Pandemia in carcere. Si riduca il sovraffollamento con urgenza di Patrizio Gonnella* L’Espresso, 15 novembre 2020 La mission di chiunque ha a che fare con il carcere è definita con parole chiare e inequivocabili dall’articolo 27 della Costituzione che afferma perentoriamente come le pene non debbano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato. Una mission che vale per ministri, giudici, direttori di carcere, poliziotti, medici, ma anche per giornalisti e influencer televisivi. Da almeno tre decenni siamo alla ricerca di un’identità per le forze politiche progressiste e democratiche. Eppure basterebbe strutturare la propria identità intorno alle parole chiave della nostra Costituzione: solidarietà, dignità, uguaglianza. Chiunque affermi, con linguaggio più o meno crudo o odioso, che la pena del carcere debba servire a produrre sofferenza o a mandare in putrefazione corpi è fuori dall’arco costituzionale. Andrebbe recuperata nel mondo democratico e progressista, esito di un cross-over tra culture differenti, una visione della pena ispirata ai principi della solidarietà, della dignità umana e dell’uguaglianza. Non è più accettabile che si inseguano ritornelli stonati illiberali, anti-sociali, anti-costituzionali. Oggi, ancor più che nello scorso marzo, è assolutamente urgente e necessario che si affronti la pandemia in carcere senza farsi condizionare dalle urla televisive delle trasmissioni della domenica sera, dai proclami delle organizzazioni sindacali di Polizia penitenziaria, dai comizi di ex Ministri, da editoriali scritti da fantomatici esperti che non hanno mai visto una prigione. Vanno protetti i detenuti, i direttori, gli agenti di polizia penitenziaria, gli educatori, i medici, gli assistenti sociali, i cappellani e tutti quelli che lavorano negli istituti di pena, dai populisti, dai cultori del securitarismo reazionario, da chi si erge a loro rappresentante. Oggi chi ha a cuore la nostra Costituzione deve rendersi conto quanto sia essenziale liberare dal carcere almeno 7-8 mila persone, selezionate tra coloro che hanno da scontare un residuo di pena basso, tre le persone con patologie gravi e tra coloro che sono in custodia cautelare. Oggi abbiamo in carcere un tasso di affollamento che supera il 110%. Ci sono svariate migliaia di detenuti che vivono in condizioni di mancanza di spazio regolamentare. Altro che distanziamento sociale. Va fermata l’ondata dei contagi che ha portato in poche settimane ad avere oltre seicento detenuti e ottocento operatori positivi. Solidarietà, dignità e uguaglianza richiedono che l’umanità che vive e lavora in carcere sia trattata con giustizia e rispetto. Si consenta ai detenuti di chiamare giornalmente casa anche con videochiamate. Si prevedano in ogni istituto di pena numeri verdi per dare notizie ai familiari comprensibilmente in ansia per la salute dei propri cari. Si preveda la didattica a distanza per i detenuti che studiano. Si doti ciascun operatore di tutti i dispositivi di protezione individuale necessari. Lo si faccia in abbondanza. Servono mascherine, guanti, protezioni facciali, gel, altro che taser come invece fino allo scorso luglio hanno chiesto i sindacati. Le armi in carcere non devono entrare. Chiunque in Parlamento e al Governo abbia a cuore la Costituzione non stia a sentire i profeti della vendetta e dell’odio e si ricordi quanto raccontava Piero Calamandrei ai giovani, ossia che per conoscere la Costituzione bisognasse andare a visitare le carceri, che avevano ospitato coloro che hanno dato la vita per la nostra democrazia. Infine, un invito rivolto a tutti coloro che, dentro e fuori le Camere, hanno fatto campagna negli ultimi referendum nel nome della Costituzione. Lottare per il rispetto della salute e della dignità delle persone detenute significa lottare per la Costituzione. Una postilla riguarda un eventuale provvedimento di clemenza. Oggi più che mai, anche guardando agli Stati Uniti dove, pure negli Stati governati dai repubblicani, si approvano norme per la legalizzazione delle droghe leggere, sarebbe necessario buttare via la legge sulle droghe Fini-Giovanardi ispirata a una war on drugs che neanche più gli Usa hanno voglia di combattere. Si cambi la legge del 2006, e la si accompagni da un’amnistia mirata. Si abbia il coraggio di recuperare una funzione pedagogica del potere. Si spieghi alle famiglie che lo si fa per la salute dei propri ragazzi, nonché per una visione pragmatica e solidale della giustizia e della società. *Presidente Associazione Antigone Giulia Bongiorno: “Per limitare i contagi in cella esca prima chi è in custodia cautelare” di Valentina Errante Il Messaggero, 15 novembre 2020 “Il ministro Bonafede si è affidato alla sola speranza che non ci fosse una seconda ondata di contagi. Non ha fatto nulla se non sperare. E adesso la situazione è disastrosa. Dalle carceri ai Tribunali”. Giulia Bongiorno, senatore, ex ministro della Lega e avvocato, non trova attenuanti per il Guardasigilli e boccia anche i criteri che, con il decreto Ristori, concedono benefici a 3.359 detenuti (ai quali secondo un emendamento del Pd se ne dovrebbero aggiungere altri 2.000) per risolvere l’emergenza della diffusione del virus nelle carceri. La pandemia ha ovviamente peggiorato la già drammatica situazione nelle carceri, al momento si prevede che vada ai i domiciliari chi abbia una pena residua di 18 mesi, ma i dem vorrebbero abbassare la soglia. Lei è contraria, perché? “Il punto dal quale partire è il letargo di Bonafede: è evidente che una pandemia sia un fatto eccezionale e quindi se per la prima ondata di contagi, che secondo me è stata gestita malissimo, almeno c’era un’attenuante, adesso no. In questi mesi, il ministro avrebbe dovuto dare indicazioni precise per separare i postivi dagli altri detenuti, e prevedere anche nuove strutture. Invece leggo che ancora oggi stanno firmando protocolli. Contesto anche i criteri per ridurre la densità evidentemente per Bonafede e per il Pd, i presunti innocenti sono più colpevoli dei definitivi. Dentro le carceri, si sa, ci sono detenuti con una pena definitiva e detenuti in attesa di giudizio. Magari nella prima categoria ci saranno anche innocenti, ma intanto c’è una sentenza, per gli altri invece non c’è stato un pronunciamento. Quindi, in primo luogo, occorrono nuove strutture e comunque, se fosse necessario, fare una scelta immediata io manderei ai domiciliari chi è sottoposto a misure cautelari ma non è ancora stato condannato definitivamente. Ovviamente i criteri dovrebbero riguardare anche la tipologia di reati e le pene edittali. Più che miope la scelta fatta è cieca e non capisco da cosa sia dettata. Anche questa storia del braccialetto elettronico, con la quale Bonafede afferma di avere risolto il problema, è poco credibile. È uno strumento che non ha mai funzionato perché continua a esserci un problema di forniture. La verità è che Bonafede non ha nemmeno provato a creare sicurezza nelle carceri. Ed è gravissimo”. L’epidemia ha frenato una macchina già inceppata, quella della Giustizia. Crede che anche su questo aspetto avrebbero potuto esserci interventi più incisivi? “L’inerzia di Bonafede ha determinato anche nei tribunali una situazione devastante. Ci sono aule piccole e spesso senza finestre, tutti coloro che entrano in un tribunale, in questo momento, accettano il rischio di ammalarsi. Negli otto mesi trascorsi, il ministro avrebbe potuto stipulare convenzioni con gli hotel, per celebrare i processi, almeno quelli con più parti, nelle sale congressi. Avrebbe ottenuto due risultati: garantire la sicurezza di tutti gli operatori della giustizia e aiutare gli albergatori in difficoltà. L’ unica idea di Bonafede, contenuta nel decreto Ristori e Ristori bis, è quella di trasformare gli avvocati in intrusi nel mondo della giustizia”. Non pensa che, per quanto riguarda le aule dei Tribunali, anche i presidenti avrebbero potuto prendere delle iniziative? “C’è chi l’ha fatto, ma spetta a un ministro dare le linee guida. E invece Bonafede ha dormito. lasciando che ciascuno si organizzasse per conto proprio o non lo facesse per nulla”. Perché gli avvocati sono stati trasformati in intrusi? “Si è stabilito che nei processi di appello e Cassazione non sia prevista la presenza degli avvocati. Un legale, se vuole esserci, deve chiederlo. Circostanza che, a questo punto, può creare anche un fastidio. Anche l’arringa non è più prevista Non solo, per le camere di consiglio, i giudici potranno non riunirsi fisicamente e non credo affatto che ci saranno tre fascicoli. Temo che una decisione collegiale si trasformi in monocratica Resta il dibattimento di primo grado con assembramenti ovunque. Per non parlare del personale delle cancellerie che, in smart working, non è collegato con i registri di lavoro. Bonafede ora si è svegliato dopo il lungo sonno, ma essendo ormai tardi è costretto a fare uscire i detenuti dalle carceri e gli avvocati dai Tribunali. Una vera resa La verità è che il ministro ha abbandonato tutto e tutti. E i numeri dei contagi nel mondo della giustizia lo dimostrano”. Covid, crescono i contagi tra detenuti e personale. Antigone: “Ridurre le presenze” redattoresociale.it, 15 novembre 2020 Aggiornamento del Garante nazionale: 75 gli istituti su 190 in cui si è verificato un qualche caso: contagiati 600 detenuti (di cui 32 ospedalizzati) e oltre 800 tra il personale. Antigone: “Intervenire con la concessione di misure alternative”. “Ridurre i numeri della popolazione detenuta”: lo chiede Antigone richiamando l’ultimo aggiornamento del Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, secondo cui nell’arco di pochi giorni i contagiati hanno superato le 600 unità tra i detenuti (di cui 32 ospedalizzati) e sono oltre 800 tra il personale che, a vario titolo, opera nelle carceri. Sono 75 gli istituti su 190 in si è verificato un qualche caso di contagio. Rispetto al numero di tamponi effettuati in questa nuova tornata di epidemia, precisa il Garante, il tasso di positività in carcere è alto (più del 15 per cento), ma comunque in linea con quello del territorio nazionale. Da settembre l’osservatorio di Antigone è tornato a visitare gli istituti penali del paese, dopo lo stop alle attività che la prima fase dell’emergenza coronavirus aveva comportato. “In molti casi - si legge in una nota - ci si è trovati davanti a situazioni di sovraffollamento che non aiutano il contenimento del contagio, né favoriscono l’isolamento dei detenuti positivi o di coloro che, dopo un contatto con un positivo, hanno bisogno di osservare un periodo di quarantena. Su indicazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, alcune sezioni sono state sgomberate per fare posto a reparti Covid, questo ha però prodotto un ulteriore sovraffollamento in altre aree degli istituti. Inoltre, la necessità di far osservare il periodo previsto per la quarantena ai nuovi giunti, fa sì che spesso questi vengano trasferiti in carceri anche a centinaia di chilometri di distanza dalla loro città per l’arco di tempo previsto e, solo dopo, ricondotti negli istituti di competenza”. “Ciò che occorre in questa fase - sottolinea il presidente Patrizio Gonnella - è ridurre i numeri della popolazione detenuta. Dopo l’importante contrazione registrata durante la prima ondata, il dato dei detenuti si era stabilizzato e, dopo l’estate, era ricominciato a crescere”. Secondo i dati del Garante si riducono, seppur lentamente, i numeri delle persone detenute in carcere: 54.767 quelle registrate ma 53.992 quelle fisicamente presenti. “Con questi numeri, nonostante i protocolli adottati, è difficile poter contenere il diffondersi del contagio. - sottolinea Antigone - Occorre dunque intervenire attraverso la concessione di misure alternative al carcere, in primo luogo gli arresti domiciliari, per chi ha fine pena brevi o importanti patologie pregresse. Si deve inoltre, così come sollecitato dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, ridurre al minimo gli ingressi, utilizzando la custodia cautelare in carcere solo laddove è strettamente necessaria”. “Chi non potrà uscire ha bisogno di non sentirsi abbandonato. - dichiara ancora Gonnella - L’angoscia che si vive nel mondo libero è infatti amplificata quando ci si trova in spazi chiusi e con un’inevitabile contatto quotidiano con decine di persone. Per questo vanno potenziate le telefonate e le video-telefonate su cui alcuni istituti, dopo le concessioni della prima ondata, stavano tornando indietro. Va garantito inoltre il diritto allo studio, predisponendo la possibilità che i detenuti seguano le lezioni in dad. Questi riteniamo siano provvedimenti urgenti e necessari. Ci auguriamo che lo stesso Comitato Tecnico Scientifico possa concentrare la propria attenzione sul sistema penitenziario affinché, tanto la salute dei detenuti che quella degli operatori, sia salvaguardata”. “Molto allarme circola in rete ed è ripreso anche dai media rispetto ai numeri del contagio in carcere. - si legge nel punto del Garante - La preoccupazione non è senza motivo”. Tuttavia segnala Palma, se da un lato è indispensabile prevedere una riduzione delle presenze per “disporre di spazi adeguati per tutti gli isolamenti necessari e per fare fronte a malaugurati scenari futuri”, dall’altro è necessario “non aggiungere ansia a situazioni di per sé ansiogene, proprio a causa del loro configurarsi come luoghi che ovviamente non consentono la libera determinazione dell’individuo”. Mirabelli (Pd): “In Dl ristori quattro emendamenti per ridurre sovraffollamento delle carceri” mi-lorenteggio.com, 15 novembre 2020 “La situazione che si sta determinando nelle carceri italiane, a causa della ripresa così significativa dei contagi, si somma ai problemi patologici del nostro sistema penitenziario e richiede attenzione ed interventi da parte della politica e delle istituzioni. I protocolli adottati sono utili e efficaci ma si scontrano, innanzi tutto, con la carenza di spazi. A ieri erano detenute 54.767 persone mentre i posti regolamentari disponibili sono 47.131. Si ritorna quindi a verificare un sovraffollamento significativo, non superiore a quello di fasi precedenti, ma che oggi, in piena pandemia, diventa un grande problema da affrontare e da risolvere. Le misure introdotte tempestivamente dal Governo nel Decreto ristori, che in sostanza prorogano quelle decise a marzo, sono importanti ma non sufficienti. Raccogliendo l’appello di molte associazioni, di molti garanti sul territorio, della Caritas e delle Camere penali il Pd presenterà emendamenti al testo del decreto al fine di ridurre la popolazione carceraria. Riproponiamo tre misure che già a marzo avevamo sostenuto: l’innalzamento da sei mesi ad un anno del limite della pena da scontare al di sotto del quale sarà possibile andare agli arresti domiciliari senza braccialetto elettronico, escludendo, da questa come dalle altre misure che proponiamo, i condannati ai reati del 4bis (mafia, terrorismo, reati in famiglia e stalking); l’aumento di 30 giorni dello sconto di pena per ogni semestre a chi ha già goduto