Covid in carcere: casi in aumento, misure alternative tabù di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 novembre 2020 Secondo gli ultimi dati, oramai risalenti a una settimana fa, risultano 537 detenuti e 728 agenti penitenziari positivi al Covid in carcere. Il Covid in carcere ha contagiato centinaia e centinaia di detenuti, in alcune carceri ci sono focolai importanti che destano preoccupazione. Secondo gli ultimi dati, oramai risalenti a una settimana fa, risultano 537 detenuti e 728 agenti penitenziari positivi. Ma sono numeri che ovviamente sono nel frattempo lievitati, così come d’altronde accade nel mondo fuori le sbarre. Tanti sono i detenuti anziani e con patologie pregresse dove il virus può essere letale. Di fatto, alcuni sono finiti in terapia intensiva, e riguardano anche i reclusi al 41bis del carcere milanese di Opera. Dato, quest’ultimo ancora non reso noto dal Dap, ma che Il Dubbio ha potuto rivelare grazie alle testimonianze dei familiari. Da quattro detenuti che il giornale ha segnalato, ad oggi - secondo fonti penitenziarie - risulterebbero ben sei i reclusi positivi al carcere duro di Opera. Il Dap ha disposto un monitoraggio dei contagi - Alcuni sindacati di polizia penitenziaria parlano, a torto, di mancate indicazioni circa il monitoraggio dei detenuti positivi al Covid in carcere. In realtà il Dap, con una circolare del 10 novembre, ha disposto un monitoraggio di casi di Covid in carcere e nuove misure da adottare. Attenzione, nessun cenno per le misure alternative nei confronti delle persone più vulnerabile, ma tutte disposizioni che rimangono dentro il perimetro penitenziario. Chiedere di segnalare alle autorità giudiziaria i casi più a rischio oramai è tabù. Tutti dentro il carcere, senza sé e senza ma. Sovraffollamento: Rita Bernardini ha iniziato lo sciopero della fame - La cultura carcerocentrica oramai è diventata una sovrastruttura materiale e mentale. Ma a tentare di scalfirla è ancora una volta il Partito Radicale attraverso Rita Bernardini che da alcuni giorni è in sciopero della fame per imbastire un dialogo con il governo. “Amnistia, indulto, liberazione anticipata speciale, modifica del decreto Ristori, qualcosa deve essere fatto per ridurre la popolazione carceraria”, chiede con forza la presidente Nessuno Tocchi Caino. Il piano del Dap per tre tipologie di persone - Ma com’è detto, l’unico interesse - seppur importante - è quello di adottare misure tutte confinate all’interno del carcere. Quali? Il Dap ordina un piano di intervento che preveda l’individuazione, in ogni carcere, luoghi adeguati all’assegnazione delle tre tipologie di soggetti che devono essere necessariamente separati tra loro e dalla rimanente comunità penitenziaria: i detenuti posti in isolamento precauzionale poiché provenienti dalla libertà, da altro istituto, da pronto soccorso o da ricovero ospedaliero; detenuti posti in isolamento poiché contatti stretti di soggetti risultati positivi al test sars-cov-2; detenuti in isolamento positivi al test, anche diversificando, ove e utile e possibile, le soluzioni per gli asintomatici e i paucisintomatici, da un lato, e per i sintomatici, dall’altro. Poi il Dap chiede che nei centri clinici delle carceri si dispongano di specifiche sezioni detentive per assegnare temporaneamente i detenuti positivi per accertamenti controllo. Anche qui, però, sembrerebbe che nei centri clinici (Sai) ci siano spazi per tali soggetti, ma uno dei problemi più grandi è proprio il discorso dei tanti detenuti con gravi patologie, anche tumorali, che sono nei pochi centri clinici. La difficile situazione del carcere di Parma - Basti pensare quello del carcere di Parma, ad alta complessità sanitaria. Altra disposizione riguardano altre misure finalizzate a prevenire che i focolai nelle carceri si estendano. Come? A seconda della soglia del contagio (tre soglie, dipende dalla percentuale di positivi) si dispongono misure di isolamento e sospensione di ogni attività in attesa dei tamponi, di coloro che con primi abbiano avuto “contatti stretti”. Per tutto il resto, quindi per tutti i detenuti ristretti nella medesima sezione detentiva (salvo se non si trattino di sezioni ove vi siano verificati casi sospetti) verranno garantite la socialità e attività in sicurezza. Per ogni cella, secondo quanto disposto dal Dap, dovrà essere assicurata per ciascun detenuto la possibilità di igienizzare le mani al momento dell’ingresso e uscita. Oltre all’obbligo di mascherina quando si sta in spazi comuni. Altra misura è quella di limitare il più possibile i trasferimenti dei detenuti da un carcere all’altro. Tutte misure importanti per il Covid in carcere, ma a causa della mancanza di spazi adeguati nelle carceri e centri clinici già affollati di malati, il rischio è che difficilmente potranno essere messe in pratica. Forse la nota circolare di marzo, revocata a causa delle polemiche, potrebbe essere l’unica speranza per evitare l’irreparabile. Oppure, ancora una volta, rimane che affidarsi alla fortuna. Nuovo allarme Covid nelle carceri: casi riscontrati in 71 strutture di Giorgio Iusti La Notizia, 13 novembre 2020 Boom di contagi da coronavirus nelle carceri italiane. Aumentati in due settimane del 600%. A lanciare l’allarme è l’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria. Dal Ministero della giustizia gettano però acqua sul fuoco, sottolineando che i casi sono in 71 carceri su circa 200 e che dunque, a, eccezione di alcuni focolai in determinati istituti, in molte strutture i positivi sono poche unità. Il dicastero retto dal guardasigilli Alfonso Bonafede precisa inoltre che i poliziotti colpiti dal virus sono tutti a casa in quarantena. L’Osapp sottolinea che l’emergenza riguarda soprattutto i penitenziari nelle regioni dove il Covid è più diffuso, Lombardia e Campania in testa, anche se uno dei cluster più preoccupanti è nel carcere di Terni, in Umbria. Dalla Lombardia è così partito l’appello al Parlamento perché ampli le misure già disposte dal Governo per alleggerire la pressione sulle carceri. Nel decreto Ristori è stata infatti prevista la detenzione domiciliare per i detenuti ai quali resta da scontare una pena inferiore a 18 mesi, per reati meno gravi e con l’obbligo del braccialetto elettronico, ma sinora solo 85 persone sarebbero state scarcerate in virtù di tale provvedimento. Nell’ultimo report trasmesso dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ai sindacati, il 10 novembre scorso, i detenuti contagiati sono 537, di cui 513 in carcere e 24 in ospedale, e i positivi tra agenti e personale vario 728.1n Lombardia i contagi riguardano 161 detenuti e 183 addetti alle carceri e in Campania 73 ristretti e 157 unità del personale, la maggior parte dei quali concentrata a Poggioreale. Uno dei maggiori focolai è però appunto nel carcere di Terni, con 71 detenuti contagiati e 6 operatori. Altri cluster significativi infine ad Alessandria, con 37 casi, Larino, con 29, Livorno, con 27, e Genova Marassi, con 24. 11 sindacato della polizia penitenziaria ha scritto una lettera al ministro della giustizia denunciando la “pericolosa promiscuità nei reparti detentivi” e l’assenza di dispositivi di protezione individuale” per i ristretti. E il Sappe ha invitato il ministro a “non ritardare ulteriormente” test e tamponi per il personale della polizia penitenziaria. Da via Arenula, ricordando che da gennaio ad agosto i contagi nelle carceri sono stati 568 e quattro i decessi, quelli di due detenuti e di due agenti, sostengono che il Covid dietro le sbarre non sta sfondando neppure in queste settimane, quando la seconda ondata sta facendo particolarmente paura. Tutto anche grazie a centinaia di migliaia di mascherine, occhiali, visiere facciali, camici e tute impermeabili, milioni di guanti monouso e oltre 1.100 kit di protezione totale distribuiti agli istituti penitenziari per far fronte alla pandemia. A San Vittore inoltre è stato costituito uno specifico reparto attrezzato per la cura del Covid-19 e a Bollate è stato avviato un nuovo reparto di degenza Covid, il più grande reparto della Lombardia destinato a ospitare i detenuti risultati positivi al coronavirus provenienti dagli istituti penitenziari della regione, reparto attualmente attivo per 66 posti e che nei prossimi giorni sarà ampliato fino a raggiungere una disponibilità di 198 posti su tre piani detentivi. In ogni carcere infine sono state previste sezioni per isolamento precauzionale e per positivi che non necessitano del ricovero e sono state create anche sezioni per i “nuovi giunti”, in cui far trascorrere i primi giorni in isolamento per evitare possano portare il virus all’interno. “Non svuotare le carceri è folle”. Ecco i motivi del mio digiuno di Rita Bernardini Il Riformista, 13 novembre 2020 Amnistia, indulto, liberazione anticipata speciale. Governo e parlamento hanno tutti gli strumenti di legge per diminuire la popolazione detenuta. Disperati e delusi a Novara i detenuti scioperano dal lavoro (rinunciando ai pochi ma necessari soldi). Le famiglie sono angosciate per i cari in prigione con gravi patologie. Oltre 100 detenuti della casa circondariale di Novara mi mandano “per conoscenza” una lettera che hanno indirizzato alla direzione del carcere, al magistrato di sorveglianza e al provveditorato regionale. Preannunciano lo sciopero di tutti i lavoranti e la battitura due volte al giorno. Manifestano la loro disperazione e delusione per i provvedimenti varati dal Governo per fronteggiare il Covid-19 nelle carceri: “È l’ennesima presa in giro da parte delle istituzioni, un decreto ridicolo (il decreto Ristori, ndr) che se usciranno mille detenuti, è dire tanto. Noi abbiamo sbagliato ed è giusto che paghiamo per i nostri errori, ma non è giusto che paghino i familiari, bambini compresi. In poche parole, ci sono morti dappertutto perché siamo in piena pandemia globale, ma i nostri diritti vengono ancora una volta calpestati. In questo momento così delicato pensiamo che sarebbe opportuno approvare un’amnistia e un indulto per “smaltire” le carceri: cosa aspettano, che ci scappino i morti?”. Poco fiduciosi nell’ascolto da parte dei destinatari, concludono: “Altro che reinserimento sociale e rieducazione comportamentale, cercate di mettervi una mano sulla coscienza e vergognatevi che sono più di otto mesi che non riabbracciamo più i nostri cari e, per tantissimi di noi, non sappiamo se li riabbracceremo di nuovo.” Comprendo lo sconforto di questi detenuti perché i numeri che circolano sul dilagare della pandemia negli istituti penitenziari sono davvero impressionanti: gli ultimi, aggiornati a tre giorni fa, ci dicono che i casi positivi tra i detenuti sono arrivati a 537 e fra gli operatori, agenti compresi, a 737. A fornirceli sono i sindacati di polizia penitenziaria, anche loro fortemente preoccupati. Quasi 1.300 contagiati, infatti, per quanto posti in quarantena (e per i detenuti gli spazi di isolamento sono del tutto inadeguati causa sovraffollamento), sono una fonte formidabile di propagazione del virus. Parentesi: qualcuno al Dap è in grado di motivare il fatto che i dati ufficiali siano forniti in modo esclusivo alle rappresentanze sindacali e non a tutti i cittadini? Tornando ai detenuti di Novara e al loro sciopero, vorrei che si riflettesse sul fatto che per un detenuto rinunciare al lavoro significa non avere a disposizione quelle poche decine di euro mensili che gli consentono di poter acquistare beni essenziali per la vita quotidiana, beni spesso da condividere con i meno fortunati, visto che in carcere lavora non più del 25% dei reclusi. Martedì scorso a Radio Radicale/Radio Carcere, Riccardo Arena ha ricordato gli ultimi due suicidi per impiccagione: il 7 novembre a Verona è morto in cella di isolamento un detenuto maliano di soli 23 anni, mentre a Ivrea il 9 novembre scorso si è tolto la vita un detenuto rumeno di 39 anni, anche lui in isolamento precauzionale perché febbricitante da alcuni giorni. In questo 2020 ben 51 detenuti hanno volontariamente posto fine alla loro vita; altri 79, invece, sono deceduti per malattia o per cause ancora da accertare. Non si possono contare, invece, le telefonate da parte di familiari disperati perché hanno parenti stretti detenuti affetti da gravissime patologie. Sanno queste mogli, queste madri, questi figli che se il loro congiunto fosse contagiato gli rimarrebbero ben poche chance di sopravvivenza. L’ultimo caso è quello di una figlia che ha il padre diabetico e cardiopatico grave recluso al Lorusso-Cotugno di Torino e positivo al Covid. La ragazza ha in mano un documento del responsabile sanitario del carcere indirizzato alla direzione e alla ASL in cui si fa presente l’urgenza di avvisare l’Autorità Giudiziaria sui rischi che corre non solo il detenuto ma anche la “sicurezza sanitaria” del penitenziario. Ebbene, in una settimana, nulla si è mosso e questo padre continua a permanere febbricitante e spossato in cella di isolamento, “curato” (si fa per dire) con due tachipirine al giorno. È tremendamente vero ciò che diceva Marco Pannella: in Italia non c’è la pena di morte ma è certamente in vigore la “morte per pena”. Sono quelle scritte in queste righe le ragioni del mio sciopero della fame iniziato la notte del 10 novembre. Governo e Parlamento hanno tutti gli strumenti di legge (alcuni dei quali predisposti dal Partito Radicale e da Nessuno Tocchi Caino) per diminuire drasticamente la popolazione detenuta. Non farlo equivarrebbe a sentenze di morte che un sistema democratico aderente ai principi costituzionali non può essere in grado di sopportare. 