Mauro Palma: “Necessario aumentare telefonate e videochiamate” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 novembre 2020 L’audizione alla Camera del Garante nazionale delle persone private della libertà. “La risposta all’uso illecito di strumenti di comunicazione va cercata innanzitutto nell’estensione e nella concreta praticabilità dell’uso lecito, prendendo le mosse da quanto sperimentato nella prima fase della pandemia con l’ampliamento del numero dei colloqui telefonici e l’adozione di strumenti per le videochiamate”. È uno dei pareri del Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, audito la scorsa settimana dalla Prima Commissione Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni della Camera dei Deputati. È stato sentito a proposito delle misure introdotte nel nuovo decreto sicurezza approvato dal Consiglio dei ministri. Ricordiamo che sostanzialmente sono tre le novità introdotte: diventa reato introdurre i telefonini in carcere, c’è l’aggravante per quanto riguarda il 41 bis e nello stesso tempo si valorizza la figura del Garante nazionale delle persone private della libertà dandogli potere di delega. Inoltre l’attuale collegio presieduto da Mauro Palma viene prorogato per un periodo di due anni oltre la scadenza naturale. Per quanto riguarda l’introduzione nel codice penale di una apposita fattispecie di reato destinata a reprimere l’accesso indebito a strumenti di comunicazione con l’esterno da parte della popolazione detenuta, Mauro Palma ha voluto sottolineare che ciò è “conseguenza, chiaramente, del fenomeno - registrato in modo crescente negli ultimi tempi - dell’introduzione abusiva di apparecchi telefonici mobili negli istituti penitenziari. È, questo, un caso esemplare del ricorso allo strumento della repressione penale per far fronte a situazioni e a bisogni che devono trovare prevenzione e risposte in altre sedi”. Il Garante ha tenuto a precisare che “prevenzioni e risposte vanno insieme: intanto si può ritenere abusivo, indebito o illecito un comportamento, in quanto esso si pone con caratteristica di devianza rispetto a regole e opportunità predisposte per soddisfare esigenze primarie”. E solo a quel punto, secondo Mauro Palma “sarà debitamente distinta la comunicazione lecita, di cui si ha diritto, da quella finalizzata a ristabilire contatti o attività criminali e opportunamente sanzionata quest’ultima”. Il Garante chiede che prima di rendere reato l’introduzione dei cellulari si provveda compiutamente ad assicurare alla popolazione detenuta gli strumenti e le modalità di comunicazione necessarie alle lecite esigenze di contatto con i riferimenti esterni. Per quanto riguarda l’impianto generale sulle misure penitenziarie introdotte al decreto sicurezza, Mauro Palma però è stato chiaro durante l’audizione in Prima Commissione. Ha espresso perplessità in ordine al ricorso all’ampliamento dello strumento penale, realizzato attraverso l’introduzione nel corpo del codice penale di nuove fattispecie di reato e l’inasprimento dell’apparato sanzionatorio di fattispecie già esistenti, perché è una “risposta a criticità o a eventi che, quantunque rilevanti, risentono di forme di reattività emotiva a supposto allarme della pubblica opinione”. Giustizia è diritto, non burocrazia di Vittorio Manes e Luca Marafioti Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2020 La dialettica assicurata dalla presenza fisica in udienza dovrebbe rappresentare la regola da promuovere su istanza di parte. Si continua a trattare come “emergenza” un problema che si va, purtroppo, procrastinando e stabilizzando in un orizzonte temporale che non sembra consentire - nostro malgrado - previsioni ragionevoli nel breve periodo; e sull’altare dell’emergenza - e dei problemi di salute individuale e collettiva che, sia chiaro, tutti considerano prioritari - si risponde sacrificando garanzie e diritti. Così, quanto alla giustizia penale, si tengono lontani dalle udienze i partecipanti necessari al processo di appello, derogando alla stessa presenza fisica dei componenti del collegio giudicante, salvo espressa richiesta delle parti in senso contrario; e si reitera la sospensione della prescrizione per i processi in corso, e così pure la sospensione dei termini di custodia cautelare. Quanto alla prima scelta, può senz’altro comprendersi la scelta di limitare le occasioni di presenza fisica nelle aule dei tribunali: è una esigenza comune a magistrati, avvocati, parti private, testimoni e consulenti, personale. Ma la possibilità di svolgere udienze e camere di consiglio da remoto, soprattutto quelle affidate al giudice collegiale, rischia di mortificare una giurisdizione di fondamentale importanza come la Corte d’Appello, che rimane una giurisdizione “critica” anche e soprattutto in ordine al merito dei fatti contestati, cosicché un contraddittorio “con partecipazione” e una effettiva collegialità del giudicante dovrebbero essere requisiti consustanziali. Pertanto, la dialettica assicurata dalla presenza fisica dovrebbe rappresentare la regola, e non l’eccezione, da promuovere su istanza di parte. Del resto, in camere di consiglio non partecipate, con modalità cartolare e “da remoto” verrà assicurato (e potrà essere controllato dalla difesa) che ciascun componente del collegio abbia piena conoscenza o, addirittura, copia del fascicolo processuale? E la segretezza della camera di consiglio può essere pienamente garantita dalle piattaforme informatiche? L’impressione è che, passo dopo passo, si vadano stravolgendo e cancellando - a forza di eccezioni che tendono fatalmente a diventare regola - tutte le note caratterizzanti del processo accusatorio: prima oralità e immediatezza, poi concentrazione in una unità di tempo ragionevole, ed ora anche fisicità e collegialità, che qui cedono il passo ad una incontrollabile “monocraticità di fatto” della giurisdizione in appello. In filigrana, guadagna ulteriore spazio - sulla breccia dell’emergenza - una concezione prevalentemente burocratica della giustizia penale, in termini di mero smaltimento del residuo carico dei fascicoli, sulla scia della logica dei progressivi interventi compiuti in tema di Cassazione, oggi estesa d’emblée e senza alcuna analogia effettiva al grado d’Appello. Quanto al secondo profilo, la sospensione della prescrizione con effetti retroattivi - già disposta una prima volta nel marzo scorso, ed ora riproposta - è attualmente al vaglio della Corte costituzionale, e la questione - a nostro sommesso avviso - è seria e grave, tanto da aver sollecitato l’intervento dell’Unione delle Camere penali a titolo di amicus curiae. Questa circostanza avrebbe già dovuto suggerire cautela nel reiterare una modifica sospettata - dai diversi giudici che hanno prospettato la questione alla Consulta - di incostituzionalità. Peraltro, la nuova modifica rende ancor più urgente e delicato il vaglio della Corte: perché esclude anche che possa essere considerata eccezionalmente derogatoria una disposizione normativa che, di fatto, è stata già reiterata. In altri termini, se già a fronte della prima sospensione, adottata nel marzo scorso, vi sono buone ragioni per dubitare dell’incostituzionalità - visto che diritti e garanzie fondamentali, in uno stato di diritto, nascono proprio per “resistere” a deroghe anche nei contesti di emergenza - ora vi sono ragioni per escludere che quella deroga abbia natura eccezionale, e neppure quella prima argomentazione - per fragile che fosse - potrà essere invocata. Resterà dunque da spiegare perché, tra le molte opzioni ipotizzabili, lo Stato scelga di impiegare quella che - dilatando i tempi della prescrizione e quindi della sofferenza processuale - va a scapito dell’indagato; come pure, cosa ancor più grave, quella che protrae il tempo in cui un soggetto può restare in custodia cautelare sacrificandone la libertà personale. In entrambi i casi la scelta di campo dovrebbe essere a favore della presunzione di innocenza, che recita in dubio pro reo: e in entrambi i casi, invece, si adottano scelte a scapito. del singolo imputato, sulle cui spalle ricadrà ora anche l’impedimento di un testimone o di un consulente - persino se testi dell’accusa -, quando l’assenza è giustificata dalle restrizioni ai movimenti imposte dalle misure introdotte per l’emergenza Covid. “Si vieti ai pm di presentare l’imputato come già colpevole”. Norma bocciata di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 12 novembre 2020 Enrico Costa (Azione): il mio emendamento dichiarato inammissibile alla Camera. Un emendamento proposto in commissione Giustizia alla Camera. Contenuto: recepire la direttiva Ue in materia di presunzione d’innocenza, che ogni autorità, magistrati compresi, deve rispettare anche nelle dichiarazioni pubbliche. Lo aveva proposto Enrico Costa, fino a pochi mesi fa colonna forzista, che ora è con Azione. È stato respinto. Nessuno stop alla gogna mediatica. La commissione Giustizia della Camera ha respinto ieri come inammissibile un emendamento che l’avrebbe vietata, per legge, almeno quando a metterla in azione è un’autorità dello Stato, magistratura compresa, con dichiarazioni non rispettose della presunzione di non colpevolezza. A proporre la norma che avrebbe semplicemente conferito concretezza anche mediatica a un articoletto della nostra Costituzione, il 27, era stato Enrico Costa. Il deputato ora schierato sotto le insegne di Azione e vera spina nel fianco della maggioranza sulle questioni legate alla giustizia. L’emendamento era stato proposto da Costa nell’ambito dell’esame sulle “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2019-2020”. Puntava a recepire nell’ordinamento italiano la direttiva sulla “presunzione d’innocenza”. La disposizione, approvata a Bruxelles nel 2016, stabilisce che gli Stati membri debbano adottare “le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”. Il presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, il deputato del Movimento 5 Stelle Mario Perantoni, ha dichiarato, appunto, inammissibile l’emendamento. “Ogni pretesto è buono per far imperversare la logica giustizialista che anima questa maggioranza, ha commentato a caldo l’ex viceministro della Giustizia. “Come Azione - ha aggiunto Costa - avevano presentato un emendamento alla legge europea per adeguare finalmente il nostro sistema penale ai contenuti, molto chiari, della direttiva 343 del 2016 sulla presunzione d’innocenza. Qualunque osservatore con un minimo di onestà intellettuale potrà notare come questi principi siano, nel nostro Paese, continuamente disattesi. Anzi, basta una dichiarazione pubblica, una conferenza stampa, un comunicato delle Procure per marchiare a fuoco un indagato, che anche ove fosse assolto, anni dopo, visti i tempi dei processi, non può recuperare la propria immagine”, ha proseguito Costa. “Avremmo avuto l’occasione per intervenire, ma ancora una volta questa maggioranza si è sottratta dall’applicare principi di civiltà giuridica”, ha quindi concluso Costa. La “fiducia nella magistratura” che mortifica il diritto di Iuri Maria Prado Il Riformista, 12 novembre 2020 Premessa (un po’ stracca ma ancora necessaria): quando diciamo “magistratura” non ci riferiamo all’insieme dei magistrati, ma alla struttura corporativa e all’irresponsabilità castale che ne protegge il potere. E fatta questa precisazione diciamo che non se ne può più di ascoltare il politico di turno che, lambito da un’indagine, dichiara di avere “fiducia nella magistratura”. Non nella magistratura, infatti, ma nel diritto bisognerebbe avere fiducia: perché avere fiducia nel diritto è l’unico strumento per tentare di difendersi dalla prepotenza giudiziaria. Si scambia il rispetto della legge con la devozione per chi ha il potere di applicarla. Andrebbe invece manifestata fiducia verso lo Stato di diritto. La fiducia nella magistratura, con l’arroganza di cui essa si carica grazie a quel tributo fideistico, è causa della mortificazione del diritto cui quotidianamente si assiste. Alla luce di questa verità, evidente agli occhi di chiunque li tenga aperti sullo stato della nostra amministrazione della giustizia, non si capisce per quale motivo il politico ghermito dal tentacolo giudiziario senta la necessità di reiterare quella manifestazione fiduciaria: come se questo certificasse sensibilità istituzionale ed equilibrio civile anziché risolversi - perché di quest’altro si tratta - in una specie di goffo inchino adulatorio. Giusto l’altro giorno l’ha fatto il senatore Matteo Renzi (ma è solo uno dei tanti), appunto ripetendo che lui “ha fiducia nella magistratura” che pure ha sottoposto lui e il suo partito a qualche attenzione forse un po’ orientata. Bisognerebbe smetterla con questa cantilena idolatrica non solo perché lo svelato immondezzaio della magistratura corporata la rende inascoltabile: è proprio in linea di principio che non va bene, perché a nessuno verrebbe in mente di professare fiducia nell’editoria, nel notariato, nell’agricoltura o nella ristorazione slow food, tutte cose buone se chi le fa è bravo, non perché c’è qualcuno incaricato di farle e pace se le fa male. E il guaio è che la dichiarazione di fiducia nella magistratura cui si lasciano andare questi politici non rinvia all’ovvia necessità di riconoscere che c’è un sistema costituzionale posto a disciplinare i poteri di chi accusa e giudica (ci mancherebbe che fosse diversamente): rinvia al presunto obbligo di omaggiare “questa” magistratura e i suoi capibastone, “questa” magistratura e la pompa dei suoi modi, “questa” magistratura e la sua impassibilità reazionaria, “questa” magistratura e il suo giustapporsi eversivo. Una conseguenza inevitabile se si scambia il rispetto della legge con la devozione sacrale per chi ha il potere di applicarla. Dal politico - ma da chiunque sottoposto alle cure di giustizia sarebbe bene che venisse un atteggiamento diverso, e cioè una manifestazione di fiducia nei confronti del diritto e dello Stato di diritto: con la speranza, con la richiesta, con la pretesa che essi si affermino esattamente contro un certo modo di intendere la giustizia e di amministrarla. Che poi anche la fiducia in quest’altra faccenda - il diritto - sia messa a durissima prova è un altro discorso: ma è la sola cosa che rimane. E si dimostra fedeltà alla Repubblica, e al