della riduzione della pena per buona condotta per anticipare, come si è già fatto in passato, la fine della carcerazione; il rinvio dell’emissione degli ordini di esecuzione, a seguito di una condanna, delle pene detentive inferiori ai 4 anni. Inoltre basterà sostituire nel testo attuale una “e” con una “o” per consentire, a chi ha già accesso a permessi premio o a permessi per il lavoro esterno, di restare temporaneamente fuori dagli istituti: si tratta di persone che, usufruendo già di quei provvedimenti non pongono problemi di sicurezza. Sono misure urgenti che aiutano il governo degli istituti carcerari, norme di buon senso, suggerite e sostenute da chi, con ruoli diversi, lavora in carcere, che possono dare un contributo importante a migliorare la difficile situazione delle nostre carceri”. Così il Vicepresidente dei senatori del Pd e capogruppo PD in Commissione Giustizia del Senato Franco Mirabelli, annuncia, sul Riformista, la presentazione di 4 emendamenti del Pd al Dl ristori per alleggerire il sovraffollamento nelle carceri. Quei bambini che escono dal carcere a sei anni Il Gazzettino, 15 novembre 2020 Un libro analizza la situazione dei figli delle detenute. Costretti a vivere in carcere fino all’età di 6 anni, per poi rischiare di essere dati in affidamento. È il destino dei bambini figli di donne condannate a scontare lunghi periodi di detenzione a causa di reati da loro commessi. Bambini che, loro malgrado, seppure innocenti per definizione, come lo sono tutti i bambini, devono scontare assieme alle madri una pena che spesso lascia segni indelebili. Prima della legge 62/2011, potevano stare con la madre in carcere fino al compimento dei 3 anni e quasi sempre, nel tempo, riuscivano a dimenticare quella triste parte della loro vita. Ma con l’innalzamento dell’età a 6 anni, i ricordi della vita trascorsa in carcere quasi sempre restano indelebili per sempre, con conseguenze immaginabili. Una situazione di sofferenza contro la quale si sta battendo Carla Forcolin, l’insegnante e pedagogista veneziana, presidente dell’associazione “La gabbianella e altri animali” per l’adozione e l’affidamento, che ha dedicato al tema un libro, intitolato “Uscire dal carcere a 6 anni”, che sarà presentato lunedì 16 novembre alle 17 all’Ateneo Veneto, nel corso di un dibattito che sarà possibile seguire al seguente link: http://webtv.camera.it/assemblea. “Il libro va contro corrente sia nell’analisi della situazione, sia nelle proposte per ridurre al minimo la sofferenza dei figli delle detenute ed è rivolto in primis al legislatore, perché rimedi agli effetti indesiderati di una legge buona, poi a tutti gli addetti ai lavori e a chi è sensibile alla tutela dell’infanzia”, spiega Carla Forcolin. A Venezia, nel carcere femminile della Giudecca, sono decine i bambini che hanno trascorso anni della loro infanzia all’interno dell’Istituto a custodia attenuata per madri (Icam). Negli Icam le stanze sono più belle rispetto a quelle normalmente in uso alle detenute, ma madri e figli non possono ovviamente uscire in passeggiata; i blindi sono sostituiti da porte robuste, che però rimangono invalicabili. Le agenti sono senza divisa, ma devono essere ubbidite dalle detenute- madri, sotto agli occhi dei figli e i bambini non si lasciano ingannare circa la natura di questi luoghi: capiscono benissimo di essere in carcere, soprattutto man mano che crescono. L’anno scorso l’associazione “La Gabbianella e altri animali”, che per 16 anni ha accompagnato alla scuola dell’infanzia i bambini provenienti dal carcere, ha lanciato una petizione al Parlamento italiano, perché si ponesse fine a questa situazione, riportando a 3 anni l’età massima dei bambini in carcere con le rispettive mamme. Il testo lo si può trovare e firmare al sito www.lagabbianella.org. Assieme a Carla Forcolin, parteciperanno al dibattito la professoressa Aurea Dissegna, già Garante dei diritti dei bambini e dei detenuti della Regione Veneto, lo psicoterapeuta Mario Magrini e il primario di pediatria dell’ospedale civile di Venezia, Maurizio Pitter. Il libro è accompagnato da una prefazione di Gianfranco Bettin. “Si tratta di un dibattito da cui una società fondata sul diritto non può esimersi - spiega Forcolin - Un problema di fronte a cui una comunità civile non può chiudere gli occhi”. 41bis. Ci scrive Mancini, pentito della “Magliana” di Antonio Nino Mancini Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2020 Alla fine degli anni settanta, primi anni ottanta, gli anni delle Brigate Rosse, della guerriglia sulle strade, delle carceri speciali, i diritti dei detenuti erano stati rasi al suolo. Poi iniziò a circolare una voce: “A Potenza ce sta un giudice di sorveglianza dal nome strano che non permette abusi sui detenuti”. Una fiammella di speranza in un posto dove, citando Pino Daniele, “‘A speranza è semp’ sola”. Henry John Woodcock era quel nome strano, un nome talmente “strano” che una volta rimasto nella memoria, non lo dimentichi più, e infatti io personalmente non l’ho mai dimenticato. Da criminale ieri e “pentito” oggi, sento il bisogno e il dovere dire la mia: il 41bis oggi, come l’articolo 90 ieri, è la tortura e stortura messa in atto da un Paese democratico per costringere i reclusi a pentirsi, molto somigliante al mantou ripieno di carne e fagioli con cui i carcerieri dei campi di rieducazione cinesi premiano i prigionieri che collaborano con il regime. Un “pentimento” in cattività può nascondere delle insidie perché il fatto di non avere la forza di sopportare una detenzione dura, pur di non ritornarci, può spingere a una collaborazione ad libitum con annessi e connessi. Per quanto riguarda il mio, di “pentimento”, esso è maturato fuori, dopo avere scontato undici anni tra carceri duri e soft, e con l’imminente nascita di mia figlia. Soltanto la lungimiranza e l’umanità possono sconfiggere il male, non certo una girata di chiave in più al blindato, le lenzuola grezze e ringhiate di paura. Grazie per l’ospitalità e lunga vita al Fatto Quotidiano. Il virus infetta pure i tribunali: cresce l’arretrato di Tommaso Montesano Libero, 15 novembre 2020 “Le udienze si stanno celebrando, per adesso il sistema regge, ma non so quanto potremo andare avanti”, sospira l’avvocato Cesare Placanica. Proprio quando il “sistema giustizia” stava superando, a fatica, gli effetti della prima ondata del Coronavirus, ecco la seconda. In molti tribunali è già iniziata la contrazione delle udienze. A Roma, per contrastare gli assembramenti, il presidente vicario del tribunale, Antonino La Malfa, ha già chiesto ai presidenti di sezione di “riscaglionare le udienze”. Ma il peggio deve ancora arrivare, prevede Placanica, presidente della Camera penale di Roma dal 2016: “Le aule grandi, in grado di ospitare i processi con tanti detenuti, sono poche. Presto andranno avanti solo i procedimenti a carico di imputati in custodia cautelare: avranno una corsia preferenziale rispetto a quelli con imputati liberi”. Una decisione che non sorprende, vista l’emergenza, i penalisti. A preoccupare, semmai, sono quelli che Placanica definisce i “fronti aperti” con l’esecutivo. A partire da quanto contenuto nel cosiddetto “Decreto Ristori Bis” nella parte che riguarda la giustizia. Ovvero la previsione che - per “diminuire gli accessi fisici negli uffici giudiziari e nelle cancellerie” - nel grado di appello la Corte procederà in camera di consiglio senza l’intervento del pubblico ministero e dei difensori, a meno che una delle parti o il pm facciano richiesta di comparire. Non solo: lo stesso collegio giudicante non è vincolato alla presenza fisica. “Questo significa”, osserva Placanica, “che i giudici in camera di consiglio restano a casa e dibattono tra loro in videoconferenza, magari con il fascicolo nelle mani di uno solo dei tre. Noi crediamo che almeno loro debbano riunirsi, ancorché non in tribunale, in presenza”. Per l’Unione delle Camere penali, in gioco c’è il “giusto processo”. “La camera di consiglio a distanza è la negazione della collegialità, anche per l’impossibilità di vederne garantita la segretezza, che è presidio della libertà del giudice”, recita la nota diffusa dai penalisti lo scorso 8 novembre, dopo il varo del decreto governativo. L’Ucpi chiede la modifica della norma: “Se non cambierà, saremo costretti a chiedere ai colleghi di richiedere sempre l’attività in presenza. Sarà il modo per mostrare la nostra resistenza attiva”. Giusto ieri è arrivato un nuovo richiamo da Giandomenico Caiazza, il presidente dell’Unione delle camere penali: “La durata ragionevole dei processi è un diritto della persona, ma non deve comprimere i diritti della difesa”. Mine sul lento ritorno alla normalità nei tribunali, già alle prese con i nuovi rinvii delle udienze. Il rischio è che i numeri sulle attività nelle corti, già in peggioramento nel primo semestre dell’anno, possano ulteriormente precipitare. L’11 novembre scorso il ministero della Giustizia ha reso noti i dati sul monitoraggio dei procedimenti penali e civili. E il bilancio, dopo alcuni anni in cui l’arretrato è stato smaltito, è tornato negativo. Sul fronte penale, al 30 giugno 2020 i procedimenti pendenti erano 1.619.584. Al 31 dicembre 2019, erano 1.582.019. Il calo dell’arretrato era certificato dal 2013. Stessa musica - con proporzioni peggiori - a livello civile, dove lo smaltimento procedeva spedito dal 2012: a giugno, dopo la “prima ondata”, i procedimenti civili pendenti erano 3.321.149, in crescita rispetto ai 3.293.960 di dicembre. Che accadrà da qui a primavera, con i tribunali costretti di nuovo a marciare a velocità ridotta? Roma a parte, quanto bolle in pentola nei vari distretti giudiziari è destinato a far crescere ulteriormente l’arretrato. Ad Ancona, ad esempio, il presidente del tribunale, Giovanni Spinosa, ha deciso di rinviare a dopo il 1° aprile tutte le cause che riguardano i reati meno gravi che erano state fissate fino al 9 dicembre. Di questo passo, protesta Maurizio Miranda, presidente dell’Ordine degli avvocati del capoluogo marchigiano, “i rinvii nei processi, sia penali che civili, rischiano di allungare di molto i tempi della giustizia. Tempo quantificabile tra uno e due anni”. A Milano, invece, il presidente del tribunale, Roberto Bichi, ha annunciato che d’ora in poi ogni sezione potrà garantire due udienze, anziché tre. Restrizioni sono in vista anche a Napoli (ci saranno 15-20 procedimenti per udienza davanti al giudice monocratico invece degli attuali 20-30) e Bari (da 35-40 cause penali in presenza si è passati a 20-25). Poi c’è la bomba delle carceri. “Stanno scoppiando”, lancia l’allarme Placanica, per il quale finché si è in tempo “occorre abbassare le tensioni”. Ieri il ministero della Giustizia ha comunicato che “attualmente sono 53.965 i detenuti presenti fisicamente negli istituti penitenziari”. Di questi, i reclusi “positivi risultano essere 658 (32 dei quali ricoverati) in 77 istituti”. Per quanto riguarda gli agenti della Polizia penitenziaria, i positivi sono 824. L’Anm chiede incontro urgente a Bonafede: “Le misure anti Covid nei tribunali non bastano” di Liana Milella La Repubblica, 15 novembre 2020 In una sofferta riunione il nuovo “parlamentino” dei magistrati, ancora senza presidente per le divisioni fra le correnti, chiede al Guardasigilli un appuntamento urgente per discutere interventi più rigidi. La richiesta è semplice. Vedere subito, o quantomeno al più presto, il ministro della Giustizia per chiedergli modifiche sulle misure anti Covid contenute nei decreti Ristori e Ristori-bis. Scritte così, non bastano. Mettono a rischio non solo la magistratura, ma anche il personale, gli avvocati, e tutti coloro che hanno a che fare con i processi, soprattutto quelli penali. In fondo, una richiesta semplice. Ma la nuova Associazione nazionale magistrati - 36 componenti eletti nel cosiddetto “parlamentino” tra il 18 e il 20 ottobre - impiega ben cinque ore per approvare in modo sofferto, tra emendamenti e proposte alternative, un documento di una ventina di righe. Che avrebbe dovuto avere anche un titolo - “Non c’è salute senza giustizia” - che però fino alla fine resta in forse. Ma non basta. Perché oggi la riunione proseguirà ancora per stilare un elenco delle richieste dell’Anm, che dovrà essere una sintesi dei documenti delle singole correnti. Che, per dirlo in soldoni, hanno una base comune: la giustizia non si può fermare, ma chi la esercita e i cittadini non possono rischiare di prendersi il Covid per mandarla avanti. Scontato il tenore del documento, su cui però in più di un passaggio ha fatto sentire la sua voce critica Articolo Centouno, il nuovo gruppo che ha fatto ingresso nell’Anm e che con i suoi esponenti - il primo degli eletti Andrea Reale e Giuliano Castiglia - non fa mancare critiche continue alle proposte di lavoro delle altre correnti storiche, dalla sinistra di Area, alla conservatrice Magistratura indipendente, alla centrista Unicost, ad Autonomia e indipendenza, il gruppo fondato da Piercamillo Davigo. Anm: “Dovete sentirci” - Ovviamente l’Anm manifesta “profonda preoccupazione per l’evoluzione dell’emergenza pandemica e per il suo devastante impatto anche sulla giurisdizione”. Esclusa da una verifica preventiva sulle misure da adottare, “rivendica il diritto-dovere di fornire il suo qualificato, e disinteressato, contributo di ordine tecnico, frutto dell’esperienza e dell’impegno quotidiano delle migliaia di magistrati suoi aderenti, sugli interventi legislativi adottati, in modo da consentire ogni più adeguato approfondimento in ordine alla loro portata, praticabilità ed effetti, nonché in ordine alla congruenza rispetto alle esigenze in gioco: assicurare la funzionalità del sistema giustizia e contenere al contempo il rischio di contagio”. I magistrati chiedono “interventi sul processo, sull’organizzazione e sui mezzi, se si vuole che la funzione giurisdizionale, essenziale per la vita dei cittadini, sia assicurata senza trascurare la tutela dei beni primari della sicurezza e della salute di chi quotidianamente opera nei palazzi di giustizia”. Da qui la richiesta urgente di un incontro con il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Il documento dei procuratori con gli avvocati - Non dovrebbe servire molto tempo per capire cosa sta succedendo nei palazzi di giustizia. Con una battuta lo sintetizza un’eletta di Articolo Centouno, Maria Angioni, giudice del lavoro a Sassari: “Stiamo ballando sull’orlo del baratro per via dei processi arretrati”. Enrico Giacomo Infante, pm a Foggia, del Movimento per la Costituzione, che si è presentato con Magistratura indipendente, dice una cosa ovvia: “Bisogna far diminuire l’afflusso di persone dentro i palazzi di giustizia”. Sul tavolo ci sono già le richieste dei singoli gruppi, contenute in altrettanti documenti, ma servirà un’altra giornata, di sicuro l’intera domenica, per mettere insieme un testo unitario. Il Covid si diffonde con la velocità del fulmine, ma l’impressione - seguendo l’assemblea dell’Anm grazie a Radio radicale che garantisce la trasmissione di tutti