Covid in carcere, una agenda per l’emergenza di Stefano Anastasia Il Manifesto, 11 novembre 2020 Ridurre le presenze in carcere non significa né adottare provvedimenti simbolici, né evitare temporaneamente lo storico sovraffollamento delle nostre carceri. Ridurre le presenze in carcere, oggi, significa creare spazi per una gestione efficace della prevenzione e dell’assistenza per quanti resteranno lì dentro. In questa seconda ondata il virus sta correndo anche in carcere. In pochi giorni personale e detenuti positivi si sono rapidamente moltiplicati, superando di gran lunga i casi registrati nella primavera scorsa. Certo, si tratta in gran parte di asintomatici (anche se non mancano i ricoveri e i primi casi di morte, uno a Livorno e uno ad Alessandria); certo è l’effetto di uno screening più ampio, ma il sistema è di nuovo in sofferenza. Non preoccupa, è chiaro, la distribuzione puntiforme di singoli casi di positività, sintomo della diffusione del virus nella società e indice di un buon funzionamento delle misure di prevenzione, che individuano e isolano all’ingresso i nuovi arrivati positivi al virus. Preoccupano invece i focolai che qua e là si vanno registrando, come a Terni o a Poggioreale, dove il virus entra in sezione e immediatamente si diffonde a decine di detenuti. Era prevedibile, del resto, che fosse così: le carceri non sono solo strutture di vita comunitaria, come le RSA, ma hanno standard igienici di molto inferiori, in barba a previsioni normative disattese in gran parte degli istituti. Torna, dunque, l’agenda dell’emergenza: svuotare le carceri, assicurare prevenzione e assistenza ai positivi, attività e relazioni affettive alla generalità dei detenuti in condizioni di sicurezza. Partiamo dall’inizio: ridurre le presenze in carcere durante la pandemia non è la fantasia di un gruppo di abolizionisti, ma una precisa indicazione degli organismi internazionali che si occupano di tutela della salute e di prevenzione di trattamenti inumani in danno dei detenuti. Ridurre le presenze in carcere non significa né adottare provvedimenti simbolici, né - semplicemente - evitare temporaneamente lo storico sovraffollamento delle nostre carceri. Ridurre le presenze in carcere, oggi, significa creare spazi per una gestione efficace della prevenzione e dell’assistenza per quanti resteranno lì dentro. Bene, dunque, il rinnovato appello del Procuratore generale Salvi per evitare arresti e misure cautelari non strettamente necessarie. Bene le licenze straordinarie ai semiliberi e ai lavoranti all’esterno; meglio se saranno concesse anche a coloro che già usufruiscono abitualmente di permessi-premio. Così come meglio sarebbe se la detenzione domiciliare per i detenuti a fine pena non fosse sottoposta a tutti quei vincoli (braccialetto elettronico, tipologia di reato e altre stigmatizzazioni, rilievi disciplinari accertati o solo sollevati, …) che rischiano di limitarne di molto la portata, già inficiata dalla indisponibilità di un domicilio per gran parte dei potenziali beneficiari, su cui l’Esecuzione penale esterna, Cassa Ammende e Regioni hanno fatto tanto, ma non quanto necessario. Decisivo, infine, sarebbe un ulteriore sconto di pena per i beneficiari della liberazione anticipata negli ultimi anni. Lo si fece, con significativi risultati, quando eravamo sotto giudizio della Corte europea per i diritti umani per il sovraffollamento, perché ora no? Con una significativa riduzione delle presenze in carcere sarebbe più facile affrontare la gestione sanitaria interna della prevenzione e dei focolai, nonché la prosecuzione - in condizioni di sicurezza - delle attività lavorative e formative, di istruzione, culturali o sportive. Non possiamo, infatti, tornare a quella chiusura generalizzata a cui i detenuti sono stati costretti in primavera, né possono tornare a interrompersi quelle minime relazioni affettive garantite dalle telefonate, dalle videochiamate e dal colloquio mensile, già svolto - in molte realtà - in condizioni proibitive di distacco e di separazione. Dopo il terribile trauma di marzo e le sue tragiche conseguenze, i detenuti hanno mostrato consapevolezza e responsabilità. Speriamo che il Parlamento, nell’esame del decreto Ristori, sappia corrispondergli. Scarcerazioni frenate dalle polemiche, ora il virus divora le celle sovraffollate di Alessio Scandurra* Il Riformista, 11 novembre 2020 Negli ultimi mesi la popolazione detenuta è cresciuta come se questa seconda ondata non fosse attesa. Il 7 novembre il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale riferiva che i contagi nelle carceri italiane avevano superato le 400 unità tra i detenuti mentre il numero di contagi tra il personale era ancora più alto. Tre giorni dopo notizie di fonte sindacale parlano di 537 positivi tra detenuti e 728 tra gli operatori. La seconda ondata di contagi da coronavirus che sta mettendo in crisi il Paese è dunque entrata fragorosamente in carcere con numeri da subito superiori a quelli registrati qualche mese fa. Ma come è possibile? Dopo tutti i mesi passati a parlare quasi solo di questo, dopo le rivolte e i morti, il sistema penitenziario nazionale è dunque del tutto impreparato a difendersi dai contagi? In effetti le cose non stanno affatto così. L’Osservatorio di Antigone da settembre ha ripreso le proprie visite in carcere, interrotte a dicembre 2019, entrando in oltre 30 istituti in varie regioni della nazione e trovando un paesaggio molto diverso da quello che aveva lasciato. Le attività trattamentali sono ferme quasi ovunque ma in compenso i protocolli per la prevenzione del contagio vengono applicati in maniera piuttosto rigorosa. Gli arrestati e le persone che rientrano dai permessi ad esempio, prima di andare in sezione, vanno tutti in isolamento cautelare mentre i colloqui, che sono ripresi quasi ovunque, vengono effettuati in stanze divise in due da una parete di plastica trasparente: i detenuti da una parte, i familiari dall’altra, senza alcun rischio di contagio. L’impressione che abbiamo ricavato dalle nostre visite è che queste e molte altre misure siano la prova di una grande attenzione e di una grande preoccupazione per la diffusione del virus. Ma se le cose stanno davvero così, come si è arrivati a questi numeri? Il sospetto è che questa volta non siano state le carceri a essere impreparate, ma il resto della società, a partire dalla politica. Il 30 ottobre 2020, prima dunque che le misure previste dal Governo nel decreto “Ristori” potessero dispiegare alcun effetto, in carcere c’erano 54.868 persone, 600 in più di fine settembre, 1.200 in più di fine luglio. La popolazione detenuta è dunque cresciuta in questi mesi come se questa seconda ondata non fosse attesa, riducendo al lumicino gli spazi a disposizione per l’isolamento dei nuovi arrivati e dei positivi. Non sono dunque i singoli istituti a trovarsi impreparati, ma lo è forse il sistema nel suo complesso, e la politica che lo dovrebbe governare, che ha lasciato che si creassero queste condizioni. E la responsabilità non è solo della politica. Durante la prima ondata della pandemia le prime misure adottate dal governo per ridurre le presenze in carcere sono del 17 marzo, contenute nel decreto “Cura Italia”. Ebbene, in quel momento la popolazione detenuta nel paese era già calata di circa 1.800 unità da fine febbraio. Il “Cura Italia” consoliderà questa tendenza, ma già da prima tutti gli operatori della giustizia, per paura delle conseguenze disastrose che i contagi avrebbero potuto avere sul carcere, si erano impegnati a fare veramente del ricorso alla detenzione in carcere una extrema ratio. Questa tendenza, consolidata dal decreto, si è poi interrotta bruscamente a seguito della polemica del tutto infondata sulle “scarcerazioni dei boss” lanciata da alcuni giornali, ma lo scenario odierno è del tutto diverso. Fino al giorno prima dell’adozione del decreto “Ristori”, che ha riproposto più o meno immutate molte misure previste dal “Cura Italia”, i numeri erano costantemente saliti e il 7 novembre, una settimana dopo l’adozione del decreto, il calo delle presenze in carcere è stato di 60 persone in tutto. Non sembra esservi stata dunque, in questa seconda occasione, la stessa prontezza che si ebbe a marzo nel ricorrere a tutte le misure possibili, vecchie e nuove, per combattere l’affollamento penitenziario. