ruolo della politica non è quello di comminare pene o vendette ma di costruire un destino comune. “Il Covid non sia una scusa per calpestare i diritti” di Simona Musco Il Dubbio, 17 novembre 2020 Il parlamento di Strasburgo approva una risoluzione per “salvare” i valori dell’Ue. Sì a larga maggioranza: “Rispettare le garanzie degli imputati, soprattutto l’accesso alla difesa e quello a un giusto processo”. “I valori europei devono prevalere anche in stato di emergenza pubblica”. Il che vuol dire anche garantire i diritti degli imputati, soprattutto quella alla difesa, nonché quello ad un giusto processo. A stabilirlo è l’Unione Europea, attraverso una risoluzione della Commissione libertà civili, votata a larga maggioranza (496 voti favorevoli, 138 contrari e 49 astensioni), attraverso la quale viene rimarcato l’invito a non trasformare la pandemia in una scusa per ridurre gli spazi di libertà dei cittadini. Così come non deve diventare una scusa per legiferare aggirando il controllo del Parlamento, attraverso un abuso del potere legislativo in capo al governo. Un’urgenza avvertita praticamente da tutti i parlamentari europei, che durante il dibattito di giovedì con il Commissario per la Giustizia, Didier Reynders, hanno espresso “preoccupazione per i diritti dei cittadini e dei gruppi vulnerabili in diversi paesi Ue in cui sono state adottate delle misure di emergenza”. Nella risoluzione un capitolo è dedicato a carceri e giustizia. Con la constatazione che la crisi pandemica ha influenzato, con le restrizioni che ha prodotto, i sistemi giudiziari, con la chiusura temporanea di numerosi tribunali o la riduzione delle loro attività, “cosa che si è in alcuni casi tradotta in ritardi e tempi di attesa più lunghi per le udienze”. I diritti procedurali degli indagati e il diritto a un giusto processo sono, dunque, “sotto pressione, poiché l’accesso agli avvocati è diventato più difficile a causa delle restrizioni generali e perché i tribunali fanno sempre più spesso ricorso alle udienze online”. Da qui l’invito agli Stati membri a garantire i diritti degli imputati, “compreso il loro libero accesso a un difensore, e a valutare la possibilità di udienze online come soluzione e alternativa alle udienze in tribunale o al trasferimento degli indagati in altri Stati membri dell’Ue nell’ambito del mandato d’arresto europeo”. È importante, soprattutto, il rispetto di tutti i principi che disciplinano i procedimenti giudiziari, compreso il diritto a un processo equo e a tutelare “i diritti e la salute di tutte le persone in carcere, in particolare i loro diritti all’assistenza medica, ai visitatori, al tempo all’aperto e alle attività educative, professionali o ricreative”. Le misure di emergenza nazionali, secondo l’Ue, rappresentano un “rischio di abuso di potere” e qualsiasi restrizione che riguardi democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali deve essere “necessaria, proporzionale e limitata nel tempo”. Sono, dunque, necessari “controlli adeguati ed equilibri parlamentari e giudiziari”. Esattamente quello che, in questi mesi, ha chiesto l’opposizione in Italia, che ha duramente contestato il ricorso ai dpcm, che poco spazio hanno lasciato al dibattito parlamentare. Nella risoluzione viene evidenziato che anche in uno stato di emergenza “i principi fondamentali dello Stato di diritto, della democrazia e del rispetto dei diritti fondamentali devono prevalere”. Le misure straordinarie dovrebbero, infatti, “essere accompagnate da una più intensa comunicazione tra governi e parlamenti”, per evitare anche che la pandemia diventi una scusa per scavalcare il controllo del Parlamento, approvando, dunque, norme non direttamente legate al Covid. Da qui l’invito ai Paesi membri a considerare la possibilità di uscire dallo stato di emergenza o di limitare in altro modo il suo impatto sulla democrazia, prevedendo migliori “garanzie”, attraverso un atto legislativo che stabilisca gli obiettivi, il contenuto e la portata della delega di potere dal legislativo all’esecutivo. Un’eventuale dichiarazione o proroga dello Stato d’emergenza, per l’Ue, deve passare dunque da un controllo parlamentare e giudiziario, assicurando ai parlamentari “il diritto di sospendere lo stato di emergenza”. Nel caso in cui, invece, i poteri legislativi vengano trasferiti al governo, è necessario, comunque, un successivo controllo parlamentare degli atti, senza il quale cessano di avere effetti. Ma non solo: è necessario anche “garantire pienamente l’accesso a una procedura di asilo e a preservare il diritto individuale all’asilo, come sancito dalla Carta dei diritti fondamentali, e ad attuare procedure di reinsediamento e di rimpatrio dignitoso nel pieno rispetto del diritto internazionale”. Senza dimenticare che, secondo la risoluzione, il periodo di crisi legato alla pandemia ha provocato un aumento della discriminazione e dei discorsi di incitamento all’odio e di misure discriminatorie, contro i quali gli Stati membri sono invitati a mettere in atto azioni di contrasto. In particolare, l’Ue segnala i casi di discriminazione ai danni di rom e omosessuali, da qui l’invito agli Stati “a proseguire gli sforzi per combattere l’omofobia e la transfobia, dal momento che la pandemia ha esacerbato la discriminazione e le disuguaglianze di cui le persone Lgbti+ sono vittime”. Minniti: “Non c’è sicurezza senza libertà e umanità” di Ugo De Giovannangeli Il Riformista, 17 novembre 2020 “Conciliare ciò che i nazional-populismi contrappongono: ecco la sfida della sinistra. È difficile, ma il Pd ha origine proprio dall’incontro tra culture differenti. Giusto chiudere la pagina dell’ideologia, apriamo però fino in fondo quella dei diritti. Un grande partito non rinuncia ai principi per paura del consenso popolare”. Dopo una conversazione durata oltre due ore, verrebbe da titolare: “Adesso parlo io”. E a parlare in questa intervista è Marco Minniti: Ministro dell’Interno nel governo Gentiloni, dirigente di primo piano dei Democratici di sinistra, forse l’uomo più longevo nei governi della seconda Repubblica che ha ricoperto incarichi cruciali per il cosiddetto “cuore dello Stato”. Una sua affermazione, allora era ministro dell’Interno nel Governo Gentiloni, scatenò un vivace e aspro dibattito a sinistra: “Sicurezza è una parola di sinistra”. È ancora di questo avviso? Ci sono momenti in cui la storia e l’evoluzione concreta dei fatti esigono di dare risposta a questioni che all’inizio apparivano poco chiare. Sulla questione della parola sicurezza e del suo rapporto con la sinistra, tutto quello che si manifesta sotto i nostri occhi mi sembra che dia una risposta abbastanza chiara ed inequivoca... Qual è questa risposta? Vede, ogni qual volta succedeva qualcosa di molto importante, dicevamo “nulla sarà più come prima”. Temo che questa volta veramente nulla sarà più come prima. Tuttavia, questa crisi pandemica globale pone un tema che era già squadernato sotto i nostri occhi, vale a dire il tema del rapporto tra l’individuo e la sua epoca. Sicurezza intesa nel senso più ampio del termine. Sicurezza “fisica”. Salute. Sicurezza di una collettività, e quindi sicurezza dalla minaccia del terrorismo e della criminalità. Sicurezza ambientale. Sicurezza sociale. Sicurezza del diritto. In una sola parola: Giustizia. Come vediamo, in tutte queste definizioni c’è una parola che congiunge tutto. E quella parola è sicurezza. Emerge con evidenza il fatto che chiunque voglia affrontare questo pezzo del corso del mondo, deve misurarsi con questo. Sapendo che su questo tema c’è il confine delicatissimo e anche la sfida più radicale con i nazionalpopulisti. Non è sufficiente il termine populisti? Non è sufficiente. Perché quello che abbiamo davanti a noi è un intreccio, non nuovissimo nella storia ma abbastanza inedito nelle forme in cui si presenta adesso, tra nazionalismo e populismo. Il nazional-populismo di fronte a queste sfide intende porre una contrapposizione semantica, costringendo l’opinione pubblica a scegliere. Il leit motiv del nazional-populismo è: o l’uno o l’altro. Si contrappone la sicurezza individuale, la salute al sentimento di umanità. Per cui si dice: se tu vuoi garantirti la tua salute devi rinunciare a un pezzo di umanità nel rapporto con gli altri. Perché in un’epoca di coronavirus, l’accoglienza è di per sé il rischio di una contaminazione. E poi si contrappone la sicurezza alla libertà. Se vuoi avere più sicurezza contro la sfida terroristica, rilanciata anche in questi giorni sotto i nostri occhi, devi rinunciare a un pezzo della tua libertà. Sicurezza ambientale. Nello schema del nazional-populismo non è possibile garantirla perché viene posta in contrapposizione a crescita e sviluppo. Devi scegliere: o l’uno o l’altra. La sicurezza dei diritti. Anche qui: la contrapposizione tra il bisogno straordinario di giustizia e il principio delle garanzie. Vuoi che la giustizia sia efficace e veloce? Allora devi rinunciare alle “garanzie”. Se le guardiamo insieme, queste rinunce sono la fine di una democrazia. Questo è il senso della sfida drammatica, mai così possente, che il nazional-populismo pone alle democrazie, che oggi sono chiamate a gestire una emergenza estrema (Covid) nel rispetto di uno stato di diritto, della trasparenza, della comunicazione corretta, della discussione e del convincimento. I regimi autocratici, le cosiddette democrazie non compiute, non hanno bisogno di misurarsi con tutto questo. Questo è il cuore della sfida per la Sinistra. Vale a dire? La sinistra in questa fase storica deve conciliare ciò che i nazionalpopulisti contrappongono. Deve conciliare sicurezza e umanità, sicurezza e libertà, ambiente e sviluppo, giustizia e garanzia. Lo so che è un percorso più difficile. Ma è un compito storico irrinunciabile. Quello cioè di svolgere un grande ruolo che una volta si sarebbe chiamato democratico e nazionale. Nazionale, perché risponde agli interessi di un paese; democratico perché si muove nel cuore dell’attacco alla democrazia. Se questo è il problema, se noi non avessimo fatto il Partito democratico nel 2007 dovremmo farlo adesso. Nessun pentimento dunque o giudizio fallimentare? Se la sfida è al cuore delle democrazie qual è la risposta migliore di un partito che si chiama democratico! Un partito che prende di petto la questione. Che appunto perché nella sua impostazione originaria, era l’incontro tra culture e storie differenti - la cultura ambientalista, la cultura socialista, la cultura cristiana - può lavorare a quella conciliazione. Operazione che non può fare soltanto una delle grandi culture progressiste. È giusto che il Pd abbia “voltato la pagina” della ideologia. Dell’ideologia intesa nel senso hegeliano del termine, cioè della falsa coscienza, degli occhiali che ti fanno leggere la realtà non per com’è. Superare l’ideologia tuttavia non significa rinunciare ai principi. Un grande partito non può non avere grandi principi. E aggiungo non può pensare che i suoi principi entrino in contraddizione o in conflitto con il consenso popolare, per cui alcune cose si devono dire a mezza voce, perché altrimenti il popolo non ci vota. In controluce si legge il grande nodo del rapporto tra sinistra e consenso popolare, sapendo una cosa d’importanza vitale... Quale? La sinistra o è di popolo o non è. E con quel popolo che deve parlare, e a quel popolo che deve trasmettere il messaggio che è possibile tenere insieme sicurezza e umanità. Sicurezza e libertà. Giustizia e garanzia. Chiudiamo definitivamente la pagina dell’ideologia, apriamo fino in fondo la pagina dei diritti. Un partito così fatto è evidente che si arricchisce se al suo interno vivono espressioni programmatiche, culturali differenti. Diventa anzi un elemento di ricchezza oggettiva, che consente di parlare nella maniera più specifica possibile a pezzi e singole identità delle nostre società. E qui viene il punto dolente per il Pd. In che senso? Nel senso che il Partito democratico non ce l’ha fatta su questo. Perché quelle che noi chiamiamo sensibilità/correnti oggi sono diventate un’altra cosa. Una camicia di nesso per il Pd. Sono uno strumento di gestione del potere. Mi chiedo, da predicatore disarmato, può un partito che rischia di diventare una confederazione di correnti, affrontare la sfida che abbiamo di fronte nei prossimi anni? Che non è quella di gestire nel migliore dei modi possibili l’esistente, cosa che non è da buttare via. Sapendo tuttavia che non è possibile gestire nel modo migliore l’esistente se non c’è una innovazione radicale. Ed è questa la risposta vera del voto degli Stati Uniti. Biden non ha vinto dunque, come si scrive e si dice da diverse parti a casa nostra, perché è stato “moderato”, “centrista”... Ma quale voto centrista! È un voto riformista. Che è cosa del tutto diversa. Un voto tuttavia di un’America profondamente divisa. Nessuno si illuda che con lo straordinario risultato elettorale conseguito da Biden si cancelli, con un tratto di penna, il nazional-populismo nel mondo. C’è una grande maggioranza di americani che vuole voltare pagina. Ma ci sono anche 72 milioni di voti che sono andati a Trump. E qui c’è il gigantesco contrappasso, quasi uno scherzo della storia. Con la sua reazione al voto, Trump sta rendendo gli Usa più deboli. Il teorico dell’”America first” sta facendo un danno drammatico al suo paese. È “America second”, perché prima c’è “Trump first”. Se vuoi, ciò è iscritto dentro la logica del nazional-populismo: anche nel momento in cui si innalza la bandiera di un sentimento collettivo, come “Prima l’America”, poi quel sentimento è sottoposto all’egoismo del potere, alla bizzarria e all’arbitrio del singolo capo. Il riformismo se vuole essere vincente deve misurarsi con la radicalità del suo approccio. Il rischio più grande che noi oggi viviamo è l’affermarsi di una risposta che riproponga una società drammaticamente divisa tra garantiti e non garantiti. È il Covid che ti spinge in questa direzione. A fotografare quello che già c’è. Chi è. Già garantito continuerà ad esserlo, chi non lo è sarà messo drammaticamente ai margini. Così una democrazia non regge. C’è poi, altrettanto cruciale, drammatico, il tema delle nuove generazioni. Noi stiamo chiedendo ad esse di assumersi un peso enorme per quanto riguarda il futuro. Il Debito Pubblico. Stiamo lasciando loro un paese peggiore di quello che noi abbiamo trovato. Se questo è il tema, è chiaro che tu devi avere una spinta fortissima all’Innovazione. Lo dico brutalmente: l’Italia e l’Europa non possono essere soltanto Paesi per vecchi. Proprio per questo dobbiamo cambiare anche la struttura materiale dei partiti. Quella camicia di nesso va strappata Come si fa? Si apra una fase costituente per un grande progetto di una sinistra che tenga insieme riformismo e radicalità. Aprire porte e finestre, fare entrare gente nuova. Una grande palestra del pensiero, utilizzando al meglio tutti gli strumenti della comunicazione e del web. Antonio Gramsci, discutendo della differenza che c’è tra un gruppo di comando e un gruppo dirigente, rimarcava una cosa che mi permetto di ricordare adesso: il gruppo di comando lavora per confermarsi in quanto tale. La verità di un gruppo dirigente, diceva Gramsci, è quella di costruire le condizioni del proprio superamento. Un gruppo dirigente si realizza davvero quando ha costruito un altro gruppo dirigente. La sinistra italiana ha dimenticato Gramsci? Temo proprio di sì. In una interessante intervista di qualche tempo fa al prestigioso settimanale Stern, lei ha sostenuto che l’Europa e l’Italia si giocano molto, se non tutto, nel