Mauro Palma: “La doppia ansia della detenzione durante la pandemia” radiocittafujiko.it, 16 novembre 2020 Ciò che si vive in carcere in questo momento è “una situazione di doppia ansia”. Così Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti, parla ai microfoni della nostra trasmissione Mezz’ora d’Aria della condizione negli istituti di pena italiani. Dopo le rivolte del marzo scorso e i casi di contagio registrati nelle celle, con anche alcune vittime, la tensione dettata dalla pandemia nelle carceri italiane non è mai scemata del tutto. E, appunto, la rabbia sembra aver ceduto il posto all’ansia. “All’ansia che ognuno di noi ha nell’indeterminatezza di un possibile contagio, di un virus che ci fa essere contemporaneamente vittime e portatori - osserva Palma - si aggiunge un’ansia interna, che è l’ansia propria di un luogo chiuso, dove l’ingresso del contagio potrebbe avere degli effetti dirompenti”. Per il garante questa doppia ansia sta alla base anche delle rivolte del marzo scorso, quando è circolata la notizia che tutto sarebbe stato chiuso, cosa che invece si è tradotta con la sospensione dei colloqui per due settimane e li sostituiva con strumenti tecnologici di comunicazione. “Il sentirsi in trappola è molto grave - sottolinea Palma - Io questo lo leggo anche adesso, però adesso prevale la preoccupazione, che porta a ragionare sui numeri”. Il garante nazionale dei detenuti, infatti, sottolinea come il suo lavoro sia solitamente incentrato sull’aspetto qualitativo, sulla qualità del tempo trascorso in carcere, mentre la pandemia sta piegando la riflessione ad un aspetto quantitativo. “Bisognerebbe diminuire le presenze - afferma Palma - perché c’è bisogno di spazi qualora il contagio si diffondesse maggiormente”. Dal punto di vista personale ed emotivo, in ogni caso, il nodo centrale rimane quello del tempo. “Molto spesso il tempo in carcere è un tempo immobile, vuoto - ragiona il garante - Una persona non può avere mai un tempo senza significato nella propria esistenza. E questo è solitamente il problema più grave dell’attuale impostazione del sistema penitenziario”. Un problema che non riguarda solamente i reclusi in seguito a condanna penale, ma anche i migranti rinchiusi nei centri per i rimpatri (Cpr), che vivono un’immobilità temporale che alla base anche delle manifestazioni di aggressività che si registrano in quelle strutture. Ascolta un estratto dell’intervista a questo link: http://streaming.radiocittafujiko.it:8001/rcf.mp3 Covid nelle carceri: senza volontari e familiari, il disagio dei detenuti è una bomba inesplosa di Caterina Iannotti istituzioni24.it, 16 novembre 2020 A causa del coronavirus sono venute a galla sempre di più le precarietà del sistema carcerario italiano, in cui i casi registrati di contagi aumentano in maniera esponenziale mettendo in luce il sovraffollamento e le condizioni disumane in cui vivono i detenuti, ora privati anche di ciò che li teneva in vita: il contatto umano dei volontari e dei familiari. Fin dallo scorso lockdown tra le misure preventive messe in campo dal Ministero della Giustizia per tutelare la salute dei detenuti, infatti, vi è quella di vietare l’ingresso dei volontari e dei familiari, così, ai colloqui e agli sguardi dei propri cari sono stati sostituiti più impersonali videochiamate e telefonate. Un trentaduenne condannato all’ergastolo da quando aveva 22 anni, scrive: “Il distacco sociale al quale i ristretti vengono sottoposti alimenta quel senso di disagio e frustrazione che non è mai stato così forte come in questo periodo di pandemia, con la differenza che oggi ogni cittadino italiano può averne un assaggio con le limitazioni imposte per fermare il virus. Pensate a cosa vorreste fare oggi o domani e non potete farlo perché siete chiusi in casa e moltiplicatelo per cento, forse anche per mille perché è questo lo stato d’animo dei detenuti. A questo si deve aggiungere un fattore molto importante che voi non potete sperimentare, cioè l’assenza dei propri cari, l’impossibilità di abbracciare tua madre, tuo fratello, i tuoi figli. Pensate che con le ultime restrizioni i nostri famigliari non possono nemmeno portarci, come facevano prima, del cibo preparato con amore per noi, e allora tutto quello che voi state provando in questo momento non si può paragonare a quello che giorno dopo giorno i detenuti sono costretti a subire”. Questa testimonianza ci mette davanti alle implicazioni che comporta questa misura, mai revocata e solo attenuata, neanche nei momenti di minore incidenza della pandemia, e che comincia a pesare non poco sulla salute psicologica dei detenuti. Ad aggravare la situazione vi è il fatto che insieme ai familiari, sono stati allontanati dalle carceri anche i volontari. Il vero ruolo che essi svolgono negli istituti di pena, infatti, va ben oltre quello di un semplice supporto all’istituzione in quanto tale, ma spesso diventa un prezioso “cuscinetto” psicologico in grado di aiutare i detenuti a superare le ansie e le nevrosi che la loro condizione di reclusi inevitabilmente comporta. Ornella Favero, guida della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, in seguito ai vani tentativi dei volontari di rientrare, seppur in minima parte nelle carceri ha affermato: “Come CNVG chiedevamo di essere coinvolti nei processi decisionali per quanto riguardava i volontari. Questo non è avvenuto, perché il volontariato piace molto e solo quando fa i colloqui per il sostengo psicologico o porta i vestiti ai detenuti. Quando invece è portatore di una visione differente e critica sul modo di scontare la pena, anche in pandemia, è meno benvoluto”. Purtroppo le misure adottate non hanno sortito alcun effetto, tant’è che i contagi sono drammaticamente ripresi anche nelle carceri e con essi anche il nulla che popola le vite dei detenuti. È proprio di ieri, infatti, la notizia diffusa da “Il Messaggero” di 653 detenuti positivi e 847 tra operatori e agenti penitenziari contagiati. Risultano coinvolti 75 istituti su un totale di 192; mentre 1009 sono i carcerati in isolamento sanitario. Emerge forte la necessità di un ripensamento delle misure da adottare visto che quelle di qui messe in campo non hanno fatto altro che peggiorare la condizione dei detenuti e li hanno per giunta privati di quelle attività dei volontari che possono contribuire a migliorare. La situazione è infatti a dir poco esplosiva e rischia di riportare alla ribalta della cronaca notizie come quella della rivolta nel carcere di Foggia dello scorso marzo oppure i sempre più frequenti casi di suicidi degli ultimi mesi. “Se c’è un valore di cui il Volontariato è portatore sempre è quello della non violenza”, ha affermato a riguardo Ornella Favero, “ma abbiamo anche il dovere di cercare di capire la disperazione che c’è dietro certi gesti, sono comunque l’espressione della sofferenza e della solitudine che caratterizzano più che mai oggi la vita detentiva. Quando con una qualità della vita già così bassa interviene una catastrofe come quella del coronavirus, pensare che persone che la violenza l’hanno sperimentata spesso nel loro passato possano agire con ragionevolezza è solo un’illusione”. La pandemia vista da dietro le sbarre: aumentano i detenuti con disturbi psichiatrici di Alice My internationalwebpost.org, 16 novembre 2020 L’emergenza sanitaria da Covid-19 colpisce duramente anche quella fetta di popolazione che vive dietro le sbarre, più per cause indirette che dirette. Se, da un lato, gli episodi di contagio sono piuttosto sporadici, dall’altro le condizioni psichiche in cui versano i carcerati sono peggiorate proprio come conseguenza della pandemia e del rischio percepito. A fare il punto della situazione è Sergio Babudieri, Direttore Scientifico Simspe (Società Italiana di Medicina e Sanità nei Penitenziari): “Dopo le proteste iniziali e gli inevitabili timori che le carceri divenissero una polveriera, le norme previste dal Dpcm dell’8 marzo per gli istituti penitenziari hanno consentito di limitare i contagi: i casi sintomatici dei nuovi ingressi sono stati posti in isolamento; i colloqui si sono tenuti in modalità telematica; sono stati limitati i permessi e la libertà vigilata. Tuttavia, con questa seconda ondata il virus si è diffuso in diversi ambiti, ben oltre ospedali e Rsa che erano stati i principali incubatori del virus in primavera: di conseguenza, adesso qualsiasi nuovo detenuto va in un’area di quarantena e viene sottoposto a tutti i consueti protocolli, secondo un filtro analogo ai triage degli ospedali”. “Tra le conseguenze della pandemia emergono anche dati positivi - chiarisce ancora il Prof. Babudieri - Il tema cronico del sovraffollamento, che costituiva una minaccia proprio per una potenziale diffusione del Covid, è invece andato incontro a un notevole miglioramento: si è passati dal 20,3% al 6,6%, poiché non vi è stato il normale turn over dovuto all’assenza di arresti nel periodo del lockdown. Più precisamente, al 31 gennaio 2020 nei 190 istituti penitenziari italiani vi era una capienza di 50692 (dati ufficiali del Ministero della Giustizia) e 60971 detenuti presenti, con un surplus quindi di 10279, pari al 20,3%. Adesso a fronte di una capienza di 50574 posti letto, i detenuti effettivi sono 53921, con un sovraffollamento sceso a 3347, ossia il 6,6%, mostrando dunque un calo radicale. Questo però deve imporci controlli sempre più accurati, perché la popolazione ristretta è praticamente tutta suscettibile al Coronavirus ed in più in questo ambito sappiamo come sia cronicamente elevata la circolazione di altri virus, in particolare epatici come HCV. Ne consegue che in questa nuova fase dell’epidemia Covid divenga mandatoria l’esecuzione dei test combinati Hcv/Covid nei 190 Istituti Penitenziari Italiani”. Emerge dunque la punta di un iceberg altrettanto profondo e pericoloso, quello della salute mentale. Il 41% degli italiani soffre tuttora di depressione, ansia e disturbi del sonno, spesso sviluppati nel corso del lockdown primaverile. Non è più rosea la situazione nelle carceri, considerato che il 50% dei detenuti era affetto da questi disagi già prima del coronavirus, insieme alla dipendenza da sostanze psicoattive, disturbi nevrotici e reazioni di adattamento, disturbi alcol correlati, disturbi affettivi psicotici, disturbi della personalità e del comportamento, disturbi depressivi non psicotici, disturbi mentali organici senili e presenili, disturbi da spettro schizofrenico. “Il problema psichiatrico o quantomeno quello del disagio mentale è diventato una delle questioni più gravi del sistema penitenziario italiano - sottolinea il Presidente Simspe Luciano Lucanìa - In sede congressuale abbiamo avuto un confronto su questo tema delicato con i contributi di accademici, direttori di penitenziari, medici specialisti che lavorano alla psichiatria territoriale e operatori attivi nel sistema penitenziario stesso. È evidente come la pandemia di Covid e soprattutto i primi mesi abbiano reso queste problematiche ancora più evidenti. Nelle ultime settimane la situazione è diventata ancora più complessa. Non esistono soluzioni pronte e preconfezionate, ma noi di Simspe crediamo che sia necessario per gli operatori, per la comunità carceraria, per i decisori politici, far presente limiti, problemi, prospettive e chiedere soluzioni. Da una parte si devono integrare i servizi del territorio e i servizi del carcere; dall’altra serve un sistema carcerario che sia in grado di affrontare autonomamente questo tipo di problemi”. “Subito amnistia, poi riforma per carceri più umane”, parla il magistrato Raffaele Marino di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 16 novembre 2020 “Amnistia e indulto? Per certi versi rappresentano una sconfitta dello Stato, ma non c’è dubbio che, alla luce delle vergognose condizioni delle carceri italiane e campane, un atto di clemenza sia necessario”: ne è convinto il magistrato Raffaele Marino, per anni in prima linea contro la camorra e oggi sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Napoli. A sottolineare la necessità di un provvedimento capace di decongestionare le prigioni è stato il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, in considerazione del forte aumento dei contagi da Covid dietro le sbarre. I numeri parlano chiaro: in Campania sono 141 i reclusi positivi, 80 dei quali solo a Poggioreale, e 187 gli infetti tra agenti della polizia penitenziaria e personale carcerario. Prima del garante erano state le Camere Penali a sottolineare la necessità di un provvedimento volto a garantire condizioni detentive meno disumane a prescindere dalla pandemia. Amnistia o indulto, dunque? “La prima è preferibile perché estingue il reato e porta alla chiusura dei procedimenti in corso - spiega Marino - mentre l’indulto implica la celebrazione del processo perché si calcola sulla base della pena applicata in concreto o sul residuo che il detenuto deve scontare. Un atto di clemenza è indispensabile perché le prigioni versano in condizioni indecenti così come appare necessario allestire strutture idonee per la prevenzione e la cura del Covid per i detenuti”. Eppure molti, in Italia, restano contrati ad amnistia e indulto ritenendoli un segno della resa dello Stato davanti a criminali o presunti tali. “Certo, quando si approva un simile provvedimento lo Stato riconosce l’incapacità di applicare la legge fino in fondo e di far scontare la pena ai condannati - osserva il pm - Nello stesso tempo, però, bisogna ammettere come lo Stato non sia più in grado di assicurare condizioni di vita umane ai detenuti e di rieducarli in vista del loro rientro nella società. Lo testimoniano le decisioni con cui sempre più giudici civili condannano il Ministero della Giustizia per aver costretto i detenuti in spazi troppo angusti”. In effetti, il numero di queste sentenze di risarcimento è in crescita. Lo stesso Marino, quando ricopriva la carica di presidente della prima sezione civile del Tribunale di Salerno, ne ha pronunciate diverse: “Basta certificare i giorni di detenzione, le misure della cella e il numero dei reclusi al suo interno - aggiunge il sostituto procuratore generale - e alla fine lo Stato è costretto a pagare”. Amnistia e indulto, tuttavia, sono provvedimenti in grado di svuotare le carceri per un paio d’anni. Il che è utile per limitare il rischio di contagio da Covid in cella, ma non vale a risolvere in modo strutturale il problema del sovraffollamento. Basti pensare che, in Campania, i detenuti sono attualmente circa 6.500 a fronte di una capienza regolamentare di 6.062 posti: numeri che dimostrano la necessità di interventi di portata ben più ampia dell’amnistia o dell’indulto. Come decongestionare, dunque, le celle che scoppiano? “Bisogna contingentare per legge i tempi del processo - suggerisce Marino - Il Governo avrebbe dovuto provvedere in tal senso subito dopo aver allungato i tempi della prescrizione. Quando la durata del processo penale è eccessiva, come nel nostro caso, le vere sanzioni diventano la custodia cautelare e la gogna mediatica. E questo, in un Paese civile, non è accettabile”. Il fenomeno evidenziato da Marino ha effettivamente una portata notevole: secondo l’ultima relazione stilata dal Ministero della Giustizia, il 42% dei detenuti in Campania è in attesa di giudizio a fronte di una media nazionale del 34,5% e di quella europea del 22,4. Non solo: nel 2019 si è registrato un aumento del ricorso alla custodia cautelare, con 2.212 misure in carcere rispetto alle 4.316 complessivamente adottate durante l’anno. In queste condizioni, persino il contingentamento dei tempi del processo può rivelarsi insufficiente. Di qui le altre proposte di Marino: “Servono un più largo ricorso alle misure alternative e un cambio di mentalità che porti pm, gip e giudici a disporre il carcere solo quando necessario. E poi è indispensabile sancire e disciplinare la discrezionalità dell’azione penale che oggi è appannaggio dei procuratori o di qualche sostituto che sceglie arbitrariamente quali indagini condurre”. Maresca: no ad un nuovo “liberi-tutti”, meglio misure alternative per detenuti non pericolosi di Fulvio Miele juorno.it, 16 novembre 2020 Catello Maresca, magistrato antimafia, nel mese di marzo denunciò con forza l’esistenza di una questione carceraria. Fu facile Cassandra. Pochi giorni dopo aver denunciato quei segnali inquietanti che arrivavano dai penitenziari, scoppiarono rivolte ovunque negli istituti di pena italiani. Per chi l’avesse dimenticato, per quelli che hanno memoria corta, tra il 7 e il 9 marzo di quest’anno, nelle carceri d’Italia in rivolta morirono 14 detenuti, ci furono decine di feriti e danni per una trentina di milioni di euro alle strutture devastate e incendiate. Dopo quelle rivolte ci furono decreti legge e circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che portarono, più o meno surrettiziamente, alla scarcerazione di centinaia di pericolosi detenuti con la