gli incontri, peraltro tenuti via piattaforme web - è che all’opposto questa nuova Anm sia dilaniata inesorabilmente dallo scontro tra i gruppi. Scontro che una settimana fa ha impedito l’elezione del presidente e della giunta, con un rinvio al 21 novembre. A parole, tutti vorrebbero una giunta unitaria. Area, divisa al suo interno, vuole il suo candidato più votato Luca Poniz, pm a Milano e presidente uscente. Ma Magistratura indipendente chiede “discontinuità” e rifiuta Poniz. Unicost, uscita fortemente ridimensionata dal voto per via del caso Palamara, sta con Area. A&I vorrebbe ugualmente la giunta unitaria. Articolo Centouno non vuole neppure che a trattare siano i segretari delle correnti e impone il suo programma, con sorteggio per il Csm, che gli altri respingono. Quindi tutto lascia presagire che resterà all’opposizione. Una vera spada di Damocle sulla futura Anm per l’aggressività verbale dei suoi esponenti. Su questo dilaniato sfondo associativo s’affaccia prepotente il Covid e il disastro della giustizia. E pure la mossa di un ampio gruppo di procuratori - Roma, Milano, Torino, Palermo, Napoli, Firenze, Catanzaro, Perugia, Reggio Calabria, Salerno - che il 27 ottobre s’incontrano con l’Unione delle camere penali e, su una comune carta intestata - particolare contestatissimo - buttano giù le richieste che, a loro avviso, sono necessarie per far funzionare lo stesso la giustizia. In barba all’Anm tutta presa nel frattempo dal suo voto online. In particolare, nell’elenco delle misure, si legge che le restrizioni “non possono riguardare la disciplina dell’udienza dibattimentale e dello svolgimento del giudizio di merito, data l’intangibilità del principio dell’oralità, cardine della formazione in contraddittorio della prova nel processo penale”. Significa, in poche parole, che i dibattimenti dovrebbero andare avanti lo stesso con le regole normali. Ma di fatto saltano. E questo fa dire alle toghe dell’Anm che “si sta ballando sull’onda del baratro” per via dell’accumulo di processi arretrati. Lo shopping delle mafie: “La crisi sarà il loro affare” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 novembre 2020 L’ultimo sequestro di droga nel porto di Gioia Tauro risale a dieci giorni fa: 932 chili di cocaina nascosti in un container che portava cozze surgelate dal Cile. È l’ennesima riprova che il coronavirus e le conseguenti restrizioni non fermano i traffici illegali; soprattutto quelli gestiti dalle grandi organizzazioni criminali che in Italia si chiamano Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta. Anzi, le emergenze creano opportunità, senza frenare l’“ordinaria amministrazione” delle cosche. Molti allarmi per l’infiltrazione delle mafie nelle relazioni economiche e finanziarie in tempo di Covid sono già arrivati da investigatori, magistrati e analisti. Ora si aggiunge quello del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, che assieme allo studioso Antonio Nicaso ha scritto “di getto e di rabbia” un libro dal titolo più che eloquente: “Ossigeno illegale” (Mondadori, pagg. 156, euro 17), che poi sarebbero la corruzione e le iniezioni di capitali di origine illecita immessi o da immettere nel sistema legale. Con un doppio effetto: dare fiato (ossigeno, appunto, ma avvelenato oltre che illegale) all’economia in affanno, e al tempo stesso lavare i soldi sporchi accumulati dalle organizzazioni criminali. Le mafie hanno già approfittato dell’emergenza sanitaria durante la prima ondata; sempre nello scalo di Gioia Tauro, per citare uno dei tanti casi rievocati nel libro, a marzo scorso sono stati intercettati 364.200 paia di guanti sterili per uso chirurgico e quasi 10.000 tubi respiratori, provenienti da Malesia e Cina, sottratti alla regolare distribuzione. Ora le mire sono sull’utilizzo degli stanziamenti per la ripresa, oltre che su imprese ed esercizi che non ce la fanno a sopravvivere e saranno occasione di ottimi affari per chi ha grande disponibilità di denaro liquido. Come nessun altro, e con la necessità di reimpiegarlo. Perché le mafie, come spiegano Gratteri e Nicasio, non si limitano a produrre guadagni; hanno anche bisogno di spendere quei soldi, per metterli a frutto e occultarne la provenienza. Secondo antichi schemi evolutisi col tempo: “Da quando le entrate sono state arricchite prima dal contrabbando di tabacchi e poi dai sequestri di persona e dal traffico internazionale di stupefacenti, i clan hanno cominciato a reinvestirne i proventi nei circuiti economico-finanziari. Inizialmente lo hanno fatto in modo artigianale, ricorrendo ai prestanome. Oggi si affidano agli specialisti della “economia canaglia”, riciclando il denaro in mille modi, dalla falsa fatturazione agli investimenti finanziari. Sempre più spesso si affidano a professionisti che offrono servizi in cambio di denaro o di altri vantaggi”. E le emergenze - dai terremoti (non solo in Sicilia e in Campania, ma su tutto il territorio nazionale) al problema dei rifiuti - hanno sempre rappresentato altrettante occasioni da sfruttare. Grazie alle collusioni con il mondo imprenditoriale e politico. Le mafie infatti vivono da un lato di consenso sociale, intervenendo nelle zone più depresse con sostegni alla popolazione (con regalie o opportunità di lavoro, nero o illegale ovviamente) sostituendosi allo Stato; e dall’altro di contiguità con le pubbliche amministrazioni, ad ogni livello. Puntualmente asservite o comprate, attraverso il mercato dei voti e la corruzione. Il racconto di Ossigeno illegale si snoda ripercorrendo decine di episodi noti e meno noti di infiltrazione mafiosa nel mondo della politica, dell’economia e della finanza. E proiettandosi su un possibile scenario futuro: “In un contesto dominato da una crisi senza precedenti, piccole e medie imprese rischiano di diventare un potenziale affare per la criminalità mafiosa a prezzi di saldo”. Un pericolo che non si ferma all’Italia, avvertono Gratteri e Nicaso. Chi nel resto d’Europa mette in guardia dai flussi di aiuti che finirebbero nelle casse della criminalità nostrana, dovrebbe guardare dentro i propri confini. In Germania, da dove è partita qualche preoccupata ironia, `ndrangheta e Cosa nostra sono approdate da tempo, e così negli altri Paesi dell’Unione. Da noi si sa e se ne parla perché assieme alle mafie c’è l’antimafia, altrove no: “In Italia, la mafia esiste perché ci sono forze di polizia e magistrati che si ostinano a combatterla. In altri Paesi dove a cercarla sono in pochi, si fa fatica a vederla, o a stanarla”. Continente avvisato. No Tav. Oggi Nicoletta Dosio torna libera: “Libertà anche per Dana” di Mauro Ravarino Il Manifesto, 15 novembre 2020 “Con Dana, di cui chiedo la liberazione, ci scriviamo, come con le altre detenute con cui ho mantenuto un legame forte. È importante ricevere lettere dall’esterno, leggere i giornali, io richiedevo il manifesto; tutto quello che parla del mondo esterno è essenziale perché è una relazione con ciò che sta fuori. Ora, con la pandemia Covid-19 l’isolamento è maggiore, non ci sono più i colloqui, non arriva il pacco dei viveri e li devi comprare in carcere dove tutto ha prezzi maggiorati, mancano, poi, le mascherine e i disinfettanti”. “La mia paura era di non poter rivedere casa mia, le persone care, i miei animali. La libertà non è, però, neanche quella che avrò domani, se penso a Dana e ad altri compagni, perché la libertà è un bene collettivo. Solo quando non ci saranno più le carceri e ci saranno più umanità, solidarietà e uguaglianza saremmo veramente liberi, ma per questo dobbiamo lottare. E io lo farò fino in fondo”. Così, Nicoletta Dosio, alla vigilia del ritorno in libertà - il giorno di “fine pena” è fissato per oggi - ricorda i giorni passati in carcere e immagina un futuro migliore, che non può essere costruito senza una mobilitazione collettiva. Come la sua nel movimento No Tav della Val di Susa, di cui fa parte fin dalle origini, quando ancora era insegnante di italiano e latino al liceo scientifico di Bussoleno, che aveva contribuito a fondare. Condannata a un anno di reclusione per una protesta No Tav del marzo 2012 svoltasi al casello autostradale di Avigliana, Nicoletta rifiutò ogni misura alternativa. Tre mesi li ha passati in carcere alle Vallette di Torino, il resto ai domiciliari: “Ho toccato con mano ciò che già pensavo, ovvero che il carcere non migliora, ma è un luogo di pura repressione per chinarsi al senso di obbedienza cieca. Ho trovato sofferenza, povertà e solidarietà, che è l’unico aspetto positivo che ti permette di vivere lì dentro. Laddove si intrecciano le storie di donne di ogni parte del mondo, accomunante da senso di ingiustizia”. È stata nella stessa sezione, la terza, dove si trova ora Dana Lauriola, condannata per i fatti relativi alla medesima manifestazione, che aveva lo slogan “Oggi paga Monti”: gli attivisti, dopo giorni di mobilitazione contro gli espropri e l’allargamento del cantiere Tav (c’era stata la caduta dal traliccio di Luca Abbà), occuparono l’area del casello facendo passare gli automobilisti senza pagare il pedaggio. Dana era al megafono, Nicoletta dietro lo striscione. “Con Dana, di cui chiedo la liberazione, ci scriviamo, come con le altre detenute con cui ho mantenuto un legame forte. È importante ricevere lettere dall’esterno, leggere i giornali, io richiedevo il manifesto; tutto quello che parla del mondo esterno è essenziale perché è una relazione con ciò che sta fuori. Ora, con la pandemia Covid-19 l’isolamento è maggiore, non ci sono più i colloqui, non arriva il pacco dei viveri e li devi comprare in carcere dove tutto ha prezzi maggiorati, mancano, poi, le mascherine e i disinfettanti”. Per Dosio, le questioni dell’indulto e dell’amnistia sono fondamentali: “Dobbiamo lottare per un’amnistia sociale che riguardi le lotte e i poveri e batterci per l’abolizione del carcere, come sono stati aboliti i manicomi, perché la prevenzione è la giustizia sociale. Mi spenderò per questo come nella lotta per il Tav”. E proprio rispetto alla contestata linea ad alta velocità Torino-Lione dice: “Abbiamo assistito a ogni mancanza per ospedali, scuole e trasporti, ma i soldi pubblici per le grandi maleopere o per gli armamenti continuano a essere prioritari. Nel cantiere in Clarea, per il maxi-sondaggio che si appresta a diventare galleria di servizio, lavorano persone respirando amianto e uranio. Il lockdown per i lavori pericolosi non esiste, perché purtroppo, come ha detto il leghista Borghi alla Camera, il lavoro viene prima della salute”. Il movimento No Tav festeggia la libertà di Nicoletta e su notav.info scrive: “Una donna tenace, modello di resistenza e coraggio per tutte e tutti. Siamo felici di sapere che prestissimo potrà tornare sui sentieri della amata Val Clarea. Ora vogliamo anche Dana, Emilio, Stefano liberi”. Totò Cuffaro si racconta: “In carcere anni di dolore, ho sbagliato ma mai favorito la mafia” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 15 novembre 2020 “Non una nuova Dc ma una Dc nuova”: parliamo con Totò Cuffaro, governatore della Sicilia fino alle disavventure giudiziarie di cui è stato protagonista, del suo progetto e lui corregge subito il tiro. Rifondare un partito di massa dei cattolici, non un’ambizione di poco conto. “Siamo in una fase difficile, bisogna essere molto attenti, per le nostre famiglie e non solo per noi”, dice a proposito del Covid. “Dobbiamo stare rigidamente dentro alle regole e anzi: fare qualcosa di più rigido di quel che dicono le regole per autocontrollarci”. Lo dice uno che avendo largheggiato con lo scambio umano anche prossemico - memorabili i suoi baci e abbracci nei congressi Dc e post Dc - deve aver riflettuto a fondo sui comportamenti da tenere o meno. E non si parla di sanità ma di contatti diversamente pericolosi. Perché in Sicilia il virus che più ha ucciso nella storia si chiama Cosa Nostra e certe strette di mano, se non si sta attenti con il disinfettante, portano ad ammalarsi. Si è pentito più di quel che ha fatto o più di quel che non ha fatto, in Sicilia? C’è sempre qualcosa che avremmo potuto fare e non si è fatto. Vale per la sanità, dove però c’è una responsabilità nazionale nella programmazione, e c’è una responsabilità nell’esecuzione. Io non ne sono esente. Un suo errore concreto. Avrei potuto spingere di più nella costruzione di nuovi ospedali. Con l’allora ministro Sirchia programmammo quattro poli d’eccellenza. Tre sono partiti, uno no. E anche su quello pesarono le attenzioni giudiziarie. Amministrare in Sicilia è più complicato che altrove? È più complicato, qui c’è sempre l’elemento criminalità aggiuntivo, che qui è criminalità mafiosa. Quando incappi nelle procedure di questo tipo purtroppo i lavori si fermano per anni e anni, e questo avviene qui diversamente da altre regioni d’Italia. È facilissimo sbagliare, impigliarsi… Per non sbagliare oggi c’è chi rinuncia all’azione amministrativa. Vittorio Alfieri nel Saul diceva: sol chi non fa, non sbaglia. Questa terra, la Sicilia, è difficile e martoriata, e per questo merita di essere servita e amata un po’ di più. E invece è indietro sulle opere, sulle infrastrutture. Lei col Ponte di Messina aveva iniziato il progetto. E progetto ha fatto rima con sospetto. Non c’era solo la fattibilità e il carotaggio. C’era la gara aggiudicata, che ha vinto Impregilo. Avevamo iniziato i lavori, posto le fondamenta dei basamenti. Ma appena cadde il governo Berlusconi e arrivò il governo Prodi, il nuovo ministro dei Lavori pubblici, tale Antonio Di Pietro, fermò le macchine. I soldi erano già stanziati, ma la furia ideologica era quella di chi voleva solo fermare tutto. Fermare i cantieri, ma anche gli avversari politici. E certo, le due cose insieme. Lì con Di Pietro nacque la politica giudiziaria che ha poi portato a quel che è venuto dopo. Movimenti ideologizzati con l’unico ideale di fermare tutto, di incarcerare i nemici, di mandare tutti a casa, di rinunciare alle opere pubbliche. Io invece dico che è ora di ricostruire. A partire dal ponte, immagino. Dai ponti. Quello tra la Sicilia e l’Italia, di cemento. E quello tra le persone. Abbiamo bisogno di rapporti umani, di calore umano, di prossimità. Di fiducia. Lei ha pagato con il carcere. A cosa doveva stare più attento? Un cattolico come me ha sempre motivo di pentirsi di qualcosa. Ho commesso tanti errori. Se potessi tornare indietro, con il senno di poi non li ricommetterei. So, nella mia coscienza, di non aver mai commesso l’errore di aver favorito la mafia. Anche se di errori ne ho fatti tanti altri. Però è stato condannato per favoreggiamento. Sono stato condannato per questa sentenza e l’ho rispettata. Ho rispettato la giustizia come è giusto che faccia chiunque venga perseguito dalla giustizia. Soprattutto quando ti graffia le carni e ti fa del sangue. Perché rispettare la giustizia quando riguarda gli altri è facile. Quando graffia le tue carni è più difficile. Ho fatto del rispetto della giustizia un dovere, anzi direi di averlo percepito come un diritto. Perché i diritti si scelgono, i doveri si ottemperano. Come è