Mediterraneo. È ancora di questo avviso? Quel bambino, il piccolo Joseph, che muore annegato nel Mediterraneo non può essere una storia da ottava pagina. Neanche per un secondo può essere considerata una vicenda di ordinaria amministrazione. Non si può morire in quel modo. È inaccettabile. È una sconfitta per le nostre democrazie. Non si può lasciare il Mediterraneo centrale privo di un presidio di ricerca e salvataggio in mare. Fino al 2018 questo è esistito, coordinato dalla Guardia costiera italiana, ne facevano parte organizzazioni non governative, la missione europea “Sophia”, la Guardia costiera libica. E questo ha coinciso con la più significativa riduzione degli arrivi illegali nel nostro paese e contemporaneamente una significativa diminuzione del numero dei morti nel Mediterraneo. Il messaggio deve essere chiaro e netto: nel 2020 non è più possibile, non è più accettabile che i trafficanti di esseri umani controllino il trasferimento delle persone. C’è bisogno di un radicale cambio di paradigma nelle politiche migratorie. Nell’epoca del virus appare evidente che tutto ciò che è legale, può essere controllato, e quindi è compatibile con la salute collettiva. Proprio per questo dobbiamo cancellare i canali e costruire o rafforzare i canali legali. Rafforzare innanzitutto i corridoi umanitari. Se ci sono persone che fuggono dalla guerra, quelle persone non li portano in Europa i trafficanti di esseri umani ma le grandi democrazie attraverso i corridoi umanitari. Non è una impresa impossibile. Si era già cominciato a farlo. Questa deve diventare oggi una pratica dell’intera Europa. Bisogna garantire canali legali di ingresso in Italia e in Europa. Una gestione intelligente e aperta dei flussi migratori che consenta ai nostri paesi di potere far fronte al bisogno di lavoro che le nostre società richiedono. Liste nei paesi di partenza gestite dalle reti diplomatiche italiana ed europea. Dobbiamo cambiare la Bossi-Fini. Se non lo facciamo adesso, quando? Il Mediterraneo, insieme con il Pacifico, è il terreno di confine tra democrazie e regimi autoritari o non compiutamente democratici. Quello che sta avvenendo nel Mediterraneo è una competizione-cooperazione tra Russia e Turchia, tra due visioni imperiali che ritornano: l’imperialismo russo e quello ottomano. Come possiamo, noi occidentali, dormire sonni tranquilli quando vediamo squadernarsi sotto i nostri occhi delle cose che in altri momenti ci avrebbero turbato. A cosa si riferisce in particolare? Penso per esempio alla “pax siriana”. All’inizio Russia e Turchia erano schierate su fronti contrapposti. Poi però hanno trovato un accordo. Quella “pax” ha comportato tuttavia un sacrificio: quello del popolo curdo. Abbiamo chiamato i curdi a combattere contro lo Stato islamico, e i curdi hanno combattuto. Eppoi li abbiamo lasciati da soli. E poi c’è il Nagorno-Karabakh. L’Armenia cristiana. Anche lì, una competizione su due fronti contrapposti, ma poi a un certo punto si arriva ad una “composizione”. Ed essa colpisce il sentimento dell’Armenia. E poi c’è la Libia... L’ eventualità di una “pax siriana” sulla Libia, con una divisione in zone d’influenza tra Russia e Turchia, sarebbe uno scacco drammatico per l’intera Europa e non solo per l’Italia. Questo è il punto cruciale. Nei prossimi vent’anni il futuro dell’Europa si giocherà in Africa, a partire dall’Africa settentrionale. Un’Europa che guarda soltanto ad Est è un’Europa destinata alla sconfitta. La partita vera si gioca nel Mediterraneo. È l’Est che è scivolato drammaticamente nel “Mare nostrum”. L’Europa non può rimanere spettatrice. È evidente che con la vittoria di Biden cambieranno i rapporti tra Stati Uniti ed Europa. Ma una nuova dimensione euroatlantica non può prescindere dal Mediterraneo. Questo compito spetta all’Europa. Come non comprendere che dopo la “Primavera araba” oggi c’è un freddissimo “Inverno arabo”? Accanto alla Libia c’è la Tunisia, l’unica democrazia nata dalla rivoluzione araba. Noi abbiamo squadernati sotto i nostri occhi i pericoli che quella democrazia corre, stretta in una drammatica crisi economica. Il tema non è soltanto il governo dei flussi migratori. C’è qualcosa di ben più ampio ed epocale che riguarda gli assetti democratici del pianeta. Se dovesse collassare la Tunisia, il rischio è di un gigantesco effetto domino. Basta guardare la linea di costa dal Mediterraneo orientale al Mediterraneo centrale: Siria, Libano, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria. Tutti paesi che per varie ragioni hanno sfide drammatiche che possono travolgerli. L’Europa deve misurarsi con tutto questo, mettendo in campo un grande piano economico. La Russia e la Turchia possono muoversi con una spregiudicatezza militare che l’Europa non può e non deve avere. Sono dei giganti con cui può misurarsi, è una questione di “taglia”, soltanto l’Europa. Consapevole che quei giganti hanno i piedi d’argilla. Cioè la fragilità economica di quei paesi. L’Europa deve mettere in campo tutta la sua forza economico nel rapporto con l’Africa settentrionale. Io aggiungo anche la sua forza civile. Sapendo che nessuno da solo ce la può fare. Né la Francia, né la Germania, né l’Italia. Se l’Europa si divide su questo, perde. Il magistrato, lo Stato e il senso di giustizia di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 17 novembre 2020 Scrissi della diciottesima assoluzione di Antonio Bassolino. Non ho scritto della diciannovesima. Credo che il direttore abbia rispettato la mia volontà. Gli avevo detto che non avrei più scritto sul sistema di giustizia del nostro Stato. Per sfinimento. E per inutilità. Tuttavia, la diciannovesima vicenda giudiziaria di Antonio Bassolino si presta a considerazioni che poco hanno a che vedere con la giustizia e niente con il processo. Per me Bassolino era ed è una persona perbene. La sentenza della Corte d’Appello nulla ha aggiunto alla stima per l’uomo. Eppure, egli ha avvertito il bisogno di una sorta di timbro di autenticità che la confermasse: il sigillo dell’autorità. Ho preso a riflettere su ciò che ha spinto Bassolino ad affrontare un ulteriore grado di giudizio. È stato un lampo che, in questi tempi di cupa depressione, mi ha condotto a ripercorrere, lungo sessant’anni, le mie esperienze di vita: giudice, avvocato, docente, e per un breve periodo pubblico amministratore. Ho ricercato il filo rosso che le ha legate tutte e l’ho trovato nel mio amore per la democrazia, che non è tale se non si nutre del culto della libertà, e nella consapevolezza che la democrazia è il frutto di una continua ricerca dei punti di equilibrio tra individualismo e solidarietà, tra etica dei diritti ed etica della responsabilità. E di fronte ad un pubblico potere, quale è quello esercitato dalla magistratura, che non ha altri controlli che non siano quelli provenienti dal suo interno, mi sono sforzato, lungo l’arco della mia vita, di raccomandare soprattutto ai magistrati il rispetto dei limiti. L’inventario della mia esistenza si conclude, tuttavia, con un saldo negativo. Infatti, ho capito, nei miei ultimi anni, che il problema è irresolubile, perché dipende dal nostro bagaglio genetico. Dopo la guerra uscivamo da una ideologia statolatra, che riposava sulle malferme gambe del fascismo (la cui ideologia di fondo non mi è stata mai chiara) e per questi quasi settant’anni ne abbiamo sposata un’altra, che ha il suo brodo di cultura nel cattocomunismo, che è la vena sotterranea che ha percorso le nostre vite in questo periodo. Abbiamo e continuiamo ad avere bisogno dello scudo protettivo dell’autorità. Stiamo agli esempi concreti. Ho parlato di Bassolino. Analoghe considerazioni potremmo fare per la vicenda Juve-Napoli. Quasi tutti i commenti, paventando un terzo verdetto negativo, si chiedono come sia possibile che non ci sia il controllo del giudice statale. L’idea di fondo è che gli organismi di giustizia sportiva siano giudici inferiori e necessariamente sottoposti all’autorità dello Stato. Chiediamoci. Che cosa rende superiori i giudici dello Stato? C’è una sola risposta. È un fatto formale: l’investitura a seguito di un concorso pubblico. Ma il magistrato statale è un uomo come un altro; se è assiso su di uno scranno superiore è soltanto perché lo Stato gli conferisce il potere di uso legittimo della forza. Di conseguenza, nel mondo globalizzato attuale in cui il mito della sovranità delle Nazioni è al tramonto, è inevitabile che vi siano plurime giurisdizioni, che operano all’interno degli ordinamenti cui si riconosce autonomia. Pensate. Anche le sentenze del giudice statale sono soggette al controllo delle Corti europee. E queste ultime, se ravvisano errori gravi, non annullano le sentenze, ma condannano lo Stato a risarcire i danni. È lo stesso meccanismo, avallato dalla Corte costituzionale, che delinea i rapporti tra giustizia sportiva e giustizia statale con una scelta di ragionevole equilibrio. Si rispetta l’autonomia del mondo dello sport, ma si rispetta anche il principio del neminem laedere. Il tifoso, tuttavia, non si rassegna facilmente e pensa che la sua squadra abbia il diritto di giocare in nome della legge sportiva. Questo è il punto. I diritti non sono come i frutti dell’albero della vita, di cui tutti possiamo godere. I diritti sono prodotti del pensiero umano che elabora gli ordinamenti per dare tutela ai bisogni, agli interessi, alle esigenze. Il pensiero corrente è che lo Stato sia al di sopra di tutto, che gli spetti di provvedere in via esclusiva e che, di conseguenza, i suoi giudici siano gli unici regolatori delle nostre esistenze. Il pensiero democratico liberale trova, invece, la sua bandiera nell’art. 2 della Costituzione “che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità”. È il pensiero che si oppone all’idea che tutto debba e possa essere controllato dallo Stato e che rivendica spazi di autonomia e di libertà negli ambiti in cui non nascano conflitti con esigenze irrinunciabili del vivere collettivo. La legge sull’autonomia del fenomeno sportivo si muove in questa direzione. Per quanto riguarda la vicenda in corso, poi, vorrei essere moderatamente ottimista. La decisione della Caf è un “boomerang” per la Federazione. Se fosse confermata, la esporrebbe a plurime azioni risarcitorie e, addirittura, a un eventuale processo penale. Si è parlato di giustizia politica. Ma la difesa della Lega e del Protocollo va contestualizzata. Eravamo alle prime esperienze ed erano inevitabili incertezze applicative. Ci sono, perciò, margini per dare soddisfazione allo sportivo senza compromettere il Protocollo. In quest’ottica non so se valga la pena di tirare troppo la corda. Campania. Il Garante Ciambriello: “Il Covid nelle carceri è emergenza senza precedenti” di Massimo Iaquinangelo istituzioni24.it, 17 novembre 2020 “Bisogna mandare a casa i più deboli. Siamo assistendo ad un’emergenza senza precedenti, che sta implacabilmente coinvolgendo anche il sistema penitenziario”. Così, esordisce nell’intervista esclusiva rilasciata a Istituzioni24.it, il Professor Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania che esorta: “bisogna mandare a casa i più deboli, come ad esempio i detenuti che hanno patologie croniche, oncologiche”. Professor Ciambriello, Lei è il Garante dei detenuti della Regione Campania, l’esplosione della Pandemia da Covid 19 ha colpito anche le carceri italiane. Qual è, oggi, realmente la situazione? Siamo assistendo ad un’emergenza senza precedenti, che sta implacabilmente coinvolgendo anche il sistema penitenziario. Su tutto il territorio italiano il numero di contagiati tra le persone detenute si aggira intorno a 700 persone e più di 800 tra il personale di polizia penitenziaria. La situazione in Campania è incandescente, risultano contagiati più di 150 detenuti, tra i quali 6 ricoverati presso ospedali, più di 200 tra agenti di polizia penitenziaria, personale medico, e personale amministrativo. Questa situazione grave, preoccupante, mi ha indotto a scrivere al Prefetto di Napoli, che sabato 14, ha ricevuto me ed una delegazione composta da altri garanti, cappellani e membri di associazioni che a vario titolo operano con i ristretti. Durante l’incontro il Prefetto si è impegnato a scrivere al Governo, ai colleghi delle altre provincie della Regione per creare spazi adeguati al di fuori degli istituti penitenziari per eventuali ricoveri di detenuti. Cosa è stato fatto dalle istituzioni per tamponare tale emergenza? L’emergenza legata al “Covid-19” ha imposto notevoli innovazioni in termini di gestione e di organizzazione nelle carceri del nostro paese. Essa ha dato “voce e corpo” alle tante difficoltà relative al nostro sistema penitenziario, facendo emergere punti critici ma stimolando anche un processo di rinnovamento. L’ingresso entro le mura delle nuove tecnologie ha consentito la riduzione delle visite in carcere. Nel mese di marzo sono state rese note anche le misure straordinarie che il Governo ha adottato per far fronte al pericolo d’ingresso e di propagazione massiva del covid-19 nelle carceri, con l’obiettivo inoltre di ridurre il sovraffollamento. A tal fine, con l’art.123 del c.d. “Cura Italia”, il Legislatore ha inteso estendere le misure alternative alla detenzione e gli arresti domiciliari, producendo un processo di collaborazione istituzionale che ha visto coinvolte determinazioni interne ed esterne al carcere, che tuttavia non ha prodotto i risultati auspicati. Quali soluzioni propone per cercare di risolvere questa emergenza? Siamo in una situazione di grave emergenza e occorre prendere decisioni urgenti. La mia proposta parte da questa constatazione e dal fatto che già di per sé quello del carcere è un mondo in grave sofferenza; il Covid 19 sta sottolineando drammaticamente questa situazione. Il messaggio per me è chiaro, è il momento di passare alle misure alternative per evitare la pressione alla quale gli istituti di pena sono sottoposti a maggior ragione in questo periodo: bisogna mandare a casa i più deboli, come ad esempio i detenuti che hanno patologie croniche, oncologiche. Inoltre, propongo che coloro i quali devono scontare una pena inferiore a sei mesi, anche con reati ostativi, possano essere affidati alla detenzione domiciliare. Allargando il discorso mi viene in mente anche la situazione dei detenuti che scontano pene lievi e sono senza fissa dimora. È quindi il caso di utilizzare le case alloggio previste per questi soggetti che non hanno alcuna protezione sociale e rischiano di restare in cella come detenuti ignoti e contribuiscono al fenomeno del sovraffollamento che oggi è un ottimo alleato del Coronavirus. Professore, un suo appello alle istituzioni... Io parto dal caso emblematico di Poggioreale, il carcere più affollato d’Italia, che sta diventando una polveriera perché in dieci giorni il numero dei detenuti positivi è aumentato del triplo e sono stati contagiati anche numerosi agenti penitenziari e membri del personale addetto sociosanitario. Il discorso vale per tutta Italia, è inutile negarlo, il carcere vive un momento di grande difficoltà. C’è bisogno di una risposta della politica che sia una svolta, e con questo intendo un indulto o un’amnistia, affinché si possano svuotare le carceri per un paio di anni. Bisogna fare questo passo per scongiurare il peggio. Non c’è tempo, le istituzioni devono rendersi conto che l’universo carcere sta esplodendo e la politica deve occuparsi seriamente e concretamente di questo problema mettendo da parte la demagogia e il populismo penale. Campania. I Cappellani delle carceri: è emergenza, serve l’indulto di Rosanna Borzillo Avvenire, 