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Gli spazi a disposizione negli istituti per gli isolamenti si stanno rapidamente esaurendo e ad esempio a Roma succede che chi viene arrestato venga mandato a Vasto, in Abruzzo, a fare la quarantena perché non ci sono posti in istituti più vicini. E, aumentando il numero dei positivi e delle persone da mettere in isolamento, la situazione si aggrava di giorno in giorno. Le misure reintrodotte dal governo sono importanti, ma è altrettanto importante che si legga e si dia voce al messaggio che quelle misure tra le righe contengono: l’emergenza è tornata e bisogna che tutti si impegnino per affrontarla agendo anzitutto sui numeri del sovraffollamento. Le tragedie di marzo scorso sono ancora nella memoria di tutti, ma sappiamo che le cose sarebbero potute andare anche peggio, in termini di contagi e di decessi. E bisogna che questo non succeda. *Associazione Antigone Covid in carcere. Sovraffollamento, primo ostacolo alla prevenzione di Davide Dionisi vaticannews.va, 11 novembre 2020 Daniela De Robert (Collegio Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale): “Rispetto alla prima ondata siamo più preparati, ma si deve fare di più”. La ripresa dei contagi sta interessando inevitabilmente anche gli istituti di pena italiani. Le 54.809 persone oggi detenute sono attualmente ristrette nei 47.187 posti realmente disponibili e in questo contesto gli isolamenti precauzionali, attuati per coloro che entrano in carcere, incidono numericamente in maniera consistente. Ma, rispetto alla prima ondata, il numero di coloro che presentano sintomi è minore. Non solo. Ma i dispositivi di protezione non rappresentano, come allora. un’ipotesi teorica e le stesse procedure messe in atto rendono meno probabile il possibile contagio. Presenza di focolai - A fare il punto della situazione ai microfoni di Vaticannews è Daniela De Robert del Collegio Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. “I casi sono in aumento, ma non come sta avvenendo fuori” spiega. “Abbiamo individuato la presenza di focolai. Parliamo di numeri a due unità, dai dieci in su, che in realtà non offrono un quadro omogeneo perché in alcuni istituti sono presenti strutture sanitarie che raccolgono dati provenienti da altre carceri. Quindi può verificarsi che a San Vittore (struttura polo) si registri un numero alto, ma in realtà si tratta della somma di pazienti residenti in diverse case di reclusione”. Più attrezzati rispetto alla prima ondata - Rispetto al passato, le strutture sono sicuramente più attrezzate e i test vengono costantemente effettuati” continua De Robert. “La situazione è ancora sotto controllo e tutti gli istituti sono dotati di reparti di isolamento. I nuovi arrivati trascorrono un periodo di quarantena di 14 giorni per evitare il rischio che possano portare da fuori il virus. Sono presenti, inoltre, i dispositivi di sicurezza e vengono garantite le misure precauzionali sia per i ristretti, che per il personale che viene da fuori. Si può fare di più” evidenzia “perché le carceri sono ancora luoghi sovraffollati e negli spazi angusti si vive male e non è possibile fare prevenzione”. La doppia sofferenza del lockdown - “Il lockdown ha creato un enorme vuoto” continua De Robert “La presenza dei volontari è venuta meno e le attività trattamentali si sono interrotte. Alcuni istituti sono riusciti a compensare con l’avvio delle attività a distanza. Devo dire che le videochiamate hanno sensibilmente alleviato la sofferenza di tanti ospiti che, a causa delle nuove normative, non hanno potuto più incontrare i propri cari. Sotto questo punto di vista si è ottenuto un buon risultato, tenuto conto che alcuni sono riusciti a rivedere familiari con i quali non avevano più contatti da anni. O, più, semplicemente, rivedere luoghi e spazi familiari. Carcere come opportunità di reinserimento - Il carcere” conclude De Robert “non è un luogo in cui si deve rimanere chiusi e basta, ma è uno spazio in cui le persone sono separate, private della libertà ma con una finalità, quella del reinserimento. E questo richiede una serie di attività, progettualità, iniziative e possibilità che vanno assolutamente riprese nel rispetto delle esigenze sanitarie e delle norme vigenti”. La certezza della pena ha senso se va di pari passo alla sua umanità: subito la riforma carceraria di Vincenzo Musacchio* Il Dubbio, 11 novembre 2020 Riforma della giustizia e sistema penitenziario. In questi giorni si discute, giustamente, di riforma della giustizia. Una buona riforma del settore, tuttavia, non può prescindere da un altrettanto buona riforma dell’ordinamento penitenziario. Affrontare questo binomio simultaneamente, sembra sia ben lontano dai programmi del Governo e della politica in generale. Se c’è un’emergenza giustizia in Italia, non vi sono dubbi che esista anche un’emergenza legata al sistema penitenziario e alle condizioni dei detenuti nelle carceri. Il principio della rieducazione della pena - articolo 27 comma 3 della Costituzione ebbe una genesi lunga, travagliata, ma, allo stesso tempo avveniristica. Aldo Moro, fautore della teoria dell’emenda, sosteneva che la pena rieducativa non significasse solo premiare il detenuto, ma anche concedergli di ripartire da zero nella costruzione del rapporto con la società e con i suoi simili. In altre parole, offrirgli la possibilità di imparare a conoscere se stesso e l’animo umano. La pena, dunque, nel nostro ordinamento giuridico, per quanto afflittiva possa essere, non può in alcun modo degradare l’individuo. È la costituzionalizzazione del principio di umanizzazione della pena che vieta qualsiasi conseguenza penale incompatibile con la dignità dell’essere umano. Tale principio, però, per non rimanere astratto e simbolico, ha dei costi - tenuto conto che i trattamenti inumani e degradanti cui sono sottoposti i detenuti nelle carceri italiane sono oggi ancora più elevati che in passato - per cui, occorrerebbe agire in concreto e presto, programmando nuove strategie operative e investendo risorse economiche in questo settore. Sovraffollamento, suicidi, decessi innaturali, insufficiente tutela della salute, poca attenzione per il diritto all’affettività e alla territorialità, assenza di forme dignitose di trattamento, sono solo alcune delle questioni su cui si dovrebbe intervenire al più presto. La politica e il Governo tuttavia sembrano ancora immobili. Occorrono interventi che pur rendendo la pena certa possano renderla più umana. Nel 2019 erano oltre sessantamila i reclusi, con un tasso di sovraffollamento del 120% (nello specifico, 60.000 detenuti in meno di 47.000 posti letto). Tra questi sessantamila detenuti più di un terzo sono stranieri, uno su tre sono persone affette da disturbi di natura psichiatrica, mentre due su tre sono tossicodipendenti o alcoldipendenti. Queste persone, hanno bisogno di trattamenti detentivi e sanitari specifici, ma le mancanze strutturali del sistema impediscono di fare quanto previsto dalla legge. Ciò avviene nell’indifferenza di chi potrebbe almeno iniziare a progettare una riforma adeguata ai tempi. È vero che occorre più carcere a chi si macchia di delitti contro la vita e la libertà personale, ma, è altrettanto vero che l’accesso ai benefici penitenziari per reati minori non può non trovare adeguato riscontro, altrimenti il “sistema carcere” implode. Non dobbiamo mai dimenticarci che a subire un forte peggioramento non sono solo le condizioni di vita dei detenuti, ma anche quelle di chi nelle carceri ci lavora. Al drammatico aumento del numero dei suicidi tra i reclusi, bisogna aggiungere quello delle guardie carcerarie, con casi frequenti di liti, abusi e violenze, detenuti in possesso di telefoni cellulari che consentono di avere contatti con l’esterno e quindi di poter commettere altri reati. Anche la detenzione di sostanze stupefacenti, l’ingresso di farmaci non consentiti, soprattutto psicofarmaci, utilizzati spesso come merce di scambio, sono problemi che inevitabilmente andranno alla fine affrontati. Ogni detenuto andrebbe trattato in base alla tipologia di reato commesso e alle diverse problematiche che presenta la sua condizione. Da questo assunto si dovrebbe cominciare a ragionare per arrivare ad una riforma adeguata e credibile. A questo punto ci domandiamo: perché nella riforma della giustizia non è compresa anche quella penitenziaria? Carceri, l’allarme dei penalisti: subito amnistia e indulto di Angela Stella Il Riformista, 11 novembre 2020 L’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane “rivolge al Parlamento l’invito a emanare l’amnistia e l’indulto, parole oggi impronunziabili, ma istituti disciplinati dagli artt. 151 e 174 del Codice Penale e regolamentati, nella loro applicazione, dall’art. 79 della Costituzione”. Le ragioni alla base di tale appello risiedono nei dati allarmanti sulla diffusione del virus nelle carceri: “Una crescita esponenziale non può attendere oltre una immediata soluzione” dicono i penalisti che monitorano gli istituti di pena. Infatti, secondo uno studio del Consiglio d’Europa pubblicato ieri sugli effetti a medio termine della pandemia sulla popolazione carceraria, l’Italia è tra i Paesi europei che hanno segnalato il più alto numero di persone contagiate dal Covid-19 tra le mura delle prigioni. I numeri che provengono dal Dap e aggiornati alla sera dell’8 novembre parlano di 537 positivi al Covid fra i reclusi e 728 contagiati fra gli operatori. Per questo dalla mezzanotte di oggi l’esponente radicale Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, ha