poco di democrazia che ancora la innerva, quando si rimane in piedi nell’appello al diritto: non quando ci si abbassa per baciare la pantofola del potere togato. “Manette d’oro”: da Giletti a Pedullà è corsa al podio di Tiziana Maiolo Il Riformista, 12 novembre 2020 In pole position il direttore dalla “Notizia”: per difendere Bonafede dagli attacchi di “Non è l’Arena” ha sbandierato dati da cui risulterebbe che l’Italia ha scarcerato meno di tutti gli altri in Europa per il Covid. Se non ci fosse l’epidemia da Covid-19, se il procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi non avesse messo in guardia, “arrestate di meno”, Giovanni Castellini e gli altri dirigenti dei vertici di Autostrade indagati dalla procura di Genova non sarebbero ai domiciliari ma in qualche prigione magari a trascorrere il Natale. Per fortuna che ci sono i magistrati, vien da dire, per una volta. I quali, a quanto pare, per lo meno la gip di Genova e il procuratore generale, paiono non partecipare al concorso “manette d’oro” che sta pervadendo il mondo mediatico. Si gioca con i numeri, addirittura, facendo a gara a chi è in grado di dimostrare che in Italia si arresta di più rispetto agli altri Paesi, o al contrario che il ministero della giustizia è un colabrodo perché lascia scappare da tutte le parti delinquenti di ogni risma. In realtà, mettendo insieme i primi dati del Dap con gli ultimi resi noti dal garante delle carceri Mauro Palma, la situazione è molto chiara, e non incoraggiante per chi abbia a cuore la salute di tutti. Se a fronte dei 61.230 detenuti del febbraio di quest’anno, in seguito al primo decreto Bonafede (e a un’oggettiva diminuzione dei reati durante il lockdown) a giugno erano scesi a 52.800, siamo poi risaliti a 54.800 alla fine dello scorso ottobre. Non è un andamento solo italiano. Come dimostra uno studio dell’università di Losanna per il Consiglio d’Europa che ha rilevato il fenomeno, che è più e meno omogeneo in tutti i Paesi, con la sola eccezione della Svezia, che non ha scarcerato per niente. Ma stiamo parlando di un Paese in cui negli anni scorsi sono state addirittura chiuse alcune prigioni per mancanza di detenuti. Complessivamente la curva delle percentuali delle scarcerazioni ha avuto una significativa flessione tra gennaio e giugno, poi una crescita durante l’estate, mentre l’autunno vola verso l’alto, anche se ancora non siamo ai livelli dei tempi ante-covid. Il che dovrebbe preoccuparci tutti quanti. Perché è evidente che più persone saranno rinchiuse in spazi ristretti in cui il distanziamento è impossibile e non si può vivere nelle ventiquattrore con la mascherina, più è alto il rischio del contagio. Pure il concorso “manette d’oro” non ha tregua. Il solito Pedullà che non ha pace da quando ha litigato con Giletti, si presenta oggi in pole position per salire sul podio. Ha letto anche lui lo studio commissionato dal Consiglio d’Europa (o forse ne ha solo sentito parlare), ma non si è preoccupato, anzi esulta. Hai visto caro Giletti, stuzzica l’ex amico, hai visto che Bonafede è stato il più forcaiolo, il più manettaro, perché ha arrestato di più e scarcerato meno di tutti gli altri Paesi europei? Poi esibisce numeri che noi del Riformista non abbiamo trovato (sicuramente per nostra distrazione) da cui risulterebbe che con lo “svuota-carceri” di Bonafede “siamo in fondo alla lista” dei mascalzoni amici dei mafiosi del resto d’Europa che hanno mandato a casa qualche detenuto in più. Così, senza vergogna, la gara per salire sul podio del concorso “manette d’oro” continua. E non occorre aspettare la domenica sera per assistere al ring quotidiano che vede impegnati il conduttore di “Non è l’arena” e il direttore di “La Notizia”. Massimo Giletti aveva per primo peritato il podio. Si era impegnato con tutte le sue forze per settimane e settimane per far rientrare in carcere malati e moribondi che avevano ottenuto una sospensione della pena a causa di una diffusione nelle carceri dell’epidemia da Covid-19, rischiosissima per chi era già affetto da gravi patologie. Ci era riuscito, in nome “dell’antimafia” di cui ha indossato i panni, come troppo spesso succede a chi non ne ha titolo. A partire dai pubblici ministeri il cui ruolo consiste nell’indagare sulle notizie di reato e non nel mettere l’elmetto di fronte ai fenomeni criminali. Era riuscito persino a far licenziare il capo delle carceri Basentini e a mettere il governo contro i magistrati. Ci erano andati di mezzo giudici e tribunali di sorveglianza, messi alla gogna come amici (e quasi complici) dei mafiosi. Mentre il governo era costretto a emettere un decreto che costringeva i giudici, limitati nella propria autonomia e indipendenza (qualità sacre secondo la costituzione), a prendere ordini dai pubblici ministeri “antimafia”. In mezzo al tritacarne è finito il ministro Bonafede, che Giletti vorrebbe far dimettere e che è difeso con le unghie e con i denti dai due direttori dei giornali governativi e manettari, Marco Travaglio e Gaetano Pedullà. Quest’ultimo è andato sul ring di Giletti e gli ha gridato sul muso che lui stava facendo “oggettivamente” (l’avverbio preferito dei tempi staliniani) il gioco dei mafiosi. E così, in una sorta di gioco dell’oca, per cui tu dai del mafioso a me e io do del mafioso a te, nessuno si preoccupa più della salute all’interno delle carceri, dei detenuti e del personale penitenziario. Fa spallucce il ministro Bonafede, che con il suo decreto “Ristori” non fa che scopiazzare il “Cura Italia” che a sua volta ricalcava una legge del 2010. E che prevede la concessione della carcerazione domiciliare solo per chi debba scontare meno di 18 mesi, con moltissime limitazioni, compresa l’applicazione degli introvabili braccialetti elettronici. Non se ne occupa il Parlamento, di cui non si sa neppure più se esista, tanto è stato depotenziato, e men che meno un’opinione pubblica in cui ciascuno è reso egocentrico dalla gravità della situazione sanitaria. E c’è qualcuno che intanto partecipa al concorso “manette d’oro”. Covid-19, sulla legittimità della sospensione della prescrizione parola alla Consulta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2020 Il 18 novembre la Corte costituzionale giudicherà la legittimità del modello emergenziale adottato anche dal recentissimo Dl 149/2020. Mentre il Governo con il Dl Ristori bis (pubblicato sulla G.U. del 9 novembre), per fronteggiare la pandemia, ricorre nuovamente ad una moratoria della prescrizione, la Consulta si appresta a decidere sulla compatibilità della sospensione del decorso dei termini prescrizionali con il principio della irretroattività delle norme penali più sfavorevoli. Il 18 novembre infatti la Corte costituzionale discuterà tre ordinanze di rimessione - dei Tribunali di Siena, Spoleto e Roma - che pongono la questione dell’applicabilità anche ai reati commessi prima del 9 marzo della sospensione della prescrizione disposta fino all’11 maggio 2020. La norma, prevista in prima battuta dal Dl “Cura Italia”, il n. 18/2020 (e ritenuta costituzionalmente legittima dalla Cassazione, sentenza n. 25222/2020), venne disposta come conseguenza del rinvio d’ufficio dei procedimenti penali e della sospensione dei termini per il compimento di qualsiasi atto stabiliti nello stesso arco di tempo. La decisione della Corte servirà dunque a comprendere se il modello, seguito anche dal recentissimo Dl 149/2020, che aggancia alla sospensione dei processi per l’emergenza Covid anche la sospensione del decorso della prescrizione abbia o meno una tenuta costituzionale. Ne dubita il Tribunale di Siena che riagganciandosi alla giurisprudenza di legittimità, e costituzionale, secondo cui la prescrizione ha natura “sostanziale” paventa una possibile violazione del principio di legalità espresso dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione. Secondo il rimettente infatti il divieto di applicazione retroattiva delle modifiche in senso sfavorevole al reo varrebbe anche per le regole concernenti la sospensione e l’interruzione del termine di prescrizione. In questo senso la disposizione censurata (comma 4 dell’articolo 83 del Dl n. 18 del 2020), concernendo condotte anteriori alla sua entrata in vigore, “avrebbe determinato un aggravamento del regime di punibilità, consistente nel prolungamento, pari sessantatré giorni, del tempo necessario a prescrivere, e ciò in contrasto con il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole”. Anche il Tribunale di Spoleto solleva (in riferimento agli artt. 25, co. 2, e 117, co. 1, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della CEDU) questione di legittimità costituzionale dell’articolo 83, co. 4, del Dl n. 18 del 2020 (come modificato dall’art. 36 del Dl n. 23 del 2020), nella parte in cui prevede che il periodo di sospensione della prescrizione si applica anche a fatti di reato commessi anteriormente alla sua entrata in vigore. In particolare, pone l’accento sulla rilevanza costituzionale del diritto all’oblio da cui deriverebbe la necessità che lo Stato persegua e punisca reati entro tempi certi e predefiniti, non modificabili ad libitum. Sulla stessa linea, infine, il Tribunale di Roma che muove dall’assunto che la prescrizione deve essere considerata un istituto di diritto penale sostanziale e che quindi le modifiche della sua disciplina sono assoggettate alle regole della successione delle leggi penali nel tempo e ai principi della irretroattività delle disposizioni sfavorevoli al reo e della retroattività delle disposizioni favorevoli. Mentre l’articolo 36 del Dl n. 23 del 2020 è censurato nella parte in cui dispone la proroga all’11 maggio dei termini posti dal Dl n. 18 del 2020. L’uso del trojan non è strumento di pressione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2020 L’intercettazione illegittima non travolge tutte le acquisizioni di prove. Il trojan o captatore informatico non costituisce un autonomo mezzo di ricerca della prova, ma “solo” una particolare modalità tecnica per effettuare l’intercettazione delle conversazioni tra presenti. Di conseguenza non può rientrare tra i metodi il cui utilizzo, per l’effetto di pressione sulla libertà fisica e morale della persona, è vietato dal Codice di procedura penale. Inoltre, la possibile intercettazione di conversazioni di cui è vietata la captazione ha effetti non tanto sul decreto che autorizza all’uso del trojan quanto su quella specifica intercettazione e solo su quella, che potrebbe essere giudicata come inutilizzabile. Queste alcune delle osservazioni fatte dalla Cassazione con la sentenza n. 31604 della Quinta sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha respinto il ricorso presentato da un imputato di reati di criminalità organizzata e di traffico di stupefacenti in merito all’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere. La difesa aveva tra l’altro contestato la legittimità delle prove acquisite attraverso le intercettazioni effettuate attraverso trojan, sostenendo che si sarebbe trattato di una modalità “subdola” di acquisizione attraverso l’induzione del soggetto intercettato all’autoinstallazione” del virus, con costi a carico del destinatario e in violazione del principio di autodeterminazione. La Cassazione però, fatto presente che la riforma delle intercettazioni non si applica in maniera retroattiva, a procedimenti iscritti in data antecedente lo scorso i° settembre, osserva che, quando si procede per reati di criminalità organizzata, sulla base della giurisprudenza cristallizzatasi sul punto, le intercettazioni tra presenti eseguite attraverso trojan installato in un dispositivo portatile sono legittime e non devono individuare preventivamente i luoghi in cui l’operazione deve avvenire. Inoltre la Cassazione precisa che il captatore informatico non rappresenta una prova atipica e neppure un aggiramento di quelle tipiche, visto che era già utilizzato prima della riforma secondo modi e termini definiti dalla giurisprudenza, escludendo i reati comuni proprio per i rischi di invasività. Per questo va escluso che il trojan possa essere inquadrato tra gli strumenti di pressione sulla libertà fisica e morale il cui uso è vietato dall’articolo 188 del Codice di procedura penale. Può poi capitare che con il trojan siano intercettate comunicazioni che sarebbe stato vietato ascoltare, come nel caso dei colloqui imputato-difensore o, in casi estremi, lesive della dignità umana, ma a venire compromesso, per la Cassazione, non è a monte il decreto di autorizzazione, quanto a valle la singola intercettazione che diventerà inutilizzabile. Daspo, non scatta il reato se la malattia non comunicata impedisce di recarsi in Questura di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2020 Va verificata l’eventuale forza maggiore perché non è reato in sé la mancata tempestiva informazione sullo stato di salute alla Polizia. La non tempestiva comunicazione alla Polizia dello stato di salute che impedisce di adempiere all’obbligo di presentazione in Questura imposto con Daspo non integra il reato ex articolo 6 della legge 401/1989, che è anzi escluso dall’accertamento della circostanza che la malattia abbia integrato la scriminante del caso fortuito o della forza maggiore. Non potevano perciò i giudici condannare il ricorrente per la mancata informazione o presentazione del certificato medico, poiché la condotta sanzionata penalmente è esclusivamente quella di non essersi presentati. Infatti, come dice la Cassazione con la sentenza n. 31178/2020, il giudice in caso di inadempimento all’obbligo di firma in Questura deve comunque valutare se lo stato di salute in sé - per quanto non comunicato tempestivamente alle forze di Polizia - abbia integrato o meno la scriminante del reato. La scriminante - Il ricorrente, ora vittorioso in Cassazione, si era visto rigettare la richiesta di provare l’esimente attraverso l’acquisizione in giudizio del certificato medico. Rigetto ritenuto illegittimo dalla Cassazione penale, in quanto è proprio dall’acquisizione del certificato e dall’accertamento dello stato di salute che il giudice può ritenere integrato o meno il reato da parte di chi non si presenta per la firma in questura nelle giornate e nei tempi imposti dal Daspo. L’abitualità - Sulla causa di non punibilità ex articolo 131 bis del Codice