41bis, una pena ancora necessaria. Il problema sono le strutture di Luca Tescaroli* Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2020 Il fine del carcere duro non è spingere alla collaborazione ma tutelare la collettività impedendo le comunicazioni con l’esterno. La risposta al quesito se il regime del 41bis - sia pur ammorbidito nel suo rigore - sia ancora necessario, esige una verifica proiettata a comprendere se lo scopo dello strumento detentivo rimanga attuale, se la realtà e la pericolosità delle mafie sia mutata, tenendo presente che la mafia è criminalità e cultura, il cui dilagare deve essere contrastato anche attraverso il trattamento penitenziario. L’intento che ha portato all’impiego dello strumento non è di spingere i carcerati alla collaborazione - tant’è vero che la più parte dei cd pentimenti è maturata nella prima fase della detenzione - ma quello di tutelare la collettività, privando i sodalizi dell’apporto dei loro capi, impedendo le comunicazioni dei boss con l’esterno e gli altri affiliati, in modo da annichilire il loro potere, la loro carica criminale e il carisma che deriva loro dalla perpetuazione del potere dal carcere. Più sentenze passate in giudicato, soprattutto quelle inerenti alle stragi del continente, hanno accertato che i vertici di Cosa Nostra hanno eseguito gli eccidi con l’obiettivo di ottenere, fra l’altro, proprio la revoca del regime di cui all’art. 41bis. Nessuno dal 1994 ha raccolto il testimone dei corleonesi - nemmeno l’ultimo della loro genia ancora libero, Matteo Messina Denaro, che pure vi aveva fattivamente contribuito - e ha più riproposto l’esecuzione di stragi al fine di contendere il potere allo Stato, terrorizzare la popolazione, condizionare la politica giudiziaria del governo e influenzare nomine delle più alte istituzioni, ricattare o piegare i detentori del potere. Cosa Nostra (meno pericolosa rispetto agli Anni Novanta) e le altre organizzazioni mafiose tradizionali e di nuovo conio si muovono verso un obiettivo di convivenza con il potere costituito per coltivare i loro affari, continuando a esercitare il potere sul territorio, con l’uso dell’omicidio prevalentemente nel quadro di contese interne. Le inchieste di questi anni hanno dimostrato che, nonostante l’incessante contrasto e i risultati ottenuti, sono tutte vitali e che alcune di loro hanno esteso o consolidato i loro insediamenti in più parti del Paese. Le collaborazioni delle vittime dei reati e di coloro che sono a conoscenza di rapporti tra mafiosi e loro garanti nel proprio mondo professionale o economico, continuano a essere estremamente rare. Le realtà imprenditoriali importanti hanno preferito accordarsi con i boss, ritenendo il pizzo una sorta di costo di impresa. L’esperienza giudiziaria che ha caratterizzato il periodo di applicazione del regime rivela che la regola per cui il mafioso non può essere rieducato non è venuta meno, perché lo stesso non può uscire dall’organizzazione se non con la morte o il tradimento (regola imperante in Cosa nostra). Le dissociazioni sono risultate funzionali esclusivamente a ottenere benefici e non a recidere realmente i rapporti con l’organizzazione di appartenenza, e la buona condotta del mafioso rappresenta un fattore costante funzionale a fruire della liberazione anticipata: una riduzione di pena di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata. Anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 253 del 23 ottobre 2019, nel dichiarare illegittima la preclusione assoluta all’accesso ai permessi premio per i condannati per reati di mafia che non collaborano con la giustizia, ha espressamente riconosciuto una presunzione (relativa) di pericolosità dei boss. Ne deriva che il regime del 41bis in tale contesto continua a essere indispensabile e le avanguardie culturali sempre utili ad analizzare meglio il contesto in cui viviamo rischiano di indebolire il contrasto al crimine mafioso. Il reale problema da affrontare è, invero, quello della carenza di strutture adeguate e di risorse specializzate per assicurare l’effettività dei controlli nei confronti dei sottoposti al regime del 41bis, che non è una ulteriore pena afflittivi, e ambienti adeguati idonei ad assicurare dignitosi alloggi, rispondenti a esigenze di umanità, idonei ad assicurare l’isolamento effettivo, che al tempo della pandemia da Covid-19 ha il pregio di tutelare la salute dei detenuti. I casi recenti di mafiosi al 41bis ai quali viene permesso di recarsi con adeguata scorta a casa corrono il rischio di svuotare il senso del provvedimento. Occorre una seria politica per costruire nuove carceri e per progetti di assunzione e formazione di personale con adeguata professionalità per assicurare il controllo e impedire le comunicazioni anche indirette con il resto del clan. *Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Firenze 41bis, se non vi interessano i padri pensate almeno ai figli. E so spiegarvi perché di Daniele Pifano* Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2020 Sala colloqui di un carcere speciale. Qui hanno montato i vetri divisori antiproiettile cheti separano completamente dai familiari che vengono a trovarti. Non si può avere alcun contatto fisico diretto, per scambiare qualche parola, devi alzare il citofono e parlare lì. La sala è insonorizzata. Il detenuto è un camorrista abbastanza giovane. Dall’altra parte del vetro c’è una giovane ragazza napoletana con accanto un bambino di 8-9 anni. Il colloquio dura un’ora. Io sono nella postazione accanto, a colloquio con la mia compagna. Passata l’ora ci chiudono in una cella, in attesa delle guardie carcerarie per ricondurci al braccio di assegnazione. Non appena richiudono la porta blindata, il camorrista sbotta: “Appena posso uccido il figlio di qualche giudice, debbo far provare anche cloro cosa significa per un padre non poter abbracciare, baciare la propria creatura, i propri cari”. Parlatorio di altro carcere speciale, scena completamente diversa. Una volta al mese è consentito il colloquio famiglia in una sala in cui, invece del bancone divisorio, ci sono normali tavolini con le sedie. Puoi anche mangiare quello che hai cucinato in cella. I figli dei vari detenuti possono giuocare insieme, la guardia carceraria di servizio è rilassata, sta solo attenta che non si verifichino incidenti. La sicurezza è demandata al dopo colloquio, in cui devi denudarti completamente ed essere sottoposto ad una minuziosissima perquisizione anche di tutti gli indumenti che indossi. Ebbene, ritornato poi al passeggio, in sezione, uno di questi detenuti, sempre per fatti di camorra, con cui avevo fatto il colloquio insieme, mi chiama in disparte e mi dice che il figlioletto, di una decina di anni, l’aveva messo in crisi: gli aveva fatto promettere che, una volta uscito di galera, si sarebbe cercato un lavoro onesto, perché lui, dai suoi compagni di scuola non voleva più essere chiamato “il figlio del camorrista”. Ecco, vista dall’interno del carcere, è questa la differenza che intercorre tra quanto ha auspicato il giudice Woodcock nella sua presa di posizione contro le vessazioni inutili ed umilianti del 41bis, che nulla c’entrano con la sicurezza, e le affermazioni ribadite successivamente dal giudice Caselli. Per i carcerati non è la “ferocia dello Stato” ciò di cui hanno più timore e paura (se vogliono, loro, riescono ad esserlo molto di più), ma è la supremazia morale, la coerenza, la lealtà, l’umanità che sono in grado di dimostrare quelle persone che incarnano, ai loro occhi, le istituzioni. Ciò che li fa andare in crisi, che gli fa perdere credibilità e potere agli occhi dei propri famigliari, dei propri “soldati” è la concretizzazione di un agire senza imboscate, corruzione e privilegi, con rispetto e soddisfazione reciproca. Per uno Stato sano il carcere dovrebbe rappresentare quell’occasione “d’appello” che viene data al cittadino che non è riuscito a coinvolgere, convincere, con il suo funzionamento normale. Il vero pentito non è il delatore, bensì colui che col suo nuovo agire, impedisce che i suoi compagni continuino sulla strada sbagliata, li convince perché li spinge a fare delle scelte, per loro, più soddisfacenti della vita che conducevano prima. Il 41bis non può essere il volto feroce dello Stato dietro cui nascondere le collusioni di molte sue alte cariche coni capi dei malavitosi. E bisogna dare atto, a voi del Fatto Quotidiano, di essere tra i pochissimi che continuano caparbiamente a smascherare queste connivenze. *Ex detenuto Il Dap avvia strategia per potenziare ricerca e rilevamento dei cellulari in carcere ansa.it, 13 novembre 2020 Dopo aver individuato la migliore tipologia di strumenti per la prevenzione e il rilevamento di apparecchi di telefonia mobile all’interno delle carceri, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria avvierà a breve le procedure per il loro acquisto, in modo da consentire un deciso potenziamento delle dotazioni su tutto il territorio nazionale. Contestualmente, verrà attivata un’apposita formazione per il personale che sarà addetto al loro utilizzo e alle attività ad esso correlate. Infine, saranno sperimentate ulteriori nuove tecnologie per il contrasto al fenomeno. È quanto ha deciso, nel corso di una riunione svoltasi ieri mattina e presieduta dal Vice Capo Roberto Tartaglia, il Gruppo di lavoro in materia di contrasto all’utilizzo di cellulari in carcere, appositamente istituito nel maggio scorso dai vertici del Dap appena insediatisi. Un appunto tecnico con le linee guida di quanto deciso sarà a breve inviato ai Provveditorati regionali affinché lo trasmettano agli istituti penitenziari sul territorio di competenza. Per il suo lavoro, il Gruppo si è avvalso di numerose e variegate interlocuzioni con i responsabili del Nucleo Investigativo Centrale (Nic) e del Gruppo Operativo Mobile (Gom) della Polizia Penitenziaria, con personale specializzato dell’Amministrazione e con esperti del mondo accademico. È stata inoltre svolta una ricognizione di tutti i dispositivi attualmente in uso negli istituti penitenziari e uno specifico studio sulle statistiche relative ai ritrovamenti di telefoni e alle modalità di rinvenimento negli ultimi anni. Nel corso delle riunioni sono stati inoltre analizzati anche i possibili profili disciplinari e penali per il ritrovamento e l’uso di apparecchi di telefonia mobile da parte della popolazione detenuta. Un nuovo marchio e-commerce per i prodotti “made in carcere” di Raul Leoni gnewsonline.it, 13 novembre 2020 Un marchio unico, semplice, evocativo - “Economia Carceraria” - per identificare una miriade di iniziative nate all’interno delle strutture penitenziarie. L’obiettivo è quello di favorire la diffusione di prodotti tipici, strizzando l’occhio alle eccellenze enogastronomiche italiane: la particolarità è che a occuparsi delle lavorazioni artigianali sono i detenuti inseriti nei progetti di formazione e reinserimento lavorativo curati dalle cooperative sociali attive su tutto il territorio nazionale. Vino e birra dal Piemonte, miele da Vasto, pasta da Palermo, prodotti da forno a Siracusa, dolci da Ragusa, infusi a Pozzuoli, caffè a Torino e capi di abbigliamento a Roma: l’offerta della nuova piattaforma online è in grado di soddisfare un ampio ventaglio di esigenze. Secondo Paolo Strano, tra i fondatori del progetto, “si tratta di tutti prodotti artigianali, buonissimi e fatti con cura e orgoglio”. “Acquistarli è anche un gesto di responsabilità sociale - spiega Strano - che incide fortemente nella vita delle persone. Questa piattaforma nasce infatti con l’obiettivo di favorire l’occupazione e il lavoro tra i detenuti, per evitarne la recidiva”. Anche sotto il profilo della promozione, i soggetti che stanno curando l’iniziativa hanno fatto del loro meglio. Perché marchi identitari come “Sprigioniamo Sapori” o “Caffè Galeotto”, “Dolci Evasioni” o “Cotti in Fragranza”, sono un bel biglietto da visita per l’attività di marketing. Dietro una pluralità di associazioni e denominazioni, una buona parte della popolazione carceraria è occupata nella lavorazione e nel confezionamento dei prodotti, al momento circa 2500 detenuti. Le strutture coinvolte nel ‘brand’ dell’economia carceraria sono le case circondariali di Ragusa, Trani, Alba, Vasto, Siracusa, gli istituti femminili di Lecce e Pozzuoli, la casa di reclusione “Ucciardone” di Palermo, gli istituti penali di Roma-Rebibbia, Torino, Saluzzo e Alessandria, l’istituto minorile “Malaspina” di Palermo. Il processo non può essere