17 novembre 2020 Lettera dei cappellani della Campania al Guardasigilli: detenuti abbandonati, situazione ingestibile. Il ministro riveda la sua posizione sull’indulto e rilanci una legge per rafforzare le misure alternative. Parlano di un contagio aumentato del 600%: i cappellani delle carceri della Campania dicono che “l’epidemia di coronavirus sta mettendo a dura prova la situazione dei penitenziari”. I sacerdoti che vivono tutti i giorni a fianco della popolazione rinchiusa in cella preoccupati per l’aumento dei contagi e la mancanza di soluzioni al sovraffollamento. Parlano di un contagio aumentato del seicento per cento nelle ultime settimane: i cappellani delle carceri della Campania dicono che “l’epidemia di coronavirus in queste ultime settimane sta mettendo a dura prova la situazione dei penitenziari”. Scrivono una lettera al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in cui chiedono di “rivedere la sua posizione sull’indulto, che in questo momento sarebbe una misura di civiltà giuridica che porrebbe freno alla condizione inumana in cui i detenuti versano”. “Chi era ai margini lo è ancora, e aggiunge alla sua ordinaria condizione di precarietà anche quella di un’esposizione al rischio di contagio sicuramente maggiore. Con effetti deflagranti anche dal punto di vista psicologico”. Ma chi soffre di più - proseguono i firmatari della lettera - sono i detenuti, che per i cappellani “sono dimenticati e pagano il prezzo del venir meno di un ordine normale delle cose, di provvedimenti restrittivi che hanno acuito la sofferenza di chi è recluso, causando rivolte e morti”. Nella lettera (sottoscritta dal direttore della pastorale carceraria di Napoli don Franco Esposito, da don Alessandro Cirillo della Casa di tutela attenuata di Eboli, dai cappellani di Poggioreale don Giovanni Liccardo e padre Massimo Giglio, di Secondigliano don Giovanni Russo, di Salerno don Rosario Petrone, dal vicario episcopale della Carità della diocesi di Nola don Aniello Tortora, dal cappellano dell’ex carcere Lauro di Nola don Carlo De Angelis, oltre a padre Alex Zanotelli e numerosi magistrati ed esponenti della società civile), i firmatari parlano di “un’informazione su quanto accade tra le mura delle carceri pressoché inesistente “ e “quindi di uno stato di paura e angoscia costante”. I cappellani della Campania invocano “la riforma dell’ordinamento penitenziario che è stata procrastinata da tutti i governi”. In un momento in cui le carceri si affollano e prende corpo nella società “una visione spregiudicata che tende a presentare la sanzione penale e il carcere come gli antidoti ad ogni male”, denunciano, inoltre, “istituti penitenziari gonfi all’inverosimile, in cui, di fatto, la situazione è ingestibile”. Per questo ritengono che non sia sufficiente rivedere il decreto recentemente adottato per l’emergenza coronavirus (che incide solo su una posizione molto ridotta, perché riguarda chi deve scontare ancora 18 mesi). Chiedono di “estendere a quanti più soggetti possibile la liberazione anticipata e, con la collaborazione dei Comuni, provvedere a dare un domicilio a tutte le persone detenute che ne sono prive”. Inoltre, ritengono sia necessario considerare con urgenza l’ipotesi di “una legge sulle misure alternative, che le potenzi, le sviluppi e le favorisca. Riformando gli uffici di sorveglianza, troppo spesso lenti, anzi lentissimi”. “Questa lentezza - scrivono i sacerdoti - si traduce in una sostanziale violazione dei diritti dei detenuti. È necessario scarcerare chi, anche come residuo di maggior pena, si trova nella condizione di dover espiare pochi anni. Ciò favorirebbe il reinserimento nella società”. La richiesta è, dunque, quella di un carcere più umano, in cui i colloqui non siano eliminati ma, con le dovute cautele, solo ridotti. E, nello specifico, siano istituiti presidi sanitari interni perché - è la conclusione - “non possiamo arrenderci. Non accettiamo l’idea che il principio di solidarietà debba essere espunto dal nostro contratto sociale. Crediamo in una giustizia dal volto umano”. Lazio. Covid-19: raddoppiano i casi nelle carceri regione.lazio.it, 17 novembre 2020 36 positivi, due ospedalizzati, cluster a Frosinone. L’appello del Garante: “Meno visite, meglio usare gli strumenti di videocomunicazione”. Il numero di detenuti positivi al Covid-19 è più che raddoppiato nel giro di circa dieci giorni: dai 16 casi rilevati il 4 novembre scorso si è passati ai 36 casi rilevati dal Garante delle persone private della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasìa, lo scorso 13 novembre. “Preoccupa sempre di più la situazione del sovraffollamento che è sempre quella - dice Anastasìa - In particolare, in alcune carceri della Regione dove ci sono gli ingressi in carcere, come Regina Coeli a Roma, ma anche piccoli istituti come Latina che sono al doppio delle presenze rispetto alla capienza. Su questa situazione impatta il problema del Covid che è molto grave. A oggi è di trentasei positivi. Significa che i casi sono più che raddoppiati in una settimana, con una situazione abbastanza complicata a Frosinone e da tenere sotto controllo a Rebibbia, nella casa circondariale femminile come nel nuovo complesso. C’è anche un caso di ospedalizzazione a Regina Coeli e uno nel nuovo complesso di Rebibbia. Il virus si sta diffondendo come non era avvenuto nella prima fase, quando ci sono stati alcuni casi singoli e raramente occasioni di cluster. Invece, adesso siamo in presenza di un vero e proprio cluster a Frosinone e la possibilità che il virus si manifesti sotto forma di cluster anche a Rebibbia femminile”. “L’appello che voglio fare ai detenuti e ai familiari dei detenuti - prosegue Anastasìa - è di affrontare questo momento con il necessario spirito di sacrificio. So che questo sta pesando moltissimo su di loro, sulla possibilità di vedersi, di incontrarsi, ma forse in questi giorni è meglio utilizzare al massimo gli strumenti di videocomunicazione e limitare il più possibile l’ingresso negli istituti penitenziari. Accanto a questo serve anche un impegno deciso da parte della politica, del governo, del Parlamento, per misure di riduzione della popolazione detenuta significative. Questo è necessario per poter prestare la massima prevenzione e la massima assistenza in carcere a chi risulti positivo. È necessario non solo che non ci sia sovraffollamento - conclude Anastasìa - ma che ci siano anche gli spazi adeguati per l’isolamento e per l’assistenza delle persone che ne hanno bisogno”. Molise. Carceri e Covid, la Garante avvia il monitoraggio nelle strutture ottopagine.it, 17 novembre 2020 Leontina Lanciano in campo per fare il punto sulla situazione di detenuti e personale. Contagi, guarigioni, tamponi, distribuzione dei dispositivi di sicurezza e assistenza sanitaria: Leontina Lanciano in campo per fare il punto sulla situazione di detenuti e personale. Un monitoraggio a 360 gradi sulla situazione Covid nelle tre strutture carcerarie del Molise: la Garante regionale dei Diritti della persona ha avviato la raccolta formale dei dati relativi a contagi, guarigioni, tamponi, gestione dell’isolamento, distribuzione dei dispositivi di sicurezza e tipologie di assistenza sanitaria. Un’azione a tutela delle persone detenute ma anche degli operatori e del personale che opera nelle case circondariali, che si inserisce tra le iniziative intraprese dall’inizio della pandemia ad oggi per contrastare la diffusione del virus. “Si tratta di decisione - spiega Leontina Lanciano - nata dall’esigenza di avere un preciso quadro della situazione, anche a fronte dell’insorgenza del cluster del carcere di Larino e della recente protesta pacifica intrapresa dalle persone recluse presso tale penitenziario, che chiedono l’elaborazione di un piano di contenimento dell’epidemia. Da contatti intercorsi con i vertici del carcere ho ricevuto rassicurazioni sulle condizioni attuali, in particolare per qual che riguarda il numero dei contagi che, a quanto si apprende, si sarebbe mantenuto pressoché stabile. Inoltre è stata già disposta, da parte dell’Asrem, l’esecuzione dei tamponi all’interno della struttura, anche per il personale in servizio”. Quella dell’effettuazione dei tamponi è una misura che era stata sollecitata, in passato, anche dalla Garante, che solo pochi giorni fa è nuovamente intervenuta a sostegno del circuito carcerario con due ulteriori richieste: la fornitura dei dispositivi di protezione individuale (quali ad esempio le mascherine) presso i penitenziari locali e il potenziamento del presidio infermieristico della casa circondariale di Larino. “Quanto a quest’ultimo aspetto - sottolinea la dottoressa Lanciano - a fronte delle segnalazioni ricevute dalle persone ristrette nel penitenziario e di concerto con la direttrice del carcere Rosa La Ginestra, con cui mi tengo costantemente in contatto, ho ritenuto necessario richiedere l’attivazione di un presidio infermieristico notturno, prolungando la presenza del personale medico-infermieristico precedentemente previsto fino alle 22. Ciò per dare una risposta tempestiva ed efficace in questo momento di acutizzazione della curva pandemica e scongiurare, così, possibili ricadute pericolose legate alla condizione emergenziale esistente”. Attraverso il monitoraggio, conclude l’organo regionale di garanzia, “sarà possibile avere un quadro dettagliato e veritiero della diffusione del virus e della gestione dei casi, nell’ottica di fornire risposte pronte e mirate in grado di assicurare la protezione di tutti i soggetti che vivono il carcere quotidianamente”. Tolmezzo (Ud). Il Covid al 41bis: tutti i detenuti contagiati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 novembre 2020 A Tolmezzo il Covid al 41bis ha contagiato tutti i dodici detenuti ospitati. Il timore è che possa arrivare a Parma dove ci sono reclusi anziani e malati. Tolmezzo il Covid al 41bis. Dopo i sei reclusi positivi al Covid 19 (tra i quali almeno 4 sono finiti in ospedale) al carcere duro di Opera, ora il contagio è arrivato al carcere friulano di Tolmezzo con una sezione intera al 41bis contagiata. Sono circa 12 i reclusi risultati positivi, mentre almeno per ora risultano passati indenni gli internati (ricordiamo che a Tolmezzo c’è la casa lavoro) che vivono in una sezione a parte. Anche in questo caso nella scorsa ondata, i detenuti al carcere duro erano stati risparmiati. C’era stato un piccolo focolaio insorto dopo il trasferimento di cinque detenuti dal carcere di Bologna, all’epoca teatro di un enorme contagio e ancora oggi rimane il mistero dell’avventato trasferimento. Ma ora il problema è un altro. 41bis inviolabile secondo alcuni opinionisti e magistrati - A Tolmezzo il Covid al 41bis è entrato nel luogo che, per numerosi opinionisti e anche taluni magistrati, era considerato inviolabile. D’altronde, a parte casi eccezionali, diversi magistrati di sorveglianza hanno rigetto le istanze relative alla misura alternativa al carcere duro (parliamo dei soggetti anziani o pieni di gravi patologie), sottolineando il fatto che essere ristretti in regime di 41bis e quindi in celle singole e con tutte le limitazioni del regime differenziato, c’è protezione dal rischio di contagio. Così non è. Ma non solo. L’avvocata Maria Teresa Pintus ha un assistito al 41bis di Tolmezzo, ovviamente risultato positivo al Covid, e ha spiegato a Il Dubbio che durante la prima ondata, sia la direzione che il magistrato di sorveglianza, non avevano acconsentito alla richiesta del recluso al carcere duro di essere rifornito dall’area sanitaria competente di mascherine per evitare il contagio. Non solo era arrivato il diniego, ma il magistrato di sorveglianza di Udine ha scritto nero su bianco che “tuttora le mascherine sono necessarie solo per i sanitari” e che comunque potrà comprarle “quando saranno disponibili sul mercato e a spese del detenuto”. “Da qualche settimana gli agenti mettono la mascherina” - Questo accadeva a marzo. “In realtà - spiega l’avvocata Pintus ha il Dubbio - il mio assistito mi ha spiegato che solo fino a qualche settimana fa c’era poca attenzione, e solo da poco ora tutti gli agenti si mettono la mascherina e stanno evitando, per quanto possono, di fare le perquisizioni”. Quest’ultima questione non è di poco conto. Di solito le perquisizioni delle celle dei 41bis avvengono almeno con due agenti e le camere, si sa, non sono così grandi e quindi si crea, di fatto, un assembramento. La situazione diventa allarmante se il virus dovesse entrare in quei penitenziari dove ospitano i 41bis che hanno una età medi di 80 anni. Tanti malati oncologici. La fortuna è che a Tolmezzo il Covid al 41bis riguarda detenuti relativamente giovani e non con particolari patologie pregresse. Preoccupazione per i 41bis a Parma - A differenza di Opera dove, com’è detto ripetutamente sulle pagine de Il Dubbio, ci sono persone gravemente ammalate tra i quali un malato terminale che sta lottando tra la vita e la morte in terapia intensiva. Ancora più grave sarebbe la situazione se il Covid dovesse varcare i 41bis del carcere di Parma, ad alta complessità sanitaria. C’è Sandra Berardi di Yairaiha Onlus, associazione che ha da poco lanciato un appello per far scarcerare subito i detenuti malati e anziani, che denuncia il governo di aver fatto orecchie da mercante alle indicazioni fornite dagli esperti della realtà penitenziaria sin dalla fine di febbraio, ovvero ridurre sensibilmente il sovraffollamento e sostituire la misura detentiva con la detenzione domiciliare o ospedaliera per tutti i soggetti portatori di determinate patologie. “Questo governo e questo Parlamento - denuncia Sandra Berardi - hanno preferito seguire le sirene del populismo penale agitato da alcuni media a scapito dello Stato di diritto e della salute della comunità penitenziaria che oggi, purtroppo, conta oltre 1300 persone contagiate tra detenuti e operatori, con un trend in crescita costante che sta colpendo indistintamente la popolazione detenuta finanche nelle sezioni di 41bis che qualcuno, pretestuosamente, aveva dichiarato immuni da possibili contagi”. Auspica quindi che il governo “lasci da parte le sirene del populismo per seguire la strada del diritto alla salute che è primario rispetto alla potestà punitiva dello Stato”. Torino. “No alla sospensione dei colloqui in carcere” Corriere di Torino, 17 novembre 2020 Protesta dei familiari dei detenuti al Lorusso e Cutugno. Dalle celle, stoviglie contro le sbarre. Circa un centinaio di persone, per lo più i parenti dei detenuti, si sono dati appuntamento ieri pomeriggio davanti al carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, nel quartiere Vallette, per protestare contro la sospensione, per l’emergenza Covid, dei colloqui. Mogli, mariti, figli e genitori: con loro anche qualche militante dei centri sociali. È il terzo presidio organizzato in pochi giorni. I parenti hanno spiegato la situazione, rivendicato l’importanza di vedere i propri cari e che, visto i controlli fatti, non ci sarebbe rischio di contagio portato dall’esterno. Hanno sottolineato come invece dentro il carcere ci sia un problema di sovraffollamento e che servono misure alternative alla detenzione. La manifestazione è stata salutata dai detenuti che hanno battuto con le stoviglie sulle sbarre delle celle, facendo un rumore che è arrivato fino al presidio. L’emergenza sanitaria da coronavirus è ora sotto controllo negli istituti di pena di Torino ma durante la prima ondata del Covid-19 in Piemonte da più parti era stato sollevato il caso della trasmissione del virus all’interno dei penitenziari. I primi contagi