scusa del rischio contagio. E tra questi scarcerati c’erano anche detenuti al 41bis, i boss mafiosi. Tanti mafiosi. E tra gli scarcerati (differimento della pena a casa) c’era Pasquale Zagaria, mente criminale e fratello del capoclan dei Casalesi. Abbiamo chiesto al dottor Maresca, Sostituto Procuratore Generale a Napoli, se la storia può ripetersi e se abbiamo tratto qualche insegnamento da quanto accaduto tra marzo e aprile nelle carceri d’Italia. Dottor Maresca, c’è il rischio che possano accadere le stesse cose di marzo e aprile negli istituti di pena? Quei detenuti morti, quelle devastazioni nelle carceri. Quella perdita di credibilità delle istituzioni. Quella sequela di dimissioni ai vertici del Dap e al Ministero della Giustizia sono una pagina buia su cui sarebbe il caso si facesse luce. Scusi ma non ha risposto alla domanda. La domanda é: rivedremo lo stesso film? Rivedremo rivolte e poi provvedimenti per svuotare le carceri per evitare le rivolte? Rivedremo mafiosi tornare a casa a causa del rischio contagio da Covid 19? La questione carceraria è rimasta lì. Non è cambiato molto nella gestione delle carceri. E non è la prima volta che mi capita di notare atteggiamenti e provvedimenti a mio parere poco efficaci, quando non addirittura forieri di effetti assolutamente negativi. A quali provvedimenti si riferisce in particolare? Ad un complesso di circolari del Dap, talvolta contraddittorie, alcune prima emanate e poi subito ritirate, sintomatiche di una difficoltà operativa e decisionale molto pericolosa. Mi perdoni se insisto, ma davvero rischiamo di correre lo stesso rischio di qualche mese fa ovvero l’uscita dal carcere di migliaia di detenuti? E non per fine pena. Mi sembra piuttosto evidente che, in mancanza di una linea programmatica chiara e diretta in maniera scientifica ad affrontare e risolvere l’atavico problema del sovraffollamento delle carceri, il rischio più grande che si corre sia quello di rivedere scene di protesta, anche potenzialmente violente da parte di detenuti più o meno eterodiretti. Si riferisce alle rivolte del 7 e 8 marzo, quando all’unisono scoppiarono rivolte in 27 carceri tutti assieme? All’epoca lei parlò di una “strana” coincidenza. Ovviamente mi auguro che non possano mai ripetersi quelle rivolte. Ma debbo constatare che la situazione della diffusione del virus all’interno delle carceri è assai più grave della prima fase dell’emergenza e la situazione generale delle strutture è migliorata troppo poco e molto lentamente. In alcune strutture come a Milano la strada intrapresa mi sembra giusta, altrove temo che siamo ancora molto indietro. Quale soluzione propone lei? Non avendo compiti gestionali e nemmeno ruoli istituzionali e di decisione in materia, non è mio compito quello di trovare le soluzioni. Anzi, le dirò di più, tranne qualche telefonata infastidita delle mie segnalazioni critiche, non ho mai ricevuto richieste di proposte ufficiali in tal senso. Mi sono però sempre limitato con educazione ad anticipare rischi e a suggerire possibili soluzioni. Qualcuno, di cui non faccio il nome, mi diede anche dell’ignorante e mi propose di tornare a studiare il diritto. Acqua passata. Vuol dire che nessuno l’ha mai chiamata per ricevere un suo contributo tecnico istituzionale? Intendo dire, che essendo il primo ad aver intuito, diciamo così, il rischio che si correva a marzo e ad aver proposto anche degli interventi riparatori, mi sarei aspettato almeno che qualcuno mi venisse a chiedere come avessi fatto ad anticipare lo scenario che poi si è drammaticamente realizzato. Sa, magari, capire quali possano essere gli indicatori, i campanelli di allarme, può servire ad anticipare le mosse e a prevenire guai maggiori. Vuole quindi dire che gli attuali responsabili non sono in grado di fare queste previsioni? Non ho detto questo. Non mi metta in bocca parole non mie. Ho solo detto che a me nessuno lo ha chiesto. Anzi si sono lamentati per le mie continue pubbliche sollecitazioni, fatte anche su questo giornale. Ovviamente, spero che lo abbiano fatto perché già pensano di avere le risposte alle varie criticità. Lo spero e ce ne accorgeremo nei prossimi mesi. Tornando alle sue osservazioni, inviate anche alla Commissione Giustizia del Senato, all’ultimo decreto svuota-carceri, ci può spiegare di che cosa si tratta e perché lei è così preoccupato? Quando un senatore napoletano, avvocato serio che già conoscevo per motivi professionali, mi ha chiesto un parere tecnico, ho sollecitato il mio gruppo di studio universitario ad approfondire la questione. Chiedendo a tutti un sacrificio anche nel weekend. E subito sono emerse una serie di criticità ed alcuni errori tecnici. Di che cosa si tratta? La risposta non è semplicissima, perché si tratta di questioni squisitamente tecniche. Cerco di risponderle indicandole gli effetti di questa norma che, replicando quella di marzo, tende a intervenire sul sovraffollamento carcerario. In buona sostanza è una norma che rischia di non servire a niente. In che senso scusi? È che non solo non svuoterà le carceri, ma non alleggerirà neanche sensibilmente il problema delle celle affollate e del rischio di contagio. E poi non affronta il rischio di scarcerazione per i detenuti per reati più gravi. Intende dire che potremmo assistere a scene simili a quelle di aprile e maggio? Mafiosi in vacanza domiciliare con la scusa del Covid? Anche qui vedo che lei tende ad essere troppo tranciante. Non ho detto questo. Dico solo che la norma da un lato non svuota le carceri e dall’altro non interviene sul pericolo di scarcerazione dei detenuti più pericolosi. Quindi se avessi dovuto dare un mio parere scientifico avrei suggerito un’altra strada. E cioè? In carcere c’è un grosso problema, che non è possibile risolvere con un lockdown. Non è fisicamente e tecnicamente possibile a meno che non si eseguano interventi strutturali profondi, difficili da realizzare in pochi mesi. Quindi? Quindi non si può pensare che mandare a casa 3/4 mila detenuti (nella migliore delle ipotesi, ndr) che debbano scontare meno di 18 mesi di reclusione serva a risolvere il problema. Allora, se non hai la capacità organizzativa e strutturale devi avere il coraggio di adottare provvedimenti più decisi. Che cosa intende per coraggio di decisioni? Intendo dire che di fronte a questa situazione esplosiva ci sono solo due strade. E quali sono? O quella strutturale/organizzativa che devi realizzare con decisione. E non è stato fatto. Oppure quella seriamente deflattiva, che prevede il dimezzamento della platea carceraria. Non starà mica sta parlando di una amnistia generalizzata? Assolutamente no. Sono sempre stato assolutamente contrario a questo tipo di interventi. Ma dico che se la situazione è esplosiva devo salvare il salvabile. E, quindi, devo fare di tutto per tenere in carcere i detenuti più pericolosi e prevedere temporanee soluzioni alternative per quelli meno pericolosi, a partire dai non definitivi. Per lei è l’unica soluzione praticabile? Nella situazione attuale c’è l’altissimo rischio che approfittino della gravità della situazione i “soliti” mafiosi più pericolosi, notoriamente in grado di mettere in campo mezzi e strategie sofisticate. Questo è il pericolo da scongiurare a tutti i costi. Poi si dovrebbero avere a disposizione i numeri veri per fare una strategia. Ci vorrebbe una analisi che valuti la pericolosità dei detenuti, le pene da scontare, i braccialetti effettivamente disponibili e le reali esigenze delle strutture carcerarie per adeguarsi alla gestione dell’emergenza. Sembrano dati facilmente reperibili? Anche a me sembrava. Ma purtroppo l’intervento normativo proposto ne prescinde quasi totalmente. Lo segnalano anche i tecnici del dossier bilancio che accompagna la norma. Ma purtroppo sembra che sia più importante approvare velocemente la norma che non verificarne la validità e l’efficacia. Scusi se glielo rammento, ma quello che lei dice è grave. Lei sostiene che si approva una norma tanto per approvarla non perché si è consapevoli che questa norma sarà utile ed efficace… E vabbè, spero di non averla troppo impaurita. Dottor Maresca, per dirla col filosofo napoletano Vico, la storia si ripete. Adoro Vico, ma per dirlo con le parole di un altro genio napoletano, il principe de Curtis, Totò: ho detto tutto! E che Dio ce la mandi buona. Il Partito Radicale: “I pm rispondano alla nostra denuncia contro Bonafede” Libero, 16 novembre 2020 Se ci sono posti dove il distanziamento sociale è impossibile da far rispettare, quelli sono gli istituti penitenziari: possono accogliere 47.000 detenuti, ma in realtà ne ospitano oltre 54.000. Non stupisce dunque che in 77 carceri sulle 190 totali si sia registrato almeno un caso di contagio da coronavirus, secondo i dati resi noti dall’associazione Antigone. Sarebbero oltre 600 i carcerati positivi al Covid (32 di loro sono ricoverati in ospedale), ai quali vanno aggiunte altre 800 persone tra il personale che a vario titolo lavora nelle prigioni italiane. Ma i dati sono incompleti, e le istituzioni non forniscono i numeri aggiornati. Temi sui quali va avanti da giorni l’iniziativa dei radicali, che chiedono al ministro della Giustizia Bonafede di rimediare al sovraffollamento con un provvedimento di amnistia. Ieri la tesoriera del Partito radicale Irene Testa ha voluto associarsi allo sciopero della fame proclamato dalla segretaria Rita Bernardini per ottenere dalle procure una risposta alla denuncia fatta contro il ministro: “Da marzo pende una denuncia per procurata epidemia colposa nei confronti del Ministro della Giustizia e del Dap, inviata alle procure della Repubblica di tutta Italia, firmata dalla sottoscritta, dal segretario Maurizio Turco e dal presidente della commissione giustizia del Partito Radicale Giuseppe Rossodivita. Ad oggi non abbiamo alcuna notizia su come abbiano proceduto i procuratori; nel mentre assistiamo al rischio di strage all’interno delle carceri italiane. Mi rivolgo alle procure che hanno ricevuto la nostra denuncia, per sapere che ne è stato della denuncia e se non ritengano con la massima urgenza di obbligare il Ministro e i Dap a fornire i dati sui contagi in carcere”. Fuori dal carcere i bambini di Annalena Benini Il Foglio, 16 novembre 2020 Colpevoli di marginalità, i figli delle madri detenute imparano per prima una parola: apri. La vita quotidiana “al gabbio”, i danni permanenti e la speranza, sempre, di uscire da lì insieme. Passi avanti e poi indietro nella liberazione dei più piccoli. I bambini che crescono in carcere hanno problemi di vista. I loro occhi non sanno abituarsi a un orizzonte, perché in carcere un orizzonte non c’è. Ci sono porte di ferro, c’è il cortile con il muro alto, e oltre le sbarre delle finestre c’è un pezzo di cielo a volte, ma c’è sempre anche un altro muro grigio e livido contro cui sbattere anche lo sguardo. I bambini che crescono in carcere giocano senza orizzonte, costruiscono la prospettiva su spazi molto piccoli, e la continua luce al neon causa problemi di sdoppiamento degli oggetti e delle persone e di messa a fuoco. I pediatri devono ordinare la visita oculistica, e molto presto gli occhiali. I bambini che crescono in carcere sviluppano anche problemi di udito, perché i loro rumori non sono i rumori che sentiamo tutti noi, di chiacchiere, strada, vicini di casa, motorini che passano, vento e uccellini, persone che si incontrano, rumore di biscotti messi nel carrello del supermercato, anche canzoncine di padri sotto la doccia, ma ascoltano rumori strani, molto forti, troppo acuti: ascoltano la battitura dei ferri, quando un agente batte la sbarra metallica contro l’inferriata della finestra, o quando le altre detenute battono contro la porta di ferro per farsi aprire, o quando urlano di dolore e rabbia, quando litigano fra loro, e poi ecco il rumore delle chiavi che chiudono e delle chiavi che aprono. Non è vero che il carcere è un luogo silenzioso: è un luogo di grida e di rumore di ferro, e anche di rumore di televisione accesa, ma non il rumore che sentiamo noi fuori, nelle nostre case e nelle case degli altri, è il rumore della cella accanto che non la vedi ma è a un metro e gracchia con ferocia. C’è a volte un silenzio pauroso, diverso da ogni altro silenzio, e a volte il silenzio pauroso è interrotto da urla disperate. I bambini che crescono in carcere imparano a camminare in uno spazio minuscolo, imparano a correre tra la cella e il corridoio e faticano a concepire il movimento. Sbattono contro le cose. I bambini che crescono in carcere però imparano a parlare presto, e non a dire mamma o papà o babbo, come quasi tutti gli altri che muovono le labbra, ma imparano per prima una parola difficile da pronunciare: apri. Apri è la prima parola di un bambino che cresce in carcere con sua madre, e poi: fuori, e anche: aria. Andrea, che non si chiama così e che tre volte la settimana esce con i volontari, adesso la sera piange, quando sente che chiudono la porta alle otto di sera con tanti giri di chiave. Non vuole stare chiuso, e piangendo dice: apri mamma. Fino ai tre anni i bambini non se ne accorgono, di essere in carcere, non connettono le privazioni, non sanno che il mondo sta da un’altra parte. Vogliono la mamma, stanno con la mamma e vanno ai giardinetti con gli operatori la mattina, a volte vanno anche in una fattoria ad accarezzare i conigli e l’asino, ma anche le cose belle vanno calibrate, gli operatori lo sanno che non si può esagerare con la gioia. Non si può fare indigestione di cose belle perché un bambino che vive in carcere non deve sentire troppo il contrasto con la sua stanzetta che alle otto si chiude, non deve diventargli intollerabile. Ma un bambino in carcere è già di per sé un fatto non tollerabile. La domanda infatti è: perché quel bambino è in carcere? Perché in Italia ci sono bambini che crescono in carcere? Sono trentatré, secondo il controllo effettuato dal ministero della Giustizia al 31 ottobre 2020, poche settimane fa. Sono stabilmente in crescita da qualche mese. Trentuno madri, trentatré bambini: ci sono due madri che hanno ciascuna con sé due figli, in due prigioni della Campania. Il 31 marzo scorso però erano cinquanta bambini: un effetto positivo del Covid-19 è stato far uscire un po’ di bambini, con le madri, dalla prigione. L’estate del 2009 è stato raggiunto il numero massimo di bambini minori di tre anni in istituto, 75, con 73 detenute madri. Adesso, mi spiega Sofia Ciuffoletti, filosofa del diritto, esperta del Tribunale per i minori e direttrice dell’associazione Altro diritto, c’è una stabile tendenza al rialzo, che arriverà fino alla capienza totale dei posti. Alcuni bambini sono nati in carcere, altri arrivati molto presto in carcere, perché, mi dice Sofia Ciuffoletti, “si tutela in questo caso la dimensione biologica dell’allattamento”. Si considera che il bambino abbia bisogno della madre sopra ogni cosa per i primi tre anni della sua vita (i padri detenuti sono completamente estromessi, non esistono, non vengono presi in considerazione dall’ordinamento, si dà comunque per scontato, a livello giuridico e morale, che siano evidentemente “cattivi padri”) si protegge “il miglior interesse del fanciullo”. “Quando la dimensione biologica e quella giuridica si incontrano nascono spesso dei mostri”, pur con le migliori intenzioni. Perché questo miglior interesse del fanciullo si concretizza in una infanzia in carcere, che da nessuno, nemmeno il più distratto dei legislatori, dei politici e dei cittadini può considerare un ambiente adeguato alla crescita di un bambino. Non è ancora morte, ma non è più vita, ha scritto una volta Adriano Sofri, e com’è possibile accettare, senza una vera discussione, l’idea che in questo momento ci siano trentatré bambini che si addormenteranno questa sera in un istituto penitenziario, e al risveglio non potranno aprire la porta finché un’agente di custodia non arriverà con le chiavi? A meno di ritenere bambini di dieci mesi, o di due anni, colpevoli di qualcosa. Colpevoli di avere una madre detenuta. Colpevoli di famiglia incasinata. Colpevoli di marginalità. I bambini in carcere sono, formalmente, degli ospiti nella struttura, formalmente sono liberi, come la piccola Dorrit di Dickens, cresciuta accanto al padre imprigionato per debiti, “ma la loro pena non è diversa da quella delle loro madri”, mi spiega Sofia Ciuffoletti, ed è una cosa molto evidente, e semplice da capire, ma per capirla bisogna guardarla. Un bambino è in carcere e segue le regole del carcere perché la madre è in carcere, perché è nato in carcere, perché ha bisogno di sua madre ma questo bisogno viene poi brutalmente ignorato quando diventa troppo grande per stare in carcere. Se la madre deve restare in carcere, il bambino viene portato in una casa famiglia, e poi dato in affidamento a una nuova famiglia. Tutto secondo le regole, tutto senza il pensiero sostanziale di avere fatto, proteggendo il miglior interesse del fanciullo, un enorme danno al fanciullo. Un danno che concima le radici della sua esistenza. Mi dice Silke Stegemann, psicoterapeuta berlinese e referente di Bambini e carcere di Telefono Azzurro per il territorio fiorentino, che se un bambino esce da lì, dalla sezione Nido, a tre anni di vita, non avrà ricordi, come noi non abbiamo ricordi della nostra primissima infanzia. Ma avrà flashback, sensazioni, paure improvvise, qualcosa di importante che si è piantato dentro. “Il carcere, anche nella forma degli istituti a custodia attenuata, è come un vaso rotto che continuiamo a incollare, anche con cura, e quindi è pieno di crepe ma ancora ci mettiamo dentro i fiori, e l’acqua dopo un po’ ricomincia a uscire dalle crepe, come esce umidità dalle pareti delle stanzette per i problemi di infiltrazioni del carcere di Sollicciano, dove in questo momento ci sono due bambini con le loro mamme. I fiori che mettiamo nel vaso crepato sono i bambini. Se lei mi chiede: quel vaso crepato è il posto adatto per un bambino? io con onestà non posso che rispondere che, con tutto l’impegno e gli adattamenti, i giocattoli, le pareti dipinte di azzurro, certo che no: non lo è e non lo sarà mai”, spiega Silke Stegemann, che pur nella ricerca caparbia e collettiva delle migliori condizioni, che tutelino la relazione dei bambini con le madri e che anche favoriscano un sano distacco, qualche ora di respiro (ventiquattro ore su ventiquattro con il proprio bambino in un posto chiuso, senza altri filtri, senza la prospettiva di un pomeriggio di libertà, senza un proprio spazio, non sono salutari nemmeno in una condizione diversa dalla detenzione), pur nel tentativo costante, insomma, di incollare i pezzi del vaso e di ottenere altri spiragli - e le videochiamate sono uno spiraglio, ma ne parleremo dopo - si batte per “il pensiero che sta alla base”: è il pensiero che sta alla base che va modificato. È il pensiero che un bambino possa stare in carcere che va abbandonato. Il pensiero di chi lo consente, e anche il pensiero di chi ascolta distratto e dice: trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, settanta bambini, che sarà mai? Luigi Manconi, professore, ex senatore del Pd e presidente dell’associazione A buon diritto, li chiama con amore e con rabbia “i bambini galeotti”, e vede nella loro detenzione la prova dell’insensatezza e della ferocia del carcere: l’idea assurda di una riabilitazione di un essere umano adulto mentre si impone il danno esistenziale alla crescita di un bambino. