Covid nelle carceri, è allarme contagi: ipotesi domiciliari per 5.000 detenuti di Emilio Pucci Il Messaggero, 14 novembre 2020 Seicento cinquantatré detenuti positivi e 847 persone - 50 operatori e gli altri agenti penitenziari - contagiate. Coinvolti 75 istituti su un totale di 192, 1009 carcerati in isolamento sanitario. Dati allarmanti, tanto che il Garante nazionale delle persone private della libertà sottolinea la necessità di pensare ad una riduzione di “presenze ben più consistente” di quella prevista. La radicale Bernardini è al terzo giorno dello sciopero della fame, hanno deciso di aderire all’iniziativa anche politici come il renziano Giachetti. È il Pd a muoversi in Parlamento. Nel Dl ristori sono previsti benefici per una platea di 3.359 detenuti, ma i dem ne vogliono aggiungere altri duemila arrivando così a 5.359. Per ora le agevolazioni parlano di arresti domiciliari per chi ha meno di 18 mesi di pena residua ma con il braccialetto elettronico (non dovrà indossarlo chi ha una condanna non superiore ai sei mesi), licenze premio straordinarie anche di durata superiore a quella prevista dalla legge, cioè 45 giorni complessivi per ogni anno di detenzione fino al 31 dicembre. Ma i dem vogliono andare oltre. Le misure “sono importanti, fortemente volute, ma non sufficienti. Bisogna provare a fare di più”, dice il vicepresidente del gruppo al Senato, Mirabelli. L’obiettivo è, quindi, “ridurre la popolazione istituzionalizzata”. Tre le norme che verranno proposte: l’innalzamento da sei mesi ad un anno del limite della pena da scontare al di sotto del quale sarà possibile andare agli arresti domiciliari senza braccialetto elettronico, escludendo i condannati ai reati del 4bis (mafia, terrorismo, reati in famiglia e stalking); l’aumento di 30 giorni per ogni semestre a chi ha già goduto della riduzione della pena per buona condotta per anticipare la fine della carcerazione; il rinvio dell’emissione degli ordini di esecuzione, a seguito di una condanna, delle pene detentive inferiori ai 4 anni. Gli istituti si svuoterebbero così di almeno altri duemila detenuti. Al momento sono undici i focolai sul territorio. Riguardano soprattutto il carcere di Terni, Frosinone, di Alessandria, di Larino, di Milano Opera, di Poggioreale, di Secondigliano. Ieri sera, inoltre, all’annuncio della Campania zona rossa, è esplosa la protesta dei detenuti ad Ariano Irpino. Per un’ora hanno battuto sulle inferriate e lanciato oggetti dalle finestre. Temono la sospensione dei colloqui con i familiari. Tensione su tensione. Il ministero della Giustizia sta monitorando la situazione. Bonafede lascerà al Parlamento la decisione se prevedere eventualmente ulteriori provvedimenti anti-Covid. “C’è una discussione in corso, il pacchetto non è chiuso”, osserva il Garante. Intanto si sta lavorando a come affrontare alcuni problemi oggettivi. Tra i detenuti che possono usufruire degli arresti domiciliari 1.157 sono senza fissa dimora. Il programma prevede che le Regioni si attivino per trovare loro un alloggio. È stata stanziata una somma di circa 5 milioni di euro. E i vertici del Dap con le ultime circolari hanno stabilito nuove regole. Qualora in un istituto si arrivasse ad una soglia del 5% tra i positivi c’è la possibilità di sospendere tutte le attività, ad eccezione di quelle essenziali al funzionamento dell’istituto. È in corso un’interlocuzione con il commissario straordinario per emergenza Covid per il reperimento di ambulatori mobili polidiagnostici e per la fornitura continua di test rapidi. Nel frattempo sono stati individuati negli istituti carcerari luoghi per tre tipologie di detenuti che “devono essere necessariamente separati fra loro e dal resto della comunità”: quelli in isolamento precauzionale perché provenienti da altro istituto, da pronto soccorso o da ricovero ospedaliero; coloro che sono in isolamento perché hanno avuto contatti stretti con soggetti positivi; e poi ci sono i detenuti in isolamento perché positivi. I nuovi detenuti vanno in ogni caso in isolamento preventivo e cautelare. L’amministrazione penitenziaria prevede comunque di sottoscrivere nuovi protocolli regionali e locali adattati “alle diverse e specifiche situazioni”. Per quanto riguarda la prima ondata del contagio i dati ufficiali del dicastero di via Arenula hanno registrato 568 persone contagiate, 4 delle quali decedute (2 agenti e 2 detenuti) e un “taglio” della popolazione di circa 7.500 unità, da circa 61mila di febbraio 2020 a 53mila in agosto. Nella legge di bilancio si prevedono 80 milioni per l’ampliamento delle carceri. Il capo del Dap Petralia: “Insieme vinceremo contro il Covid” di Liana Milella La Repubblica, 14 novembre 2020 Ma i detenuti protestano: “In preda al virus, mandateci fuori”. Aumenta il numero di positivi, in crisi soprattutto Lombardia e Campania. La madre di un detenuto: “Capisco l’emergenza, ma anche in carcere ci sono essere umani non carne da macello”. Sono tante le voci dalle prigioni che vivono l’incubo del Covid. Patrie galere dove, a oggi, sono chiuse 54.078 persone. Tantissime. Ci sono le voci angosciate dei parenti di chi è detenuto. Ne vedremo una che parla con Repubblica. Ma c’è, e per la prima volta dal suo insediamento all’inizio di maggio, quella del direttore delle carceri Dino Petralia, anche a nome del suo vice Roberto Tartaglia. In un video diretto agli agenti dice: “Parlo a chi è sofferente per il virus, per un lavoro che è più difficile e complicato di sempre. Quindi a voi esprimo massima solidarietà. So che mettete grande passione nel vostro lavoro, lo sento quando ogni sera vi parlo al telefono, sia che abbiate subito un’aggressione, sia che abbiate salvato una vita. Ma oggi serve una passione collettiva in più. Serve solidarietà reciproca e bisogna aiutarsi a vicenda. Più siamo credibili, più possiamo chiedere e ottenere”. Poi ecco a seguire una raccomandazione sanitaria: “Oggi occorre molta attenzione, stare attenti ai contatti, ai rapporti, curare e custodire la nostra salute e la nostra integrità fisica, perché così salvaguardiamo la salute di tutti. Così potremo superare il disagio che ci attanaglia. Sono sicuro che vinceremo”. L’appello della madre di un detenuto - Non diremo il carcere, né tantomeno il nome, perché questa mamma parla con Repubblica, ma non vuole che le sue generalità vengano svelate. “Mio figlio è in cella da ormai venti mesi. Si trova in custodia cautelare. Fino a qualche giorno fa erano in tre in uno spazio piccolissimo. Con chiari sintomi di influenza. La situazione è gravissima, gli agenti si raccomandano di non divulgare le notizie per non creare allarmismo, perché poi si possono scatenare delle proteste. Certo c’è il reparto Covid, ma ormai i contagiati sono troppi e poi hanno in comune il bagno, la doccia, la distribuzione dei pasti, quindi non c’è via di scampo. Il nervosismo è alle stelle. Sono angosciata perché spesso né io, né il mio avvocato riusciamo ad avere notizie, e anche il giudice dice che non riesce ad averle. C’è una sola strada, alleggerire le carceri, mettere fuori chi non ha commesso reati gravi. Io capisco l’emergenza, ma anche in carcere ci sono essere umani rinchiusi, non carne da macello” Bernardini, sciopero della fame per indulto e amnistia - L’appello di questa donna non è l’unico. C’è quello di Rita Bernardini, in sciopero della fame dal 10 novembre, con l’obiettivo di aprire la pagina di un possibile indulto oppure di un’amnistia, che in un articolo sul Rifomista cita la protesta dei detenuti di Novara, i quali preannunciano la battitura delle inferriate due volte al giorno e lo sciopero dal lavoro interno al carcere contro le misure anti Covid del governo che ritengono troppo deboli rispetto all’emergenza Covid (fuori dalle celle per pene sotto i 18 mesi, esclusi i delitti gravi e gravissimi, e con l’obbligo del braccialetto elettronico). Allo sciopero della fame, promosso con Bernardini dai Radicali e da Nessuno tocchi Caino, hanno aderito Luigi Manconi e Roberto Giachetti. L’allarme del Garante Palma e di Anastasia - E c’è il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma che parla del carcere di Terni dove è esploso un cluster di Covid con 75 detenuti risultati positivi. “Mi preoccupa soprattutto il fatto che ci sia stata una crescita esponenziale della diffusione del virus in soli 4 giorni, prima 5 positivi, poi 20, fino ad arrivare a 75”. Una situazione che, secondo Palma, è simile a quella di un’altra dozzina di prigioni in tutta Italia, tra cui Poggioreale, Secondigliano e Alessandria, “in cui i numeri del contagio crescono rapidamente”. Preoccupazioni confermate da Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, che parla allarmato del cluster di Terni: “Ci sono 70 positivi in carcere e tre in ospedale, di cui uno in terapia intensiva. Tutti detenuti in regime di alta sicurezza”. Al punto che due sezioni sono state dedicate al solo Covid. Ovviamente la richiesta - conferma Anastasia - è quella “di alleggerire la situazione numerica di Terni, spostando in altri istituti i detenuti negativi”. Alla domanda se oggi, in questa situazione, sono possibili proteste dure, Anastasia risponde: “Questo caso di Terni è una dimostrazione di scuola, le carceri sono un pagliaio in cui se cade anche solo un mozzicone si rischia di far scoppiare l’incendio”. Ma il Garante Palma ribadisce però che “i numeri vanno riportati senza enfasi allarmistica e devono essere analizzati considerando la loro distribuzione, individuando possibili focolai su cui intervenire e valutando l’incidenza di situazioni sintomatiche all’interno del loro complessivo valore, considerando che l’accertamento in entrata del possibile contagio di persone appena detenute e provenienti dal contesto esterno incide sui numeri complessivi delle persone contagiate, ma, dato il loro isolamento, non incide sulla diffusione del contagio nell’Istituto. Ciò a patto - e qui va posto un rigoroso controllo - che l’isolamento e le misure preventive inziali siano effettive rispetto al contatto con altre persone detenute e con il personale”. Per questo Palma chiede alcune modifiche al decreto di Bonafede. In particolare “l’estensione della misura della liberazione anticipata in relazione al periodo connesso alla diffusione pandemica e, sempre per lo stesso periodo, il rinvio dell’emissione dell’ordine di esecuzione, relativamente a fasce contenute di pene o di residui di pene da scontare, per persone che, provenienti dalla libertà, dovrebbero entrare in carcere appunto per la loro esecuzione”. Palma fornisce anche delle cifre su coloro che possono usufruire della detenzione domiciliare per un residuo di pena inferiore a sei mesi e che non hanno una preclusione ostativa e sono 1.142, mentre coloro che sono nella stessa posizione ma con un residuo di pena compreso tra i sei mesi e i diciotto mesi sono 2.217. Quindi, scrive Palma, “un numero di 3.359 persone, però meramente teorico, perché la norma prevede anche preclusioni di tipo disciplinare; ma soprattutto perché 1.157 tra esse sono senza fissa dimora. E qui si apre il tema del ruolo che i territori devono avere se non si vuole che l’esito di tali provvedimenti accentui la divaricazione tra soggetti deboli e soggetti forti anche in questo grave momento”. Dap ottimista su Terni - La situazione però è in evoluzione continua. Tant’è che, a oggi, dai vertici del Dap viene diffusa la notizia che, degli oltre 70 detenuti contagiati durante il focolaio di Terni, già 32 si sarebbero “negativizzati”. E solo due di questi sono attualmente ricoverati in ospedale perché risultano ancora sintomatici. Stesso discorso, sempre a Terni, per il personale, degli 8 agenti contagiati, al momento solo 3 sarebbero ancora positivi. L’allarme Covid nelle prigioni - Resta una progressione numerica che rivela nelle carceri, come nel Paese, un subitaneo diffondersi dell’epidemia nel mese di ottobre. Gli ultimi dati forniti dal Guardasigilli Alfonso Bonafede il 27 ottobre parlavano di 145 detenuti positivi e di 199 agenti. Ma dal 10 novembre la situazione si è aggravata: i detenuti contagiati sono 537, di cui 513 in carcere e 24 in ospedale, mentre ben 728 tra agenti e personale sono in gran parte in quarantena a casa. Ovviamente la situazione è più grave nelle zone dove i contagi in generale sono più elevanti, in Lombardia e in Campania. Dati comunque che vanno confrontati non solo con il numero complessivo degli istituti penitenziari in Italia - 200 appunto, di cui 71 coinvolti con contagi - ma con la popolazione reclusa che oggi risulta di 54.078 detenuti, rispetto a una capienza massima di 50.552 posti, di cui però 3.447 non disponibili. Le cifre del contagio fornite dai sindacati della polizia penitenziaria dimostrano come i numeri più pesanti si registrano soprattutto in Lombardia, in cui il Covid colpisce 161 detenuti e 183 tra agenti e addetti alle carceri. Nella provincia di Milano i numeri più significativi, 84 detenuti e 32 addetti positivi tra San Vittore e Monza, rispettivamente 52 e 16 a Bollate. Nel carcere di Opera invece risultano 24 contagiati solo tra il personale. Situazione pesante anche in Campania, tra gli istituti di pena di Poggioreale e Secondigliano, con 73 detenuti positivi e 157 casi tra il personale. Focolai ad Alessandria con 37 positivi, Larino con 29, Livorno con 27 e Genova Marassi con 24. Sciopero della fame per amnistia e indulto, staffetta con Rita Bernardini di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 novembre 2020 Cresce il numero dei contagi all’interno delle carceri tra detenuti e personale, ma il sovraffollamento permane. Per questo c’è Rita Bernardini del Partito Radicale che è al quarto giorno dello sciopero della fame per ottenere un dialogo con il governo. Ciò che propone, oltre all’amnistia e l’indulto, è almeno una modifica del dl Ristori cercando di ampliare la platea dei beneficiari. La legge si limita a 18 mesi e secondo la Bernardini potrebbe essere portata a 24. Altra misura che propone, frutto di un emendamento presentata dal deputato Roberto Giachetti su proposta del Partito Radicale e da Nessuno tocchi Caino, è la misura già in vigore in Italia quando ci fu la sentenza Torreggiani: ovvero la liberazione anticipata speciale che porta i giorni di liberazione anticipata da 45 a 75 ogni semestre. Tutte misure volte a liberare gli spazi che non ci sono per isolare i detenuti positivi o creare il distanziamento fisico come il protocollo sanitario impone. Ora, per come sono piene le carceri e senza emanare nuove misure, è pura utopia. Intorno a Rita Bernardini si è creata una staffetta dove stanno aderendo numerosissime persone. Tra di loro c’è anche Salvatore Buzzi, ex ras delle cooperative romane finite sotto l’onda di Mafia Capitale, che poi si è scoperto con sentenza definitiva che tutto c’era tranne che la mafia. “La situazione è drammatica - spiega Buzzi all’Adnkronos -, anche e soprattutto per il Covid-19. Giornalisti e magistrati dovrebbero farsi un mese in carcere, perché solo chi lo vive può capire: per capirlo basta sistemare un letto nel proprio bagno di casa. A quel punto - continua Buzzi - quando hai disegnato il lavandino, la brandina, i sanitari, va piazzato un letto sopra a quello già esistente. Quello è il sovraffollamento, e lì come lo applichi il distanziamento sociale in carcere?”