penale la Cassazione chiarisce, infine, che è errato non riconoscerla affermando l’abitualità della condotta per un solo altro episodio di violazione del Daspo (che nel caso concreto era stato riconosciuto di speciale tenuità). Come ribadisce la Cassazione l’abitualità che non consente il riconoscimento della causa di non punibilità è solo quella che si determina con l’essersi verificati almeno due altri episodi oltre alla condotta in contestazione. Lombardia. Covid e carcere, Antigone: “Il sovraffollamento riporta la paura” dire.it, 12 novembre 2020 “Al 31 ottobre, San Vittore ha un affollamento al 122%, con 926 presenti su 756 posti di capienza. Il carcere di Bergamo arriva al 157% di sovraffollamento, quello di Canton Mombello a Brescia addirittura al 189%”. Sono dati riportati da Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia. Con la seconda ondata di contagi, la situazione nelle carceri rischia di tornare ad aggravarsi. In Lombardia, regione più colpita, gli istituti penitenziari si stanno attrezzando per rispondere alla sfida posta dal virus. Nonostante questo, alcuni problemi strutturali rischiano di complicare questi sforzi. “Al 31 ottobre, San Vittore ha un affollamento al 122%, con 926 presenti su 756 posti di capienza. Il carcere di Bergamo arriva al 157% di sovraffollamento, quello di Canton Mombello a Brescia addirittura al 189%”. Sono dati riportati da Valeria Verdolini, la presidente di Antigone Lombardia raggiunta dalla ‘Dirè, a partire dalla mappatura recentemente pubblicata sul sito dell’associazione, in cui si resoconta sullo stato dei contagi e sulle misure che le direzioni stanno adottando per contrastarli. Il quadro non è certo roseo. Ad esempio, nelle città nel pieno del contagio, dove gli ospedali sono in grande difficoltà, le strutture sono sovraffollate. “Il carcere di Monza ha un affollamento del 146%, quello di Como del 152,5%, quello di Varese del 128,3%”, spiega Verdolini. Ma cosa è successo tra la prima e la seconda ondata? “A marzo il carcere è riuscito a contenere la diffusione del contagio. In parte per l’adozione repentina di misure emergenziali anche per le carceri, in parte perché la diffusione era più concentrata in alcune aree”, continua Verdolini. “Oggi invece, così come vediamo un rallentamento nell’adozione di provvedimenti efficaci per chi sta ‘fuori’, anche nel carcere l’esperienza precedente ha un peso. Eppure le urgenze non cambiano”. Come mai le stesse criticità si stanno riproponendo? Per Verdolini, “a fronte di numeri più alti di marzo nei contagi, la spinta sull’adozione di misure straordinarie è minore. A marzo la situazione delle carceri fu analizzata nel Dpcm, in questi ultimi provvedimenti invece non c’è traccia dei penitenziari, se non con la riduzione delle visite”. Secondo la referente regionale di Antigone, pero’, nelle carceri lombarde si stanno facendo passi importanti nella gestione. “Le strutture che hanno numeri bassi sono riuscite a far passare il messaggio di mantenere la mascherina in cella. Serve però un approvvigionamento costante di dpi. In alcune strutture è successo che venissero distribuite ad esempio due mascherine alla settimana ad ogni detenuto. È un inizio, ma dovrebbe diventare norma essendo uno degli strumenti che riduce il contagio”. Dal punto di vista gestionale, San Vittore e Bollate sono diventati hub di raccolta dei contagiati positivi, all’interno di un piano che prevede misure di ampliamento a scalare, coinvolgendo altre strutture in caso di aumento dei contagiati. “Il piano emergenziale messo in campo dalla Regione è interessante, può avere potenzialità, la preoccupazione è sui numeri”, commenta Verdolini. “Gli strumenti che ha il carcere per ridurre il contagio sono l’isolamento e la riduzione degli spazi di socialità. È chiaro che queste misure adottate all’esterno hanno un peso, all’interno di una struttura chiusa come carcere rischiano di essere quasi una doppia pena”. Come provare a risolvere la situazione? “Serve una riflessione sulla possibilità di ridurre le presenze. Serve una politica penale, oltre che penitenziaria, per la gestione del coronavirus”. Si parla dunque del ruolo della magistratura di sorveglianza e di quella giudicante. “Si può comprendere una forma di sovraffollamento temporaneo per motivi di salute, ma per affrontare la pandemia in carcere serve da tutti una presa in carico maggiore”. Le persone, argomenta Verdolini, “arrivano in carcere dopo un percorso, quei numeri non sono un prodotto casuale, ma il frutto di una politica penale”. Le risposte vanno concertate tra tutti i pezzi, nell’ottica generale di ridurre il rischio di contagiare quelli dentro, che siano agenti o carcerati. “Ci sono una serie di strumenti possibili che non intaccano l’equilibrio della politica penale, come il differimento della pena, che possono incidere molto in questo momento sulle condizioni di vita dei detenuti”. Ad ogni modo, termina Verdolini, “noi condividiamo le misure adottate dalle amministrazioni penitenziarie, ma la preoccupazione dettata dal contesto di sovraffollamento è che le misure adottate richiedono spazio per poterle mettere in pratica, spazio che già non è molto ampio. Serve soprattutto spazio per poter isolare i detenuti ‘sospetti positivi’ dagli altri. Creare questo spazio, come si sta facendo ad esempio a San Vittore, significa però ridurlo per i detenuti”. Lombardia. Appello ai parlamentari regionali: più attenzione al Covid nelle carceri askanews.it, 12 novembre 2020 “Ridurre gli ingressi e sfollare gli istituti” con urgenza. Decine di rappresentanti di istituzioni, organizzazioni del terzo settore e dell’avvocatura, sindacato, personalità accademiche e magistrati hanno rivolto un appello ai parlamentari eletti in Lombardia per chiedere maggiore attenzione all’emergenza Covid nelle carceri milanesi e lombarde. Il documento fa riferimento agli ultimi dati riportati il 9 novembre dal Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria secondo i quali nella sola Regione Lombardia sono 156 le persone positive, di cui cinque con necessità di ricorrere al ricovero ospedaliero, e 510 persone detenute in regime di isolamento. Un mese fa i positivi erano sette. “Nonostante l’azione costante di prevenzione, monitoraggio e attivazione di nuovi protocolli, il contagio all’interno degli istituti si sta ora diffondendo in maniera assai preoccupante, anche per la repentina crescita dei casi di persone detenute riscontrate positive al Covid-19” si legge nell’appello. “Pensiamo che, proprio ora che tutti rinunciamo con fatica a un po’ delle nostre libertà, non possiamo dimenticarci della tutela e della dignità di chi vive ristretto” scrivono i firmatari proponendo di “ridurre gli ingressi e sfollare gli istituti a tutela delle persone ristrette, degli operatori e della salute di tutti e di ciascuno” con urgenza. Hanno sottoscritto l’appello, tra gli altri, Osservatorio Carcere Territorio Milano, Francesco Maisto Garante dei Diritti delle persone private della Libertà personale Comune di Milano, Anita Pirovano presidente della Sottocommissione Carcere del Comune di Milano, Ordine degli avvocati Milano, Camera Penale di Milano, Forum del terzo settore Lombardia, Cnca Lombardia Alleanza Cooperative Italiane-Welfare Lombardia, Consorzio Sir - Solidarietà in rete, Caritas Ambrosiana, Casa della Carità e Cgil Milano. Napoli. Emergenza Covid nelle carceri: circa 200 contagiati tra detenuti e agenti cronachedellacampania.it, 12 novembre 2020 Scoppia l’emergenza Covid all’interno delle carceri di Secondigliano e Poggioreale. Sarebbero circa 200 i contagiati tra detenuti e agenti penitenziari. La situazione più drammatica si registra al Padiglione Firenze del carcere di Poggioreale dove ci sono oltre 100 positivi. Sono in isolamento. Nei giorni scorsi due detenuti erano stati trasferiti al Cardarelli con gravi insufficienze respiratorie. E sempre a Poggioreale dopo lo screening sugli agenti sarebbero venuti fuori alcune decine di contagiati. A Secondigliano, dove anche si registrano decine di contagiati, sono state chiuse anche le cucine e non arriva il cibo ai detenuti. Anche la direttrice Giulia Russo era risultata positiva e poi si è negativizzata. Sulla emergenza Covid nelle carceri campane ieri è intervenuto anche il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello: “Sono contento che anche i semiliberi di questo Istituto penitenziario da oggi fino al 31 dicembre resteranno a casa per una lunga licenza. Mi auguro che accanto all’applicazione del Decreto Ristori per coloro che devono scontare un anno e mezzo, si trovino le giuste e sacrosante soluzioni anche per i detenuti più a rischio, che hanno patologie croniche, malati oncologici, diabetici, cardiopatici”. Ciambriello ha fatto visita al carcere di Salerno, in cui ci sono attualmente 439 ristretti e 40 ristrette. Accompagnato dalla Direttrice facente funzioni, la dottoressa Gabriella Niccoli, dal comandante Gianluigi Lancellotta e dalla vicecomandante Grazia Salerno, ha fatto visita in alcune sezioni, parlando con delle delegazioni di detenuti sul tema “Covid in carcere”. Il garante Ciambriello ha chiesto informazioni, confrontandosi con il responsabile sanitario dell’istituto, il dottor Antonio Pagano, dichiarando che al momento risulta positivo un solo detenuto, lavorante, e sono in isolamento sanitario 35 detenuti, tutti lavoranti, che hanno avuto possibili contatti. Ad oggi nel carcere di Salerno - si legge nella nota - sono stati effettuati, 800 tamponi per i detenuti, tra personale e popolazione ristretta e 200 ai nuovi giunti. “Considerata l’allarmante emergenza che coinvolge tutto il mondo penitenziario, - ha concluso Ciambriello - dal personale ai ristretti, ritengo sia doveroso che si arrivi all’indulto. La politica su questo argomento non può essere né cinica né pavida. Sono fiducioso infine che le procure utilizzino la custodia cautelare in carcere solo in casi gravi ed eccezionali”. Napoli. Cella 55-bis di Poggioreale, la più affollata d’Europa: 14 persone in 20 metri quadrati di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 12 novembre 2020 Provate a immaginare più di dieci persone costrette a vivere in un ambiente di circa venti metri quadrati con una sola finestra e un piccolo vano che funge sia da bagno che da cucina. Blatte che spuntano dai materassi, sgabelli che non bastano per tutti, niente spazio né tantomeno privacy. Distanziamento anti-Covid? Manco a parlarne. Dite la verità, non è vita. Eppure è proprio in queste condizioni che si svolge la giornata-tipo dei 14 detenuti nella 55 bis del padiglione Roma di Poggioreale: la cella più affollata d’Italia e d’Europa nel carcere più affollato d’Italia e d’Europa. Quanto sia insostenibile la vita in quell’ambiente ce lo dice Angelo Esposito, 60enne recluso dal 10 gennaio scorso nel penitenziario napoletano dove deve scontare una pena di sei anni e sette mesi. Cardiopatico, asmatico, sovrappeso e con problemi alla spina dorsale, Esposito ha più volte denunciato le strazianti condizioni in cui sono costretti a vivere lui, i suoi compagni di cella, i 108 detenuti ospitati al terzo piano del padiglione Roma e i circa 300 che attualmente si trovano in quest’ala di Poggioreale. Tutto è nero su bianco in una serie di lettere inviate ai vertici della casa circondariale e al garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Il primo problema è lo spazio. Esposito e compagni sono costretti a vivere in una cella di circa venti metri quadrati, gran parte dei quali occupati da suppellettili. Per ciascun detenuto c’è uno spazio calpestabile di poco più di un metro quadrato e mezzo, nonostante la Cassazione abbia recentemente chiarito come ciascun recluso abbia diritto ad almeno tre metri quadrati calcolati al netto delle suppellettili. Risultato? Nella cella 55 bis di Poggioreale i detenuti non possono stare seduti contemporaneamente, ma sono costretti ad alternarsi. Stesso discorso per il pranzo o per la cena: si procede per gruppi, anche perché non ci sono sgabelli per tutti. Così è impossibile osservare il distanziamento sociale in un momento in cui, tra l’altro, a Poggioreale si contano poco meno di 50 persone affette da Covid di cui 30 proprio nel padiglione Roma. “Se arriva il virus nei nostri spazi - scrive Esposito al garante Ciambriello - per noi anziani sarà difficile uscirne vivi”. Oltre a essere dotata soltanto di una piccola finestra, la cella 55 bis ha un piccolo vano con wc e fornello. Proprio così: i detenuti cucinano e orinano nello stesso ambiente. In un altro piccolo vano, invece, lavano sia le pentole che gli indumenti. Il frigorifero c’è: a donarlo è stato il garante dei detenuti così come i ventilatori. Quello che manca è il condizionatore, con la conseguenza che d’estate l’aria diventa irrespirabile. Anche telefonare ai familiari è un problema: un solo agente di polizia penitenziaria deve gestire il malumore di 108 detenuti esasperati che spesso non riescono a mettersi in contatto con i parenti a causa di guasti alle apparecchiature o di ritardi nella tabella delle prenotazioni. “Anni fa - spiega il garante Ciambriello - il Ministero della Giustizia stabilì che in ogni piano dei penitenziari ci fosse una cella vuota da destinare alla socialità. A Poggioreale, invece, tutti gli ambienti sono pieni e questo porta inevitabilmente all’annientamento fisico e psicologico dei detenuti: un isolamento nell’isolamento che collide col divieto di trattamenti inumani previsto dalla Costituzione”. Padova. Al carcere Due Palazzi è scoppiato un piccolo focolaio, subito contenuto di Tatiana Mario Difesa del popolo, 12 novembre 2020 Le attività dei volontari si fermano. Alla fine, com’era prevedibile, il contagio è riuscito a infiltrarsi anche nella Casa di reclusione Due Palazzi, seppur con un numero contenuto di casi (sette detenuti positivi e otto agenti) subito isolati grazie all’attività sinergica tra l’Ulss 6 e la direzione dell’istituto che hanno isolato i positivi e tentato di tracciare il contagio per contenerlo. Fino ad ora il Covid aveva risparmiato il Due Palazzi, piccola città, in un lembo di periferia padovana, che conta oltre un migliaio tra persone detenute (580), agenti e personale amministrativo (circa 400) e civili che ogni giorno ne varcano il cancello per attività