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha codificato negli ultimi anni un preciso riconoscimento: “Oggi sappiamo che il periodo che va dalla gravidanza ai 3 anni di vita di un bambino è il più critico, perché è in questo periodo che il cervello cresce più velocemente che in ogni altro periodo della vita: l’80 per cento del cervello di un bambino si forma in questo periodo. Per uno sviluppo sano del cervello in questo periodo i bambini hanno bisogno di un ambiente sicuro, protettivo e amorevole, di alimentazione e stimoli adeguati da parte dei genitori o dei caregiver”. È un documento molto approfondito, che scatena infinite considerazioni, e che termina così: “Nel periodo che va dalla gravidanza ai 3 anni di età i bambini sono maggiormente sensibili alle influenze dell’ambiente esterno. Si tratta di un periodo che getta le basi per la salute, il benessere, l’apprendimento e la produttività di un individuo per tutto il corso della sua vita, e che ha un impatto anche sulla salute e sul benessere della generazione successiva”. Questo periodo che getta le basi per la salute e il benessere del nostro futuro è lo stesso periodo in cui è istituzionalizzato che i bambini stiano in carcere con la madre, e anzi questo periodo in determinate circostanze viene prolungato fino ai sei anni di età del bambino, e a volte anche oltre, nel caso in cui la madre sia sottoposta a pene esecutive. Ci sono bambini che vanno a scuola la mattina, accompagnati dai volontari, e che alla domanda del compagno di banco o del nuovo amichetto, e tu dove abiti? la prima volta rispondono con candore assoluto: al gabbio con mamma, e poi cominciano a vergognarsi, a negare, e anche a rifiutare quel rapporto simbiotico e quel luogo livido, e a soffrire. La sera tirano calci alle porte. Corrono incontro agli educatori perché hanno capito che loro possono uscire. E la notte diventa anche per loro il regno degli incubi. La scoperta del mondo, in questo caso, passa attraverso la vergogna e il dolore. Il cielo si squarcia e un bambino scopre di non essere un bambino, ma un detenuto bambino. Si scopre che quel muro è una cosa brutta, non solo perché è brutta ma perché tutti la considerano brutta. La seconda domanda allora è: si può essere abbastanza piccoli per stare in carcere eliminando il dolore del carcere? e la risposta è: no. È la risposta semplice che si fonda su un principio, ma è la risposta che darebbero anche tutti coloro a cui questo principio non interessa affatto, se solo vedessero che cos’è un carcere. “Visite guidate, cacce al tesoro, escursioni zoologiche. Non migliorate niente delle carceri: solo, fatele vedere a tutti”, dice Adriano Sofri, e allora adesso insieme entriamo nelle carceri, e nel sistema legislativo, e negli Icam, Istituti a custodia attenuata per detenute madri, e nel cuore delle persone e delle associazioni che cercano di migliorare la vita dei bambini in carcere, bambini detenuti perché colpevoli di marginalità. Anna Finocchiaro, ministro per le Pari opportunità durante il governo Prodi, presentò per la prima volta alla Camera nel 1997 il disegno di legge “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”, che dopo quattro anni, l’8 marzo 2001, è stato definitivamente approvato. Una legge mossa dal principio che maternità e infanzia sono incompatibili con il carcere, e spiegata in modo chiaro: “L’ingresso in carcere dell’infante, volto a non interrompere la forte e insostituibile relazione con la madre, non solo non è apparso risolutivo del problema, poiché comunque non fa che differire il distacco dalla madre, rendendolo semmai ancor più traumatico, ma è addirittura dannoso per lo sviluppo psicofisico del bambino, il quale viene incolpevolmente a trovarsi collocato in un ambiente punitivo, povero di stimoli e connotato dalla privazione di autorevolezza della figura genitoriale”. La legge Finocchiaro, poi modificata nel 2011, stabilisce che “le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse a espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli”. La legge del 1997 e la sua applicazione accidentata. Pochissimi i luoghi di cura, assistenza e accoglienza. La bambina con la neve in tasca rimasta nei ricordi di Leda Colombini. Akin, nato in carcere, che ha perduto il rapporto con la mamma quando è uscito. Il poco che basterebbe per creare alcune case famiglia. Dopo un anno e mezzo Anna Finocchiaro e altri deputati presentarono un’interrogazione parlamentare in cui si evidenziava che “la legge risulta pressoché inapplicata, mentre sale il numero dei bambini d’età inferiore ai 3 anni detenuti in carcere insieme alle madri”. Dopo vent’anni, i luoghi di cura, assistenza e accoglienza per le madri detenute e i loro bambini sono pochissimi (uno è a Roma, una villa confiscata alla mafia, è un posto bello: la casa famiglia Leda Colombini, in memoria di Leda che ha dedicato la sua vita ai deboli, e quindi anche ai bambini in carcere, li ha portati al mare, ha assistito alle loro scoperte e alla loro gioia, si è battuta per i loro diritti, ed è morta una mattina uscendo da Regina Coeli, dopo una riunione per eliminare le rigidità delle uscite dei bambini. Leda Colombini era nata nel 1929, a Fabbrico di Reggio Emilia in una famiglia di braccianti poveri, e subito dopo le elementari era già una piccola bracciante, con tre sorelle e una madre sola. Grazie a lei centinaia di bambini sono usciti dal carcere, grazie a lei negli anni Novanta si sono aperte le porte dei nidi comunali esterni per i bambini detenuti. Leda Colombini si ricordava sempre di una bambina che cercava di mettersi la neve in tasca per portarla a sua madre in carcere). Purtroppo, spiega Sofia Ciuffoletti, che va in carcere ogni giorno, “è un problema sostanziale che contribuisce ad alimentare un contesto terrificante, perché in carcere con i figli ci finiscono quelle donne che appartengono a una marginalità sociale particolarmente caratterizzata: non hanno un domicilio, possono reiterare il reato che quasi sempre è legato alla droga o alla prostituzione, non hanno famigliari a cui affidare i bambini e soprattutto sono vittime di un pregiudizio spaventoso, di una dinamica di pensiero che se adottata non al bar ma nel mondo giuridico e nell’ideologia normativa, tra gli uomini e le donne che prendono decisioni, è ancora più grave: il pregiudizio che considera i figli strumentali per queste madri. Strumentali per evitarsi la galera, strumentali per ottenere dei vantaggi personali. Una relazione strumentale, dunque, che l’ordinamento alimenta e rende simbiotica fino almeno ai tre anni di vita. Queste donne non sono considerate rieducabili, e c’è già nei loro confronti un terribile giudizio morale: cattiva madre. Questo giudizio morale sulla madre si concretizza nel danno esistenziale del bambino”. Cattiva madre, eccoti qui. Il tuo mondo è deteriore: ecco il pensiero discriminatorio, il giudizio tra il morale e l’ideologico. Non può esistere una relazione affettiva, non c’è granché da recuperare, non c’è nemmeno un posto dove stare: sei fortunata, c’è il carcere. “Dovremmo cominciare a discutere dei confini giuridici del concetto di cattiva madre e promuovere un dibattito culturale per la decostruzione di questa categoria, usata ancora oggi con troppa facilità, spesso dai maschi, per etichettare le madri”, dice Ciuffoletti. Il figlio di una di queste cattive madri, che chiameremo Akin, è nato nel carcere di Sollicciano, Firenze, ed è sempre vissuto lì. Gli operatori ne parlano adesso con commozione, come di una ferita. Hanno fatto di tutto, ma non sono riusciti a salvare quella relazione tra madre e figlio. La madre non ha accesso alle misure alternative al carcere, per un reato legato alla prostituzione, ma ha questo bambino splendido, Akin, davvero splendido e amatissimo da lei e da tutti i volontari. Anche Akin amava moltissimo sua madre, e comunque “quando nasci in carcere hai solo tua madre”. Al compimento dei tre anni di età, nessuno ha osato staccarli, nessuno ha osato portare Akin lontano da sua madre. “Ti strappava il cuore”, dice Sofia Ciuffoletti. Hanno continuato a fare istanze per farla uscire dal carcere, ma sono state tutte respinte. A sei anni Akin ha iniziato ad andare a scuola, accompagnato dagli operatori, felice di andarci, e adorato dalle maestre e dai compagni, che lo invitavano a giocare a casa il pomeriggio, poiché loro avevano una casa, e lui non poteva mai perché casa sua era il carcere. Akin ha capito a sei anni che il carcere non è un posto normale in cui tornare. È stato molto doloroso. Tutta quella bellezza, quell’entusiasmo, quella meraviglia dentro il vaso crepato e reincollato ogni giorno, veniva messa in pericolo dalle regole del carcere. Quell’attaccamento biologico, di sangue e di latte e di vita quotidiana, allora era stato sempre finalizzato al nulla? Un giorno Akin è stato portato via, in una casa famiglia che è un posto migliore di un carcere perché non è un carcere, che è il posto in cui le madri con i loro figli dovrebbero stare, e infatti gli hanno detto: poi tua madre ti raggiungerà, ma non è mai successo perché questa madre non è stata ammessa alla casa famiglia. Akin dopo un po’ di tempo è stato dato in affidamento a una nuova famiglia. È passato altro tempo. E sua madre, adesso?, chiedo a Sofia Ciuffoletti, che si rabbuia. “Loro due non hanno più rapporti significativi, fanno ancora qualche incontro protetto, ma la relazione si è interrotta”. La relazione si è interrotta dopo che è stata resa simbiotica: come quando si tolgono i gattini alla madre che li ha allattati fino al minuto prima. Forse si ritiene che le cattive madri siano come i gatti, che si dimenticano dei loro figli. Forse si ritiene che questi bambini siano come i gatti, che si dimenticano delle loro madri. La legge Finocchiaro, approvata quasi vent’anni fa, stabilisce l’esatto contrario di questo principio dei gatti, ma dopo vent’anni e altre modifiche, e dopo la nuova legge del 2011, ci sono bambini che nascono e crescono in carcere e che trascorrono in carcere il tempo del lockdown, quello in cui ognuno di noi si è avvicinato, in maniera molto parziale, alla scoperta di che cosa significhi stare chiusi dentro. Ma qualunque senso di oppressione proviate chiusi nelle vostre case, piccole o grandi, belle o brutte, soli o in compagnia, dovreste resistere alla tentazione di dire: mi sento in prigione. Abbiate rispetto per chi sta in prigione. Abbiate orrore per la prigione dei bambini. A partire dal lockdown dello scorso marzo, quasi tutti i genitori sono insorti per l’ora d’aria dei propri figli, e hanno denunciato molte sofferenze, molto disagio, molta oppressione, hanno invocato gli alberi, gli amichetti, le passeggiate, la scuola, la città e la campagna, ma soprattutto: la socialità. Dentro il carcere ci sono bambini per cui il lockdown significa che nessun operatore può portarli ai giardinetti, nessun operatore può andare lì a giocare, nessun famigliare può andare in visita. Il lockdown sospende il volontariato. E succede anche che le madri rifiutino le visite per il terrore del contagio. Tutto questo avviene anche negli Icam, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, strutture introdotte nel 2011, spesso dentro al carcere stesso, ma con personale non in divisa, e con le pareti della zona comune colorate, con i giocattoli e i libretti per i bambini. È meglio del carcere? Sì, certo, quasi tutto è meglio del carcere, ma l’Icam è un luogo penitenziario a tutti gli effetti, con gli orari, gli agenti, molti giri di chiave, alle otto di sera si chiude, alle otto di sera un bambino viene rinchiuso con la madre, fino alla mattina dopo. “In Icam i bambini possono rimanere fino ai 6 anni di età se la madre è in misura cautelare e fino ai 10 anni se la madre è in esecuzione pena. Abbiamo innalzato l’età dei bambini incolpevoli reclusi in un istituto penitenziario”, dice Sofia Ciuffoletti. L’Icam è un luogo, spiega Silke Stegemann, che non deve diventare la soluzione finale: “Posso creare un contesto carino, posso portare dei mobili decenti, posso chiedere di chiudere le crepe che ogni volta si riaprono, posso portare i bambini in una fattoria il sabato mattina, ma non posso dire: va bene così, devo continuare a pretendere soluzioni alternative”. La casa famiglia lo è, perché non è un carcere. Perché le madri detenute possono incontrare madri che si trovano lì per altre problematiche, e ampliare i loro orizzonti, modificare le relazioni, capire che esiste qualcosa di diverso dalla detenzione. Una finestra per lasciar passare la luce, delle routine che siano rassicuranti anche per i bambini, come pranzare insieme in cucina e non nelle celle. Negli Icam questo avviene a fatica, ed è invece per questo che si lavora e che si cerca di aggiustare di continuo il vaso crepato. Le videochiamate, dicevamo: le videochiamate durante il lockdown hanno permesso ai bambini in carcere di mostrare i loro giocattoli alle persone del mondo fuori, o dell’altro mondo dentro. I padri hanno visto dove giocano i loro figli, c’è stata per la prima volta la condivisione della quotidianità: è una piccola cosa, ma è gigantesca. Non erano mai entrati, prima, gli uni nelle vite degli altri. “È importante - spiega Silke Stegemann - che le madri e i padri detenuti, sappiano che anche lì dentro restano genitori, è importante che sappiano che quel rapporto non gli viene strappato, e anzi che hanno il dovere di conservarlo”. È importante non solo per i bambini, è importante per la dignità degli adulti: io sono un padre, io sono una madre, non sono soltanto un detenuto, non ho perso tutto e ho molto da riprendermi. Ci si batte, in tutta Italia, per contrastare gli impedimenti fisici, ci si batte anche perché le visite siano concesse un pomeriggio alla settimana, e non solo la mattina, in modo che i bambini e gli adolescenti non debbano saltare la scuola per andare in carcere dai genitori e dai fratellini, vergognandosene, ci si batte perché i colloqui avvengano anche la domenica (a Sollicciano ci sono riusciti, una volta al mese), ci si batte perché sia permesso, come accade in altri luoghi in Europa, che un operatore aspetti al cancello l’adolescente minore, lo accolga e lo accompagni al colloquio con la madre o con il padre, e poi lo riaccompagni fuori, in modo che quel legame non sia continuamente filtrato da un terzo. Incontrarsi dentro, finché non si può uscire fuori. Ci si batte perché si trovino per i bambini