. Anche i sindacati della polizia penitenziaria sono in allarme. C’è Massimo Vespia, segretario generale della Fns Cisl, che chiede subito un intervento del ministro Bonafede, di concerto con il ministro della Salute, affinché le Regioni mettano in campo ogni massimo sforzo per rafforzare i controlli sanitari negli istituti penitenziari. Secondo l’ultimo aggiornamento, risultano 638 detenuti e 885 agenti positivi. Anche il garante nazionale delle persone private della libertà chiede - di non sottovalutare il problema, per questo ha proposto l’introduzione di alcune misure: l’estensione della misura della liberazione anticipata in relazione al periodo connesso alla diffusione pandemica e, sempre per lo stesso periodo, il rinvio dell’emissione dell’ordine di esecuzione, relativamente a fasce contenute di pene o di residui di pene da scontare, per persone che, provenienti dalla libertà, dovrebbero entrare in carcere appunto per la loro esecuzione. Luigi Manconi in sciopero della fame per amnistia e indulto Adnkronos, 14 novembre 2020 “Sono disposto a unirmi all’iniziativa promossa da Rita Bernardini con uno o due giorni di sciopero della fame. Condivido interamente gli obiettivi di questa azione e partecipo volentieri alla staffetta”. Lo dice all’Adnkronos Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto”. “Ritengo indispensabile un provvedimento di amnistia e di indulto, mancando la prima da 20 anni, l’altro da 15 - spiega - Il Covid, oltre a determinare l’affollamento delle carceri, produce un accumulo di fascicoli e cause giudiziarie che inevitabilmente renderà ancora più lenta, macchinosa e dunque iniqua l’amministrazione della giustizia. Solo l’amnistia può intervenire efficacemente per ridurre il carico dei processi e l’indulto per ridurre il numero dei detenuti. Ipotesi difficile, tuttavia, considerato l’orientamento prevalente all’interno del Parlamento”. “Amnistia e indulto non sono necessariamente per chi ha pene minime, anzi. Sono provvedimenti giusti anche per chi è accusato di omicidio - sottolinea Manconi - Fondamentale è che la pena venga inflitta, l’esecuzione non deve mai essere una sanzione rigida ma che si applica seguendo il percorso del condannato, assecondandone il mutamento, quando c’è, accompagnandone il processo di emancipazione dal crimine. Una pena certa non è, come si crede, rigida ma all’opposto è una pena che oltre alla severità prevede anche la clemenza, la mitezza. Abbiamo l’esperienza dell’ultimo indulto approvato in Italia, quello del 2006, dove abbiamo lavorato attraverso ripetute ricerche che hanno dimostrato con dati inequivocabili come tra i beneficiari dell’indulto i recidivi sono stati il 23,7%, percentuale molto elevata ma si deve tener conto che la recidiva ordinaria, quella cioè che si registra tra coloro che scontano interamente la pena, è del 69%”. Le proposte Pd per il carcere sono buone, ma non bastano di Franco Mirabelli* Il Riformista, 14 novembre 2020 Che cosa fare? Il limite di pena residua per avere i domiciliari va alzato da sei mesi a un anno, va aumentato lo sconto di pena per buona condotta. 610 detenuti positivi, più di mille in isolamento sanitario. La proroga delle misure di marzo è insufficiente. Proporremo perciò nuovi emendamenti al decreto Ristori: il governo deve dare risposte. La situazione che si sta determinando nelle carceri italiane, a causa della ripresa così significativa dei contagi, si somma ai problemi patologici del nostro sistema penitenziario e richiede attenzione e interventi da parte della politica e delle istituzioni. Ne va della salute di chi è in carcere, dei detenuti, degli agenti e degli operatori. I dati di ieri raccontano di 610 detenuti positivi e 847 persone, di cui 50 operatori, contagiate. Di 75 istituti coinvolti su un totale di 192 e di 1009 detenuti in isolamento sanitario. Sono dati, per numero di coinvolti e di istituti interessati, estremamente più significativi e preoccupanti rispetto alla prima fase del contagio. Dati che potrebbero essere contenuti se si potesse operare in spazi adeguati a garantire quarantene e separazione. I protocolli adottati sono utili e efficaci ma si scontrano, innanzi tutto, proprio con la carenza di spazi. Sempre a ieri erano detenute 54.767 persone mentre i posti regolamentari disponibili sono 47.131. Si ritorna quindi a verificare un sovraffollamento significativo, non superiore a quello di fasi precedenti, ma che oggi in piena pandemia, con la necessità di avere spazi dedicati alla cura e all’isolamento e con l’impossibilità di tenere il distanziamento, diventa un grande problema da affrontare e da risolvere. Le misure introdotte tempestivamente dal governo nel Decreto ristori, che in sostanza prorogano quelle decise a marzo, sono importanti, fortemente volute, ma non sufficienti. Bisogna provare a fare di più cogliendo anche le differenze rispetto al passato: dall’elevato numero di contagi al fatto che, in questa fase i nuovi ingressi quotidiani in carcere, che con il lockdown si erano ridotti di molto, oggi continuano a essere numerosi, mettendo, negli istituti circondariali soprattutto, la struttura ancora più sotto pressione per fare in modo che chi arriva non porti il virus all’interno. In questa situazione molte associazioni e istituzioni lombarde, dall’Osservatorio carceri, al Garante di Milano, dal Presidente della commissione comunale alla Caritas, insieme alle Camere penali e a altre decine di firmatari, hanno lanciato un appello al Parlamento perché, prendendo atto di questa situazione, integri il Decreto ristori per intervenire ulteriormente al fine di ridurre la popolazione istituzionalizzata. Questo appello va raccolto e lo faremo presentando una serie di emendamenti utili per migliorare il testo in questa direzione. Intanto riproporremo tre misure che già a marzo avevamo sostenuto: l’innalzamento da sei mesi a un anno del limite della pena da scontare al di sotto del quale sarà possibile andare agli arresti domiciliari senza braccialetto elettronico, escludendo, da questa come dagli altre misure che proponiamo, i condannati ai reati del 4bis (mafia, terrorismo, reati in famiglia e stalking); l’aumento di 30 giorni dello sconto di pena per ogni semestre a chi ha già goduto della riduzione della pena per buona condotta per anticipare, come si è già fatto in passato la fine della carcerazione; il rinvio dell’emissione degli ordini di esecuzione, a seguito di una condanna, delle pene detentive inferiori ai 4 anni. Inoltre, come ricordano i firmatari dell’appello lombardo, basterà sostituire nel testo attuale del decreto una “e” con una “o” per consentire, a chi ha già accesso a permessi premio o a permessi per il lavoro esterno, di restare temporaneamente fuori dagli istituti: si tratta di persone che, usufruendo già di quei provvedimenti non pongono problemi di sicurezza. Lunedì su queste e altre questioni proporremo emendamenti al Decreto e chiederemo al governo un impegno. Sono misure urgenti che aiutano il governo degli istituti carcerari, norme di buon senso, suggerite e sostenute da chi, con ruoli diversi, lavora in carcere, che possono dare un contributo importante, con la consapevolezza che di fronte a questa tragedia non si deve lasciare da solo nessuno e che il diritto alla salute va garantito anche nei luoghi di reclusione. *Vice presidente dei senatori del Pd Scarcerare 30 mila persone subito è l’unica soluzione di Piero Sansonetti Il Riformista, 14 novembre 2020 Per avere un risultato serio nella lotta alla vergogna delle carceri-inferno occorre un atto di rottura, una svolta, che permetta ad almeno 20 o 30mila detenuti di lasciare le prigioni. Tutti quelli che hanno un residuo pena inferiore, diciamo, ai tre o quattro anni devono poter uscire. Subito. In modo da dare respiro ai detenuti che restano. Immediatamente dopo bisogna lavorare a una legge di amnistia e di indulto. Poi bisogna rivedere il codice penale e procedere a una depenalizzazione massiccia. Infine rendere effettiva la legge che prevede l’arresto come extrema ratio, e quindi ridurre praticamente a zero la carcerazione preventiva. Non è un programma di utopia. È il minimo indispensabile per rientrare nella legalità e nella civiltà. Caro senatore Mirabelli, le sue proposte a me paiono molto ragionevoli. Solo che siamo arrivati a un punto di crisi così grande, nel nostro sistema carcerario, che nessuna iniziativa ragionevole è sufficiente. Occorre un atto coraggioso. Una rottura. Io personalmente ho sempre pensato che la sinistra, in una società moderna, servisse esattamente a questo: a imprimere delle svolte nella lentezza della politica, a rompere gli schemi, a osare. La destra forse ha più un compito legato alla conservazione, al buon senso. La sinistra ha il ruolo dell’acceleratore. La destra deve soprattutto garantire l’establishment, il ceto medio, i settori produttivi, la pace sociale. La sinistra dovrebbe aprire i conflitti e prendersi sulle spalle i problemi degli ultimi. Qui, certo, nasce una grande discussione, perché non è più chiarissimo chi siano gli ultimi, né quale sia il confine tra popolarismo e populismo, tra masse e plebe. Ne discuteremo un’altra volta, senatore. Per ora una cosa possiamo dircela: se Marx non funziona più alla perfezione, prendiamo il Vangelo di Matteo. Si ricorda di quel passo nel quale ci invitava a visitare i detenuti e dar da mangiare ai disperati, no? Credo che oggi i disperati siano i profughi, i carcerati invece, pochi dubbi, son sempre loro. Gli stessi di allora. Sono la parte più debole e vessata della società. Sono quelle persone che vivono in condizioni inumane e per di più pagano per la mancanza totale di libertà, per lo stato di sottomissione al quale sono fisicamente costretti e per il disprezzo pubblico, espresso nei bar, nei parlamenti, in Tv, sui giornali. La sinistra può restare a guardare, può ignorarli? Io apprezzo molto, senatore, il suo sforzo per introdurre emendamenti umani nelle leggi di un governo dominato da una forza oltranzista, illiberale (io credo reazionaria), come sono i 5 stelle. E le sono grato per questo sforzo. Lo so che ci vuole coraggio, oggi, in politica, per schierarsi a favore dei diritti degli oppressi invece di abbellirsi opprimendo i diritti. Comanda Travaglio, oggi, comanda Di Maio, aspiranti carcerieri, cacciatori di migranti. Vedo bene che lei non si è fatto intimorire. Però, senatore Mirabelli, serve qualcosa di più. Un piano di scarcerazioni immediate che vada molto oltre quel limite di un anno di residuo pena che lei ha indicato. Almeno tre anni, senatore. Dobbiamo fare uscire immediatamente dalle prigioni 30mila persone se vogliamo avere un risultato serio, sia nella lotta alla pandemia sia nella lotta alla vergogna delle carceri-inferno. Il mio amico Gian Carlo Caselli ha definito le carceri dei Grand Hotel. Io spero che possa ripensarci, che torni al pensiero libero e moderno. Che la smetta di inseguire Il Fatto. Ma il nostro dovere è non farci intimidire dalla propaganda di chi vorrebbe massacrare i detenuti. È anche il suo dovere, senatore. Scarcerazioni subito, dico: subito. E poi indulto, amnistia, revisione del codice penale e fortissima depenalizzazione, infine applicazione rigorosa della legge che prevede l’arresto come extrema ratio. Le carceri avranno un senso se diventeranno luoghi particolarissimi, decenti, che ospitano non più di due o tremila persone. E le ospitano per ragioni di sicurezza e di rieducazione, non di vendetta, pena, di ritorsione. Senatore, viviamo nel 2020, i nostri nipoti ci giudicheranno per questo orrore che stiamo facendo nelle prigioni. Possibile che nel mondo politico nessuno se ne accorga o sia in grado di farsene carico? Possibile che non esista più qualcuno, come fu il senatore Gozzini, in grado di scrivere leggi umane? Possibile che Rita Bernardini, che da qualche giorno ha iniziato lo sciopero della fame, debba restare sola, solissima, quasi fosse una persona stravagante da trattare con simpatia e disprezzo? Provi a rispondere, senatore, E provi a ottenere qualche risposta anche dai dirigenti più potenti del suo partito. P.S. Grazie, grazie, grazie a Rita Bernardini P.S 2. Quella clausola che esclude dai benefici chi sia stato condannato per reati di mafia è discriminatoria, ipocrita e direi incostituzionale. Siamo tutti uguali di fronte alla legge, dice la Costituzione. Se una persona ha un residuo di pena di uno, o due, o tre anni, vuol dire che non è considerata pericolosa. Una persona condannata per reati di mafia resta una persona, come tutti noi. E ha i nostri stessi diritti. La pandemia ha tolto il velo sulle condizioni delle carceri italiane di Concetto Galati* varesenews.it, 14 novembre 2020 La situazione nelle carceri è oggi particolarmente critica in ragione della crescita esponenziale della diffusione del virus: il Consiglio d’Europa, l’11 novembre, ha pubblicato uno studio che colloca l’Italia fra i Paesi con il maggior numero di contagi fra i soggetti ristretti; i dati ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aggiornati all’8 novembre, riferiscono di 537 reclusi e 728 operatori contagiati. La seconda ondata pandemica si abbatte, invero, su un sistema in crisi ormai da tempo, connotato da criticità che determinano un’insostenibile sospensione delle più elementari esigenze umane: spazi angusti, strutture fatiscenti e ricolme oltre la capienza tollerabile, inevitabile promiscuità, degrado diffuso, inattività coatta per l’endemico difetto di risorse. In base ai risultati dei rapporti Space I (statistiche annuali, relative alle detenzioni nelle istituzioni penali), l’Italia si è negli ultimi anni costantemente collocata, con riferimento al problema del sovraffollamento carcerario, nelle ultime posizioni in relazione ai quarantasette Stati che aderiscono al Consiglio d’Europa, con una percentuale di detenuti non destinatari di una sentenza definitiva e di suicidi al di sopra della media europea. Al sovraffollamento si aggiungono altre problematiche, come emerge dalla recente indagine di Associazione Antigone (v. XV e XVI Rapporto sulle condizioni di detenzioni, 2019 e 2020) e avente ad oggetto più della metà degli istituti penitenziari nazionali: il riscaldamento, nei mesi invernali, è risultato non funzionante nel 7% dei casi, mentre l’accesso all’acqua calda sanitaria, per il malfunzionamento delle caldaie, sarebbe “non garantito” nel 35% degli istituti, fra cui le più grandi carceri del Paese; la maggioranza degli istituti penitenziari non ha una doccia all’interno della cella e consente di usufruire delle docce in sezione “a turni”, in molti casi solo una volta a settimana e in locali comuni spesso ammuffiti e insalubri; in molti carceri il numero settimanale di ore di presenza dei medici per cento detenuti è minimo e inidoneo a garantire le richieste di assistenza; la presenza di psichiatri e psicologi non è adeguata a far fronte a un disagio psichiatrico diffuso, dato che oltre un quarto dei detenuti assume una terapia psichiatrica. La quotidianità della vita detentiva è inoltre connotata da sedentarietà, immobilismo e ozio forzato: “negli istituti visitati solo un terzo delle persone detenute lavora (il 28,8% alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e solo il 4,2% alle dipendenze di altri soggetti), il 4,6% segue dei corsi di formazione professionale (nel 38,6% degli istituti non risultano attivati corsi di formazione professionale) e il 26,5% è coinvolto in un qualche corso scolastico”. Occorre a questo proposito ricordare che, nel 2013, con la sentenza Torreggiani e altri c. Italia, la Corte europea ha accertato la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Divieto di tortura, trattamenti o pene inumane e degradanti), constatando la sussistenza di “un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario”. Difetti strutturali a cui il legislatore non è mai stato in grado di porre rimedio e che hanno reso le carceri nazionali un contesto ideale per una diffusione massiva del contagio. Ciononostante, a fronte di una pandemia inedita per gravità ed estensione, potenzialmente in grado di produrre effetti devastanti sulla popolazione ristretta, nel corso della c.d. “prima ondata” si è optato - con il d.l. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. “cura Italia”, convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020, n. 27 - per soluzioni blande, temporanee e di limitata portata applicativa. A fronte di una iniziale e comunque insufficiente riduzione della popolazione carceraria, vi è stato, a partire da fine luglio, un nuovo aumento dei soggetti ristretti. Il problema delle condizioni di detenzione e del rischio di una incontrollata diffusione del virus si ripresenta oggi con tratti ancor più drammatici e il Governo, ancora una volta, ha scelto di adottare iniziative che assumono le sembianze del palliativo o, meglio, del rattoppo temporaneo a una falla che richiederebbe interventi di ben più ampio respiro. Con il d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, c.d. decreto “Ristori”, infatti, sono state adottate misure analoghe a quelle previste a marzo 2020, salvo qualche differenza che non consente certo di prevederne una maggiore portata: per i limiti applicativi delle disposizioni normative, per l’impossibilità materiale della magistratura di sorveglianza di operare al ritmo del contagio, per la mancanza di un numero sufficiente di dispositivi elettronici di controllo, per i problemi di organico, per l’assenza di spazi adeguati all’isolamento dei detenuti che giungono dall’esterno, per gli standard igienici degli istituti, per i difetti strutturali che rendono particolarmente difficili le condizioni dei detenuti più vulnerabili. Assistiamo a una crisi che mostra, plasticamente, quanto abbia inciso sul carcere il sostanziale abbandono della complessiva riforma dell’ordinamento penitenziario, le cui linee essenziali erano già state definite a seguito dei lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale (2015-2016) ed erano confluite nella c.d. “riforma penitenziaria Orlando”. Il legislatore, di contro, ha privilegiato iniziative securitarie di breve respiro, antitetiche rispetto ai principi costituzionali e sovranazionali in materia di funzione ed esecuzione della pena. Un problema culturale, prima che normativo, che ha fatto sì che ogni sforzo di innovazione rimanesse solo sulla carta, con il drammatico effetto di perpetuare la permanenza nell’illegalità della fase esecutiva della sanzione penale. Il carcere è in tal modo divenuto “waste land”, una “terre gaste” dove il diritto alla salute cede innanzi a indefinite istanze di sicurezza della collettività, dove il passato criminale del detenuto è anche presente e futuro, dove non conta il percorso individuale seguito dopo la condanna, dove non vi è spazio per l’affettività, dove non vi è possibilità alcuna di riscatto, dove il concetto stesso di “speranza” perde ogni contenuto semantico. Quelle descritte sono condizioni che costituiscono, evidentemente, una negazione della dignità umana, parte integrante di un patrimonio di civiltà che trova riscontro e conferma nella Costituzione e nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’importanza di tali principi appare oggi ancor più evidente e mette in luce l’impellente necessità di misure immediate ed efficaci per contrastare l’avanzata del contagio ed evitare che ciò si traduca in un insostenibile aggravamento delle condizioni di detenzione. L’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane ha a tale proposito, con il comunicato del 9 novembre 2020, rivolto il condivisibile invito al Parlamento “ad emanare l’amnistia e l’indulto, parole oggi impronunziabili”, ma che nel momento attuale, più che in ogni altra situazione, troverebbero giustificazione. Nel suddetto documento sono state anche individuate una serie di soluzioni, tutte praticabili, per far fronte immediatamente all’emergenza. Rimedi di urgenza allo stato attuale irrinunciabili, ma che soli non bastano. La pandemia ha sollevato il velo sulle condizioni del sistema penitenziario nazionale, sulle sue risalenti fragilità e sugli effetti di scelte politico-legislative incapaci di valutazioni prospettiche, rendendo evidente la necessità di una riforma complessiva che sappia incidere in maniera duratura sull’esecuzione penale, dando concreta attuazione al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena. *Avvocato, docente di Diritto processuale Università Carlo Cattaneo - Liuc Sono consentiti gli spostamenti per fare visite a detenuti in carcere? Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2020 Nelle zone rosse gli spostamenti per fare visita alle persone detenute in carcere sono sempre vietati, non essendo giustificati da ragioni di necessità o da motivi di salute. In tali casi i colloqui possono perciò svolgersi esclusivamente in modalità a distanza mediante apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o tramite telefono, anche oltre i limiti stabiliti dalle norme dell’ordinamento penitenziario. Nelle zone arancioni tra le 5 e le 22 gli spostamenti e dunque le visite sono consentiti, ma solo in ambito comunale. In queste zone non sono infatti possibili gli spostamenti fra comuni. Nelle zone gialle visite tra le 5 e le 22. Anche in queste due zone i colloqui possono svolgersi anche in modalità a distanza. Subito una legge per le udienze da remoto o nei tribunali sarà caos totale di Eduardo Savarese Il Riformista, 14 novembre 2020 Con il crescente rinvigorirsi della pandemia, riemerge il problema - mal posto e malissimo risolto - della conduzione in sicurezza delle attività giudiziarie e della celebrazione delle udienze. Mi riferirò a quest’ultimo aspetto, per le sole udienze civili. In primo luogo, restano profondissime perplessità circa le condizioni strutturali del Palazzo di Giustizia napoletano, sviluppato in verticale su circa 30 piani, al Centro Direzionale. Perplessità serie, riguardanti l’areazione e l’uso necessario degli ascensori, sulle quali, ad oggi, nessuna specifica e argomentata rassicurazione è stata fornita, nonostante ci attendano i mesi più duri della pandemia e l’attivazione del riscaldamento dei locali. In secondo luogo, proprio per ridurre l’affluenza di pubblico in Tribunale, il legislatore ha pensato di prorogare al 31 dicembre 2020 l’utilizzo della trattazione scritta (uno scambio di note fuori udienza: nessuno più si guarda e si parla) e il ricorso alla connessione da remoto (col dispositivo in uso ministeriale Microsoft Teams) per la quale, con soluzione tardiva ma di buon senso, si è stabilito che non sia necessario, per celebrare un’udienza valida, che il giudice sia fisicamente in ufficio (se la ragione è la sicurezza, lavoreranno in sicurezza i giudici, gli avvocati e le parti. E, speriamo, il personale amministrativo, poiché ora, cioè a distanza di mesi, si sta implementando lo smart working per quel personale. Incredibile: come se la ripresa della pandemia in autunno fosse evento imprevedibile prima dell’estate). La terza considerazione riguarda l’utilizzo dell’udienza da remoto: non c’è che dire, è un mezzo non neutro. Voglio dire che soppiantare il contatto fisico e la discussione orale con la presenza mediata dagli schermi dei computer implica mutazioni significative della percezione della realtà che andrebbero studiate con grande rigore, se vogliamo che diventino soluzioni stabili e non solo eccezionali. Ma anche a volerle utilizzare come soluzione eccezionale, resto semplicemente basito per il fatto che, dopo lo scompiglio di marzo e aprile - con una politica della giustizia sostanzialmente inesistente - dopo l’estate, dopo la ripresa di settembre, ancora non sia stata valutata una regolamentazione scritta, uniforme e generale della celebrazione dell’udienza da remoto, in un apposito decreto legge oppure attraverso una modifica integrativa delle norme del codice di procedura civile. La cosa ancora più sconcertante è che a questo disordine mentale, politico e normativo ci stiamo abituando in uno scivolamento inconscio verso la salvaguardia della nostra pelle (più che legittima aspettativa di tutti, intendiamoci) che non è più in grado di rivolgere uno sguardo d’insieme e storicizzante su quanto sta accadendo. E di tutti i bei dibattiti che insorsero in primavera - l’equo processo, la celebrazione pubblica dell’udienza, l’articolo 6 della Convenzione europea - si smarriscono le già evanescenti, sulfuree tracce. In questo clima di smarrimento ci siamo tutti: ogni giorno ho la sensazione di un mondo - quello della giustizia - abbandonato a se stesso, un vascello fantasma in cui avvocati e giudici e personale amministrativo navigano alla giornata e a vista. Faccio un esempio concreto e significativo: l’attuale normativa (articolo 221 della legge 77/2020) prevede che il giudice civile possa stabilire d’ufficio (cioè senza richiesta di parte) la trattazione scritta, mentre per la connessione da remoto ha bisogno di un’istanza di parte. Ebbene, finora non ho ricevuto un’istanza di parte in tal senso. Tuttavia, quando poi in udienza chiedo se vada bene celebrare l’udienza da remoto, quanto meno per scambiarsi contestualmente e oralmente due parole, per fare il punto, per realizzare insomma il contraddittorio pur se attraverso gli schermi di un computer, gli avvocati hanno sempre aderito con entusiasmo. Insomma, non sappiamo bene chi deve fare cosa, a chi piaccia e a chi dispiaccia, come se tutto fosse precipitato nel prodursi incerto, quasi omertoso di una prassi quotidiana. Anche questo prostra psicologicamente le categorie. E se avessimo una classe politica, anche a questo penserebbe: la giustizia è stata, ancora una volta, lasciata a se stessa, senza una programmazione seria che, certamente per il settore civile, sarebbe stata possibile quanto meno a partire da maggio e avrebbe anzi fornito un esempio di azione amministrativa efficace e, soprattutto, giusta. Non si tratta di Napoli, Milano o Reggio Calabria: si tratta della conduzione giusta della giustizia civile in Italia, in un tempo eccezionale che probabilmente lascerà tracce non provvisorie. Ma la giustizia giusta non è preoccupazione - a quanto pare - “sistematica”. Il processo penale fisico non può essere sacrificato neanche in tempi di “guerra” di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 14 novembre 2020 L’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 ha, come mai nessun evento dal dopoguerra ad oggi, duramente colpito il nostro Paese e le ripercussioni hanno coinvolto ogni ambito e settore della vita dello stesso: dal punto di vista lavorativo, le restrizioni sugli spostamenti dei cittadini hanno creato il terreno fertile per compiere finalmente quel decisivo passo verso una completa transizione digitale nell’ambito della Pubblica Amministrazione. In altre parole, la pandemia è stata l’occasione per promuovere il c. d. smart working e per digitalizzare i processi burocratici. Sembrerebbe questa, dunque, l’unica ed isolata buona notizia legata alla pandemia, se non fosse che l’opera di digitalizzazione ha coinvolto in maniera indiscriminata ogni settore della Pubblica Amministrazione, compresa la giustizia penale, ambito, tuttavia, assolutamente peculiare rispetto agli altri, in cui operano ed emergono, infatti, prerogative e diritti che coinvolgono la persona nella sua sfera più intima e delicata: la libertà personale. In questo senso, la possibile trasformazione del processo penale in un mero rito cartolare pone inevitabilmente in serio pericolo le garanzie difensive alla base del sistema penale italiano, ambito nel quale il contraddittorio ed il dialogo fisico tra le parti - Giudice, Pubblica Accusa, Difensore e imputato - costituiscono elemento imprescindibile ed insostituibile. La questione, già ampiamente dibattuta durante la prima fase dell’emergenza sanitaria, è riemersa in questi giorni alla luce di quanto descritto dal Decreto Ristori bis, che prevedrebbe, se confermato in sede di conversione - nuovamente l’eliminazione in forma fisica delle figure dei magistrati e degli avvocati dall’aula, in relazione - per ora - al secondo grado di giudizio. Una simile previsione avrebbe il fine ultimo di preparare il terreno ad un futuro completamente cartolare e, per ciò privo di oralità ed immediatezza, per il processo penale. Un simile sistema di ricerca della verità è, quindi ovviamente, collegato alla presenza fisica: come si può pensare, ad esempio, di rilevare se un teste sta dicendo la verità su un fatto, senza la presenza fisica del teste stesso? Come già detto dallo scrivente in occorrenza della prima fase emergenziale, privare il processo penale di quei requisiti essenziali per l’accertamento della verità mina dall’interno il sistema di garanzie costruito a tutela delle parti processuali; il sistema italiano si basa, infatti, sull’accertamento della verità per il tramite della regola d’oro, come recitava l’indimenticato professor Cordero, della formazione della prova in dibattimento, di fronte dell’esame, del controesame e del riesame delle parti. Se fino a ieri si è stati attenti a non cogliere i frutti dell’albero avvelenato, a non far passar prove se non acquisite nei termini di legge, cosa accadrebbe col filtro informatico? Un procedimento penale a distanza rappresenta, peraltro, anche la negazione della collegialità, soprattutto per l’impossibilità di vederne, in tal maniera telematica - garantita la segretezza, che è un presidio alla libertà del giudice. Sempre in questa rubrica lo scrivente si era già espresso mutuando figure care al mondo militare: concedere spazi in tempi di guerra equivale a perderli, per sempre. Anche considerando il delicato momento storico che stiamo vivendo, il processo penale fisico non può essere sacrificato neanche a fronte dell’esigenza di ridurre il rischio di contagio: i rimedi in tal senso possono essere altri. A titolo di esempio, può essere citata la scelta di creare diverse velocità dei vari procedimenti pendenti, ritardando quelli privi dei connotati di urgenza e dando la precedenza a quelli, viceversa, urgenti. Snellire la presenza solo coi depositi telematici, in tutta Italia, senza dover subire la frustrazione di leggere circolari differenti per ogni Palazzo di Giustizia. Creare un sistema uniforme, per Legge, di ricezione, accettazione ed invio atti, come avviene per il processo civile ma salvaguardando l’oralità, tipica del penalista, ultimo baluardo ed ultimo difensore della Giustizia. *Direttore Ispeg Interventi a tappeto negli uffici, contagi tracciati: via Arenula mobilitata per tutelare i dipendenti di Simona Musco Il Dubbio, 14 novembre 2020 Il Ministero: il contagio della dipendente morta dopo aver contratto il Covid non è avvenuto sul luogo di lavoro. Il contagio della dipendente del ministero della Giustizia morta dopo aver contratto il Covid non sarebbe avvenuto sul luogo di lavoro. È quanto accertato dallo stesso ministero, all’esito della mappatura dei contatti della dipendente a via Arenula, dalla quale non sarebbe emersa alcune relazione tra la sicurezza del ministero e il contagio. Smentendo, dunque, quanto sostenuto in una dura nota indirizzata mercoledì ad Alfonso Bonafede e al sottosegretario Vittorio Ferraresi, nella quale l’Associazione dipendenti giudiziari italiani denunciava una situazione di sostanziale “insicurezza”, arrivando a parlare di un ambiente lavorativo “non adeguatamente garantito”. La versione del ministero è, però, decisamente diversa. E supportata da un insieme di documenti e direttive che testimoniano, sin da febbraio, le attività messe in campo per monitorare il grado di rischio di contagio negli ambienti ministeriali e le misure per il contenimento della diffusione del virus. Il tutto mentre, parallelamente, si è lavorato per garantire un accesso da remoto alle attività fondamentali per impedire un nuovo blocco della Giustizia. Così dal 20 novembre saranno accessibili da remoto i registri civili di cancelleria del Giudice di Pace e per il personale amministrativo, in via sperimentale, anche quello ai registri di cancelleria penali. Da dicembre, invece, sarà possibile consultare da remoto il fascicolo processuale da parte degli avvocati tramite il Portale dei servizi telematici. Dal 3 novembre scorso, invece, sono già accessibili i registri di cancelleria civile Sicid (Sistema