eterno. Parola di Giovanni Canzio di Simona Musco Il Dubbio, 13 novembre 2020 Il presidente emerito della Cassazione: si paghino le spese legali a chi è assolto dopo troppo tempo, in casi gravi l’azione penale deve fermarsi. No al federalismo giudiziario. No alla durata indeterminata del processo. E ancora no al divieto, per i delitti puniti con l’ergastolo, di accesso al rito abbreviato. Giovanni Canzio, primo presidente emerito della Suprema Corte di Cassazione, non fa mistero dei difetti, ma nemmeno dei pregi, del disegno di legge delega per l’efficienza del processo penale. Un progetto che secondo il giudice, chiamato a fornire il suo punto di vista da esperto in Commissione Giustizia, deve fare i conti con un dato di fatto: l’attuale crisi di autorevolezza e effettività della giurisdizione penale. Alla quale la risposta del legislatore è, forse, troppo poco audace. Le ragioni della crisi sono principalmente due: l’ipertrofia dell’inchiesta e una durata irragionevole dei processi. Nel primo caso il problema consiste in uno sbilanciamento sulle indagini preliminari, che diventano il baricentro del processo, contrariamente a quanto voluto dalla riforma Vassalli. Il punto focale, dunque, “non è più il dibattimento”. Per evitarlo, dunque, è necessaria “una coraggiosa apertura alle finestre di giurisdizione”. Ovvero “un controllo pregnante del giudice nei momenti topici, più delicati, delle indagini preliminari”.Per quanto riguarda la durata del processo, Canzio non disdegna la riforma sulla prescrizione. Ma, a suo dire, è monca. E rischia di risultare “asistematica ed estemporanea”, senza assicurare “tempi celeri e certi per le successive fasi impugnatorie”. Soprattutto se la violazione di questi termini rimane “priva di conseguenze”. Il compasso temporale è quello fissato dalla legge Pinto: un processo non dovrebbe durare più di sei anni. Ma in caso di violazione, afferma Canzio, è necessario che l’ordinamento reagisca prontamente, con misure compensative adeguate. Le possibilità sono varie: da una congrua riduzione di pena, se l’imputato è condannato, ad un giusto indennizzo in caso di proscioglimento, come il pagamento delle spese legali o un risarcimento. Fino a teorizzare, in casi estremi, la “improseguibilità del processo penale”. Inutile, invece, la sanzione disciplinare al giudice. In primo luogo perché è “altamente improbabile” che la stessa venga applicata, per vie delle condizioni che richiede, ma soprattutto in quanto “eccentrica rispetto al diritto che è stato violato, che è un diritto costituzionalmente protetto, un diritto fondamentale, quello della ragionevole durata”. Ma gli aspetti critici sono anche altri per Canzio. Come l’assenza di “seri filtri all’impugnazione, in particolare all’appello” - con il conseguente ingolfamento delle Corti - che oggi ha come unico motivo di inammissibilità la genericità dei motivi di gravame, a differenza di quanto accade nel processo civile, dove a far la differenza è anche l’assenza di qualsiasi ragionevole probabilità di accoglimento. “Se si vuole conservare una giurisdizione articolata in ben tre livelli - spiega Canzio - anche l’appello penale deve beneficiare di un regime di inammissibilità per manifesta infondatezza dei motivi di gravame”. Gli aspetti positivi ci sono, come la previsione di una sanzione - l’inutilizzabilità degli elementi di prova - nel caso di violazione della tempestività dell’iscrizione sul registro degli indagati. Ma la musica cambia, sostiene il magistrato, quando si passa ai termini di durata delle indagini e al meccanismo di discovery degli atti, dove il controllo del giudice è invece assente. Così come per l’introduzione di criteri di priorità per i fascicoli d’indagine, sui quali il primo presidente si dice “profondamente critico”, per una ragione di tipo costituzionale. Ovvero per il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: “non si può rinviare la selezione dei criteri di priorità a una frammentata geometria variabile dei vari uffici, perché ci sposteremmo su un terreno di federalismo giudiziario”, sottolinea. La selezione dovrebbe, al massimo, avvenire attraverso un intervento del Parlamento con norme primarie, da valutare periodicamente ed eventualmente riformare. Per i procedimenti speciali, il patteggiamento allargato - con il limite di pena applicabile su richiesta delle parti portato ad otto anni di reclusione solo o congiunta a pena pecuniaria e non più cinque come prevede l’attuale codice di procedura penale e l’esclusione di ammissibilità per reati come omicidio, strage, maltrattamenti contro familiari - “è destinato all’insuccesso, perché se mancano reali misure premiali si preferisce accedere all’abbreviato”. Ma Canzio critica fortemente anche un’altra norma, introdotta lo scorso anno e cara alla Lega, la 33 del 2019, che esclude l’accesso al rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo. Una norma sulla quale mercoledì si pronuncerà la Corte costituzionale e sulla quale, ora, arriva anche la picconata di Canzio. “Sarebbe molto più utile”, infatti, ripristinarlo, “perché è lì che effettivamente si è creata una procedura inflattiva piuttosto che deflattiva - spiega. Avrà successo invece il giudizio per decreto, dove la misura premiale mi sembra significativa, anche all’esito del ragguaglio tra pene pecuniarie e detentive”. Il primo presidente invoca più misure compensative. Come nel caso della rinnovazione della prova dichiarativa per il mutamento del giudice, che viola il principio di immediatezza del processo. Un principio sì flessibile, a patto, però, che a risentirne non sia il solo diritto alla difesa. Inoltre non viene escluso il rischio di mutamenti a catena di giudice in giudice. Infine la riforma non prevede termini di durata per le indagini sui reati che destano maggiore allarme sociale. “Non è detto - conclude Canzio - che questi richiedano un procedimento senza termini di durata”. Che devono essere previsti “per tutti i procedimenti”, magari tenendo conto dell’effettiva complessità delle indagini. Ma concretamente, senza distinzione astratte e contrarie ai principi costituzionali. Sospensione prescrizione, la decisione della Consulta dovrà tenere conto delle parti più deboli di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2020 Nei prossimi giorni la Corte Costituzionale dovrà esprimersi su una questione rilevante che meglio chiarirà finalità, funzionamento e limiti della nostra giustizia penale. Non di rado è accaduto, nel recente passato, che la Consulta abbia segnato, nel nome della dignità umana, i confini invalicabili del potere di punire, che mai deve superare il recinto della ragionevolezza e del rispetto dei diritti fondamentali. In particolare, i giudici costituzionali si esprimeranno sulla legittimità del provvedimento legislativo assunto in pieno lockdown che a causa dell’emergenza pandemica sospende, anche per fatti antecedenti all’entrata in vigore del decreto-legge in oggetto, i tempi di prescrizione. La questione chiama in causa l’idea stessa che facciamo nostra di giustizia, di pena e più in generale di libertà. Il principio di irretroattività della norma penale più severa è parte del principio di legalità ed è coerente con l’idea secondo la quale non si devono cambiare le carte in tavola a gioco oramai iniziato. L’imputato, o anche il semplice indagato, costituisce nel procedimento penale la parte debole. La prescrizione è una garanzia contro l’irragionevole durata dei procedimenti. Fa parte del giusto processo. Incidendo nella sostanza sulla punibilità della persona sotto processo, non è dequalificabile a mera norma di procedura, come giustamente hanno ribadito i giudici rimettenti. Vedremo cosa scriverà la Corte al riguardo. Se qualificherà la prescrizione alla stregua di istituto di diritto sostanziale, l’esito dell’incostituzionalità rispetto a fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore del decreto-legge sarà inevitabile. Comunque vada il giudizio davanti alla Corte Costituzionale, resta in piedi una più significativa e generale considerazione, che suggerisce di non far pagare alle parti più deboli dei processi penali - ancora, teniamo bene a mente, presunti innocenti - gli effetti della sospensione dei procedimenti dovuta alla pandemia. La prescrizione è un istituto giuridico pensato per evitare che chiunque sia sotto processo a vita. È per tutti una garanzia che il processo si chiuda a un certo punto: è una garanzia individuale per l’imputato, è un’esigenza collettiva della giustizia che altrimenti potrebbe essere infinita e andare a rincorrere i tempi della ricostruzione storica. Là dove sono coinvolte persone in custodia cautelare in carcere, si fa più forte l’esigenza che i tempi del processo non vengano dilatati. Incrementare la durata della custodia cautelare a causa dell’epidemia significa far pagare i costi dell’emergenza sanitaria alla persona detenuta. E per quanto tempo? E se la pandemia durasse malauguratamente ancora per molto? La giustizia penale deve trovare altre strategie per risolvere il problema, contemperando le esigenze investigative e il bisogno di giustizia con le irrinunciabili garanzie individuali. Quelle garanzie individuali che, risalendo ai nostri classici, ci dovrebbero far ben affermare che ogni provvedimento in ambito penale deve sacrificare la minima porzione possibile di libertà. *Coordinatrice associazione Antigone Davigo al Tar: “Siete voi competenti a decidere se la mia esclusione dal Csm è giusta” di Liana Milella La Repubblica, 13 novembre 2020 L’ex pm, estromesso dal Consiglio il 19 ottobre con 13 voti, presenta una memoria e ribadisce che non può essere il giudice ordinario, ma la giustizia amministrativa a stabilire l’esito del suo caso. Piercamillo Davigo vuole sapere al più presto dal Tar del Lazio - che oggi ha affrontato di nuovo il suo caso - se il Csm ha sbagliato ad estrometterlo dal Consiglio il 19 ottobre poiché il giorno dopo compiva 70 anni, e quindi per la magistratura diventava un pensionato. Oppure se, al contrario, la giustizia amministrativa condivide questa scelta. Ma è prioritario stabilire la competenza stessa del Tar contestata invece dal Csm. In ogni caso, è il merito della questione che interessa Davigo, rappresentato dal costituzionalista Massimo Luciani. Stabilita da palazzo dei Marescialli con una decisione assunta con 13 voti favorevoli, 6 contrari e 5 astensioni quel lunedì 19 ottobre, quando l’ex pm di Mani pulite è stato costretto a lasciare il Csm perché il giorno dopo andava in pensione. Una decisione frutto di una delibera sofferta, preceduta da un dibattito fortemente divisivo. Adesso tutta la vicenda, dal 20 ottobre, è di fronte alla giustizia amministrativa. Che dovrà stabilire se, effettivamente, il pensionato Davigo non poteva più far parte del Csm. Come ha ritenuto lo stesso Consiglio, e prim’ancora la Commissione per la verifica dei titoli, composta da tre togati, tra più votati, tra due cui due esponenti di Magistratura indipendente e il laico indicato da M5S Benedetti. Ma preventivamente il Tar del Lazio deve decidere sulla sua effettiva competenza, contestata invece dal Csm che, tramite l’Avvocatura dello Stato, eletto a suo difensore, sostiene che il caso, poiché riguarda un diritto soggettivo, cioè quello elettorale, deve essere invece vagliata dalla giustizia ordinaria. Tesi che, all’opposto, Davigo rigetta, ritenendo che il merito della querelle non può che essere stabilito dal Tar poiché in discussione c’è una carica del Csm. La “continuità” dello Stato come ordinaria procedura di Davide Conti Il Manifesto, 13 novembre 2020 Polizia e G8 di Genova. Le promozioni dei poliziotti condannati per i fatti di Genova danneggiano la credibilità delle istituzioni. Nel 1968 all’indomani di violenze di polizia contro il movimento studentesco, Giancarlo Pajetta dichiarò: “Quelli che hanno ordinato l’attacco contro gli studenti, che li hanno fatti bastonare, che li hanno portati in questura, non sono uomini nuovi. Sono quelli del 1964, quelli del 1960. Un generale dei carabinieri che preparava campi di concentramento adesso comanda un po’ di più; un generale di brigata è diventato generale di divisione; il generale che ha falsificato i documenti perché il processo andasse com’è andato, quello è stato promosso ha ricevuto una stella di più. Una stella al merito della menzogna”. Anche le tante promozioni, succedutesi nei venti anni che ci separano dal G8 di Genova, di funzionari delle forze dell’ordine condannati in via definitiva interessano non “uomini nuovi” ma figure di lungo corso. Uno è diventato vice direttore del Cesis; uno è stato assunto in Finmeccanica dal suo ex-capo in Polizia che intanto ne era salito al vertice; uno è andato a guidare l’antiterrorismo e la Divisione anticrimine e un altro ancora il Centro operativo della Polizia stradale a Roma, prima di diventare vicequestore. La lista si allunga di anno in anno senza che i cambi di governi siano in grado di arrestare quella “procedura amministrativa obbligata” posta a giustificazione