stata la sua esperienza in carcere? Difficile. Privazione, dolore. Chiuso in cella insieme ad altre quattro persone, a Rebibbia. Aiutato dall’amore della mia famiglia e dalla fede, che hanno fatto diventare quei cinque anni pieni di giornate fertili. Ho trovato nelle carceri comunità ricche di umanità e solidarietà vere. Da parte delle persone. Non delle istituzioni. Assolutamente così. Umanità della comunità carceraria, dei detenuti ma anche degli agenti, degli operatori. Quello che non è umano è il sistema così come è concepito. Il carcere va umanizzato, perché lì dentro ci sono persone con la loro dignità e la loro storia. Nessuno Stato può permettersi di vessare, umiliare i detenuti. Perché la funzione del padre non può coincidere con la funzione del torturatore. Altrimenti nasce l’accademia del crimine. Si impara a essere ostili verso le istituzioni. Lei invece alle istituzioni vuole restituire qualcosa. Voglio tornare a far avvicinare i giovani alla politica, rifondare la Democrazia Cristiana con l’emozione dei grandi sogni. Tornare a parlare di Sturzo, De Gasperi. Promuovere una scuola delle idee che ha fatto vincere la democrazia nel Novecento, portando di nuovo tante persone insieme, appena si potrà. In occasioni di incontro e di confronto comune. Mi viene in mente “Todo Modo”, Sciascia. Una persona fantastica di cui sono stato amico. Lui era in consiglio comunale con me a Palermo. No, non voglio fare Todo Modo. Ma un confronto aperto, solare, con generazioni nuove. C’è un altro palermitano importante, il presidente Mattarella. Il vero numero uno, nella storia della Democrazia cristiana, che farò studiare ai nostri giovani. C’è grande attenzione per il pensiero di Mattarella, che ha ancora un grande futuro davanti. Chi vede dopo di lui al Quirinale? Mattarella, nessun altro. Il Paese in questa fase ha bisogno di una certezza, ed è lui. Campania. Carceri come bombe a orologeria: incontro in Prefettura sull’emergenza Covid Il Riformista, 15 novembre 2020 Preoccupa e allarma la situazione dell’emergenza coronavirus nelle carceri campane. Sono oltre 150 i contagiati negli istituti della Regione, sei ricoverati presso gli ospedali, 200 i positivi tra gli agenti di polizia penitenziaria, personale medico e amministrativo. Il prefetto di Napoli Marco Valentini, accogliendo un invito del Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, ha ricevuto nella mattinata di oggi, presso la Prefettura di Napoli, Don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale, Don Giovanni Russo, cappellano del carcere di Secondigliano, Luigi Romano, presidente campano dell’Associazione “Antigone”, Valentina Ilardi, presidente dell’associazione “Liberi di Volare” e Pietro Ioia, garante napoletano dei detenuti. Un’occasione per sollecitare una serie di interventi migliorativi del decreto Ristori sulle carceri, le criticità sul piano sanitario e dei ritardi della magistratura di Sorveglianza. All’uscita dalla Prefettura a decine di familiari presenti, insieme a volontari e giornalisti, la delegazione ha riferito l’esito dell’Incontro. Per il Garante campano Ciambriello: “Abbiamo ringraziato il Prefetto per averci ascoltato e per il fatto che si è impegnato a scrivere al Governo, ai colleghi delle altre province a alla Regione per creare spazi adeguati al di fuori delle carceri per eventuali altri ricoveri di detenuti contagiati e in gravi condizioni. Siamo andati da lui con la consapevolezza che, di fronte alla tragedia del Covid nelle carceri, non si deve lasciare da solo nessuno e che il diritto alla salute va garantito anche nei luoghi di reclusione. Alla politica chiediamo atti di rottura e una svolta. Chiediamo risposte. Alla magistratura misure alternative e un cambio di mentalità”. Il cappellano di Poggioreale don Franco Esposito ha portato la sua testimonianza e ha tra l’altro dichiarato: “Abbiamo indicato inoltre alcune proposte, tra cui la possibilità di permettere ai detenuti che già vanno in permesso, a quelli che devono scontare gli ultimi anni, a coloro che sono in semi libertà, e a quelli che hanno vari tipi di patologie, di poter continuare a scontare la propria pena nelle loro famiglie attraverso gli arresti e la detenzione domiciliare. Abbiamo inoltre chiesto di farsi voce e di sostenere presso il governo la possibilità di un indulto almeno per i mesi in cui la pandemia sarà ancora così grave”. Lo stesso cappellano, con altri colleghi degli Istituti della Campania hanno lanciato un appello al ministro Alfonso Bonafede per sollecitare l’indulto o l’adozione di altre pene alternative allo scopo di alleggerire i penitenziari sovraffollati. I numeri dei contagiati tra Poggioreale e Secondigliano tra detenuti (146) e personale penitenziario ed operatori socio sanitario (85), il blocco dei colloqui, delle attività e degli ingressi di volontari hanno fatto emergere preoccupazioni ed allarme. Per Pietro Ioia, garante napoletano dei detenuti: “La preoccupazione, le ansie dei detenuti sono elevate, così come per loro e i loro familiari la rabbia di non sentirsi ascoltati da nessuno. C’è un clima di tensione. Occorre fare presto”. Secondo quanto denunciato in due settimane i contagiati nelle carceri sono aumentati di circa il 600%. Milano. Allarme contagi nelle carceri, le forze dell’ordine temono rivolte Libero, 15 novembre 2020 Contagi tra detenuti e personale penitenziario in costante aumento ormai da qualche settimana. Rapporti sempre più tesi tra agenti e una popolazione carceraria che protesta per l’impossibilità di avere un colloquio diretto coi familiari. Infine, la minaccia sempre incombente di una nuova rivolta interna, come quella che lo scorso marzo devastò San Vittore. È questa la situazione che si vive nelle carceri: una quiete fragile, di quelle che sembrano preannunciare una seria tempesta. Per farsi un’idea di quella che è la realtà, basta dare un’occhiata ai numeri delle tre principali strutture milanesi (Bollate, Opera e San Vittore) dove, stando ai dati del Ministero della Giustizia, al momento risultano esserci quasi 150 detenuti risultati positivi al Covid-19 con una decina che ha anche richiesto l’ospedalizzazione. Mentre molto più alto è il numero del personale ora in congedo per malattia, o sottoposto a quarantena fiduciaria: parliamo, in totale, di 235 agenti non in servizio in un periodo di estrema pressione per tutto il sistema carcerario. E porre rimedio a queste perdite sembra essere impossibile. “Ogni struttura va avanti con quello che ha, ovvero aumentando i turni di lavoro per il personale disponibile”, spiega un sindacalista della Polizia Penitenziaria. “Così capita che un solo agente si debba occupare anche di una trentina di detenuti percorrendo di ronda, avanti e indietro, i diversi piani”. A ciò si aggiunge poi il problema cronico del sovraffollamento delle carceri ad Opera le celle, in teoria singole, sono poi in realtà delle doppie - cui il decreto Ristori si propone di trovare una soluzione, affidando ai domiciliari con braccialetto elettronico oltre 3.300 detenuti. Ma, alla fine, i beneficiari totali del decreto potrebbero essere 2 mila in più. Descritte così le carceri della Lombardia sembrano una specie di bomba pronta ad esplodere, ma ascoltando il racconto di chi ci lavora dentro, giorno per giorno, il quadro assume un aspetto ancor più drammatico. Ad esempio, a San Vittore, oltre a 18 agenti risultati positivi al Covid 19, come affermato solo pochi giorni fa dal direttore Giacinto Siciliano, ce ne sono altri 81 in aspettativa per malattia. Tra i detenuti, poi, ci sono 85 positivi, ma anche 123 che sottoposti a isolamento precauzionale. Talvolta in cella insieme ai propri compagni. “Significa che tutti gli occupanti di quella cella non possono più avere contatti con gli altri detenuti e la loro aggressività aumenta”, spiega una persona che nella struttura presta servizio da anni. “Abbiamo dovuto imparare un lavoro completamente nuovo. Ma come fai a fare una perquisizione se devi stare a un metro? Come fermi una persona che aggredisce il compagno di cella? Nemmeno a marzo c’era una situazione del genere”. Ecco perché la prossima settimana, con la nuova sospensione dei colloqui, sarà cruciale. Bari. Screening anti-Covid nel carcere: tamponi per detenuti, poliziotti e personale sanitario baritoday.it, 15 novembre 2020 Parte lo screening anti-Covid nel carcere di Bari. I controlli sono stati avviati dall’unità operativa complessa di Medicina penitenziaria, in sinergia con il Dipartimento di Prevenzione della ASL, e saranno estesi - fa sapere la Asl - anche agli altri istituti di Altamura, Turi e al carcere minorile. Gli operatori stanno effettuando tamponi rapidi o test molecolari su tutti i detenuti presenti nell’istituto barese, compreso il personale sanitario e gli agenti di polizia penitenziaria. Sono stati programmati 700 tamponi, di cui 200 già effettuati. Lo screening sarà effettuato per ogni singola sezione detentiva e in maniera separata in quanto ogni sezione non ha contatti con le altre. La procedura risponde ad una esigenza di sicurezza per ottenere un eventuale riscontro istantaneo della presenza del virus e circoscriverne la diffusione. “In considerazione della evoluzione della curva epidemiologica dei contagi da infezione da Sars - Cov 2 sia a livello nazionale che regionale si è deciso di rendere più efficace la prevenzione dell’importazione del virus nel carcere per evitare o ridurre al minimo il verificarsi di temibili focolai di epidemia - spiega il dottor Nicola Buonvino, direttore della Uoc di Medicina Penitenziaria - la popolazione detenuta rientra infatti tra le fasce a maggior rischio di contrarre l’infezione da Covid-19, dovuto all’ingresso di nuovi detenuti agli stessi operatori che a vario titolo esercitano la loro attività dentro l’istituto”. L’Unità di Medicina Penitenziaria di Bari è stata la prima tre le strutture del Sud a recepire le direttive nazionali per mettere in atto un piano di protezione di una comunità fragile, come quella detenuta, attivando una organizzazione igienico sanitaria articolata e finalizzata a bloccare il contagio. All’interno del carcere di Bari è stata realizzata infatti una rete protettiva più complessa, in quanto la casa circondariale di Bari ospita un servizio di assistenza intensificata e accoglie una popolazione detenuta con problematiche sanitarie. Il protocollo di sicurezza è stato poi esteso a tutti gli istituti penitenziari afferenti alla UOC di Medicina Penitenziaria - Altamura, Turi e carcere minorile - dove sono state attuate misure preventive che prevedono percorsi protetti e separati per i nuovi ingressi. Parallelamente allo screening anti Covid è stata avviata e quasi conclusa la campagna di vaccinazione antinfluenzale per detenuti e operatori. L’attività di prevenzione della influenza è stata infine affiancata dal progetto “Popolazioni speciali HCV free” che prevede - mediante l’utilizzo di test salivari - la possibilità di fare diagnosi precoce dell’HCV per scongiurare il rischio di diffusione della epatite c in ambito penitenziario oltre a consentire di ricorrere a nuovi farmaci per la cura della patologia. Milano. I nuovi poveri in coda per gli aiuti: riparte la macchina dei volontari di Fabrizio Guglielmini Corriere della Sera, 15 novembre 2020 Caritas Ambrosiana: “Raddoppiate le famiglie in crisi, è una catastrofe sociale”. Le Brigate volontarie per l’emergenza ad oggi contano 16 gruppi territoriali e consegnano cibo a domicilio, in collaborazione con Emergency. E sta per partire il “piano freddo”. Una periferia cambiata in pochi mesi, da quando l’emergenza Covid ha reso sempre più critiche le condizioni economiche di residenti che mai avrebbero pensato di chiedere aiuto alle organizzazioni di volontariato. “Qui a Villapizzone si conoscono tutti, il tessuto sociale tiene, ma è impressionante vedere quanti nuovi poveri sono in fila per ricevere aiuti; una situazione che si ripete in tutta l’area metropolitana” - dice il direttore di Caritas Ambrosiana Luciano Gualzetti - “perché la solidarietà interna alle singole comunità, i singoli gesti di altruismo, non bastano più”. Sabato in mattinata a Villapizzone è arrivato anche il sindaco Giuseppe Sala e, insieme ai volontari, ha distribuito pacchi di cibo in occasione della quarta Giornata Mondiale della povertà voluta da Papa Francesco. “Il Comune di Milano - ha scritto Sala sulla sua pagina Facebook - in rete con le altre realtà attive sul territorio, è pronto a mobilitarsi nuovamente, come durante la prima ondata, per raggiungere chi ha più bisogno, come nel caso di Villapizzone, dove sono numerosi i nuclei familiari giovani con bambini”. Su questa falsariga si inserisce la mappatura dei reali bisogni nei quartieri in questa fase emergenziale, a cui Palazzo Marino sta lavorando con i Municipi per riattivare meccanismi di aiuto per le fasce più fragili della popolazione. Il direttore di Caritas vede una prospettiva ancora più problematica nei prossimi mesi: “Le conseguenze delle misure, ovviamente necessarie contro la pandemia, renderanno nel futuro prossimo la situazione ancora più grave. Basti pensare che da marzo a luglio il numero delle famiglie che si sono rivolte a noi è raddoppiato, da 9 a 18 mila, dati di una vera e propria catastrofe sociale che sono destinati a crescere con l’aggravarsi della seconda ondata”. Poi un appello rivolto a tutti: “Abbiamo bisogno di chiunque voglia darsi da fare per reggere l’ondata di richieste da qui a gennaio e febbraio del prossimo anno quando prevediamo un aumento esponenziale di persone bisognose”. Sono oltre 240mila i milanesi impegnati in favore degli altri (dati Istat 2018) nell’area metropolitana - il 7,4% dei residenti - collaborando con oltre 9.500 istituzioni per il sociale o a titolo individuale, persone, queste ultime, che fanno autonomamente attività solidale, una “prima linea” di prossimità (come in favore dei vicini) che rappresenta la maggior novità del volontariato- secondo molti operatori - sia nella prima che nella seconda ondata della pandemia. Il Covid ha fatto aumentare le richieste di aiuto - a domicilio per le fasce fragili ma anche per le sempre più numerose quarantene - rendendo necessaria la formazione dei volontari per operare in sicurezza, obiettivo questo del ciclo di serate (in webinar) curate da Università del Volontariato di Milano e Fare Non Profit di Csv, per comunicare i reali margini operativi: alcune attività (come quelle dei Centri anziani) in seguito all’ultimo Dpcm sono ora gestite via web. Si sono invece strutturate sul territorio, dal marzo scorso, le Brigate volontarie per l’emergenza che ad oggi contano 16 gruppi territoriali che coprono Milano e parte dell’hinterland, in collaborazione con Emergency. “La ong di Gino Strada - dice il responsabile Valerio Ferrandi - ci ha aiutato a raccogliere parte delle 400 tonnellate di cibo che abbiamo distribuito fino ad oggi comprese le consegne a domicilio per chi non è autonomo o in quarantena. Ma la rete dei donatori si sta allargando”. Emergency ha anche seguito la formazione per i protocolli