e le loro madre soluzioni alternative al carcere, come è stabilito dalla legge. Basterebbero un milione e mezzo di euro, ripete Luigi Manconi, per ristrutturare spazi già esistenti, creare cinque o sei case famiglia in cui si possa ricominciare a vivere, e prepararsi alla vita fuori. Adesso nel carcere di Sollicciano sono rimasti due bambini piccoli, coetanei. Hanno un legame molto stretto, come fossero fratelli. Giocano insieme, e a volte mangiano insieme, escono insieme con gli operatori, vanno ai giardinetti alle nove e trenta del mattino. Tra sei mesi compiranno tre anni, e intanto regalano a tutti le cose migliori che un essere umano ha: la luce nello sguardo, l’amore a prima vista, l’intelligenza dell’infanzia, la voglia di giocare, la capacità di meravigliarsi. È una cosa bella, ed è una enorme preoccupazione per tutti. Tra sei mesi che cosa succederà? Tra sei mesi, ed è già tardi, il mondo deve mantenere le sue promesse. Giovedì scorso, intanto, è arrivata in carcere una bambina, con sua madre. Ha quattro mesi. Come sbloccare i processi penali di Giuseppe Pignatone La Stampa, 16 novembre 2020 Si ripropone il tema dell’adozione di criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti. La giustizia penale è uno dei settori che più hanno sofferto le conseguenze negative della pandemia. Agli effetti generali del lockdown della primavera scorsa si sono aggiunti quelli legati alla natura stessa del processo penale basato sul contraddittorio diretto e personale, per cui le udienze da remoto sono state - e rimangono - un’eccezione. E la possibilità di fatto estremamente ridotta che il personale amministrativo svolga efficacemente da casa il proprio lavoro. Inoltre le limitazioni degli spostamenti, in generale, e degli accessi ai palazzi di giustizia, in particolare, ha fortemente rallentato tutte le attività, comprese quelle dei pubblici ministeri e della polizia giudiziaria. L’arretrato esistente è quindi aumentato ed aumenterà ancora nei prossimi mesi con il prolungarsi della pandemia. Anche prima della crisi pandemica, infatti, gli uffici giudiziari non erano assolutamente in grado -salvo qualche rara eccezione - di trattare tutti gli affari che avevano in carico. I motivi sono ben noti, in primo luogo l’eccessivo numero di reati e la complessità del sistema penale, e ne ho parlato altre volte su questo giornale (Troppi reati frenano la giustizia, 9 ottobre 2019). Si ripropone pertanto ancora una volta, e con maggior forza, il tema dell’adozione di criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti, da sempre oggetto di dibattito e polemiche, con particolare riguardo alla fase delle indagini preliminari. Di fronte al dato oggettivo del numero dei procedimenti pendenti non hanno senso, a mio parere, i due atteggiamenti opposti di chi grida allo scandalo: “Sono le Procure a scegliere chi indagare e chi no” (cogliendo così l’occasione per attaccare - ad ogni buon conto - i pubblici ministeri) e di quanti invece, anche per evitare accuse o semplici sospetti di parzialità, pensano che si debba seguire rigorosamente l’ordine cronologico, salvo casi di particolare urgenza come i processi con detenuti. Questa è stata, peraltro, la posizione per così dire ufficiale della magistratura, confermata dalle circolari del Csm fino al 2014. Si sono così trattati, anche per non incorrere in possibili sanzioni disciplinari, moltissimi procedimenti inevitabilmente destinati a prescriversi, con l’unico risultato di rinviare ad un momento successivo la dichiarazione di prescrizione da parte di qualche altro ufficio. Un sostanziale spreco di risorse in ossequio una dinamica sostanzialmente burocratica su cui inciderà ben poco la c.d. legge spazza-corrotti che non si riferisce ai procedimenti già pendenti. Ho parlato di posizione “ufficiale” perché, al di là delle affermazioni di principio, la realtà delle cose e l’urgenza dei problemi che le Procure devono affrontare hanno imposto spesso in concreto scelte diverse, rimesse di volta in volta - in assenza di criteri generali predeterminati - alla decisione del Procuratore o, molto più di frequente, a quella dei singoli sostituti. Da qualche anno, su impulso di alcune Procure e soprattutto sulla spinta della realtà delle cose (e dei numeri), Il Csm ha riconosciuto la necessità che tutti gli uffici giudiziari, a cominciare proprio da quelli requirenti, fissino in via preventiva dei criteri di priorità adottati in maniera chiara e trasparente, coinvolgendo nella scelta anche gli altri uffici del distretto di Corte di appello e i Consigli dell’Ordine degli avvocati, che possono dare in questa materia un contributo prezioso. Su questa linea si muove anche il nuovo disegno di legge governativo attualmente all’esame delle Camere. Sulla base di una analisi preventiva seriamente condotta ogni ufficio può conoscere e valutare meglio le esigenze e le caratteristiche del suo territorio e così programmare le strategie opportune e il miglior uso delle sue risorse. È evidente, infatti, che ben diversa è, per fare un esempio banale, l’attività della procura in un piccolo centro o in una grande città, in una zona agricola del Sud o in un distretto industriale del Nord e così via. In breve: è finalmente maturata la consapevolezza che, nell’impossibilità di trattare tutti gli affari, bisogna usare le risorse disponibili, sempre più scarse, per trattare prima quelli più rilevanti. Proprio per questo molto spesso le priorità sono indicate in negativo, cioè selezionando - anche sulla base dei principi fissati da una legge del 1998, oggi non più in vigore - i reati, ovviamente tra quelli meno gravi, per i quali rinviare la trattazione dei procedimenti salvo che ci sia l’espressa richiesta di una delle parti. Non è certamente la soluzione ideale ma il problema, come si è detto, è a monte e l’adozione dei criteri di priorità è solo un modo per limitarne gli effetti negativi. Nè sono state finora individuate soluzioni migliori. A volte si affaccia l’ipotesi che sia il Parlamento a formulare con cadenza annuale i criteri di priorità; ma tale indicazione non potrebbe che essere estremamente generica, avulsa dalle peculiarità delle situazioni concrete, e quindi sostanzialmente inutile. Diverso è invece il caso in cui il legislatore dispone la trattazione prioritaria di specifiche materie, com’è avvenuto di recente con la legge sul cosiddetto codice rosso in tema di violenze sessuali e di reati nell’ambito familiare; in questo caso l’indicazione è specifica e ovviamente vincolante per gli uffici giudiziari. Naturalmente, anche nell’ambito dei procedimenti considerati “prioritari”, molto resta affidato alle scelte del singolo magistrato, che dipendono dalla valutazione del caso specifico (la gravità del fatto, le richieste della persona offesa, le concrete possibilità di successo delle indagini che in concreto è possibile svolgere), ma su cui contano anche la sua capacità professionale, la sua sensibilità a particolari tematiche (per esempio, quelle ambientali piuttosto che la criminalità organizzata) e - non ultimo - il suo carico di lavoro. Questo ci porta a ribadire una considerazione che va molto oltre il tema delle priorità. La giustizia penale non può essere affidata a un computer ed è una pia illusione quella di poter fissare regole che riducano ogni decisione a una mera operazione tecnica, che eviti tanto la necessità di una scelta quanto la possibilità dell’errore umano. Ci sono certamente ampi spazi per fissare in modo chiaro e trasparente i criteri di azione degli uffici giudiziari, in particolare delle Procure, per assicurare l’uniformità dell’esercizio dell’azione penale e la prevedibilità delle decisioni. In questa direzione deve essere fatto ogni sforzo possibile. Rimane però sempre un margine, più o meno ampio, di valutazione discrezionale, che non significa arbitrio ma lo sforzo di individuare la soluzione migliore e più corretta nella situazione concreta, tenendo conto di tutta la complessità delle questioni in gioco e - insieme - dei limiti oggettivi costituiti dalle risorse di mezzi e di tempo disponibili. Questo rimane inevitabilmente compito e responsabilità del magistrato, ricordando che, come scrisse Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” assassinato in Sicilia trenta anni fa, “decidere è scegliere e, a volte, scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare”. Decreto Ristori bis, dai penalisti arriva un coro di no di Valentina Stella Il Dubbio, 16 novembre 2020 Il nuovo tema su cui abbiamo chiesto di esprimersi ai candidati presidenti alla Camera Penale di Roma riguarda i due articoli contenuti nel dl Ristori bis: quello che sostanzialmente punta a cristallizzare le Camere di Consiglio delle Corti di appello da remoto e quello che sospende la prescrizione e la decorrenza dei termini custodiali, data l’emergenza sanitaria. Come è noto le elezioni si terranno il 2, 3 e 4 dicembre ma al momento non si conosce ancora la modalità di voto: se presso un seggio fisico o online. A tal fine in questi giorni è prevista una riunione del Consiglio direttivo presieduto da Cesare Placanica. Bisognerà comunque capire se ci sarà un lockdown generale e che effetti avrà sulle modalità di voto. Tornando alla questione sottoposta all’attenzione dei tre penalisti, ecco le loro opinioni. Per l’avvocato Francesco Gianzi, candidato presidente per la lista “Aria Nuova”, “non si può rimanere muti a fronte della evidente lesione della democrazia e dei diritti della difesa emergenti dal testo del decreto “Ristori-bis”. Non si può non prendere atto che al di là dell’emergenza, il provvedimento sembra dimenticarsi dei protagonisti del processo penale: i diritti costituzionali. Non può sottacersi che sul delicatissimo tema della sospensione della prescrizione, con riferimento ai processi pendenti nel periodo che va dal 9 marzo al 30 giugno di quest’anno, siamo in attesa della decisione della Consulta prevista tra qualche giorno. Non dimentichiamo che la prescrizione penale risponde all’esigenza di evitare che chi è innocente resti sine die senza un processo che si concluda con la sua assoluzione e che, quindi, lo stesso resti come in un limbo, in attesa di essere giudicato”. Per l’avvocato Ciccio Romeo, “il Difensore scompare, insieme all’imputato detenuto, dall’udienza di celebrazione del giudizio di appello. Si tratta di un provvedimento adottato da improvvisati legislatori dell’emergenza che naviga nella direzione dell’eliminazione del secondo grado di giudizio tanto cara ai più feroci giustizialisti. Se non bastasse, l’articolo 24 sospende la prescrizione e la decorrenza dei termini custodiali: l’epidemia diventa, così, un’afflizione ulteriore per l’imputato. L’Anm, dopo aver protestato per la mancata occasione di istituire il primo grado di giudizio da remoto, sembra avere ottenuto un “ristoro” con il giudizio di appello cartolare. Pensiamo sia necessario evitare ogni deriva emergenziale in danno del principio cardine dell’oralità, per questo invitiamo a chiedere la celebrazione del giudizio di appello in pubblica udienza, convinti come siamo che proprio nella situazione attuale sia necessario difendere l’imputato e il codice di rito”. Per l’avvocato Vincenzo Comi, attuale vice presidente dei penalisti romani, “è irresponsabile formulare giudizi senza essere realisticamente ancorati alla drammatica situazione sanitaria che stiamo vivendo davanti a tante persone che combattono contro questo virus. Noi penalisti stiamo lavorando in condizioni difficilissime; a ciò si aggiunge una legislazione d’urgenza approssimativa e in alcuni punti inaccettabile. Non si può fare il “sub processo” per dire che la giustizia nonostante tutto - va avanti. Lo diciamo chiaramente: non si può stracciare la Costituzione e identificare il processo penale con una pratica burocratica alla stregua della richiesta del bonus bicicletta. L’appello era già in uno stato di profonda crisi e sofferenza per i ritardi nella trattazione dei procedimenti con numeri di pendenze e prescrizioni allarmanti. Non è possibile ora accettare che la camera di consiglio si svolga da remoto. Serve tecnologia efficace per l’attività organizzativa degli uffici giudiziari. Dal 9 novembre - ad esempio - gli atti potranno essere trasmessi via pec a specifici indirizzi forniti dal ministero. Per ora il Tribunale - su intervento della Camera Penale di Roma - ha deliberato l’utilizzo temporaneo delle caselle già in uso in attesa della attivazione delle nuove”. Stritolati e assolti, non solo Bassolino di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 16 novembre 2020 L’ex sindaco di Napol e governatore della Campania è arrivato alla diciannovesima assoluzione, ma non è l’unico amministratore o politico che nella Seconda Repubblica è stato scagionato dopo essere stato per anni sulla graticola. Forse, dopo la diciannovesima assoluzione di Antonio Bassolino perché “il fatto non sussiste”, bisognerebbe cominciare a stilare un elenco dettagliato delle sentenze di assoluzione che nella Seconda Repubblica hanno scagionato amministratori e politici risultati innocenti dopo essere stati stritolati per anni da inchieste e processi con grande clamore sui media. Scagionati Filippo Penati, figura di rilievo del Pd, l’ex governatore del Piemonte Cota (Lega), l’ex governatore del Lazio Francesco Storace (centrodestra), l’ex sindaco di Terni Leopoldo Di Girolamo (Pd), l’ex sindaco di Parma Pietro Vignali (Forza Italia) la cui caduta per (ingiusta) via giudiziaria ha spianato la strada alla prima vittoria grillina con il nuovo sindaco Pizzarotti. Assolti Clemente Mastella e la moglie Sandra Leonardo, sottoposta peraltro a forti misure restrittive. Neanche assolto, ma addirittura archiviato prima del processo Stefano Graziano, consigliere regionale del Pd. Assolto Nicola Cosentino, ex re campano di Forza Italia. Nemmeno indagato l’ex ministro Maurizio Lupi, costretto a dimettersi perché “coinvolto” in un’inchiesta, idem per l’ex ministra Federica Guidi, data in pasto all’opinione pubblica dopo intercettazioni senza nessuna rilevanza penale. Assolto l’ex presidente dell’Emilia-Romagna Vasco Errani. Assolta la ligure Raffaella Paita (Pd). Assolto dopo carcere e lunghi arresti domiciliari subiti ingiustamente l’ex ministro Calogero Mannino. Assolto l’ex assessore fiorentino del Pd Graziano Cioni. Assolto Roberto Maroni, ex leader della Lega ed ex governatore della Lombardia. Assolto l’ex senatore Pd della Basilicata Salvatore Margiotta. Assolto l’ex sindaco di centrosinistra di Roma Ignazio Marino. Assolto Raffaele Fitto, ex presidente di centrodestra della Regione Puglia. Assolto Beppe Sala, attuale sindaco di Milano. Assolto Riccardo Molinari, parlamentare e dirigente della Lega. Assolto Renato Schifani, ex presidente del Senato di Forza Italia. È solo un elenco, certamente non esauriente, che menziona i casi più noti di politici risultati innocenti dalle accuse della magistratura, accompagnate da ampio risalto mediatico e dalla soddisfazione dei politici di opposto orientamento incapaci di fare lotta politica democratica senza l’aiutino dei procedimenti giudiziari. Gratteri: “Le mafie si adattano anche al lockdown: per loro è un’opportunità” di Carlo Piano La Stampa, 16 novembre 2020 Come le mafie approfittano del caos e della povertà causati dalla pandemia? Stanno sfruttando l’emergenza con criminale lucidità per radicarsi nel territorio, questo è certo. Come farebbe un branco di neri avvoltoi che volteggia in cerchio sulla preda morente. Ne parliamo con un uomo dello Stato in prima linea contro la ‘ndrangheta, il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri. Un calabrese di Gerace che lavora e combatte nella sua Calabria, dove per la politica romana pare un’impresa persino nominare un commissario alla Sanità che non sia negazionista, o che almeno sappia cosa significa fare un piano anti Covid. Una regione dove la zona rossa può anche rallentare la diffusione del virus in ospedali nei quali i letti di terapia intensiva si contano sulle dita, ma non ferma il contagio mortifero delle mafie. Non esiste ancora un vaccino Pfizer per contrastarlo, anche se Gratteri ci prova con tutte le forze. Ha appena scritto un libro assieme ad Antonio Nicaso, scrittore e docente di Storia sociale della criminalità organizzata alla Queen’s University di Kingston, in Ontario. S’intitola Ossigeno illegale e uscirà domani per Mondadori. Ci spiega il titolo? “I soldi delle mafie da tempo sono diventati l’ossigeno dell’economia legale. Si tratta di una commistione di interessi che vede sempre più attestate sullo stesso fronte mafie, politica, imprenditoria e finanza, i cui confini a volte non sono distinguibili”. Quali metodi usano le mafie per sfruttare il lockdown? “Una delle grandi caratteristiche delle mafie è la capacità di adattamento. Anche in questa difficile e delicata situazione, sono riuscite ad adeguarsi, trasformando l’ennesima crisi in opportunità. Hanno