ufficiale di tali avanzamenti. La continuità dello Stato, fatta di rimozione del passato e persistenza negli apparati, è questione che interroga il corpo e la materia costituente del Leviatano di Hobbes e ritrae la capacità di “riproduzione nell’immutabilità” delle istituzioni e delle sue prassi. Claudio Pavone insegna che “continuità non è sinonimo di immobilismo” e analizzarne la dinamicità e la sua ricaduta nel tempo consegna strumenti interpretativi per agire sugli assetti del presente. La transizione dal fascismo alla democrazia (mancata Norimberga italiana e fallimento dell’epurazione) non solo consentì il mantenimento degli uomini di Mussolini (a metà anni Sessanta in Italia venivano dal regime 62 prefetti di prima classe su 64; 64 prefetti di seconda classe su 64; 241 viceprefetti; 7 ispettori generali di Ps su 10; 120 questori su 135; 139 vicequestori su 139 mentre su 1642 commissari e vicecommissari solo 34 avevano vaghi legami con la Resistenza) ma costò fino al 1954, nella relazione democrazia-ordine pubblico 62 morti; 3126 feriti; 92169 arresti; 19306 condannati tra operai e contadini impegnati nelle lotte per lavoro e terra. Erano gli anni in cui nella Sicilia della strage di Portella della Ginestra si alternarono a capo dell’Ispettorato di Ps gli ex questori fascisti di Lubiana Ettore Messana (accusato di crimini di guerra) e Ciro Verdiani, già capo-zona dell’Ovra a Zagabria e questore di Roma nel 1946. Negli anni Sessanta rapidi furono gli avanzamenti di carriera dei militari coinvolti nel “Piano Solo” del generale De Lorenzo: il colonnello Mario de Julio, incaricato di emettere l’ordine d’arresto contro dirigenti di Pci e Psi, fu promosso comandante della Legione di Livorno; Dino Mingarelli, capo di Stato Maggiore della Divisione Pastrengo di Milano, responsabile degli ordini d’assedio delle zone operaie della città, diverrà direttore della scuola sottufficiali prima di essere condannato per il depistaggio della strage di Peteano del 1972; il colonnello Romolo Dalla Chiesa capo di Stato Maggiore della Divisione Ogaden di Napoli divenne comandante della Legione Lazio. Negli anni Settanta la torsione democratica deflagrò con lo stragismo e con l’immutabile regola delle promozioni sul campo. Ecco, dunque, l’ex-direttore del confino fascista di Ventotene Marcello Guida gestire l’ordine pubblico a Torino e poi, sempre nel 1969, da questore di Milano accogliere dopo la strage di Piazza Fontana il presidente della Camera Pertini, suo ex-detenuto; Silvano Russomanno repubblichino arruolato nella Luftwaffe nazista divenire numero due dell’Ufficio Affari Riservati negli anni di stragi e golpe; gli agenti Pietro Mucilli, Vito Panessa, Carlo Mainardi e il carabiniere Savino Lograno tutti promossi e presenti al momento della morte di Giuseppe Pinelli in questura a Milano; Giuseppe Pièche, ai vertici del SIM fascista e uomo di fiducia di Mussolini diventare referente del ministro dell’Interno Scelba e poi essere indagato, e assolto, per il golpe Borghese del 1970 mentre il figlio Augusto, nel 1968, organizzava il viaggio dei neofascisti italiani nella Grecia dei colonnelli. La continuità giunge così fino a noi con i protagonisti del 2001 penalmente salvati dall’assenza del reato di tortura nel nostro codice (introdotto nel 2017) e poi promossi. Ad essere danneggiate nella loro credibilità sono le istituzioni, in un momento storico in cui le stesse dispongono Stati d’emergenza da affidare ai loro uomini. “Tutto ciò poteva essere evitato solo destituendo i funzionari”, si legge nelle spiegazioni ufficiali, ma tale “scelta non fu intrapresa dall’Amministrazione”. Su quella scelta si misura lo stato della nostra democrazia. Sentenza della Consulta sul “controllo di vicinato” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 13 novembre 2020 “La legge Veneta va oltre le competenze regionali”. A chi ne fa parte non piace chiamarle “ronde”, bensì “presidi” civici di prevenzione al crimine. Si tratta dei gruppi di “Controllo del Vicinato”: reti territoriali di cittadini volontari che “vigilando” nel proprio quartiere forniscono supporto alle amministrazioni comunali e alle forze di polizia locali con il fine di tenere le strade sicure. Il fenomeno di matrice statunitense è approdato in Italia all’inizio degli anni duemila, sviluppandosi principalmente nelle Regioni del Nord e Centro Nord. Secondo i dati pubblicati sul sito dell’Associazione, ad oggi sono oltre 68mila le famiglie che hanno aderito al progetto, di cui 10mila nel solo Veneto con un totale di 287 Gruppi su 54 Comuni. Ed ecco il punto. La Regione si è data nel 2019 una legge in materia, la numero 34, con “l’obiettivo di promuovere e regolare il cosiddetto “controllo di vicinato”, sostenendone in vario modo le attività e istituendo una banca dati per il monitoraggio dei suoi risultati”. La definizione viene dallo stesso comunicato della Corte Costituzionale che ieri ha dichiarato nulla la norma regionale per “illegittimità costituzionale”. La sentenza, redatta dal giudice Francesco Viganò, stabilisce che la legge del Veneto “viola la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza ed è pertanto incostituzionale”. La Corte ha ricordato che “secondo la propria giurisprudenza, spetta soltanto allo Stato legiferare in materia di “sicurezza primaria”, che consiste nell’attività di prevenzione e repressione dei reati, primariamente affidata alle forze di polizia”. Mentre alle Regioni, chiariscono da Palazzo della Consulta, “è consentito prevedere interventi a sostegno della cosiddetta “sicurezza secondaria”, in particolare mediante azioni volte a rafforzare nel contesto sociale una cultura della legalità, nonché a rimuovere le condizioni nelle quali possono svilupparsi fenomeni di criminalità”. Insomma, un conto è coadiuvare proficuamente le istituzioni, un altro è intestarsi il controllo del territorio in materia di sicurezza. La legge regionale esaminata dai giudici costituzionali, infatti, disciplinava queste attività dei cittadini “in chiave di ausilio alle forze di polizia rispetto ai loro compiti di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, e pertanto incideva inevitabilmente sulla “sicurezza primaria”. La Corte ha precisato che “nulla vieta alla legge statale di disciplinare direttamente il fenomeno del “controllo di vicinato”, già oggetto, del resto, di numerosi protocolli di intesa tra prefetture e comuni, in varie di parti del territorio nazionale”. Una prerogativa prevista dall’articolo 118 della Costituzione che sancisce il principio di “sussidiarietà orizzontale”, ovvero di “partecipazione attiva e responsabilizzazione dei cittadini rispetto all’obiettivo di una più efficace prevenzione dei reati, attuata attraverso l’organizzazione di attività di supporto alle attività istituzionali delle forze di polizia”. Campania. Col decreto Ristori Bis nessuna speranza per le carceri campane di Sabina Coppola Il Riformista, 13 novembre 2020 La Camera penale di Napoli e l’associazione Il Carcere Possibile Onlus, in questa doppia fase emergenziale, hanno sottolineato innumerevoli volte, persino con la lettera aperta al Ministro della Giustizia, il rischio di contagio da Covid legato al sovraffollamento dei penitenziari e la inidoneità delle misure varate dal Governo per ridurre il numero dei detenuti. Il contenutissimo limite di pena (di 18 mesi) e le numerose ipotesi ostative alla concessione della detenzione domiciliare (persino per reati di maltrattamento e stalking) impediscono di centrare questo risultato. Basti pensare che, con riferimento agli istituti penitenziari napoletani, il numero di detenuti che potranno usufruirne (senza considerare l’ostatività) è di circa 250, a fronte di quella riduzione di circa 800 unità necessaria per allineare il numero delle persone recluse alla disponibilità dei posti; senza contare poi che, come noto, la cronica indisponibilità di braccialetti elettronici rallenterà notevolmente l’efficacia del provvedimento anche per quei pochi che potranno usufruirne. Rispetto alle misure cautelari, il numero dei detenuti in custodia negli istituti penitenziari della Campania è di 2.715 unità, di cui 1.695 ristretti nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano (864 in attesa di primo giudizio, 422 appellanti e 292 ricorrenti in cassazione). Benché i soggetti sottoposti alla carcerazione preventiva siano ovviamente in numero inferiore rispetto a coloro i quali stanno espiando una condanna irrevocabile, sarebbe stato necessario prevedere una rivalutazione delle esigenze cautelari alla luce dell’emergenza epidemiologica. A fronte, poi, dell’assenza di una previsione normativa emergenziale in favore dei soggetti detenuti in custodia cautelare, il nuovo decreto legge 149/2020 (il cosiddetto Ristori-bis), all’articolo 24, con una disposizione di dubbia ragionevolezza e conformità ai parametri costituzionali, è intervenuto prevedendo addirittura la sospensione dei termini di custodia cautelare (oltre che di prescrizione) “durante il tempo in cui l’udienza è rinviata per l’assenza del testimone, del consulente tecnico, del perito o dell’imputato in procedimento connesso i quali siano stati citati a comparire per esigenze di acquisizione della prova, quando l’assenza è giustificata dalle restrizioni ai movimenti imposte dall’obbligo di quarantena o dalla sottoposizione a isolamento fiduciario in conseguenza delle misure urgenti in materia di contenimento e gestione della emergenza epidemiologica da Covid-19 sul territorio nazionale previste dalla legge o dalle disposizioni attuative dettate con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro della Salute”. La norma, che sembra limitare la sospensione dei termini alle misure cautelari personali e non anche a quelle coercitive e interdittive, è certamente criticabile nella parte in cui attribuisce all’impedimento di un terzo (diverso dall’imputato e dal suo difensore) la proroga di una misura che incide sulla libertà personale del detenuto. La misura cautelare è per sua natura temporanea (in quanto non può diventare, o non dovrebbe diventare, una espiazione anticipata della pena non ancora comminata) e le ipotesi di sospensione della durata del termine di custodia cautelare sono espressamente contemplate dal codice di rito che, naturalmente, le attribuisce all’impedimento addotto dall’imputato o dal difensore, non certo all’assenza di altre parti processuali. La norma, peraltro, prevede che questa sospensione sia disposta per un periodo di tempo che va ben oltre il mero impedimento (ovvero 60 giorni a partire dalla “prevedibile” cessazione dell’impedimento stesso); periodo la cui durata è rimessa al prudente apprezzamento del magistrato che dovrà di volta in volta valutare, in assenza di consulenze mediche, quando potranno ritenersi cessate le “restrizioni ai movimenti del testimone, del consulente tecnico, del perito o dell’imputato” e fino a quando, dunque, resterà sospeso il termine di custodia cautelare. In un periodo, come questo, nel quale si invitano (e con alcune restrizioni si obbligano) i cittadini a garantire il distanziamento sociale necessario a evitare il contagio, è inconcepibile che si continui a pensare alla popolazione carceraria come ad “altro da noi” e che si adottino misure che, anziché limitare i nuovi ingressi in carcere e favorire il più possibile l’espiazione della pena con misure alternative alla detenzione (e l’accesso alla misura cautelare della custodia in carcere solo come extrema ratio), costringa i detenuti, in deroga alla normativa in vigore, a trascorrere ancora più tempo in cella. Lombardia. Allarme contagi nelle carceri: “Il virus si sta diffondendo in maniera preoccupante” di Ilaria Quattrone fanpage.it, 13 novembre 2020 L’aumento dei casi da Coronavirus in tutta Italia e in particolare in Lombardia, pone l’attenzione su un tema importante: il sovraffollamento delle carceri. In Regione, in particolare, i contagi si stanno diffondendo in maniera preoccupante: “Abbiamo raggiunto 156 persone positive, di cui cinque con necessità di ricorrere al ricovero ospedaliero e 510 persone detenute in regime di isolamento”, è scritto in una lettera indirizzata ai parlamentari lombardi. Per questo alcune associazioni e istituzioni chiedono misure per evitarne l’aumento. L’aumento dei casi da Coronavirus in Italia tiene l’intero Paese con il fiato sospeso. Cercare di contenerli è la priorità, come lo è provare a eliminare eventuali focolai. Già nella prima ondata, la lente di ingrandimento era puntata anche sulla situazione all’interno delle carceri. Le proteste, nate dalla sospensione delle visite dei familiari, avevano sollevato un punto fondamentale e ricorrente: il sovraffollamento. Elemento che anche, in questi giorni, torna prepotentemente. In Lombardia 156 persone positive in carcere e 510 detenuti in isolamento - Ieri il sindacato della polizia penitenziaria Osapp ha scritto una lettera al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Dino Petralia affermando: “In due settimane il contagio da Covid-19 nelle