lavorative e di rieducazione. L’ala del carcere dedicata al polo universitario, riconvertita a sezione Covid sta ospitando l’isolamento delle persone detenute che stanno affrontando il decorso dell’infezione. “La situazione non è allarmante - precisa il direttore Claudio Mazzeo -ma è innegabile che il virus circola e per questo stiamo osservando la massima attenzione per tenerlo fuori. Adesso saremo ancora più rigorosi per far rispettare tutte le norme igieniche contro l’infezione”. Di una cosa il direttore del Due Palazzi è sicuro: “Le visite con i familiari per il momento non si sospendono, sebbene continueranno a svolgersi con i minori contatti possibili e da dietro al plexiglass”. La pasticceria Giotto - Alcuni dei casi d’infezione sono stati individuati tra i civili e i lavoratori detenuti della pasticceria Giotto che, per mettere in sicurezza l’interno comparto produttivo, ha subito il drastico taglio della forza lavoro a disposizione in un momento cruciale per la realizzazione del suo prodotto di punta: il panettone Giotto conosciuto in tutto il mondo per la qualità e l’originalità della lavorazione e delle materie prime utilizzate. “Al momento sono attivi solo quattro maestri pasticceri civili - racconta Matteo Marchetto, presidente della Work crossing, la cooperativa che gestisce la pasticceria - tutti gli altri 27 lavoratori detenuti, invece, sono in isolamento fino alla prossima settimana. Per fortuna, il laboratorio che produce gelato, cioccolato e si occupa del confezionamento, non è stato intaccato trovandosi in un capannone esterno ma sempre all’interno del carcere. Abbiamo rispettato tutti i dettami sanitari, ma il rischio è inevitabile dovunque con questo virus subdolo. Continueremo a operare sotto stretta sorveglianza sanitaria: il virus è arrivato, l’abbiamo aggredito con l’aiuto di tutti e continueremo a farlo senza fermarci”. La parrocchia del carcere - Da venerdì 6 almeno fino al 15 novembre, si sono fermate tutte le attività di volontariato: sono oltre un migliaio le persone che periodicamente, molti anche ogni settimana, prestano servizio gratuito nell’istituto di pena rispondendo alle esigenze più diverse (istruzione, sport, musica, cultura, teatro, informazione, spiritualità...) e anche procurando con gratuità beni di prima necessità (vestiario, prodotti per l’igiene…) per molti detenuti privi di risorse. Anche la parrocchia del carcere, che dai primi di settembre aveva ripreso le celebrazioni con un numero contingentato di volontari a rotazione nel rispetto delle norme, ha dovuto fermarsi da sabato 7 novembre. La presenza del cappellano don Marco Pozza è comunque assicurata, come lo è stata durante tutto il lockdown e nei lunghi mesi di chiusura del carcere ai volontari. Le celebrazioni del sabato e della domenica mattina sono un momento fondamentale per le persone che vi partecipano - detenuti, volontari, diaconi, religiosi - perché aiutano a scandire il ritmo della settimana tra le sbarre, ad avere un obiettivo e, soprattutto, rappresentano un respiro umano e comunitario di cui si sente la mancanza quando non è possibile viverlo. La comunità parrocchiale aveva iniziato a rinsaldarsi dopo i lunghi mesi di stop causati dall’emergenza, sebbene i contatti con molte delle persone detenute della parrocchia non si fossero mai interrotti grazie alla corrispondenza intrattenuta con i volontari e i diaconi. Ora le dita restano incrociate perché le cose non peggiorino e per poter ricominciare quanto prima ad animare la vita della piccola, quanto preziosa, comunità parrocchiale incastonata tra “ferro e cemento”. Torino. Ha il diabete e anche il Covid, ma lo curano solo con la tachipirina di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 novembre 2020 “Liberate mio padre, già pieno di gravi patologie, che ha contratto il Covid nel carcere di Torino, rischia di morire ed è curato solo con la tachipirina”. È un grido di dolore quello che è giunto a Rita Bernardini del Partito Radicale, da due giorni in sciopero della fame proprio per chiedere di ridurre la popolazione carceraria per far fronte all’emergenza Covid. Un allarme, quello della figlia di Leone Soriano, detenuto nel carcere Lorusso e Cotugno di Torino, che è riscontrato anche dal direttore sanitario del penitenziario stesso e dove al momento si registrano nove detenuti con Covid e ben 27 tra il personale penitenziario. Infatti, nella missiva rivolta all’autorità giudiziaria con la dicitura “urgentissimo”, si leggono testuali parole: “Il soggetto ha presentato nella giornata di ieri (2 novembre, ndr) sintomi febbrili per cui è stato posto in isolamento sanitario e sottoposto all’esecuzione del tampone nasofaringeo per la ricerca del Covid 19 risultato positivo”. Aggiunge con toni allarmanti: “Si ritiene che il soggetto possa essere a maggior rischio rispetto alla popolazione generale in quanto polipatologico affetto da Diabete Mellito tipo 2, ipertensione arteriosa, ipertrofia prostatica benigna, sindrome ansioso - depressiva”. Il direttore sanitario infine rileva “anche il rischio per la sicurezza sanitaria dato il contesto di vita comunitaria propria del carcere”. Dopo aver appreso che ha contratto il Covid, la settimana scorsa i legali hanno presentato istanza per chiedere la revoca della custodia cautelare o in subordine il ricovero in una struttura adeguata, corroborata dalla urgentissima missiva della direzione sanitaria. Ma la speranza è vana. Sì, perché Soriano è in alta sicurezza, una maledizione viste le polemiche sulle “scarcerazioni” montate ad arte dai mass media, non consci che il diritto alla salute vale per tutti, anche per chi è condannato per reati mafiosi. Indignazioni che, a quanto pare, hanno generato il dietrofront di diversi magistrati di sorveglianza e Gip che fino a poco tempo fa si erano dimostrati attenti alla questione, facendo riferimento all’unica via maestra che garantisce lo Stato di diritto: la Costituzione italiana. Ora è in serio pericolo di vita e il carcere non sarebbe in grado di dargli le cure in maniera costante. Ma il tribunale ha rigettato, specificando che Soriano è monitorato e se dovesse peggiorare verrà trasferito in ospedale. La figlia stessa racconta a Il Dubbio che ad aprile aveva denunciato al Dap la circostanza che all’interno dell’istituto non venivano rispettate le norme predisposte per evitare il contagio e non venivano utilizzati i dispositivi di protezione. “Ma non ho mai ricevuto risposta - chiosa la donna. E adesso è avvenuto quello che temevo, il contagio”. L’istanza, come detto, è stata fatta circa una settimana fa, anche alla luce della missiva urgente della Asl. Ma, com’è detto, per il giudice il detenuto risulta pienamente sotto controllo e non sono ravvisabili emergenze. Ma la figlia di Soriano non riesce ad accettare tutto questo. “Mi creda - spiega dolorosamente a Il Dubbio - il vero dramma è dover assistere inermi a questo scenario. I detenuti come qualsiasi altro essere umano hanno diritto alla salute e alle cure. Mio padre è stato trasferito presso il carcere di Torino proprio perché a causa delle sue patologie necessitava di essere sottoposto a un preciso protocollo sanitario, ma non gli sono state mai prestate le cure adeguate. Sebbene soffrisse di diabete non è stato mai sottoposto a visita diabetologica”. Poi aggiunge: “Solo il mese scorso, a causa di uno scompenso (diabete a 500) è stato sottoposto a visita, a seguito della quale ha dovuto iniziare un piano terapeutico che prevede la somministrazione di insulina 4 volte al giorno. E adesso ha contratto anche il Covid e le conseguenze per lui potrebbero essere letali”. Conclude amaramente sempre la figlia: “Chi commette un reato è giusto che paghi, ma non con la propria vita”. Sassari. Carcere di Bancali: positivi al Covid 12 agenti di Polizia penitenziaria La Nuova Sardegna, 12 novembre 2020 In quarantena precauzionale 36 persone. Da Rotary Silki e Arcidiocesi 5000 mascherine ai detenuti. Sono quindici, in base agli esiti dei test finora effettuati, le persone positive al Coronavirus tra quelle che lavorano all’interno del carcere di Bancali: 12 appartengono alla Polizia penitenziaria, due al comparto funzioni centrali e una infermiera. Tra i detenuti, come già noto, uno solo è positivo ed è attualmente isolato nella palazzina semiliberi, costantemente monitorato dalle autorità sanitarie. Agli altri detenuti isolati nella medesima palazzina è stato fatto il tampone che è risultato negativo per tutti. Per precauzione, è stato comunque chiuso lo spaccio, in quanto il detenuto risultato positivo aveva prestato servizio in quel luogo. Lo screening del personale si concluderà oggi, nel frattempo sulla base delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie sono state messe in quarantena precauzionale 36 persone che in base al tracciamento hanno avuto contatti con colleghi e/o detenuti a rischio. Inoltre, la direzione sta provvedendo alla vaccinazione anti influenzale per i detenuti e il personale. Da segnalare che ieri il carcere ha ricevuto 5mila mascherine da distribuire ai detenuti, donate dal Club Rotary Silki e dall’Arcidiocesi di Sassari. Gesto molto gradito dal direttore Graziano Puija, che ha voluto esprimere la sua gratitudine al presidente Noemi Sanna e al vescovo, Monsignor Gian Franco Saba per l’attenzione dimostrata in questo particolare momento in cui “tutti siamo uniti dal comune obiettivo di contenere il diffondersi del virus e nel prestare particolare attenzione alle categorie di soggetti che mostrano una particolare vulnerabilità”. Il direttore, a nome dei detenuti e degli operatori, ha voluto esprimere la massima riconoscenza per il contributo offerto dalle due istituzioni che in tal modo “hanno espresso la vicinanza della comunità locale alla realtà carceraria”. Larino (Cb). Covid: 38 detenuti contagi nel carcere, ma niente tamponi al personale primonumero.it, 12 novembre 2020 La Fn-Cisl annuncia lo stato di agitazione dei lavoratori della Polizia penitenziaria del carcere di Larino dopo la positività al nuovo coronavirus di ben 38 detenuti. In una dura nota il segretario interregionale Abruzzo-Molise, Raffaele Giordano, parla di “ennesimo affronto che si sta prolungando nel tempo sul corpo della polizia penitenziaria della casa circondariale di Larino che oramai dal 29 ottobre ospita positivi al virus”. Giordano scrive di 29 contagi ma la cifra riferita al bollettino Asrem di ieri è di 38 positivi. Secondo Fns-Cisl “dopo gli ultimi casi di positività scoperti sono stati sottoposti a tampone tutti i restanti detenuti ristretti nella casa circondariale (circa 170) senza sottoporre a tampone tutto il personale che lì lavora. A nulla sono servite le richieste fatte all’Asrem da parte della direzione, dottoressa Rosa La Ginestra, per ottenere il tanto agognato tampone faringeo per chi lavora nell’istituto di Larino. La domanda che si pone questa segreteria locale è innanzitutto il perché e chi ha scelto di non fare il tampone a tutte quelle categorie che svolgono un servizio per la collettività (personale funzioni centrali, personale di polizia penitenziaria), cioè a quel personale esposto al contagio. Nessuno si preoccupa del Cluster della casa circondariale di Larino? Nessuno tiene conto che i lavoratori possono essere potenzialmente asintomatici e venendo dai paesi limitrofi potrebbero creare nuovi cluster?”. Da qui la proclamazione dello stato di agitazione. Viterbo. Giovane si impicca in carcere: pronta l’azione civile contro il ministero Il Messaggero, 12 novembre 2020 ?Muore dopo essersi impiccato in carcere, pronta l’azione civile. A luglio di due anni fa un giovane egiziano, detenuto per un cumulo di condanne, ha legato la sua vita al lenzuolo della branda facendola finire. Hassan era arrivato a Viterbo da un istituto penitenziario di Roma. Qui ha scontato parte della sua pena. E qui ha raccontato di aver subito abusi e di temere per la propria vita. Una paura così forte che lo ha spinto al suicidio. Un suicidio che ha destato l’attenzione anche del ministero degli Esteri egiziani che pochi giorni dopo il decesso ha inviato alcuni rappresentanti dell’Ambasciata a chiedere di fare piena luce sulla vicenda. La Procura nell’immediatezza aprì un fascicolo per istigazione al suicidio nel tentativo di capire cosa fosse realmente accaduto nel penitenziario e se davvero quel giovane fosse stato spinto da soprusi e percosse a mettere fine alla sua vita. Dopo l’apertura del fascicolo la Procura, il 13 maggio 2019, ha chiesto l’archiviazione del caso. Un passo mal digerito dalla difesa dei familiari della vittima. “Pochi giorni dopo - spiega l’avvocato Giacomo Barelli che assiste i genitori di Hassan - ho presentato opposizione. Peccato che sono passati due anni e ancora non so quando sarà fissata l’udienza davanti al gip per l’opposizione. Così come non so che fine abbiamo fatto il processo stralcio sulle percosse. C’è uno stallo su un fatto gravissimo. La morte di Hassan non può rimanere nell’oblio della giustizia”. Per questa ragione l’avvocato Barelli ha deciso di giocare un’altra carta. “Vista la situazione - spiega - ho proposto ai familiari, che risiedono al Cairo, di intentare una causa civile contro il ministero della giustizia. Vogliamo accertare la responsabilità del ministero sui fatti carcere Mammagialla. Non possiamo dire che è stata fatta giustizia. Per questo in attesa delle udienze penali, iniziamo dal procedimento civile. Qualcuno dovrà risponderci”. Che la situazione del carcere viterbese sia allo stremo lo sottolinea anche l’ultimo tentativo di suicidio. Messo in atto martedì notte da un detenuto italiano e sventato dagli agenti e dal compagno di cella. “Sono anni - dice ancora Barelli - che parliamo di istituire la figura del garante cittadini per i detenuti. Lo dico da consigliere comunale. Nonostante il voto unanime non è stato mai portato in consiglio. Non dico che risolverebbe ma sarebbe comunque un segnale di attenzione in più. Spero che riesca ad essere inserito nell’ordine del giorno del 19 novembre”. Cagliari. Al via il progetto Lav(or)ando per il reinserimento detenuti cagliaripad.it, 12 novembre 2020 Al via il progetto Lav(or)ando, realizzato dalla Cooperativa Sociale Elan e finanziato dalla Fondazione per il sud, partito all’interno del carcere di Uta e che prevede il