iniziato uno sciopero della fame: “È irresponsabile - ci dice - il comportamento del Governo e del Parlamento di fronte all’espandersi della pandemia nelle carceri. Amnistia, indulto, liberazione anticipata speciale, modifica del decreto ristori: qualcosa va fatto subito”. Il Governo, sottolineano gli esponenti dell’Osservatorio Carcere Ucpi, nel dividere l’Italia in base alle singole criticità regionali ha emanato un provvedimento “che pone problemi di costituzionalità, perché incide su diritti fondamentali dei cittadini”, ma lo ha dovuto fare per evitare di “infliggere il colpo mortale all’economia del Paese”. E allora, si chiedono, perché non prevedere anche per il carcere misure eccezionali in risposta alla drammaticità della situazione? “I provvedimenti adottati sino a ora appaiono totalmente inadeguati ad affrontare la nuova ondata del virus, che si presenta molto più pericolosa e cruenta della prima”. E allora si abbia il coraggio politico di discutere di amnistia e indulto: “i due istituti rispondono alla necessità di un migliore funzionamento della macchina giudiziaria, riducendo, da un lato, i procedimenti penali pendenti in numero troppo elevato e consentendo, dall’altro, la diminuzione del sovraffollamento negli istituti di pena dove, in molte realtà, la detenzione si concretizza in trattamenti inumani e degradanti e oggi costituisce un concreto pericolo per la sopravvivenza. Possono sembrare di fatto provvedimenti di “resa” dello Stato, che non riesce a portare a termine il percorso di accertamento del reato ovvero di punizione del colpevole. In realtà essi possono rappresentare il vero acceleratore del funzionamento di un sistema in realtà impantanato”. Si è comunque consapevoli che con i 5 Stelle al Governo e questo Parlamento è quasi impossibile che vengano approvati questi due provvedimenti. Pertanto l’Osservatorio indica anche altre soluzioni di più facile attuazione per eliminare le preclusioni alla detenzione domiciliare: “innalzare la soglia di detenzione residua per la concessione del beneficio da 18 a 24 mesi, lasciando l’applicazione dei cosiddetti braccialetti elettronici alla valutazione concreta del magistrato ove davvero disponibili; eliminare la preclusione allo scioglimento del cumulo, consentendo così l’applicazione del beneficio in questione per la parte di pena residua per reato comune; introdurre la liberazione anticipata speciale di 75 giorni per ogni semestre di pena espiata come avvenne per dare risposte immediate al Consiglio d’Europa dopo la Sentenza “Torreggiani”; prevedere per il giudice, chiamato a emettere una misura cautelare custodiale in carcere, di considerare, nella valutazione delle concrete esigenze cautelari, l’attuale emergenza sanitaria per il “coronavirus” unitamente al persistente sovraffollamento, favorendo, piuttosto, gli arresti domiciliari”. Più braccialetti elettronici per risolvere l’emergenza sanitaria in cella di Severino Nappi Il Riformista, 11 novembre 2020 Constato che il mio intervento sul tema dell’amministrazione della giustizia ai tempi della pandemia ha suscitato interesse nell’opinione pubblica. Le critiche che mi sono state mosse sulle pagine del Riformista da Antonello Sannino e Domenico Spena sono però mal riposte, trascurando un punto fondamentale. L’obiettivo infatti è comune a entrambi. Entrambi vogliamo legalità e giustizia e, credo, un carcere che sia espressione anche e soprattutto della funzione rieducativa che è propria della pena. Nessuno mette in dubbio i principi della Costituzione né tantomeno la tutela della salute dei detenuti negli istituti penitenziari, che va garantita come a ogni altro cittadino, in una fase in cui il virus circola ancora più velocemente rispetto alla prima ondata. I rischi sanitari valgono per tutti e non c’è una gerarchia da applicare tra categorie più tutelate e altre meno tutelate, ma neanche si può rovesciare il ragionamento per preoccuparsi solo di chi delinque e non anche di chi vive onestamente. Qui si ammalano tutti. Sull’autobus affollato, nelle metropolitane piene come scatole di sardine, lungo le file dei nostri tribunali malandati. Io continuo a non avere esitazioni sul soggetto al quale dare priorità tra il borseggiatore beccato dalle forze dell’ordine con le telecamere di videosorveglianza e chi ha subito un atto di violenza ma - come la si pensi - occorre far prevalere il buon senso. Lo storico errore di alcuni è non contemperare gli interessi in campo, trincerandosi dietro il paravento di una Costituzione enunciata ma raramente applicata, anche da certa magistratura le cui distorsioni ho spesso denunciato. La mia professione e la mia storia personale testimoniano quanto creda nel garantismo. Attenzione, però: gli articoli della Costituzione non servono a giustificare le proprie tesi. D’altra parte, il garantismo a corrente alternata, si sa, è il perfetto terreno di coltura per distruggere il Paese e minare lo Stato democratico. Se è vero che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, è anche vero che la decisione di far circolare liberamente soggetti colti in flagranza di reato, quindi meritevoli di essere sottoposti a misure cautelari, viola tanti altri diritti. A partire dalla sicurezza del singolo cittadino. Allora non mettiamo sterilmente e strumentalmente in contrapposizione garantismo e giustizialismo. Il problema del sovraffollamento delle carceri, sorto assai prima della pandemia e quindi solo aggravato dalla stessa, va risolto conciliando le diverse esigenze: il rispetto della dignità del detenuto e il dovere dello Stato di garantire la sicurezza. La ricetta non può però limitarsi esclusivamente a un programma emergenziale articolato in una serie di interventi tampone, ma si devono prevedere azioni di sistema e una riforma complessiva del sistema carcerario. Se l’obiettivo è decongestionare gli istituti e tutelare la salute, occorre puntare sull’applicazione delle misure alternative alla detenzione in carcere. Sui braccialetti, per esempio, che però sono introvabili. Il Ministero della Giustizia si adoperi per procurarseli. Altrimenti sono soltanto chiacchiere. Continuo soprattutto a pensare che la magistratura non deve svolgere una funzione di supplenza rispetto ad altri poteri, ma è chiamata ad applicare la legge. Semmai, è quando i giudici si trovano a svolgere funzioni amministrative, per esempio nelle posizioni apicali del Ministero della Giustizia, e si spogliano della toga, che la magistratura si deve sforzare di fornire risposte adeguate alle domande dei cittadini. Tutto ciò che è nel mio potere di consigliere regionale, lo farò per scongiurare abusi di qualsiasi tipo. Ma è chiaro che la mia appartenenza alla Lega, suffragata dal voto degli elettori, rende constante il contatto con la gente comune, quella che pretende uno Stato che la difenda senza dare l’impressione di arretrare. Il Covid non diventi un alibi per chi non sa amministrare la giustizia e cerca scorciatoie perché non riesce a frenare l’onda del virus. Perderemmo due volte. Nelle “zone rosse” sospesi i colloqui con i detenuti: così si rischia una nuova ondata di rivolte di Camilla Palladino meteoweek.com, 11 novembre 2020 Nelle “zone rosse” sospesi i colloqui in presenza con i detenuti: sono già iniziate le proteste. Proteste che potrebbero trasformarsi in rivolte. La situazione dentro e fuori le carceri italiane torna a essere tesa. E il motivo è lo stesso che aveva causato la prima ondata di sommosse durante lo scorso marzo: la sospensione dei colloqui tra detenuti e familiari, questa volta prevista dall’ultimo Dpcm anti-Covid firmato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Nelle zone rosse gli spostamenti per fare visita alle persone detenute in carcere sono sempre vietati, non essendo giustificati da ragioni di necessità o da motivi di salute. In tali casi i colloqui possono perciò svolgersi esclusivamente in modalità a distanza mediante apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o tramite telefono, anche oltre i limiti stabiliti dalle norme dell’ordinamento penitenziario. Nelle zone arancioni tra le 5 e le 22 gli spostamenti e dunque le visite sono consentiti, ma solo in ambito comunale. In queste zone non sono infatti possibili gli spostamenti fra comuni. Nelle zone gialle visite tra le 5 e le 22. Anche in queste due zone i colloqui possono svolgersi anche in modalità a distanza. La protesta davanti al carcere di Torino - A Torino sono già iniziate le proteste, nonostante il Piemonte si trovi in zona rossa. Oggi - martedì 10 novembre - i parenti dei detenuti del carcere Lorusso e Cutugno hanno organizzato un presidio di fronte alla struttura nel quartiere Vallette. I familiari dei detenuti hanno sostenuto di non essere stati informati della sospensione e che, al contrario, gli incontri erano stati confermati. Ora l’obiettivo è di incontrare la direttrice del carcere per ricevere spiegazioni su quanto accaduto. La situazione coronavirus nelle