carceri è aumentato di circa il seicento per cento”. Una posizione a livello nazionale che trova conferme anche a livello regionale in Lombardia. Alcune associazioni e istituzioni, tra cui il Garante dei diritti delle persone private della libertà di Milano, Francesco Maisto, hanno firmato una lettera indirizzata ai parlamentari eletti in Lombardia in cui parlano di una situazione carceraria allarmante: “Nella sola Regione abbiamo raggiunto 156 persone positive, di cui cinque con necessità di ricorrere al ricovero ospedaliero e 510 persone detenute in regime di isolamento. Colpisce soprattutto la repentina progressione del numero dei contagiati: solo un mese fa i positivi erano sette”. La scorsa primavera il contagio era stato contenuto con degli interventi mirati: azioni contro il sovraffollamento e riduzione della possibilità di contatto con l’esterno. Oggi invece lo scenario appare, su tutte e due i fronti, drammatico. All’inizio del mese in Lombardia si contavano 7.751 detenuti a fronte di 6.156 posti disponibili, di cui 3.380 persone (su 2.925 posti effettivi) detenute solo a Milano: “Il contagio all’interno degli istituti - si legge nella lettera - si sta diffondendo in maniera assai preoccupante. Garantire posti adeguati per l’isolamento delle persone detenute positive al Covid o in quarantena precauzionale, considerato anche i due hub di San Vittore e Bollate, comporta l’aggravamento delle situazioni di sovraffollamento”. A Milano 81 agenti positivi al Covid - A questo si aggiunge inoltre il problema dei contatti con l’esterno che vanno dagli ingressi di nuove persone arrestate fino ai lavoratori: “A Milano si contano infatti 81 agenti positivi al Covid. Inoltre mentre sono state interrotte le visite ai familiari, non si interrompe il flusso di persone che arrivano a seguito di arresti o a seguito di ordini di carcerazione per condanne diventate definitive per reati commessi mesi o anni prima”. Proprio per questo motivo, gli enti e le organizzazioni chiedono ai parlamentari eletti in Lombardia delle modifiche al Decreto “Ristori” affinché vengano ampliate le misure adottate dal governo. Tra le richieste spiccano: mantenere fuori dagli istituti le persone con permessi di lavoro esterne perché considerate così idonee al reinserimento in società, concedere una liberazione anticipata speciale per chi ha un residuo di pena breve, sospendere le esecuzioni penali per i reati di minore gravità: “Da ultimo un intervento normativo che impone nella valutazione delle misure cautelari anche il rischio Covid così da consentire alla magistratura di evitare la misura cautelare più grave se non strettamente necessaria”. Biella. Una raccolta fondi perché i detenuti possano avere contatti telefonici con i famigliari tgvercelli.it, 13 novembre 2020 Un minuto vale oro. Chiamarsi accorcia le distanze è l’iniziativa delle Associazioni del Tavolo Carcere di Biella, in collaborazione con la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, nata con lo scopo che i detenuti possano continuare ad avere contatto con i loro famigliari. Nel corso del lockdown della scorsa primavera, una raccolta fondi interna alle Associazioni aveva garantito la disponibilità di oltre 9.000 minuti di telefonate per gli ospiti della Casa circondariale di Biella. Minuti importanti, fondamentali, per il benessere della popolazione reclusa, per i famigliari e per gli operatori che a vario titolo operano all’interno del sistema carcerario. A seguito dell’ultimo Dpcm, sono stati nuovamente sospesi i colloqui con i famigliari e l’urgenza di aiutare chi non riesce a coprire con i suoi risparmi l’acquisto di una Sim telefonica è tornata attuale. L’obiettivo è di aiutare chi in questo momento non riesce a coprire le spese telefoniche non potendo così avere contatti con l’esterno. È possibile donare all’iban di Caritas Biella indicando la causale Un minuto vale oro. Ecco gli estremi: Diocesi di Biella - Caritas diocesana IT50A0609022300000024263629. Per maggiori informazioni: 349.4705168 (Marina). Perugia. 4 detenuti lavoreranno con la task-force comunale nella lotta contro il degrado di Nicola Bossi perugiatoday.it, 13 novembre 2020 La buona notizia arriva dagli uffici comunali dopo il passaggio in commissione dell’ordine del giorno dell’opposizione. I detenuti del carcere di Capanne torneranno a servire la città di Perugia con piccoli lavori di manutenzione e anti-degrado della “cosa pubblica”. Dopo un periodo di blocco di questo importante progetto sociale e dopo varie richieste ufficiali - in ultimo: l’ordine del giorno delle minoranze “Protocollo d’Intesa tra Istituto Penitenziario e Comune di Perugia per l’impiego di detenuti per piccoli lavori di manutenzione e decoro urbano” - il Comune di Perugia ha confermato che 4 detenuti torneranno in servizio per la città e procedendo verso un cammino di reinserimento sociale e lavorativo. In commissione a fare il punto della situazione è stato il dirigente Fabio Zepparelli, il quale ha riferito che l’ente oggi è in grado di ridare il via al servizio dopo che è stata stipulata recentemente la convenzione con una nuova cooperativa che permettere di riattivare la collaborazione. Si è quindi solo in attesa di conoscere i nominativi dei candidati che saranno coinvolti nel servizio e che verranno assegnati allo svolgimento di piccole opere di manutenzione e decoro. I quattro detenuti saranno inseriti direttamente con gli operai del cantiere comunale. Ad oggi, da convenzione, i detenuti-operai possono occuparsi esclusivamente di piccole manutenzione e opere di degrado urbano, ma si sta lavorando a livello politico di ampliare le mansioni per dare a più persone questa possibilità di lavoro esterno. Piena collaborazione e sintonia sul progetto da parte della direttrice di Capanne Bernardina di Mario per la quale è fondamentale riprendere questo progetto dal momento che le esperienze del passato hanno sempre fatto registrare risultati apprezzabili per i detenuti, per la città e per il carcere. La cooperativa sociale Frontiera Lavoro in 20 anni di vita ha permesso a circa 360 detenuti di partecipare a progetti lavorativi, con risultati concreti anche in termini di assunzione finale”. Ascoli. Terminato il corso di cucina per detenuti, riconosciuti attestati Haccp farodiroma.it, 13 novembre 2020 Partecipazione ed interesse, hanno accomunato i detenuti che hanno aderito al corso di cucina dal titolo “Cuochi si nasce o si diventa”, nato dall’iniziativa del cappellano dell’istituto Don Alessio Cavezza svolto in collaborazione tra Caritas Diocesana di Ascoli Piceno con vivo interesse di Monsignore Giovanni D’Ercole, la Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno e la cooperativa sociale Onlus “Ama Aquilone”. Il corso ha preso inizio lo scorso 21 settembre, per terminare il 30 ottobre, dopo una durata complessiva di 72 ore (di cui 12 di teoria e 60 di pratica) svoltesi per tre giorni settimanali (lunedì, mercoledì e venerdì, dalle 13 alle 17). Dieci sono stati i detenuti partecipanti, a cui sono stati riconosciuti gli attestati: Haccp della validità di tre anni, sulla sicurezza dei lavoratori (rischio basso) della validità di cinque anni (come da D.lvo 81/2008) e di frequenza per il corso di cucina. Le lezioni sono state tenute da Umberto Petrini docente, formatore e consulente aziendale (che ha curato la parte teorica) e dagli chef Gianluca Perazzoli e Sabrina Tuzi (per le lezioni di pratica). “Anche durante la fase di emergenza sanitaria - commenta il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno - la Fondazione si impegna, insieme agli attori del territorio, per garantire la continuità di interventi formativi e di servizi per il lavoro, fondamentali per consentire a tutti i cittadini, ed in particolare a chi si trova in un momento di difficoltà, la costruzione del proprio percorso di vita”. Cosa diventano le democrazie in tempi di emergenza di Daniela Piana* Il Dubbio, 13 novembre 2020 Da settimane ormai l’attenzione dei media e dei decisori politici a tutti i livelli di responsabilità istituzionale è focalizzata drammaticamente sulla constatazione di un décalage di crescente importanza: quello che divarica l’evoluzione dei bisogni di beni e di servizi, soprattutto quelli che rispondono a una domanda di tutela della persona e di crescita individuale, e l’evoluzione (ovvero involuzione) delle capacità funzionali delle organizzazioni che sono deputate a fornire quei servizi, a produrre quei beni e ad assicurarne la disponibilità e la accessibilità in modo diffuso ed omogeneo sul territorio. La tensione fra aspettative e capacità, che per decenni è stata oggetto di illustri dissertazioni teoriche di filosofia sociale e politica, è diventata un grido che scuote le vite e le certezze. Se non possiamo dare per scontato che, dinnanzi a un bisogno di cura, un ospedale qualificato aprirà le porte, se non possiamo dare per scontato che dinnanzi ad una domanda di cultura e formazione la connessione dei pc da casa potrà senza indugio né incertezza darci accesso a fonti di sapere, se non possiamo dare per scontato che dinnanzi a una controversia saremo certamente in grado di avvalerci della migliore o del migliore professionista di servizi legali perché sapremo facilmente identificare nel ventaglio dell’offerta la migliore per il nostro specifico e singolare bisogno, allora l’emergenza sanitaria ci sta costringendo a vedere, un po’ con gli occhi che vedono il re nudo, la distanza che intercorre fra richiesta e risposta sul piano funzionale. È bene trattare della questione in termini di funzioni, perché sarebbe troppo facile e molto riduttivo assegnare a una individualità la responsabilità espiatoria di un disfunzionamento sistemico. Ma, mentre svolgiamo questo esercizio di presa di coscienza, preludio si auspica di una più efficace strategia di investimento sulle capacità - che sono poi infrastrutture, condizioni durature della crescita - occorre che si svolga anche un altro esercizio, di carattere scientifico e intellettuale, e istituzionale e civico, al contempo. I quattro aggettivi sono portatori di significato preciso. Si tratta infatti della comprensione profonda della nostra difficoltà concettuale a pensare e, conseguentemente, a governare le democrazie in tempi di emergenza. Vi sono infatti almeno tre profili che mostrano lo stesso e forse anche più grave scollamento che vediamo fra domanda e offerta di cui si dice nel contesto dei beni dei servizi. Il primo riguarda il come vengono fatte le regole. Le democrazie in fase di emergenza hanno, al di là delle differenze di ordinamento e di forma di governo, teso a convergere verso forme di normazione che passa in capo alla responsabilità politica dell’esecutivo. In Italia si è molto discusso del ruolo che hanno avuto i Dpcm e della deminutio del dibattito in aula, suscettibile di essere troppo lento, troppo poco focalizzato, insomma inefficace a dare una risposta tempestiva. Ma a quale domanda? La tempestivitià a cui la democrazia dell’emergenza risponde è quella di adottare la regola, non necessariamente di farla diventare comportamento regolare e diffuso. Tanto è vero che proprio per rafforzare la capacità di attuazione della normativa di emergenza e per assicurare che vi sia un radicamento nei comportamenti delle norme che vengono sancite attraverso la normativa, dinnanzi alla seconda ondata di pandemia si è dato ampio ruolo alle autorità locali, spostando l’asse di quella che tecnicamente si chiama accountability inter- istituzionale - ossia il controllo e la richiesta di rispondenza che lega governo e Parlamento, esecutivo e legislativo - da una dinamica di carattere nazionale e intra-branches a una dinamica nazionale multi- livello, senza che la conferenza Stato-Regioni risolva e assorba l’intero quid decidendi che spetta alle Regioni. In aggiunta a questa dinamica sono state evidenziati i margini di manovra, ossia le possibilità di decidere, dei sindaci. Insomma la democrazia dell’emergenza sposta l’asse della decisione e della responsabilità dall’orizzontale al verticale, anche se poi le cose si complicano nel momento in cui le vicende elettorali che interessano le autorità locali finiscono per avere riflessi anche sul piano nazionale. Non è il caso della sola Italia. Il secondo profilo che ci interessa è la trasformazione del bilanciamento fra libertà e controllo. Se infatti nella prima parte dell’anno la narrativa è stata centrata sulla necessità - emergenziale - di limitare le libertà mettendo nello spazio di autonomia dei cittadini la disponibilità di libero arbitrio di capire l’importanza di non uscire di attenersi alle misure di distanziamento e dunque di farsi i cittadini stessi attuatori volontari perché convinti dei Dpcm, adesso la questione è diventata sicuramente quella dei controlli. Su questo aspetto però le categorie di cui disponiamo sono ancora da affinare. Nelle democrazie i meccanismi di controllo passano sia dalle dinamiche fra poteri, sia ancora dalle prerogative di carattere formale che attengono agli organismi di