furono denunciati a maggio. Poi Torino e il Piemonte si erano guadagnati sul campo il triste primato della diffusione del virus con 110 positività riscontrate nei 13 istituti della regione quando in tutta Italia i contagiati nelle celle erano 300. Un terzo dunque. La condizione molto pericolosa e rischiosa all’interno degli istituti di detenzione era stata denunciata a gran voce dal garante regionale per le persone detenute Bruno Mellano nel corso di un intervento al Consiglio regionale. “Sarebbe davvero ingiustificato lasciare da sola l’amministrazione penitenziaria a gestire con grande difficoltà momenti di crisi, di sovraffollamento, di pandemia, di violenze tra detenuti e tra agenti e detenuti” aveva dichiarato Mellano. E invece è proprio in questi luoghi chiusi e spesso ai margini della società che l’occhio delle istituzioni deve essere più acuto. Perché anche in luoghi come il carcere ci sono vite in gioco. Un appello sostenuto e rilanciato dai Radicali e da +Europa che ha fatto breccia nelle iniziative delle istituzioni. Risultato: i numeri del contagio nelle case circondariali piemontesi sono tornati sotto controllo. Resta però il problema degli incontri con i familiari. Oltre il rischio della trasmissione del virus c’è l’esigenza di non isolare ulteriormente i detenuti dagli affetti e dal mondo esterno. Da qui la protesta di ieri. Roma. Nelle carceri 5 i positivi al Covid. “I protocolli sono rigidi” di Roberta Pumpo romasette.it, 17 novembre 2020 Pochi i casi nei penitenziari del Lazio. Il Garante Anastasìa: al primo accesso vengono sottoposti al tampone. Colloqui con i parenti solo una volta al mese. I casi di contagio da Covid-19 negli istituti penitenziari del Lazio sono circoscritti. Non sono da sottovalutare, certo, ma per il Garante delle persone private della libertà personale del Lazio Stefano Anastasìa offrono un’importante chiave di lettura. “Il sistema di prevenzione sta funzionando - afferma. I casi di positività riguardano detenuti individuati all’ingresso in istituto. Al primo accesso vengono sottoposti al tampone per evitare che il virus entri in sezione”. Gli ultimi dati rilevati l’8 novembre registrano complessivamente 19 positivi in sei dei quattordici istituti di pena del Lazio. I reclusi positivi nelle 5 carceri romane sono cinque, tra i quali due ricoverati in ospedale e due donne in isolamento nella sezione femminile di Rebibbia. Preoccupano i 14 contagiati all’istituto di Frosinone dove c’è “l’unico cluster che sarebbe riconducibile al personale”. Per le visite dei parenti, nel Lazio è stato adottato “un protocollo rigidissimo”, spiega Anastasìa. I colloqui sono consentiti una volta al mese in locali dove sono state installate “pareti” in plexiglas alte fino al soffitto. “Non vi è nessun tipo di contatto con i parenti - aggiunge il garante -. L’attenzione è molto alta per evitare che il virus entri in una comunità chiusa e con convivenza stretta come quella carceraria dove, oltretutto, la situazione è igienicamente discutibile. Le docce, per esempio, sono in comune anche se il regolamento penitenziario da 20 anni prevede i servizi igienici, doccia compresa, nelle camere detentive”. Durante il lockdown “per la prima volta” è stato concesso ai detenuti di effettuare videochiamate ai familiari. “Questo ha permesso a molti di rivedere i genitori che non incontravano da tempo perché anziani o residenti in altre città - osserva - è stato molto emozionante. Cresce invece la sofferenza di chi ha figli molto piccoli con i quali è difficile interagire attraverso un telefono”. L’emergenza sanitaria, lo abbiamo imparato in questi mesi, trascina con sé numerose criticità e costringe a rivedere le abitudini. Per evitare i contagi le attività educative e culturali hanno subito limitazioni inevitabili. “Durante la prima fase - dice il Garante - tutti gli istituti hanno chiuso l’accesso a qualsiasi figura esterna, eccetto, ovviamente, personale penitenziario e sanitario. Da giugno è stato consentito l’ingresso agli insegnanti per preparare gli studenti agli esami e da luglio ai volontari. Oggi ci troviamo difronte a un tentativo di limitare le attività o a sottoporre a rigidi controlli gli operatori esterni”. Per esempio, la direttrice di “Rebibbia Nuovo Complesso - Raffaele Cinotti”, spiega Anastasìa, “ha chiesto a volontari e insegnanti di sottoporsi a tampone ogni 15 giorni. Si rischia una nuova chiusura di programmi fondamentali per l’assistenza e il sostegno dei detenuti. Non ci sono disposizioni centrali in tal senso ma non è da escludere”. L’auspicio è quello di mantenere attive almeno le attività che coinvolgono il più ampio numero di carcerati come quelle scolastiche “perché la didattica a distanza in carcere non è attuabile”, dice in tono amaro. Al momento è attivo, proprio a Rebibbia, un laboratorio di produzione di mascherine per garantire la fornitura alla popolazione carceraria. Attività che ha una triplice valenza, rimarca il garante. “È una esperienza lavorativa, impegna il loro tempo ed è a favore della società perché i dispositivi potrebbero andare a beneficio di persone esterne”. Tutte le precauzioni adottate si scontrano però con il sovraffollamento. I detenuti presenti negli istituti di pena del Lazio al 31 ottobre sono 5.839 a fronte di una capienza regolamentare di 5.144. Il tasso di affollamento è pari al 112 per cento sulla capienza ufficiale, superiore al tasso medio italiano che è del 106 per cento. Nel dettaglio: gli uomini sono il 93,5%, gli italiani il 62,3% e il 62,2% sta scontando una condanna definitiva. Rebibbia Nuovo Complesso detiene il triste record di sovraffollamento e nello specifico la capienza regolamentata è di 1.150 persone per 1.117 posti effettivamente disponibili ma i detenuti oggi sono 1.479. Anastasìa ricorda che “il decreto Ristori ha rinnovato le procedure per l’accesso alla detenzione domiciliare per detenuti che hanno fine pena brevi ma molti che potrebbero usufruirne non hanno domicilio”. L’appello del Garante è quindi quello di “allargare la rete di accoglienza”. Busto Arsizio. Focolaio Covid nel carcere: 22 detenuti positivi Il Giorno, 17 novembre 2020 La direzione del carcere ha confermato che è stata creata una sezione Covid interna al penitenziario. È scattato l’allarme Covid nel carcere di Busto Arsizio (Varese) dove è stato individuato un focolaio con ventidue detenuti positivi al Covid. Tutti i contagiati sarebbero asintomatici. La direzione del carcere ha confermato che è stata creata una sezione Covid interna al penitenziario. Il 23 novembre saranno eseguiti i tamponi per verificare l’eventuale negativizzazione. Sassari. I detenuti di Bancali: tra virus e restrizioni siamo allo stremo di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 17 novembre 2020 La denuncia: diminuiti i colloqui e l’infermeria è un disastro “Ritardi nelle consegne, il cibo che ci inviano va in malora”. La pandemia mette a dura prova anche i detenuti di Bancali. E non solo per ciò che riguarda gli effetti del Covid dal punto di vista strettamente sanitario. “Capiamo che le restrizioni siano tante anche all’esterno del carcere ma per chi vive già in piena restrizione è ben diverso”. Due pagine di foglio protocollo scritte a mano e fatte consegnare alla redazione della Nuova Sardegna “per fare in modo che le istituzioni competenti prendano i provvedimenti necessari per risolvere alcuni problemi nel rispetto dei diritti dell’uomo. Perché nonostante in passato noi abbiamo sbagliato, stiamo pagando comunque il nostro debito con la giustizia. Ma non è questo il modo, altrimenti sarebbe tortura, non solo fisica ma molto più psicologica”. Un appello accorato che arriva a conclusione di una serie di emergenze elencate nero su bianco da “noi detenuti della casa circondariale di Bancali” (così si firmano in calce). E ciò che colpisce è che al primo posto ci sia la sofferenza per la mancanza di comunicazione con l’esterno, problematica accentuata dall’emergenza Covid. “La corrispondenza non funziona - scrivono - sia in uscita che in entrata e molta sparisce senza averne più notizie. Siamo poi privati dei colloqui visivi con i nostri familiari, ora da uno sono passati a due ma l’ingresso è dedicato solo a un familiare e come si esegue il colloquio non si sente nulla in quanto sei separato da un vetro e sei a una certa distanza”. Accorgimenti adottati per scongiurare il rischio contagi ma che ai detenuti stanno creando parecchio disagio. Al posto dei colloqui visivi “sono state messe a disposizione le videochiamate ma anch’esse sono inutili perché non vengono rispettati i turni e gli orari per usufruirne, in quanto non ci sarebbe personale. In realtà c’è menefreghismo e scarsa organizzazione da parte degli addetti. Poi per ogni movimento che si fa all’interno del carcere devi per forza fare richiesta con il modello 393 in modo che ognuno riceva una risposta per ciò che sta chiedendo. Ma anche questo non viene eseguito nei dovuti modi, perché le domandine spariscono o perché l’assistente che se ne deve occupare non è disponibile”. Passano poi all’argomento cibo. Secondo quanto da loro raccontato, i pacchi degli alimenti inviati dai familiari non sempre verrebbero consegnati in tempi rapidi e capita quindi che il cibo vada in malora: “Dietro ci sono i tanti sacrifici che hanno fatto i nostri familiari per mandarci quegli alimenti, magari privandosi loro di altro che servirebbe in famiglia”. “In più - continuano nella lettera - non ci fanno fare ingresso alle casse pranzo, fondamentali per i beni di prima necessità, in quanto il vitto che viene distribuito dall’amministrazione penitenziaria è scarso e commestibile fino a un certo punto. Senza contare chi non ha la disponibilità economica per l’acquisto di alimenti basilari come l’acqua”. Tra le altre carenze ci sarebbe quella dell’area educativa: “È come se non ci fosse, se ti chiamano lo fanno dopo tantissimo tempo e il più delle volte senza che ti risolvano il problema, anche se banale”. Concludono con “la cosa veramente più vergognosa: l’infermeria. Quando abbiamo problemi veniamo liquidati con una bustina o un antidolorifico, non ci sono specialisti, e qui c’è chi soffre ogni giorno. Condizioni inumane che stanno portando le persone allo stremo”. Reggio Calabria. L’umanità dolente del carcere che non rinuncia a rinascere di Roberta Pino reggiotoday.it, 17 novembre 2020 La visione “umana” della Garante dei diritti dei detenuti, Giovanna Russo, sull’attuale realtà carceraria reggina. Il carcere, si sa, rappresenta il paradosso per eccellenza: per garantire la massima protezione dei diritti di alcune persone, si attua la massima coercizione dei diritti nei confronti di altre. Protezione versus costrizione, una contraddizione in termini che sembra, al primo sguardo, non avere niente in comune. Eppure in questa apparente antinomia si cela una ricchissima umanità. A svelare la realtà carceraria, spesso poco conosciuta, è il garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria, l’avvocato Giovanna Russo. Da quattro mesi al servizio dei detenuti delle strutture penitenziarie di San Pietro e Arghillà, l’avvocato Russo ci offre uno sguardo originale, differente, in una sola parola “umano” degli istituti di pena in cui opera e del sistema penitenziario in generale. È una visione particolare la sua, è l’ottica di una professionista, malgrado la giovane età, già impegnata da tempo a tutelare i diritti degli ultimi, è lo sguardo di una donna, per la prima volta in Calabria, chiamata a ricoprire un ruolo così significante, è la prospettiva di una persona che incarna in sé delicatezza, sensibilità insieme ad una radicata determinazione. Un incarico sopraggiunto nella pausa tra la fine del primo lockdown e quello attuale vissuto dalla Calabria, relegata a zona rossa, a più alto rischio, cioè, di diffusione del contagio. La pandemia ha sconvolto la vita di tutti gli esseri umani a livello planetario, ha modificato le relazioni “imponendo” un distanziamento di sicurezza salvifico e responsabile. Una situazione ancora di più enfatizzata all’interno delle carceri. “La pandemia ci ha portato a ripensare e riprogrammare la vita in tutti i suoi aspetti, ci ha obbligati a rivalutare il senso di prossimità -racconta Giovanna Russo - non a caso è arrivato questo incarico che mi ha dato la dimensione dell’altro, di chi è l’ultimo, di chi è lo scarto della società. Rispetto ai carcerati quello che più mi fa pensare è quanto riusciamo veramente ad essere loro vicini, anche se di vicinanza fisica non si può parlare. Non dimentichiamo, infatti, che c’è sempre una sbarra tra noi, c’è una cella che ci separa”. Una distanza fisica che può essere colmata solo da un’attenzione dell’anima. “Mi domando spesso quanto sia possibile dare forza ai detenuti - prosegue il garante Russo - tutto è amplificato all’interno di quelle mura, loro si sentono soli e sperduti, non hanno più gli affetti, sono privati della libertà per un tempo più o meno lungo e, in quel luogo, si ha la percezione che l’individuo pensi di se stesso di essere ormai una nullità”. Ecco l’aspetto umano del carcere, la visione privilegiata del neo garante Russo, che avanza prepotentemente. “L’individuo vive la dimensione carceraria con possibilità limitate di autodeterminarsi. È ridotta anche la libertà di leggere, di scrivere, di confrontarsi con altri a causa dell’emergenza sanitaria in corso”. Una fotografia che lascia poco spazio all’immaginazione. L’avvocato Russo ha invece uno sguardo lungimirante, quasi visionario, ha una visione di riforma penitenziaria che passa da un percorso di redenzione in vista del reinserimento sociale. “Io credo nella possibilità di un riscatto individuale rispetto all’errore. Nessuno è indenne o immune dalle colpe nei confronti di qualcun altro o verso la propria persona. Parliamo di persone che hanno commesso un reato, costrette a vivere in carcere, è vero, ma mi viene sempre in mente l’immagine forte di Giovanni Paolo II che ha perdonato il suo attentatore. Tutti hanno diritto di redimersi dal peccato, c’è la possibilità del perdono, che il più delle volte la legge concede, ma spesso questi soggetti non perdonano sé stessi, sono tormentati sotto vari profili”. Secondo la visione del garante Russo, il primo passo verso un efficace reinserimento sociale è la famiglia, anche “se ci sono nuclei familiari che non accettano più chi ha commesso il reato, pur trattandosi di congiunto, lo emarginano e loro perdono il riferimento”. Lavorare sul reinserimento concreto, sotto l’aspetto professionale e umano, dalla formazione interna in carcere alla società civile, questo è il suo obiettivo. “La frase ricorrente ai colloqui è “io so di avere sbagliato”. I detenuti sono persone che vogliono ricostruirsi concretamente”. Il progetto visionario del garante Russo va oltre il concetto utopistico di Thomas More (da lei stessa citato), coinvolge l’intera società, dalla magistratura alle istituzioni, dalle associazioni di categoria alla chiesa, passando per il mondo dell’istruzione e della sanità. Attori coinvolti per “strutturare un fuori che diventi accogliente”, sulle orme tracciate dal sostituto procuratore Stefano Musolino che, come ricorda l’avvocato Russo, durante un incontro svoltosi nel cortile degli Ottimati, ha spinto molto sulla necessità di non emarginare il soggetto una volta uscito dal carcere, “quando si toglie il saluto, lo sguardo ad una persona, lo si priva del minimo indispensabile a livello umano”. Dare un senso al loro tempo una volta che i detenuti abbiano scontato la pena. Questa è la strada da percorrere secondo l’avvocato Russo per