anti-Covid. Altro tema pressante è quello dei senzatetto: “Siamo alle porte del piano freddo che partirà fra quindici giorni - dice il direttore del Csv Milano-Centro di Servizio per il Volontariato Marco Pietripaoli - e questo richiama la nostra attenzione verso i senza fissa dimora che avranno bisogno di un’assistenza speciale nel momento dell’accoglienza nelle strutture”. Csv - che come mission sostiene e qualifica le organizzazioni no profit - “chiede ai volontari, in questa fase, di non lavorare soli per evitare un’eccessiva frammentazione degli interventi ma anzi creando nuove task force come avvenuto per i 700 neo-volontari milanesi che hanno prestato la loro opera durante la prima ondata”. Un invito rivolto anche alle associazioni più piccole per un maggior coordinamento in vista dei “grandi cambiamenti” - rimarca il Csv - “che il mondo del volontariato dovrà adottare nel post-Covid a cominciare dal lenire una povertà sempre più diffusa”. Varese. Ai Miogni si pedala con le biciclette riparate dai detenuti varesenoi.it, 15 novembre 2020 Riprendono le attività al carcere varesino dove parte il corso Ciclofficina in collaborazione con Enaip: un piccolo gruppo di detenuti saranno impegnati a riparare le bici, un progetto che coinvolgerà poi anche gli studenti. Quando tutto sembra fermo qualcosa comunque si muove anche nel carcere varesino dei Miogni; questo qualcosa è la ruota di una “Graziella” che riprende a far roteare i sui raggi. Si tratta di un laboratorio formativo nel settore della meccanica ciclistica, attivato da Enaip con il sostegno della Regione Lombardia. In questi giorni si sta concludendo la fase di allestimento degli spazi e il laboratorio ospiterà quattro postazioni didattiche cui saranno impiegati i detenuti che parteciperanno al progetto. Si tratta di un percorso formativo e, al momento, nel rispetto delle attuali normative sanitarie Covid, gli iscritti al corso di meccanica ciclistica sono quattro. Al termine dell’emergenza sanitaria, la formazione coinvolgerà complessivamente otto partecipanti, quattro detenuti e quattro giovani allievi provenienti dal settore meccanica dell’Enaip di Varese. Sarà il dialogo “interno/esterno” che accompagnerà tutta la formazione: la prima fase si concluderà a metà dicembre mentre, da gennaio, attraverso altri canali di finanziamento già individuati dalla Casa Circondariale in collaborazione di Enaip, il progetto continuerà il suo percorso. “Il progetto, - sostiene la direttrice della struttura Carla Santandrea - strutturato in collaborazione con alcuni Enti della città, parte da un’idea legata a uno sport che ha un particolare legame con il territorio, basti pensare alla Società Ciclistica Alfredo Binda e ai ciclisti professionisti che sono nati in questa provincia. In questo laboratorio, recuperato da un vecchio magazzino, i detenuti potranno acquisire competenze professionali per la riparazione di biciclette. Per questo i detenuti lavoreranno su due ruote recuperate e funzionanti”. Albiate (Mb). La coop nata per aiutare i detenuti ora è leader nei servizi cimiteriali di Paolo Rossetti ilcittadinomb.it, 15 novembre 2020 Storia della cooperativa “Il Ponte” di Albiate: è nata nel 1996 per dare lavoro ai detenuti del carcere di Monza, ma adesso è diventata leader nel mercato dei servizi cimiteriali tra la Brianza e il Milanese. Ha vinto un lotto per lavorare anche al cimitero Maggiore di Milano. Tra la Brianza, Monza esclusa, e Milano, è leader nel mercato dei servizi cimiteriali. Può vantare di lavorare in 102 cimiteri. Recentemente ha vinto un lotto con il consorzio Alpi relativo alla gestione del cimitero maggiore di Milano. E proprio grazie alla Finanza di progetto, con la quale i comuni proprietari cedono in toto la gestione dei servizi, lasciando che la società che vince l’appalto si occupi di ogni aspetto della gestione, dai funerali, alla costruzione di nuovi posti, all’esumazione, al contatto con gli utenti, ha accresciuto negli ultimi anni il proprio fatturato. L’azienda che si è imposta in questo settore grazie a un’offerta che solleva i Comuni dal peso della gestione è la cooperativa “il Ponte” di Albiate. Una delle realtà più strutturate del mondo cooperativo lombardo e anche forse del Nord Italia. Insieme al verde questo è il suo core business, tanto che durante i momenti peggiori della pandemia, quando purtroppo i tragici effetti della diffusione del virus hanno causato migliaia di morti in Italia, invece che 20-22 funerali al giorno è arrivata a gestirne non meno di 50’ superando, in alcuni casi, anche questa quota. La crescita. Dal 1996, anno della sua nascita, la coop di strada ne ha fatta parecchia. è sorta, in collaborazione con Carcere aperto, l’associazione dei volontari della casa circondariale di via Sanquirico a Monza, come strumento per dare lavoro ai detenuti, anche se oggi ha in carico solo una persona che ha a che fare con questo tipo di esperienza. Ora si occupa anche di tossicodipendenti, di persone che hanno avuto problemi di alcolismo o anche psichici, dando spazio per il 30 per cento dei suoi dipendenti a chi si trova in situazioni di disagio, anche se poi in realtà, le opportunità vengono offerte anche a persone che non appartengono a categorie definite ufficialmente come disagiate, ma che vivono nei fatti una situazione di difficoltà. “La nostra mission - spiega Paolo Gibellato, in cooperativa dal 1998 e ora presidente - è l’attenzione alla persona. Ogni volta valutiamo lo stato delle persone, cerchiamo di capire quale può essere la collocazione migliore per loro, tenendo conto delle difficoltà che incontra chi esce dal carcere o dalla comunità, che spesso si trova di fronte una realtà molto cambiata rispetto a quelle precedente, ad esempio, al periodo di reclusione”. Si, perché la coop è una realtà economica di tutto rispetto, capace negli anni di portare un fatturato che nel 2014 era intorno ai 4 milioni di euro fino agli 8 milioni di euro del 2019 e di dare lavoro a 150 persone (130 delle quali a tempo indeterminato), ma non tradisce quello che è lo spirito originario della cooperazione, che parte dalle esigenze della persona: “il nostro obiettivo è il reinserimento sociale - dichiara Gibellato. E più della metà delle persone che vengono da noi hanno avuto un buon recupero sociale”. Non sono tornati a delinquere, insomma, o non sono ricaduti nella tossicodipendenza. Certo poi ognuno ha la sua storia e c’è chi, invece, non riesce a sfruttare le opportunità che gli vengono concesse e ripete gli errori del passato ma le possibilità di reinserimento non sono poi così basse. Anche perché “Il Ponte” mette a disposizione anche uno psicologo, Enea Paglia, che si occupa del personale. Appalti e affidamenti. La coop lavora soprattutto in ambito pubblico, con appalti o affidamenti diretti, occupandosi, oltre ai cimiteri, anche della manutenzione del verde, dalla potatura alla manutenzione. Oltre a questi due ambiti c’é poi quelle delle pulizie. “Il Ponte” appartiene al Consorzio Comunità Brianza, ma anche al consorzio Alpi, di cui fanno parte anche imprese private comunque sensibili all’aspetto sociale del lavoro. E collabora con Exodus di don Mazzi. è una cooperativa di tipo B, di inserimento lavorativo, da due anni fusa con Empiria, coop di tipo A. Gestisce un asilo in via Toti a Monza, ma anche un ristorante a Triuggio anche se si tratta di una realtà sulla quale sono incorso delle valutazioni visti anche i problemi di funzionamento causati dalle limitazioni introdotte dalle norme anti Covid. Un impegno in diverse direzioni, ma che non perde di vista il valore aggiunto della cooperazione, l’obiettivo principale, dare una possibilità a chi per tanti motivi ed errori commessi parte da una situazione di svantaggio. E di farlo attraverso un’azienda solida dal punto di vista economico, in grado di reggersi da sola, di produrre ricchezza, come strumento per aiutare le persone. Ancona. Con Radio Incredibile fiabe e favole in libertà da Montacuto di Giovanni Guidi Buffarini Corriere Adriatico, 15 novembre 2020 L’associazione Radio Incredibile è una piattaforma multimediale di musica e life sharing che utilizza la radio come strumento educativo per un’ampia gamma di attività differenti. Anche in spazi sociali marginali e difficili come il carcere. E nel carcere di Montacuto (Ancona), per il terzo anno, Radio Incredibile ha organizzato il laboratorio Fiabe in Libertà, un progetto sostenuto dalla Fondazione Cariverona e realizzato in collaborazione con La Casa di Asterione e Musicandia Vintage Studio. Fiabe raccontate dai detenuti. In tal modo - ha spiegato la responsabile del Laboratorio Montacuto Allegra Mocchegiani, durante la diretta Facebook e YouTube (chi non vi ha assistito può recuperarla sulla pagina e sul canale dell’associazione - dunque, “i detenuti possono riattivare la loro creatività e dare una forma un po’ diversa al proprio passato”. La fiaba 2020 ha assunto la forma di un cortometraggio: “Il Boscaiolo, lo Scoiattolo e la Strega Tagliabue”. Diretto da Moreno Mascaretti, scritto da Allegra Mocchegiani ed Emanuela Razza, interpretato da detenuti sui fondali di Silvia Forcina, disegni poco dettagliati a colori vivaci (“perché la realtà fuori, per i ragazzi del carcere ha tanti colori e luminosi mentre i particolari, nel ricordo, svaniscono”). Una piccola storia accattivante. Il guardaboschi Tommaso libera uno scoiattolo parlante. Si chiama Lenticchia, rivela al suo salvatore che, nella cosiddetta Oasi degli Animali, le bestiole sono in realtà sottoposte ad atroci esperimenti e infine ridotti a pellicce. Responsabile delle atrocità è l’untuosa strega Tagliabue. La affrontano Lenticchia, il guardaboschi e Capitan Balbuzia. Un sordo torna utile per qualche comico quid pro quo. Quando si mette male, tocca alle puzzole. La punizione per la strega? Riparare il male fatto: curando gli animali e imparando a rispettare il bosco. Lenticchia è interpretato da Valerio Andreucci. In una lettera ha esternato la sua gratitudine verso gli artefici dell’iniziativa. “In questi tre anni di detenzione siete riusciti a ritagliarmi uno spazio di libertà, mi avete portato serenità mentale. Avete dimostrato un cuore che non vedo mai nelle persone che vengono a trovarci in carcere”. Sua madre Sonia si è commossa, e con lei tutti i presenti, ciascuno al suo computer (spiace non poterli ricordare uno a uno). Marta Cenzi della Fondazione Cariverona: “Questo è un piccolo progetto ma significativo. Ci abbiamo scommesso da subito”. Cosa bolle in pentola per il prossimo anno? Non è dato saperlo ma qualche idea salterà fuori. Di Fiabe in Libertà ce ne saranno ancora. La pandemia e il declino dei cacicchi di Massimo Giannini La Stampa, 15 novembre 2020 “La seconda ondata sarà più dura della prima, come cento anni fa, ai tempi della Spagnola… Arrivati a questo punto le chiusure sono l’unica scelta… Avremmo dovuto agire prima, ma per i cittadini non sarebbe stato facile accettarlo…. Hanno bisogno di vedere i letti degli ospedali pieni…”. Come sempre succede dall’inizio di questa tragica pandemia, l’ultimo discorso ai tedeschi lo ha fatto Angela Merkel in persona, mercoledì scorso. Come sempre accade da dieci mesi a questa parte, ha parlato con il linguaggio ruvido e impietoso del Capo di Stato, che non teme l’asprezza dei fatti e la scontentezza del suo popolo. E come sempre avviene un minuto dopo che la Cancelliera ha spento il microfono, nessuno le ha dato sulla voce e il Sistema-Paese si è messo in moto per fare quello che serve a tamponare l’emergenza: i responsabili dei sedici Laender (lo racconta Thomas Wieder su “Le Monde”) hanno già elaborato altrettanti piani per l’acquisizione delle dosi, la conservazione a meno 70 gradi e la distribuzione alla popolazione dei vaccini annunciati da Pfizer per dicembre. Penso alla Germania, mentre guardo l’Italia. E vedo la Torre di Babele. Il disordine politico e il rancore sociale. La guerriglia tra i poteri e la “sleale collaborazione” tra le istituzioni. Tre giorni fa agli italiani parla il commissario straordinario Domenico Arcuri, che non è la Merkel, ma l’amministratore delegato di una azienda pubblica, e con tutto il rispetto non è la stessa cosa. Nel frattempo, il presidente del Consiglio Conte, oltre a dispensare fatui consigli sul “momento di spiritualità” del Santo Natale, dà al nostro giornale un’intervista per difendere il meccanismo delle chiusure territoriali, per spiegare che farà di tutto per evitare il lockdown totale. Spera che nel frattempo la curva dei contagi inizi a flettere, come sembra. Poi porge un tardivo e svogliato ramoscello d’ulivo alla destra e annuncia che è pronto ad allargare i cordoni della borsa dei ristori (aumentando il deficit anche per il 2021). Un minuto dopo il Paese precipita nel solito, indecente, insopportabile pollaio. Parlano tutti, quasi sempre a sproposito. Ministri, viceministri e sottosegretari azzardano inutili esegesi delle dichiarazioni del premier e delle intenzioni dell’esecutivo. Improbabili peones della maggioranza approfittano dei quindici secondi di celebrità generosamente concessi dai Tg per scandire il vuoto in mini-spot preregistrati. Gli sconnessi triumviri dell’opposizione non rinunciano alla consueta “recita a soggetto”. Da una parte Berlusconi, che in una telefonata quasi epifanica a Fabio Fazio scopre una vena da Statista che non ha mai avuto quando lo Stato lo “possedeva” davvero, e responsabilmente apre a tutto, al governo, al tavolo di consultazione, alle larghe intese. Dall’altra parte Salvini, che invece per principio sbarra porte e finestre a qualunque forma di dialogo, e di fronte a un Male planetario che fa 51,6 milioni di contagiati e miete 1,2 milioni di vittime non trova di meglio che invocare un altro bel condono, purtroppo mai “tombale” come in questo caso. In mezzo la Meloni, che sembra dire “vorrei ma non posso”, e si giustifica con le “duemila proposte fatte da Fratelli d’Italia e rifiutate dal governo” (fingendo di non capire che se fai duemila proposte non ne hai fatta nessuna). E poi esimi virologi, epidemiologi e pneumologi, che volentieri partecipano alla cerimonia cannibale dei talk show e dei social network. Ma i veri galli del pollaio non stanno a Palazzo Chigi (dove pure si è sbagliato molto). Neanche in Parlamento (dove non si è mai discusso abbastanza). E neppure negli studi Rai-Mediaset-La7 (dove invece si è sempre sdottoreggiato troppo). Abitano invece nei sontuosi palazzi delle Regioni. Sono i Cacicchi locali, che in queste ore stanno dando il peggio di sé. A febbraio-marzo, durante la prima ondata, i governatori hanno protestato contro il governo decisionista e contro il lockdown generalizzato e indiscriminato: reclamavano “autonomia differenziata”. A inizio autunno l’hanno ottenuta, con l’undicesimo e il dodicesimo Dpcm. Allora hanno protestato contro il governo indeciso che scaricava su di loro l’onere delle restrizioni. Adesso, con il tredicesimo Dpcm, il governo toglie loro le castagne dal fuoco e riprende la guida minima di un Paese allo sbando. Divide l’Italia in tre fasce