carceri della Lombardia - In bilico è anche la situazione delle carceri della Lombardia. Stando ai dati diffusi lo scorso 7 novembre, le persone risultate positive al coronavirus nei penitenziari erano 156. Di queste 151 sono ospitate nelle strutture interne agli istituti di pena, altre 5 - tra cui alcuni agenti della polizia penitenziaria - sono ricoverate in un ospedale esterno. A questi numeri bisogna sommare altri 510 soggetti a rischio che sono stati isolati. L’inizio dell’agitazione a Roma - Tensione anche a Roma, nel carcere di Regina Coeli. Verso la fine di ottobre, per due giorni consecutivi, grida e proteste hanno coinvolto i detenuti della Capitale. Nelle due serate di ribellione i detenuti hanno “battuto” sulle sbarre delle celle con gli utensili da cucina. I motivi delle proteste - I motivi della protesta a Roma non erano stati resi noti, anche se probabilmente si trattava della preoccupazione per la diffusione del contagio in un istituto penitenziario che conta 387 reclusi oltre la capienza, ma anche delle contestazioni per la sospensione dei colloqui. Avvenuta già durante lo scorso marzo, aveva causato dure rivolte in tutta Italia. La situazione era tornata alla normalità solo con l’attivazione degli incontri via Skype e i triage allestiti nei piazzali. Le rivolte di marzo - Tra il 7 e il 9 marzo scorso, infatti, alcune violente ribellioni hanno sconvolto 22 carceri disseminate per la penisola. Il bilancio era stato terribile: gravi danni alle strutture, decine di feriti tra carcerati e agenti della polizia penitenziaria, 12 detenuti morti. Le cause ufficiali indicate dai ribelli erano lo stop ai colloqui, la paura del contagio, la richiesta di condizioni migliori, ma più verosimilmente si sarebbe trattato di rivolte coordinate dalle varie organizzazioni criminali per sfruttare l’emergenza e ottenere qualche beneficio. Ad esempio la scarcerazione di alcuni boss mafiosi rinchiusi con il regime carcerario del 41bis, liberati poco dopo le rivolte. Indulto e amnistia - Per sedare le violente rivolte che periodicamente scoppiano nelle carceri italiane, i detenuti invocano l’indulto - cioè la concessione di remissione totale o parziale della pena - e l’amnistia - cioè la cessazione della condanna e l’estinzione del reato. Questi due strumenti giuridici aiuterebbero a diminuire il sovraffollamento degli istituti penitenziari, vista anche l’emergenza sanitaria. L’amnistia, infatti, azzererebbe il via vai degli imputati nei Palazzi di Giustizia e soprattutto nei Tribunali nella fase dibattimentale. L’indulto invece sfoltirebbe la popolazione dei penitenziari, che in alcuni luoghi d’Italia raggiunge picchi di sovraffollamento del 200 per cento. La giustizia si fa digitale. Tensione sulle nuove norme di Simona Musco Il Dubbio, 11 novembre 2020 Le opposizioni contestano le norme inserite nel Dl Ristori Bis. Giustizia digitale, smart working più efficace e meno accessi ai tribunali. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede descrive così i provvedimenti adottati per limitare il rischio contagio nei Palazzi di Giustizia, annunciando le misure inserite nel decreto Ristori e contenute nel cosiddetto “pacchetto giustizia”. Misure che consentono agli avvocati di depositare atti telematicamente o via pec, al personale amministrativo di accedere da remoto ai registri di cancelleria e di individuare gli strumenti per consentire lo svolgimento a distanza delle udienze civili e penali. Deposito degli atti. Con le nuove norme diventa obbligatorio depositare documenti, memorie, istanze e, più in generale, tutti gli atti previsti dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari attraverso il portale del processo penale telematico, che costituirà il punto unico di accesso non solo per il deposito, ma anche la consultazione dei fascicoli. Il ministero ha inoltre stabilito l’attivazione di circa 1.100 caselle di posta elettronica certificata degli uffici giudiziari, che gli avvocati potranno utilizzare per l’invio della documentazione. Il duplice scopo è quello di semplificare, limitando al contempo il rischio di contagio negli uffici giudiziari. Registri di cancelleria. Con l’aumento dello smart working per i dipendenti pubblici si è reso anche necessario un intervento per migliorare la sicurezza informatica dei sistemi e consentire, così, l’accesso da remoto ai registri di cancelleria. Un’esigenza, questa, più volte evidenziata dall’avvocatura ma anche dai lavoratori della giustizia, cancellieri in primis. Il ministero ha scelto Napoli come distretto pilota per la fase sperimentale, per passare poi all’implementazione sui registri informatici dei Tribunali e delle Corti di appello, con le modifiche che consentiranno ai dipendenti di accedere ai registri di cancelleria del contenzioso civile, del rito del lavoro e della volontaria giurisdizione (Sicid), oltre a quelli delle procedure concorsuali ed esecutive (Siecic). Ma non solo: sarà possibile accedere anche ai registri penali. Per il processo di digitalizzazione via Arenula ha speso 16 milioni di euro, destinati all’acquisto di 16.900 pc portatili dotati di precisi requisiti di sicurezza, in larga parte già in distribuzione. Attività da remoto. Per lo svolgimento a distanza delle udienze civili “vengono specificati i servizi resi con canali di comunicazione criptati su rete telematica pubblica utilizzabile sia dall’interno sia dall’esterno della Rete unitaria giustizia, senza sala regia e capaci di assicurare il collegamento audiovisivo a distanza sino a un massimo di 250 partecipanti”. Per le udienze penali a distanza, oltre ai collegamenti utilizzati per le udienze civili, “si fa riferimento anche a quelli audiovisivi tra l’aula di udienza e il luogo della custodia, sempre con canale di comunicazione criptato interno alla Rug, con sala regia dedicata”. Polemica sul dl Ristori bis. Ma intanto continua la polemica sulle previsioni del dl Ristori bis, che cartolarizza il processo d’appello prevedendo una sospensione dei termini della prescrizione e un prolungamento di quelli per la custodia cautelare. “Questa norma snatura il processo di appello. Le statistiche sulle riforme in appello di sentenze impugnate dovrebbero indurre il ministro Bonafede a tornare sui suoi passi e mantenere tutte le garanzie del secondo grado di giudizio - ha commentato Carolina Varchi, deputato di Fratelli d’Italia e capogruppo in commissione Giustizia -. Questa norma non ha alcun impatto sulla prevenzione dei contagi: Bonafede è ostaggio della tecnocrazia ministeriale che vuole snaturare l’attività dei difensori a tutela dei cittadini abolendo le garanzie del giusto processo”. Per Fiammetta Modena, di Forza Italia, “i Tribunali sono nuovamente travolti e pagano i ritardi perché nei mesi precedenti non sono stati assunti provvedimenti ha sottolineato -. Le norme dei “decreti Ristori” incidono su alcuni aspetti, ma lasciano aperte le voragini organizzative e non intervengono sulla richiesta, formulata dalla commissione Giustizia del Senato, di normare il legittimo impedimento degli avvocati malati di Covid, né tanto meno sulla previsione dei sostegni per i magistrati onorari in servizio”. Nei giudizi penali documenti via Pec o in telematica di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2020 Al via le misure tecniche per la gestione da remoto. Accesso anche ai cancellieri. Possibilità, per gli avvocati difensori, di depositare memorie, documenti, richieste e istanze telematicamente o via Pec; accesso da remoto ai registri di cancelleria per il personale amministrativo; individuazione degli strumenti per consentire lo svolgimento a distanza delle udienze civili e penali. Sono alcuni dei provvedimenti adottati in queste ore dal ministero della Giustizia per assicurare lo svolgimento dell’ordinaria attività nei tribunali in condizioni di sicurezza. Innanzitutto si precisa che, in attuazione delle disposizioni previste dal decreto ristori i, diventa obbligatorio (e non più solo facoltativo a valore legale) ricorrere al portale del processo penale telematico per depositare documenti, memorie, istanze e, più in generale, tutti gli atti previsti dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari. In questo modo, fra l’altro, il portale costituirà un punto unico di accesso non solo per il deposito degli atti, ma anche per la loro consultazione, colmando così il gap attualmente esistente rispetto al processo civile telematico. Attivate poi caselle di posta elettronica certificata degli uffici giudiziari, dalla Cassazione agli uffici dei giudici di pace, che potranno essere utilizzate dai legali per l’invio della documentazione. L’atto del procedimento in forma di documento informatico, da depositare attraverso il servizio di posta elettronica certificata presso gli uffici giudiziari è in formato Pdf; è ottenuto da una trasformazione di un documento testuale, senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti; non è pertanto ammessa la