una concreta riabilitazione sociale. Un senso chiamato lavoro. E già il lavoro. Ma lo strumento interdittivo potrebbe ingenerare indebite compressioni della libertà d’impresa e dei diritti dei singoli, se non accompagnato da istruttorie approfondite. Occorre discernere, secondo il legale, le posizioni individuali da dinamiche a volte complesse. “È un gap che va colmato sulla base di una intesa istituzionale concreta, serve il dialogo serio tra istituzioni che abbiano fiducia reciproca nell’operato, serve la fede. Il problema è l’individualismo istituzionale - afferma- se un’azienda assume una persona che ha espiato le proprie colpe, quell’azienda non può ricevere una interdittiva a meno che il soggetto non perseveri nel delinquere”. Un confine sottile tra legalità e giustizia e il pensiero di Giovanna Russo va a Falcone e Borsellino. “Si dice sempre che la mafia li ha uccisi, è vero, il braccio operativo è stato la mafia, ma chi ha pensato l’evento? Sono gli uomini che fanno lo Stato, le istituzioni, la classe dirigente. Ci sarà sempre il bene contro il male. Il problema - sottolinea - è ristabilire gli equilibri, che non ci sia un confine labile tra legalità e giustizia, che vadano di pari passo”. Uno sguardo adesso alla struttura carceraria interna, è possibile umanizzare l’istituzione carceraria? “Ho incontrato molta umanità all’interno del carcere, tramite i colloqui con i detenuti. Quello che più mi ha colpita è l’umanità dell’amministrazione e della polizia penitenziaria. C’è una oggettiva difficoltà di dover intervenire su alcuni detenuti che, trovandosi ristretti, attuano dei comportamenti amplificati da condizioni psicologiche non equilibrate”. Una situazione particolare riguarda l’unità di osservazione psichiatrica del carcere reggino. “Una struttura non adeguata ad oggi benché siano stati fatti lavori di ristrutturazione -racconta il garante Russo - inoltre l’Asp dovrebbe prevedere più esperti psichiatri e psicologi a sostegno dell’amministrazione penitenziaria”. Malgrado la giovane età e la brevità del tempo trascorso dalla sua nomina, l’avvocato Giovanna Russo ha già una prospettiva chiara e sagace del suo operato, anche se preferisce stare con i piedi per terra, dosando con equilibrio ragione e sentimento. “Mi sono sentita piccola di fronte a questo incarico- confessa - ma ho una visione concreta, uno sguardo oggettivo. Il mio motto è “tanto amore, tante regole”, una umanità che si muove nelle regole. Sono felice di essere la prima donna calabrese a ricoprire questo ruolo - conclude - credo nella forza dell’operato femminile quando è leale e poi i calabresi hanno una marcia in più, riescono a contaminare e a diffondere il bene ovunque”. Brindisi. Il paradosso delle carceri, ai colloqui si rischia la multa di Mimmo Mongelli Gazzetta del Mezzogiorno, 17 novembre 2020 I parenti che arrivano da fuori violano il Dpcm. I parenti dei detenuti ristretti nel carcere di Brindisi costretti ad affrontare un dilemma shakespeariano: rinunciare ai colloqui con i propri congiunti o andare incontro ad una sanzione per violazione del Dpcm? La maggior parte delle mogli, delle conviventi, dei genitori, dei fratelli e delle sorelle di chi è detenuto nella casa circondariale di via Appia il dilemma lo ha già risolto in favore dell’affetto per i propri cari: si recheranno ai colloqui pur sapendo che questo comporterà una sanzione. Chi, ieri, ha telefonato in carcere per prenotare, come da consuetudine, il colloquio con il proprio caro che è detenuto, si è sentito rispondere che la prenotazione veniva registrata ma, contestualmente, è stato informato che dalla casa circondariale sarebbe partita la segnalazione alla Prefettura per chi raggiungeva Brindisi muovendosi da un altro comune. I colloqui in carcere, dunque, proseguono, ma solo chi è residente a Brindisi può fruirne senza violare il Dpcm. Il problema di un’evidente disparità giuridica tra persone residenti in luoghi diversi è lapalissiano. Se durante il lockdown della scorsa primavera i colloqui erano stati cancellati, adesso è stata fatta una scelta diversa: i colloqui restano, ma sono solo per pochi intimi. I parenti di chi è rinchiuso nel carcere di via Appia non ci stanno e preannunciano iniziative di protesta e sensibilizzazione su una situazione che è a dir poco kafkiana, anche perché - a sentire loro - i colloqui in carcere avvengono in una cornice di massima sicurezza (sanitaria). Tant’è - sottolineano - gli incontri settimanali tra i detenuti e i loro congiunti non sono stati cancellati, solo che d’ora in avanti avranno un “costo” esorbitante per la maggior parte dei congiunti dei detenuti, che si vedranno recapitare a casa la sanzione per aver violato le norme dell’ultimo Dpcm. Ancona. Incredibile ma vero: il progetto “Fiabe in libertà” dal carcere di Montacuto di Antonella Barone gnewsonline.it, 17 novembre 2020 “Quando mi è stato proposto di far raccontare a detenuti fiabe per bambini, ho pensato davvero a un progetto incredibile - racconta durante la diretta Facebook e You Tube Allegra Mocchegiani responsabile del Laboratorio “Fiabe in libertà” organizzato nel carcere di Ancona Montacuto - Poi ho scoperto che il racconto della fiaba è una formula che ha un potere trasversale rispetto alle età e alle esperienze delle persone”. Ritorno al passato, riscoperta della creatività e mediazione artistica per superare i confini e le restrizioni del carcere sono stati i concetti chiave su cui si è basato il progetto, organizzato per il terzo anno da Radio Incredibile - piattaforma multimediale di musica e life sharing che utilizza la radio come strumento inclusivo in spazi sociali marginali - con il contributo della Fondazione Cariverona e in collaborazione con La Casa di Asterione e Musicandia Vintage Studio. Il progetto è iniziato anni fa grazie alla direttrice Santa Lebboroni, recentemente scomparsa, ricordata nel corso della trasmissione “per essere stata tra i primi ad aver compreso la funzione pedagogica che la radio poteva assumere anche in un contesto detentivo”. “Il primo anno - continua Allegra Mocchegiani - abbiamo prodotto un audio-libro, l’anno successivo sono state aggiunte immagini realizzate da studenti finché, in questa terza edizione, abbiamo raccontato la fiaba tramite un video che consentirà alla nostra storia di essere conosciuta con più facilità”. Il Boscaiolo, lo Scoiattolo e la Strega Tagliabue è il titolo del cortometraggio, anzi del “fiabamatraggio” come lo definiscono gli autori del progetto, interpretato da detenuti e diretto da Moreno Mascaretti e sceneggiato da Allegra Mocchegiani ed Emanuela Razza. Una piccola opera di qualità realizzata sovrapponendo a fondali le scene girate all’interno del carcere. Silvia Forcina, autrice dei fondali ha detto di aver rappresentato paesaggi e ambienti con pochi dettagli “perché la realtà fuori, per i ragazzi del carcere è colorata e luminosa mentre i particolari, nel ricordo, svaniscono”. Protagonisti del racconto, Lenticchia lo scoiattolo, il guardaboschi e Capitan Balbuzia che insieme riescono a salvare animali destinati a subire esperimenti prima di essere ridotti in pellicce. Nessuna vendetta e pena crudele saranno però inflitte alla strega responsabile delle atrocità, che riparerà ai suoi misfatti curando gli animali e imparando a rispettare il bosco. Milano. Al Beccaria i laboratori rap per “uscire” dal carcere, se ne parla al “Linecheck” milanotoday.it, 17 novembre 2020 La musica che racconta il carcere. Quella musica, la stessa, che riesce a “ridipingere” le pareti e le sbarre, regalando a chi è costretto a stare lì momenti di normalità e vita vera. Quest’anno al “Linecheck”, la più importante conferenza italiana sul mondo della musica, si parlerà anche di “Rap dentro”, la rete che raccoglie le realtà che operano nelle carceri minorili con dei laboratori rap. In quelle realtà c’è anche l’associazione “232 Aps”, che organizza le lezioni all’interno del Beccaria di Milano per far immaginare ai ragazzi un futuro diverso, migliore, libero. L’appuntamento, previsto per giovedì 19 novembre alle 18.45, rigorosamente online, sarà - raccontano gli organizzatori - “un momento per riflettere su come la musica racconta il carcere, un panel volto ad indagare la potenzialità espressiva che nasce dall’esperienza detentiva. Mai come ai giorni nostri, l’incarcerazione viene trattata e raccontata nei testi dei brani rap, insieme si andrà ad esplorare il motivo alla base di questa scelta”. “Gli interventi che verranno raccontati descrivono un nuovo modo di concepire il carcere, raccontano una strada possibile nel tracciare nuovi modelli di riferimento per i contesti rieducativi. Diverse guide ci accompagneranno in questo viaggio, personaggi che conoscono la realtà penitenziaria e che promuovono interventi artistico espressivi rivolti a minori autori di reato”. All’evento prenderanno parte Fabrizio Bruno - il pedagogista e rapper, con il nome di Otis Rigor Monkeez, che cura i laboratori al Beccaria -, i colleghi che si occupano dei corsi in altri istituti penitenziari e i due ospiti speciali Lucariello e Massimo Pericolo. Covid, senza tetto e senza cure. Ecco chi assiste i dimenticati dalla sanità di Fiammetta Cupellaro La Stampa, 17 novembre 2020 Medici dei diritti umani stima che in Italia ci siano oltre 50 mila senza fissa dimora: migranti, rifugiati, braccianti che lavorano in nero. Persone che non possono contare su medico di base e accesso al sistema sanitario. Nudi di fronte al virus. Gli ultimi, quelli che vivono sulla strada, nelle baraccopoli, negli insediamenti precari, rimasti fuori dal sistema sanitario. Per loro, gli effetti del Covid-19 sono stati devastanti. I dimenticati dalla sanità in Italia sono circa 50 mila: sono i senza fissa dimora, i migranti, i rifugiati, i braccianti che lavorano in nero. Persone che non possono contare sul medico di base, l’accesso al sistema sanitario, né i soldi per comperare una mascherina, figuriamoci per sottoporsi ad un tampone. Sono anche i più esposti al contagio, perché come si può vivere durante una pandemia senza avere una casa oppure in condizioni igieniche al limite? La lotta contro il virus si combatte anche dai medici e infermieri che lavorano fuori dagli ospedali, a contatto con gli ultimi. I volontari che da Roma a Milano, da Torino a Palermo girano per stazioni ferroviarie e luoghi dimenticati a fronteggiare l’epidemia. La crisi e la seconda ondata - “La seconda ondata li ha investito in pieno chi vive sulla strada, italiani e stranieri, con effetti devastanti. Purtroppo la sanità territoriale non ha ancora previsto un piano abitativo specifico per le persone senza fissa dimora e che vivono in grave precarietà. Con l’arrivo dell’inverno, potrebbe diventare una vera emergenza”. Il dottor Alberto Barbieri, è uno dei fondatori dell’associazione Medu (Medici per i Diritti Umani) che dal 2004 opera soprattutto a Roma (tra le stazioni Termine e Tiburtina, i grandi insediamenti dell’hinterland), Firenze e la Piana di Gioia Tauro in Calabria. Psicoterapeuta, Barbieri insieme ad altri colleghi ha dato vita alle Cliniche Mobili chiamate Camper per i diritti. Da sedici anni assistono chi vive sulla strada o in condizioni abitative precarie, i migranti, i rifugiati. “Fino a marzo abbiamo fornito assistenza sanitaria di prossimità, di primo e secondo livello, visite mediche per adulti e bambini, ma da quando siamo in emergenza Covid-19 i camper si sono trasformati in Team Covid - spiega Barbieri - a bordo ci sono infermieri, medici, mediatori culturali formati per la sorveglianza attiva. Abbiamo distribuito più di 10 mila mascherine e igienizzanti a chi vive sulla strada, misurato la febbre a migliaia di persone. Un lavoro di prevenzione che ha evitato che molti di loro si riversassero negli ospedali”. Grazie ai Medici dei Diritti Umani, è stato possibile anche avere a disposizione un lavoro di tracciamento dei contagi tra i senza fissa dimora, una parte della popolazione che spesso sfugge alle rilevazioni. Dati che sono stati elaborati con le Asl di Roma 1 e Roma 2, Firenze Centro e l’Asl di Reggio Calabria. E anche per loro è nato in questi giorni l’hashtag #orapiuchemai, una campagna per richiamare l’attenzione sulle difficoltà che i servizi di accoglienza sono chiamati a fronteggiare durante l’epidemia. Quanto è esteso secondo lei il contagio tra chi vive sulla strada in questo momento? “Tra Roma e Firenze abbiamo trovato decine di casi positivi. Spesso si tratta di persone cono altre patologie, ma senza alcuna assistenza medica, molto fragili. Li abbiamo curati nelle nostre strutture sempre rimanendo in collegamento con le Asl evitando che arrivassero in ospedale, come unico luogo dove poterli curare. Per altri è stato invece necessario il ricovero, ma li abbiamo intercettati in tempo. Molti sono giovani. Oltre le stazioni ferroviarie, le nostre cliniche mobili sono rimaste ferme anche negli insediamenti abitativi delle grandi periferie di Roma e Firenze, tra i migranti e rifugiati, dove vivono anziani e famiglie con bambini in uno stato di povertà. Su loro stiamo cercando soprattutto di monitorare le condizioni di salute con visite mediche e pediatriche, rifornirli di dispositivi di protezione. Gli spieghiamo nei dettagli cosa devono fare. Molti non parlano l’italiano. Il nostro approccio non è comunque solo medico, ma anche sociale. Spesso cerchiamo di costruire ponti tra queste comunità e le istituzioni”. Come siete organizzati nei vostri camper? “Da marzo li abbiamo rimodulati per affrontare la pandemia creando Team Covid: sono multidisciplinari con interpreti, mediatori culturali, oltre ad infermieri e medici. Il primo approccio rimane comunque clinico, oltre la misurazione della temperatura, avviare la richiesta per farmaci o pareri specialistici, cerchiamo di visitare le persone che ci chiedono assistenza. Tra qualche giorno però saremo in grado anche di eseguire due tipi di tampone, in accordo con le Asl” Quali sono ora i punti maggiormente critici? “Ci preoccupa la situazione nella Piana di Gioia Tauro in Calabria, dove stanno per arrivare centinaia di braccianti per la raccolta di arance e clementine. È presente una nostra struttura e conosciamo bene la promiscuità in cui sono costretti a vivere soprattutto in inverno. Bagni senza porte, nessuna area per il trattamento delle malattie. Quelle persone rischiano più degli altri. È necessario prevedere un alloggio in albergo per i contagiati, altrimenti sarà un disastro” Siete presenti anche all’hotspot di Pozzallo dove uomini e donna vivono in sovraffollamento. Anche lì il problema marginalità s’intreccia con quello del contagio. Cosa ne pensa? “I problemi a Pozzallo non riguardano solo i muri e le porte e le condizioni materiali in cui vivono i migranti, ma la loro fragilità mentale. Arrivano dopo aver vissuto esperienze traumatiche nei campi in Libia, sopravvissuti a naufragi, le donne hanno subito violenze. Una volta sbarcati trovano la pandemia, vengono rinchiusi per settimane senza possibilità di isolamento, ma di promiscuità. E la paura continua. In queste condizioni, la nostra capacità di offrire una risposta efficace al loro stress, ai bisogni medici e psicologici è limitata”. Cosa può fare lo Stato? “Le condizioni di chi vive ai margini nelle nostre città, così come il sovraffollamento tra i migranti a Pozzallo o tra i braccianti di Gioia Tauro sono terreni potenziali di diffusione del contagio. Possono diventare una vera emergenza. Più volte lo abbiamo segnalato anche durante la scorsa estate, chiedendo che venissero pianificati interventi urgenti. Perché il virus come