e fissa requisiti oggettivi e automatici (dall’indice Rt alla tenuta delle terapie intensive) in base ai quali le regioni allentano o stringono le maglie della chiusura. Ma i Cacicchi protestano lo stesso: non vogliono finire nella zona rossa, che li espone allo “stigma” politico e alla rabbia delle categorie. Una miscela indecorosa di schizofrenia, di irresponsabilità, di cinismo. L’archetipo stavolta non è il governatore lombardo Fontana, che con il suo ineffabile assessore Gallera ci ha già mostrato il lato oscuro del “federalismo alla milanese”. È Vincenzo De Luca, che nell’ennesimo delirio digitale schiuma veleno su tutti, da Conte a Di Maio, da Spadafora a Saviano, tutti “sciacalli” che si nutrono della carne dolente della povera Campania. Eppure è lo stesso Sceriffo che il 23 ottobre scorso, in un’altra memorabile conferenza stampa, terrorizzava i suoi corregionali mostrando una Tac ai polmoni di un giovane 37enne devastato dal morbo e tuonava “è necessario chiudere tutto, chiedo al governo un lockdown nazionale, in ogni caso la Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo”. Ora che la sua Regione va dove lui stesso voleva che andasse, cioè in lockdown “forzato”, si ribella come un Masaniello qualsiasi. Nonostante l’allegro “struscio” di ieri al Vomero. Nonostante il disastro dei suoi ospedali, che tutti abbiamo visto. Nonostante il povero cristo lasciato morire in un bagno del Pronto Soccorso, tra incuria e sporcizia di un Cardarelli ridotto a lazzaretto del Terzo Mondo. E che dire della Sardegna, dove il governatore Solinas, per accontentare la lobby dei discotecari, ha aperto “pista selvaggia” ad agosto trasformando la Costa Smeralda in una bomba biologica, salvo poi ripararsi dietro la mail sgrammaticata di un confuso membro del Comitato Tecnico Scientifico? Che dire della Calabria, dove il penoso reggente Spirlì si permette di irridere Gino Strada, perché “non abbiamo bisogno di un missionario africano”, mentre le Asl vanno in malora e mentre si consuma la tragicomica farsa di un ex commissario alla sanità dimissionato perché gli competeva un piano anti-Covid “a sua insaputa” e di un sostituto ancora più inaccettabile perché no-mask? Il Coronavirus, oltre che un irriducibile “attore sociale” della Crisi, sarà anche un inesorabile “stress test” per la nostra classe dirigente nazionale e locale. Il valore delle leadership si misurerà dal modo in cui sarà affrontata, gestita e risolta questa emergenza epocale. Finora, di fronte a tanta entropia politica e istituzionale, amministrativa e sanitaria, non so dire chi ha superato l’esame. So solo che di fronte a certi governatori, come diceva Woody Allen, “mi vengono pensieri che non condivido”. Uno su tutti: invece delle province, non sarà meglio abolire le Regioni? Nell’inverno scorso, a parte la Cina, siamo stati i primi a subire l’aggressione dell’agente patogeno. E per primi ci siamo dovuti difendere da un nemico invisibile e sconosciuto. L’abbiamo fatto con la misura più estrema e traumatica: la chiusura totale. Abbiamo pagato un prezzo altissimo, con un costo incalcolabile di vite umane (30 mila in cinque mesi) e di perdite economiche (47 miliardi al mese). Ma abbiamo capito, abbiamo obbedito, abbiamo resistito: chiusi in casa, ma con i balconi aperti per cantare insieme e sventolare il tricolore. “Andrà tutto bene”, gridavamo, scrivevamo, credevamo. Nostro malgrado, avevamo accumulato due-tre mesi di vantaggio, per rimediare alle rovinose carenze del sistema sanitario colto di sorpresa dall’invasione del Covid. Nella pazza estate della Movida, invece, quei due-tre mesi li abbiamo sprecati: non abbiamo colmato antichi vuoti e storiche lacune. Non abbiamo costruito 40 mila terapie intensive, come hanno fatto i tedeschi. Non abbiamo fatto 4 milioni di tamponi per ogni contagiato, come ha fatto la Cina. Non abbiamo tracciato 20 milioni di asintomatici, come ha fatto il Giappone e la Corea del Sud. Non siamo stati cicale? Giuseppe Conte giura di no. Allora diciamo che abbiamo fatto gli struzzi. Testa sotto la sabbia. Per non vedere che dopo i mohijto e i balli in discoteca c’era la seconda ondata d’autunno. E ci aspettava. Covid e divieti, Sabino Cassese: “Le raccomandazioni non bastano, servono norme chiare e buon senso” di Marco Conti Il Messaggero, 15 novembre 2020 Professor Sabino Cassese, sulle disposizioni anti-Covid si registra una notevole confusione. Ieri, nell’editoriale del Messaggero firmato da Carlo Nordio, si chiedevano appunto disposizioni chiare in vista del Natale. Lei che è uno dei più autorevoli giuristi italiani ed è stato anche giudice della Corte Costituzionale non trova improprio l’uso di formule come “è fortemente raccomandato” da parte del governo? “Le autorità pubbliche possono ordinare e raccomandare. Sarebbe bene che tenessero distinti ordini da raccomandazioni. Gli ordini sono seguiti da accertamenti e da sanzioni. Le raccomandazioni non lo sono. In previsione del Natale sarebbe assai opportuno impartire disposizioni chiare”. Si potrebbe evitare l’uso di termini impropri o vaghi nei documenti ufficiali come accaduto con la parola “congiunti”? “Congiunti” non è esattamente improprio, nel senso che è termine usato in qualche norma di codice e in altre norme di rango primario. Il problema è diverso e più generale. Gli atti normativi e quelli amministrativi che prescrivono comportamenti per tutta la collettività, e che spesso entrano in vigore in tempi brevi, debbono essere chiari. Chi li scrive dovrebbe leggere i molti manuali di stile redatti in Italia e fuori per la stesura delle norme. Ad esempio: le prescrizioni vanno raggruppate per materie, in modo che siano facilmente localizzabili. Non vi debbono essere rinvii ad altre norme, in modo che i poveri lettori non debbano munirsi di pacchi di codici e pandette. Le frasi debbono essere brevi e non contenere espressioni ambigue”. Indicazioni generiche o sbagliate possono rendere giuridicamente inefficace un Dpcm? “Se con inefficace intende che la norma non sia valida, la risposta è “no”. Vanno rispettate anche quelle scritte con i piedi, a cui siamo purtroppo abituati, da parte di questo e di altri governi. Se invece intende che le norme generiche e sbagliate corrono il rischio di non esser rispettate, le rispondo di “si”, ma auspicando che non accada, perché in questo modo, cioè scrivendo norme generiche o sbagliate, si fa un danno alla sanità pubblica”. Corriamo il rischio di avviarci verso uno stato autoritario se fissiamo regole anche per i comportamenti familiari? “Le grida di cui scrisse Manzoni avevano titoli altisonanti, linguaggio contorto, eccessivi dettagli e pene assai severe per chi le violava, ma venivano ampiamente disattese. Lo stesso può accadere se si dispone che non possono riunirsi più di sei familiari. Ciò non toglie che il presidente dell’Istituto superiore di sanità pubblichi un “decalogo” con consigli sanitari a fini di profilassi. Ma questo comporta che i nostri politici rinuncino alle loro ambizioni di popolarità. Leggano quel bel libro che scrisse John F. Kennedy, prima di diventare presidente degli Stati Uniti, in cui magnificava il coraggio dei politici di esser impopolari nell’interesse della collettività, e passino meno tempo a fare i pavoni dinanzi alle macchine da presa”. In questo contesto, sarebbe giuridicamente possibile vietare o limitare le messe a Natale? “È un problema di gravità della situazione e di proporzioni. Se si consente alle persone di andare al supermercato, si può vietare loro di recarsi alle cerimonie religiose, così limitando la libertà di culto, garantita dalla Costituzione? Forse nutrire l’anima - se così posso esprimermi - è meno importante del nutrire il corpo? Naturalmente, accesso e permanenza nei luoghi di culto dovrebbero esser sottoposti a limiti generali che possono valere per altri luoghi”. Da giurista che consigli darebbe al governo per evitare di aumentare la confusione sui comportamenti da tenere a Natale? “Non dò consigli, specialmente se non richiesti. Basterebbe ricordare che sia governo che Parlamento, in passato, hanno redatto codici di stili o altre raccomandazioni similari, per la redazione di norme e di atti amministrativi. Ma occorre che si sappia leggere. E basterebbe ricordare che c’è una Costituzione che contiene prescrizioni molto chiare sui diritti, sui diritti inviolabili e sui modi in cui i diritti possono esser limitati in modo legittimo, prescrivendo le procedure relative. Ancora una volta, basta saper leggere. In più, un po’ di buon senso non guasterebbe”. Saviano: “De Luca è come Chavez, la camorra approfitta di questo malessere” di Francesca Schianchi La Stampa, 15 novembre 2020 Sulla situazione nelle regioni del Sud: “Momento drammatico, sarà un disastro sociale ed economico”. Paragona Vincenzo De Luca a Chavez, “fa dirette sudamericane ogni giorno”. Ragiona sulla sua Napoli e quello che sta vivendo, Roberto Saviano: attacca la gestione delle istituzioni - “tensioni nefaste” - critica il presenzialismo tv degli esperti- “il dibattito continuo e fluviale disorienta” -, assolve i suoi concittadini che ieri hanno invaso le strade della città - “stanno pagando un prezzo altissimo” - ma mette in guardia sulle infiltrazioni della malavita: “Dove le imprese falliscono, arrivano loro”. Partiamo da De Luca: “camorrologo milionario”, l’ha attaccata, che “continua a parlare di cose di cui non capisce niente”... “De Luca fa dirette sudamericane quasi ogni giorno, solo Chavez lo eguagliava... Dovrebbe sprecare meno energie a bullizzare chi non è d’accordo con lui, smetterla di mostrarsi in contraddizione con chiunque e addossare responsabilità a chiunque, tranne che a se stesso”. “Odio tantissimo”, ha detto in un’intervista all’Espresso, ad esempio quelli che “stanno dalla mia parte ma pugnalano alle spalle”. Pensa anche a De Luca? “De Luca non è mai stato dalla mia parte, né io dalla sua”. Che impressione le ha fatto il suo sfogo di venerdì? “De Luca si sfoga continuamente, si sfoga con chiunque... Ma questa volta è diverso. Ha chiaramente invocato la caduta del governo. Zingaretti, che lo ha sempre sostenuto, non mi pare che lo abbia invitato a essere più cauto”. Vuole dire che secondo lei anche il segretario dem pensa alla caduta del governo? “Alludo a questo”. Com’è stata gestita la situazione in Campania? “Malissimo, perché in Campania, come in Calabria, in Puglia, in Sicilia, la sanità pubblica già aveva problemi enormi prima della pandemia”. E ci sono state continue tensioni tra diversi livelli istituzionali... “Sono tensioni nefaste. Regnano incomprensione e sotterfugio. Da cittadini si assiste attoniti a una sfida nella quale tutti provano a lucrare e a lasciare il cerino in mano all’altro. Che dignità c’è in tutto ciò?”. Avrà visto anche lei il video del signore morto nel bagno del Cardarelli. Che effetto le ha fatto? “Un fatto drammatico, terribile. Tutti indignati ora, ma la sanità napoletana era allo stremo da anni. La sola speranza è che il dolore di oggi si tradurrà in progetti concreti”. Il campano Di Maio si è detto indignato, invocando l’intervento del governo e parlando di un Sud che rischia di implodere... “Si riscoprono tutti campani all’improvviso. Mai sono riusciti a porre il Sud al centro del progetto politico anziché usarlo solo come serbatoio di clientele”. Pensa fosse giusto arrivare alla zona rossa? “Non ho le competenze per fare valutazioni sanitarie e francamente il dibattito continuo e fluviale tra virologi in tv non aiuta, anzi disorienta. Più parlano i virologi più c’è confusione: dovrebbero non diventare opinionisti ma divulgatori di analisi scientifiche. Ma, per farlo, dovrebbero parlare molto meno e concentrarsi sugli studi e gli aggiornamenti, basandosi solo su risultati stabili e non creando questa incredibile confusione. Quello che si percepisce con forza è il timore di non farcela a sostenere economicamente questa fase, soprattutto se dovesse durare ancora”. C’è il rischio che il Sud non regga alla seconda ondata? “Non è solo un rischio, è una certezza. Al Sud la situazione è drammatica, perché lo era da troppo tempo nella mancanza di visione politica, che oramai manca da decenni. Un disastro sociale ed economico, provocato dalla mancanza del Diritto e dei diritti. Marco Pannella diceva sempre di lottare per la vita del Diritto e il diritto alla Vita”. Quanto è alto il rischio che camorra e malavita approfittino di questo malessere? “Già lo stanno facendo, sin dalla scorsa primavera. Pacchi spesa per le famiglie indigenti, tasso zero per l’usura. E dove le imprese falliscono arrivano loro. Questa è una fase nella quale inizia a scarseggiare la liquidità per far fronte all’immediato. Chi ha la liquidità in mano adesso può comprare a un prezzo molto basso, beni e purtroppo anche persone”. Lei ha parole molto dure per le istituzioni. Ma che impressione le fanno le strade della sua città piene per l’ultimo caffè, nonostante la gravità della situazione? “Ieri le strade erano piene in molte delle città che da oggi saranno zona rossa. Non mi sento di criminalizzare i napoletani, stanno pagando un prezzo altissimo per le inefficienze della gestione politica dell’emergenza e di conseguenza anche dell’ordinario”. “Gridalo”, s’intitola il suo nuovo libro; “basta con la gentilezza”, ha detto in un’intervista: è ora di ribellarsi? Non teme ribellioni e piazze fuori controllo? “Il libro è riflessione e il grido che nasce dalla riflessione il controllo non può perderlo. Quando non si può tacere, gridare è l’unica strada per chiedere giustizia. La politica agita lo spauracchio della piazza, perché se il dissenso è solo un problema di ordine pubblico, lo puoi reprimere. Ma la consapevolezza di essere stati criminalizzati e trasformati a turno e per categorie in capri espiatori rimarrà come una ferita a lungo in molti di noi”. Conte è un capo che non ci sta proteggendo, ha detto qualche tempo fa: lo pensa ancora? “Non è un capo politico, sembra non avere nulla da perdere. Può riposizionarsi e non scusarsi di niente. Lo ha già fatto con la transizione dal suo primo al suo secondo governo”. Migranti. “C’è un diritto al soccorso. Serve una mobilitazione” di Nello Scavo Avvenire, 15 novembre 2020 Nasce un Comitato per la difesa dei migranti in mare. Tra i promotori ci sono Manconi, Zagrebelsky, Veronesi e molte organizzazioni non governative. “Va ripristinato un sistema efficace” La nascita di un comitato per il ripristino dei Diritti umani in mare contiene in sé una pessima notizia. Perché vuol dire che le radici europee sono state contaminate, e adesso occorre sensibilizzare l’opinione pubblica per sollecitare, ad esempio, “il ripristino di un efficace sistema istituzionale di ricerca e soccorso”. Non è solo un problema di salvataggi mancati. Ma di prospettiva comune. Dalla fine del 2016 le organizzazioni umanitarie impegnate nel soccorso in mare sono il bersaglio “di un’aggressiva campagna di delegittimazione. Subiscono attacchi strumentali e accuse infamanti; sono state oggetto di procedimenti giudiziari che non hanno fornito alcuna evidenza