scansione di immagini; è sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata. Tra le maggiori criticità della prima fase dell’emergenza sanitaria, segnalate negli uffici giudiziari, c’era poi l’impossibilità per i cancellieri di accedere da remoto ai registri informatici. Ora il ministero annuncia che, dopo una prima sperimentazione a Napoli, “l’implementazione sui registri informatici dei Tribunali e delle Corti di appello delle modifiche permetterà al personale amministrativo di accedere ai registri di cancelleria del contenzioso civile, del rito del lavoro e della volontaria giurisdizione (Sicid), oltre a quelli delle procedure concorsuali ed esecutive (Siecic)”. L’accesso sarà poi esteso anche ai registri penali, rappresenta un ulteriore passaggio nella digitalizzazione che ha visto il ministero spendere i6 milioni di euro per acquistare 16.9oo pc portatili. Infine, vengono individuati gli strumenti di videoconferenza per la gestione a distanza delle attività giurisdizionali. In particolare, per lo svolgimento delle udienze civili, vengono specificati i servizi resi con canali di comunicazione criptati su rete telematica pubblica utilizzabile sia dall’interno sia dall’esterno della Rete unitaria giustizia (Rug), senza sala regia e capaci di assicurare il collegamento audiovisivo a distanza sino a un massimo di 250 partecipanti. Per lo svolgimento delle udienze penali a distanza, oltre ai collegamenti utilizzati per le udienze civili, si fa riferimento anche a quelli audiovisivi tra l’aula di udienza e il luogo della detenzione. Misure specifiche sono poi dedicate ad assicurare la riservatezza dei colloqui difensore-imputato. Covid e giustizia. Giudici di pace dimenticati, senza informatizzazione e tutele di Giulia Merlo Il Domani, 11 novembre 2020 I giudici onorari in Italia sono 5.000 - divisi tra giudici di pace, Giudici onorari di tribunale (got) e Vice procuratori onorari (vpo) - e gestiscono il 60 per cento del contenzioso civile e penale. Nonostante il Covid, nessuna norma degli ultimi Dpcm li riguarda, né dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, né da quello delle tutele. Il ministero della Giustizia, infatti, si è speso in questi mesi per informatizzare il processo civile e penale, dotando cancellerie e magistrati di strutture e strumenti informatici che consentano lo svolgimento del processo da remoto, in modo da evitare il blocco del sistema giustizia davanti alla pandemia. Le dotazioni non hanno ancora portato la macchina a regime, ma i passi avanti sono stati evidenti. È di ieri, infatti, la notizia della possibilità per gli avvocati di depositare gli atti telematicamente e l’accesso da remoto ai registri per i cancellieri. Dalla cosiddetta “informatizzazione”, invece, l’ufficio del giudice di pace è stato di fatto escluso, nonostante dal 2017 siano a disposizione 10 milioni di fondi del Programma operativo nazionale, per digitalizzare il loro processo. Il risultato è che le udienze davanti al giudice di pace stanno subendo enormi rallentamenti, ingolfando una macchina già in affanno. Il ministero ha messo a disposizione dei giudici di pace solo la licenza per l’applicazione Teams, il software con cui svolgere l’udienza da remoto, ma - al contrario dei giudici togati - manca la cosiddetta “postazione informatica”, che permette a ogni giudice di avere una firma digitale e un sistema informatico protetto a cui le parti possono inviare gli atti in modo da formare il fascicolo digitale del processo. “Invece che un indirizzo del giudice, esiste un’unica casella di posta certificata con valore legale per tutto ufficio per inviare gli atti dei procedimenti, che poi vanno smistati dal personale di cancelleria”, dice Mariaflora De Giovanni, presidente dell’Unione nazionale giudici di pace. “Questo fa sì che tutto sia demandato alla buona volontà di giudici e personale amministrativo, che però in moltissimi uffici è carente. In mancanza di questo servizio per la ricezione degli atti, tanti uffici non hanno potuto celebrare le udienze da remoto”, e questo ha prodotto inevitabilmente rinvii su rinvii. Molti giudici, inoltre, non hanno nemmeno a disposizione un pc del ministero, ma devono utilizzare il proprio portatile personale. Alcuni uffici hanno continuato a celebrare le udienze in presenza, contingentando i numeri, ma solo nelle poche sedi con aule adeguate. “Così si producono solo disparità per i cittadini che chiedono giustizia - dice de Giovanni - eppure il giudice di pace rientra nella giurisdizione ordinaria, non giustizia di serie B”. La pandemia ha solo aggravato i problemi dei giudici onorari. “Siamo lavoratori a cottimo, senza garanzie e diritti; non abbiamo malattia, maternità o ferie”, dice Cristina Piazza, segretario generale dell’Unione nazionale giudici di pace, “Se andiamo in quarantena o ci ammaliamo veniamo privati di ogni guadagno e non abbiamo alcuna tutela”. Durante il primo lockdown, è stata riconosciuta per due mesi una indennità di 600 euro come le partite iva, ma nulla più. Eppure, nonostante non siano considerati dipendenti pubblici, à giudici di pace è affidata una mole di contenzioso sia civile che penale che li rende a tutti gli effetti ingranaggi indispensabili per la giustizia. Pagati, però, 35 euro a udienza, 56 euro a sentenza e 10 euro a decreto emesso. “Lavoriamo come possiamo altrimenti non veniamo pagati, nonostante i rischi del Covid”, dice Piazza. La carenza di tutele è drammatica: da qualche giorno, infatti, i giudici onorari di tribunale di Palermo hanno iniziato uno sciopero della fame a sostegno di due colleghi che si sono ammalati di coronavirus. “Se non si torna in servizio entro 6 mesi si decade e ogni quattro anni bisogna ottenere il rinnovo dell’incarico, che viene dato solo se si dimostra di avere prodotto un numero sufficiente di sentenze”, spiega Piazza. La situazione si trascina da anni e ieri è stata discussa anche in commissione per le petizioni del parlamento europeo, che ha annunciato una lettera al ministero della Giustizia italiano perché garantisca “lo status dei magistrati onorari quali lavoratori legati da un rapporto di dipendenza con il ministero della giustizia” e “giusta retribuzione”, in forza della sentenza europea che li riconosce. Edilizia giudiziaria: Bonafede “impegna” i soldi del Recovery di Giacomo Losi Il Dubbio, 11 novembre 2020 L’Ottimismo del ministro della Giustizia, il pessimismo dell’avvocatura e dell’Ance. Insomma, il tema dell’edilizia giudiziaria continua a dividere la politica da chi, ogni giorno, frequenta gli scalcagnati tribunali italiani. Una “diversità di vedute”, per così dire, emersa in modo chiaro nel corso del convegno “Costruire giustizia”, organizzato dall’Ance e dall’Ocf. Il Guardasigilli, dal canto suo, ha snocciolato qualche numero: “Le richieste al Ministero per interventi di giudiziaria riguardano al momento 936 immobili e tra il 2018 e il 2020 abbiamo messo in campo quasi 600 interventi. Ogni anno 320 milioni di euro sono impiegati per l’edilizia giudiziaria e come governo abbiamo stanziato oltre 800 milioni per i poli giudiziari, con 13 progetti già finanziati”, ha detto Bonafede. Il quale poi ha rilanciato: “L’edilizia giudiziaria è fondamentale non soltanto per la sicurezza di tutti coloro che entrano in un ufficio giudiziario, ma anche per la credibilità della giustizia agli occhi dei cittadini e per la sua efficienza - ha aggiunto - La prima criticità che ho affrontato da ministro è stata l’edilizia a Bari, dove la giustizia si celebrava nelle tende. Lì ho capito che l’edilizia doveva essere uno dei punti principali della giustizia. Proprio a Bari per il primo lotto legato al Parco della Giustizia abbiamo stanziato 95 milioni di euro”. Ma all’ottimismo di Bonafede che pure ha promesso di impegnare i soldi del Recovery - si è contrapposto il giudizio netto dell’Ance: “Sono troppo poche le risorse destinate all’edilizia giudiziaria. Il bilancio 2020 dello Stato prevede circa 121 milioni di euro rispetto ai 81,7 milioni del 2019 ma per gli interventi necessari richiesti servirebbero 187 milioni”, hanno infatti ricordato i costruttori secondo i quali le risorse messe in campo sono insufficienti, “soprattutto se pensiamo che solo nel 2019 gli uffici giudiziari hanno fatto richiesta di 527 interventi manutentivi su strutture e impianti per complessivi 187 milioni di euro”, sottolinea l’Ance che considera il Recovery Fund come un’opportunità da sfruttare. Il Fondo per il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del paese prevede infatti circa 1 miliardo di euro fino al 2032 destinato all’edilizia giudiziaria. e Ance crede possa “consentire all’amministrazione una programmazione pluriennale degli interventi”, sfruttando le risorse europee del Next Generation Eu per la “messa in sicurezza e ristrutturazione degli uffici giudiziari già esistenti, la costruzione di nuovi poli e l’accelerazione del processo di digitalizzazione”. Un’opportunità, questa, anche