ormai è chiaro non conosce muri o povertà. Rispettare il diritto alla salute degli ultimi e di chi opera nell’accoglienza, significa rispettare il diritto alla salute di tutti”. Così con il coronavirus la ricchezza si è spostata di Carlo Rovelli Corriere della Sera, 17 novembre 2020 La dura sfida del Covid-19 andrebbe affrontata insieme. E lo Stato dovrebbe pensare in termini di interesse collettivo e puntare a riequilibrare i disequilibri. È un impoverimento comune l’effetto principale di un periodo di tempo in cui alcuni consumi sono ridotti? Se produciamo meno abbiamo ovviamente meno ricchezza disponibile; ma che accade se alcuni consumi sono frenati? Le misure per rallentare la diffusione dell’epidemia in corso stanno causando problemi economici gravi a vaste fasce della popolazione. Chi vive grazie a un bar è in difficoltà se nessuno va al bar. Ma non dimentichiamo il fatto che i soldi risparmiati al bar non sono bruciati: sono nelle tasche di chi non li non ha spesi. Se la gente non va in vacanza, tutto il settore che dipende dal turismo soffre, ma non perché la massa di denaro che arriva di solito a questo settore sia andata distrutta; quella massa di denaro è restata nelle tasche di chi non è andato in vacanza, che quindi ha più soldi in tasca oppure la spende in altro modo, contribuendo all’arricchimento di qualcun altro. Ovviamente c’è impoverimento, fotografato dal calo del Pil, meno consumi fanno diminuire la produzione, il capitalismo vive di crescita, e la crescita rallenta quando i consumi scendono. Ma rimane un punto importante: un effetto maggiore della frenata di alcuni consumi è un riorientamento dei profitti e uno spostamento di ricchezza da una parte all’altra della società. Molti dati confermano questa semplice osservazione. Ci sono settori che in questo periodo si sono molto arricchiti. Nel mondo, le borse si sono mantenute su livelli elevati. I profitti di molte aziende sono in crescita splendida. Il valore delle azioni Amazon, per fare un esempio, è praticamente raddoppiato quest’anno. In un solo giorno di quest’estate ha fatto un balzo del 7.9% che ha comportato un aumento di 13 miliardi di dollari nel patrimonio netto di Jeff Bezos. Non è difficile vedere chi in generale si è impoverito e chi si è arricchito. I dati a livello mondiale sono trasparenti: fasce povere e medie della popolazione si stanno ulteriormente impoverendo, mentre la ricchezza delle fasce più ricche cresce. Si accentua il trend di concentrazione della ricchezza in atto da qualche decennio. Anche con tutti i se e i ma del caso, un fatto mi sembra difficile da discutere: il peso economico per salvare la vita dei nostri concittadini lo stanno pagando in molti, mentre una fascia ricca si sta arricchendo ancora di più. Molto sommessamente provo a suggerire: vi sembra giusto? A me sembra che la dura sfida della pandemia vada affrontata insieme. Mi sembra che ciascuno debba fare la sua parte. Non portiamo la mascherina per difendere noi stessi: la portiamo perché se lo facciamo tutti, i contagi scendono e siamo tutti più sicuri. La portiamo per gli altri, e il fatto che gli altri la portano salvaguarda noi. Prendiamo decisioni difficilissime, che rallentano attività economiche, per salvare vite umane, in un periodo in cui ci sono centinaia di morti al giorno. A me non sembra giusto che il costo lo paghi qualcuno mentre fasce privilegiate ne traggono vantaggi. Mi sembra che questo sia il momento per la cosa pubblica, cioè lo Stato, di pensare in termini di interesse collettivo e pensare ad equilibrare i disequilibri. Mi sembra sia il momento, cioè, di riparlare di ridistribuzione. Ridistribuzione è sempre stata funzione principale dello Stato. Negli ultimi decenni molti Stati vi hanno in parte abdicato, il nostro particolarmente, dando origine alla recente crescita di disparità sociale. Nel decennio 2007-2018 la ricchezza media degli italiani è diminuita mentre la ricchezza media dei 10 italiani più ricchi è quasi raddoppiata (dati Forbes). Nel 2018 il patrimonio dei 21 italiani più ricchi era eguale al patrimonio totale del 20% meno fortunato della popolazione. L’emergenza attuale accentua questa involuzione. Sono frammenti di dati, ma vanno tutti nella stessa direzione. L’argomento tradizionale delle destre è sempre stato che arricchire i ricchi arricchisce tutti. Non so se fosse corretto in passato. Ma quando i ricchi si arricchiscono mentre altri si impoveriscono, perché si concentra su questi ultimi il costo da pagare per salvare vite umane, mi sembra che il cuore del patto sociale sia messo in discussione, e lo sia proprio nel momento in cui serve massima solidarietà. Con la pandemia in corso, il continuo aumento della diseguaglianza non mi sembra più difendibile. Le misure di sostegno all’economia per ora le paga il debito pubblico, cioè noi in futuro. Prima o poi dovremmo decidere chi pagherà il conto. Non sto parlando di rivoluzioni bolsceviche: sto parlando sommessamente di ricominciare a portare le imposte nella direzione di quelle che erano solo pochi decenni fa. In Italia esistevano imposte sulle successioni con aliquote alte e progressive (in Francia ci sono ancora) e non irrisorie come quelle attuali, imposte sui patrimoni (in Francia ci sono ancora), imposte sugli utili con aliquote del 40-50%. Fino al 1983 l’Irpef aveva 22 scaglioni e aliquote tra il 10 e il 72%. Il sistema aveva effetti ridistributivi, era serenamente accettato socialmente, era condiviso a livello politico e tecnico, e ha permesso alti tassi di crescita e di occupazione e una crescita economica notevole e relativamente equilibrata di tutte le fasce sociali. So che non è facile. La grande ricchezza non ama condividere, ha influenza diretta sul potere e ha strumenti per orientare l’opinione pubblica. Ma la maggioranza dei cittadini non fa parte della grande ricchezza, non è scema, e vota. Se la sinistra non riassume il suo ruolo tradizionale di garante del riequilibro, non restano che le sirene della destra a catturare il discontento, saldando la truffaldina alleanza politica fra questo e la grande ricchezza, la stessa alleanza che ha portato al potere Trump e Mussolini. Ci sono centinaia di morti ogni giorno. La gente ha problemi economici seri. E intanto la borsa cresce e miliardari brindano. A me non piace, e forse non sono il solo. Che ciascuno faccia la sua parte, contribuendo come può. Chi più può, secondo me deve contribuire di più. Mettiamoci la mascherina, restiamo a casa se possiamo, anche quando uscire non è vietato. Questo, mi sembra, è il momento della difficoltà, e quindi della solidarietà. La politica ritrovi il coraggio di riequilibrare la ricchezza, perché questo è il patto sociale. Covid, la corsa ai vaccini come quella agli armamenti: ecco il “nazionalismo antivirus” di Vittorio Sabadin La Stampa, 17 novembre 2020 I Paesi procedono in ordine sparso. Il Canada avrà 9,5 dosi per abitante, il Bangladesh una dose ogni nove. Il vaccino di Pfizer-BioNTech è quasi pronto, altri ne arriveranno presto e ci sentiamo tutti più sicuri. Ma pensare che fra qualche mese il Covid-19 sarà solo un brutto ricordo è un grave errore. Più si esaminano i problemi legati all’acquisto, alla distribuzione, alla conservazione e alla somministrazione dei vaccini, e più ci si rende conto che saranno un nodo difficilissimo da sciogliere. E i Paesi ricchi stanno acquistando miliardi di dosi a scapito di quelli poveri, che li riceveranno, se andrà bene, solo fra qualche anno. Già nel settembre scorso Oxfam, la confederazione globale di organismi impegnati contro la povertà, aveva denunciato che le nazioni più ricche del mondo, che insieme rappresentano solo il 13% della popolazione, avevano prenotato il 51% dei vaccini arrivati alla fase 3 di sperimentazione. Quel primo accaparramento avrebbe privato due terzi della popolazione globale di un vaccino almeno fino al 2022, ma negli ultimi due mesi le cose, per il Terzo mondo, sono ulteriormente peggiorate. La colpa, secondo Oxfam, è di un sistema “che protegge i monopoli e i profitti delle case farmaceutiche, favorendo le nazioni ricche e dimenticando ancora una volta quelle povere”. Secondo una tabella pubblicata qualche giorno fa dall’Economist, il Canada si è già assicurato 9,5 dosi di vaccino per ogni abitante del Paese, l’Australia e la Gran Bretagna 5,2, e gli Stati Uniti 3,1, come l’Unione Europea. Il Messico ha avuto accesso invece solo a 0,6 dosi per abitante e il Bangladesh ne avrà una ogni 9 persone. Persino Covax, l’associazione di 184 Paesi nata in settembre con il sogno di dare a tutti il vaccino indipendentemente dai livelli di reddito, è molto indietro nella raccolta, anche se spera ancora di aggiudicarsi due miliardi di dosi entro il 2020. A Covax non hanno aderito Stati Uniti e Russia, che faranno da soli. Gli Usa hanno già acquistato un miliardo di dosi da sei diverse case farmaceutiche con lo strumento degli AMC, gli Advance Market Commitments con i quali un governo garantisce in anticipo acquisti a privati che non hanno abbastanza risorse per sviluppare un nuovo prodotto. Metà degli accordi di questo tipo con chi sperimenta il vaccino sono stati siglati dagli americani. Secondo Oxfam, la prepotenza dei Paesi ricchi priverà nel medio periodo almeno tre miliardi di persone che vivono in Africa, Asia e America Latina della possibilità di ricevere un antidoto al Covid, anche a causa degli alti costi. L’azienda di biotecnologia americana Moderna, che ha ricevuto dal governo finanziamenti per 2,3 miliardi di dollari, conta di vendere il suo prodotto negli Usa a meno di 10 dollari, ma di distribuirlo all’estero a più di 35, un prezzo inaccessibile a molti Paesi in via di sviluppo. Oxfam pensa che occorrerebbe ragionare in un modo diverso, mettere gli interessi della gente al primo posto, condividere globalmente i risultati delle ricerche e massimizzare la produzione in uno sforzo coordinato e collettivo. Assicurare un vaccino a ogni abitante della Terra costerebbe l’equivalente dell’1% dei danni inflitti dal Covid all’economia, una spesa grande, ma comunque irrisoria nel quadro generale. Il panico dei governanti e il timore di possibili reazioni violente da parte della popolazione stanno invece spingendo gli stati ad agire sulla base di un nuovo “nazionalismo da vaccino”, che porta tutti a pensare per sé. Non appena Pfizer ha annunciato di essere vicina al traguardo, l’Unione Europea, che agisce per conto degli Stati che la compongono, ha acquistato 200 milioni di dosi del suo vaccino, e ne ha prenotati altri 100 milioni. Gli Usa ne hanno chiesti 100 milioni e prenotati 500, la Gran Bretagna se ne è assicurata 40 milioni. Si tratta di quasi l’intera disponibilità della casa farmaceutica, che prevede di produrre 1,3 miliardi di dosi entro la fine del 2021. Gli accordi sono stati sottoscritti nel timore di restare senza vaccino, anche se sarebbe stato più logico aspettare: quello di Oxford-AstraZeneca costerà molto meno, sarà somministrato in una dose invece di due, e potrà essere conservato a 8 gradi in qualunque frigorifero. Ma avere acquistato il vaccino sarà solo il primo passo di una lunga catena di eventi, che richiede attenta programmazione. Negli Stati Uniti è già scattata da parte degli ospedali la corsa all’acquisto di frigoriferi in grado di conservare il Pfizer ai -70 gradi richiesti, e le aziende produttrici fanno fatica a soddisfare gli ordini per apparecchi che costano tra i 5.000 e i 15.000 dollari e il cui prezzo è destinato a salire. Il vaccino Pfizer, che prevede un richiamo dopo 3-4 settimane, andrà somministrato nell’arco di pochi giorni dal suo ricevimento e probabilmente non ci saranno abbastanza medici o infermieri per agire con la velocità richiesta. Sicuramente non ci saranno nei Paesi africani, che già soffrono di carenza di personale sanitario in tempi normali. Cina e Russia, che hanno sviluppato loro vaccini autarchici, si stanno accordando con molti Paesi del Terzo Mondo per garantire le forniture necessarie in cambio di accordi commerciali o di perdita di sovranità. Persino l’Ungheria ha preferito rivolgersi a Mosca e a Pechino che sperare in un aiuto dall’Europa. Ogni Paese sta elaborando i piani per la distribuzione scaglionata del vaccino alla popolazione, cosa che causerà le inevitabili proteste di chi lo riceverà per ultimo. Ci saranno anche problemi di sicurezza legati alla custodia nei magazzini di stoccaggio, circoleranno falsi vaccini, forse si attiverà un mercato nero e i super-ricchi di tutto il mondo, sempre poco propensi a essere trattati come tutti gli altri, cercheranno di averne subito uno per sé e per i propri familiari e amici in cambio di molto denaro. Sono problemi ai quali bisogna pensare adesso, per evitare che il vaccino crei più guai di quelli che vuole risolvere. Il governo italiano ci assicura che ci sta pensando, ma non ci dice altro. Speriamo che sia vero e che persone responsabili siano consapevoli di quello che ci aspetta. Puntare tutto sul vaccino sarebbe comunque un grave errore, perché i suoi benefici non saranno immediati. Occorre anche che le case farmaceutiche continuino a lavorare sui medicinali che combattono il Covid e sulla prevenzione basata sul rafforzamento delle difese immunitarie: con questo virus dovremmo convivere ancora a lungo, come già facciamo con quello dell’Aids, e bisogna prenderne atto senza farsi troppe facili illusioni. Reddito di cittadinanza. “Da solo non garantisce l’inclusione sociale di chi è senza dimora” di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 17 novembre 2020 Lo studio dell’Università di Padova. I sussidi da soli non aiutano ad uscire dall’emarginazione. La ricerca sulle vittime di marginalizzazione sociale, economica, sanitaria. Il Reddito di cittadinanza dimostra di poter arrivare anche alle persone più marginali nella società, come i senza dimora, ma non è poi in grado di farle emergere dal loro stato di dipendenza. È quanto emerge dal Rapporto “2020: Vivere senza dimora a Padova”, realizzato in occasione di Padova Capitale Europea del Volontariato 2020 da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova. Un profilo dell’emarginazione. Il sondaggio è stato condotto a Padova su un campione di 156 persone senza fissa dimora. Si tratta in prevalenza uomini con un’età media di 50 anni e in uguale misura di persone italiane (45%) e provenienti da paesi extraeuropei (40%). Un dato, questo, che si discosta dall’ultima ricerca nazionale del 2015, dalla quale il profilo che emergeva era di un uomo non italiano di età media 45 anni. Al netto della recente emergenza sanitaria, questo può significare che i meccanismi di inclusione sociale non funzionano come dovrebbero. Sono molti gli studi e le ricerche che criticano un approccio emergenziale al problema della povertà e della nuova povertà. In realtà, si tratta di un fenomeno strutturale che andrebbe affrontato con politiche mirate. La chimera dell’inclusione sociale. Il 34% del campione ha affermato di beneficiare del Reddito di Cittadinanza e in totale mentre 7 persone su 10 percepiscono una qualche forma di entrata economica, se si esclude l’elemosina. Tuttavia, ciò non è sufficiente per avere accesso a una sistemazione stabile, come una casa indipendente, a causa di pregiudizi e della mancanza di garanzie reali. E lo stesso vale per il lavoro remunerato: persone che da molto tempo non hanno un’occupazione incontrano forti diffidenze nel mercato lavorativo, anche quando hanno delle competenze. La quasi totalità degli intervistati ha avuto esperienze lavorative nell’industria, nell’agricoltura, nel