cambiato rotte per l’approvvigionamento della droga e hanno modificato i sistemi di spaccio”. Si presentano come benefattori per aiutare i più poveri? È vero che distribuiscono cibo alla popolazione? “Ci sono stati anche casi in cui hanno dimostrato quella generosità interessata che li ha sempre caratterizzati. Non sono mai stati dalla parte della povera gente. Hanno sempre calcolato ogni loro iniziativa, sempre funzionale a logiche di consenso sociale. Garantire cibo, arrivare in certi posti prima dello Stato significa aumentare la loro credibilità sul territorio, garantendo servizi che poi diventano obblighi”. Sono gli usurai a sostituire quello che dovrebbero fare le banche? “Esattamente. Quando la stretta creditizia aumenta, gli usurai vanno a nozze. In momenti come questi, è facile sostituirsi alle banche, rilevare aziende in crisi, investire il denaro della droga. È nei momenti delicati come questi che le mafie, quelle che hanno soldi da investire, prosperano”. Come è possibile che le mafie arrivino sempre prima dello Stato? “Sono meno burocratizzate dello Stato. Conoscono meglio il territorio, sono sempre presenti, a differenza di certi politici che si fanno vedere solo in occasione delle tornate elettorali”. Le mafie da sempre sfruttano eventi drammatici e crisi per incrementare il proprio giro di affari: pandemie, terremoti, alluvioni… “È il tema del nostro libro. Abbiamo cercato di documentare come le mafie abbiano sempre sfruttato le calamità per arricchirsi, per infiltrarsi nelle istituzioni, per mettere le mani sui soldi delle varie ricostruzioni. Dal tempo del colera dell’800 ai terremoti del ‘900 e del Duemila. Il sisma in Campania del 1980 ha ridato vita alla camorra che vivacchiava tra mercati ortofrutticoli e paranze”. Lei ha proposto ai sindaci di mandare gli elenchi dei destinatari di aiuti statali alla prefettura per fare controlli. Altrimenti si premieranno gli evasori totali. Come è finita? “Qualcuno ha anche scritto che volevo militarizzare gli enti pubblici. Ritengo che l’idea di vagliare le varie richieste fosse un modo per facilitare il compito degli amministratori. Ci sono state inchieste che hanno accertato l’indebita richiesta di sussidi e del reddito di cittadinanza da parte di mafiosi, ‘ndranghetisti, camorristi. Nonostante i traffici in cui sono coinvolti, amano presentarsi come morti di fame”. Le mafie non sono quindi da considerare solo un problema di ordine pubblico... “Guai a continuare a pensarlo. Questo è il grande problema, da sempre. Le abbiamo considerate per troppo tempo un problema di ordine pubblico. Da affrontare con le manette e le sentenze. La lotta alle mafie è anche un problema culturale. Per sconfiggerle bisognerebbe anche affrancare la gente dalla paura e dal bisogno”. Risulta che le mafie siano le uniche “aziende” a essere cresciute senza risentire della crisi nel corso del 2020. “È purtroppo un dato indiscutibile, basta sfogliare i dati sui reati consumati nel periodo del primo lockdown e confrontarli con quelli dell’anno precedente. Tutti i reati sono aumentati. La pandemia non ha affatto fermato le organizzazioni mafiose”. Quanta responsabilità ha la ‘ndrangheta nel disastro della sanità calabrese? “La responsabilità è equamente distribuita. La Calabria sconta ritardi di mala gestione e continua a soffrire per atteggiamenti politici molto discutibili. Non voglio entrare nel merito politico, non è mio compito. Ma da calabrese non vivo bene questa situazione di una terra continuamente martoriata e abbandonata a sé stessa”. Secondo lei la zona rossa favorisce le organizzazioni mafiose? “Diciamo che le zone rosse non fermano le mafie”. Qual è l’identikit del mafioso del 2020, non certo quello con coppola e lupara della tradizione? “Le mafie sono riuscite sempre a coniugare vecchio e nuovo, tradizione e innovazione. Il mafioso del 2020 è un individuo che riesce a adattarsi, investe lontano dai territori di origine, gode del sostegno di professionisti senza scrupoli e di politici avidi di potere”. L’Europa sottovaluta le mafie? “Tantissimo. In Europa c’è ancora chi pensa che il problema delle mafie sia esclusivamente legato all’Italia. L’Europa fa lo stesso errore che faceva l’Italia negli anni 60 quando riteneva che il problema fosse solo siciliano. Le mafie hanno dimostrato di sapere sfruttare le opportunità legate a una legislazione molto farraginosa e alla mancanza di cooperazione internazionale nella lotta contro mafie e corruzione”. Ho letto delle intercettazioni tra mafiosi, quando cadde il Muro, in cui si diceva agli emissari di comprare tutto quello che riuscivano, senza limiti di spesa, a Berlino Est… “La caduta del Muro di Berlino ha rappresentato uno spartiacque. Prima i mafiosi seguivano le rotte della vecchia emigrazione italiana. Dalla caduta del Muro in poi sono andati dove domanda e offerta si incontrano. Si sono aperti spazi immensi per investire il denaro delle attività illecite e le mafie hanno sfruttato l’occasione”. “Investe in criptovalute, o almeno dimostra di non escludere la possibilità di pagare partite di droga utilizzando bitcoin o monero. Investe in servizi, in energia rinnovabile. È aperta a molte soluzioni. Se non ci fosse il concorso esterno, o meglio le collusioni con il cosiddetto mondo di sopra, le mafie sarebbero meno forti”. Lei suggerisce di fare sparire dalla circolazione il contante. Come sconfiggere le mafie, sempre che sia possibile? “Mi riferivo a una maggiore tracciabilità del denaro. Ma non è l’unica soluzione. Oggi, per esempio, più che i soldi si spostano le garanzie. Non è facile sconfiggere le mafie. Ci vorrebbe una forte volontà politica che manca, una maggiore collaborazione internazionale che tanti auspicano e la capacità di aggredire i capitali mafiosi, ma soprattutto quel grumo di potere che è l’ossatura del potere mafioso”. Mario Calabresi: “Omertà sull’omicidio di mio padre, a tre uomini non ho mai dato la mano” di Paolo Virtuani Corriere della Sera, 16 novembre 2020 La denuncia del figlio del commissario ucciso dai terroristi nel 1972: “Molti ebbero un ruolo in questa vicenda, poi hanno fatto carriera”. “Una cosa non l’ho mai raccontata: ho sempre stretto la mano a tutti coloro che me la porgevano, ma a tre persone mi sono rifiutato. Quando hanno avanzato la loro mano verso di me, la mia l’ho portata dietro la schiena. È stato il mio modo di dire “Non avete mai detto la verità, ma io la conosco e so il ruolo che avete avuto”. Nell’intenso incontro (a distanza per ragioni di Covid) con Aldo Cazzullo nell’ambito di BookCity Milano, Mario Calabresi ha svelato particolari inediti della sua vita e della genesi del suo ultimo libro, Quello che non ti dicono, incentrato sulla tragica vicenda di Carlo Saronio, rampollo dell’alta borghesia milanese e simpatizzante dei movimenti di sinistra più estremisti degli anni Settanta. Poi, da quelli che credeva compagni, rapito per finanziare la lotta armata e ucciso. L’appello - “Calabresi lancia un appello simile al “chi sa parli” di Otello Montanari, l’ex partigiano che nel 1990 invitò, a 45 anni di distanza dagli avvenimenti, a raccontare i fatti più oscuri del dopoguerra”, aggiunge Cazzullo. “Dagli anni di piombo ci separa una distanza quasi uguale, 40-50 anni, ma alcuni dettagli ancora mancano”. La richiesta di Calabresi si rivolge alla zona grigia, ai simpatizzanti come Carlo Saronio che hanno consentito al terrorismo brigatista di proseguire fino agli anni Ottanta. “C’è chi dice che del terrorismo non si sanno ancora molte cose importanti. Penso invece che la verità storica sia presente, anche se mancano parti di quella giudiziaria”, chiarisce Calabresi. “Ai processi è emerso un quadro preciso della parte stragista legata all’estrema destra e ad ambienti deviati dello Stato, e anche di quella legata alla sinistra extraparlamentare. È come avere di fronte un mosaico: da lontano si capisce il soggetto, quando ci si avvicina si nota che mancano delle tessere. Vorrei che queste tessere venissero ricomposte dai tanti che in quel periodo fiancheggiavano i terroristi”. L’omertà - Secondo Calabresi a distanza di decenni permane un atteggiamento che non esita a definire omertoso. “Qualcuno a sinistra si è offeso perché pensa che l’omertà sia legata solo alla mafia. Io vorrei che i ragazzi di quella generazione, che ora sono dei nonni, uscissero dal loro silenzio. Penso che non abbiano mai voluto raccontare la verità per un motivo: hanno voluto difendere le loro carriere”. Quindi un’incapacità di assumersi le responsabilità di quanto avevano fatto in quei formidabili anni rivoluzionari della loro gioventù? “Alcuni hanno fatto carriera in aziende e nel mondo della comunicazione: come potevano spiegare che stavano dalla parte dei brigatisti? Come lo giustificavano davanti ai figli e ai nipoti? Possiamo anche non rivangare il passato, ma c’è un passaggio fondamentale - dice Calabresi: l’utilizzo della violenza e il rapporto tra politica e violenza. La violenza ha causato solo distruzione e nessun cambiamento sociale. Il terrorismo ha chiuso ogni possibilità di cambiamento, quella stagione ha liberato germi che vivono ancora oggi”. Il rifiuto - Resta una domanda: chi sono le tre persone alle quali si è rifiutato di stringere la mano? “Per l’omicidio di mio padre sono stati condannati in quattro: il mandante morale, il capo del servizio d’ordine di Lotta continua - ancora latitante a Parigi -, chi ha sparato e chi ha guidato l’auto. Ma sappiamo anche chi ha acquistato le armi, chi le ha custodite, chi ha fatto i sopralluoghi, chi faceva il palo, chi ha seguito per giorni l’auto di mio padre. Questi non sono mai stati processati perché mancavano gli elementi. Ma non hanno nemmeno mai parlato. A tre di loro ho rifiutato la stretta di mano”. Prescrizione sospesa per Covid, in arrivo la scelta della Consulta di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2020 Udienza mercoledì sulla legittimità dello stop retroattivo nel lockdown. Il decreto Ristori bis ha riproposto la misura sui rinvii per quarantena. L’emergenza sanitaria rende legittimo sospendere in via retroattiva il corso della prescrizione dei reati? È l’interrogativo rivolto alla Corte costituzionale in relazione all’articolo 83, comma 4 del decreto Cura Italia (decreto legge 18/2020), che ha appunto congelato la prescrizione del reato con efficacia retroattiva per il periodo in cui i procedimenti penali sono rimasti sospesi durante la prima ondata epidemica. La Consulta se ne occuperà mercoledì 18 novembre, in camera di consiglio (dove esaminerà le questioni sollevate con le ordinanze 112, 113 e 117 dai Tribunali di Siena e di Spoleto) e in udienza pubblica (in calendario c’è l’ordinanza 132 del Tribunale di Roma). Ma analoghe questioni sono state sollevate da altre ordinanze. A inizio marzo, il decreto Cura Italia ha rinviato le udienze penali a dopo la fine della fase epidemiologica acuta, con conseguente sospensione di tutti i relativi termini processuali e del decorso della prescrizione. Fuori dallo stop sono rimasti solo i procedimenti a carico di detenuti, in materia di misure di sicurezza e prevenzione, o caratterizzati dalla necessità di assumere prove indifferibili. Dal 9 marzo all’11 maggio non sono quindi decorsi i termini processuali né la prescrizione in tutti i procedimenti rinviati; fino al 3o giugno, termini e prescrizione sono rimasti ancora sospesi se le udienze sono state differite dai capi degli uffici giudiziari in relazione all’evoluzione della situazione sanitaria locale; nei procedimenti di Cassazione pervenuti in cancelleria nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno, per i quali il difensore abbia chiesto la trattazione e sia in gioco la libertà personale, la prescrizione è stata sospesa sino all’udienza di trattazione, e comunque non oltre il 31 dicembre 2020. La questione di costituzionalità - Il punto rilevante del giudizio costituzionale è che la sospensione della prescrizione si applica anche ai fatti commessi prima del 9 marzo 2020, vale a dire prima dell’entrata in vigore delle norme sulla sospensione dei termini. Tuttavia, gli articoli 25 della Costituzione e 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo stabiliscono il divieto di retroattività delle norme penali di sfavore, come ricordato a più riprese dalla Corte costituzionale, in relazione proprio alla disciplina dell’interruzione della prescrizione (ordinanza 24/2017 e sentenza 115/2018). Sul punto è intervenuta anche la Cassazione, che, in un primo momento, conia sentenza 21367/2020, ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 83, comma 4, del decreto cura Italia, ritenendo che il divieto di irretroattività sia proporzionatamente bilanciabile con le straordinarie esigenze dell’emergenza. La Corte ha poi corretto il tiro (con le sentenze 25222/2020 e 25433/2020), confermando l’inderogabilità del principio che vieta l’applicazione retroattiva della norma di sfavore ma escludendo l’incostituzionalità della sospensione introdotta dal decreto cura Italia in forza dell’articolo 159 del Codice penale, ove è stabilito che Io stop della prescrizione scatta in ogni caso in cui la sospensione del procedimento “è imposta da una particolare disposizione di legge”. L’argomentazione rischia comunque di scontrarsi con il fatto che, se è pur vero che l’articolo 159 era già vigente all’epoca della commissione del reato, non può negarsi che la fonte normativa, ovvero il decreto cura Italia, che rende operativa la sospensione del procedimento - e dunque integra in modo decisivo la norma penale sostanziale - è successiva. Non è una questione da poco, tanto è che le Sezioni Unite della Cassazione, chiamate a chiarire l’esatto perimetro applicativo dello stop della prescrizione relativa ai giudizi di legittimità, hanno rinviato la decisione all’esito della Corte costituzionale. Il verdetto della Consulta diventa ancora più importante alla luce del fatto che, nell’articolo 24 del decreto Ristori-bis (decreto legge 149/2020), in vigore da lunedì 9 novembre, il legislatore ha previsto un’analoga causa di sospensione della prescrizione nei giudizi penali rinviati per l’assenza, dovuta a isolamento fiduciario o quarantena, di un testimone, dell’imputato di un reato connesso, del perito o del consulente, citati a comparire per esigenze di acquisizione della prova. È chiaro che la declaratoria di incostituzionalità dell’articolo 83 del decreto Cura Italia azzopperebbe la norma del decreto Ristori-bis prima ancora che possa essere applicata. Sequestro probatorio, la restituzione non dipende dalla fine delle indagini preliminari di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2020 È nullità di carattere generale, per lesione delle prerogative dell’accusa, al pari di quelle poste a tutela della difesa. È affetto da nullità il dissequestro disposto per lo scadere del termine delle indagini preliminari, impedendo di fatto all’accusa di effettuare verifiche e consulenze necessarie alla formazione della prova. La Cassazione penale con la sentenza n. 31961/2020 ha perciò annullato l’ordinanza del Gip che accoglieva il reclamo contro il decreto del Pm, che aveva negato la restituzione dell’immobile sottoposto a sequestro probatorio a causa della violazione dei vincoli edilizi in area tutelata. Spiega la Cassazione che il giudice ha mal interpretato il Codice di procedura penale quando, al comma 1 dell’articolo 262, afferma che i beni sono restituiti quando il sequestro non è necessario ai fini di prova e anche prima della sentenza. È quindi questo - e non la conclusione delle indagini preliminari - il parametro in base al quale può essere accolta l’istanza di dissequestro. Se la prova è al centro della finalità della misura, non rileva perciò lo scadere delle indagini preliminari per sostenere “l’inutilità” del sequestro probatorio. Infatti, nel rito ordinario, la prova è eminentemente processuale. Nel caso specifico il procuratore della Repubblica ha impugnato per cassazione e il ricorso è stato ritenuto ammissibile. L’accoglimento da parte dei giudici di legittimità ha anche confermato che è irrilevante tanto che la consulenza tecnica sia stata conferita dal pubblico ministero solo dopo la presentazione dell’istanza di dissequestro quanto che siano stati rilasciati i permessi di costruire in sanatoria. Infatti, la misura del sequestro probatorio garantisce l’espletamento della consulenza tecnica utile ad accertare la legittimità dei provvedimenti stessi e la verifica della doppia conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia - tanto al momento dell’esecuzione quanto a quello del rilascio del titolo sanante - che è alla base della sanatoria. Ferrara. Morto in carcere 45enne, disposta l’autopsia La Nuova Ferrara, 16 novembre 2020 Una tragedia si è consumata nel carcere dell’Arginone, dove un detenuto ha perso prematuramente la vita. A scoprirlo, ieri mattina all’ora della sveglia, sono stati gli agenti carcerari: un magrebino, da un anno recluso nella struttura ferrarese, non ha risposto alle sollecitazioni degli agenti. Immediata la richiesta di soccorsi e sul posto è intervenuta l’auto medica con i rianimatori, che hanno cercato in ogni modo di strappare alla morte l’uomo, appena 45enne. Manovre insistite, ma inutili: alla fine ai sanitari non è rimato altro da fare che constatare il decesso. Una morte per cause naturali, ma, proprio in ragione della giovane età della vittima, il magistrato di turno ha disposto l’autopsia. La salma è stata quindi trasferita all’istituto di medicina legale. Avellino. Covid e carceri, la zona rossa stoppa le visite dei parenti di Flavio Coppola orticalab.it, 16 novembre 2020 Il Garante chiama la Prefettura: “Rischio rivolte e esplosione contagi”. Personale sottodimensionato e anziano, ora anche contagiato. Il direttore del carcere di Avellino, Pastena: “Siamo impegnati con l’Asl per ridurre al massimo i problemi. Qui nessun contagio tra i detenuti”. Da una parte, l’emergenza sanitaria legata al Covid e l’escalation di contagi; dall’altra la zona rossa, che per chi è in prigione significa da subito la sospensione dei colloqui, e dunque la possibilità di nuove e forti tensioni. Nel mezzo, l’atavica assenza di personale che rende ancor più esplosiva la potenziale polveriera delle carceri. Nei giorni scorsi, il garante per i diritti detenuti, Carlo Mele, ha indirizzato ai direttori dei cinque istituti carcerari una nota di forte allarme: “Il vertiginoso aumento dei contagi nelle carceri italiane richiama l’attenzione sull’esigenza di predisporre spazi di effettivo ricovero. Il tema - ricorda - torna ad essere quello della riduzione del numero di presenze”. Mele aveva chiesto uno screening delle persone ristrette in Irpinia, “con particolare riferimento ad anziati, malati, donne e bambini e a quelle per le quali è stata stabilita la misura di sicurezza di natura psichiatrica e che sono illegittimamente detenute solo sulla base dell’indisponibilità di strutture”. Il tutto, anche per “non far ricadere su strutture sanitarie esterne” l’eventuale sviluppo di un contagio. Ora Mele ha chiesto pure un urgente incontro in Prefettura, “perché - spiega - il livello dell’emergenza sta crescendo, e con la zona rossa e il blocco delle visite dei familiari le tensioni cresceranno”. Problemi e tensioni che il direttore del carcere di Avellino, Paolo Pastena, mette nel conto: “Stiamo spendendo il massimo impegno per cercare id assicurare, insieme all’Asl, le condizioni migliori per superare tutti insieme questa emergenza. È un problema per tutti”. Il direttore conferma: al via la sospensione dei colloqui per l’intera durata della zona rossa. Resteranno, per fortuna le video chiamate e le telefonate già concesse ai carcerati. Il guaio di tutte le carceri, però, resta soprattutto il personale. Sottodimensionato, anziano (l’età media intorno ai 50 anni) e ora anche contagiato. I detenuti in Irpinia sono circa 800. Secondo un ultimo contagio, 473 a Bellizzi, 191 ad Ariano, 121 a Sant’Angelo de Lombardi e 6 a Lauro. Ad Ariano sono già esplose forti polemiche per il contagio di 10 operatori, ad Avellino, per ora, la situazione appare meno preoccupante. Ma i problemi sono molto simili. L’organico previsto è di 297 operatori, invece ce ne sono 260, compresi i 50 addetti alle traduzioni in carcere. Fortunatamente, il drammatico sovraffollamento degli anni scorsi non si registra. Uno degli effetti del lockdown, infatti, è stato il mancato arrivo di detenuti da Poggioreale. Così, rispetto ad una capienza di 500 posti, ci sono 470 carcerati. Per intenderci, l’anno scorso, di questi tempi, erano 550, ma si era giunti in passato anche a 670. La buona notizia, ad Avellino, è che in contagi per ora non ci sono tra i detenuti. Frutto anche del lavoro svolto per il rispetto delle precauzioni del caso, con l’isolamento per i nuovi arrivi. Non mancano invece i contagiati nel personale, meno di 10, fanno sapere dalla struttura. L’ultimo screening, su 130 persone, ha dato esito negativo. Perugia. Scoppia un focolaio Covid all’interno del carcere, 8 detenuti contagiati La Nazione, 16 novembre 2020 Un focolaio-Covid, al momento monitorato e contenuto, è scoppiato anche all’interno del carcere perugino di Capanne. Gli 8 detenuti risultati positivi sono emersi a seguito dello screening al quale è stata sottoposta tutta la struttura da parte dell’Asl. I detenuti contagiati sono pauci sintomatici o asintomatici e si trovano - secondo quanto si è appreso - nella sezione penale. Un unico altro caso di positività è risultato in un’altra sezione del Penitenziario. Nei prossimi giorni saranno sottoposti a tampone anche i reclusi della Casa circondariale e la sezione femminile. Fino ad ora il virus era fortunatamente rimasto all’esterno delle sbarre. Un’indagine è subito scattata per tracciare i contatti dei positivi e, ovviamente, isolare gli infetti. La situazione del carcere (360 detenuti circa) è comunque attentamente monitorata dalla direzione del carcere, dalla prefettura e dagli agenti di polizia penitenziaria. L’unico precedente è dei primi di ottobre scorso quando tre detenuti che avevano fatto ingresso dalla libertà, nel carcere di Capanne, erano risultati positivi al Covid-19, dopo essere stati sottoposti al tampone faringeo. Ben altra situazione rispetto a quanto accaduto nei giorni scorsi a Terni con ben 74 casi di positività tra i detenuti (tre dei quali erano stati ricoverati anche in ospedale) che avevano tenuto in apprensione la direzione di Vocabolo Sabbione. Ben 31 detenuti ora si sarebbero negativizzati. Sul caso era anche intervenuto il garante dei detenuti, il professor Stefano Anastasia e il Sappe per chiedere immediati rinforzi alla struttura. Venezia. “Avvocati zittiti ai processi”, protesta della Camera penale di Alvise Sperandio Il Gazzettino, 16 novembre 2020 “Al di là della normativa sui giudizi in tempo di Covid, resta che la trattazione orale del contradditorio è vissuta con crescente fastidio e in Cassazione dilaga la scandalosa prassi di riportarsi ai motivi del ricorso”. A denunciarlo è la Camera penale veneziana con il suo presidente Renzo Fogliata, che a proposito delle impugnazioni delle sentenze davanti al giudice di grado superiore, denuncia la mancanza di dibattito in aula. “Ciò è apprezzato e favorito dai giudici che, stravolgendo i ruoli, liberano immediatamente i difensori che fanno sapere che si riportano, chiamando per primi i loro processi. Gli inviti, rivolti all’oratore, a concludere in fretta sono ormai una costante nei giudizi di impugnazione”, scrive Fogliata in una nota, riferendo di sentenze della Cassazione che rigettano le richieste di un giudizio di legittimità ripetendo gli stessi argomenti adottati nei gradi precedenti, dove invece le valutazioni sono di merito. Problemi ci sono anche in appello: “Prosperano prassi di sostituire la relazione orale, imposta dal legislatore, con relazioni scritte o di richiamare i difensori a trattare oralmente solo se in grado di sviluppare argomenti diversi da quelli trattati nell’atto introduttivo del grado”. Gli avvocati penalisti ricordano l’importanza del confronto davanti al giudice senza limitarsi ai documenti: “L’oralità ha una vita propria. La persuasione, la declamazione, l’accentazione, il dialogo con il giudice, non albergano nella carta. Secoli di evoluzione, cultura, tradizione sorreggono la discussione orale, non casualmente presente in ogni grado del processo penale. Ebbene, con il pretesto - perché di questo si tratta - dell’emergenza epidemiologica, il disegno di una parte della Magistratura si realizza. È ben vero che il difensore può chiedere la discussione orale, ma il rapporto tra regola ed eccezione si capovolge”. Fogliata va all’attacco sostenendo che tutto ciò giova “solo a una parte della Magistratura, la quale, con una commistione alla politica non solo tollerata, ma promossa e disciplinata da norme e istituzioni, siede nei Ministeri; siede, cioè, accanto alla politica, mescolandosi con essa e - di più - dirigendone l’azione e, come in tal caso, la penna. La Camera penale veneziana non rimane silente ad osservare il tramonto del processo, impegnandosi anzi a rendersi promotrice e sostenitrice di profonde riforme”. Padova. Sette positivi in Procura e uno in tribunale. Uffici bonificati di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 16 novembre 2020 Intervento dell’Usl Euganea a Palazzo di giustizia l’altra notte. Sanificato l’intero quarto piano, personale sottoposto ai test. Il virus torna nel Palazzo di Giustizia di Padova. Si sono moltiplicati i casi arrivati venerdì scorso a quota 8 (sette in procura e uno nel Tribunale). Ma nessun focolaio: tutti i contagi sono avvenuti nell’ambito familiare o privato. Venerdì la bonifica da parte dell’ente sanitario di molti uffici scattata alle 21 di venerdì e durata diverse ore fino a notte. Ora il Palazzo è in sicurezza. Nessun timore: le prossime giornate di lavoro possono essere affrontate con serenità. Una quindicina i casi registrati a Palazzo durante il lockdown lo scorso marzo. Con la seconda ondata di coronavirus, i primi due nuovi casi sono scoperti in procura (quarto piano del Palazzo) lunedì 9 novembre quando due dipendenti del personale amministrativo risultano positivi al test: nessuna forma seria di malattia per fortuna. I loro uffici vengono bonificati ed è sottoposto a tampone chi ha avuto contatti con loro. Due giorni più tardi, altri due casi e il copione si ripete fino a venerdì quando risultano altri tre positivi sempre in procura. Si tratta di tre amministrativi, fra i quali un dipendente in ferie da una ventina di giorni, mentre un altro era arrivato da poche settimane “in prestito” da un’altra Pubblica amministrazione ed era a casa da qualche giorno. “Non c’è un focolaio interno” chiarisce il capo della procura, Antonino Cappelleri, “Abbiamo accertato che ogni contagio è avvenuto in ambito privato al contrario di quanto si era verificato la scorsa primavera. L’organizzazione interna regge abbastanza bene. Venerdì ho ottenuto che l’Usl Euganea abbia fatto il tampone a quanti sono entrati in contatto con i dipendenti risultati positivi: per tutti, una trentina di persone, il risultato è stato negativo”. La scelta del procuratore è stata quella del metodo della “tracciabilità” (risalire ai contatti e procedere al tampone) anziché lo screening di massa. Ed è arrivata la conferma che la provenienza del contagio è stata esterna alla procura e anche al tribunale. “Ora abbiamo la certificazione che tutti i casi non hanno portato a una diffusione dei contagi nei nostri uffici. Possiamo dire che sono sicuri anche se il test fotografa quel preciso istante... Speriamo che funzioni. Anche i sindacati ci hanno riconosciuto di aver dato una risposta adeguata”. Un altro caso ha coinvolto un dipendente del tribunale di un ufficio che si trova al piano terra. “Tra mercoledì e venerdì, ovviamente su base volontaria, grazie alla collaborazione dell’Usl e in particolare del direttore generale, il dottor Domenico Scibetta, abbiamo organizzato l’esame sierologico nei confronti di tutto il personale: il primo giorno è toccato agli amministrativi, poi ai magistrati infine al personale ausiliario e a chi aveva mancato l’appuntamento precedente” conferma la presidente del Tribunale, Caterina Santinello. Negativi gli esiti. “Il Palazzo è monitorato e sotto controllo” rileva la presidente. Immediata la sanificazione dopo la scoperta di ogni caso negli uffici occupati dal personale trovato positivo. Tuttavia la scelta di venerdì è stata quella di una bonifica totale di tutti gli spazi occupati dalla procura: alle 21 è iniziata la sanificazione dell’intero quarto piano del Palazzo dove si trovano gli uffici della procura; poi sono stati “igienizzati” un paio di uffici al secondo piano dove opera la Polizia giudiziaria e il casellario giudiziario al piano terra. Infine bonificato anche l’ufficio del tribunale in cui lavora il dipendente trovato positivo. Reggio Emilia. Il Sappe: “Basta trasportare i detenuti in tribunale” Gazzetta di Reggio, 16 novembre 2020 Il segretario provinciale Michele Malorni interpella l’Ausl “Servono test sierologici e tamponi rapidi per gli agenti”. “Il Sappe auspica l’interruzione delle traduzioni di detenuti diretti nelle strutture giudiziarie. L’ultimo Dpcm concede la possibilità che le traduzioni vengano convertite in video-collegamenti. Diverse udienze sono state rinviate, io mi auguro che anche le convalide si svolgano in video-collegamento”. È quanto chiede Michele Malorni, segretario provinciale del sindacato di polizia penitenziaria. La pandemia non risparmia nemmeno gli istituti di via Settembrini, dove è scoppiato un altro focolaio: 7-8 dipendenti, tutti amministrativi, sono risultati positivi al Covid-19. Finora nessun contagiato tra i detenuti e gli agenti. Tuttavia, in una lettera inviata alla Direzione generale dell’Ausl di Reggio Emilia, il Sappe ha sollecitato “test sierologici e tamponi per l’intero personale della struttura, che garantisce un servizio essenziale”. Si tratta di numeri ingenti: attualmente sono circa 200 gli agenti polizia penitenziaria, 40 gli amministrativi e 378 i detenuti. “Siamo oltre 600 - commenta Malorni - se poi consideriamo i volontari, i fornitori che entrano per portare la merce, docenti, infermieri, medici, due sacerdoti, i parenti che entrano per i colloqui, è una comunità numerosa: ogni giorno gravitano intorno al carcere circa mille persone”. Uno screening sui detenuti è già assicurato, visto che “i reclusi vengono monitorati all’ingresso e al decimo giorno, quando, una volta finito il periodo di osservazione, si rifà il tampone e se è negativo vengono spostati nelle sezioni. Invece per gli agenti della Penitenziaria è previsto il tampone solo se si ipotizza un contatto con positivi, mentre i test sierologici finora sono stati eseguiti solo su una quarantina di agenti. Adesso noi chiediamo test sierologici venosi periodici o in alternativa tamponi a tappeto per tutta la polizia penitenziaria”. Il direttore generale dell’Ausl Cristina Marchesi ha risposto positivamente rassicurando sia sull’esecuzione di test sierologici a cadenza periodica sia sull’imminente fornitura del tampone rapido per gli agenti. “Ringrazio pubblicamente la dottoressa Marchesi perché ha risposto con prontezza, dimostrando di essere attenta al fenomeno - conclude Malorni. C’è da dire che anche l’amministrazione penitenziaria si sta muovendo. La direzione ha richiesto due termo-scanner per il rilevamento della temperatura, le forniture di mascherine sono abbondanti, ad inizio settimana alcuni addetti si recheranno a Roma per il ritiro di una partita di tamponi rapidi mentre nel prossimo fine settimana si effettuerà una sanificazione profonda degli automezzi e degli ambienti”. Prato. “Un parcheggio per il carcere della Dogaia” di Stefano De Biase La Nazione, 16 novembre 2020 In un giorno raccolte oltre 300 firme. Tra i promotori l’ex presidente del quartiere ovest Giovanni Mosca. Un parcheggio per il carcere della Dogaia. È la richiesta contenuta in una petizione promossa dalle centinaia di persone che ogni giorno frequentano per motivi di lavoro la casa circondariale di Maliseti. In sole quattro ore (è stato organizzato tutto in un unico pomeriggio proprio in virtù delle restrizioni anti-contagio) sono state 332 le firme raccolte dai promotori dell’iniziativa, fra i quali figura anche l’ex presidente della Circoscrizione Ovest, Giovanni Mosca. La mancanza di un parcheggio dedicato al carcere è ormai un problema che il secondo istituto penitenziario della Toscana si porta avanti fin dalla sua apertura, ben 34 anni fa. Chi lavora alla Dogaia è costretto a lasciare l’auto ai lati della carreggiata fra fango e buche. E qualcuno a volte ostruisce anche l’accesso alla ciclabile. “Alla Casa circondariale di Prato lavorano circa 350 persone fra agenti di polizia penitenziaria e comparto ministeriale - dice Giovanni Mosca. A questi si aggiungono il personale sanitario, gli insegnanti, gli avvocati e i soggetti che per vari motivi entrano nella struttura. Di fatto sono presenti circa 500 persone al giorno nel carcere. Possibile che non possano contare su un parcheggio pubblico?”