per recuperare il gap rispetto agli altri Stati. Secondo un rapporto, che mette a confronto efficienza, qualità e indipendenza dei sistemi giudiziari di tutti gli stati membri, l’Italia è al penultimo posto per la durata dei contenziosi civili e commerciali e in fondo alla classifica anche per i tempi delle cause amministrative. E su questi dati, sostiene l’Ance, “influisce anche il pessimo stato all’edilizia giudiziaria”. Mancando infatti un’anagrafe pubblica dell’edilizia giudiziaria, dalla quale reperire dati sullo stato degli stabili, “sappiamo ben poco sulle condizioni strutturali dei nostri tribunali”. Drammaticamente efficace il racconto del sindaco di Bari e presidente dell’Anci, Antonio Decaro, il quale ha ricordato che nel caos barese c’era un giudice di pace che aveva l’ufficio con gli archivi in un palazzo tra le cantine dei condomini dove si tenevano anche le conserve di pomodoro. Netto anche il giudizio del presidente Ocf, Giovanni Malinconico, secondo il quale il quadro dell’edilizia giudiziaria è “desolante”. “Con la pandemia le mafie pronte a creare consenso e a inquinare l’economia” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 11 novembre 2020 Da Oxford, dove è professore ordinario di criminologia, Federico Varese continua a studiare i fenomeni mafiosi dell’Italia. Le organizzazioni criminali, secondo Varese, da poco nominato direttore del Dipartimento di sociologia della famosa università inglese, cercheranno in tutti i modi di approfittare della crisi provocata dalla pandemia per continuare a fare affari ed inquinare l’economia legale. Professor Varese, le popolazioni sono stremate dal Covid. L’economia è a terra. La criminalità potrebbe intercettare il disagio dell’emergenza sanitaria, sociale ed economica? È una domanda attorno alla quale ruoteranno nei prossimi mesi tante questioni. Si deve riconoscere la natura governativa delle mafie nel contesto attuale. Mi spiego meglio. Le mafie vogliono sempre di più governare i territori, a maggior ragione in questo momento di grande crisi e confusione. Per questo è indispensabile stare molto attenti. Il rischio che si sostituiscano allo Stato è concreto. Nei mesi scorsi evidenziavo questa preoccupazione in un mio articolo intitolato “Il welfare mafioso”. La storia, poi, insegna sempre tanto. Già con la crisi economica del 1929 Lucky Luciano e Al Capone si offrirono per sostenere la popolazione attanagliata dalla fame e dalla povertà. Quando la gente è disperata, le mafie entrano in gioco. In Italia la cartina di tornasole è data dai casi di usura. Gli ultimi rapporti parlano di un aumento dell’usura proprio in questi mesi… Si tratta di un reato spia, come lo chiamiamo noi esperti. L’usura inquina l’economia legale. Le organizzazioni criminali si insinuano nel tessuto economico, entrano nelle aziende, ma anche nelle famiglie, e le divorano. Non dimentichiamo che in Italia esiste tanta economia sommersa. Quest’ultima è la vittima privilegiata delle mafie, che per prime vengono incontro offrendo credito. Assisteremo a uno scontro sempre più accentuato tra Stato ed antistato? La capacità delle organizzazioni criminali non porta sempre allo scontro. Le mafie vogliono lavorare in silenzio. Anche se le manifestazioni di piazza dei giorni scorsi a Napoli, a Torino, a Roma, tanto per fare degli esempi, saldano varie componenti. Si uniscono elementi diversi che indicano un chiaro disagio della popolazione e qualcuno cerca di approfittarne. La gente, nella situazione che stiamo vivendo, tenderà a vedere nella criminalità un punto di riferimento? Spero proprio di no. Credo che lo Stato debba porsi tanti obiettivi. Dobbiamo sperare che le persone e le aziende continuino a vedere nelle istituzioni il vero punto di riferimento per uno sviluppo autentico e per la risoluzione dei problemi connessi alla pandemia. Chi si affida alla criminalità per risolvere problemi di svariata natura si appresta a bere a un calice avvelenato e nella disperazione qualcuno può credere al miraggio di un aiuto proveniente dalla criminalità. Con il Recovery Fund arriveranno tanti soldi. Gli appetiti criminali non mancheranno? Sarà importante che le risorse che serviranno ad affrontare la crisi raggiungano direttamente i cittadini e le aziende. Spesso, la presenza di intermediari può distrarre il percorso di risorse destinate a chi ne ha bisogno. Non dimentichiamoci che le mafie sono abili nell’inserirsi nei territori, nel manipolare la politica a livello locale. Occorre vigilare, per esempio, affinché gli appalti siano sempre più controllati. La priorità è comunque fronteggiare l’emergenza sanitaria. In secondo luogo bisogna avere la capacità di utilizzare bene i danari non solo per l’emergenza immediata e far ripartire l’economia con investimenti per le scuole e le infrastrutture. Tenendo a mente il “modello Genova”. In questo contesto l’attenzione deve essere massima. Qui si possono senza dubbio annidare gli appetiti cui lei faceva riferimento. Nella situazione che stiamo vivendo la politica continua ad avere un ruolo importante? Sicuramente. Se la politica perde di credibilità ci possono essere delle derive. La pandemia sta destabilizzando le nostre società e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Per questo il consenso verso la politica è importante. La politica deve fungere da elemento di unità e lavorare per evitare la disgregazione sociale. Nella confusione la criminalità si inserisce bene, perché cerca di intercettare il consenso della popolazione e di sostituirsi nella distribuzione delle risorse. In Inghilterra si assiste pure a preoccupanti tensioni sociali? Anche qui si vive una situazione pesante. Le tensioni più evidenti sono quelle tra centro e periferia. Il Covid ha messo in luce i contrasti tra Londra ed altre città, soprattutto del Nord meno sviluppato, dove si registra il maggior numero di contagi. Più durerà l’emergenza sanitaria più problemi ci saranno. Per questo è importante l’arrivo del vaccino per il coronavirus. Sta scrivendo un nuovo libro? Sono impegnato in alcuni studi sulla diffusione del doping in Russia e a questo Paese sto dedicando il mio prossimo lavoro editoriale. Inoltre, proseguo la mia collaborazione con lo scrittore John Le Carré. Stiamo sviluppando diversi progetti insieme. La Consulta può cancellare lo stop al rito abbreviato per i reati da ergastolo di Errico Novi Il Dubbio, 11 novembre 2020 Tutti gli imputati hanno diritto a non vedere calpestata dignità. Tutti. Anche gli autori dei reati più odiosi. Anche chi è potenzialmente esposto al rischio di una condanna all’ergastolo. E per nessuno di loro, nessuno escluso, può essere impedito o limitato l’effettivo esercizio del diritto di difesa. Sono i principi in virtù dei quali mercoledì prossimo la Corte costituzionale sarà a chiamata a decidere se travolgere una legge recente cara alla Lega, la 33 del 2019, vale a dire la riforma con cui a inizio è stato escluso il rito abbreviato per i reati da ergastolo. Modifica fortemente voluta dal partito di Matteo Salvini per negare alle persone accusate, tra l’altro, di omicidio il “beneficio” previsto dal rito speciale: sconto di un terzo della pena, o conversione del carcere a vita in condanna a 30 anni. La riforma era stata messa a punto in particolare al Senato, dalla commissione Giustizia presieduta da una primissima linea del Carroccio in materia di diritto e processi, Andrea Ostellari. Adesso quella riforma vacilla. Alla Consulta infatti, sono pervenute negli ultimi mesi ben tre ordinanze di remissione da altrettanti tribunali: da un giudice dell’udienza preliminare di La Spezia, da un gup di Piacenza e dalla Corte d’assise di Napoli. In tutti gli atti con cui viene sottoposta al giudice delle leggi la legittimità della riforma, si fa riferimento al contrasto coi principi di ragionevolezza e uguaglianza, ma anche al tradimento del giusto processo, cioè dell’articolo 111 della Carta, in particolare quanto alla ragionevole durata del giudizio, che il rito abbreviato favorisce. La Corte d’assise di Napoli si spinge anche oltre, fino a segnalare la possibile lesione del diritto di difesa inteso appunto come “diritto di accesso ai riti alternativi” : i giudici del tribunale campano denunciano infatti la violazione dell’articolo 24 della Costituzione in relazione all’articolo 3 in cui, con l’uguaglianza dinanzi alla legge, è sancita anche la pari dignità. Se si preclude all’imputato il rito abbreviato, si legge nell’ordinanza, lo si priva della “possibilità di accedere a un rito camerale”, e lo si costringe, quindi, necessariamente “ad affrontare il dibattimento in pubblica udienza, con lesione del diritto alla riservatezza e al rispetto della dignità”. Nodo che si pone in particolare per i collaboratori di giustizia ai quali, nei processi con più imputati, l’abbreviato evita anche di trovarsi nello stesso dibattimento con i correi che hanno denunciato alla Procura. Sono osservazioni che arrivano al cuore