reinserimento professionale di 24 persone sottoposte a provvedimento penale, attraverso il loro impiego nella lavanderia industriale che si trova dentro il penitenziario. L’obiettivo dell’iniziativa è di permettere ai detenuti l’acquisizione di nuove competenze lavorative che, una volta usciti dal carcere, potranno utilizzare per il reinserimento nella società e creare un circolo virtuoso con le aziende presenti nel territorio che dia concrete possibilità ai detenuti di lavorare. Lav(or)ando avrà una durata di quattro anni, mentre il percorso formativo riservato a ogni singolo detenuto sarà di dieci mesi. Nei primi cinque le persone selezionate saranno all’opera sia all’interno della lavanderia, ma parteciperanno anche ad attività educative, formative e di orientamento professionale. Gli altri 5 mesi serviranno invece per completare il percorso professionale sia nel carcere che in alcune delle imprese del territorio. “Oggi, grazie al sostegno della Fondazione con il Sud, la cooperativa Elan e tutti i partner del progetto avviamo stabilmente la lavanderia della Casa Circondariale di Uta - ha sottolineato Carlo Tedde, responsabile del progetto Lav(or)ando - che si propone come infrastruttura economico educativa pronta ad affiancare l’istituto penitenziario nel difficile compito di valorizzare i talenti e le competenze residue delle persone che sbagliano, per rigenerale e accompagnarle in un ruolo di cittadini attivi capaci di contribuire concretamente allo sviluppo della comunità”. “Il progetto Lav(or)ando - ha evidenziato Marco Porcu, direttore della Casa Circondariale di Uta - costituisce l’attività più strutturata, all’interno del carcere di Uta, e offre ai detenuti la possibilità di confrontarsi con la realtà lavorativa esterna e con il mercato, preparandoli al rientro nella società”. Bologna. In carcere parte la didattica per adulti, con laboratori in presenza diregiovani.it, 12 novembre 2020 È il progetto Pamisc, finanziato dal ministero dell’Istruzione e coordinato dal Cpia metropolitano di Bologna. Laboratori di montaggio video e di comunicazione interpersonale, corsi di formazione per docenti e operatori sulle forme dell’ordinamento penitenziario e della scuola in carcere. Ma anche moduli online di sociologia delle migrazioni, pedagogia della marginalità e dell’intercultura, prevenzione del radicalismo religioso in carcere, insegnamento dell’italiano come seconda lingua. Non si fermano le attività delle scuole in carcere per i 24 Cpia - i Centri per l’istruzione degli adulti - che hanno aderito a Pamisc, progetto nazionale per l’ampliamento dell’offerta formativa delle scuole in carcere e lo sviluppo di competenze professionalizzanti, finanziato dal ministero dell’Istruzione e coordinato dal Cpia metropolitano di Bologna. Il lockdown, racconta alla Dire il dirigente del Cpia bolognese Emilio Porcaro, che è anche presidente della Rete Italiana Istruzione degli Adulti (Ridap), ha bloccato tutto: “Stavamo per partire con la formazione per gli operatori e con i corsi professionalizzanti, avevamo organizzato laboratori di cucina, moda, panificazione, rimozione graffiti, imbianchino, estetica e parrucchieri, cittadinanza attiva e comunicazione interpersonale. Tutte attività che richiedevano la presenza e l’uso di molti attrezzi”. Oggi, grazie a una proroga di viale Trastevere “l’intera offerta è stata ripensata. Partiremo a gennaio sia coi laboratori di video-making e comunicazione interpersonale (sospesi ancora per il momento gli altri) sia con il corso di formazione per docenti”, organizzato in collaborazione con il dipartimento di scienze dell’educazione dell’università di Bologna e aperto a tutti gli insegnanti di scuole con sedi carcerarie”. Nel capoluogo emiliano-romagnolo, i due laboratori partiranno addirittura in presenza, o almeno così è nelle intenzioni degli organizzatori, per un numero massimo di 5 detenuti della casa circondariale di via Del Gomito. Intanto, per tutti i 130 Cpia diffusi sul territorio nazionale, continua la sfida della didattica a distanza. Racconta ancora Porcaro alla ‘Dirè: “La nostra è un’utenza specifica per diverse ragioni” non solo perché adulta ma anche perché più “fragile, spesso straniera” con bisogni molto diversi dallo studente medio che frequenta la scuola dell’obbligo. “Diverse sono le esigenze, diversi gli interessi, diverse le disponibilità di tempo per studenti adulti che lavorano, che possono essere stranieri analfabeti anche nella loro lingua madre, che vogliono un diploma di terza media mentre si trovano in carcere. L’organizzazione della nostra didattica, quindi, deve essere molto più flessibile” dal momento che “le nostre classi possono cambiare di lezione in lezione e ogni alunno ha delle motivazioni” tali da orientare il docente “a personalizzare” l’insegnamento. Tutto ciò “non è facile in presenza, figuratevi a distanza, ma abbiamo comunque raggiunto ottimi risultati, anche con coloro che dovevano imparare a leggere e scrivere” commenta poi il numero uno della Ridap che rappresenta oltre il 90% di tutti i Cpia. “Non è stato e non è semplice anche perché i Cpia non ottengono mai la stessa attenzione istituzionale che viene data alla scuola dell’obbligo. Spesso non siamo nemmeno citati nei Dpcm e nelle circolari ministeriali” eppure, come chiarito dal ministero stesso, l’offerta formativa dei Cpia afferisce al primo ciclo proprio perché finalizzata all’ottenimento del diploma di terza media. “Come Ridap abbiamo chiesto un chiarimento, che abbiamo ottenuto, perciò oltre ad essere identificati come primo ciclo, ci è stata riconosciuta la possibilità di modulare la nostra didattica in presenza con integrazioni di Dad fino a un 20% del totale, ma anche di estendere tale quota in caso di esigenze particolari, e questo proprio in virtù della nostra specificità. Questo è un risultato di cui possiamo dirci soddisfatti”. Forlì. Volontari al fianco dei detenuti: una raccolta solidale di prodotti per l’igiene forlitoday.it, 12 novembre 2020 L’iniziativa, nata per venire incontro alle necessità segnalate dal cappellano del Carcere don Enzo Zannoni, si svolge già da alcuni anni. Sabato, dalle 8,30 alle 19 davanti ai locali della “Saponeria” di via Decio Raggi 21/C, il gruppo “Voce di Maria-Amici di Carlo Acutis” della parrocchia di Regina Pacis organizza una raccolta di prodotti per l’igiene personale e degli ambienti, da destinare ai detenuti della Casa Circondariale di Forlì e, in parte, alle famiglie bisognose della parrocchia. In ottemperanza alle norme anti-Covid, sarà possibile acquistare in negozio qualche prodotto consigliato e lasciarlo in un apposito carrello per la successiva sanificazione da parte dei volontari addetti alla loro inscatolazione. L’iniziativa, nata per venire incontro alle necessità segnalate dal cappellano del Carcere don Enzo Zannoni, si svolge già da alcuni anni e riscontra sempre grande partecipazione, come conferma Raffaela Cesaro, responsabile del gruppo e coordinatrice della raccolta: “Abbiamo sempre sperimentato la verità del motto stampato sulla nostra pettorina: c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Siamo sicuri che anche questa volta le persone ci sorprenderanno per generosità. Ringrazio fin d’ora chi aderirà a questa iniziativa di solidarietà”. Noi italiani, nemici di noi stessi di Marcello Sorgi La Stampa, 12 novembre 2020 Adesso tutti diranno che è colpa del governo. Bastava leggere tra le righe la sconfortata intervista che Conte ha rilasciato al direttore Massimo Giannini: ora che si è capito che un secondo lockdown è in arrivo, sotto forma di resa del governo al tentativo di salvaguardare una parte delle attività economiche e dei consumi, oppure con un trasferimento generalizzato delle regioni in categoria rossa, la reazione della gente sarà quella. Il governo non doveva riaprire le scuole, sapendo che si sarebbero trasformate in un moltiplicatore dei contagi. Doveva trovare il modo di caricare solo a metà gli autobus e le metropolitane, invece di consentire che la gente ci si ammassasse dentro come se nulla fosse. Non doveva perder tempo quest’estate, dedicandosi al potenziamento degli ospedali che è mancato. Dopo quanto era accaduto nelle discoteche ad agosto, doveva subito impedire gli assembramenti dei ragazzi nei bar, nelle piazze, nelle strade dei centri storici chiusi al traffico. E avendo già sperimentato la disobbedienza dei governatori, avrebbe dovuto riportarli all’ordine d’autorità. Tutto vero, per carità, e l’elenco delle colpe di cui Conte e i suoi ministri saranno chiamati a rispondere potrebbe continuare con l’indecisionismo che, a differenza di quanto hanno fatto i suoi colleghi Merkel, Macron e Johnson, ha portato il premier a rinviare troppo il blocco, sottovalutando la seconda ondata del virus; o con la caparbietà di continuare a usare gli odiati Dpcm, sollevando le ire del Parlamento. O con l’incapacità di trovare una qualche forma di intesa con l’opposizione, come invano era stato perorato da Mattarella. Ma adesso che il lockdown è di ritorno e il cenone di Natale in pericolo, forse dovremmo chiederci se anche noi italiani non abbiamo qualcosa da rimproverarci, se insomma non ci abbiamo messo del nostro per ritrovarci nella situazione gravissima in cui siamo immersi. Basta solo ripercorrere l’elenco delle accuse, cambiando i soggetti. Ad esempio, era proprio necessario stiparsi come sardine nei mezzi pubblici, sapendo che sarebbe stata una via sicura per moltiplicare i contagi? Ed era tollerabile che gran parte delle persone, per strada, o non portassero la mascherina o se la mettessero come un bavaglino o infilata sull’avambraccio, rendendola inutile come dispositivo di protezione? Non parliamo del distanziamento o del ricorso frequente al lavaggio delle mani. Ecco, questi tre semplici modi di difendersi dal virus, spiegati, rispiegati e raccomandati da tutti gli esperti in tv, scritti e riscritti sulle vetrine di qualsiasi negozio, consigliati dai propri medici curanti, che abbiamo tempestato di telefonate quotidiane per dar sfogo alle nostre ansie, sono stati sistematicamente disattesi. Ed era indispensabile formare tavolate da dodici, quattordici, sedici, venti commensali nelle pizzerie e nei ristoranti, con l’unico accorgimento, consentito dai ristoratori meno severi, di formare gruppi di tavoli da sei distanziati da una ventina di centimetri? Fatta la legge, trovato l’inganno, anche in questo caso: ma a danno di chi? Inoltre, che senso ha avuto rispettare, anzi accogliere felicemente il ritorno allo smart working, che ci ha consentito di restare a casa dal lunedì al venerdì, per poi correre sulle spiagge il sabato e la domenica, approfittando dell’allungamento della buona stagione, sdraiandosi al sole uno addossato all’altro, o passeggiando a stretto contatto sul bagnasciuga? Ma è ridicolo, se si è in costume, mettersi la mascherina, obietterà il solito brontolone. Sarà pure ridicolo, ma è necessario. Per finire, anche se l’elenco delle trasgressioni e delle furbizie sarebbe infinito, inspiegabile è stato il comportamento rispetto agli obblighi, in verità assai limitati, previsti per le regioni catalogate in giallo (nella prima settimana del nuovo regime, oltre due terzi del territorio nazionale). Si può dire che gli italiani li hanno interpretati come molti, troppi di loro, fanno al semaforo quando hanno fretta: il giallo è verde, attraversano e vanno a sbattere. Così facendo - è duro ammetterlo, che amarezza - noi italiani, non tutti per fortuna, in queste due settimane che dovevano servire a garantirci un minimo di libertà, seppure in una situazione di emergenza, siamo stati capaci di dare il peggio di noi. Di non capire che lo facevamo contro noi stessi. Di sfoderare il catalogo dei vizi che motivò la straordinaria battuta di Nanni Moretti in “Ecce Bombo”: “Ve lo meritate Alberto Sordi!”. Nei cinema, ha raccontato il regista, quando questa frase risuonava, scendeva il silenzio, forse carico di senso di colpa. In occasione del centenario della nascita del grande attore romano, bisognerebbe riflettere che su certe cose, certi atteggiamenti, non c’è più tanto da scherzare. Emergenze: non serve cambiare la Costituzione, basta solo rispettarla di Francesco Nucara Il Dubbio, 12 novembre 2020 La Costituzione è diventata un capro espiatorio: quando la politica deve coprire i propri errori dice che è necessaria una riforma costituzionale. Più che un tic è un alibi per nascondere le difficoltà e spesso anche l’incompetenza e l’incapacità nella gestione delle questioni di governo. A livello nazionale come a livello locale. Con la pandemia il tic si è ripetuto con il balletto tra Stato e Regioni sui provvedimenti da assumere per contrastare il Covid 19. E sul banco degli imputati è finita come al solito la Carta, che ovviamente andrebbe modificata per superare il conflitto di attribuzioni tra le istituzioni. Eppure la Carta già definisce i ruoli. Basterebbe leggerla all’articolo 120, dove è stabilito come il governo possa “sostituirsi” a Regioni, Città Metropolitane, Province e Comuni “nel caso di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica... ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela di livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”. Tra questi “livelli essenziali” c’è il diritto alla salute, che è tutelato dall’articolo 32. Insomma il governo ha il diritto- dovere di intervenire sulla politica delle Regioni. E la politica farebbe bene a non intervenire ancora sulla Costituzione, visto lo scempio compiuto con la riforma del Titolo V. La legge 833 che aveva istituito il Servizio Sanitario nel 1978, era a garanzia di tutti i cittadini italiani. Ma dopo la riforma del Titolo V in molti comparti, compreso quello sanitario, di fatto non esistono più gli italiani, bensì i veneti, i lombardi, i siciliani, i calabresi... Ecco, i calabresi. La sanità meridionale è sempre nel mirino dei media che sistematicamente ripropongono e aggiornano scandali su diagnosi errate che hanno condotto a decessi, sul malaffare nelle forniture, sul nepotismo nelle carriere, sulla lottizzazione politica nella ripartizione degli incarichi dirigenziali, sul disinteresse per la sorte dei pazienti, sulla fuga dei pazienti e di quegli operatori sanitari che mal sopportano un sistema inefficiente e un clima fatto di “clientele e favoritismi”. Naturalmente “clientele e favoritismi” sono opera delle organizzazioni locali. Diventano invece scelte coraggiose quando è il governo nazionale a inviare commissari per la sanità in Calabria, tranne poi scoprire che la gestione ventennale (ventennale) dei commissari è fallimentare. Se il tema è la lotta alla corruzione, sappiamo che questa piaga non ha confini territoriali, e se proprio si dovesse stilare una triste classifica si potrebbe dire - come evidenziano i fatti di cronaca - che al Nord è più radicata. Ma per non restare prigionieri dei luoghi comuni è opportuno affrontare il tema della sanità calabrese nel suo complesso, perché i suoi problemi sono un paradigma che spiega i problemi della sanità meridionale. A partire dal debito di questo comparto, che affligge tutte le regioni del Mezzogiorno. E questo debito è determinato anche dall’esodo sanitario verso il Nord. Già questo fattore divide il Sud tra cittadini di serie A e di serie B. E fa saltare le garanzie costituzionali, perché i “viaggi della speranza” sono possibili per lo più alle persone abbienti, che possono trasferirsi in ospedali fuori regione spesso accompagnati da familiari. L’emigrazione sanitaria grava ulteriormente sui bilanci delle regioni meridionali: secondo la fondazione Gimbe “rispetto all’entità e al segno (positivo/ negativo) del saldo 2018, le Regioni sono state suddivise in sei categorie” e “dalla classificazione risulta che quelle con saldo positivo rilevante sono tutte del Nord, mentre le Regioni con saldo negativo rilevante si collocano tutte al Centro- Sud”. Calabria e Campania hanno un saldo negativo di 287,4 milioni di euro e di 350,7 milioni di euro. È chiaro che le Regioni meridionali di fatto alimentano finanziariamente la sanità settentrionale. Per invertire la tendenza il governo, piuttosto che annunciare l’ennesima riforma costituzionale, dovrebbe attuare il dettato costituzionale. E per diminuire le diseguaglianze sanitarie dovrebbe adottare una “piano di programmazione” che ristabilisca per nove milioni di cittadini quel diritto alla salute che è tutelato solo per gli abitanti di otto regioni italiane. Se in Calabria, invece, il governo si limita a licenziare il commissario alla Sanità che non sapeva di dover redigere il piano anti-Covid, e ne nomina un altro - amico consulente e compagno di partito del ministro della Salute - che aveva già dato pessima prova e non riteneva indispensabile l’uso della mascherina contro il virus, allora è tutto inutile. La sanità meridionale è al collasso e quella calabrese è a un passo dal disastro. Viste le scelte, è legittimo l’allarme di chi teme che dopo l’alluvione arriverà il terremoto. Ospedali, ecco i veri numeri: non c’è più posto per i ricoveri no Covid di Paolo Russo La Stampa, 12 novembre 2020 Sono al completo. Due terzi dei 40 mila letti dedicati alla pandemia sono occupati. In estrema difficoltà Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria. Trend in salita. Sold out, nei reparti di medicina nei nostri ospedali in quasi tutta Italia non c’è più posto per i pazienti no Covid. E in alcune regioni, come Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria nemmeno più per quelli colpiti dal virus. Perché se i circa due terzi dei 40mila letti in dotazione sono già occupati da pazienti Covid, i restanti posti sono a loro volta presi dagli altri malati, per i quali l’offerta di letti è in questo momento ampiamente insufficiente rispetto alla domanda di assistenza. A dimostrarlo è un’indagine condotta da Fadoi, la società scientifica degli internisti ospedalieri, che in base a ricoveri del 10 novembre indica al 68% la quota di letti dei reparti di area medica occupati da pazienti covid. Molto più di quel 40% indicato dall’Istituto superiore di sanità come soglia di sicurezza, visto che le altre malattie con la pandemia non vanno in vacanza e il bisogno di ricoveri degli altri pazienti resta immutato, “portando il grado di saturazione dei posti letto ben oltre quanto viene comunicato”, spiegano i curatori dell’indagine. Infatti in tanti ospedali è stato necessario aprire reparti supplementari di area medica per accogliere i pazienti. E questo attingendo ai letti di reparti come oncologia, chirurgia o emergenza-urgenza che per la fragilità dei pazienti che ospitano dovrebbero essere preservati dall’assalto ai letti. La riprova viene dai dati delle singole regioni. Piemonte con il 164,4% di posti letto di medicina occupati da pazienti covid, Valle d’Aosta (191,7%) e Liguria (105,3%) giustificano queste percentuali superiori al 100% non perché mettano i pazienti in eccesso nei sottoscala, ma per il semplice fatto che da tempo utilizzano letti dei reparti di altre discipline. Vicine al 100% di letti riservati a pazienti positivi al virus sono poi Lombardia (95,8%), la provincia autonoma di Bolzano (94%), seguite da Campania (77,7%) e Lazio (76,3%). Ma a preoccupare è anche il trend. In soli due giorni, dall’8 al 10 novembre, i posti letto dei reparti di medicina interna, teoricamente e potenzialmente disponibili per i pazienti no-Covid, sono passati dal già esiguo numero di 12.875 a 8.869, ossia in 48 ore sono già stati erosi 4.006 letti, lasciando una riserva di posti destinata ad esaurirsi nel giro di una manciata di giorni. Questo parlando di numeri nazionali, perché a livello regionale Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia e Liguria sono già “sold out” anche per i pazienti Covid. Vicine al 100% di letti riservati a pazienti positivi al virus sono poi Lombardia (95,8%), la provincia autonoma di Bolzano (94%), seguite da Campania (77,7%) e Lazio (76,3%). In totale son 14 le Regioni (i 2/3) che superano la soglia di sicurezza del 40%. E i letti “residui” non sono in realtà posti disponibili perché già tutti occupati da persone affette da altre patologie anche gravi. “Una conseguenza probabile, se non certa - commenta il presidente di Fadoi, Dario Manfellotto- sarà l’incapacità di garantire gli standard qualitativi per le cure a tutti i malati cronici e ai malati acuti non covid, oltre ad ulteriori criticità e ritardi nel campo della prevenzione”. E in una lettera aperta le società scientifiche degli internisti Fadoi e Simi, quelle dei geriatri Sigg e Sigot, quella degli infermieri di medicina interna Animo, rimarcano la drammaticità della situazione e mettono in guardia dalla bagarre di dati “che indirizza l’opinione pubblica verso fallaci rassicurazioni, portando a sottostimare il reale grado di saturazione dei posti letto che va ben oltre il 30 o 40% che viene usualmente comunicato”. Anche le terapie intensive sono però oltre il livello di guardia del 30% di letti occupati da pazienti covid. L’Agenas, l’agenzia per i servizi sanitari regionali, indica al 37% la quota occupata dai pazienti infettati dal virus, con punte del 57% in Umbria, 56% in Piemonte e 54 in Lombardia e Alto Adige. Eppure per rimettere sotto controllo la situazione basterebbe raffreddare la crescita della curva dei contagi, perché solo il 5,8% dei positivi, rivela l’indagine, necessita di un ricovero. Anche se poi in Trentino e Liguria si va a doppia cifra, rispettivamente con l’11,3 e il 10,6%. Il problema è che quando si hanno tra i 30 e i 40mila contagiati al giorno, questi si traducono in migliaia di pazienti Covid che mettono sotto stress tutto il sistema sanitario. E di questo fattore, al pari di quello economico, terrà conto il Governo nel momento di sfogliare la margherita per decidere se rimettere o meno il Paese in lockdown. Polvere e Covid, cocktail letale di Luca Aterini Il Manifesto, 12 novembre 2020 Secondo uno studio di un team di ricerca triestino e del Max Planck Institute di Mainz, il 15% dei decessi per coronavirus sono legati all’inquinamento atmosferico. Parla il responsabile Andrea Pozzeri. Oltre 6 mila morti in meno da Covid-19, ovvero il 15% delle vittime: a tante ammontano le vite che la pandemia avrebbe potuto finora risparmiare in Italia se l’aria che respiriamo non fosse inquinata da PM2.5, il particolato atmosferico fine. È questa la conclusione cui è giunto un team internazionale di ricercatori, guidato da Andrea Pozzer dell’International Center for Theoretical Physics di Trieste e del Max-Planck-Institute for Chemistry di Mainz, che ha individuato a livello globale i legami tra l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico e un rischio di morte molto più elevato da Covid-19. Lo studio regional and global contributions of air pollution to risk of death from Covid-19, pubblicato sulla rivista scientifica peer-reviewed Cardiovascular research, ha esteso a livello globale i risultati precedentemente ottenuti all’Università di Harvard sulla relazione tra esposizione al PM2.5 e mortalità da Covid-19, ottenendo per la prima volta dati Paese per Paese. Da questa nuova ricerca è emerso che circa il 15% dei decessi in tutto il mondo da Covid-19 potrebbe essere attribuito all’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico. Si va dal 29% registrato per la Repubblica Ceca o dal 27% in Cina e dal 26% in Germania, al 3% dell’Australia o all’1% della Nuova Zelanda. Il dato europeo è al 19%, mentre quello italiano identico alla media globale: 15%. Pozzer spiega che “Questa scoperta non dimostra una relazione diretta di causa-effetto tra l’inquinamento atmosferico e la mortalità da Covid-19. Si tratta piuttosto di un effetto indiretto: le nostre stime mostrano l’importanza dell’inquinamento sugli esiti fatali dell’infezione virale per la salute, cioè aggravando le comorbilità”. Il ricercatore sottolinea che “la mortalità effettiva è influenzata da molti fattori aggiuntivi come il sistema sanitario del Paese”, ma anche se è già possibile “distinguere chiaramente il contributo dell’inquinamento atmosferico alla mortalità da Covid-19” restano “notevoli incertezze” da affrontare. Ovvero? “In primo luogo - ci spiega telefonicamente dalla Germania - abbiamo potuto calcolare l’impatto ma tecnicamente non sappiamo i meccanismi biologici attraverso i quali l’inquinamento atmosferico incrementa la mortalità da Covid-19. Abbiamo delle intuizioni in merito ma per rispondere con certezza servono studi dedicati, la nostra è un’elaborazione statistica. Quel che sappiamo è che un organismo sottoposto per lungo termine all’inquinamento atmosferico è meno resiliente di fronte all’arrivo del coronavirus, che più probabilmente porterà a un esito nefasto”. Come riassume un altro co-autore della ricerca, Thomas Münzel dell’Universitätsklinikum Mainz, “quando le persone inalano aria inquinata, le piccolissime particelle inquinanti migrano dai polmoni al sangue e nei vasi sanguigni, causando infiammazione e grave stress ossidativo. Questo causa danni al rivestimento interno delle arterie, l’endotelio, e porta al restringimento e all’irrigidimento delle arterie. Anche il virus Covid-19 entra nel corpo attraverso i polmoni, causando danni simili ai vasi sanguigni. Se l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico e l’infezione con il virus Covid-19 si uniscono, allora abbiamo un effetto negativo aggiuntivo sulla salute, il che porta a una maggiore vulnerabilità e a una minore resilienza al Covid-19”. Un po’ come accade per chi fuma tabacco. Se i meccanismi biologici restano da chiarire, ciò non toglie che tutte le evidenze scientifiche finora raccolte in merito alle correlazioni tra Covid-19 e inquinamento atmosferico vadano nella stessa direzione. Una relazione che peraltro trova conferma dai risultati di studi cinesi simili basati sull’epidemia di Sars, che hanno analizzato l’inquinamento da PM2,5 e le conseguenze dell’epidemia da Sars-Cov-1 nel 2003. Un’altra “incertezza” che va tenuta in debito conto è poi quella collegata alla natura stessa della ricerca, uno studio di tipo statistico. Ad esempio il dato rilevato per l’Italia (il già citato 15%) è compreso in un intervallo di confidenza al 95% che spazia dal 7 al 34%. Questo significa che in media in Italia - dalle zone rurali poco inquinate a quelle attanagliate nello smog della pianura padana o delle grandi città del nord - si ha il 15% in più di morire per Covid-19 a causa dell’esposizione a lungo termine al PM2,5, ma questa probabilità è racchiusa in un ventaglio più ampio che va dal 7 al 34%. “Quel che preme sottolineare - aggiunge Pozzer - è che nonostante la variabilità che abbiamo messo in evidenza, questo numero non è mai zero. Un italiano in media se viene contagiato dal Sars-Cov-2 ha il 15% di possibilità in più di morire rispetto a quella che avrebbe se fosse nato in un paese totalmente non inquinato da PM2,5 proveniente da fonti antropogeniche, come quelle legate all’utilizzo dei combustibili fossili”. In Italia ad esempio circa i due terzi delle emissioni antropiche di PM2.5 sono attribuibili agli impianti di riscaldamento e, allagando lo sguardo a tutta Europa, sappiamo che l’80% di tutto il consumo di calore viene ancora soddisfatto bruciando combustibili fossili. Dunque promuovendo l’impiego di fonti energetiche più pulite, come le rinnovabili, anche la nostra salute ne guadagnerebbe? “Questo è indiscutibile - osserva Pozzer. Più in generale, è necessario ridurre la nostra impronta ecologica al minimo. Quella dei nostri antenati durante l’Età della pietra era certamente più bassa dalla nostra, ma allora l’aspettativa di vita se andava bene arrivava a 30 anni. Quindi dobbiamo riconoscere che il progresso tanto male non ha fatto e tornare all’Età della pietra sarebbe peggio. Ma qui non si tratta di chiudere d’un colpo tutte le attività inquinanti: lo sviluppo tecnologico ci ha messo a disposizione molte possibilità per ridurre drasticamente le emissioni e migliorare la qualità della nostra vita, mi sembra giusto spingere in questa direzione”. “Come abbiamo rilevato alla fine della nostra ricerca - continua Pozzer - La pandemia di Covid-19 si concluderà con la vaccinazione della popolazione o, speriamo di no, con l’immunità di gregge attraverso un’infezione estesa. Ma in ogni caso finirà. Tuttavia, non potremo smettere semplicemente di respirare né esistono vaccini contro una cattiva qualità dell’aria o la crisi climatica. Il rimedio è mitigare le emissioni, e questa è una soluzione win-win”. Ovvero, ne guadagna in salute l’ambiente e dunque anche noi. E nonostante