commercio, nell’insegnamento, nell’artigianato, nell’attività artistica. Peggioramenti della salute. La vulnerabilità riguarda anche la salute. Circa la metà degli intervistati lamenta disabilità o disturbi fisici e afferma di prendere farmaci ogni giorno. Diffusi i problemi legati alla salute mentale e l’abuso di sostanze stupefacenti e alcolici. Una persona su cinque è stata ospedalizzata nel mese precedente al sondaggio. Le proposte per migliorare l’accoglienza e l’inclusione sociale. Il gruppo di lavoro ha individuato un limite nell’approccio emergenziale ad una situazione che necessita di soluzioni strutturali. Le proposte formulate invitano a migliorare i servizi di accoglienza stringendo legami con i servizi territoriali. In tal senso, si chiede un maggiore coordinamento con i servizi sanitari per superare l’emergenza sanitaria da Covid-19, che rende molto vulnerabile chi vive in strada. A livello di accessibilità ai servizi, si ipotizza di rimuovere l’ostacolo della residenza anagrafica e di separare uomini e donne, per garantire la sicurezza di tutte. Inclusione nel mondo del lavoro. Per quanto riguarda l’inclusione nel mondo del lavoro, il gruppo propone di formare operatori e volontari sugli obiettivi specifici di inclusione lavorativa. Si propone di predisporre colloqui motivazionali, capaci di valorizzare le risorse personali esistenti e di attribuire ruoli e responsabilità alle persone senza dimora. Infine, la cittadinanza va coinvolta e non allontanata. Una corretta informazione, anche istituzionale, sulla condizione delle persone senza dimora e sul sistema di servizi può far avvicinare molte e molti al mondo del volontariato. Un quadro nazionale. La rilevazione dei dati riguarda una città di medie dimensioni (250 mila abitanti). Tuttavia, la situazione è anche peggiore nelle grandi città dove il fenomeno delle persone senza fissa dimora è più rilevante e difficile da gestire. Le indicazioni emerse sono spunti per una nuova politica sociale applicabile da qualsiasi amministrazione locale o regionale. Migranti. Salvare i naufraghi è un dovere, opporsi è illegale di Armando Spataro Il Riformista, 17 novembre 2020 Il Riformista ha pubblicato giorni fa il “manifesto” del Comitato per il diritto al soccorso, la cui costituzione è stata promossa da otto O.N.G. protagoniste di innumerevoli salvataggi nel Mediterraneo (e non solo) e testimoni di migliaia di morti. Lo scopo del Comitato è quello di battersi per la tutela giuridica e morale di tale attività di salvataggio, contribuendo a sollecitare tale impegno anche nella pubblica opinione, spesso sviata negli anni da interventi strumentali e vergognosi. Sia ben chiaro che non è in discussione la libertà di pensiero e di valutazione di simili fenomeni di dimensione mondiale, ma la necessità di una preliminare informazione, completa e veritiera. Sono ormai molti i giuristi che, ovunque sia possibile, spiegano efficacemente la complessa normativa internazionale e nazionale che disciplina la materia dell’immigrazione e del diritto all’accoglienza. Purtroppo, però, basta un tweet ad effetto o un titolone abbagliante per penalizzare riflessioni serene. Qui si vuol tentare, con parole spero comprensibili, di ragionare non solo in termini giuridici ma anche usando logica, cuore e anima per ribadire che gli Stati democratici non solo non possono mai limitare il soccorso in mare ma neppure chiudere i porti o respingere i migranti richiedenti asilo o protezione internazionale, se non in presenza delle stringenti condizioni previste da leggi che devono essere conformi alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e alla nostra Costituzione. Nella prima, approvata il 10 dicembre 1948, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si prevede tra l’altro che ogni individuo ha diritto “alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato… di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese” (art.13); ha diritto “di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”, salvo il caso in cui “sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite” (art.14); ha infine diritto “ad una cittadinanza” e a “mutare cittadinanza” (art.15). Dunque si afferma il generale diritto alla solidarietà e all’asilo e si disegnano i confini di ogni corretta logica di sicurezza, in base alla quale tali diritti non possono essere riconosciuti a chi sia ricercato per reati commessi e a chi sia animato da fini e principi non democratici. La nostra Costituzione che tali principi formalmente recepisce, aggiunge che “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge” (art.10) e che, essendo la libertà personale inviolabile, “Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge” (art.13). Tanto premesso, e nonostante le nostre leggi nazionali non possano discostarsi da tali principi, l’abuso del termine e del concetto di “sicurezza”, diventato un brand pubblicitario, ha giustificato in Italia norme e prassi spesso inaccettabili. Come dimenticare i “pacchetti sicurezza” degli anni 2008/2009 che favorirono l’estendersi di una xenofobia incontrollata? Tacendo d’altro, basti ricordare che il 23 maggio 2008, il governo aveva varato un decreto legge intitolato “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, poi convertito in legge, la cui filosofia appariva evidente sin dalla nuova denominazione dei Centri di permanenza temporanea per gli immigrati irregolari, che da allora e fino al 2017 si chiamarono “Centri di identificazione ed espulsione”. Luoghi di una lunga detenzione amministrativa, senza colpa e reati, come se lo scopo dell’identificazione fosse solo quella della successiva espulsione, comunque tali da portare - come ha scritto un ex giudice portoghese della Cedu - a “una prassi di mercificazione e disumanizzazione dei migranti e dei richiedenti asilo…” causando loro “un perdurante danno psicologico, specialmente nel caso di minori”. Con quel decreto, veniva anche introdotta nel codice penale la nuova aggravante, dichiarata incostituzionale due anni dopo, per i reati commessi da un soggetto che si trovi illegalmente nel territorio nazionale, pur in assenza di qualsiasi nesso tra questa condizione e il reato commesso. Veniva così trasformato “in aggravante quel che nel Diritto è sempre stato attenuante del delinquere, la povertà per esempio, ma anche la paura, il naufragio e persino la rabbia etnica quando c’è” (F. Merlo, La Repubblica). Dai “pacchetti-sicurezza” si è passati più recentemente ai “decreti sicurezza” del 2018 (con cui, tra l’altro, vennero ampliati i criteri di diniego e revoca della protezione internazionale e abrogata quella “umanitaria”) e del 2019 (con cui fu rafforzata la “politica dei porti chiusi” e prevista l’irrogazione di una pesantissima sanzione amministrativa, fino a un milione di euro, e la confisca obbligatoria del natante a carico del comandante della nave - e dell’armatore responsabile in solido - che non osservi le limitazioni e i divieti eventualmente disposti dal Ministro dell’Interno in base a nuovi poteri attribuitigli). Il 21 ottobre di quest’anno, infine, con il dichiarato intento di cancellare molte inaccettabili precedenti previsioni, è stato varato l’ultimo decreto sicurezza in tema di immigrazione: alcune regole sono cambiate, ma molti nodi sono rimasti irrisolti e sono ormai numerose, troppe, le navi delle ONG sottoposte a fermi amministrativi in porti italiani. Ovviamente non vi è spazio in questa sede per un esame analitico dell’attuale disciplina della condizione e del trattamento degli immigrati, ma è certo che in Italia - ed anche in Europa - sono ormai evidenti anche le ricadute della globale tendenza, spesso di matrice xenofoba, a farli passare per persone che rubano lavoro agli italiani e il cui sostegno recherebbe danni al nostro sistema economico (ipotesi smentita dal X Rapporto annuale sull’economia dell’Immigrazione, diffuso il 14 ottobre scorso). O, peggio, a farli passare per criminali, enfatizzando la necessità di repressione penale fino a inventare per loro nuove condotte punibili e ragioni per non farli entrare nei nostri Stati (o per cacciarli fuori al più presto), pur se chiedono asilo o protezione da persecuzioni, in quanto sarebbero fonte di rischi per la nostra sicurezza. Ma il dovere del soccorso in mare non può neppure lontanamente essere sfiorato da tali vergognose pulsioni e va anzi rafforzata la sequenza procedurale prevista, oltre che dalla normativa nazionale e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982, da varie altre convenzioni internazionali (tra cui quelle di Ginevra sui rifugiati del 1951 e di Amburgo del 1979), sottoscritte anche dall’Italia, in tema di soccorso e salvataggio. In base a tale normativa i Paesi devono innanzitutto dichiarare l’area marittima di competenza denominata Sar (più ampia delle acque territoriali), e dotarsi di un Centro nazionale di coordinamento e di appositi piani operativi. Gli Stati costieri devono anche costituire un servizio permanente di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea. Il primo centro che riceve la segnalazione di un pericolo per la vita umana (per esempio un natante in fase di naufragio o in difficoltà) coordina con urgenza le necessarie operazioni di salvataggio finché quello della SAR più vicina non ne assume la direzione. Il Centro di Coordinamento competente deve allora segnalare ai soccorritori o a chi si trova in pericolo il porto sicuro verso il quale dirigere la nave che ha effettuato il soccorso. Qui sarà quindi organizzato lo sbarco che deve avvenire quanto prima e in tempi ragionevoli. Dopo l’attracco, come da normativa nazionale, è prevista la fase di controllo medico per verificare la presenza a bordo di persone malate o portatrici di patologie infettive (cui devono essere assicurate le necessarie cure), seguita da quella dello sbarco vero e proprio che segna la conclusione del soccorso e, a partire dalle identificazioni, l’inizio della fase in cui devono essere vagliate le richieste di asilo-protezione, fino all’esaurimento delle relative procedure. Durante tali fasi, può essere limitata la libertà di circolazione e spostamento dei migranti per motivi di sicurezza e ordine pubblico da individuare specificatamente, il che significa che è inammissibile il respingimento fondato sulla mera ipotesi di rischi indimostrati, come, ad esempio, quello della presenza di terroristi tra gli immigrati o di altri pericoli e timori non seriamente configurabili. Tutti i passaggi sin qui descritti integrano gli obblighi di soccorso in nome dei diritti umani e di accoglienza, obblighi che non sono condizionati dalla reciprocità, sicché, in assenza di ragioni di ordine pubblico, non si può né “chiudere porti”, né indirizzare le navi giunte nelle nostre acque territoriali verso porti di altri Stati, al di fuori di accordi internazionali che solo da poco si sta tentando di formalizzare e diffondere. Va ricordato, inoltre, che un decreto interministeriale del 7 aprile 2020 ha dichiarato i porti italiani “non sicuri” per le navi battenti bandiera estera e per tutta la durata dello stato di emergenza sanitaria da Covid-19. Ma autorevoli giuristi hanno rilevato che, in tal modo, con un atto amministrativo si finisce con l’incidere su norme di carattere costituzionale, con connessi dubbi circa la sua necessità e proporzionalità. Merita particolare attenzione, peraltro, anche la tendenza alla criminalizzazione delle navi e imbarcazioni delle ONG che, quando operano senza ostacoli e limitazioni, salvano vite umane in numero elevatissimo. Ma gli ostacoli ci sono e purtroppo crescono. Non meritano in alcun modo risposte affermazioni come quelle secondo cui quelle navi sarebbero “taxi del mare”: vanno ignorate e basta. È del tutto illogico, invece, che a fronte delle frequenti stragi in mare a tutti note, si possano accusare le ONG di creare uno stato di pericolo diffuso, così come appare debole e criticabile - in assenza di specifici e documentati elementi di prova - l’accusa rivolta agli equipaggi di navi che operano per le ONG di essere responsabili di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o di associazione per delinquere finalizzata al traffico di essere umani. Queste ultime accuse presupporrebbero che i responsabili delle ONG stabiliscano accordi con i trafficanti in base ai quali questi ultimi, prelevati i migranti/paganti dalle coste libiche o di altri Paesi, li condurrebbero in aree concordate del Mediterraneo per trasferirli sulle navi delle ONG. Se tali accordi fossero provati (il che non è sin qui avvenuto) non vi potrebbe essere dubbio sulla configurabilità di reati a carico dei responsabili delle ONG o dei Comandanti e membri consapevoli degli equipaggi delle navi soccorritrici. La tesi prevalente è però un’altra: non vi sarebbero accordi di questo tipo tra soccorritori e trafficanti di essere umani, ma la sola presenza in Mediterraneo delle navi delle ONG spingerebbe i secondi a imbarcare i migranti in Africa e poi a lasciarli in mare, magari simulando naufragi di imbarcazioni insicure, dove potrebbero essere salvati. In tal caso, però, non pare in alcun modo possibile pretendere che le navi delle ONG si astengano dal soccorrere i naufraghi o che sia loro vietato navigare nel Mediterraneo o, ancora, che ne sia ridotto drasticamente il numero. Tutto ciò equivarrebbe a teorizzare crudeltà e insensibilità rispetto al dovere di soccorso. Del resto, l’ipotesi di concorso in immigrazione clandestina nei casi di soccorso in mare dei migranti naufraghi e del loro trasferimento nel nostro Paese, si schianta inevitabilmente contro le cause di non punibilità di cui all’art. 51 codice penale (adempimento di un dovere) o - con maggiore certezza di applicazione - con quella dello stato di necessità, prevista dall’art. 54 dello stesso codice, secondo cui non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alle persone non altrimenti evitabile. Dunque, fermo restando che chiunque risulti responsabile di reati deve essere perseguito con la massima determinazione, senza distinzione di etnia e specie se si tratta di crimini collegati a lesioni dei diritti fondamentali delle persone e allo sfruttamento del loro stato di bisogno, l’attività di soccorso in mare delle ONG merita gratitudine da parte di ogni cittadino perché - e ancora una volta cito Stefano Rodotà - la solidarietà non è un sentimento, ma un diritto. E anche un dovere, aggiunge chi scrive. L’Europa si impegni nel coinvolgere tutti gli Stati che la compongono nelle attività di accoglimento e in quelle conseguenti, senza scaricare ogni onere su quelli costieri, ma siano puniti gli Stati che violano i principi affermati nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. E soprattutto basta con la demonizzazione dei migranti irregolari: le navi delle Ong e quelle militari ripopolino il Mediterraneo! È così che si moltiplicheranno i ponti di cui vi è bisogno e che il Papa ha auspicato. È così che ci ritroveremo dalla parte dei “sommersi” in mare e sulla terra, uniti a chi - non per sua scelta - è diverso da noi, a chi lascia la propria patria solo per la speranza di una vita dignitosa. È per questo che dedico queste parole a Joseph, ai tanti bambini tragicamente deceduti, ai loro genitori e alle migliaia di persone scomparse in mare. Terrorismo. Contro il dolore né odio né perdono di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 17 novembre 2020 Nella tragedia del Bataclan di Parigi, in cui cinque anni fa perse la vita Valeria Solesin. Ogni volta che suo fratello Dario ne parla si rimane ammirati e senza parole. Ogni volta che Dario Solesin