informatico contenzioso civile distrettuale) e Siecic (Sistema informatico esecuzioni civili individuali e concorsuali), “per gestire integralmente da remoto anche per il personale amministrativo le procedure civili, di lavoro, di volontaria giurisdizione, fallimentari e di esecuzione mobiliare ed immobiliare”. Per quanto riguarda il tema sicurezza, il ministero è partito da una ricognizione e rimodulazione degli spazi e delle postazioni di lavoro per garantire la distanza di almeno un metro tra ogni dipendente, così come per gli spazi comuni, imponendo ferree limitazioni all’accesso e sistemi di rilevazione della temperatura automatici ed a distanza. Tutto è descritto in una serie di atti, firmati dal capo dipartimento dell’organizzazione giudiziaria Barbara Fabbrini, che ha puntato tutto su prevenzione e smart working, relazionando passo passo le disposizioni studiate per contenere il virus. Contro il quale il ministero ha messo a disposizione 24,8 milioni di euro, destinati all’acquisto di mascherine, termo-scanner, barriere “para-fiato”, gel igienizzanti e interventi di pulizia straordinaria e sanificazione. A questo investimento si aggiungono “una decisa spinta sulla digitalizzazione” e assunzioni, sia sul piano amministrativo sia sul piano dell’immissione in ruolo di nuovi magistrati. Una spesa finanziata, in parte, grazie al “fondo” di 31 milioni ottenuto dal ministro con il decreto “Rilancio”. Il dipartimento, dal canto suo, ha imposto regole ferree, abolendo le riunioni in presenza e acquistando, complessivamente, 370.800 mascherine chirurgiche - 18.700 delle quali distribuite agli uffici giudiziari più in difficoltà -, una per ogni giorno di presenza in ufficio per ogni dipendente. Dispositivi ai quali si aggiungono 42 tute- presidi medici sanitari in caso di necessità. Il ministero ha puntato tutto sulla sanificazione - inesistente, secondo l’Adgi, che parla di un semplice lavoro di pulizia ordinaria. Stando alle relazioni fornite da Fabbrini al ministero, sin dall’inizio dell’emergenza sono stati però utilizzati disinfettanti chimici a base di candeggina o cloro, solventi e etanolo al 75%, così come indicato dal ministero della Salute, dopo l’uso dei normali prodotti di detersione. Così, ogni giorno, vengono sanificate le postazioni di lavoro, sale riunioni, corridoi e scale, con particolare attenzione a corrimano, maniglie finestre corridoi, maniglie, porte antipanico, tastiere, stampanti, corridoi, impianti elevatori, aree break e servizi igienici, igienizzati minimo tre volte al giorno. A ciò si aggiunge l’autorizzazione ad un consistente numero di interventi straordinari in caso di dipendenti positivi. E dall’inizio dell’emergenza sono stati almeno 15 gli interventi aggiuntivi, con l’ultima sanificazione dell’intero stabile risalente all’ 8 novembre. È stata assicurata, inoltre, anche la pulizia e sanificazione di tutte le autovetture di servizio in uso all’amministrazione centrale. Ma non solo: sono stati acquistati e resi disponibili paratie “para-fiato” in plexiglass, piantane per gel igienizzante, termometri no contact ad infrarossi e visiere. A ciò si aggiunge lo smart working, da svolgersi nelle “percentuali più elevate possibili”, in misura anche superiore al 50%. Obbligatorio, inoltre, differenziare l’orario di ingresso e di uscita del personale. Ma non solo: da settembre il ministero ha avviato la distribuzione di circa 16.000 personal computer portatili per consentire al personale amministrativo degli uffici giudiziari di accedere da remoto ai registri di cancelleria. Renzi: “L’opinione pubblica ha aperto gli occhi sulle procure: ora separazione delle carriere” Il Dubbio, 14 novembre 2020 Matteo Renzi, intervenuto ieri al dibattito on line delle Camere penali sulla giustizia: “C’è una divisione della magistratura che mi preoccupa, credo sia maturo il tempo di approfondire meglio l’argomento della separazione delle carriere e vedere come procedono oggi le carriere”. “Capisco che parliate di separazione delle carriere, penso sia maturo il tempo per approfondire meglio questo argomento ma bisogna capire come procedono le carriere oggi. Visto cosa abbiamo visto nelle correnti della magistratura, dire che un unico magistrato è responsabile unico di cosa e accaduto nel Csm è una impostazione ipocrita e farisaica”. A dirlo è Matteo Renzi, intervenuto ieri al dibattito on line delle Camere penali sulla giustizia. Il leader di Italia Viva ha evidenziato la “assoluta necessità” della classe politica di fare i conti con lo stato della Giustizia, per mettere al centro dell’agenda non soltanto una riforma, ma anche “una seria verifica di ciò che abbiamo fatto”, analizzando luci e ombre di una cultura giuridica sfociata nel panpenalismo. Ora o mai più, dice Renzi, secondo cui l’opinione pubblica ha finalmente aperto gli occhi sulle storture di una concezione idealizzata della magistratura. “Dopo decenni finalmente è chiaro per tante dinamiche che non è più vero l’assioma che ha caratterizzato un ventennio di vita repubblicana, per cui l’avviso di garanzia era una sentenza di colpevolezza e chi vi era raggiunto doveva dimettersi, anche da cittadino - sottolinea -. Durante Tangentopoli la stampa era monodirezionale. Erano rarissimi i commentatori che avevano la forza di dire “guardate che c’è lo stato di diritto”. A questo la politica ha reagito in modo sguaiato e scoordinato, con la sinistra che ha giocato di sponda con alcune procure e la destra che immaginavano riforme ad personam”, aggiunge. “Il tempo è maturo per una riflessione: il mondo è cambiato, l’opinione pubblica ha compreso come non si possa accettare come verità una ipotesi di indagine. Dall’altro c’è una divisione della magistratura che mi preoccupa, non mi fa piacere, credo sia maturo il tempo di approfondire meglio l’argomento della separazione delle carriere e vedere come procedono oggi le carriere”, aggiunge.La discussione sulla Giustizia non potrà, però, non partire da un elemento oggettivo: la crisi economica causata dalla pandemia. Cosa succederà quando l’emergenza sarà finita? “Aumenteranno le procedure per bancarotta fraudolenta di aziende che non ce la faranno. Ci saranno macerie. Abbiamo fatto processo di depenalizzazione importante - spiega -, ma abbiamo aumentato anche i limiti per alcuni reati e oggi si rischia molto di più con un reato fiscale che non con un atto contro la persona”. Renzi dà dunque la disponibilità di Italia Viva ad avviare una discussione, in seno al governo, “sui danni che una cattiva giustizia fa sulle imprese”, un argomento che Renzi ha intenzione di affrontare nei prossimi mesi, nel momento in cui si dovrà scrivere il nuovo contratto fra le forze di maggioranza. “Non propongo guerre sante, non alimento tensioni ideologiche, non apro allo scontro tra politica e magistratura - conclude - ma nel contratto di governo Italia Viva si impegna a proporre un approfondimento delle questioni per togliere dal piatto ogni tipo di diatriba ideologica, per capire cosa si può migliorare. Si è distrutto realtà importanti dal punto di vista economico solo con l’apertura delle indagini e c’è una crisi economica che ci impone di guardare a questi temi con sguardo laico”. Dal Csm stretta sui giudici onorari. Regole rigide per nominare quelli dei minori di Liana Milella La Repubblica, 14 novembre 2020 Il presidente per il tribunale dei minori di Bologna Giuseppe Spadaro scelto per l’incarico a Trento, la sua carriera definita una “vera passione per la funzione”. Di certo è un caso, ma al Csm, nella stessa seduta, ha fatto di nuovo capolino la storia di Bibbiano e dell’inchiesta Angeli e demoni e anche quella del Forteto. Casi di malagiustizia minorile che hanno fatto molto discutere. Per Bibbiano l’udienza preliminare, dal 30 ottobre, è in corso a Reggio Emilia, nell’aula bunker che fu del processo Aemilia, per decidere quanti dei 24 imputati debbano essere rinviati a giudizio. Ma a piazza Indipendenza invece si è cercato, per il futuro, di ancorare a criteri rigidamente oggettivi la scelta di coloro che si occupano dei minori. Da una parte, ecco la stretta sulla nomina dei giudici onorari minorili che prelude a regole più rigide per tutte le toghe onorarie, dall’altra la nomina a presidente per il tribunale dei minori di Trento di Giuseppe Spadaro, oggi a capo, ma già da otto anni (quindi il massimo possibile), di un ufficio identico a Bologna. Nomina accompagnata da una motivazione che, qualora fosse ancora necessario, fuga qualsiasi ombra sul suo ruolo nel caso Bibbiano. Per lui adesso, con una votazione all’unanimità, si parla di “vera passione per la funzione” e delle numerose udienze a settimana che si tengono in quell’ufficio. E a scrivere la motivazione della pratica è stato un duro come Piercamillo Davigo. Un ruolo, quello di Spadaro, già chiarito dall’ispezione ministeriale di via Arenula che ha messo in evidenza come il magistrato fosse dalla parte giusta nella vicenda Bibbiano. Ispezione però che, a ottobre, di fatto gli ha impedito di correre per il vertice del tribunale per i minorenni di Roma. Peraltro proprio Spadaro è stato tra i referenti più ascoltati dell’ottava commissione del Csm che in queste settimane, su input del consigliere laico indicato dalla Lega Stefano Cavanna, che è un avvocato ed è il presidente, hanno messo a punto il nuovo sistema per scegliere i giudici onorari minorili per i prossimi tre anni. Una stretta che, da quanto si può capire al Csm, dovrebbe poi riguardare le regole di selezione per tutte le toghe onorarie. Ma cosa non funzionava fino a oggi in quelle nomine e che cosa è stato cambiato? “C’era troppa discrezionalità e l’assenza di criteri predeterminati e certi” dice Cavanna. Una discrezionalità “a cui bisognava porre fine”. Tant’è che Cavanna chiede subito di aprire una pratica sui criteri con cui si scelgono questi giudici. È lo stesso giudizio del relatore, il togato di Magistratura indipendente Antonio D’Amato: “D’ora in avanti non sarà più possibile derogare alla graduatoria in ragione di particolari competenze professionali, come invece è accaduto in passato”. I criteri per scegliere questi giudici dovranno essere certi, e non potranno più essere cambiati. Sarà rigido soprattutto l’elenco delle incompatibilità che dovranno valere sia al momento della nomina, ma anche dopo, durante lo svolgimento del singolo incarico. Toccherà ai presidenti dei tribunali per i minorenni controllare i requisiti dei giudici onorari e, dopo un emendamento del togato di Area Ciccio Zaccaro, proprio quei presidenti saranno obbligati a decidere di persona, senza alcuna forma di delega ad altri. Inoltre, a seguito di un emendamento proposto da Ilaria Pepe di Autonomia e indipendenza, le loro scelte, e quindi gli eventuali errori al Csm diventeranno un elemento per valutare se il presidente merita di essere confermato oppure no, cioè queste scelte faranno graduatoria. In pratica, come ha spiegato Cavanna, finora era possibile “per la commissione esaminatrice derogare a posteriori dalla graduatoria dopo la sua formazione sulla base di criteri non predefiniti e, quindi, discrezionali”. Un comportamento, “ai limiti della costituzionalità e foriero di un intollerabile arbitrio in un settore così delicato”. La prossima mossa, a questo punto, potrebbe riguardare tutte le toghe onorarie. Non solo quelle che si occupano di minori. Stiamo parlando di circa 5mila giudici onorari rispetto ai 10mila ordinari, quindi un numero molto alto che contribuisce a fare giustizia. Come si è arrivati al Csm a queste modifiche? Il promotore è stato proprio Cavanna. Che lo spiega così: “Seguendo con attenzione le nomine e le conferme dei giudici minorili, mi sono reso conto che in moltissimi casi, una volta fatta la graduatoria, i presidenti la derogavano. Secondo la vecchia circolare, a posteriori, era sufficiente motivare la variazione spiegando che c’erano particolari esigenze e necessità di competenze dell’ufficio per ottenere candidati al di fuori della classifica”. Dopo aver ascoltato molti presidente di tribunali minorili, Cavanna, il relatore D’Amato e l’intera commissione si sono resi conto che veniva privilegiata soprattutto la richiesta di persone con esperienze concrete nel settore, con il rischio però di determinare poi conflitti di interesse. Oggi invece il sistema licenziato dal Csm si presenta molto più rigido. Il presidente del tribunale fa una relazione valutando anche l’andamento dell’ufficio nei tre anni precedenti e delinea quindi le caratteristiche dei futuri giudici onorari. Per i presidenti dei Tribunali c’è anche un maggiore obbligo di vigilanza anche sulle eventuali incompatibilità dei giudici onorari che dovessero intervenire ad incarico ormai acquisito. Mentre oggi si tende a chiudere un occhio rispetto alle necessità dell’ufficio. Su Davigo il Tar non sceglie: sulla decadenza decide il giudice ordinario Il Dubbio, 14 novembre 2020 Per i giudici amministrativi la delibera del Csm riguarda un “diritto soggettivo” e per tale motivo non avrebbero competenza in materia. È inammissibile il ricorso presentato da Piercamillo Davigo dinanzi al Tar del Lazio contro la sua decadenza da togato del Csm: i giudici amministrativi, che hanno dichiarato il loro “difetto di giurisdizione”, indicando dunque la competenza del “giudice ordinario, dinanzi al quale la domanda potrà essere riproposta”. Lo si legge nella sentenza breve appena depositata dalla prima sezione del Tar del Lazio. Secondo il collegio, i poteri esercitati dal Consiglio Superiore della Magistratura nei confronti di Davigo “non possono definirsi di natura autoritativa ma devono ricondursi nell’ambito delle attività di verifica amministrativa della sussistenza dei requisiti necessari per il mantenimento della carica, ivi compresi quei requisiti che costituiscono un prius logico del diritto di elettorato passivo”. Il Csm ha affermato che, a seguito del collocamento a riposo, Davigo, in quanto componente togato dell’organo, non sarebbe più possesso di un (pre)requisito necessario per mantenere la carica. L’attività di verifica del Consiglio si è basata su una interpretazione del panorama legislativo e dei principi da esso ricavabili, la cui correttezza è contestata dall’ex pm di Mani Pulite. Secondo i giudici, il caso in questione non riguarda una delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: “la situazione giuridica di cui si chiede la tutela ha la consistenza, nonostante la veste provvedimentale assunta dalla delibera del Csm impugnata, di diritto soggettivo” e per tale motivo la relativa cognizione deve essere riconosciuta al giudice ordinario. Nel suo ricorso, Davigo aveva censurato il provvedimento anche in relazione alla qualificazione del Csm come “organo di autogoverno” anziché di garanzia, nonché il richiamo operato al concetto della “rappresentanza democratica”, deducendo l’assenza di un collegamento necessario tra lo status di magistrato in servizio e il mandato consiliare. L’appartenenza all’ordine giudiziario, secondo Davigo, costituirebbe “la condizione richiesta esclusivamente per la presentazione di una candidatura ma non anche per il mantenimento della carica”, sostenendo anche l’irrilevanza del richiamo, pure presente negli atti impugnati, “al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali, dato che ordinariamente tutti i membri elettivi del Csm provenienti dalla magistratura non svolgono nel corso del mandato tali funzioni, per dedicarsi esclusivamente all’incarico presso il Csm”. Per l’ex pm, infine, non sarebbe influente “il richiamo alla prassi relativa al funzionamento dei Consigli giudiziari”. Il calvario di don Antonio: assolto diciannove volte ma neanche una scusa di Mario Lavia Il Dubbio, 14 novembre 2020 L’ex presidente della Campania e sindaco di Napoli prosciolto definitivamente dai processi. Antonio Bassolino innocente: dopo un’odissea giudiziaria durata decenni, ora è ufficiale. E le scuse? Per un imperscrutabile gioco della casualità di questo mondo, la notizia del diciannovesimo - avete letto bene, diciannovesimo proscioglimento di Antonio Bassolino è giunta nelle ore di massimo scontro istituzionale tra il sindaco di Napoli Luigi de Magistris e il governatore campano Vincenzo De Luca, i quali stanno dando vita ad uno spettacolo indecoroso messo in scena, per ragioni non sempre dichiarate, proprio mentre Napoli rischia di cadere sotto il fuoco del virus e della inadeguatezza dei suoi amministratori. Bassolino, due volte sindaco e due volte presidente della Regione Campania, nella sua lunghissima esperienza amministrativa ha avuto luci e ombre, come tutti i governanti del mondo. Ma furono ombre politiche, non morali. Peccato che ci siano voluti moltissimi anni per giungere al verdetto definitivo: Antonio Bassolino mai infranse la legge. Per la milionesima volta si pone la questione di quanto la giustizia abbia modificato il corso della politica. Non se ne viene a capo. Il calvario che “don Antonio” ha dovuto scalare è stato incommensurabilmente più faticoso delle sue amate Dolomiti. 