controllo, per i rispettivi ambiti di azione. La virata improvvisa ed emergenziale verso il digitale ha implicato che il meccanismo del controllo passi anche e soprattutto attraverso la tecnologia, laddove con questo non si intende solo il fatto che sia facile tracciare i nostri comportamenti attraverso i dispositivi telematici che utilizziamo nella vita quotidiana - quante volte guardiamo le statistiche Oms o quante volte guardiamo il meteo - ma anche nel fatto che le stesse decisioni dei decisori - ad esempio nel contesto scientifico - sono basate in parte sulla elaborazione di dati il cui controllo è situato in zona completamente esterna a quella che può essere raggiungibile a un cittadino. Insomma i controlli in senso proprio ci sono, in senso funzionale qualcosa controlla qualcosa di altro. Ma la democrazia non chiede che vi sia il controllo tout court. Chiede che vi sia un controllo suscettibile, in ultima istanza, di lasciare al cittadino la possibilità attraverso vari strumenti fra cui quello del voto, quello del giudice, quello del dissenso, quello del voice, la possibilità di fare valere la sua propria volontà e la sua propria voce. E qui viene il terzo profilo che riguarda il fatto che le democrazie dell’emergenza tendono a convergere verso una forma anomala e inedita di tecnocrazia miscelata a una centratura sull’esecutivo. Insomma le decisioni devono essere prese in fretta, 2 o 3 giorni ci dicono gli esperti. Non c’è tempo. È questa la risorsa scarsa dell’emergenza. Lo sanno bene i medici, aspetta 1 minuto di troppo e avrai perduto una vita. La democrazia non è abituata a trattare la variabile tempo in questo modo. La finanza sì, la tecnologia anche, ma non la democrazia. Non il dibattito pubblico, che va nutrito, costruito, creato e mantenuto nel tempo, non “nonostante il tempo”. Fra le molte dimensioni dell’emergenza che si sta vivendo ve ne è una che stiamo trascurando. Che tipo di meccanismi istituzionali e che tipo di bilanciamenti fra poteri dobbiamo attivare o inventare perché la democrazia sia in grado di conservare la sua capacità di tutelare eguaglianze e libertà anche in fase di crisi? La lezione della reazione delle democrazie europee alla crisi economica è chiara. In quella congiuntura difficile non siamo stati capaci di evitare la creazione di nuove diseguaglianze totalmente disallineate rispetto ai criteri diffusi di giustizia sociale che sono, peraltro, diversamente declinati fra un paese e l’altro. Insomma, la forma di governo democratico chiama a raccolta le menti perché si facciano promotrici di idee e prassi capaci di traghettare l’emergenza verso una resilienza non solo difensiva - troppo legata all’” hic et nunc” - ma anche e soprattutto prospettica. Terzo Settore e pandemia: “Dopo tutto questo ad aiutare chi resta indietro non ci sarà nessuno” di Caterina Castaldi La Repubblica, 13 novembre 2020 Dalle Fondazioni bancarie milioni di aiuti. In Italia, 400 mila organizzazioni con 5 milioni di volontari: un mondo che pesa per 74 miliardi di euro, un ruolo centrale per la tenuta sociale del Paese. Nel post crisi economica del 2008 il mondo del volontariato giocò un ruolo fondamentale nella ripresa: oggi al contrario il rischio è che nel post pandemia molte realtà solidali scompaiano quasi del tutto. In Italia esistono circa 400 mila organizzazioni non profit che contano 5 milioni di volontari: un mondo che vale il 5% del Pil e conta 1,5 milioni di lavoratori. Nel 2019 questo universo ha pesato per 74 miliardi di euro, costituendo un peso economico importante ma soprattutto svolgendo un ruolo fondamentale per la tenuta sociale del Paese, nella tutela di fasce deboli come bambini e famiglie in stato di povertà, anziani e disabili. Ma con la pandemia i poveri, secondo le previsioni di FAO e Caritas, aumenteranno di circa 300 milioni nel mondo e saliranno a quota 6 milioni in Italia. Dal privato sociale una spinta per ripartire. E se alcuni segnali iniziano ad arrivare dalla politica, l’attenzione resta alta, perché già nel primo semestre del 2020 il 50% delle organizzazioni non profit hanno dovuto ridurre ed in diversi casi azzerare le proprie attività. In Toscana una ricerca condotta dal Cesvot, il centro per il volontariato regionale, fa emergere il preoccupante dato secondo il quale circa il 20% di organizzazioni è stata già costretta a tirare i remi in barca. Esistono realtà del privato sociale che tendono una mano, ma al tempo stesso denunciano che i loro sforzi non basteranno: “Sui territori in cui operiamo - spiega Giovanni Fosti, presidente di Fondazione Cariplo - siamo riusciti a sostenere con il bando Let’s go circa 400 organizzazioni delle 1.400 che vi hanno partecipato. Il rischio è che il tessuto di servizi e iniziative offerto dagli enti di Terzo Settore sul territorio venga distrutto dalla crisi. Soprattutto in un momento così difficile, non possiamo permetterci di perdere questi enti: sarebbe un danno enorme per le nostre comunità e soprattutto per chi in questo momento è più fragile”. Gli investimenti già effettuati. La Fondazione Cariplo per tutta la prima fase della pandemia ha innescato un motore solidale da 80 milioni di euro, che si rinnova anche per il 2021 con una pianificazione di investimenti da 140 milioni di euro per le attività filantropiche sui diversi settori di intervento, tra cui ambiente, arte, cultura, ricerca scientifica e servizi alla persona. Per provare ad allargare gli aiuti in quest’ultima fase del 2020, la Fondazione sta attivando ulteriori strumenti di supporto che verranno realizzati in partnership con realtà come Intesa San Paolo e Coperfidi e pubblicati sul sito della Fondazione Cariplo. Le storie di chi sta resistendo. Significativo il caso della Cooperativa sociale A.e.p.e.r., attiva nella provincia di Bergamo. Nel periodo Covid entrambi i centri diurni hanno operato a distanza assumendosi i costi degli operatori e delle strutture. “Durante il primo lockdown abbiamo provato a tenere aperti per un lungo periodo entrambi i centri psichiatrici, sia quello per adulti che quello per i minori, ma molto amaramente abbiamo dovuto gettare la spugna e chiudere quello per gli adulti - raccontano i responsabili della struttura. - Su tutto però pesa la mancanza di introiti, perché i rimborsi avvengono in base alle presenze, e inoltre molti operatori hanno lavorato su turni ridotti a causa della diminuzione dei pazienti. Abbiamo calcolato circa 120mila euro di perdite complessive.” Il laboratorio teatrale dei giovani detenuti al Beccaria. Non va meglio a Milano, cuore del laboratorio teatrale e rieducativo per minori detenuti del carcere Beccaria. Qui da sempre l’obiettivo dell’associazione Punto Zero è stato quello di rendere il teatro uno spazio realmente separato dallo spazio penale: i ragazzi detenuti entrano ed escono, incontrano gli studenti delle scuole e gli allievi del Teatro alla Scala, sono davvero inseriti nel territorio, e questo significa stare fuori dalla cella anche intere giornate e crescere umanamente e culturalmente. Ci sono voluti anni per ottenere le autorizzazioni. La stagione 2019-20 fino all’arrivo del Covid è stata un successo. Tre produzioni che in tre mesi hanno registrato il tutto esaurito: “Romeo & Juliet disaster”, l’”Antigone” di Sofocle e “Errare humanum est”: ben novemila spettatori. Avevano prenotazioni su prenotazioni, poi è arrivata la pandemia. Non solo hanno dovuto cancellare tutte le date, ma anche restituire le quote alle scuole che avevano già acquistato i biglietti. Le realtà d’assistenza in Piemonte. In Piemonte invece esistono mense, gruppi di spesa alimentare, corsi di formazione linguistica di base, housing sociale di emergenza e dormitori. A tenere in piedi questa enorme rete di assistenza è la Comunità di Sant’Egidio, una realtà senza la quale migliaia di persone sarebbero lasciate morire in strada. Durante il Covid la Comunità piemontese ha distribuito senza sosta mille cene a sera e garantito tutte le attività di sostegno e assistenza, investendo anche nella formazione per centinaia di famiglie e bambini che non possedevano adeguate capacità informatiche per poter seguire la didattica a distanza. Ma per fare ciò l’associazione ha eroso i 100mila euro del fondo di emergenza. Oggi queste realtà possono guardare al futuro con ottimismo grazie al sostegno che è arrivato dal mondo delle Fondazioni di origine bancaria, ma saranno centinaia quelle che non riusciranno a ripartire per dare assistenza a coloro che sono rimasti indietro. E stavolta ad aiutarli non ci sarà nessuno. Migranti. Il dovere civile di aiutare le Ong di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 13 novembre 2020 Sommersi dall’incessante informazione sulla quantità delle vittime di Covid-19, i morti nel mare su cui affaccia l’Italia con la Tunisia e la Libia, non fanno quasi più notizia; ancor meno sollevano emozione. Riesce ad attirare l’attenzione e procura commozione la morte di un bambino, un bebè di sei mesi, che, pur raccolto da una nave della Ong spagnola Open Arms, non è sopravvissuto al naufragio. Ma i morti sono tutti uguali. La tragedia che continua a verificarsi nel Mediterraneo, per l’affondamento delle imbarcazioni usate dai migranti per raggiungere le coste italiane, deve continuare a sollevare reazioni, perché misure siano prese per ridurne almeno le dimensioni. E perché coloro che soccorrono chi è in pericolo possano agire e trovare apprezzamento e sostegno. Ci sono gli organi dello Stato, naturalmente, la Guardia costiera, la Guardia di Finanza, che operano secondo la legge del mare anche se a tratti l’orientamento politico governativo sembra creare difficoltà, anziché risolverle. E ci sono benemerite Organizzazioni non governative, che pattugliano il mare con le loro navi di soccorso. Dovrebbe essere normale il coordinamento e la collaborazione, la fiducia e la stima reciproca. Così dovrebbe esser sempre, come è avvenuto nel caso recente, in cui un aereo di Frontex, l’agenzia europea di guardia delle frontiere e delle coste dell’Ue, ha avvistato il gommone in difficoltà e ne ha avvertito la nave della Ong, che è intervenuta. Ma le Ong sono da tempo oggetto di una martellante propaganda di denigrazione. Taxi del mare, sono state dette, complici di criminali scafisti libici, ecc. Ma mai le numerose indagini giudiziarie hanno trovato prove di simili accuse, mentre intanto le leggi (i c.d. decreti-sicurezza) e le pratiche burocratiche si accaniscono per rendere difficile o impossibile l’attività delle loro navi; anche multandole per l’opera di soccorso prestata e bloccandole a terra con sequestri ed esasperanti controlli. I decreti del precedente governo Conte, dopo più di un anno, sono ora in via di riforma. Ma ancora si mantengono multe che penalizzano l’opera umanitaria e si propongono norme che rendono difficili le operazioni in mare, sempre urgenti e pericolose. Si può sperare che in Parlamento prevalga umanità e buon senso e si respinga la tentazione di rincorrere la propaganda di chi degli immigrati ha fatto il nemico pubblico e delle Ong i loro correi. Intanto e comunque è necessaria un’opera di tutela delle Ong, anche a livello di opinione pubblica, per reagire alla diffamazione e per sollecitare invece l’appoggio. Per questo una serie di Ong che operano in mare ha ottenuto la solidarietà e la garanzia di un Comitato per il diritto al soccorso, promosso da Luigi Manconi. Il Manifesto con cui il Comitato si presenta, si apre richiamando il grido, urgente e incondizionato di “Un uomo in mare!”: il grido che da sempre mobilita tutte le forze al soccorso, senza domandarsi chi sia quell’uomo o quella donna in pericolo e perché si trovi in quella situazione. L’obbligo di soccorso corrisponde a un diritto che è basilare condizione della convivenza nella famiglia umana: è assoluto ed è reciproco. Si soccorre chi è in pericolo perché è in pericolo. Si ha fiducia che, a situazione inversa, si sarebbe soccorsi. Sono un obbligo e un diritto che nascono prima delle leggi che li prevedono e che ne puniscono l’omissione. Quell’obbligo si ripromette di promuovere il Comitato di garanzia. L’obbligo di soccorso sempre e comunque è questione distinta dal tema generale dei movimenti migratori e dei modi utili a regolarli. La storia dell’umanità e quella dell’Europa in particolare sono storie di migrazioni. Se si può riconoscere un diritto alla emigrazione, via dal proprio paese, nel diritto odierno non vi è un diritto a immigrare nel diverso Paese. Gli Stati hanno infatti il potere di regolare gli arrivi di chi non è un loro cittadino. Sono obbligati a ricevere le persone che rischiano nel proprio Paese di subire persecuzioni, tortura, trattamenti inumani, pena di morte. Ma al di là di simili casi sono possibili diverse politiche immigratorie, più meno aperte, più o meno sagge, più o meno lungimiranti. Qualunque ne sia il contenuto, il soccorso immediato di chi si trovi in pericolo deve però essere garantito. La garanzia si fonda certo su leggi che l’assicurino, ma in concreto si realizza per l’opera di chi in