del principio del giusto processo. E che esaltano il diritto di difesa. Si tratta, già a guardare le ordinanze con cui la Consulta il 18 ottobre sarà chiamata al vaglio della legge, di un chiaro riferimento al valore dei riti alternativi. Non solo dell’abbreviato, colpito dalla legge del 2019, ma in generale di tutti gli istituti, incluso il patteggiamento, che consentono una deflazione del carico processuale a fronte di sconti di pena. La decisione in arrivo la settimana prossima incrocia insomma la stessa politica giudiziaria del governo. A cominciare dalla riforma penale all’esame dell’altra commissione Giustizia, quella di Montecitorio. Nel testo del ddl presentato dal guardasigilli Alfonso Bonafede, infatti, il rafforzamento dei riti alternativi è assai meno deciso di quanto avevano chiesto, ormai due anni fa, avvocatura e magistratura. Rendere più accessibile l’abbreviato, e più appetibile il patteggiamento, era stata la priorità condivisa con l’Anm da Cnf, Ocf e Ucpi. Nel testo di riforma ora alla Camera sono state previste preclusioni così selettive per il patteggiamento da rendere inutile l’innalzamento del limite di pena per accedervi. Così come permangono i limiti posti, nell’abbreviato condizionato, alla difesa, ostacolata nell’individuare le prove necessarie alla decisione del gup. L’udienza pubblica della Consulta è fissata per le 9.30 di mercoledì prossimo. Giudice relatore, nel collegio presieduto da Mario Morelli, è Francesco Viganò. A essere messo in discussione sarà lo snodo essenziale della legge 33 del 2019, il neo-introdotto comma 1bis dell’articolo 438 del codice di rito, in base al quale “non è ammesso il giudizio abbreviato peri delitti puniti con la pena dell’ergastolo”. La legge è tutta lì. “È una disciplina paradossale”, nota la consigliera del Cnf Giovanna Ollà, che nell’istituzione forense coordina la commissione su Diritto e procedura penale. “Quella modifica contrasta con gli intenti proclamati di continuo dal governo: la stessa riforma del processo voluta dal ministro Bonafede è tutta rivolta, nelle intenzioni, a ridurre i tempi dei giudizi e decongestionare il carico dei Tribunali. Ci rendiamo conto di cosa avviene con l’esclusione dall’abbreviato per chi è accusato di reati da ergastolo? Di fatto si rischia di scaricare sulle Corti d’assise il 60- 70 per cento dei procedimenti relativi a quei reati. I due togati che ne devono far parte sono praticamente sequestrati da quel processo per un tempo notevolissimo. Un fascicolo che il gup avrebbe definito in 5 mesi può richiedere, una volta mandato a dibattimento, anche un paio d’anni”, fa notare la consigliera Cnf. Naturalmente i Tribunali che hanno chiamato in causa la Consulta hanno potuto far riferimento solo in via generale al principio della ragionevole durata. Ma così come all’istituzione dell’avvocatura, anche ai magistrati, a cominciare dal Csm, è chiaro il danno di sistema prodotto dalla legge. Non basta a fare pronostici, ma almeno a legittimare qualche auspicio. Lombardia. Covid e carceri, contagi nei penitenziari 4 volte superiori rispetto a marzo di Benedetta Maffioli milanopavia.news, 11 novembre 2020 Il numero dei positivi nelle carceri lombarde è quattro volte superiore a quello di marzo. È quanto emerso nel corso della commissione consiliare Carceri convocata in videoconferenza, durante la quale si è fatto il punto sull’emergenza Covid negli istituti penitenziari della Regione. Attualmente, infatti, sono 510 i detenuti isolati e 156 quelli positivi al Covid nelle carceri della Lombardia, di cui 151, ricoverati in strutture interne, che non necessitano di cure ospedaliere, mentre cinque sono ricoverate negli ospedali. Quello che preoccupa, però, è la velocità di progressione, come ha spiegato il Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria Lombardia, Pietro Buffa: “Il 5 ottobre, infatti c’erano 7 positivi, il 7 ottobre erano 14, il 22 ottobre erano 28, il 26 erano 55 e quattro giorni dopo sono diventati 110. Il 9 ottobre, c’erano 15 detenuti positivi, oggi sono 151, quelli che non sono in ospedale, e sono dieci volte tanto”. Dati che evidenziano come la situazione sia diversa da quella di marzo, quando i positivi erano 41 nel giorno di picco maggiore. Per quanto riguarda le carceri di Milano, la concentrazione maggiore della criticità è proprio nei penitenziari della città, con 47 positivi al Covid a Bollate, 82 a San Vittore, 4 a Opera di cui 3 in ospedale, questo anche perché “a Bollate e San Vittore vengono mandati detenuti positivi da altre carceri”, come ha sottolineato Francesco Maisto, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano, aggiungendo che “il sovraffollamento nelle carceri continua ad esserci e cresce. Dato confermato anche da Buffa che ha evidenziato come “ci siano 300 persone in Lombardia che sono fuori dalla capienza regolamentare. Con 4324 camere a fronte di 6156 detenuti”. E così per far fronte al problema del sovraffollamento, Maurizio Romanelli, magistrato della Procura di Milano, ha annunciato che “verrà adottato un provvedimento con la fissazione di criteri di priorità nell’emissione dell’ordine di carcerazione” e “verranno rinnovati i protocolli di semplificazione delle procedure per ottenere le misure alternative”. Lombardia. Il Covid nelle carceri visto attraverso il lavoro del difensore regionale Carlo Lio dialogonews.wordpress.com, 11 novembre 2020 Carlo Lio, ex sindaco di Cinisello Balsamo, ex assessore regionale e attualmente difensore della Regione, esprime tutta la sua preoccupazione per la seconda ondata del covid nelle carceri e i problemi che ne scaturiscono. “Lo scorso marzo, nella prima fase dell’emergenza sanitaria, il Carcere di San Vittore ha allestito un reparto Covid in grado di accogliere i propri detenuti positivi e con sintomi e quelli provenienti da altri Istituti lombardi”, ha dichiarato il Difensore Regionale e Garante dei Detenuti in Consiglio Regionale. “L’azione preventiva e di isolamento dei contagi con la realizzazione di un reparto Covid, collaudato da San Vittore ad inizio pandemia - ha proseguito Carlo Lio - è stato un intervento coraggioso ed efficace e ha permesso di non allargare la zona contagio di provenienza. Per affrontare la seconda ondata, sono due i centri Covid all’interno degli Istituti penitenziari, San Vittore e Carcere di Bollate. Qui vengono indirizzati i detenuti positivi da tutti i distretti lombardi che non necessitano di ricoveri ospedalieri. Ad oggi si registrano 240 casi con sintomi Covid, tutti isolati e curati. E se nella prima fase abbiamo assistito ad alcuni momenti di alta tensione e di ribellione poi risolti, in alcuni Istituti come quelli di Monza, Opera e Busto Arsizio, i detenuti si sono auto responsabilizzati aumentando la cura dell’igiene personale e del rispetto del distanziamento, laddove possibile”. E ha aggiunto: “Non solo, in alcuni istituti sono state avviate iniziative di sostegno alla società. Tra queste ricordo la raccolta fondi di detenuti e poliziotti del carcere di Busto Arsizio volta a regalare ai degenti in terapia intensiva i tablet per parlare con i familiari oltre a materiale didattico e giochi per il reparto di pediatria dell’Ospedale cittadino. I detenuti del Carcere di Bollate si sono autotassati raccogliendo circa 1.500 euro da donare alla Protezione Civile Nazionale e alcuni nel Carcere di Monza si sono offerti per donare il sangue. C’è stato un grande senso di responsabilità che ha coinvolto le direzioni, la polizia e i singoli distretti. Nell’affrontare questa seconda ondata temo che, come nella prima fase, possano essere sospesi i colloqui con i familiari e il lavoro dei volontari all’interno delle carceri”. “Da ogni guerra, da ogni difficoltà - ha concluso il Garante dei Detenuti - nasce un insegnamento. Mi auguro che alla fine di questa drammatica situazione la politica, le Istituzioni e la Magistratura si rendano conto che il carcere, così com’è strutturato oggi, non ha le condizioni per poter riabilitare le persone e che dobbiamo immaginare pene diverse e alternative alla detenzione”. Ivrea (To). Detenuto 39enne si toglie la vita impiccandosi nel bagno della cella torinotoday.it, 11 novembre 2020 Tragedia, nella serata di lunedì 9 novembre 2020, nel carcere di Ivrea. Un detenuto di nazionalità romena, Costea Meculai, di 39 anni, si è tolto la vita impiccandosi nel bagno della propria cella. La notizia viene confermata da Leo Beneduci, Segretario Generale Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria). “L’Osapp da tempo denuncia la gravissima situazione in cui versano gli istituti penitenziari italiani. Il carcere di Ivrea e? senza un Direttore titolare e senza un comandante titolare, oltre ad essere in sofferenza per le gravissime carenze di organico, più? volte da noi denunciate. Per l’ennesima volta rammentiamo che il personale di Polizia Penitenziaria di Ivrea opera in condizioni estreme e nonostante ciò? il carcere si regge sui pochi