19 processi! Lui è stato sin troppo paziente: nell’ultimo processo ha rifiutato la prescrizione pur di vedere riconosciuta nel merito la propria correttezza, perdendo così altro tempo, ma ha avuto ragione, il fatto non sussiste. Il problema è vecchissimo (ma non si risolve mai, qualunque sia il governo): com’è possibile evitare che un amministratore, ma diciamo un qualunque cittadino, debba aspettare anni per vedere riconosciuta la sua innocenza? Chi risarcirà Bassolino, e la stessa Napoli cui si è sottratto il possibile impegno di una personalità di spicco come l’ex sindaco? Chi farà autocritica, anche a sinistra, per averlo condannato anzitempo? È incredibile, ma la freddezza con cui il suo partito, il Pd, ha accolto la notizia dell’assoluzione è pari solo all’accanimento dei media quando si formularono le accuse. O forse si teme un ritorno in campo dell’ex sindaco, a pochi mesi dalle elezioni comunali, scompaginando le strategie romane? Ora, qui non si tratta di trovare impossibili forme di risarcimento. Ê evidente che nulla potrà restituire a Bassolino ciò che gli è stato tolto, ciò che avrebbe potuto fare e non ha potuto fare. Ma si potrebbe forse lavorare ad un’ipotesi che a tutta prima potrebbe sembrare fantasiosa ma che non lo è. L’idea è semplice: il governo potrebbe chiedere a Antonio Bassolino un impegno - l’avvocato premier trovasse lui la forma per comporre l’inaudito conflitto istituzionale fra Comune e Regione mettendo i due Masanielli, De Luca e de Magistris, intorno allo stesso tavolo per approntare un serio piano per fronteggiare il nemico chiamato Covid. Si tratterebbe di un coinvolgimento di un civil servant come accade spesso in paesi democratici come la Francia o gli Stati Uniti, una soluzione frequentissima adottata da organismi internazionali come l’Onu, quando si chiama un ex premier o comunque una personalità di spicco per risolvere gravi controversie. In effetti, quella di Napoli è al tempo stesso una tragedia che colpisce al cuore la vita dei cittadini e anche un’emergenza politico- istituzionale. Un uomo che si è messo volontariamente da parte per lunghi anni in attesa di vedere riconosciute le proprie ragioni in tribunale, ora che la legge gli ha dato ragione ha tutti i titoli per dare una mano alla sua amata città che altri stanno mortificando. Lazio. Interventi a favore dei detenuti, al via i finanziamenti regione.lazio.it, 14 novembre 2020 750 mila euro dalla Regione per il miglioramento della vita detentiva e il reinserimento sociale, per la didattica e per interventi strutturali nelle carceri. Sono stati pubblicati sul Bollettino ufficiale della Regione Lazio di ieri (Supplemento n. 3 al BurL n. 136 del 12 novembre 2020) gli atti relativi ai finanziamenti 2020 degli interventi a favore della popolazione detenuta della Regione Lazio, previsti dalla legge regionale 8 giugno 2007, n. 7. Con la deliberazione di Giunta n. 829 del 10 novembre 2020 si stabilisce la ripartizione, proposta dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasia, dal Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, Carmelo Cantone, e dalla dirigente del Centro per la giustizia minorile per il Lazio l’Abruzzo e il Molise, Fiammetta Trisi, dei 700 mila euro stanziati per le attività trattamentali e per gli interventi strutturali per l’esercizio finanziario 2020. 50 mila euro sono destinati ad assicurare l’attività didattica a favore dei detenuti iscritti ai corsi di laurea. I fondi per l’istruzione universitaria, sono ripartiti in base al numero di iscritti tra le università che negli scorsi anni hanno sottoscritto appositi protocolli con Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e Garante per la realizzazione di poli universitari penitenziari (Tor Vergata, Roma Tre e Cassino). Sullo stesso BurL compare anche l’avviso pubblico per la concessione di finanziamenti per 450 mila euro, destinati alle iniziative finalizzate alla realizzazione di attività volte ad assicurare il miglioramento della vita detentiva e il reinserimento sociale delle persone private della libertà personale. L’avviso è rivolto ad associazioni, organizzazioni di volontariato e cooperative sociali con accertata esperienza nel trattamento e reinserimento sociale delle persone soggette a misure penali, per la presentazione delle domande di finanziamento dei propri progetti per la realizzazione di attività trattamentali. Tali soggetti avranno 15 giorni di tempo (dalla pubblicazione sul BurL), per presentare le domande. Le risorse potranno essere assegnate ad associazioni legalmente costituite, aventi sede legale nel Lazio e che abbiano nel proprio statuto uno scopo attinente alle tematiche in questione e non di lucro. Le proposte progettuali dovranno contenere una nota di gradimento rilasciata dalla direzione della struttura dove si intende realizzare l’iniziativa. Per ciascuna attività proposta ritenuta meritevole, è previsto un sostegno economico fino a un massimo di 30 mila euro, al lordo degli oneri fiscali dovuti, e fino a esaurimento delle risorse economiche disponibili. La somma di 450 mila euro di parte corrente è così ripartita: 200 mila euro per attività/laboratori teatrali culturali ed espressivi; 120 mila euro per attività a sostegno dell’inclusione sociale e lavorativa; 80 mila euro per attività sportive e per la cura della salute; 50 mila euro per il trattamento di detenuti sex offender e maltrattanti. La somma di 250 mila euro per interventi infrastrutturali sono destinati al completamento dei lavori per la realizzazione dell’area verde e all’acquisto dei relativi arredi per l’accoglienza dei familiari della casa circondariale di Frosinone; per interventi di adeguamento delle palestre sportive delle case circondariali di Rieti, Rebibbia femminile e Frosinone e il rifacimento del campo sportivo polivalente della casa circondariale di Rebibbia, per il nuovo impianto audio/voce wireless della casa circondariale femminile di Rebibbia; per l’impianto di riscaldamento a Regina Coeli e l’impianto di climatizzazione della sala teatro della casa circondariale Nc Civitavecchia. Per la casa circondariale di Velletri sono previsti la riattivazione del laboratorio conserviero, l’allestimento della cucina del nuovo padiglione e alcune aule scolastiche per l’avvio dei corsi del primo biennio dell’Istituto alberghiero di Velletri già autorizzati dal Miur. Per i minori si prevede l’allestimento di ambienti multimediali per l’implementazione della didattica a distanza (stimabili in 15 postazioni/notebook) nell’Istituto penale per minorenni di Roma e di dotare l’Ufficio servizio sociale per minorenni di Roma di tablet/notebook e sim dati da assegnare a minori in area penale esterna in condizioni di bisogno. Milano. Covid al 41bis, il Dap “ritrova” i fantasmi di Opera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 novembre 2020 Da giorni segnaliamo l’esistenza di contagiati di Covid a Opera al 41 bis ma nel report settimanale del Dap non apparivano. Fino alle ore 20 di ieri, sono continuati a non esistere i detenuti contagiati dal Covid a Opera al 41 bis, tra cui alcuni già malati gravi finiti in terapia intensiva. Ancora una volta, secondo il penultimo aggiornamento del Dap inviato ai sindacati penitenziari sui contagi, al carcere milanese risultavano zero detenuti positivi. Eppure, come ha potuto rivelare Il Dubbio, da almeno una settimana risultavano almeno sei i contagiati di Covid a Opera al 41 bis. Poi, finalmente, dopo una nota urgente da parte del sindacato del sindacato della polizia penitenziaria Uil pol pen, arriva il report aggiornato e i positivi Covid a Opera al 41 bis (e altri detenuti comuni) non sono più i “fantasmi di Opera”. Il dramma dei familiari degli ammalati - Nel frattempo, però, continua il dramma dei familiari che continuano a non essere aggiornati sulle condizioni dei propri cari, le email degli avvocati per avere informazioni rimangono lettera morta. Come già riportato da Il Dubbio, c’è Katiuscia - moglie di Antonio Tomaselli, malato terminale in custodia cautelare al carcere duro e risultato positivo -, che da Catania ha dovuto compiere una traversata fino all’ospedale di Milano per avere notizie. C’è Rita Bernardini del Partito Radicale che, interessandosi del caso, ha scritto numerose volte al Dap e alla direzione del carcere per avvisare della situazione surreale che sta vivendo Katiuscia. Quest’ultima, dopo una dura lotta all’ingresso dell’ospedale San Paolo di Milano, è riuscita a farsi mettere in contatto con la direzione del carcere e le hanno detto che la salute del marito è compromessa. Secondo quanto ha riferito Katiuscia, le hanno promesso che sarebbe stata aggiornata quotidianamente. E invece nulla. È passata da allora una settimana e nessuno le dice nulla. Nessuna risposta alle mail inoltrate. “Ho inviato numerose email - racconta in lacrime Katiuscia -, sia io che l’avvocato, ma non rispondono. Io me lo sto piangendo per morto. E non so nemmeno se le mie lacrime siano giuste, perché magari mio marito si è ripreso. Non so se devo cominciare a pensare di preparare un funerale o meno. Non so più cosa fare, sto impazzendo”. Ma non è l’unica a vivere in questo insostenibile limbo. Finalmente è arrivata una mail all’avvocato Di Fresco - Ci sono gli altri familiari di altrettanti detenuti al 41 bis finiti in ospedale che non ottengono alcuna risposta. C’è l’avvocato Paolo Di Fresco che assiste Salvatore Genovese, 78enne al 41 bis fin dal 1999, cardiopatico, diabetico, già operato di tumore e con i polmoni devastati da innumerevoli polmoniti pregresse. L’unica cosa che ha potuto sapere è che stato ricoverato in ospedale, e dopo una sollecitazione ha saputo che è rimasto contagiato dal Covid. Da allora, per diversi giorni buio totale. “Né io né i familiari - spiega l’avvocato - siamo riusciti ad avere notizie sulle condizioni di salute di Genovese. L’Ospedale San Paolo non può dare informazioni e il direttore del carcere di Opera non risponde alle mail”. Ma proprio ieri pomeriggio è arrivata la email dove hanno annunciato che ha un aggravamento e quindi portato in terapia intensiva. Il garante Palma: è un dovere avvisare i familiari - Il garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, contattato da Il Dubbio, ha ritenuto inaccettabile il fatto che i familiari non vengano informati. “Mi auguro che sia un disguido - spiega Palma - perché è un dovere che i familiari vengano avvisati quotidianamente sulle condizioni dei propri cari. Non può esistere una situazione del genere, la direzione del carcere di Opera deve provvedere subito a informarli”. Un limbo, com’è detto, che riguarda tutti i familiari, anche altri che vogliono però rimanere nell’anonimato, soprattutto perché hanno paura di essere stigmatizzati per avere padri, mariti, al 41 bis. “Io lavoro onestamente - ci dice la figlia di un detenuto contagiato ad Opera e finito in terapia intensiva -, non posso rischiare di essere additata come figlia di un mafioso, non posso perdere il lavoro che ho sudato per conquistarmelo”. Ma questo è uno spaccato ulteriore di come le colpe dei padri non possono ricadere sui figli. Una storia tutta da raccontare. La nota urgente della Uil pol pen - Ritorniamo alla dimenticanza, perdurata per almeno due settimane, dei contagi ad Opera da parte del Dap. A chiedere una spiegazione, tramite nota urgente è stato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil pol pen. A proposito del report sui contagi che i sindacati ottengono tramite un protocollo sottoscritto con il Dap, il segretario del sindacato di polizia penitenziaria, scrive testualmente: “Si ha la netta sensazione che i dati forniti risultino incompleti e comunque tali, a volte, da suscitare più dubbi di quanti ne dipanino”. Il sindacalista De Fazio va sul punto: “Si richiama la presunta positività al Covid a Opera di alcuni detenuti (da quattro a sei, in particolare del circuito di cui all’art. 41bis) presso la Casa di Reclusione di Milano Opera e di cui danno conto molti organi d’informazione, sulla scorta, sembrerebbe, di notizie diffuse dai rispettivi avvocati difensori, e che da settimane non vengono indicati nei report trasmessi alle Organizzazioni Sindacali. Peraltro, tale probabile incongruenza è stata ripetutamente sollevata da chi scrive a margine di riunioni tenute anche con la S.V., ma è ancora priva di qualsivoglia risposta”. Finalmente, com’è detto, il report completo è arrivato. Non sappiamo quanti di loro siano positivi Covid a Opera al 41 bis, ma risultano 4 detenuti positivi al Covid dentro il carcere, mentre otto sono finiti in ospedale. Pochi ne sanno e tranne Il Dubbio nessuno riporta questa notizia. In fondo, se ufficialmente non è stato riportato tale dato per molto tempo, vuol dire che i detenuti al carcere duro possono essere benissimo “tumulati” anche se in fin di vita. Motivo per cui il magistrato Luca Tescaroli, ignaro di quello che sta accadendo per colpa non sua, può scrivere sul Fatto Quotidiano che il 41 bis, al tempo della pandemia da Covid-19, “ha il pregio di tutelare la salute dei detenuti”. Rivolta alla Dozza, quarantanove indagati: otto detenuti istigarono i compagni Il Resto del Carlino, 14 novembre 2020 Due rispondono anche di tentata evasione, gli altri di resistenza e lesioni. Sono quarantanove i detenuti indagati per la rivolta di marzo scorso alla Dozza. Ieri la Procura ha notificato loro il fine indagine: gli accertamenti, coordinati dal pm Elena Caruso, hanno identificato anche gli otto istigatori, che avrebbero distrutto le plafoniere al neon in un corridoio, gridando “Libertà, ora distruggiamo tutto”. Altri sono accusati, a vario titolo, di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, per essersi opposti alla polizia penitenziaria, lanciando sedie, sgabelli o bombolette di gas contro il personale e sbarrando i cancelli delle sezioni detentive. Due detenuti rispondono di tentata evasione, perché cercarono di calarsi dal tetto, ma furono fermati dagli agenti, malgrado gli altri detenuti lanciassero oggetti contro i poliziotti. Tra gli indagati, pure il pilastrino Davide Santagata, 51enne, fratello di William e Peter, e Sonic Halilovic, che nel 2013 uccise il meccanico Quinto Orsi, investendolo con l’auto che gli aveva rubato. Non entra in quest’indagine la morte di un detenuto 29enne tunisino, per cui è già stata chiesta l’archiviazione: il decesso avvenne per overdose di farmaci. Napoli. Troppi contagi nel carcere di Secondigliano, stop ai colloqui con i detenuti di Antonio Sabbatino internapoli.it, 14 novembre 2020 Stop ai colloqui con i detenuti del carcere Pasquale Mandato di Secondigliano per l’alto numero di contagi da Coronavirus, una cinquantina secondo alcune stime con 3 casi solo nella giornata di oggi. A scopo precauzionale i parenti degli ospiti della struttura penitenziaria di via Roma verso Scampia dovranno rinunciare all’incontro con i propri mentre allo stesso istituto penitenziario di via Roma verso Scampia il personale sanitario ha di recente effettuato 300 test con il tampone. Situazione complicata anche al Giuseppe Salvia di Poggioreale, dove ai 4 casi di Coronaviurs emersi nelle scorse settimane se ne sono aggiunti degli altri, 5 emersi nella giornata di oggi portando il numero ad oltre 80. Un quadro preoccupante in relazione all’annoso problema del sovraffollamento delle celle. Al Giuseppe Salvia sono 200 gli ultimi test con il tampone eseguiti. La preoccupazione è alta tanto che domani mattina il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello insieme al garante del Comune di Napoli, Pietro Ioia e ad alcune associazioni e parroci incontreranno il prefetto Marco Valentini. Contemporaneamente, il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria Aldo Di Giacomo terrà conferenza stampa all’esterno di Poggioreale per illustrare i problemi del contagio da Covid-19 al Giuseppe Salvia. “La grave emergenza Covid sta implacabilmente coinvolgendo il sistema penitenziario in Campania - afferma il garante regionale Samuele Ciambriello - Risultano contagiati più di 150 detenuti, tra i quali 6 ricoverati presso ospedali, più di 200 tra agenti di polizia penitenziaria, personale medico (8 conteggiati in queste ore ndr.), personale amministrativo. Questa situazione grave, preoccupante, mi ha indotto a scrivere al Prefetto di Napoli, per chiedergli la disponibilità per un incontro con me ed una delegazione, per discutere di queste problematiche”. Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli, preannuncia quanto dirà domani al prefetto Valentini. “C’è una questione di sicurezza pubblica sia per i detenuti all’interno delle carceri che fuori per i loro familiari. C’è il rischio che scoppino rivolte e tumulti sia dentro che fuori gli istituti penitenziari, il pericolo è nell’aria. Il provveditorato e i direttori delle carceri si stanno impegnando tanto ma purtroppo i detenuti sono tanti e chi deve scontare un residuo di pena potrebbe farlo accedendo a misure alternative”. Terni. Focolaio di Covid nel carcere, il caso arriva in Parlamento La Nazione, 14 novembre 2020 È fuoco incrociato sul ministro della Giustizia. Il carcere di vocabolo Sabbione, con 75 detenuti positivi, fa di Terni la terza città d’Italia per reclusi contagiati, dopo Milano (128) e Napoli (116). Lo ha denunciato ieri la Fns Cisl in una lettera al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. La questione è anche al centro di un’interrogazione avanzata allo stesso ministro da Luca Briziarelli, senatore Lega. “Inaccettabile ciò che sta accadendo da giorni nella casa circondariale ternana, che ha la situazione contagi tra le peggiori di tutte le carceri italiane - sottolinea Briziarelli. È l’ennesima riprova di come la gestione delle carceri in Umbria sia allo sbando, con la polizia penitenziaria abbandonata a sé stessa dal Governo e dalla Direzione. Come anche fatto presente dal Sappe, la struttura si trova con personale ridotto e conseguenti problemi organizzativi, cui si sommano carenze significative sulla dotazione dei dispositivi di protezione individuale. Ritengo fondamentale che Bonafede invii un’ispezione in carcere, preceduta però da un adeguato rinforzo del personale operativo e dalla immediata dotazione di materiale di protezione”. La situazione nel penitenziario, secondo fonti del ministero della Giustizia, sarebbe però in deciso miglioramento: degli oltre 70 detenuti che si erano contagiati durante, 32 si sono negativizzati e solo 2 di loro sono ricoverati in ospedale. Inoltre, delle 8 unità di personale contagiate durante il focolaio, 3 restano positive. Salerno. Covid nel carcere: “positivi” 17 agenti, 1 detenuto e la direttrice di Viviana De Vita Il Mattino, 14 novembre 2020 Diciassette agenti della polizia penitenziaria contagiati, un detenuto infetto e 35 in isolamento. Positiva anche la direttrice Rita Romano. Sono i dati ufficiali dell’emergenza epidemiologica dietro le sbarre del carcere di Fuorni dove sono stati effettuati circa 900 tamponi tra detenuti e personale. Gli ultimi risultati, giunti nel pomeriggio di ieri, restano confortanti: nessun nuovo contagio tra i 479 detenuti (439 uomini e 40 donne) mentre si mantiene altissima la guardia per evitare che il virus dilaghi nelle celle. I primi campanelli d’allarme nella struttura detentiva di via del Tonnazzo sono scattati una quindicina di giorni fa quando si sono registrati i primi contagi tra gli agenti appartenenti al nucleo di traduzione dei detenuti. Immediatamente sono scattate tutte le procedure che sono riuscite a contenere la diffusione del virus e, soprattutto, ad evitare che il Covid serpeggiasse tra i detenuti. Nonostante tutte le misure di sicurezza siano state prontamente messe in campo, non si è però riusciti ad evitare il contagio di diciassette agenti di polizia penitenziaria. Un’emergenza nell’emergenza, visto già l’esiguo numero di personale che, ora, si riduce ulteriormente con tutte le drammatiche conseguenze che ciò comporta nella gestione delle criticità proprie dell’istituto. Con quasi 500 detenuti e solo 187 agenti operanti all’interno del penitenziario dove nelle ore pomeridiane e notturne non sono in servizio più di dieci agenti, il carcere di Fuorni vive grosse difficoltà. Alle gravi carenze di organico, che obbligano il personale a carichi di lavoro non in linea con le normative vigenti e a continui straordinari sottopagati, si aggiungono le carenze strutturali e la completa assenza di supporti tecnologici. In prima fila nella gestione dell’emergenza, la direttrice Rita Romano è risultata anche lei positiva ma, nonostante la febbre, continua ad esercitare da casa il suo ruolo direttivo per garantire l’ordine e la sicurezza dietro le sbarre in un momento delicatissimo. Sin dallo scorso marzo nel carcere di Fuorni vige un regolamento rigidissimo per garantire la sicurezza dal punto di vista sanitario: i detenuti che arrivano dall’esterno sono collocati in isolamento fiduciario per 14 giorni e poi collocati nelle celle che sono regolarmente sanificate. Ogni detenuto ha inoltre ricevuto un kit di 50 mascherine. Nonostante la situazione di grande allerta abbia provocato l’interruzione di numerose attività, restano operativi il corso di giardinaggio e la produzione industriale di mascherine. Scelti dal reparto di alta sicurezza e da quello comune, i detenuti lavorano negli spazi che, fino a qualche mese fa, erano destinati alle attività scolastiche e che ora sono stati completamente trasformati in vista della produzione che arriva fino a 300mila mascherine al giorno. È proprio per far fronte all’elevata attività produttiva che la direttrice Rita Romano ha coinvolto nel progetto sessanta detenuti: quarantanove sul campo tra addetti alle macchine, addetti al magazzino e capi reparto, e undici in “panchina” per scongiurare il rischio di restare senza personale. Non sono state coinvolte nel progetto le detenute della sezione femminile che, dopo aver già prodotto oltre tremila mascherine con semplici macchine da cucire, stanno lavorando ad una nuova iniziativa: la produzione di mascherine fashion realizzate con la seta dello storico borgo di San Leucio da vendere al personale operante nel settore della ristorazione. Selezionati in base alle competenze personali e alle attitudini professionali maturate, i detenuti coinvolti nel progetto sono stati regolarmente contrattualizzati e retribuiti dall’Amministrazione Penitenziaria. Larino (Cb). Emergenza Covid nel carcere: sciopero della fame dei detenuti quotidianomolise.com, 14 novembre 2020 Emergenza Coronavirus: in una lettera, inviata in redazione, i detenuti del carcere di Larino chiedono l’adozione di un protocollo specifico per cercare di evitare il diffondersi del virus nella casa circondariale (dove si sono già registrati 39 casi) e per questo hanno avviato una protesta pacifica, lo sciopero della fame e il mancato rientro nelle celle di pernottamento. “Siamo i detenuti del carcere di Larino - si legge nella missiva. La informiamo della situazione di contagio che stiamo vivendo nell’istituto, poiché qua da noi ci sono 39 persone contagiate a vari livelli, che sono ubicate al secondo piano (una sezione intera). Noi detenuti delle altre sezioni abbiamo paura di essere contagiati a nostra volta, ciò deriva dal fatto che non è in atto nell’istituto un piano per contenere questa epidemia. La informiamo che stiamo portando avanti una protesta pacifica attraverso il rifiuto degli alimenti dell’amministrazione e il mancato rientro nelle celle di pernottamento, al fine di poter sensibilizzare le autorità nazionali di ciò oche succede negli istituti penitenziari italiani. Fiduciosi che voglia dare voce alla nostra protesta pacifica. I nostri più cordiali saluti - termina la lettera - da tutti i detenuti di Larino”. Ariano (Bn). Protestano i detenuti, la “zona rossa” blocca le visite dei familiari di Nicoletta Caraglia itvonline.news, 14 novembre 2020 Battitura delle inferriate e lancio di oggetti dalle finestre. Una situazione che si registra anche in altri penitenziari della regione. È di pochi minuti fa, come documenta il video amatoriale inviatoci da un residente della zona, la protesta dei detenuti nel carcere di Ariano irpino. Battitura delle inferriate, lancio di oggetti ed urla. Proprio come nel marzo scorso. Alla base dell’agitazione, con ogni probabilità, la sospensione delle visite dei familiari determinata dalla istituzione della zona rossa in tutta la Regione. Analoghe proteste sarebbero in corso anche in altre carceri. Nel penitenziario di Ariano ci sono attualmente più di 300 detenuti alcuni dei quali ritenuti aggressivi e violenti. L’S.O.S carcere lanciato appena stamattina dall’Osapp sulla pericolosa carenza di personale di polizia penitenziaria deve ora fare i conti con una situazione interna davvero critica dovuta alle misure restrittive imposte dal decreto del Governo. Viterbo. Acat Italia: si riapra il caso di Hassan Sharaf, morto suicida nel carcere Ristretti Orizzonti, 14 novembre 2020 “Dopo aver appreso a mezzo stampa che la famiglia del giovane Hassan Sharaf ha deciso di intentare una causa civile contro il Ministero della Giustizia italiano affinché venga fatta piena luce su quelle che furono le dinamiche che spinsero Hassan al suicidio, avvenuto ormai due anni fa, vogliamo esprimere tutta la nostra vicinanza ai famigliari seppur lontani e lanciare un appello alle istituzioni preposte affinché si riapra il caso, troppo frettolosamente archiviato”. Così il presidente di Acat Italia Massimo Corti. “Ci eravamo interessati del caso di Hassan nel nostro rapporto alternativo presentato in occasione della 34° sessione della Revisione Periodica Universale della Commissione diritti umani dell’Onu che prendeva in esame il nostro paese. Il suicidio di Hassan aveva destato il nostro interesse per i contorni oscuri che lo avevano circondato. Era stato lo stesso Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, che dopo aver raccolto la testimonianza di Hassan e di altri detenuti in merito a presunte violenze a abusi da parte del personale di sorveglianza, aveva presentato un esposto alla Procura di Viterbo, mentre inascoltata era stata la richiesta del Garante di far trasferire Hassan in altra struttura. Hassan Sharaf si trovava invece in cella di isolamento al momento del suicidio, da lì a pochi mesi sarebbe tornato in libertà. E allora, cosa lo avrebbe spinto ad impiccarsi?” Continua Corti. “Alla luce dei fatti chiediamo dunque che venga fatta assoluta chiarezza su questa vicenda. Per Hassan e per i tanti che rimangono nell’ombra”. Conclude il presidente di Acat. Palermo. Antigone Sicilia visita il carcere dell’Ucciardone Ristretti Orizzonti, 14 novembre 2020 Ieri mattina una delegazione di Antigone composta da Laura Lo Verde e Simona Di Dio, guidata dal presidente regionale Pino Apprendi si è recata al carcere dell’Ucciardone di Palermo per capire quali sono stati gli effetti della pandemia Covid 19, sui detenuti e su tutto il personale che orbita al suo interno. L’incontro si è svolto con il nuovo Direttore dott. Fabio Prestopino, insediatosi lunedì scorso e con la sua vice, dott.ssa Giovanna Re. “Il virus ha risparmiato i detenuti, ci è stato riferito che non c’è stato alcun contagio, mentre è presente fra il personale della Polizia Penitenziaria con una decina di casi, dice Pino Apprendi, I detenuti sono sottoposti a tampone tutte le volte che hanno contatti con persone esterne al carcere, al ritorno da un permesso o al rientro dal tribunale. Dopo il Lockdown stavano riprendendo le attività di volontariato, ma la risalita del numero dei contagi ha fermato quasi tutto, compreso la formazione, mentre i corsi scolastici sono andati regolarmente avanti. Sono ripresi i colloqui, ma sono diminuiti quelli in presenza, avendo gli stessi detenuti ritenuto pericoloso esporre sé stessi e i propri cari a contagio, per cui scelgono di comunicare via Wattshap. Il carcere non presenta caratteristiche di sovraffollamento avendo 430 ospiti a fronte di una capienza di 543 persone. Il Direttore ci ha assicurato che è impegnato a fare riprendere immediatamente tutte le attività non appena sarà consentito dalle disposizioni dei Dpcm”. Lo dice Pino Apprendi, Presidente Antigone Sicilia Milano. “Cucinare al fresco”, il libro di ricette realizzato dai detenuti al Bookcity di Michela Uberti espansionetv.it, 14 novembre 2020 Il libro di ricette realizzato dai detenuti e coordinato da un gruppo di lavoro comasco, debutta al Bookcity a Milano. “Cucinare al fresco” approda a Bookcity, la manifestazione meneghina in programma fino al 15 novembre e dedicata al libro e alla letteratura. La rassegna, quest’anno, si svolge in versione digitale a causa del Coronavirus. Il progetto, coordinato da un gruppo di lavoro comasco pone al centro le ricette realizzate dai detenuti delle carceri italiane (Como, Milano/Bollate, Opera, Varese, Sondrio, Alba, Pavia, Monza). Un gruppo di reclusi infatti, ha deciso di mettersi in gioco per portare all’esterno una delle attività che coltiva ogni giorno per ingannare il tempo: cucinare per passione personale e per i compagni di stanza. Il quarto quaderno di ricette realizzate dai reclusi delle carceri italiane, è in vendita alla Ubik di Como e a disposizione anche in formato digitale, su richiesta, sui profili social di proprietà: Facebook, Instagram e YouTube “Cucinare al fresco”. Va detto che il ricettario non ha un prezzo definito ma viene richiesta un’offerta libera che verrà utilizzata per le nuove pubblicazioni. I troppi segreti di una doppia emergenza di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 14 novembre 2020 La disponibilità ai sacrifici da parte dei cittadini è direttamente proporzionale alla qualità delle informazioni e indicazioni ricevute e alla affidabilità dei ristori promessi. L’emergenza sanitaria e quella economica dominano oggi la scena e restringono i margini dell’agenda politica. Contenere e sconfiggere la pandemia, “ristorare” imprese e lavoratori, incentivare la ripresa: più che di obiettivi, si tratta di imperativi. Sulla gestione della seconda ondata Covid non ci sono tante opzioni. I dati confermano che i lockdown regionali sono inevitabili. Si possono criticare le scelte passate del governo o il caos organizzativo delle Regioni. La direzione di marcia è però chiara e univoca: gestire i contagi nella sanità pubblica, far rispettare le norme di distanziamento, preparare la vaccinazione di massa. Sul fronte economico l’unica opzione è legata ai fondi europei. Per ottenerli, va elaborato un buon “Piano nazionale di ripresa e resilienza” e poi negoziare con la Commissione per i