mare tende la mano a chi annaspa tra le onde. Questi meritano la protezione delle leggi, ma anche l’appoggio della gente, informata e consapevole di ciò che richiede la comune natura umana. Stati Uniti. Stop a carceri private e pena capitale. Biden l’ha promesso, ci riuscirà? di Valerio Fioravanti Il Riformista, 13 novembre 2020 Su molte proposte serve l’appoggio del Congresso. Biden ha promesso di porre fine alle carceri private, alla cauzione in contanti, alle pene minime obbligatorie, alla pena di morte, e di ridurre la popolazione carceraria di oltre la metà. Ecco il parere degli esperti su quello che Biden potrà effettivamente fare. Dopo “Black Lives Matter”, una riforma della polizia ha dominato il dibattito nel Paese. Ma Biden ha potere diretto solo sull’Fbi e altre agenzie di sicurezza “minori”. Gli Stati Uniti hanno circa 18.000 corpi di polizia “locale”, tutti con propri regolamenti. Biden non potrebbe fare altro che offrire finanziamenti a chi applichi nuovi metodi, o tagliarli a chi non lo facesse. Questa strategia “economica” ha funzionato in passato, ma oggi solo il 3% del budget del governo è rivolto alle forze dell’ordine locali, quindi imporre i cambiamenti con questo sistema non è facile. Biden potrebbe riattivare un sistema di monitoraggio sul comportamento scorretto da parte delle forze dell’ordine che Trump aveva bloccato. Avrebbe bisogno dell’appoggio del Congresso per fissare per legge uno standard nazionale per l’uso della forza. Al Congresso i Democratici sono in maggioranza alla Camera, ma il Senato è in bilico, e solo dopo un ballottaggio il 5 gennaio si saprà se l’attuale situazione si sbloccherà. Biden ha promesso di “ridurre la reclusione minorile quasi a zero”. Trump ha smantellato una serie di protezioni previste per i minori. Biden proporrà che i precedenti penali dei minori vengano cancellati, vieterà che i minori vengano detenuti in strutture per adulti, e contrasterà gli arresti per i cosiddetti “reati di status”: reati che non sarebbero tali se uno fosse un adulto, come il bere alcolici e l’assenza ingiustificata da scuola. Quanto alla pena di morte, Biden può abrogarla dal sistema federale (e solo da quello) se il Congresso vota una legge in tal senso. Trump aveva forzato la ripresa delle esecuzioni federali, ferme da 17 anni, facendone effettuare sette in pochi mesi. Un nuovo procuratore generale potrebbe fermarle. Biden potrebbe, alcuni dicono “dovrebbe”, spingersi oltre, e proclamare una moratoria sulle esecuzioni federali, cosa che Obama aveva più volte promesso, ma mai fatto. Una tale azione simbolica influenzerebbe i processi abolizionisti in fieri in diversi stati. Biden vorrebbe porre fine alla “cauzione in contanti”, che ha definito una “moderna prigione per debitori”. Il Presidente però ha poca influenza diretta sulla cauzione, dal momento che è usata raramente nel sistema federale. Potrebbe chiedere al Congresso di approvare leggi che offrano sovvenzioni agli stati per adottare alternative. La vicepresidente Harris aveva proposto una legge simile nel 2017. Biden vorrebbe eliminare le pene minime obbligatorie. A partire dal 1984, il Congresso ha approvato dozzine di leggi “emergenziali” che, impedendo ai giudici di applicare attenuanti, fissano “a prescindere” le pene per un’ampia gamma di reati. Decine di migliaia di persone stanno scontando condanne federali molto lunghe, anche all’ergastolo, per reati che la sensibilità di oggi ritiene “minori”. Biden e Harris hanno promesso di interrompere questo meccanismo, e di rivedere le condanne arretrate, soprattutto quelle per “reati di droga non violenti”. Biden e Harris sono contrari alle prigioni private. Trump però, poco prima della scadenza del suo mandato, ha rinnovato per 10 anni molti dei contratti con le ditte private, contratti che per Biden sarebbero difficili da rescindere. L’alternativa è “lasciare vuoti quei posti”. Anche i centri di detenzione per immigrati clandestini sono spesso affidati ai privati. Ridurre il numero di detenuti “normali” e “immigrati” è possibile ma, dicono gli esperti, potrebbe avere un “costo politico” rilevante. Più in generale, Biden si è impegnato a stanziare 20 miliardi di dollari da investire per privilegiare la prevenzione sulla repressione. L’idea è di concedere fondi solo agli stati che creino “comprovati ed efficaci” programmi sociali di prevenzione. Stati Uniti. Il Trump che resta tra di noi di Antonio Polito Corriere della Sera, 13 novembre 2020 Il trumpismo è un fenomeno della modernità: richiede una cura, non un esorcismo. Può essere sconfitto solo da politici che sappiano vedere i conflitti e lenire il dolore di chi li soffre. Si può supporre che l’uscita di scena di Trump (ammesso che lasci alla scadenza la Casa Bianca, e ammesso che non provi a rientrarci tra quattro anni) assesterà un duro colpo al “cattivismo”. È la forma con cui il populismo di destra si manifesta oggi un po’ ovunque. Più che a includere sotto un’unica grande tenda, come ha sempre tentato di fare la politica tradizionale, compresa quella conservatrice, il “cattivismo” preferisce costruire dei confini, delimitare dei recinti, per fidelizzare tutti coloro che ne sono dentro e galvanizzarli contro quelli che restano fuori. È la versione politica della “brand culture”: punta a sollecitare un senso di identità tribale (nel senso di tribù), è aggressivo, e trova nei “social” il suo habitat naturale. Ma se il trumpismo di Trump, inteso come stile della lotta politica, è stato battuto, non credo lo sia il trumpismo che è in noi, nelle nostre moderne società occidentali. Le ragioni che ne hanno segnato il successo non sono infatti svanite, e anzi sembrano destinate a diventare anche più attuali: si nutrono di conflitti profondi, che spaccheranno ancora a lungo le opinioni pubbliche su tre decisivi versanti. La prima linea di frattura è quella che potremmo definire pandemia/economia. Molto presente nella campagna elettorale americana, è anche al centro della battaglia che si sta svolgendo in queste settimane in Italia e in Europa. Mette gli uni contro gli altri coloro che ritengono più pericoloso per le loro vite il contagio virale e coloro che invece temono di più un destino di impoverimento. Da molti punti di vista - anche se con notevoli novità, pensate ai ragazzi del delivery o ai fattorini di Amazon - è il vecchio conflitto garantiti-non garantiti, tra chi ha il buono pasto e chi se lo deve guadagnare ogni giorno. Per quanto finora raffreddato dall’intervento magari goffo ma certo massiccio dello Stato (i bonus, i ristori, il blocco dei licenziamenti, la cassa integrazione quando arriva), questo conflitto è destinato a diventare rovente al momento in cui, inevitabilmente, la spesa pubblica straordinaria dovrà rientrare nei ranghi. Una recessione è l’ideale per alimentare conflitti del genere noi/loro, compreso quello tra nativi e arrivi, tra penultimi e ultimi. Il secondo crinale è il dualismo élite/masse. Gli esperti e le loro competenze avevano riconquistato rispetto con il sorgere della pandemia. Ma sono sempre più contestate con l’affermarsi della seconda ondata. Ciò che impropriamente chiamiamo “negazionismo” è la forma rozza e pericolosa di una sfiducia in realtà ben più diffusa: più le cose vanno male e meno si crede nei rimedi proposti e nelle politiche pubbliche adottate. Ne abbiamo avuto un agghiacciante segnale nell’inattesa ondata social contro i medici, che pure erano stati gli eroi della prima fase. Non è certo che questo scetticismo verrà messo a tacere dall’arrivo di un vaccino. È anzi possibile che vedremo riapparire i no-vax. La contestazione della competenza potrebbe assumere un connotato anche più politico, come del resto era già accaduto in passato da noi con i Cinque Stelle. Il populismo è tutt’altro che antipolitica. Si ritiene anzi più democratico del sistema dei partiti: “populus” e “demos” vogliono in fin dei conti dire la stessa cosa. È convinto di poter dare il governo davvero al popolo, togliendolo alle élite. Considera perciò ogni forma di “tecnicizzazione” del potere, come quella che stiamo vedendo in azione con cabine di regia e comitati di esperti, non un modo per renderlo più neutrale, ma più subdolo. Il terzo crinale è formato dalla coppia libertà/fraternità. A partire dal 1968, in Occidente la libertà è stata sempre più intesa come liberazione da ogni forma di dipendenza verso gli altri: famiglia, tradizione o comunità che sia. La retorica dei diritti ha sommerso quella dei doveri. La nuova sinistra libertaria da un lato, e la nuova destra liberista dall’altro, se ne sono fatte scudo, contribuendo a indebolire i legami che tenevano insieme le nostre società. La ribellione a questa modernità, animata dalla nostalgia per l’America di prima, è stata una delle forze trainanti del trumpismo (che, non dimentichiamolo, ha ottenuto il risultato record di 72 milioni di voti, ha sottratto seggi ai Democratici nel Congresso, e potrebbe mantenere la maggioranza al Senato), costruendo una coalizione popolare che ha ridefinito i caratteri del Grand Old Party repubblicano e che mantiene una sua potenzialità divisiva molto forte. Ci troviamo invece oggi, come nelle guerre, come nei cataclismi naturali, in una condizione che richiederebbe un pieno recupero del concetto di “interdipendenza” (ci salviamo tutti solo se ognuno fa la sua parte per evitare il contagio); e un ritorno al valore della solidarietà (gli anziani salvano il loro tempo di vita solo se i più giovani sacrificano il loro tempo libero). L’egoismo, molla del successo in tempi normali, confligge oggi con l’altruismo che i tempi eccezionali richiedono. E questo è forse il punto più delicato. Se la guerra alla pandemia prima e le conseguenze economiche del dopoguerra poi riusciranno infatti a frantumare la società in tanti gruppi e categorie contrapposte, gli anni Venti del Duemila potrebbero ripetere la storia peggiore del Novecento; magari sotto forma di farsa, ma non per questo meno pericolosa. Il trumpismo è un fenomeno della modernità. Richiede una cura, non un esorcismo. Può essere sconfitto solo da politici che sappiano vedere questi conflitti e lenire il dolore di chi li soffre, tendendo davvero una mano, non solo retoricamente, ai “forgotten men” che animano i trumpismi in tutto il mondo (“It’s time to heal”, ha detto Biden nel discorso di accettazione, il tempo di guarire). Obbliga a rispolverare il più negletto valore della triade della rivoluzione francese: la fraternità. Ma in un mondo di egoismi e di figli unici, chi saprà far risuonare il “fratelli tutti” di Francesco? Libia. Telefonata tra i pescatori sequestrati e le famiglie. “Stanno bene, aspettiamo il loro ritorno” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 13 novembre 2020 Il colloquio grazie all’impegno del ministro degli Esteri Di Maio e dell’ambasciata italiana a Tripoli. L’ultimo contatto risaliva al 16 settembre. Dopo la visita del ministro degli Esteri Luigi Di Maio negli Emirati Arabi Uniti, domenica e lunedì scorsi, arriva un primo segnale di apertura nella trattativa per la liberazione dei pescatori siciliani sequestrati in Libia. Ieri notte Di Maio ha incontrato i familiari dei pescatori a Roma e ha fatto organizzare dall’Unità di Crisi del Ministero una lunga telefonata degli 8 pescatori italiani con le famiglie, divise fra la capitale e Mazara del Vallo. Complessivamente i pescatori detenuti dalla milizia del generale Khalifa Haftar sono 18: assieme agli 8 italiani ci sono anche 6 tunisini, 2 senegalesi e 2 indonesiani, ma ieri la Farnesina è riuscita a mettere in collegamento solo gli italiani. Una fonte del ministero precisa che “il nostro governo si sta occupando di tutti i pescatori, perché tutti fanno parte degli equipaggi bloccati a Bengasi”. Durante le telefonate ci sono stati momenti di commozione: i pescatori e i loro parenti non si sentivano dal 16 settembre. Da allora la milizia di Haftar aveva interrotto ogni collegamento, evidentemente per mettere pressione psicologica sulle famiglie e per influenzare il governo italiano. “I nostri uomini ci hanno detto che stanno tutti bene, che stanno reggendo bene a questo periodo di detenzione: e noi abbiamo rassicurato loro che anche noi siamo in buone condizioni, in attesa del loro ritorno” dice a Repubblica una delle mogli dei pescatori. I parenti hanno anche incontrato direttamente per la seconda volta il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ha spiegato di aver chiesto sostegno a molti partner dell’Italia influenti su Haftar, ma non è sceso nei dettagli della trattativa. Il contatto diretto organizzato anche con triangolazione dell’ambasciata d’Italia a Tripoli è servito a far scendere anche la tensione altissima tra i parenti, che da settimane non avevano informazioni concrete dal governo se non rassicurazioni generiche e ripetitive da parte di funzionari di basso rango. “Questa lunga telefonata di 45 minuti, in cui ciascuno dei nostri pescatori ha potuto parlare, è stata un conforto importante per tutti noi”, ha detto Marco Marrone, armatore di