i progressi fatti, ne resta di lavoro da fare. A partire dall’Italia: la Commissione europea pochi giorni fa ha avviato una (nuova) procedura d’infrazione verso il nostro Paese, per il mancato rispetto della direttiva 2008/50/CE sulla qualità dell’aria. I dati disponibili per l’Italia mostrano infatti che “il valore limite per il PM2,5 non è stato rispettato in diverse città della valle del Po (tra cui Venezia, Padova e alcune zone nei pressi di Milano). Inoltre le misure previste dall’Italia non sono sufficienti a mantenere il periodo di superamento il più breve possibile”. Una performance pessima, che comporta non solo enormi danni ambientali ma soprattutto decine di migliaia di vite umane spezzate. Secondo gli ultimi dati messi in fila dall’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) nel suo Air quality in Europe 2019, tre inquinanti (PM2.5, NO2 e O3) bastano a provocare in Italia 76.200 decessi prematuri ogni anno. Da solo, il PM2.5 miete 58.600 vittime ogni dodici mesi, il secondo dato più elevato in Europa. Anche questa è una crisi sanitaria, che deve essere trattata come tale. Migranti. Quel neonato travolto dal mare di Giorgia Linardi* e Valentina Brinis** La Stampa, 12 novembre 2020 È morto un neonato ieri sera, aveva sei mesi, era stato appena salvato dal mare insieme alla sua mamma. È morto senza lacrime tra le braccia dei volontari di Open Arms e dei medici di Emergency che sono a bordo con loro. In meno di una settimana questa missione estrema, una delle ultimissime nel Mediterraneo, ha soccorso oltre duecento persone: le ultime 111 (ne hanno appena soccorse altre 65), raggiunte ieri al largo della Libia dopo una segnalazione di Frontex, annaspavano aggrappate a un gommone quasi sgonfio intorno cui galleggiavano 5 cadaveri. Non conosciamo niente di questi fantasmi a parte le condizioni da subito gravissime di un ragazzo, una donna al sesto mese di gravidanza e due bambini, anzi uno. Il secondo è quello che poche ore fa non ce l’ha fatta. Sono immagini dure quelle che, nel chiedere un porto sicuro, Open Arms ha deciso di diffondere in un Italia già provatissima dalla pandemia. Sguardi di terrore, volti lividi, angoscia su angoscia. Lo sappiamo. Il virus non risparmia nessuno, tutti siamo fragili, tutti abbiamo persone care contagiate, nonni esposti al rischio massimo. Eppure crediamo sia nostro dovere di umani raccontare cosa continua a succedere nel Mediterraneo centrale, dove il lavoro dei soccorritori è mosso dalla medesima pulsione etica che anima i medici in prima linea nei pronto soccorso assediati dal coronavirus. La sola idea di una classifica dei morti dovrebbe far arrossire. Il neonato senza vita su una nave carica di figli di un dio minore, la sua mamma, i migranti già condannati prima ancora di mettere piede a terra, sembrano comparse sullo sfondo del dramma che viviamo. Dimenticati dall’opinione pubblica ma prima ancora e più colpevolmente dal governo italiano che tiene le nostre navi bloccate mentre la gente annega e dall’Europa che ancora oggi continua a proporre algidi patti sulle migrazioni in cui il soccorso in mare significa Frontex, contenimento della migrazione, blocco delle Ong. Eppure ormai sappiamo che le famigerate Ong non rappresentano in alcun modo un fattore “attrattivo”. Dall’inizio di novembre, nella totale assenza dei temibili volontari umanitari, sono sbarcate a Lampedusa almeno 2700 persone: la storia si ripete sempre uguale, come il 22 ottobre scorso, un Sos diramato via navtext e poi, il giorno dopo, i naufraghi portati a riva da un peschereccio che raccontano di un bimbo senza madre, una moglie senza marito, i salvati e i sommersi. Non neghiamo la paura che oggi rende ombelicali le priorità degli italiani. Ma proprio in questo momento di fragilità collettiva dovremmo poter capire cosa significhi perdere di colpo la sicurezza, sentire la terra che manca sotto i piedi, la vita appesa a un colpo di tosse. Per noi si tratta del presente, l’emergenza di questi mesi. Per altri è la routine. Dovremmo essere più empatici. Che ci piaccia o meno il fenomeno migratorio è qui per restare, è giusto che si faccia il possibile per sconfiggere la tratta di esseri umani ma finché le traversate disperate del Mediterraneo non scompariranno bisogna esserci per non sacrificare vite. Per ora, un governo italiano dopo l’altro, un proclama europeo dopo l’altro, si sono moltiplicati i propositi più o meno buoni e, di fatto, sono solo scomparse le Ong: per il resto si tenta la sorte come prima, si torna indietro e si riparte dopo l’ennesimo calvario libico come prima, si muore come prima. La fortezza Europa non gestisce le migrazioni, le respinge fingendo di non vederle. Ma il mare parla e, come in queste ore, restituisce le urla di chi muore al buio, al largo, portandosi dietro in fondo al mare i nostri principi morali e costituzionali. *Portavoce di Sea Watch Italia **Responsabile advocacy di Open Arms Droghe. Aumentano i morti (+13%) e non c’è alcuna prevenzione vita.it, 12 novembre 2020 Luciano Squillaci, presidente della Federazione Italiana Comunità Terapeutiche, F.I.C.T., commentando i dati pubblicati dalla “Relazione al Parlamento 2020 sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia sottolinea”: “Una tragedia ampiamente e tristemente prevista. Siamo stanchi di dover prendere atto, ogni anno, e sempre con maggior ritardo, della consueta strage di innocenti” “I dati pubblicati dalla Relazione al Parlamento 2020 sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia (scaricabile in allegato), ci forniscono un quadro allarmante, una tragedia ampiamente e tristemente prevista. Siamo stanchi di dover prendere atto, ogni anno, e sempre con maggior ritardo, della consueta strage di innocenti”, dichiara Luciano Squillaci, presidente della Federazione Italiana Comunità Terapeutiche, F.I.C.T. “Il dato che più inquieta”, continua Squillaci, “è l’aumento di morti per droga: nel 2019 sono stati registrati 373 casi di decesso per overdose, l’11% in più rispetto lo scorso anno ed addirittura il 39% in più di decessi rispetto ai dati del 2016. Ma questi non sono numeri, sono persone. Donne ed uomini che forse avrebbero potuto avere una chance diversa se qualcuno si fosse in qualche modo preoccupato per loro. Al primo posto come causa di morte c’è sempre l’eroina, ma molto preoccupante è la percentuale del 30,8% di morti per sostanze imprecisate: probabilmente, come afferma la stessa relazione, si tratta delle nuove sostanze psicoattive (NPS) più di 100 censite ogni anno”. “Ma se continuiamo a lanciare allarmi che non vengono mai presi sul serio, rischiamo di contribuire a normalizzare la questione droga, a rendere tutto drammaticamente “consueto”“, continua il presidente, “Allora stavolta niente allarmi, prendiamo atto che si tratta di una tragedia ormai strutturale, che la politica, il governo, la società civile hanno ormai deciso che di queste persone non ci si vuole occupare. Quasi 400 morti e 7.800 ricoveri ospedalieri evidentemente non sono sufficienti per scuotere le coscienze. Così come evidentemente non ci scuotono i 660.000 giovani, 1 su 4 dei nostri figli che ogni giorno mandiamo a scuola e che dichiarano di fare uso di sostanze illegali. Dati confermati in trend costante negli ultimi anni. E purtroppo la rete dei servizi pubblico e del privato sociale ci racconta anche di numeri ancora più grandi”. “Nei centri di ascolto della Fict”, spiega il presidente, “riceviamo quotidianamente, famiglie che ci chiedono aiuto per i propri figli, e parliamo di bambini di 12/13 anni che scoprono di avere problemi di dipendenza”, continua Squillaci, “La sensazione è che, in Italia, si sia e? abbassata notevolmente la percezione del rischio dell’uso di sostanze e questo è dovuto alla carenza di percorsi di prevenzione educativi strutturati. Ovviamente per questo c’è necessità di risorse ma, negli ultimi dieci anni”, afferma Squillaci Fict, “c’è stato un forte disinvestimento in questo settore ed ora ne paghiamo evidentemente le conseguenze. Lo ribadiamo: occorre rifinanziare immediatamente il Fondo Nazionale per la lotta alla droga”. “Nei centri di aggregazione, nei servizi di prevenzione nelle scuole e nei territori, le strutture della Fict raggiungono circa 35.000 minori ogni anno ed intercettiamo diverse migliaia di casi che fanno uso strutturale di sostanze. Numeri enormi”, dice Squillaci, “che fanno pensare ed ai quali si aggiungono ulteriori elementi dettati dall’esperienza quotidiana dei servizi. È evidente a tutti l’aumento dei consumatori di cannabinoidi, superiore al 30% negli ultimi 7 anni, e i minori in carico al servizio sanitario per problemi di dipendenza, negli ultimi 5 anni, sono più che raddoppiati. L’ European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction mette gli adolescenti italiani al primo posto in Europa per il policonsumo”. “E poi il trend in costante aumento del consumo di cocaina”, aggiunge Squillaci, “che si riflette sulle richieste di trattamento confermati dai dati dei servizi della FICT: nel 2019, secondo l’osservatorio raccolta dati della Fict, sull’utenza totale inserita nelle nostre strutture, circa il 37% ha richiesto il trattamento terapeutico per cocaina e crack come sostanza di abuso primario, seguito dal 27% da eroina e dal 14% da cannabis”. Conclude il Presidente Fict: “Il sistema ufficiale dei servizi (servizio pubblico e comunità terapeutiche) ha una grande difficoltà ad intercettare il fenomeno giovanile delle dipendenze. Sono pochi i giovani che spontaneamente si rivolgono ai servizi. Il sistema dei servizi è tarato ancora sull’eroinomane classico, secondo una normativa, la 309/90, ormai inadeguata a rispondere ai nuovi bisogni e alle nuove tendenze giovanili”. Consiglio d’Europa: scendono i tassi di popolazione carceraria agensir.it, 12 novembre 2020 Il lockdown frena la criminalità, ma il virus entra anche negli istituti penitenziari. I tassi di popolazione carceraria registrati a metà settembre sono stati generalmente inferiori a quelli dell’inizio del 2020, segnale che “l’anno della pandemia è molto particolare in termini di criminalità e di azioni intraprese dagli attori del diritto penale per contrastarla”. Secondo uno studio condotto dall’Università di Losanna per il Consiglio d’Europa e diretto da Marcello Aebi, tra il 1° gennaio al 15 settembre il tasso di detenzione medio è sceso del 4,6%: da 121,4 a 115,8 detenuti per 100.000 abitanti (su 35 amministrazioni penali che hanno fornito dati). Diverse le cause, come “la diminuzione dell’attività del sistema giudiziario penale dovuta al confinamento, il rilascio dei detenuti come misura preventiva per ridurre la diffusione del Covid-19 e il calo della criminalità prodotto dal lockdown, che può aver ridotto le possibilità di commettere reati tradizionali”. Infatti, i dati nei quattro periodi di riferimento - gennaio, aprile, giugno e settembre - mostrano ad esempio che a metà aprile, in 17 amministrazioni penitenziarie, tra cui l’Italia, il tasso di detenzione era già sceso di oltre il 4% e rimaneva stabile in 29 amministrazioni penitenziarie. La Svezia, che non ha attuato il confinamento della popolazione, è stato l’unico Paese in cui il tasso di detenzione è aumentato. Al 15 giugno, erano 27 le amministrazioni penitenziarie in cui i tassi di popolazione carceraria erano diminuiti, per 14 si registravano tendenze stabili e solo la Svezia e la Grecia avevano tassi superiori a giugno rispetto a gennaio. 143 mila sarebbero i prigionieri rilasciati in 25 amministrazioni (il 40% in Turchia). Durante l’estate e senza lockdown, la tendenza si è invertita in 12 amministrazioni penitenziarie. In Italia tra settembre e gennaio la popolazione carceraria è scesa del 10,8%. Secondo lo studio, almeno 3.300 detenuti e 5.100 agenti penitenziari hanno contratto il Covid-19 entro il 15 settembre nelle 38 amministrazioni penitenziarie europee che hanno fornito i dati. Libia. Uccisa l’avvocatessa che denunciava il figlio di Haftar di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 12 novembre 2020 Hanan al Barassi è stata freddata dopo aver ricevuto minacce di morte. Aveva criticato e accusato di corruzione il figlio del Generale, Saddam. Quando per le vie di Bengasi viene menzionato il suo nome in genere i passanti abbassano lo sguardo e svicolano veloci. Pochi mesi fa nel teatro del centro gli attori confidavano a bassa voce che di Saddam Haftar è meglio non parlare mai. “Nei nostri spettacoli possiamo fare ironia sui vizi e difetti della società libica. Ultimamente non sono neppure più vietati gli accenni alla situazione politica e le divisioni interne. Ma la famiglia Haftar è meglio non toccarla e Saddam proprio per nulla”, dicevano. A giudicare dai fatti le loro cautele sono più che giustificate. L’assassinio ieri a metà giornata dell’avvocatessa 46enne Hanan al Barassi conferma i timori più cupi. I killer hanno agito consapevoli di godere della totale impunità. Le hanno sparato mentre era alla guida della sua auto nella centralissima “V20”, dove si trovano i negozi migliori e i pedoni affollano i marciapiedi. “Azouz Barqa”, Signora Cirenaica, come era nota questa instancabile attivista in favore dei diritti umani, che solo poche ore prima sul suo blog aveva postato un nuovo messaggio d’accusa contro la “corruzione della famiglia Haftar” e in particolare di denuncia nei confronti di Saddam, non ha neppure avuto il tempo di reagire. A Bengasi i commenti sono riservati, impauriti. Ma gli osservatori di cose libiche e le organizzazioni umanitarie internazionali non esitano a tornare a puntare il dito contro lui, Saddam, 35 anni, figlio primogenito del maresciallo Khalifa Haftar, che vorrebbe un giorno prendere il posto del padre. La fine della al Barassi ricorda molto da vicino quella nel luglio 2019 di Siham Sergewa, la deputata rapita nella sua abitazione di Bengasi da un gruppo di uomini armati militanti nella “Brigata 106”, che è comandata da Saddam in persona. La casa venne data alle fiamme, il marito chirurgo picchiato e minacciato, e Siham fu caricata di forza su di una camionetta. Da allora non se ne è saputo più nulla. Ma la convinzione generale è che sia morta da un pezzo, come del resto i circa 150 tra intellettuali e giornalisti che dal 2014 si sono opposti al pugno di ferro