parla per ricordare la tragedia del Bataclan di Parigi, in cui cinque anni fa perse la vita sua sorella Valeria, si rimane ammirati e senza parole. Ogni volta, intervistato, Dario dice parole rare e controtempo, parole esatte e chiare, come quelle che il poeta Giorgio Caproni si ripropose di scrivere per sua madre Anna in una raccolta che, non a caso, si intitolava Il seme del piangere. Il fratello di Valeria parla come avesse una lunga consuetudine con la vita, eppure deve essere non più che trentenne. Qualche anno fa aveva detto: “Desideriamo restare soli nel silenzio e nel dolore”, richiamando tutti a un esercizio desueto, nel fracasso generale. Venerdì, rispondendo a Laura Berlinghieri (“La Stampa”), Dario Solesin ha precisato che c’è un prima e c’è un dopo: “È come se il 13 novembre 2015 fossi rinato in una realtà crudele, dura, ingiusta, molto dolorosa”. Non dice “morto anch’io con Valeria”, ma “rinato”, che comunque è un modo di guardare avanti con una nuova, atroce, coscienza del mondo. Aggiunge che non vuole perdonare e che però non vuole neanche che la sua vita sia posseduta dall’odio: “Non sento rabbia, sento che Valeria non c’è”. Spiega che il suo dolore non può trovare risposta nella religione, nell’odio o nel razzismo. Dunque, nel pieno dello strazio impensabile, Dario usa le parole esatte, chiare, prive di retorica e però anche di quel veleno a cui ci ha abituati tanta parte della politica, pronta all’invettiva che alimenta ostilità e paura pur senza aver mai sofferto personalmente il dolore sofferto da Dario. Nell’ultimo numero della rivista l’Ombra (Moretti & Vitali) su “Psicoanalisi e diritti umani”, un saggio di Roberto Cazzola affronta “Possibilità e limiti del perdono”. La possibilità di perdonare si colloca tra due poli. Evocando Nelson Mandela, Cazzola avverte che “spetta ai colpevoli farsi carico delle loro colpe”. Ma d’altra parte considera che “il perdono scioglie i lacci che ci legano al passato: guarda in avanti e non indietro, verso l’offesa”. Solo Valeria, se fosse viva, potrebbe concedere o non concedere il perdono ai suoi assassini. Ma anche Dario può farlo per la sua parte, che si avverte enorme, di dolore. “Dico ai giovani di andare avanti, senza paura, perché nulla deve bloccare i nostri sogni”, ha concluso. Dunque, senza perdonare e senza odiare, si può pensare al futuro. Egitto. Arresti al Cairo fanno temere per Patrick Zaki di Francesco Battistini Corriere della Sera, 17 novembre 2020 I servizi egiziani hanno preso Mohamed Bashir, che dirige l’Eipr, l’ong frequentata dall’universitario egiziano di Bologna incarcerato da febbraio. Ottocento cinquantacinque. La paura fa novanta, e in Egitto anche di più. 855 è il numero dell’indagine giudiziaria che ti fa seppellire nelle peggiori galere del Cairo con accuse di terrorismo, diffusione di false notizie social e tutto quanto possa costarti infinite torture stile Regeni, assieme al fine-pena-mai. Tra gli oltre 114mila detenuti politici cascati nell’inchiesta 855, l’ultimo si chiama Mohamed Bashir. L’hanno preso domenica notte per tenerlo dentro minimo un paio d’anni, prima di processarlo. Come accade a tutti. La sua sorte però ci riguarda da vicino: Bashir dirige l’Eipr, l’ong frequentata da Patrick Zaki, l’universitario egiziano di Bologna incarcerato da febbraio; i servizi accusano Bashir d’avere incontrato il 3 novembre i diplomatici d’undici Paesi, e tra questi il nostro ambasciatore Cantini, temi in agenda proprio Zaki e i diritti umani. Con ben altre emergenze nell’aria, e dopo aver ricevuto sempre e solo sfingei e terrei silenzi, è improbabile che il governo italiano voglia o sappia rispondere all’ennesimo atto d’arroganza egiziana. Anche se l’arresto di Bashir è un pessimo segnale, perché l’inchiesta 855 è un estremo tentativo del regime di zittire il dissenso una volta per tutte. Il generale Al Sisi ha fretta. E il 3 novembre dell’incontro incriminato dev’essergli suonato malissimo: nelle stesse ore, alla Casa Bianca si stava eleggendo il peggior (per lui) candidato possibile. Quel Joe Biden che lo scorso luglio twittò “basta con gli assegni in bianco al dittatore preferito di Trump”, quando l’Egitto aveva rilasciato un attivista mezzo americano, ingabbiato per imputazioni come quelle di Bashir e di Zaki. L’assegno annuale che gli Usa staccano ad Al Sisi - 1,3 miliardi di dollari in armi - è secondo solo a quello per Israele. E Biden, che da vice di Obama si rifiutava di definire Mubarak un dittatore, non è detto voglia strapparlo. Qualcosa però dovrà cambiare, per tutti gli Al Sisi del mondo. E questo silenzio da paura, alla Sfinge potrebbe non bastare più. Corruzione e proteste, così il Perù si è ritrovato senza presidente di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 17 novembre 2020 L’ultimo leader, Manuel Merino, si è dimesso ieri dopo soli 5 giorni al potere: è l’ultima tappa di una vicenda che va avanti più di un anno e che ha portato quello che era il Paese più virtuoso della regione in piena crisi costituzionale. La soluzione sarebbe un paradosso. Fa sorridere, perché grottesca. La più improponibile. Ma, come dicono molti osservatori, in Perú può accadere di tutto. Si torna indietro, si cancella tutto: Martín Vizcarra torna al suo posto di presidente e si prosegue la legislatura fino al prossimo aprile quando si tengono le previste elezioni generali. Nelle convulse e caotiche ore che vive il Paese andino, il Congresso cerca di salvare sé stesso. Perché è questo emiciclo composto da 130 eletti, di cui 68 sono imputati a vario titolo in decine di inchieste per corruzione, ad aver fatto e disfatto in pochi giorni una trama politica che ha trascinato il Paese nel baratro costituzionale. Richiamato in fretta e furia dal Canada - dove era stato spedito come ambasciatore in una forma di esilio - per sostituire il presidente Pedro Pablo Kuczynski costretto alle dimissioni, questo ingegnere di 57 anni, un passato di governatore della provincia di Moquegua, ha osato fare quello che altri si erano ben guardati dal fare. Ha messo il dito nella piaga della corruzione che lo scandalo Odebrecht, la multinazionale brasiliana, aveva scoperchiato anche in Perú e ha promosso un referendum su una riforma che avrebbe contrastato il sistema ormai dilagante delle tangenti in tutti i gangli privati e pubblici del Paese. I quesiti prevedevano una riforma della Corte Costituzionale, la cui nomina era prerogativa solo del Congresso, una regolamentazione del finanziamento pubblico dei partiti, il divieto di rielezione immediata dei parlamentari. Il referendum fu approvato a larghissima maggioranza dai peruviani ma il Congresso, controllato dall’opposizione, si guardò bene dall’applicarlo. Metterlo in pratica significava perdere il controllo sulla Corte Suprema, sui soldi ai partiti, il rischio di finire dentro per tutti quei deputati e senatori indagati dalla magistratura senza più immunità parlamentare. Avevano i voti e si misero a fare ostruzionismo. Per un anno si opposero a qualsiasi riforma e lo scontro si allargò al potere giudiziario, all’esecutivo, alla classe imprenditoriale. Ognuno a difendere i propri interessi che, nel frattempo, erano diventati rilevanti. Dieci anni di crescita a due cifre avevano trasformato il Perú nel Paese virtuoso dell’America Latina. Aveva accumulato una ricchezza che lo portava a snobbare alcune importanti dismissioni di investitori stranieri, soprattutto europei, travolti dalla crisi del 2008: c’erano sufficienti riserve da colmare qualsiasi buco. Il Paese era cambiato e in meglio, la classe media continuava ad essere il motore dell’economia, si costruiva e si rendeva tutto più moderno. Giravano molti soldi. Miliardi di dollari. In questa euforia che contagiava tutti e accontentava molti, si assiste a una guerra senza esclusione di colpi: a suon di video, documenti, audio che il Congresso usava per scuotere la gente, ricattare i nemici, lanciare messaggi trasversali. Vizcarra perse la pazienza e sciolse l’emiciclo. Ma anche qui trovò un muro. I parlamentari si opposero appellandosi alla Costituzione. Per un anno il presidente ha governato in piena solitudine, avvolto da un limbo politico surreale, e gli altri ne hanno approfittato per mettere a punto la trappola. Con lo stesso sistema hanno tirato fuori la presunta tangente percepita da Vizcarra quando era governatore e gli hanno fatto capire che poteva essere fatto fuori. Lui ha resistito, si è proclamato innocente e loro hanno presentato una mozione di impeachment. Alla seconda votazione sono riusciti a raccogliere i voti sufficienti. Nelle cronache dettagliate dei quotidiani si riportano le fasi di questa trama diretta in prima persona dallo speaker della Camera Manuel Merino, lo stesso che una volta estromesso Vizcarra verrà nominato presidente a interim. Il golpe era così sfacciato ed evidente da far insorgere l’intero Perú. A guidare la protesta oceanica sono stati i giovani e i giovanissimi: uno scatto d’orgoglio che nasce da lontano ma che il benessere e l’opulenza avevano attenuato, certi di un futuro sicuro tutto basato sulla competitività e sui privilegi. Il Covid ha risvegliato dal letargo una generazione che viveva sui genitori e con i genitori. Molti hanno perso il lavoro, il sistema sanitario pubblico è collassato, c’è stato il più alto numero di morti e contagi di tutta l’America Latina. Non si è più studiato; le scuole, quasi tutte private, sono state chiuse. Il sogno si è infranto. Le previsioni parlano di una caduta del pil del 27 per cento. Chi aveva molto si è impoverito, chi aveva poco oggi non ha più nulla. Adesso si tratta di arrivare fino ad aprile per nuove elezioni. Si sono dimessi 13 ministri su 19. Ha gettato la spugna anche Merino. Bisogna scegliere una figura autorevole, tra quelli, pochissimi, che hanno votato contro le dimissioni di Vizcarra. Oppure puntare sullo stesso Vizcarra che i sondaggi chiedono di tornare. Il Perú, in fatto di eccezioni, vanta molti primati: un presidente in carcere per violazione dei diritti umani, un altro latitante fuggito negli Usa con la cassa, il successore finito dentro per corruzione, un quarto dimessosi per tangenti, un quinto cacciato dai ladroni per ruberie, un sesto travolto dalla folla dopo appena sei giorni. La fine della tregua nel Sahara occidentale, chi si approfitta della pandemia di Karima Moual La Repubblica, 17 novembre 2020 Il terrorismo di un gruppo separatista come quello del Fronte Polisario mette in gioco la stabilità non solo della regione ma anche del continente africano con conseguenti ripercussioni in Europa. In piena pandemia, il rischio che si abbassi l’attenzione nelle zone calde del mondo è reale e concreto. Da ultimo lo testimonia quanto avvenuto in questi giorni al confine tra il Marocco e la Mauritania, esattamente nella zona cuscinetto di Guerguerat, dove è avvenuto un vero e proprio attacco del gruppo armato Polisario, nonostante l’Onu da ormai decenni svolga un ruolo di sorveglianza per il cessate il fuoco secondo gli accordi del 1991. Le milizie del Polisario, in flagrante violazione del cessate il fuoco, si erano introdotte nella zona dal 21 ottobre scorso, bloccando la libera circolazione civile e commerciale. La pandemia imperversa - come dicevamo - e qualcuno prova ad approfittarne con il rischio di compromettere la sicurezza dell’area - e non da meno - del continente africano con conseguenti ripercussioni anche in Europa, come dovremmo aver ben imparato da questa nostra epoca di globalizzazione, nella quale ogni evento, seppur lontano, ha sempre un’eco anche altrove, e tutt’altro che secondaria. Pensare infatti che quanto succede al confine del Sahara marocchino sia solo un affare del Marocco, è miopia politica. L’instabilità in quel confine, compromesso dalla violenza, l’illegalità, il terrorismo di un gruppo separatista come quello del Polisario - in barba a tutte le risoluzioni Onu - mette in gioco non solo la stabilità di quella regione, i suoi abitanti ormai infiltrati da terroristi ben addestrati, trafficanti di droga e maestri della radicalizzazione islamica pronti a colpire ovunque. Quanto è successo con il blocco del passaggio e della libera circolazione civile e commerciale da parte dei separatisti del Polisario, l’interruzione dei collegamenti tra la frontiera del Marocco e la Mauritania, le provocazioni continue contro i membri della missione Onu, costituiscono una violazione degli accordi del cessate il fuoco e una chiara violazione della giurisprudenza internazionale in particolare delle ultime cinque risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Un fanalino d’allarme che dovrebbe interessare anche l’Italia. Il Marocco, e il popolo marocchino, è pacifico e di certo non vuole la guerra, ma semmai far prevalere la giustizia e la legge. Un percorso che porta avanti da decenni nonostante le provocazioni, le violenze, i limiti e le privazioni che costituisce la contesa - portata avanti da un piccolo gruppo di separatisti ma spalleggiato e armato da un paese vicino, l’Algeria - di un territorio, il Sahara marocchino, di cui il paese e i cittadini marocchini non intendono privarsene, e con lungimiranza e la sola arma del diritto internazionale, proveranno a far prevalere in nome della civiltà e contro la barbarie. Questa visione è riconosciuta al Paese nel suo percorso politico, economico e sociale, che lo ha reso il Paese più stabile nell’area. Un Paese che nonostante i limiti cresce, è in continuo movimento ed evoluzione in tutti i settori. Per questo serve un cordone di solidarietà e riconoscimento sempre più allargato, per la difesa dell’integrità territoriale del Marocco, che di certo non si basa sull’emotività o la simpatia per il paese ma sulla conoscenza approfondita della sua storia e il dossier che riguarda la contesa sul Sahara marocchino. Purtroppo, in Italia continua a prelevare la narrativa emotiva e militante pro-polisario, che manca di obiettività e soprattutto di dati, fatti e risoluzioni internazionali nero su bianco che raccontano chiaramente il processo in atto, facilmente consultabili per avere un’idea bilanciata sul dossier “Sahara marocchino”, e non una storia mutilata. A questa storia, si aggiungono i fatti di questi giorni. La ribellione contro la legalità internazionale del Fronte Polisario. Ma a che prezzo? Lo spiega bene l’ambasciatore marocchino in Italia, Youssef Balla. “Le ultime pericolose azioni provocatorie per mano del Polisario, sono in realtà un fallito tentativo di nascondere la profonda ribellione scoppiata all’interno delle milizie costrette ad affrontare il crescente malessere e la contestazione della popolazione nei campi di Tindouf, esasperate da false promesse e utopie indipendentiste che durano da 40 anni, seppellite dal 2000 dalle risoluzioni dell’Onu. La popolazione di Tindouf protesta, come denunciano tutte le organizzazioni umanitarie, per una vita dignitosa e soprattutto per fuggire dall’inferno dei campi e fare ritorno alla loro terra nel sahara marocchino”. La verità - continua l’ambasciatore Balla - è che quanto avvenuto a Guerguerat rappresenta una foglia di fico per nascondere la sconfitta del Fronte Polisario sotto i colpi delle risoluzioni dell’Onu, e da ultima, la 2548, che ha definitivamente ribadito la “soluzione politica” come unica via per risolvere la controversia artificiale creata intorno al Sahara marocchino, sulla base della proposta di autonomia fatta dal Marocco”. Perseverare nella legalità e giustizia, questo il percorso del Marocco che vuole superare un conflitto decennale, e su questo terreno l’Italia non può che essere un partner solidale.