di comportamenti illeciti e si sono tutti conclusi con l’archiviazione in fase preliminare”. Lo ricorda una nota con cui viene spiegata l’istituzione di un “Comitato per il diritto al soccorso”. Ne fanno parte l’ammiraglio Vittorio Alessandro, e poi giuristi, ex magistrati, docenti universitari come Francesca De Vittor, Luigi Ferrajoli, Paola Gaeta, Armando Spataro, Federica Resta, Luigi Manconi, Vladimiro Zagrebelsky e lo scrittore Sandro Veronesi. Sono coinvolte Sea-Watch, Proactiva Open Arms, Medici Senza Frontiere, Mediterranea Saving Humans, Sos Méditerranée, Emergency e ResQ. Il riferimento alla campagna di disinformazione partita alla fine del 2016 non è secondario. Ma c’è anche un richiamo all’autocritica. All’epoca il presidente del Consiglio era l’attuale commissario Ue Paolo Gentiloni (Pd) e il ministro degli Interni era Marco Minniti (Pd). Poi sono arrivati il Conte I, con il leghista Salvini al Viminale, e il Conte II, con il prefetto Lamorgese agli Interni e alle Infrastrutture Paola De Micheli (Pd). Proprio a quest’ultima sembrano rivolte alcune delle accuse più dure. A cominciare dal “ricorso sproporzionato ad attività di controllo ispettivo e il frequente sequestro amministrativo delle navi” ad opera delle Capitanerie di Porto, che rispondono proprio al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Nel primo documento-manifesto del comitato viene ricordato che il Mediterraneo “è stato in questi anni una delle principali vie di fuga dagli orrori delle guerre e delle catastrofi naturali, dei conflitti tribali e delle persecuzioni religiose, etniche e politiche, delle carestie e delle pandemie”. Una via di fuga dove trafficanti di esseri umani, mercanti di schiavi e truppe mercenarie “hanno imperversato vendendo e comprando uomini, donne e bambini, sequestrando ed estorcendo, seviziando e torturando, dal deserto del Sahel ai campi di detenzione in Libia fino alle acque, dove le milizie affondano le barche dei profughi e sparano sui naufraghi”. Scenario quotidiano giudicato come “conseguenza perversa della globalizzazione e dello scambio ineguale, della nuova divisione internazionale del lavoro e della subordinazione economica e commerciale dei paesi poveri alle grandi potenze”. Nel testo i promotori richiamano alla complessità delle migrazioni, che non può essere liquidata con parole d’ordine che disconoscono le radici europee. “Il mutuo soccorso è stato il primo legame sociale e la base della reciprocità nelle relazioni tra gli esseri umani”. Ma oggi questo senso di appartenenza rischia di essere mortificato e compresso, “se non direttamente negato, in nome della sicurezza dei confini esterni e della difesa “dall’invasione” delle moltitudini povere”. Il dogma, al contrario, è diventata “la protezione delle frontiere”, trasformato in “valore supremo, in nome del quale si arriva a sospendere quello che si pensava fosse un diritto irrinunciabile”. A cominciare dal soccorso in mare, finito per essere “assimilato a un’attività criminale da interdire, contrastare, penalizzare”, quando invece occorre “un sistema che veda coinvolti quanti operano nel Mediterraneo, navi mercantili e pescherecci compresi, insieme alle imbarcazioni delle Ong e a quelle della Guardia costiera, nella prospettiva che siano gli Stati e le loro strutture - come vuole il diritto internazionale - ad assumere interamente quel compito”. Migranti. Il soccorso in mare è un dovere e un diritto, nasce un comitato di Carlo Lania Il Manifesto, 15 novembre 2020 Creato da otto organizzazioni non governative, ne fanno parte giuristi e docenti universitari. Salvano vite, ma da troppo tempo vengono viste con sospetto, addirittura additate come presunte complici dei trafficanti di uomini. Eppure sono in mare tutti i giorni a rischiare la propria pelle per salvare quella degli altri. Anzi vorrebbero essere lì, nel Mediterraneo, e non possono esserci perché quasi tutte le navi delle ong sono bloccate nei porti con i pretesti più assurdi, come quello, ad esempio, di avere a bordo troppi giubbetti di salvataggio. “Il principio di soccorso in mare è messo pesantemente in discussione”, ha spiegato qualche giorno fa il presidente dell’Associazione A buon diritto, Luigi Manconi, ai membri della commissione Affari costituzionali della Camera. “Per noi costituisce un fondamento di civiltà giuridica e la base costitutiva di tutti gli altri diritti, mentre oggi viene svalutato e sottoposto ad attacchi che lo rendono assimilabile a un comportamento illegale e sanzionato anche penalmente”. “Il danno principale - ha aggiunto nella stessa occasione il giurista Luigi Ferrajoli - è il fatto che punire un comportamento non soltanto virtuoso ma doveroso, equivale a produrre un abbassamento del senso morale della cultura di massa”. Per poi concludere: “Le stragi del mare saranno ricordate come una colpa imperdonabile, perché potevano essere evitate”. Proprio nel tentativo di ridurre il danno, provare a contrastare l’abbassamento del senso morale della società di cui parla Ferrajoli, otto organizzazione non governative (Sea Watch, Proactiva Open Arms, Medici senza frontiere. Mediterranea - Saving Humans, Sos Mediterranée, Emergency e ResQ) hanno dato vita a un Comitato per il diritto al soccorso al quale hanno aderito anche Aita Mari e Sea Eye. A far parte del comitato, oltre a Manconi e Ferrajoli, sono state chiamate personalità come Vittorio Alessandro, Francesca De Vittor, Paola Gaeta. Federica Resta, Armando Spataro, Sandro Veronesi e Vladimiro Zagrebelsky. Sembra un paradosso ma in Italia, e in Europa, servono dei garanti per tutelare il lavoro di chi salva quanti si trovano in pericolo. Come si è potuto arrivare a un punto simile? “Dopo la campagna denigratoria cominciata nel 2016, abbiamo avuto fasi alterne nei rapporti con le autorità, ma non è mai venuta meno una forma di sospetto, di pregiudizio nei confronti delle attività delle ong”, risponde Marco Bertotto, responsabile advocacy di Medici senza frontiere. “Abbiamo capito allora di essere stati messi in un angolo. Nasce così l’idea che, pur senza arretrare un centimetro rispetto al diritto/dovere di salvare chi si trova in difficoltà, abbiamo pensato di proporre a una serie di personalità la costituzione di un comitato”. Due, principalmente, i compiti che i garanti sono chiamati a svolgere: ricostruire canali di comunicazione con le autorità, sia italiane che europee, e aiutare le ong a far capire all’opinione pubblica che il soccorso in mare non è solo un obbligo, ma anche un diritto. La speranza è di riuscire a ricreare un rapporto di collaborazione con le autorità competenti, a partire dai ministeri dell’Interno e dei Trasporti, in modo da meglio coordinare gli interventi in mare. Cosa che non rappresenterebbe certo una novità, visto che solo fino a qualche anno fa la era la stessa Guardia costiera a indicare alle navi delle ong le situazioni di pericolo chiedendo il loro intervento. Non a caso nel loro manifesto fondativo le ong ricordano come proprio l’arretramento degli Stati dal dovere di soccorrere chi si trova in difficoltà ha causato la discesa in campo delle ong, salvo poi avviare un processo di criminalizzazione nei loro confronti. “Siamo stupiti - conclude Bertotto - come di fronte al ripetersi dei naufragi la risposta delle autorità sia il boicottaggio delle ong, ma degli obblighi previsti dalle convenzioni internazionali per gli Stati costieri non si fa mai parola. È una dissimmetria che dovrebbe indignare tutti” Colombia. Quattro mesi senza Mario Paciolla e senza giustizia di Simone Scaffidi e Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 15 novembre 2020 Verità e giustizia. Continua la battaglia per fare luce sulla morte dell’osservatore Onu, avvenuta il Colombia il 15 luglio scorso in circostanze ancora da chiarire. Il ricordo in due festival al di qua e di là dell’Oceano. Il 7 e 8 novembre si è svolto a San Vicente del Caguán il primo Festival di Rafting “Remando por la paz” (“Remando per la pace”) promosso da ex guerriglieri delle Farc in processo di reincorporazione e da alcuni integranti dello Spazio Territoriale di Miravalle, una delle zone sancite dagli Accordi di Pace per facilitare il reintegro degli ex combattenti. Il festival è stato organizzato dall’operatore turistico Caguán Expeditions, dal comune di San Vicente e dal governo regionale del Caquetá ed è sostenuto dalla Missione di Verifica delle Nazioni Unite in Colombia, dal Fondo per la pace dell’Unione Europea, dall’Agenzia per la Reincororazione e la Normalizzazione (Arn), dal Ministero dello Sport e dall’Universidad Abierta y a Distancia (Unad). “È stata un’esperienza unica e piena di gioia che si inserisce in un processo importante di riconciliazione e costruzione di pace e di visibilizzazione dell’ecoturismo nel territorio” racconta Herson Lugo, Assessore di pace del Caquetà, sottolineando il clima di collaborazione che si respira tra le istituzioni e lo Spazio Territoriale degli ex guerriglieri: “Si sono costruiti spazi di dialogo con Miravalle, esiste un buon meccanismo di dialogo, ci sono iniziative e loro partecipano in spazi di costruzione di pace nel Consiglio Municipale e Regionale”. All’indomani della morte di Mario Paciolla, trovato impiccato nella sua casa di San Vicente del Caguan, Hermides Linares, ex combattente delle Farc raccontava all’Ansa Latina l’impegno entusiasta dell’osservatore della Missione di Verifica Onu nel promuovere il progetto “Remando per la pace” e il sostegno nell’ottenere la documentazione: “Ci ha sostenuto molto durante il processo burocratico aiutandoci a partecipare al Mondiale di rafting in Australia”, la competizione sportiva in cui la compagine di ex guerriglieri ha rappresentato la Colombia. “Remando por la paz” rappresenta - al netto delle informazioni che abbiamo - una di quelle iniziative che si inseriscono positivamente nel complesso processo di reincorporazione in società degli ex guerriglieri Farc, ma che allo stesso tempo rappresentano una delle eccezioni alla carenza strutturale nell’implementazione degli Accordi di pace del 2016. Oggi la Colombia è un paese più violento rispetto al 2016, dove i conflitti per il controllo dei territori e le violazioni dei diritti umani sono aumentate, come già segnalava nel 2017 Astolfo Bergman, alias Mario Paciolla, in un suo articolo per Eastwest. Leggendo ciò che ha scritto e ascoltando i racconti delle persone che lo hanno conosciuto, pensiamo di poter affermare che Mario Paciolla, nel contesto del Festival “Remando por la paz”, non avrebbe voluto essere ricordato per il suo impegno o messo al centro di una lotta che lui accompagnava. Quello che probabilmente avrebbe voluto è ricordare le violazioni dei diritti umani, gli attacchi alle attiviste e agli attivisti e i massacri che continuano a lacerare il tessuto sociale colombiano e colpire la popolazione più vulnerabile. In altre parole, le sue, “raccontare la storia delle persone che vivono e subiscono” il narcotraffico e la violenza, dove “i protagonisti della storia dovrebbero essere le persone della comunità e i difensori dei diritti umani”, come aveva spiegato a Valerio Cataldi, autore del programma Narcotica, prima di accompagnarlo sulle sponde del Rio Naya e aiutarlo a documentare gli effetti dell’economia criminale sulle comunità locali. “Ho avuto l’opportunità di conversare con Mario Paciolla in due occasioni, una presso la casa parrocchiale e una a Puerto Amor, con il governatore, dove abbiamo avuto la possibilità di avere l’accompagnamento di Paciolla, abbiamo bevuto un caffè insieme e chiacchierato del processo di pace e dei rischi che la situazione comportava” racconta Herson Lugo, “avevamo un’ottima relazione, era molto positivo e attivo nel suo lavoro, l’ho sempre visto molto impegnato con il processo di pace e con quello che faceva”. E in relazione all’ipotesi del suicidio dichiara: “Non me lo sarei mai immaginato, era l’ultima cosa che mi passava per la testa, era una persona molto centrata, di opinioni chiare e interventi precisi, non avremmo mai potuto pensare al suicidio”. Nel frattempo il caso rimane avvolto da numerose polemiche e ipotesi contrastanti tanto da mettere in disaccordo le autorità colombiane, che hanno fin da subito parlato di suicidio, e la procura di Roma, che ha aperto invece un’indagine per sospetto omicidio. Nell’occhio della bufera sono finite le stesse Nazioni Unite che sono state accusate di aver compromesso la scena del crimine e di aver fatto sparire delle prove fondamentali come i dispositivi elettronici usati da Mario Paciolla. Le parole di Anna Motta, madre di Mario, chiedono giustizia e trasparenza da parte di chi era responsabile della tutela della vita del cooperante “mi batto perché sia l’Onu a dirmi che cos’è successo” e rimarcano l’importanza di scoprire cosa sia accaduto sabato 11 luglio, 4 giorni prima della morte, giorno in cui Mario raccontò ai genitori di aver avuto una discussione con l’Onu e iniziò a dare i primi segnali di preoccupazione. “Per me è quella la data che va indagata”, afferma la donna. Dopo più di 100 giorni dal rientro in italia del corpo di Mario Paciolla non si conoscono i risultati dell’autopsia svolta dalle autorità italiane, un tassello che potrebbe risultare fondamentale per ricostruire la verità sul caso e favorire il processo di giustizia per Mario, la sua famiglia e per tutte le persone che si battono per i diritti umani in Colombia. Il festival di Napoli - Intanto la XII edizione del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, inaugurata venerdì 13 novembre, è dedicata proprio a Paciolla. Dopo mesi di silenzio, dovuto alle indagini in corso e alle strategie legali, la famiglia e l’avvocata Alessandra Ballarini, già difensora nel caso Giulio Regeni, sono intervenute pubblicamente. Ballerini ha ribadito il lavoro per la ricerca della verità e della giustizia che sta svolgendo insieme a Emanuela Motta e German Romano. Quest’ultimo, sottolinea la legale, rappresenta la famiglia Paciolla in Colombia dimostrando “molto più coraggio di noi in un contesto più difficile”. Ha inoltre ricordato che “il diritto alla verità è un diritto umano fondamentale” ed “è il diritto di una collettività”, non è solo il diritto della famiglia, “una persona che ha speso la sua vita per la tutela dei diritti umani merita che almeno gli venga garantito il diritto umano alla verità, lo merita la sua famiglia ma lo meritiamo tutti noi perché come cittadini non possiamo sentirci protetti finché non viene restituita verità per Mario”. La pretesa di verità e giustizia passa anche come afferma la legale dal compimento dell’articolo 10 della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Difensori dei diritti umani del 1999, che recita: “Nessuno deve partecipare, con atti o omissioni, alla violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali” invitando “tutte le persone, o le istituzioni, o i poteri forti, che in questo momento stanno o ostacolando o omettendo gli sforzi necessari per arrivare alla verità” a rispettarlo. I genitori di Mario Paciolla sono