imposto da Khalifa Haftar sulle zone sotto il suo controllo. Le due donne in particolare avevano criticato l’offensiva militare voluta da Haftar per cercare di prendere Tripoli l’anno scorso. Siham denunciava le violenze contro le donne e la corruzione. Amnesty International segnala che era stata minacciata di morte dopo che aveva postato sul blog l’intenzione di diffondere un suo video per rendere pubblici i crimini di Saddam. Un personaggio che ricorda da vicino la figura di Uday, il noto primogenito di Saddam Hussein, ucciso in Iraq dalle truppe americane nel 2003. Ma, nel caso del Saddam libico, le implicazioni con il regime di Haftar sono ancora più profonde. Saddam ricopre infatti un ruolo importante nella gerarchia del sistema militare locale. Le sue milizie sono state accusate dal Tribunale Internazionale dell’Aja di aver torturato e ucciso i prigionieri di guerra. I media di Tripoli raccontano che nel 2017 fu lui che guidò la sua milizia a prelevare gran parte dell’oro e contanti conservati nella filiale della Banca Centrale libica a Bengasi. Di fatto una vera rapina alla luce del giorno garantita dal monopolio della violenza. E due mesi fa anche Radio France International segnalava i traffici molto poco chiari dei tre figli di Haftar, oltre a Saddam anche Khaled e Siddiq, impegnati a riciclare oro e contanti nelle banche di Istanbul e del Dubai. Il ruolo di Saddam cresce adesso con il progressivo indebolimento militare e politico del padre. Battuto militarmente a Tripoli, costretto sulla difensiva a causa degli aiuti turchi al governo di Fayez Sarraj, ai ferri corti con gli alleati a Mosca e oltretutto di salute malferma, a 77 Khalifa Haftar appare oggi una figura in netto declino. Non è strano che Saddam cerchi di farsi largo. Ma i suoi modi brutali non sono apprezzati in Cirenaica e tanto meno in Tripolitania. Non ha alcun ruolo nei timidi colloqui di pace che stanno svolgendosi in questo momento sia a Tunisi che a Sirte per cercare di creare un governo unitario per il Paese. L’Unsmil, l’agenzia Onu di sostegno alla Libia che lavora per il dialogo, ha divulgato una denuncia netta contro la tragica morte della al Barassi. Tra i suoi diplomatici prevale il parere per cui il primogenito di Haftar vada inquisito, piuttosto che considerato come un credibile partner politico. Iran. Saba Kord Afshari, condannata a 24 anni di carcere per non aver portato il velo di Adriano Sofri Il Foglio, 12 novembre 2020 Lunedì scorso la Sezione 28 della Corte Suprema della Repubblica islamica dell’Iran ha respinto la richiesta di revisione del processo contro una giovane donna, Saba Kord Afshari, che si era concluso con la condanna a 24 anni. Saba era stata incarcerata il 2 giugno dell’anno scorso, quando aveva vent’anni, per aver infranto l’obbligo di indossare lo hijab, il velo cosiddetto islamico che copre il capo e il collo delle donne. È detenuta nel famigerato carcere di Evin a Teheran. Era già stata arrestata il 2 agosto del 2018, condannata a un anno e liberata da un indulto a febbraio del 2019. Recidiva, la sua condanna successiva sommava 15 anni per “incitamento e favoreggiamento della corruzione e della prostituzione” attraverso la promozione del rifiuto del velo, 7 anni e mezzo per “associazione e collusione al fine di commettere crimini contro la sicurezza nazionale”, e un anno e mezzo per avere “svolto una propaganda contro il sistema”. La condanna maggiore era stata ridotta e successivamente ripristinata. Intanto a Saba Kord Afshari venivano negate le cure mediche di cui aveva bisogno. Sua madre, Raheleh Ahmadi, era stata a sua volta arrestata e condannata a due anni per aver manifestato a difesa della figlia. A lei è stata negata l’uscita dal carcere di Evin concessa ad altri detenuti e detenute con pene inferiori ai 5 anni a causa del Covid. Nel 2018 almeno 29 donne, “Le ragazze di via della Rivoluzione”, erano state arrestate per aver manifestato a capo scoperto nel centro di Teheran e in altre città, inalberato i foulard come bandiere e diffuso le loro immagini sui media sociali (qui, per esempio: “The Girls Of Revolution Street”). La Sezione 28 della Corte Suprema è nota per la spietatezza e il disprezzo di ogni diritto alla difesa esibiti contro giornalisti, scrittori, poeti, cineasti e artisti, e seguaci di minoranze religiose, per il solo fatto del loro credo, come i Baha’i. È una di tante notizie orrende che vengono, e spesso non arrivano, da un grande paese in cui le donne furono protagoniste di una rivoluzione, subito tradita dai suoi fanatici turbanti, e da allora condannate a nascondere i propri capelli. Oggi fa una piccola impressione in più, quando la nostra attenzione e le nostre controversie sono prese da una mascherina. Iran. Scarcerata l’avvocatessa Sotoudeh di Giovanni Benedetti L’Osservatore Romano, 12 novembre 2020 L’avvocatessa iraniana Nasrin Sotoudeh, celebre per il suo impegno in difesa dei diritti umani, ha potuto lasciare lo scorso 7 novembre il carcere femminile di Qarchack, con un permesso temporaneo concessole per via dell’emergenza covid-19. La notizia è stata comunicata il giorno stesso da Mizan, l’agenzia di stampa ufficiale dell’autorità giudiziaria iraniana. Definita da numerose testate occidentali come “la più nota prigioniera politica iraniana”, la cinquantasettenne Sotoudeh era stata arrestata nel giugno 2018 dietro le gravi accuse di attività contro la sicurezza nazionale, propaganda contro lo Stato e istigazione alla corruzione e alla prostituzione. Al termine di un processo durato quattro mesi, l’avvocatessa è stata poi giudicata colpevole e condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate. La fama di Nasrin Sotoudeh deriva dalle importanti battaglie legali da lei condotte in Iran, in particolare a difesa dei diritti delle donne e contro la pena di morte. Per questo suo impegno, l’avvocatessa è stata insignita nel 2012 del Premio Sakharov per la libertà di pensiero dal Parlamento europeo. Le attività di Sotoudeh hanno però portato la donna a duri contrasti con il governo iraniano nel corso degli anni: già nel 2010, infatti, venne arrestata con le accuse di cospirazione contro lo Stato e propaganda antigovernativa e condannata a sei anni di reclusione, in una sentenza che suscitò dure critiche dalla comunità internazionale e in particolare da parte dell’amministrazione statunitense di Barack Obama. Sotoudeh venne poi rilasciata dopo tre anni, ma con il divieto di lasciare l’Iran. Lo scorso agosto, anche la figlia ventenne Mehraveh Khandan è stata arrestata, sulla base di accuse non definite, per venire rilasciata dopo poche ore. Durante gli ultimi mesi della sua detenzione, Nasrin Sotoudeh ha intrapreso uno sciopero della fame per chiedere il rilascio di alcuni attivisti e prigionieri politici a causa della situazione di emergenza sanitaria. La protesta si è interrotta all’inizio del mese di settembre dopo 45 giorni, quando la donna è stata ricoverata a causa di un’insufficienza cardiaca e trasferita dal carcere di Evin, dove era precedentemente detenuta, alla struttura di Qarchack. La pandemia di covid-19 ha colpito molto duramente l’Iran, che dall’inizio di novembre ha registrato circa 8.000 nuovi casi al giorno, un numero largamente superiore a quelli di altri Paesi della regione. Dal mese di marzo, il governo iraniano ha concesso circa 100.000 permessi temporanei di rilascio per fare fronte al sovraffollamento delle carceri, ma, come denunciato lo scorso ottobre dall’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, i prigionieri politici sono stati quasi completamente esclusi da questa manovra. Iran. Focolaio in carcere, Nasrin Sotoudeh positiva al Covid di Francesca Spasiano Il Dubbio, 12 novembre 2020 L’avvocata era in permesso temporaneo da sabato. L’avvocata iraniana per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, scarcerata in via temporanea lo scorso sabato, è risultata positiva al Covid. L’attivista avrebbe contratto il virus nel carcere femminile di Qarchak, dove è stata trasferita senza preavviso il 20 ottobre dall’istituto di Evin, a Teheran, “nonostante la sua grave malattia e debolezza”. A renderlo noto è il marito, Reza Khandan, con un messaggio diffuso su Facebook: “Siamo stati in ospedale per i problemi di cuore di cui soffre Nasrin. Prima di effettuare gli esami cardiaci, i medici ci hanno suggerito di fare dei test per il Coronavirus. Il suo è risultato positivo, io sono ancora in attesa della risposta”. La curva epidemica in Iran va peggiorando: proprio ieri il Paese ha registrato il record di contagi dall’inizio dell’emergenza sanitaria. L’ultimo bollettino diffuso dalla portavoce del ministero della Salute di Teheran, Sima Lari, è di 11.780 nuovi positivi e 462 morti, per un totale di 715mila casi e 39.664 decessi. E il rischio di contagio all’interno delle carceri, ha spinto le autorità a rilasciare temporaneamente migliaia di prigionieri nel corso degli ultimi mesi. “Durante l’incontro che ho avuto mercoledì scorso con Nasrin alla prigione di Qarchak, mi ha detto che il coronavirus si era diffuso nel suo reparto e che molti detenuti si erano ammalati. Ecco perché aveva fretta di essere rilasciata”, ha spiegato Khandan denunciando le “condizioni disastrose” della struttura. Si tratta di un carcere per sole donne a sud di Teheran, ricavato all’interno di un’ex fabbrica di polli, noto per la durezza della detenzione e i maltrattamenti sui prigionieri politici. Le condizioni antigieniche di Qarchak “sono anche peggiori del carcere di Evin”, denunciava dopo il trasferimento Reza Khandan, segnalando l’ennesimo abuso ai danni della moglie: “Secondo gli esperti, avrebbe dovuto essere nuovamente ricoverata in ospedale per un esame cardiaco urgente, ma le autorità l’hanno trasferita direttamente in prigione”. L’avvocata di 57 anni, debilitata da un lungo sciopero della fame interrotto a settembre dopo 45 giorni, è stata liberata provvisoriamente “con il consenso del magistrato responsabile delle carceri femminili”. “Sono tornata a casa - scriveva lei stessa su Facebook il 7 novembre - con un permesso per motivi medici per proseguire le mie cure”. Accusata di “propaganda sovversiva” dalle autorità iraniane, Sotoudeh è in carcere dal 2018 dopo aver difeso una donna arrestata per aver protestato contro l’obbligo di indossare l’hijab. La condanna fu durissima: 148 frustate e 33 anni e mezzo di detenzione. Nel 2019 poi, la seconda condanna a 12 anni di carcere “per aver incoraggiato la corruzione e la dissolutezza”. Ma la donna, che assieme al marito è fra i principali attivisti iraniani per i diritti umani, si è sempre dichiarata innocente, spiegando di aver soltanto manifestato pacificamente per i diritti delle donne e contro la pena di morte. “Ogni giorno che trascorro fuori dal carcere, aspetto di sentire la notizia del rilascio di tutti i prigionieri politici - ha detto l’avvocata in un messaggio registrato dopo la sua liberazione sabato scorso”. “Vorrei esprimere la mia gratitudine a tutte le organizzazioni nazionali e internazionali in Iran e all’estero - ha aggiunto - alle associazioni degli avvocati in vari paesi, alle organizzazioni per i diritti umani e ai diversi individui come artisti, scrittori, politici, attivisti per i diritti civili, difensori dei diritti umani, testate giornalistiche e miei cari colleghi in tutto il mondo. È grazie al vostro amore e al vostro sostegno che i prigionieri politici possono sopportare la prigione”. Genocidio Ruanda, prima udienza per Kabuga all’Aja: sette i capi d’accusa di Raffaella Scuderi La Repubblica, 12 novembre 2020 Il presunto finanziatore dei massacri del 1994 è comparso davanti al Tribunale internazionale Onu. Arrestato a maggio in Francia, è stato estradato nei Paesi Bassi a ottobre. Corrucciato, giacca grigia con cravatta, seduto su una sedia a rotelle e con la mascherina appoggiata sul mento. Félicien Kabuga è comparso oggi per la prima udienza sul suo presunto coinvolgimento nel genocidio ruandese davanti al Meccanismo Residuale Internazionale delle Nazioni Unite per i Tribunali Penali (Ictr), rinunciando al diritto di collegarsi in video a distanza. Interpellato dal giudice, l’ex miliardiario ruandese ha scelto di parlare la sua lingua, pur conoscendo sia il francese che l’inglese. Il giudice gli ha chiesto a più riprese se stava capendo quanto detto in Aula. La richiesta è caduta nel vuoto e gli avvocati hanno iniziato a leggere le accuse. Dal 6 aprile 1994 alla metà di luglio di quello stesso anno, per circa 100 giorni, in Ruanda vennero massacrate sistematicamente a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati, quasi un milione di persone appartenenti per la maggior parte all’etnia tutsi. La strage è stata una vera pulizia etnica, compiuta per l’odio tra tutsi e hutu. A quei tempi Kabuga era un potente e ricco uomo d’affari, presidente del Fondo nazionale di difesa e della Radio Television Libre des Milles Collines, da cui partirono gli ordini perentori a uccidere tutti i tutsi, sia che fossero amici, parenti o vicini di casa. Pena la morte per chi non ubbidiva. Sono sette i capi di accusa a cui il finanziatore hutu, dovrà rispondere. Kabuga è stato accusato di genocidio, complicità nel genocidio, incitamento pubblico e diretto a commettere genocidio, tentativo di commettere genocidio, cospirazione per commettere genocidio e crimini contro l’umanità. Se riconosciuto colpevole, a 85 anni, l’ex miliardario finirà la sua vita in carcere. Secondo l’accusa, Kabuga avrebbe inoltre istruito, assistito e sollecitato i membri degli Interahamwe, la milizia paramilitare hutu, a partecipare all’uccisione dei tutsi. Inoltre si presume che Kabuga abbia istituito il Fondo nazionale per la difesa per raccogliere i fondi e il supporto finanziario e logistico per la strage, incluso l’acquisto di migliaia di machete. Il 29 aprile 2013 il giudice Vagn Joensen ha emesso un mandato di arresto a suo carico e un ordine di estradizione, chiedendo a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite di cercare e arrestare Kabuga, catturato dalle autorità francesi a maggio di quest’anno. Viveva vicino a Parigi, protetto dai suoi figli. Respinto l’appello di estradizione dalla corte di Cassazione francese, l’ex uomo d’affari è stato estradato a fine ottobre all’Aja per essere giudicato.