dettagli. Una strada stretta e accidentata, ma l’unica percorribile. Siamo entrati in una fase politica caratterizzata dalla “necessità”. Non è un caso che il centrodestra fatichi a trovare un proprio ruolo di opposizione e di contro-proposta. Politica e necessità non fanno una bella coppia. Disaccordi e confronti sono il sale della democrazia, che è il “regno del possibile”. Gli imperativi della necessità possono tenere a bada per un po’ i conflitti, ma finiscono per diventare essi stessi il bersaglio da combattere. Scacciata dalla porta, la contestazione ritorna così dalla finestra più agguerrita che mai, pronta ad attaccare “il sistema”. Ne vediamo già i primi sintomi: negazionismo, delegittimazione dei tecnici e della scienza, varie forme di disobbedienza civile. Abbiamo già attraversato questo passaggio una decina di anni fa, durante la crisi dell’euro. Anche in quel caso l’emergenza finanziaria aveva costretto la politica nella camicia di forza degli imperativi fiscali. Ne siamo venuti fuori, ma (da noi come in altri paesi) i vincoli europei hanno alimentato populismo e sovranismo. La situazione attuale è in parte diversa. Il disagio di lavoratori e famiglie è reale. Nel complesso la sfida economica è espansiva: si deve decidere come spendere il maggiore deficit di bilancio, come useremo i (tanti) fondi europei. L’emergenza sanitaria spinge invece in direzione restrittiva. Ad essere “tagliate” non sono oggi le prestazioni di welfare, ma la socialità, la libertà di movimento. Fortunatamente, la Ue è percepita più come figura materna che come matrigna. Senza un capro espiatorio esterno, una nuova fiammata di protesta investirebbe tuttavia governo e istituzioni, innescando una spirale di delegittimazione interna. Per evitare questo scenario si possono immaginare due risposte. La prima e più ovvia è quella di essere più chiari nella comunicazione sanitaria nonché più efficaci ed efficienti (rapidi) nelle compensazioni economiche. La disponibilità ai sacrifici da parte dei cittadini è direttamente proporzionale alla qualità delle informazioni e indicazioni ricevute e alla affidabilità dei ristori promessi. La seconda risposta è allargare gli orizzonti. Bisogna dare più “senso” alla necessità, spiegare non solo come la si può superare, ma anche quali nuovi scenari si apriranno. L’agenda di medio-lungo periodo è oggi tenuta nascosta. Si è passati dalla confusione degli stati generali alla secretazione dei dossier sul Piano nazionale. Un approccio autolesionista, che priva il governo di preziose risorse per parlare d’altro, prospettare possibilità e nuove opportunità, alimentare la fiducia, distrarre dall’ansia del presente. Ci troviamo nel mezzo della crisi più grave dalla fine dell’ultima guerra. Insieme all’Europa stiamo anche immaginando come trasformare il paese, rendendolo più sostenibile, prospero, inclusivo. A partire dal suo nome, il programma Next Generation EU offre la cornice adatta a suscitare ciò che Tony Blair chiamava “patriottismo del futuro”: la condivisione di un progetto di ampio respiro per far crescere il “noi collettivo”. Se il tema diventa questo, è indispensabile che si senta coinvolta anche l’opposizione. Sulle sedi e le forme di dialogo c’è solo l’imbarazzo della scelta. La posta in gioco è molto rilevante. La logica delle scaramucce, delle rincorse corporative (così come quella dei documenti chiusi a chiave) offende il bisogno di rassicurazione e di serietà avvertito dai cittadini. E soprattutto nega loro il diritto a conoscere e valutare il ventaglio di possibilità per uscire dal tunnel, tornare alla normalità e ricominciare a fare progetti per il futuro. Migranti, nel Mediterraneo si continua a morire di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 14 novembre 2020 Nasce il Comitato per il diritto al soccorso, formato da una serie di organizzazioni e da personalità del mondo giuridico e culturale. “Il gommone segnalato questa mattina è in grave pericolo e alcune persone sono in acqua. Chiediamo l’intervento immediato di tutte le navi in zona. La nostra nave è bloccata dalle autorità italiane a Palermo. Chi soccorrerà queste persone?”. È il drammatico appello lanciato ieri mattina dalla Ong tedesca Sea Watch la quale aveva precedentemente ricevuto una richiesta di aiuto da Malta per conto della Guardia Costiera libica. L’ennesimo episodio a largo della Libia, giunto solo dopo pochi giorni dal naufragio di un’altra imbarcazione a largo delle coste nordafricane che ha provocato 6 morti, tra cui un bimbo di 6 mesi, che segnala l’urgenza di rimettere in piedi il sistema di soccorsi bloccato da numerosi provvedimenti. Una urgenza visto che, complici le buone condizioni meteo e la situazione di guerra in Libia, le partenze stanno aumentando con sempre minori condizioni di sicurezza. Nel giro di 48 ore sono arrivate in Italia ben 3 natanti. Alarm Phone, che raccoglie le richieste di aiuto da chi attraversa il Mediterraneo, ha riferito che “due barche con 89 e 70 persone (sono state ndr.) soccorse verso Lampedusa. La terza barca con 70 persone in Sar Malta (zona di ricerca e soccorso ndr.), con cui avevamo perso contatto, è giunta in Italia, secondo i parenti. Siamo sollevati per qualche buona notizia tra tutte quelle cattive”. La Guardia di Finanza ha anche comunicato di aver soccorso anche 4 o 5 barchini che viaggiavano insieme alle imbarcazioni più grandi. Al momento gli elicotteri Atr42 che monitorano lo spazio di mare antistante Lampedusa hanno riferito che non sembrano esserci altri eventi in corso, ma tutto fa pensare che si tratta solo di aspettare. E sulla situazione c’è da registrare la netta presa di posizione del quotidiano della Santa Sede, Osservatore Romano, che si è schierato decisamente a favore delle organizzazioni umanitarie. “Le Ong, per mesi oggetto di una campagna denigratoria smascherata da numerose indagini e di fatto rimaste le uniche a prestare soccorso ai migranti in mare, non dovrebbero essere lasciate sole, tanto meno ostacolate, semmai sostenute e affiancate. C’è un obbligo di soccorso al quale gli Stati non dovrebbero sottrarsi, al pari di quello di accogliere chi fugge da situazioni di pericolo, e che prescindono da ogni posizione e strumentalizzazione politica sul fenomeno migratorio. L’Europa non dovrebbe sottrarsi”. Il tema del soccorso dunque sta diventando sempre più stringente e lo dimostrano anche alcune iniziative come la costituzione del Comitato per il diritto al soccorso. Una “lobby democratica”, come la definiscono i suoi stessi promotori, formata dalle organizzazioni Sea Watch, Proactiva Open Arms, Medici Senza Frontiere, Mediterranea - Saving Humans, SOS Méditerranée, Emergency, ResQ. Del comitato fanno parte anche personalità come Vittorio Alessandro, Francesca De Vittor, Luigi Ferrajoli, Paola Gaeta, Luigi Manconi (responsabile), Federica Resta, Armando Spataro, Sandro Veronesi, Vladimiro Zagrebelsky. L’iniziativa, partendo dalla costante opera di criminalizzazione delle Ong andata in scena negli ultimi anni, ha la finalità esplicita di formare nell’opinione pubblica l’orientamento alla necessità del salvataggio in mare. Facilitare le relazioni tra le Ong e le istituzioni nazionali. Promuovere una discussione pubblica intorno al tema del diritto al soccorso, come principio irrinunciabile di civiltà giuridica e come legge universale, fondata sul diritto del mare e sul diritto internazionale. Una “mare nostrum” europea per fermare i naufragi di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 14 novembre 2020 La morte del bambino di sei mesi fuggito con la mamma dalla Guinea per finire ucciso da soccorsi tardivi mette in luce i problemi che Ue e Italia hanno davanti. Certe immagini cambiano la storia. Così è stato, nel 2015, con Alan Kurdi, il piccolo siriano annegato davanti alla spiaggia di Bodrum in quella sua maglietta rossa che divenne un simbolo. Angela Merkel decise che la Germania doveva aprire le porte, accogliendo un milione di fuggiaschi in pochi mesi: “Ce la faremo”. Anche il cuore di molti europei si aprì, i profughi furono salutati a braccia spalancate: memorabili le scene nelle stazioni di Monaco, Vienna e Strasburgo, gli applausi di tedeschi e austriaci ai migranti che scendevano dai treni. Il 2 gennaio 2016, la Bbc notò che il dramma di Alan “fu uno di quei momenti di cui l’intero pianeta sembra interessarsi”. Per qualche tempo il piccolo profugo siriano ci costrinse a vedere nelle migrazioni un volto e un nome, anziché freddi numeri sui flussi, gli sbarchi, i naufragi. Poi ci pensarono come sempre gli attentati islamisti e le difficoltà economiche a spegnere ogni slancio. L’apertura costò a Merkel molti punti di consenso e l’avanzata dell’estrema destra in Germania. Sarebbe ingenuo prevedere oggi effetti simili in Europa a causa della morte in mare del piccolo Youssef (occidentalizzato in Joseph dai primi notiziari): sei mesi appena, fuggito con la mamma dalla Guinea per finire assiderato e ucciso da soccorsi tardivi nel Mediterraneo. L’ormai virale video di 28 secondi della giovane madre che urla “dov’è il mio bambino?” non smuoverà politici incartapecoriti nella difesa di confini scavalcati dal mondo globale o cittadini europei troppo spaventati dal Covid-19 e dalle sue disastrose conseguenze sulle loro vite per potersi interessare davvero alle vite degli altri. E tuttavia incarna problemi gravi con i quali Ue e Italia dovranno fare i conti, domata la pandemia che tutto oscura. Con una buona dose di cinismo, possiamo pure infischiarcene dell’avvertimento di Save the Children secondo cui “mamme anche giovanissime e spesso sole, neonati, bimbi piccoli continuano a cercare la salvezza in Europa, dopo aver vissuto condizioni di povertà estrema e violenze di ogni genere... e molti hanno perso e continueranno a perdere la vita nel Mediterraneo”. Ma dobbiamo preoccuparci seriamente quando scopriamo che, da gennaio, “sono arrivati in Italia 3.850 minori non accompagnati, il 13% del totale degli arrivi”. Dove finisce quest’esercito di ragazzini sbandati? In quale filiera di sfruttamento? In quale paranza criminale? Se non per pietà, almeno per egoismo dovremmo trovare risposte. Ma la regina delle risposte non può poggiare sempre e soltanto sulle spalle dei volontari, in mare come a terra. È necessario uno scatto. Un primo scatto culturale implicherebbe la fine della criminalizzazione delle Ong. A terra, organizzazioni come Save The Children sostengono strutture pubbliche allo stremo, supportano operatori esausti di fronte al nuovo impatto dei migranti. In mare, una Ong come Open Arms è rimasta sola a tentare di salvare chi, per legge e per decenza, va salvato sempre e comunque. Le Ong non meritano il trattamento cui, almeno dal 2017, sono sottoposte in Italia. Una ventina di inchieste a loro carico non ha portato a nulla di serio e, soprattutto, non ha mai dimostrato il teorema secondo cui le navi dei volontari sarebbero in combutta con le barche degli scafisti. Di più: ricercatori dell’autorevole istituto Ispi hanno illustrato dati alla mano che non esiste il fantomatico pull factor, il fattore di traino: in periodi in cui le navi Ong erano tutte ferme per effetto della stretta del governo italiano, i flussi sono persino aumentati, spinti dai veri pushfactor, fame, carestie, guerre. Appare troppo timido il ritocco alle leggi Salvini con cui l’esecutivo giallorosso ha abbassato le multe alle navi dei volontari e spostato in sede giurisdizionale (e non più prefettizia) eventuali provvedimenti. Va restaurato il principio che chi salva vite in mare non è un delinquente, anzi. E tuttavia è sbagliato caricare di pesi così gravosi le Ong che, rammentiamolo, esercitano una funzione di supplenza. Il loro ruolo si è dilatato quando le navi militari si sono ritirate dal palcoscenico dei naufragi. A fine 2013, dopo la morte di 368 migranti davanti agli scogli di Lampedusa, l’Italia aveva varato Mare Nostrum, una missione affidata alla nostra sola Marina. Gli obiettivi: contrastare il traffico di esseri umani, potenziare la salvaguardia della vita umana in mare, garantire un filtro sanitario avanzato. I risultati li illustrò un anno dopo al Senato l’ammiraglio De Giorgi, capo di Stato maggiore: “Dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014: 156.362 migranti assistiti in 439 salvataggi Sars (ricerca e soccorso), 366 scafisti arrestati, 9 navi madri catturate (quelle che abbandonano in mare aperto i migranti consegnandoli a barche più piccole), il 99 per cento dei migranti intercettati prima dello sbarco e controllati dai medici di bordo”. S’interruppe l’immonda consuetudine che vedeva i migranti appena sbarcati finire in mano agli spalloni come merce. A fine 2014 si decise però che Mare Nostrum costava troppo: nove milioni al mese. Si disse che sarebbe stata sostituita da Triton, una missione di Frontex (l’agenzia europea di controllo delle frontiere). Bugie dalle gambe corte. Triton, puramente difensiva, non era una missione di salvataggio: le navi arretrarono di oltre trenta miglia, il Canale di Sicilia tornò un cimitero, nel caos che ne seguì si mossero da un lato le Ong, dall’altro i sedicenti guardacoste libici. Se oggi le promesse della presidente von der Leyen (condividere il problema nella Ue e non lasciarci più soli) hanno qualche attinenza con la realtà, beh, lo vedremo presto. C’è un’autostrada da percorrere in mezzo al Mediterraneo. E per farlo esiste un solo veicolo: una vera Mare Nostrum europea che, senza più sovraccaricare la sola Italia, riporti in quel braccio di mare l’ordine e il senso dell’onore di cui per un anno la nostra Marina seppe dare mostra. Migranti. In fuga dal Marocco lungo la rotta (mortale) della Canarie di Christian Giacinto Elia Il Manifesto, 14 novembre 2020 Sbarchi aumentati del 600% in un anno. Nel territorio spagnolo sono arrivate più di 14mila persone da gennaio. Il molo di Arguineguin, nella località Mogán, nell’isola di Gran Canaria, sembra un campo profughi. Sono almeno 1500 le persone nelle tende. Dall’inizio dell’anno sono arrivati alle Isole Canarie, territori spagnoli, più di 14.000 persone. Una cifra impressionante, un aumento del 600 % degli arrivi rispetto allo scorso anno. “Era dal 2006, quando arrivarono 30 mila persone, che non si vedeva nulla di simile, impressionante”, racconta Paco, un’attivista dell’isola, che si occupa di integrazione e accoglienza. Solo nell’ottobre 2020, secondo i dati Unhcr, sono stati registrati quasi 5.000 arrivi. Il fine settimana del 7-8 novembre scorso, sono state 2200 le persone arrivate in piena crisi sanitaria, che morde le isole come la Spagna continentale. “Le autorità spagnole stanno trovando molto difficile gestire la situazione, nel campo è il caos, con un sacco di disordini, violazioni dei diritti dei migranti e problemi di gestione. E la gente del posto è sempre più furiosa”, prosegue Paco. “Oltre le persone sul molo, che dormono all’addiaccio, ci sono altre 5.000 persone circa alloggiate in hotel vuoti, dato che la stagione turistica dell’isola si è fermata a causa della pandemia Covid-19. Ed è uno dei motivi che fomenta i locali, già abbattuti per il crollo dei turisti che qui venivano tutto l’anno. A queste persone viene negato il diritto di vedere gli avvocati e la stampa si è lamentata del fatto che la Croce Rossa non permette ai giornalisti di parlare con loro”. Stessa situazione denunciata da Human Rights Watch, in report pubblicato l’11 novembre scorso: “Quello che ho visto qualche giorno fa era una fila di tende affollate dove le persone sono tenute per giorni e giorni, dormendo per terra, 30 o 40 persone che condividono un bagno portatile”, ha detto Judith Sunderland, vice direttore ad interim per l’Europa e l’Asia centrale di Hrw. “Non riesco a immaginare la situazione attuale con più del doppio delle persone. Anche supponendo le migliori intenzioni di coloro che vi lavorano, queste