intervenuti con la voce di Anna Motta, la madre, leggendo una lettera che si apre con le parole di Mario, che descrive il suo arrivo in Colombia per lavorare con Pbi, le Brigate di Pace Internazionali: “Il viaggio è lungo ma come succede negli aeroporti si può approfittare dell’attesa tra un volo e l’altro per provare a indovinare la destinazione delle persone vicine a te che guardano gli schermi degli arrivi e delle partenze. Arrivato in Colombia, calata la notte, l’oscurità della notte di Bogotà converte l’insonnia in adrenalina, avvolgente nella sua coperta di clima caldo, umido, freddo, secco. E all’improvviso scopri che l’imprevedibile ha il ritmo di una cumbia di strada suonata dalla strada 7”. Segue raccontando la sua vita attraverso aneddoti degli amici, “aveva l’abitudine a ritagliare articoli di giornale che divideva per argomenti per poi accuratamente analizzarli”, e certezze della famiglia, “non ha mai accettato compromessi”. La conclusione della lettera traduce dal linguaggio giuridico l’articolo 10 della Dichiarazione delle Nazioni Unite citato dall’avvocata Ballerini e lo trasforma in un appello e in un monito di dignità: “Mario merita e pretende verità e giustizia, per questo mi rivolgo alle tante persone che lo hanno conosciuto e che sanno la verità sulla sua morte: di abbandonare le reticenze e l’omertà, di dare voce alle proprie coscienze e di collaborare, chi non lo farà si renderà complice di questo delitto”. Colombia. “Diteci come è morto nostro figlio”: l’appello dei genitori di Mario Paciolla di Amedeo Junod Il Riformista, 15 novembre 2020 La XII edizione del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli si è aperta nel nome di Mario Paciolla, cooperante Onu napoletano trentatreenne, trovato morto in Colombia in oscure circostanze, ormai quattro mesi fa. Il festival, che vanta una fiera impronta politica incentrata sulla tutela e sull’espressione dei diritti umani tramite il mezzo filmico, si terrà eccezionalmente in via telematica dal 18 al 28 novembre, e per questa stagione avrà come titolo - “Diritti in ginocchio - Pandemia, Sovranismi e Nuove discriminazioni”. Ne hanno discusso, nel corso della videoconferenza inaugurale, il Coordinatore del Festival Maurizio del Bufalo e il coordinatore del Concorso Mario Leombruno, alla presenza, tra gli altri, dei genitori di Mario, del legale della famiglia e dell’Assessore alla Cultura del comune di Napoli Eleonora De Majo. Il festival si articola in numerose sezioni, offrendo un programma ricco e variegato, che prevede anche incontri e proiezioni dedicati ai diritti dei migranti e alla condizione dei detenuti, tutti eventi fruibili gratuitamente, online. Focus di questa edizione, il rapporto tra la pandemia e la tutela delle libertà fondamentali delle nostre società. Temi che avrebbero suscitato sicuramente l’interesse di Mario, morto in circostanze ancora da chiarire in un paese soffocato dalle contraddizioni politiche, quella Colombia che con il suo impegno quotidiano voleva contribuire a cambiare, mentre era ancora nel fiore di una vita dedicata anima e corpo alla tutela e al racconto dei diritti universali e delle parabole esistenziali delle categorie sociali meno rappresentate e difese del pianeta. Giornalista, attivista, giocatore di basket, studioso, poeta, infaticabile viaggiatore. Mario era uno dei tanti giovani Ulisse del nostro tempo, pronto a varcare innumerevoli confini e a superare con coraggio ostacoli e avversità, il tutto per amor di conoscenza, giustizia e verità. Ma il ritorno nella sua Itaca, quella Napoli che portava nel cuore e di cui si faceva nobile portavoce, non avverrà mai. Mario si trovava a San Vincente del Caguàn nell’ambito di una missione ONU. Il suo lavoro era volto principalmente alla supervisione dell’applicazione degli accordi di pace siglati nel 2016 tra le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e il governo colombiano. L’applicazione degli accordi non stava dando gli esiti sperati, e Mario era molto insoddisfatto della piega che stavano assumendo gli eventi. Scosso e deluso, non ha mancato di comunicare alla sua famiglia la sinistra sensazione di “non sentirsi più al sicuro”, e stava organizzando il suo rientro in terra natia: un volo umanitario avrebbe dovuto riportarlo nella sua Napoli il 15 luglio. Ma sarà proprio in quella fatidica data che i suoi colleghi lo ritroveranno senza vita, con quei segni sospetti sul corpo che hanno instillato fin da subito il dubbio legittimo di trovarsi di fronte ad un suicidio simulato. Mario non era uno sprovveduto, e prima di questa missione aveva lavorato in altri scenari complessi quali Argentina o Giordania, mettendo a frutto il bagaglio culturale dei suoi studi politici, capacità di scrittura e di analisi fini e taglienti e quella sete di giustizia che spinge molti giovani ad intraprendere una strada fatta di responsabilità e di sacrifici com’è quella della cooperazione internazionale. Precedenti esperienze maturate con le Brigadas Internacionales de Paz a Bogotà ci parlano di un professionista ben consapevole del contesto difficile in cui versava la Colombia. A partire dal suo ritrovamento, in Italia e in altri paesi si sono susseguite una serie di iniziative indirizzate a fare pressione sulle istituzioni affinché possa essere fatta piena luce su un episodio che rimanda tristemente a numerosi altri casi di morti o sparizioni sospette di soggetti attivi nel contesto della cooperazione internazionale in quei territori. Nell’appello lucido e commosso dei genitori, che vi riproponiamo, emerge la speranza che chi abbia elementi utili a far progredire le indagini possa decidersi a parlare, vincendo le resistenze dettate dalla paura e dall’omertà. “Chi sa parli, per non rendersi complice di un delitto”, esorta Anna Motta, mamma di Mario. Chi sa, parli, per non avvelenare quell’ ideale di giustizia e verità che rappresentava il movente profondo dell’avventura umana e intellettuale di Mario, incarnazione esemplare di uno spirito avido di sapere e desideroso di pace, un’anima piena di energia che nessuno riesce a credere capace di togliersi la vita, senza un saluto, con già pronto il biglietto per tornare in Italia. Il Festival si unisce all’appello della famiglia, del Comitato “Giustizia per Mario Paciolla”, e dell’Avvocato Alessandra Ballerini, già legale della famiglia Regeni, chiedendo che il governo pretenda maggiore collaborazione da parte delle istituzioni colombiane e invitando le Nazioni Uniti ad una collaborazione finalmente piena e trasparente. Già in passato il Festival aveva preso posizione per difendere il lavoro e l’impegno dei nostri cooperanti, ormai sempre più spesso esposti a pericoli e a ritorsioni, come di recente per il caso di Silvia Romano. Etiopia. La “guerra lampo” del Tigray va per le lunghe e si estende all’Eritrea di Marco Boccitto Il Manifesto, 15 novembre 2020 Dalla regione ribelle razzi sull’aeroporto di Gondar e minacce alla vicina Eritrea. Il premier etiope Abiy Ahmed nega vittime civili e insiste: “Obiettivi quasi raggiunti”. Dodicesimo giorno di combattimenti nel Tigray tra l’esercito federale etiope appoggiato dalle milizie regionali amariche da una parte e le forze speciali del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) dall’altra. Con denunce di crimini di guerra incrociate, raid aerei dell’aviazione etiope e razzi che dal sul territorio tigrino cominciano a piovere sulla confinante regione degli Amhara. Su tutto, mentre si allungano i tempi di quella che per il primo ministro etiope Abiy Ahmed doveva essere un’operazione lampo volta a ristabilire lo stato di diritto nella regione ribelle, il timore sempre più realistico di una carneficina, con relativa catastrofe umanitaria. La guerra ha già spinto circa 15 mila persone a varcare il confine con il Sudan e i racconti di chi fugge preoccupano le organizzazioni umanitarie, che continuano a non avere accesso alla zona malgrado gli appelli in tal senso rivolti da Onu e Unione africana al governo etiope. Cresce d’intensità anche la guerra di propaganda, tra disformazione e non informazione. Le immagini taroccate di moderne batterie antiaeree che difenderebbero i cieli del Tigray o le rovine fumanti di un jet etiope ipoteticamente abbattuto, cercano di far passare l’idea che le forze tigrine dispongano di una dotazione militare più che all’altezza. Ma sarebbero bastati coltelli e machete a uccidere decine, forse centinaia di persone nella città di Mai-Kadra lo scorso 9 novembre. Un massacro di cui riferisce Amnnesty International attraverso le numerose testimonianze che puntano il dito contro i miliziani del Tplf. Interrotta ogni via di comunicazione con la regione, oscurata la rete e silenziata la telefonia cellulare, ad avere il pallino dell’informazione in questa fase resta Addis Abeba. Nella capitale è stata diffusa venerdì sera la notizia di razzi lanciati da postazioni tigrine verso le città di Gondar e Bahir Dar, con danni inferti ai locali aeroporti. Il governatore del Tigray Debretsion Gebremichael, ormai ex in quanto destituito nei giorni scorsi dal parlamento di Addis Abeba e accusato di tradimento e terrorismo, all’inizio non era in grado di confermare ma si limitava ad approvare. Solo ieri è arrivata la rivendicazione del Comando centrale del Tigray. l portavoce Getachew Reda dagli schermi di una tv regionale è andato ben oltre, minacciando di colpire anche la vicina Eritrea. A conferma di come il conflitto rischia di infiammare tutta l’area, prestando il fianco a regolamenti di vecchi conti. Un patto tra Asmara e Addis contro i leader della regione ribelle, espressione di un’élite che ha dominato per oltre trent’anni la politica e l’economia del paese, sarebbe nell’ordine delle cose. Ahmed per ora rivendica la “liberazione” di ampie porzioni di territorio tigrino, nega che i bombardamenti abbiano sfiorato un solo civile e soprattutto insiste sull’imminente raggiungimento degli obiettivi che si era prefissato con questa offensiva. Ma il richiamo di migliaia di soldati dal fronte somalo, dove l’Etiopia sostiene il pericolante governo di Mogadiscio contro i jihadisti di al Shabaab, raccontano un’altra storia. Razzi sulla capitale eritrea - Dalle minacce ai fatti. Nella serata di sabato 14 novembre almeno tre razzi partiti dal territorio del Tigray hanno colpito a Asmara l’aeroporto della città e il ministero dell’Informazione. Il Tplf rivendica accusando l’Eritrea di appoggiare l’offensiva federale etiope decisa dal governo di Addis Abeba. Il governo eritreo da parte sua conferma l’attacco ma nega che ci siano stati danni alle infrastrutture o vittime. Ma il Paese con questo è ufficialmente coinvolto nel conflitto che infuria oltreconfine. Messico. Le femministe pretendono verità e giustizia per Alexis di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 15 novembre 2020 I testimoni hanno parlato di parecchie decine di manifestanti - mascherate - che il 13 novembre hanno fatto irruzione negli uffici (definiti un “bunker”) del procuratore generale del Messico. La loro richiesta - già avanzata da tempo con manifestazioni e appelli - riguardava l’uccisione della ventenne Blanca Alejandrina Lorenzana Alvarado (Alexis), un femminicidio particolarmente odioso e su cui finora le autorità non hanno mostrato di voler fare più di tanto chiarezza. Le donne hanno fatto uso di martelli sia per rompere le finestre, sia per forzare le porte e poter entrare nell’edificio governativo. Prelevando quindi incartamenti e documenti vari per darli alle fiamme. L’assassinio di donne in Messico costituisce uno stillicidio quotidiano, ma il caso di Alexis ha suscitato un’ondata di proteste in tutto il paese come non si vedevano da tempo. La giovane era scomparsa il 7 novembre nello Stato di Quintana Roo. Immediate le ricerche effettuate da parte di amici e familiari, ma purtroppo vane. Il suo corpo straziato (e presumibilmente sottoposto a tortura) veniva ritrovato due giorni dopo in due sacchi per l’immondizia. Come denunciarono i suoi amici “Alexis fue levantada y torturada por el solo hecho de ser mujer, de ser joven y de salir a vender productos a la calle que ofertaba desde aplicaciones digitales como medio de subsistencia”. Di tutti i numerosi femminicidi denunciati quest’anno dalle organizzazioni femministe, la Fiscalia del Estado di Quintana Roo ne ha riconosciuti come tali solamente dodici. Anche Alexis, attraverso le reti sociali, si associava ai milioni di donne messicane che esigono giustizia per le vittime in un Paese dove quotidianamente vengono assassinate in media dieci donne “por el solo hecho de serlo”. E dove spesso la legislazione locale (e in particolare - coincidenza - proprio quella di Quintana Roo) si oppone sia alla depenalizzazione dell’aborto, sia a classificare come “feminicidio” le uccisioni di donne avvenute per questioni di genere. Solo qualche giorno prima a Cancun si erano tenuta un’intera giornata di manifestazioni, proteste e interventi per le ultime tre uccisioni di donne (tra cui appunto Alexis) avvenute nel corso della precedente settimana. All’iniziativa avevano partecipato femministe, esponenti della società civile, gruppi per la difesa delle donne, studenti e militanti della sinistra. Diverse donne e ragazze, completamente vestite di nero, ricoprivano i muri della città con scritte (“Justicia para Alexis”, “Quintana Roo feminicida”) e infrangevano qualche vetrina. A difesa del municipio, dove confluiva la manifestazione, erano state erette dalla polizia alcune barricate. Contro di queste - e contro qualche finestra - le donne avevano scagliato pietre e altri oggetti. Da parte della polizia anti-sommossa si reagiva sparando (ufficialmente solo in aria), sia con le pistole che con fucili da caccia (come ben documentato dalle immagini di alcuni video). Due giornalisti erano rimasti feriti. È assai probabile - vista l’intensità della sparatoria - che altre persone (manifestanti o spettatori) siano state colpite dai proiettili, ma che abbiano preferito non recarsi all’ospedale dove rischiavano l’arresto. Stando alle dichiarazioni della coraggiosa giornalista Lidia Cacho, la polizia di Cancun sarebbe sospettata di collusione con un cartello della droga. Quintana Roo, inoltre, è tristemente noto per essere uno dei tre stati messicani con il maggior numero di bambine desaparecidas e il primo nella tratta e nello sfruttamento sessuale dei minori (sia da parte dei locali che dei numerosi turisti). Contemporaneamente alla manifestazione di Cancun repressa a fucilate, gli esponenti del collettivo Marea Verde erano scesi in piazza a Chetumal per poi entrare nell’ufficio del procuratore generale di Stato. Nella stessa giornata le militanti femministe manifestavano a Cozumel - sempre chiedendo giustizia per Alexis - davanti alle istallazioni del FGE. Altre manifestazioni si erano tenute al tribunale di Felipe Carrillo Puerto. Scontata la richiesta, finora inevasa dalle autorità, di garantire la sicurezza delle bambine, delle adolescenti e delle donne adulte, in egual misura vittime di aggressioni, stupri e uccisioni.