uno dei due pescherecci sequestrati al largo di Bengasi. Il 1° settembre le barche erano impegnate nella pesca del gambero rosso in acque internazionali, rivendicate dai diversi governi libici. Da allora le navi e i marittimi sono detenuti a Bengasi e nonostante i contatti diretti del governo italiano, della Farnesina e dell’Aise, il generale libico ancora non ha accettato il rilascio. Da Bengasi erano giunte richieste per uno “scambio di prigionieri”: i 18 pescatori contro i 4 giovani cittadini libici detenuti in carcere in Sicilia perché condannati per l’affondamento di un barcone partito dalla Libia su cui sono morti 42 migranti africani. I 4 viaggiavano sulla barca e avrebbero contribuito a imprigionare i migranti sottocoperta, bloccando la possibilità di fuga nel momento in cui il barcone affondava. Ci sono molte controversie sul processo, ma la sentenza è definitiva e ogni intervento “politico” sarebbe difficile per il governo italiano. Iraq. Nassiriya 17 anni dopo: missioni di pace, un’idea generosa di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 13 novembre 2020 L’attentato costò la vita a 19 italiani: 12 carabinieri, 5 militari e 2 civili. Le vittime irachene furono 9. I feriti complessivi una sessantina. Da allora, e sino al suo termine, “Antica Babilonia” fu molto diversa da ciò per cui era stata progettata. Quel 12 novembre di 17 anni fa scoprimmo brutalmente che le “missioni di pace” potevano rivelarsi molto dolorose e che muoversi in uno scenario di guerra comportava essere pronti a difendersi, anche con le armi. La violenza che già insanguinava Baghdad inevitabilmente s’allargava alla zona italiana. Una lezione dura, grave. Costò la vita a 19 italiani: 12 carabinieri, 5 militari e 2 civili. Le vittime irachene furono 9. I feriti complessivi una sessantina. Da allora, e sino al suo termine tre anni dopo, “Antica Babilonia” fu molto diversa da ciò per cui era stata progettata. Tra i danni gravi subiti dagli iracheni fu la fine dell’addestramento italiano del loro corpo di polizia per la difesa dei siti archeologici. Triste, ma inevitabile. Pochi mesi dopo le rive dell’Eufrate assistettero alla “battaglia dei ponti”, vero battesimo del fuoco per i fanti italiani. Si doveva fare i conti con Al Qaeda e le milizie sciite. Questo fu Nassiriya: uno scontro violento e sanguinoso delle forze armate e l’opinione pubblica di un importante Paese europeo con la realtà dei conflitti contemporanei, dove sempre più gli eserciti regolari sono chiamati a confrontarsi con movimenti di guerriglia che mutano continuamente, si confondono con le popolazioni del territorio, sono in lotta tra loro e dispongono in molti casi di schiere di fanatici felici di morire da kamikaze pur di uccidere il nemico. La mossa italiana di partecipare alla ricostruzione dell’Iraq dopo l’invasione americana del 2003 era parte integrante della tradizione cresciuta, specie nelle democrazie, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Alla radice stava e resta tutt’ora l’idea generosa per cui gli eserciti possono contribuire a pacificare il Pianeta, intervenendo con uomini e mezzi nelle aree di crisi. Non più strumenti d’aggressione, bensì di cooperazione. La nascita di un corpo professionale più ridotto di quello di leva, ma meglio equipaggiato, addestrato anche per compiti di aiuto civile e fortemente motivato, ha favorito tali scelte. Dal 2003 le missioni sono ulteriormente aumentate: oggi contano circa 8.600 effettivi distribuiti in una quarantina di teatri. Le più recenti riguardano il Sahel, dove la crescita di Isis e le crisi ambientali rappresentano pericoli esistenziali per l’intera Africa. Però, la lezione di Nassiriya non può essere dimenticata. Le polemiche interminabili e i processi che ne seguirono stanno a testimoniarlo. Ha insegnato che le missioni di pace sono non solo possibili, ma auspicabili. E tuttavia devono assolutamente confrontarsi con le realtà politiche e soprattutto militari della regione dove si opera. L’autodifesa del contingente deve restare prioritaria. Turchia. Gli avvocati di Roma e Milano ricordano il sacrificio di Ebru di Victor Castaldi Il Dubbio, 13 novembre 2020 Il convegno per la collega turca morta in prigione dopo lo sciopero della fame. Ebru Timkit è scomparsa lo scorso 2 settembre in Turchia nel carcere di massima sicurezza di Sliviri, il più grande e il più famigerato d’Europa. Una storia triste ed emblematica sullo stato pietoso in cui oggi versano la società e la democrazia turca. L’avvocata 42enne di origine curda è morta di stenti, dopo un lunghissimo sciopero della fame che l’ha sfibrata nel fisico ma mai nella convinzione delle proprie idee di giustizia ed equità e di difesa dello Stato di diritto. Era stata condannata da un tribunale di Istanbul, sulla base di testimonianze anonime, a 13 anni e mezzo di reclusione per favoreggiamento del terrorismo, un’accusa vaga quanto letale che, dal fallito golpe del luglio 2016 il regime di Recep Tayyip Erdogan affibbia a chiunque si mostri pubblicamente critico nei confronti delle sue politiche repressive. Giornalisti, docenti, semplici oppositori politici e avvocati: sono in migliaia le persone finite nel tritacarne della macchina giudiziaria erdoganiana senza avere diritto a un giusto processo, e nonostante le proteste della comunità internazionale, il “sultano” del Bosforo non sembra minimamente intenzionato a fermare la stagione delle grandi purghe. Oggi a Milano dalle ore 10,30 alle 13.00 l’Ordine degli avvocati del capoluogo lombardo in collaborazione con l’ordine di Roma e con l’associazione giuristi Italiastatodidiritto, ricorderà il sacrificio di Ebru Timkit e di tutti gli avvocati in pericolo del mondo nel convegno “La difesa dei diritti umani non si ferma”. Partecipano all’iniziativa Vinicio Nardo, Presidente Ordine Avvocati Milano, Antonino Galletti, Presidente Ordine Avvocati Roma, Mehmet Durakoglu Presidente Ordine Avvocati Istanbul, Maria Eugènia Gay Presidente Ordine Avvocati Barcellona, Emma Bonino senatrice, Giuliano Pisapia europarlamentare, Francesco Caia responsabile commissione diritti umani del Consiglio nazionale forense, Dino Rinoldi ordinario Università Cattolica, Ahmet Insel economista e politologo turco, Masih Alinejad giornalista iraniana e Mariano Giustino storico corrispondente Turchia di Radio Radicale. L’evento verrà trasmesso in diretta Facebook sulla pagina dell’Ordine degli Avvocati di Milano. Turchia. Peggiorano le condizioni della prigioniera curda Zeynab Jalalian di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 13 novembre 2020 Non dico che l’abbiano creato e fatto circolare appositamente, ma sicuramente il Covid-19 si sta rivelando alquanto funzionale al potere (comunque inteso, sia economico che politico). In particolare nell’eliminazione fisica dei soggetti “non produttivi” (stando ovviamente ai parametri del capitalismo: anziani, poveri, marginali, malati, senza tetto…), delle minoranze comunque scomode (nativi del continente americano, sia a nord - vedi nelle riserve degli Usa - sia a sud- vedi in Amazzonia) e ovviamente dei prigionieri politici. Emblematico che in Turchia siano stati rimessi in libertà (anche se provvisoria) fior fiore di delinquenti mentre rimanevano in galera i militanti curdi e della sinistra rivoluzionaria turca. Ovviamente - o almeno si presume - la stessa politica viene adottata da altri regimi. Della prigioniera politica curda Zeynab Jalalian, detenuta in Iran, si era già parlato nell’estate scorsa all’epoca del suo sciopero della fame per essere riportata nella prigione di Khoy. Oggi il suo caso torna alla ribalta in quanto, malata appunto di Covid19, il 10 ottobre è stata trasferita dalla sezione femminile della prigione di Kermashan alla prigione di Yazd. In soli sei mesi è questo il quarto suo trasferimento. Arrestata nel 2008, era stata condannata a morte nel gennaio 2009 (due anni dopo la pena venne mutata in ergastolo) per presunta appartenenza al Pjak (Partiya Jiyana Azad a Kurdistane - Partito per una vita libera in Kurdistan). La notizia dell’ennesimo trasferimento ha potuto darla ai familiari nel corso di una brevissima telefonata - due minuti - durante la quale ha anche informato il padre di essere stata nuovamente minacciata di torture. Prima di Kermanshah, per circa tre mesi era stata rinchiusa in un carcere a oltre mille chilometri di distanza da dove vivono i suoi familiari. Con tutte le immaginabili difficoltà per poterla visitare (uno scenario tristemente noto ai familiari dei prigionieri politici turchi così come a quelli baschi). Prima ancora, fino all’aprile 2020, si trovava nella prigione di Qarchak a Varamin, non lontano da Teheran e a Khoy. Nel corso di tali trasferimenti era stata contagiata dal virus e - a causa delle catene - aveva riportato ferite ai polsi e alle caviglie. Ferite che - non essendo mai state curate - le causano acute sofferenze. Le attuali condizioni di salute di Zeynab Jalalian sono tali da suscitare preoccupazione. Soffre di gravi infezioni, di problemi renali e sta perdendo la vista. Si tratta dunque di un soggetto a rischio in quanto il Covid19 risulta particolarmente pericoloso per la vita delle persone già colpite da altre patologie. Tuttavia le autorità carcerarie iraniane le rifiutano qualsiasi visita specialistica così come di venir curata fuori dal carcere. In compenso, come ad altri prigionieri politici, le è stata offerta la possibilità di un pubblico pentimento (alla televisione). In cambio, forse, di cure più adeguate. Un metodo che inevitabilmente ricorda quelli della Inquisizione. Le numerose campagne a sostegno di Zeynab, purtroppo, finora non sembrano aver portato a nessun miglioramento della sua situazione. Messico. Cancún, la polizia spara sulla protesta delle donne di Alessandro Bricco Il Manifesto, 13 novembre 2020 La sera dell’8 novembre i resti di Bianca Alexis sono stati ritrovati in una busta della spazzatura. Aveva 20 anni. Qualche giorno prima una bambina di 14 anni è stata violentata, una ragazza è stata trovata assassinata dentro a un edificio abbandonato e dieci donne sono riuscite a scappare mentre due uomini incappucciati cercavano di farle salire a forza su un camion. È il resoconto dell’ultima settimana a Cancún, paradiso del turismo internazionale nello stato messicano di Quintana Roo. Dove sono state uccise 62 donne dall’inizio dell’anno, mentre le vittime in tutta la federazione messicana, dove si calcola che circa 10 donne al giorno rimangono vittime di femminicidio, sono 2.854. Il 9 novembre, 500 persone si sono ritrovate nella strada principale di Cancún, e si sono dirette verso il palazzo municipale al grido di “Non una di Meno”, “Giustizia per Alexis” e “Quintana Roo femminicida”. A un certo punto i manifestanti assembrati intorno al palazzo hanno sentito gridare da uno dei balconi pesanti insulti indirizzati alle donne e 50 agenti della polizia sono apparsi ai lati dell’edificio in assetto anti sommossa. Durante la prima carica gli agenti hanno cominciato a sparare in aria e ad altezza uomo con pistole e fucili mitragliatori. Mentre la maggior parte dei manifestanti fuggiva in preda allo shock, numerose persone hanno cominciato a trasmettere attraverso le reti sociali quello che stava accadendo. Nel frattempo il governatore dello Stato, la sindaca e il direttore della polizia statale si rimbalzavano la responsabilità, negando di aver dato alcun ordine per reprimere la manifestazione. Condannavano il vandalismo delle manifestanti e allo stesso tempo promettevano indagini interne. La Sindaca Maria Lazama, di Morena, il partito del presidente López Obrador (Amlo), si è spinta oltre, dicendo che non avrebbe mai potuto ordinare di reprimere una manifestazione a favore dei diritti delle donne che, a livello personale, appoggia completamente. A quel punto in molti attraverso le reti sociali hanno cominciato a chiedersi: “Chi comanda in Quintan Roo?”. Alle 22:00 la Guardia Nacional, ha formato un cordone difensivo insieme alla polizia municipale intorno all’edificio comunale. A conclusione di una giornata durante la quale una giornalista e un giornalista sono rimasti feriti da colpi di arma da fuoco mentre altri due sono stati pestati mentre provavano a difendere la loro attrezzatura dalla polizia. Sono state arrestate 8 persone e i feriti tra i manifestanti non si contano. La prima versione della polizia affermava che i colpi erano a salve e che nessuno era stato arrestato, ma la smentita è arrivata dalle foto dei bossoli e dalla Commissione per i diritti umani (Cndh) che si trovava sul posto, oltre che dalle testimonianze dei presenti e delle vittime che hanno sporto denuncia presso la Fiscalía General del Estado. La mattina successiva il presidente Amlo ha annunciato che quel tipo di repressione appartiene ai governi passati e ha promesso un’indagine. Qualche ora dopo il capo della polizia di Cancún, Eduardo Santamaria, è stato incriminato e sollevato dal suo incarico. Al tempo stesso sono sparite la maggior parte delle foto e dei video che documentavano l’accaduto.