condizioni non rispettano la dignità delle persone o i diritti fondamentali, né fanno bene all’immagine della Spagna”. Secondo le agenzie internazionali che si occupano di migrazioni, senza un’azione rapida da parte del governo spagnolo la situazione potrebbe precipitare e arrivare ai livelli delle isole greche. Mentre il partito Vox e la destra spagnola cavalca la situazione, accusando il governo di abbandonare i connazionali e precipitandosi sulle isole per apparire al fianco dei residenti. Nel 2020 si è registrato un aumento del 664 per cento dei rifugiati e dei migranti che sono sbarcati nelle Isole Canarie rispetto allo stesso periodo del 2019. I trafficanti hanno cambiato rotta, spostandosi lungo quella più pericolosa tra l’Africa occidentale e l’arcipelago spagnolo, invece di attraversare il Mediterraneo per raggiungere la Spagna meridionale. Il numero di persone che quest’anno hanno attraversato il Mediterraneo verso la Spagna è diminuito del 27,8% rispetto allo stesso periodo del 2019, con 14.252 persone che sono arrivate in Europa rispetto alle 19.733 dello scorso anno. I trafficanti, secondo al-Jazeera, hanno abbassato i prezzi da circa 2.377 dollari a circa 951 dollari. Le barche partono non solo dal Marocco e dalla Mauritania, le due nazioni più vicine all’arcipelago, ma anche dal Senegal e dal Gambia, più di 1.000 chilometri (600 miglia) più a sud. I paesi di origine dei migranti, secondo Unhcr, sono in prevalenza dalla regione africana del Sahel, dall’Africa Occidentale, ma alcuni arrivano dal Sud Sudan e dalle Isole Comore nell’Oceano Indiano. “Questo fine settimana almeno 2.188 persone sono arrivate nelle isole in 58 piccole imbarcazioni e kayak. È un nuovo record che non abbiamo mai visto prima”, ha detto Txema Santana, della Commissione spagnola per l’aiuto ai rifugiati (Cear), ad Al Jazeera. Santana ha dichiara anche che i contrabbandieri hanno cambiato rotta dopo che l’Ue ha pagato al Marocco 460 milioni di dollari per sostenere le riforme, compresa la gestione delle frontiere. Il Marocco ha iniziato a spingere rifugiati e migranti dalla sua costa settentrionale e tutti si sono diretti verso la costa meridionale e occidentale, dando inizio all’ondata verso le Isole Canarie. “Le autorità spagnole dovrebbero immediatamente alleviare le condizioni di sovraffollamento e di insalubrità sul molo”, ha dichiarato Hrw. “Improvvisare un campo di accoglienza in quel luogo non è stata una buona idea e ora il caos rappresenta una minaccia reale per i diritti, la salute e la sicurezza delle persone. I tempi sono duri, ma la Spagna può e deve fornire una risposta umana alle persone che arrivano sulle sue coste”. Lager libici, la mattanza continua di Paolo Lambruschi Avvenire, 14 novembre 2020 Ora si rischia la vita anche fuori dai Centri, dove i più giovani sono nel mirino. Chi piange la morte di Joseph, il bambino di sei mesi morto l’altro giorno nel Mediterraneo e ora chiuso in una bara per adulti a Lampedusa, non resti indifferente alla sorte di Eyob, che ha 2 anni, o di Febu che ha solo 10 mesi, entrambi prigionieri con le loro madri nel lager di Abu Issa in Libia, a Tripoli, dallo scorso mese di luglio. Li ha presi la prima divisione della polizia di Zawiyah dopo che erano stati liberati da un altro lager. Una quarantina di eritrei è stata catturata e privata (tranne una persona) degli smartphone e le milizie con la divisa hanno cominciato a torturarli per estorcere riscatti ai parenti di 1.200 dinari. È il prezzo della dignità nelle galere libiche. Ci sono diverse donne in questo gruppo e prima di stuprarle gli aguzzini telefonano ai mariti che si trovano in Libia per descrivere quello che stanno per fare e accelerare i pagamenti. Il comandante, tale Al Far, prima di venire nominato ad Abu Issa ha avuto gli stessi “problemi” di abusi sessuali e rapporti di compravendita di schiavi con trafficanti libici combattenti con l’esercito fedele ad al-Sarraj in altri due lager. La preziosa testimonianza dei prigionieri e dei loro cari è stata raccolta da Giulia Tranchina, avvocato italiano che vive a Londra e si occupa di diritti umani e confermata dall’Unsmil, missione Onu in Libia. Dimostra una volta di più che non cambiano le prigioni libiche dove sono rinchiusi 2.700 profughi ufficiali mentre in tutto il Paese sono circa 50 mila i profughi registrati dall’Unhcr, quindi subsahariani del Corno d’Africa, sudanesi e siriani. Le violenze quotidiane sui profughi sono ormai diventate materiale per freddi report delle organizzazioni internazionali cui l’opinione pubblica si è assuefatta o per le denunce dei gruppi per i diritti umani. Ma non tutti vogliono essere scarcerati. A Zintan, un’altra prigione dove fino a qualche settimana fa la gente moriva di tubercolosi, la situazione è migliorata per i 340 prigionieri (308 eritrei, i primi registrati in Libia) grazie all’ingresso di Medici Senza Frontiere e la decisione paradossale del governo libico di far svolgere i prigionieri per trasformare la prigione in una base militare. “Ma per molti 17enni e 18 enni, da tre anni dietro le sbarre in condizioni igieniche e sanitarie bestiali, malnutriti e per detenuti più anziani vittime di violenze e sequestri 10 anni fa nel Sinai e da anni in Libia - spiega Tranchina - uscire senza la protezione dell’Unhcr equivale alla morte”. E l’Unhcr manca da tempo. I profughi scappano, se possono, anche da Gargarish, il sobborgo di Tripoli diventato un vero e proprio ghetto subsahariano dove abitano in tuguri sovraffollati nonostante il Covid. quasi tutti i migranti africani registrati dall’ Onu. Sono stati presi di mira da alcuni agenti della famigerata polizia libica, confermano diverse testimonianze di eritrei fuggiti dalla prigione di al Khoms, rapinati, prelevati e utilizzati come schiavi domestici e poi riportati alla sera nel ghetto. Dove i leader della comunità di rifugiati eritrei a Tripoli confermano che proseguono le raccolte fondi della deegli Usa, in Canada e in Europa per aiutare i casi disperati. Proseguono anche le partenze, organizzate per eritrei, etiopi e sudanesi, prevalentemente da 2 trafficanti abissini. Uno si fai chiamare Robot e ha appena inviato con successo due barche con 93 e 43 persone a Lampedusa. L’altro è Mebhratom e ha in carico 200 persone in attesa di partire da Zawiyah. Entrambi hanno ereditato la rete di Abusalam, con il quale lavoravano, un potentissimo boss eritreo del traffico fuggito un anno fa Dubai e pagano tangenti alla Guardia Costiera Libica perché non intercetti le loro imbarcazioni. Continuano anche le torture nei capannoni della morte del lager non ufficiale di Bani Walid dove finiscono i dannati della Libia, le persone che non hanno pagato i riscatti e su cui i trafficanti infieriscono con efferate violenze di ogni tipo per estorcere riscatti alle famiglie. Adesso, grazie al coraggio di alcune vittime oggi al sicuro nei campi dell’Unhcr in Niger, due dei torturatori più violenti hanno un nome e soprattutto un volto che può essere utilizzato dal Tribunale penale internazionale. Sono Hamza e Setan, stupratori e assassini, secondo le testimonianze delle persone scappate dal peggiore dei tanti inferni libici. Turchia. “Con la morte di Ebru è morto il giusto processo” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 14 novembre 2020 Dalla Turchia all’Iran: storie di repressione e violazione della libertà all’evento organizzato dall’Ordine degli avvocati di Roma e di Milano. C’è una cosa importante da mettere in chiaro quando si parla di diritti umani e della loro tutela. Denunciarne la sistematica violazione in taluni paesi non significa ingerire negli affari degli altri, bensì “difendere se stessi”, presidiando quell’insieme di principi e valori che rendono tale uno Stato fondato sul diritto. Lo dice bene Vinicio Nardo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, e lo ribadisce Antonino Galletti, presidente degli avvocati romani, in apertura al convegno online da loro promosso nella giornata di ieri per ricordare il sacrificio della collega turca Ebru Timtik e sostenere tutti i difensori minacciati nel mondo. Il caso di Ebru, morta in stato di detenzione il 27 agosto dopo 238 di sciopero della fame, è assunto a “paradigma” della battaglia per il giusto processo. “Chi calpesta i diritti umani - spiega Nardo - colpisce per primi gli avvocati. Perciò è importante difenderli dalle persecuzioni del potere”. All’evento formativo organizzato in collaborazione con l’associazione di giuristi Italia Stato di Diritto, hanno partecipato esponenti della società civile turca, iraniana, ed europea che con il proprio lavoro contribuiscono alla salvaguardia dei diritti nel mondo, anche e soprattutto attraverso quella “pressione” che la comunità internazionale può esercitare per determinare le sorti degli oppositori politici spediti in prigione senza garanzie processuali, o peggio, uccisi barbaramente. La lista dei loro nomi si allunga a dismisura, ma è un’amara considerazione sottolineare che quando si trattano casi di abusi, si parla soprattutto di donne. Come Nasrin Sotoudeh, avvocata iraniana accusata di “propaganda sovversiva” e condannata nel 2018 a 148 frustate e 33 anni e mezzo di carcere. Sabato scorso l’attivista è stata scarcerata in via temporanea: sulla sua liberazione ha senz’altro contribuito l’attenzione internazionale. Quale, ad esempio, l’azione del Consiglio Nazionale Forense che, come ricorda il consigliere Francesco Caia nel corso del seminario, ha inviato delle missive all’ambasciata iraniana per chiederne la scarcerazione. L’impegno del Cnf - che ha dichiarato il 2020 “L’Anno dell’Avvocato in pericolo” - nel campo dei diritti umani si concretizza in numerose iniziative e “azioni positive” nel mondo: dalle delegazioni di osservatori internazionali nei processi in Turchia, alla missione nell’ottobre 2019 al carcere di Silivri, dove era detenuta anche Ebru. Dall’Iran e la Turchia si passa alla Libia per condannare l’omicidio di Hanan al- Barassi: la “Signora della Cirenaica”, avvocata e attivista per i diritti umani, uccisa martedì scorso a Bengasi in un agguato a colpi d’arma da fuoco, in pieno giorno. Poco prima della sua morte, la donna aveva criticato il figlio del generale Haftar, Saddam. La sua tragica sorte assomiglia a quella di molti altri attivisti che si oppongono al comando del generale, tutti scomparsi o assassinati in un clima di impunità dilagante. Passando in rassegna i casi più noti a livello internazionale, non bisogna dimenticare che “negli ultimi cento anni anche noi, in Italia, abbiamo vissuto violazioni palesi”, sottolinea Galletti, in collegamento da un luogo simbolico: l’aula degli avvocati del foro di Roma, un tempo destinata agli avversari politici condannati all’ergastolo o a morte dal Tribunale speciale. “Questo convegno costituisce un ponte ideale per riaffermare l’impegno personale e istituzionale degli avvocati in un campo come quello dei diritti umani che non conosce quarantene o restrizioni”, spiega il presidente dell’Ordine capitolino, evidenziando come la funzione sociale dell’avvocatura corra su un doppio binario: la difesa dei diritti in sede giudiziale, e la loro diffusione nella cultura. La crociata contro i difensori in Turchia - Il primo a prendere parola è Mehmet Durakoglu, presidente dell’Ordine degli avvocati di Istanbul. A lui spetta l’onere di rappresentare la condizione della giustizia e delle associazioni di categoria nel Paese di Erdogan. Il sistema giudiziario turco è cambiato a partire dall’emendamento costituzionale del 2017 che ha attribuito maggiori poteri al governo. “Questo atteggiamento prevalente dell’esecutivo si è tradotto in una pressione su avvocati, giudici e pubblici ministeri, ora più forte che mai”, spiega Durakoglu. La situazione è peggiorata con l’approvazione dell’emendamento alla legge sugli ordini professionali che garantisce la possibilità di stabilirne più di uno nelle grandi città. Con l’effetto di “parcellizzare e mettere a tacere” l’avvocatura. La compressione del diritto di difesa risale, ancor prima, al periodo emergenziale del 2016 in seguito al fallito golpe militare del 15 luglio: a partire da quella data è iniziata la repressione in ogni settore della società. Il caso di Osman Kavala - Amhet Insel, professore universitario, politologo ed editorialista turco, racconta il caso emblematico di Osman kavala: attivista per i diritti umani accusato di “sovversione dell’ordine costituzionale” per aver incitato alle proteste antigovernative di Gezi Park nel 2013. La sua storia processuale, lunga e complessa, è emblematica perché rappresenta l’apice dell’ingerenza politica nella giustizia. Kavala, recluso da oltre mille giorni, si trova tutt’ora in carcere nonostante una sentenza di assoluzione: nei suoi confronti si è avviata una nuova requisitoria che si regge sulle stesse prove, inconsistenti, dell’accusa precedente. I numeri della repressione - Mariano Giustino, corrispondente in Turchia per Radio Radicale, parte dai dati (fonte Bianet): nel 2019 sono state avviate 100 indagini al giorno per insulto al presidente Erdogan, oltre 36mila persone sono state denunciate, e più di 12mila processate. Dopo il 2016, circa 100mila funzionari pubblici sono stati epurati senza alcuna prova di coinvolgimento nel tentato Golpe, e circa 50mila sono stati gli arresti di parlamentari, giornalisti, giudici, e attivisti condannati con l’accusa di terrorismo. “Se quello militare è fallito, c’è stato senz’altro un golpe civile”, spiega Giustino che poi passa in rassegna i numeri della repressione nel campo della libertà di stampa. Seppure sotto assedio, la società civile continua a “resistere” al regime, come dimostra il caso di Ebru Timtik: il suo non è stato uno sciopero della fame, ma un “digiuno fino alla morte”, precisa chi ha condiviso la sua battaglia per un giusto processo. La questione dello hijab - Masih Alinejad, giornalista e attivista iraniana, è messa al bando con l’appellativo di “oppositrice”. Perseguitata insieme alla sua famiglia, Alinejad porta avanti dal 2014 una campagna contro l’obbligo per le donne di indossare lo hijab. “Non si tratta di una questione interna al paese, è il simbolo stesso della repressione e della dittatura religiosa”, spiega l’attivista che guida una rete di donne pronte a sacrificare la propria libertà per cambiare “una legge sbagliata”. Il ruolo dell’Europa - Sul ruolo dell’Europa nei confronti di Paesi esterni all’Unione si esprimono la senatrice Emma Bonino e Giuliano Pisapia, eurodeputato ed ex sindaco di Milano. Se la leader di + Europa sottolinea lo stigma sociale per gli “avvocati che difendono i colpevoli”, Pisapia denuncia “un momento storico negativo per i diritti umani nel quale il ruolo degli avvocati è fondamentale”. I difensori, infatti, hanno la capacità di agire in prima linea senza strumentalizzazioni politiche. Perché, ricorda l’ex sindaco, “ogni volta che la politica entra nelle aule della giustizia, questa scappa inorridita dalla finestra”. “Il tema dello Stato di diritto è centrale all’interno del Parlamento europeo”, spiega Pisapia, “ma non c’è mai stata una sanzione efficace nei confronti dei paesi che violano i diritti fondamentali”. Smettere di finanziarli, significa danneggiare soprattutto le classi più povere. Per non incorrere in questa contraddizione, si è discusso un nuovo accordo secondo il quale i fondi saranno inviati direttamente alle organizzazioni umanitarie, senza passare per il governo. In conclusione dell’evento, un passaggio di testimone simbolico: prende parola Maria Eugenia Gay, presidente dell’Ordine degli avvocati di Barcellona, con l’obiettivo di diffondere la cultura dei diritti in tutta l’Europa. L’avvocata spagnola chiude con una proposta: lanciare una federazione tra gli ordini professionali dei diversi paesi che possano cooperare a livello internazionale per la difesa dell’avvocatura nel mondo.