. Secondo i promotori della petizione, che chiede al sindaco di attivarsi per trovare una soluzione al problema, ci sarebbero due aree dove potere realizzare il parcheggio. La prima accanto agli alloggi demaniali, l’altra nella parte finale di via la Montagnola. Prima di tutto però servono gli espropri e un progetto di massima. “Per finanziare l’intervento si potrebbe chiedere anche l’aiuto economico del ministero - aggiunge Mosca. D’altronde dovrebbe essere interesse anche degli uffici romani dare risposta a questa istituto. Però, prima di muoversi con Roma, è imprescindibile avere un progetto di massima. Un’altra soluzione, invece, potrebbe essere quella del project financing. Ma in ogni caso è necessario che si muova la politica”. Nel testo della petizione si ricorda anche la mancanza di servizi a supporto del carcere. Come, ad esempio, l’assenza della fermata dell’autobus, che costringe molti parenti dei detenuti ad arrivare in taxi alla Dogaia nei giorni delle visite. “Già nel 2018 il consiglio comunale approvò all’unanimità una mozione per chiedere un parcheggio per il carcere - sottolineano alcuni agenti di polizia penitenziaria in servizio a Prato - Quell’atto però è rimasto lettera morta. Poi, a ogni campagna elettorale, politici di tutti i colori fanno passerella alla Dogaia e promettono di impegnarsi per realizzare il parcheggio. Finora però abbiamo ascoltato solo promesse e non abbiamo visto dei fatti concreti”. Covid, errori e misure tardive: bisogna trovare soluzioni per i prossimi lunghi mesi di Sergio Harari Corriere della Sera, 16 novembre 2020 C’è un grande pericolo: non vorremmo dover affrontare domani una terza emergenza con la stessa impreparazione. I prossimi dieci giorni saranno fra i più difficili della storia recente di questo Paese, colpito come gran parte dell’Europa da una seconda ondata pandemica ampiamente prevista, alla quale siamo andati incontro con incosciente ottimismo. Dieci giorni nei quali i ricoveri continueranno a crescere prima che si faccia sentire l’effetto delle misure restrittive messe in atto tardivamente e tra troppi mugugni, tra rimpalli di responsabilità e accuse francamente deprimenti. Rassegnazione, rimozione e negazione sono le parole che meglio rappresentano i sentimenti che hanno portato a questa drammatica situazione. Abbiamo voluto credere che tutto si sarebbe concluso la scorsa estate, che eravamo stati talmente bravi che il virus se ne sarebbe andato per sempre, e ci siamo beati nell’immagine ottimistica dell’Italia che ci veniva rimbalzata dall’estero. Ma eravamo solo in ritardo sulle curve epidemiologiche rispetto agli altri, così come le avevamo invece anticipate a marzo, non ci voleva molto per intuirlo. Bastava osservare da agosto il progressivo graduale aumento dei ricoveri con numeri dapprima a due cifre, poi a tre e, infine, a quattro, prima che si cominciasse a polemizzare sul da farsi. Intanto i nostri concittadini morivano e muoiono quotidianamente ma, appunto, il Paese sembra ormai rassegnato a perdere centinaia e centinaia di vite ogni giorno. Le misure restrittive adottate sono lontane dal duro lockdown attuato la scorsa primavera, daranno risultati meno netti e impiegheranno più tempo a flettere significativamente la curva epidemiologica e ridurre i ricoveri. Non spetta a chi come me è un tecnico valutare se queste siano il giusto compromesso tra esigenze sociali, economiche e di salute pubblica, ma a noi sanitari resta la preoccupazione per i letti da trovare e i malati da assistere mentre il territorio rimane anche stavolta completamente sguarnito. Sempre più soli, decimati da malattie, lutti e quarantene, stanchi e provati gestiamo anche questa seconda emergenza, ma non vorremmo domani dovere affrontare con la stessa impreparazione una terza ondata. Le pandemie hanno storie che si ripetono nel tempo e una nuova ondata dopo una attesa e quanto mai sperata flessione della diffusione virale è purtroppo una concreta possibilità. L’uscita da questo incubo verrà solo quando disporremo di un vaccino efficace e potremo somministralo a tutti, un obiettivo che non si raggiungerà domani, nel frattempo è meglio essere realisti, pensiamo oggi a cosa potremmo trovarci a gestire nei prossimi lunghi mesi, immaginiamo scenari e soluzioni per tempo. Abbiamo commesso un sufficiente numero di errori, sarebbe ora di fermarsi e riflettere bene. L’anomalia della scuola tradita di Francesco Drago e Lucrezia Reichlin Corriere della Sera, 16 novembre 2020 A seguito della prima ondata del Covid-19 l’Italia è il Paese che ha mantenuto più a lungo le scuole chiuse. Però i dati mostrano che sospendere la didattica in presenza nelle scuole ha dei costi certi, ma benefici molto incerti. Molte sono le caratteristiche comuni delle strategie anti-virus adottate dai Paesi europei. Ma ce ne è una che distingue l’Italia dagli altri: quella sulla scuola. A seguito della prima ondata del Covid-19 l’Italia è il Paese che ha mantenuto più a lungo le scuole chiuse. E con la seconda ondata siamo il primo Paese europeo a chiuderne una buona parte. Dopo l’aggravarsi della curva epidemica, infatti, il governo ha stabilito la didattica a distanza per tutte le scuole superiori. A questo si aggiunge un divario regionale. La Campania, che già aveva riaperto dopo tutte le altre regioni, da metà ottobre ha chiuso tutte le scuole di ogni ordine e grado. La Puglia ha adottato la stessa decisione a fine ottobre ed altre iniziative locali simili da parte di sindaci sono in atto in altre regioni. Non vogliamo sottovalutare le ragioni di chi è preoccupato dal contagio e dalla tenuta del sistema sanitario, ma - soprattutto in un lockdown selettivo - i benefici di certe scelte vanno valutati rispetto ai costi. I dati mostrano che sospendere la didattica in presenza nelle scuole ha dei costi certi, ma benefici molto incerti. Partiamo dai benefici. Non è chiaro quanto la chiusura delle scuole riduca il contagio. La riduzione del contagio dipende dal contesto in cui le scuole vengono riaperte (ad esempio dai protocolli e dal trasporto pubblico locale associato all’attività scolastica), da come e dove trascorrono il loro tempo gli studenti colpiti dai provvedimenti di chiusura e dal tipo di scuola (primaria o secondaria). In alcuni casi, come in quello tedesco, la riapertura sembra addirittura aver ridotto il contagio nella fascia di popolazione più giovane, lasciandolo invariato nella popolazione più adulta. Come anche alcuni autorevoli medici accademici hanno sottolineato su queste colonne (Remuzzi e Villani), in presenza di rigidi protocolli, la propagazione del contagio a scuola è limitata. Vero, in certi Paesi si è riscontrato un aumento considerevole di contagi in concomitanza alla riapertura della scuola, ma non è chiaro che ci sia un nesso causale tra le due cose perché molte altre riaperture sono avvenute allo stesso tempo. Correlazione non implica causalità. Osservare che in concomitanza dell’apertura della scuola i contagi aumentano non implica necessariamente che in assenza dell’apertura i contagi sarebbero stati più bassi. E stimare l’impatto della chiusura sui contagi in Italia è un’impresa ardua, specialmente in assenza di dati dettagliati che purtroppo non sono disponibili. Parliamo ora dei costi. Su questi ultimi c’è meno incertezza. La chiusura danneggia tutti gli studenti anche quando viene attivata la didattica a distanza. Chiusure prolungate hanno effetti permanenti sul rendimento scolastico, sulle abilità cognitive, sulla propensione all’abbandono scolastico e sullo stato psicofisico dei nostri studenti. Non è innocuo chiudere per uno o due mesi oggi, specialmente in un Paese in cui la scuola era stata già penalizzata dalla chiusura di marzo. Montagne di studi nelle scienze sociali ci dicono che chiudere la scuola oggi rappresenta una ipoteca sul futuro di una intera generazione. Costi certi e benefici incerti caratterizzano anche la chiusura di altre attività, ma la scuola è un settore in cui i danni associati alla sospensione della didattica non si recuperano più. Sono perdite permanenti per gli studenti e quindi per tutto il Paese. Cosa spiega questa anomalia italiana sulla chiusura della scuola? La scarsa attenzione alla formazione è uno dei problemi storici dell’Italia che ha caratterizzato governi di ogni colore. Gli effetti si sono visti con i risultati dei test Pisa (Programme for International Student Assessment) - prima della pandemia - decisamente poco incoraggianti specialmente per alcune regioni italiane, ma anche con gli alti tassi di abbandono scolastico e la bassa percentuale di laureati. Oggi si constata che, paradossalmente, proprio dove c’è bisogno di più scuola c’è più disponibilità a chiudere. E c’è una ragione politica per questo, come dimostrato dalla correlazione con altri indicatori. Per esempio, le regioni meridionali, che hanno chiuso prima di altre, sono anche quelle in cui la bassa partecipazione al mercato del lavoro femminile (solo una donna su tre lavora nel Mezzogiorno) e le maggiori carenze nel tracciamento dei contagi, rendono politicamente meno costosa la sospensione della didattica. Ma la ripartenza dopo questa drammatica crisi, così come la trasformazione necessaria a innalzare il nostro tasso di crescita nel lungo periodo, può solo basarsi sulla forza delle nuove generazioni come motore di un percorso virtuoso, di rinascita. Si è parlato molto in questi mesi di costruire una società resiliente, cioè capace di assorbire l’impatto di eventi negativi anche nel futuro. Indebolire il processo di accumulazione di capitale umano con periodi prolungati di chiusura delle scuole non è certo il modo migliore di costruirla. Ed è chiaro che la sospensione della didattica ci pone in una posizione di svantaggio nel contesto internazionale. Non vi è solo un problema di sviluppo di lungo periodo ma anche un tema di equità. Uno degli aspetti più preoccupanti della chiusura delle scuole è la penalizzazione maggiore degli studenti vulnerabili e di quelli provenienti da contesti socio-economici più svantaggiati. Gli effetti distributivi sono rilevanti anche in termini intergenerazionali. Il funzionamento dell’ascensore sociale dipende dalla scuola. Chiudendola, l’ascensore si blocca. La scuola era un’emergenza prima della pandemia. Oggi è un dramma che se non affrontato avrà effetti devastanti e duraturi. Proteggere la formazione dei nostri ragazzi dovrebbe essere una priorità nazionale attorno a cui costruire politiche adeguate che minimizzino i costi del contagio. Per questo bisogna adottare soluzioni innovative in linea con gli altri Paesi europei che le scuole le mantengono aperte anche in condizioni sanitarie più critiche della nostra. È importante che l’impegno sia nazionale. Un Paese moderno non dovrebbe consentire disparità di trattamento dei suoi cittadini sul diritto all’istruzione. Anzi, dovrebbe arginare ulteriori chiusure ripristinando un principio di equità orizzontale che metta tutti i cittadini nelle condizioni di godere dei diritti fondamentali allo stesso modo. Se la chiusura di tutte le scuole in alcune aree del Paese - come sembra - è dettata da carenze organizzative sul tracciamento dei contagi in ambito scolastico, si intervenga urgentemente con risorse umane e materiali per rimettere le regioni inadempienti in linea con il resto del Paese. Non vogliamo sottovalutare i fattori specifici che rendono difficile mantenere il sistema scolastico operativo anche con soluzioni ibride, ma se si riconosce in questo una priorità, si agisca in modo conseguente con misure adeguate e congrue all’emergenza. Il governo ha costruito un largo consenso sulla priorità della scuola e della salute, elementi essenziali per la resilienza della nostra società. Oggi deve dimostrare il suo impegno proteggendo la scuola perché è dal futuro delle giovani generazioni che dipende il futuro del nostro Paese. Querele temerarie, i figli di Daphne: “L’Europa le combatta in nome di nostra madre” di Matthew e Andrew Caruana Galizia Corriere della Sera, 16 novembre 2020 In un editoriale, sottoscritto da 87 associazioni, tra cui l’Obc Transeuropa, gli eredi della reporter maltese uccisa spiegano perché le Slapp hanno effetti devastanti sulla libertà di informazione. Pubblichiamo, in esclusiva per l’Italia, un editoriale di Matthew e Andrew Caruana Galizia, figli della giornalista maltese uccisa da un’autobomba il 16 ottobre 2017. Al momento della morte, su Daphne Caruana Galizia incombevano decine di querele per diffamazione, querele pretestuose innescate da chi la voleva mettere a tacere, querele che a livello internazionale abbiamo imparato a conoscere come Slapps (strategic lawsuits against public participation). L’editoriale è sottoscritto, oltre che da Obc Transeuropa (Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa), da altre 86 organizzazioni, da Amnesty International alla federazione europea dei giornalisti, da Greenpeace a Index on Censorship, dalla Daphne Caruana Galizia Foundation a Transparency International. Un caldo pomeriggio di primavera, a Malta, rientrando a casa in macchina, una giornalista nota qualcuno nei pressi dell’ingresso: si tratta di un ufficiale giudiziario impegnato ad incollare sul cancello centinaia di fogli di carta. I due cani da guardia stanno abbaiando a più non posso, con il muso attraverso l’inferriata cercano di mandarlo via, ma l’ufficiale è deciso a portare a termine quanto sta facendo. Il tribunale lo ha incaricato di notificare alla giornalista Daphne Caruana Galizia 19 querele per diffamazione presentate tutte insieme da un potente e ricco uomo d’affari. Pochi mesi dopo, la giornalista sarebbe morta, uccisa da un’autobomba telecomandata. Noi facciamo parte di un gruppo di organizzazioni della società civile che considera questo episodio il caso più eclatante di Slapp, aggravato dal fatto che, dopo la morte di Caruana Galizia, le querele sono ricadute sulle spalle del vedovo e dei tre figli. L’acronimo “Slapp” (Strategic Lawsuits against Public Participation, querele strategiche contro la partecipazione pubblica) indica una forma di persecuzione giudiziaria pensata per intimidire e zittire le voci critiche. Prestigiosi studi legali senza scrupoli offrono questi servizi particolarmente aggressivi a ricchi e potenti che si possano permettere di trascinare una causa pretestuosa per anni, pur di potersi sottrarre al controllo dell’opinione pubblica. Ma questo controllo è l’ossigeno di ogni sana società democratica. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e altre corti nazionali e locali hanno più volte esplicitamente riconosciuto quanto sia importante il ruolo di una stampa libera, e per esteso della società civile, nel monitorare le azioni dei potenti. Queste sentenze riaffermano l’obbligo degli stati di creare un ambiente che garantisca la libertà di parola. Perché senza, la democrazia si indebolisce e muore. Le lacune nelle nostre leggi che permettono ai potenti di piegare chi li critica fino a sottometterli, sono una lacuna nella democrazia europea. Abusi di questo tipo sono disseminati in tutto il continente. In Polonia, Gazeta Wyborcza, il secondo quotidiano più diffuso, in cinque anni ha ricevuto più di 55 tra querele e minacce di querele da parte di diversi soggetti, la maggior parte membri del partito di governo. L’imprenditore francese Vincent Bolloré e aziende legate al gruppo Bolloré hanno trascinato giornalisti e ong in cause di diffamazione per evitare che si parlasse degli affari dell’azienda in Africa. In Spagna, il produttore di carne Coren ha chiesto un milione di dollari di danni a un attivista ambientale che ne aveva criticato le pratiche di smaltimento rifiuti, mentre in precedenza l’azienda aveva minacciato altri attivisti e scienziati che stavano analizzando i livelli di nitrato nelle acque. Questi attacchi legali estremamente costosi e impegnativi per chi li riceve non fanno che distrarre, ostacolare, se non bloccare del tutto, il lavoro di informazione da cui dipendiamo per sapere quanto ci accade attorno. E la situazione è ancora più contorta di quanto si possa pensare. Quando si tratta di certi individui, governi, aziende e argomenti, non sono gli autori, i documentaristi o i giornalisti a decidere che cosa noi potremo leggere, guardare, o di che cosa potremo parlare. E non sono neppure i tribunali, visto che le Slapp raramente arrivano in aula, figurarsi a giudizio. A decidere per noi, grazie ad avvocati ben retribuiti, sono invece gli oligarchi e i loro amici in politica: sono loro a plasmare la narrazione e impedire che emerga la verità. Stiamo assistendo all’emergere in Europa di un preoccupante schema in cui anche funzionari pubblici o vincitori di grossi appalti adottano le tattiche dei ricchi e famosi per sottrarsi al controllo dell’opinione pubblica; il fatto poi che le minacce siano spesso transnazionali fa lievitare i costi per giornalisti e attivisti, che si trovano convocati in tribunale lontano da casa, nelle giurisdizioni più care d’Europa. La sensibilità sulla questione sta crescendo. La vice presidente della Commissione Europea V?ra Jourová ha promesso di “esaminare tutte le possibili opzioni” per contrastare la minaccia che le Slapp pongono alla democrazia in Europa. Una soluzione promettente dalle istituzioni dell’UE potrebbe consistere nel rivedere l’equilibrio fra il diritto degli autori di querele temerarie e il diritto dei cittadini ad essere informati su questioni di pubblico interesse. La legislazione europea da adottare dovrebbe proteggere tutti i cittadini europei dalle Slapp. Si tratta di una priorità. Come altrove nel mondo, si dovrebbero applicare anche nella Ue delle misure che permettano di archiviare le cause temerarie a uno stadio iniziale della procedura, nonché di sanzionare gli autori di Slapp quando abusano della legge e dei tribunali, e di trovare strumenti efficaci a tutela delle vittime. Se consideriamo il ruolo che giornalisti, attivisti e whistleblower (segnalatori di corruzione) svolgono per lo stato di diritto e per la lotta alla corruzione, l’assenza di tutele costituisce una minaccia non soltanto alla libertà di stampa ma anche al corretto funzionamento del mercato interno europeo e ancor di più alla vita democratica dell’Europa. La realtà è che per ogni giornalista o attivista minacciato con la violenza in Europa, altri cento sono zittiti con discrezione da lettere inviate da studi legali, che abusano di quelle stesse leggi pensate per tutelare la reputazione degli innocenti dagli attacchi dei potenti. Le Slapp sono un mezzo per intimidire e zittire certo meno barbaro di un’autobomba o di una pallottola in testa, ma il loro effetto sulla libertà di parola è spesso altrettanto devastante. Profughi, lotta al terrorismo. Un incendio che ora minaccia l’intero Corno d’Africa di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 16 novembre 2020 L’allarme si estende a Somalia, Sudan e Gibuti. E all’Egitto con la disputa per le acque del Nilo. Il fuoco che sta incendiando il Corno d’Africa rischia di divampare ben oltre il Tigrai e l’Etiopia. La stabilità dell’intera regione, e dunque di mezzo continente africano, è scossa: lo scontro fra il gruppo di potere tigrino che si riconosce nel Tplf e sembra deciso alla secessione da una parte e il governo federale di Abiy Ahmed dall’altra ha già coinvolto l’Eritrea, ma potrebbe arrivare molto più in là. In ballo è l’integrità dell’Etiopia: per questo il governo di Addis Abeba non ascolta i richiami a usare mezzi diplomatici e considera “interna” la questione del Tigrai. Nel breve termine, gli etiopici cercano una soluzione militare rapida, ma a disposizione del Tplf c’è una fetta robusta delle forze armate federali. L’incognita fondamentale è interna al Tigrai: quanti ufficiali schierati nella regione a nord sono favorevoli alla rivolta, quanta parte della popolazione tigrina ascolterà i richiami nazionalisti e sosterrà il Tplf anche di fronte a difficoltà economiche e di approvvigionamento. Gli eritrei, apparentemente, non vogliono entrare in uno scontro con gli eterni nemici tigrini, il gruppo che guidava l’Etiopia ai tempi della guerra. Asmara - oggi in buoni rapporti con Addis Abeba - incassa il bombardamento tigrino, lamenta danni limitati, e per ora si limita a dare spazio di manovra per le truppe etiopi, confidando in una soluzione rapida dello scontro. L’Eritrea teme un’Etiopia instabile o in disfacimento, che sarebbe un problema enorme per il piccolo Paese sulla costa del mar Rosso. E punta il dito sui tigrini, che vogliono - dicono gli eritrei - abbandonare la federazione ma soprattutto provocarne la crisi, arrivando persino a sostenere i gruppi indipendentisti delle etnie Oromo e Amhara, così da indebolire ancora di più il governo federale. Ma la guerra può debordare anche oltre. Nei giorni scorsi Egitto e Sudan hanno cominciato esercitazioni militari aeree congiunte: di fatto un primo allarme è giustificato. Il governo del Cairo condivide con quello di transizione di Khartoum - che pure riconosce ad Abiy un ruolo importante nell’uscita dalla crisi avviata con la deposizione di Omar al Bashir - seri motivi di scontento verso Addis Abeba. Al centro c’è il Nilo, le cui acque sono contese fra tutti. E né i sudanesi né gli egiziani hanno accettato di buon grado la costruzione della diga etiope sul Nilo azzurro, che riduce la gettata dell’intero corso d’acqua in modo significativo. In più, il Sudan si trova a dover accogliere un flusso di profughi in aumento: secondo le Nazioni Unite, i fuggiaschi dalle zone della guerra potrebbero raggiungere quota duecentomila nei prossimi giorni. L’ennesima crisi umanitaria è ormai dietro l’angolo. L’impegno dell’Etiopia per reprimere la rivolta del Tplf ha spinto il governo di Abiy Ahmed a ritirare i primi seicento uomini dal contingente stanziato in Somalia, dove i soldati etiopi sono parte di due diverse missioni internazionali. Per ora non è coinvolto il contingente schierato nell’Amisom, la missione anti-Shabaab, ma un’evoluzione in questo senso non può essere esclusa. E ovviamente l’indebolimento del fronte anti-jihadisti desta preoccupazione in tutto il mondo. Tanto più che gli integralisti della Somalia sono considerati un punto di riferimento per la strategia di Al Qaeda nell’intero continente. L’incendio potrebbe arrivare persino a Gibuti. La piccola repubblica affacciata sul Golfo di Aden ospita una robusta presenza militare straniera: la grande base americana di Camp Lemonnier, da cui partono i droni Reaper che operano in Somalia e nello Yemen, una base francese, una italiana (con poco più di un centinaio di soldati, schierati in supporto per le forze in transito), e una degli Emirati arabi Uniti. E in un contesto come quello del Corno d’Africa, la possibilità che una scintilla possa diventare provocazione e dunque elemento di un allargamento incontrollabile dello scontro, è concreta. Russia. Marina Litvinenko: “Porto Putin in tribunale per mio marito” di Enrico Franceschini La Repubblica, 16 novembre 2020 Parla la vedova dell’ex agente del Kgb assassinato a Londra nel 2006 con una dose di polonio radioattivo in una tazza di tè. “Sarebbe importante ricevere una sentenza da un tribunale internazionale, non solo sull’omicidio di mio marito ma anche sui tanti attentati di questi anni in cui viene sospettata Mosca”. Marina Litvinenko, vedova di Aleksandr, l’ex-agente del Kgb assassinato a Londra nel 2006 con una dose di polonio radioattivo in una tazza di tè, fa causa alla Russia di Vladimir Putin. Si è rivolta alla Corte Europea dei Diritti Umani, chiedendo un risarcimento di 3 milioni e mezzo di euro per i danni morali e i mancati guadagni risultati dalla morte del suo sposo. Entrambi avevano ottenuto asilo e cittadinanza britannica. In seguito un’inchiesta governativa britannica durata anni ha riconosciuto due ex-agenti del Kgb come esecutori materiali dell’assassinio e il presidente russo come il mandante “altamente probabile”. Il Cremlino ha sempre rifiutato di estradare in Inghilterra i sospetti killer, Andrej Logovoj e Dmitrij Kovtun, negando ogni responsabilità. Ora per la prima volta la questione finisce in tribunale, davanti ai giudici di Strasburgo, un’emanazione del Consiglio d’Europa, di cui la Russia è membro. Perché questo ricorso alla Corte Europea, signora Litvinenko? “Il ricorso era partito nel 2007, ma lo abbiamo interrotto in attesa dell’inchiesta del governo britannico, che si è conclusa solo nel 2016. A quel punto lo abbiamo ripresentato, aggiungendo la richiesta della compensazione per danni. Ora ci aspettiamo una decisione imminente”. Conoscendo la Russia di Putin, spera di vincere la causa o anche di ottenere la compensazione da Mosca? “Altri cittadini russi si sono rivolti alla Corte Europea e hanno ottenuto quello che chiedevano. Ma per me non è una questione di soldi. Sarebbe importante ricevere una sentenza da un tribunale internazionale, per di più riconosciuto dalla Russia, non solo sul caso di mio marito ma anche, come abbiamo chiesto, sugli altri omicidi politici addebitati a Mosca negli ultimi anni”. Come il tentato assassinio con il gas nervino dell’ex-agente Skripal a Salisbury? “E come quello recente in Siberia contro il leader dell’opposizione russa Aleksej Navalnyj”. Lo studio legale americano che la rappresenta è molto vicino a Joe Biden. Si aspetta che, con Biden alla Casa Bianca, l’America avrà una linea più dura sugli assassini di stato commessi dalla Russia rispetto a Donald Trump? “Lo spero proprio. Quando nel 2016 Trump è diventato presidente, il caso Litvinenko è stata una delle prime domande portate alla sua attenzione. E Trump ha risposto: “Non ne so niente, non ho prove, non ci credo”. Con Biden penso che le cose cambieranno, come lascia capire l’appoggio che ricevo dagli avvocati a lui vicini”. È vero che ha avuto scarso sostegno anche da Boris Johnson? “L’omicidio di mio marito è avvenuto sotto un governo laburista e l’allora ministro degli Esteri, David Miliband, si incontrò con me ben due volte. Con l’avvento al governo dei conservatori, l’atteggiamento è cambiato. Ho incontrato Theresa May quando era ministro degli Interni, ma poi è stata lei stessa a interrompere l’inchiesta pubblica citando l’esigenza di non compromettere le relazioni fra Russia e Gran Bretagna. Nel frattempo, i conservatori hanno continuato a ricevere donazioni da ricchi russi per il loro partito come niente fosse. Non dico che sia stato questo a condizionarli, ma non posso fare a meno di notarlo”. Ha paura per sé stessa a sfidare Putin in una sede internazionale così importante? “Oggi ci sono molte ragioni per avere paura. Molte persone soffrono per la pandemia. Diciamo che non temo per me più di quanto temano gli altri”. Egitto. Torna in carcere il blogger Mohamed “Ossigeno” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 novembre 2020 Le carceri egiziane hanno le porte girevoli. Il sistema è collaudato e ha persino un nome: tadweer, “rotazione”. Un prigioniero in attesa di giudizio esce perché il periodo massimo di detenzione preventiva sta per scadere o addirittura è stato superato. Passa qualche ora o qualche giorno e torna dentro per una nuova incriminazione. L’ultima vittima di questa pratica feroce e illegale è il blogger Mohamed Ibrahim Mohamed Radwan, noto come Mohamed “Ossigeno”. Prima del primo arresto, risalente all’aprile 2018, gestiva un canale su YouTube seguito da 220.000 utenti su cui pubblicava per lo più interviste girate in strada. Oggetto di una sentenza di rilascio dopo 26 mesi di carcere (interrotti da una breve “rotazione” dopo i primi 14) la scorsa settimana insieme ad altri 459 detenuti, tra cui 300 persone arrestate nelle manifestazioni del settembre 2019, Mohamed “Ossigeno” è ora associato all’indagine 855/2020 che riguarda l’adesione a un gruppo terrorista. L’indagine si estende ad altri “ruotati” tra cui l’attivista politico Sameh Saudi (a sua volta rilasciato la scorsa settimana) e il docente di Scienze politiche Hazem Hosny. Perù in rivolta, si dimette il presidente ad interim di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 16 novembre 2020 Due morti negli scontri. Vargas Llosa: “Questa repressione deve finire”. Sesto giorno di scontri di piazza per la destituzione di Vizcarra: prima si dimettono 13 ministri, poi lascia anche Merino. Il Perú è al collasso. Tredici ministri, su 18, rassegnano le dimissioni. Lo stesso presidente transitorio Manuel Merino ha gettato la spugna. Era stato appena nominato dal Parlamento dopo la sfiducia votata a maggioranza contro Martín Vizcarra, accusato di presunta corruzione. Non è una resa pacifica. Ci sono almeno due morti, ragazzi giovani, colpiti da “pallottole” durante una settimana di manifestazioni oceaniche di protesta. Decine di altri feriti, alcuni gravissimi. I referti medici parlano di “oggetti di piombo” rinvenuti negli intestini e nel petto delle vittime. Il ministero della Salute accenna a “corpo estraneo” ma l’ente sanitario Essalud, che gestisce l’ospedale dove era stata trasportata una delle vittime, Percy Pérez Shaquiama, 27 anni, ha precisato che era stato colpito da “un proiettile”. Il tweet è stato poi subito modificato con un più preciso “proiettile di arma da fuoco”. Non è un dettaglio irrilevante. Il Ministero degli Interni ha sempre negato che nel corso dei violentissimi contri con la polizia si fosse fatto uso di armi da fuoco. Aveva ammesso il ricorso ai perdigones, i proiettili di gomma rafforzati con l’acciaio, ma mai di proiettili veri. Sono stati proprio i manifestanti a denunciare, prove alla mano, che tra loro si erano infiltrati degli agenti camuffati e che erano stati questi a tirare fuori le pistole e a fare fuoco. Decine di video postati in rete mostrano degli uomini vestiti in borghese che puntano le armi sulla folla dopo essere stati individuati e indicati con i raggi laser. Sui social girano molti appelli e denunce su almeno 40 persone scomparse dopo aver partecipato alle manifestazioni. Sui cartelli affissi sui muri e innalzati nei cortei si indicano i nomi con le loro foto. Non si sa dove siano finiti e in mani di chi siano. In un video diffuso su Twitter, il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa afferma che “due giovani sono stati assurdamente, stupidamente, ingiustamente sacrificati dalla polizia” e aggiunge: “Questa repressione, che è contro tutto il Perù, deve finire”. Secondo quanto raccontano le cronache dei quotidiani locali a sparare sulla folla sarebbero elementi del Gruppo Terna, un nucleo di agenti sotto copertura noto per le sue provocazioni. Tra i feriti molti i giornalisti che coprivano le manifestazioni e le battaglie che durano quasi ininterrottamente da sei giorni. Il nuovo esecutivo, nato dopo la sfiducia del presidente Martín Vizcarra, accusato di “condotta moralmente inadatta”, non ha retto all’urto della protesta. Quello che è avvenuto lunedì scorso è il culmine di una resa dei conti tra le lobby che hanno campato per anni con il sistema di tangenti e corruzioni e uno sparuto fronte di sostenitori della legalità sorretti da alcuni apparati dello Stato. La nomina dell’ex speaker del Parlamento, Manuel Marino de Lama, tra i protagonisti del colpo di mano che ha estromesso Vizcarra, come presidente ad interim che avrebbe dovuto portare il Paese fino alle elezioni generali del prossimo aprile, è stata subito contestata. Sin da lunedì sera, con un Paese attonito che seguiva in diretta tv le fasi di questo “golpe”, decine di migliaia di persone hanno invaso le vie e le piazze di Lima chiedendo che venisse restaurato il diritto Costituzionale, violato da una nomina che serve soprattutto a salvare chi è coinvolto nelle decine di inchieste per corruzione avviate da tempo dalla magistratura. La reazione della polizia è stata durissima. Reparti antisommossa hanno subito sparato grappoli di candelotti di lacrimogeni e sono intervenuti con gli idranti cercando di respingere la folla. Ma si sono trovati davanti a una resistenza che non si aspettavano. Per ore si è consumata una battaglia campale. In migliaia hanno resistito con barricate, scudi di lamiera e legno improvvisati, lanciando selve di razzi, bombe carta, fuochi d’artificio contro i reparti della polizia che replicava con i lacrimogeni e proiettili di gomma. Ma hanno faticato a rompere una barriera che veniva sorretta dalla folla sempre più numerosa. Sono stati costretti solo a controllare la guerriglia impedendo che la gente arrivasse davanti al Parlamento. Dalle case la gente ha solidarizzato battendo con i mestoli su pentole e padelle e schierandosi con chi protestava all’esterno. Merino ha cercato di placare gli animi, ha garantito che nulla sarebbe cambiato e assicurato il rispetto del cronoprogramma elettorale. Ma era tardi. La crisi economica aggravata da un Covid che ha provocato una vera strage tra la popolazione ha fatto esplodere le contraddizioni di un sistema iperliberista. Dieci anni di crescita a due cifre del Perù hanno iniettato fiumi di denaro, la classe media si è arricchita, c’è stato il boom dell’edilizia, le famiglie hanno potuto comprare nuove e belle case, le seconde abitazioni al mare, i potenti Suv che sono diventati il simbolo di un’opulenza rincorsa e finalmente conquistata. Ma questo ha aperto una voragine, sociale e politica, tra chi aveva tanto e chi avevano perso tutto. Si è puntato sul privato. Nelle scuole, nella sanità, nelle concessioni dei servizi essenziali. Il presidente Vizcarra ha cercato di porre un argine: ha varato un decreto anticorruzione che toglieva anche l’immunità ai parlamentari, molti dei quali sono indagati per tangenti e rischiano il carcere. Una sfida che si è consumata in Parlamento quando si è trattato di trasformare la norma in legge. Il braccio di ferro è durato mesi e alla fine, di fronte al rischio che passasse, si è giocata la carta del ricatto. Una serie di file audio e altri documenti sono stati consegnati ad alcuni parlamentari: erano la prova di una presunta tangente che Vizcarra avrebbe incassato quando era governatore di una provincia del sud del paese. Il presidente è stato messo sotto accusa con una mozione presentata da uno dei deputati su indicazione proprio di Merino. La prima votazione è andata a vuoto, la seconda ha ottenuto una larga maggioranza. Sembrava fatta. Ma non è stato così. I peruviani si sono ribellati, invocano le dimissioni di tutto il governo e la nomina di un nuovo presidente transitorio seguendo il dettato costituzionale e non le procedure parlamentari. Adesso si cerca di capire chi e in che modo prenderà la guida del Paese.