agenti presenti che addirittura svolgono le funzioni di sorveglianza generale in luogo dei sovrintendenti, nonostante questi ultimi siano presenti e che non vengono impiegati in questa funzione nonostante gli accordi vigenti. Ribadiamo ancora una volta che il carcere di Ivrea versa nel completo “sbando”: il personale di Polizia Penitenziaria di Ivrea e? allo stremo ed e? quanto mai urgente che sia i vertici centrali che regionali intervengano senza ulteriore ritardo”. Treviso. Morto suicida a 23 anni dopo l’arresto, striscione davanti alla caserma Serena Il Gazzettino, 11 novembre 2020 Verità e giustizia per Chaka. Gli attivisti di Django e Caminantes hanno appeso ieri, pomeriggio, davanti alla caserma Serena, uno striscione per chiedere sia fatta luce sulla morte di Chaka Ouattara, il 23enne ivoriano morto suicida la settimana scorsa nel carcere di Verona. Il giovane, arrestato dalla polizia perché ritenuto uno dei fomentatori delle rivolte della scorsa estate all’interno del centro accoglienza, era stato trasferito nella casa circondariale della città scaligera, dove si trovava in isolamento. Su di lui pendevano le pesanti accuse di sequestro di persona, saccheggio e devastazione. “Il suo ruolo era stato di mediazione, non era un facinoroso” il ricordo di amici e conoscenti del giovane, che aveva anche lavorato in un ristorante bistrot delle Stiore. “Aveva sofferto molto l’allontanamento da Treviso e non poteva chiedere gli arresti domiciliari, non avendo un luogo dove scontare un’eventuale condanna”. “In detenzione si muore. percossi, abbandonati, suicidati - denunciano gli attivisti -. Se ne facciano tutti una ragione, i responsabili esistono. Se ne faccia una ragione chi vede modelli come quello della Caserma Serena come esempi da replicare; se ne faccia una ragione chi costringe migliaia di persone a vivere in luoghi sovraffollati, dietro a muri che troppi ritengono necessari. Quest’estate la caserma Serena ha avuto l’onore delle prime pagine dopo essere stata per ben due volte focolaio Covid. Dopo che molti degli ospiti si sono ribellati, omettendo volontariamente le cause reali che hanno fatto scattare le proteste. Chaka è stato arrestato, preso nel mucchio, poteva capitare ad altri. Volevano una lezione esemplare, per far capire a tutti che è meglio stare zitti, accettare supinamente il destino scritto da governi, prefetture e grandi cooperative”. Terni. Inferno Covid nel carcere di Sabbione, 74 detenuti positivi La Nazione, 11 novembre 2020 Ben 74 detenuti positivi al Covid nel carcere di vocabolo Sabbione, di cui 3 ricoverati in ospedale, a fronte della mancanza di personale e di dispositivi di protezione. Lo scenario da incubo nel penitenziario ternano emerge da una lettera che il sindacato di polizia penitenziaria Sappe scrive al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e ai vertici del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) “Il carcere di Terni sta vivendo momenti davvero drammatici - è l’appello del sindacato - in un’emergenza ancor più drammatica dell’emergenza nazionale. La situazione contagi nell’istituto è indubbiamente la peggiore tra tutte le carceri italiane: 74 detenuti positivi, di cui 3 ricoverati nelle strutture ospedaliere. E, pur tuttavia, questa gravissima emergenza sanitaria non ha riscontrato la dovuta attenzione da parte delle autorità sanitarie locali né, purtroppo, dal provveditorato regionale e dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il reparto di polizia penitenziaria di Terni, infatti, stremato e al limite della sopportazione umana, non ha ricevuto alcun supporto in termini di personale e, men che meno, in termini di dispositivi di protezione individuale adeguati e proporzionati alla gravissima situazione che sta vivendo”. Milano. I detenuti del 41bis di Opera contagiati per il Dap sono fantasmi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 novembre 2020 Ancora una volta, dal report del Dap, non compaiono i 4 detenuti al 41bis positivi al Covid nel carcere di Opera e finiti in terapia intensiva. Parliamo dei dati che ricevono i sindacati, periodicamente messi a disposizione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il numero dei detenuti contagiati, aggiornati a domenica scorsa, è di 537. Ma, forse per l’ennesima distrazione, non sono stati ancora una volta conteggiati i 41bis del carcere milanese di Opera positivi al virus, tra cui almeno tre sono finiti in ospedale. Uno di loro è particolarmente grave, perché già malato terminale. Come mai nel report del Dap, per quanto riguarda il carcere di Opera, hanno contato zero detenuti positivi al Covid? Dati però che non compaiono nemmeno tra quelli del Prap, tant’è vero che il Garante regionale della Lombardia non era a conoscenza dei positivi al 41bis. A quanto pare sono “visibili” solamente quando, trionfalmente, gli vengono tolti i domiciliari nonostante l’incompatibilità con il regime duro per gravi motivi di salute. Quando però sono in pericolo di vita, silenzio tombale. Meglio non dirlo. Non interessa sapere che perfino i familiari, per giorni, sono stati tenuti all’oscuro delle condizioni di salute dei 41bis. Così come non interessa sapere la traversata che ha dovuto fare la moglie di Antonio Tomaselli per apprendere come sta, lui che è affetto da un gravissimo carcinoma ai polmoni e che può allungare la vita soltanto con una cura adeguata che il carcere - nei fatti - non può dare. Dopo una settimana con i sintomi è stato trasportato di urgenza nell’ospedale San Paolo e lì intubato perché ha avuto un peggioramento. Ma tutto questo lo si è potuto ricostruire dopo che la moglie Katiuscia ha ricevuto le sue lettere, arrivate in singolare ritardo, e solo dopo aver chiesto con insistenza il motivo per cui è stato ricoverato. Non solo. Per sapere in che condizioni si trova suo marito, lunedì scorso è partita dalla Sicilia per raggiungere Milano. Una lunga traversata che rischiava di diventare inutile. Sì, perché giustamente gli agenti penitenziari che erano lì, in ospedale, non erano autorizzati a dirle nulla. Lui, anche se intubato, è sempre in regime di 41bis, per cui valgono le stesse dure regole di quando è in prigione. Rita Bernardini del Partito Radicale, si è attivata avvisando il Dap e il ministero della Giustizia, senza però ottenere alcuna risposta. “Questa mattina (lunedì 9 novembre ndr) la moglie di Antonio Tomaselli - si legge nella missiva inviata da Bernardini - è davanti al San Paolo per avere notizie sullo stato di salute di suo marito ricoverato in terapia intensiva per Covid-19. Tomaselli è in stato di detenzione cautelare al 41bis di Opera ed ha un carcinoma ai polmoni. Katiuscia è giunta a Milano da Catania, da quando suo marito è ricoverato non ha più saputo alcunché, ma nessuno la aggiorna su come sta il marito. Prego qualcuno di voi di farle avere notizie, come è suo diritto”. Ma nulla da fare. Disperata, Katiuscia ha detto che avrebbe messo la tenda lì e che non se ne sarebbe andata fino a quando non le avrebbero dato notizie sulle condizioni del marito. A quel punto gli agenti penitenziari, comprendendo la disperazione della donna, hanno contattato il direttore del carcere di Opera. Quest’ultimo si è reso disponibile, mettendosi in contatto con i medici per avere notizie. Alla fine il responso. Il marito è compromesso. Possibile che per ottenere qualche notizia sul marito, Katiuscia ha dovuto compiere un lungo viaggio, mentre sarebbe bastata una semplice e mail? Tutte le altre famiglie, che magari non sono in condizioni di muoversi, cosa dovrebbero fare? Come sta infatti accadendo con i famigliari di Salvatore Genovese. Il suo legale, l’avvocato Francesco Paolo Di Fresco, denuncia che non riescono ad avere notizie. Non risponde ovviamente l’ospedale che non è autorizzato, così come non risponde la direzione del carcere alle mail. In tutto, almeno per quanto Il Dubbio ha potuto accertare visto che il report del Dap non è aggiornato su Opera, sono 4 i detenuti al 41bis contagiati, di cui tre sono ospedalizzati e almeno due in terapia intensiva visto il peggioramento. Uno di loro, Salvatore Genovese, 78enne al 41bis fin dal 1999, cardiopatico, già operato di tumore, circa 10 giorni fa si è visto respingere l’istanza per la detenzione domiciliare. Per il giudice non era a rischio Covid visto il regime di isolamento del 41bis. Così non è stato. Milano. A Bollate il più grande Covid-hub per detenuti della Lombardia di Marco Belli gnewsonline.it, 11 novembre 2020 È stato avviato ieri il nuovo reparto di degenza Covid della Casa di Reclusione di Milano Bollate. Sarà il più grande reparto della Lombardia destinato a ospitare i detenuti risultati positivi al coronavirus provenienti dagli istituti penitenziari della regione. Il reparto, attualmente attivo per 66 posti, nei prossimi giorni sarà ampliato fino a raggiungere una disponibilità di 198 posti su tre piani detentivi. L’attivazione è avvenuta grazie al lavoro del personale di Polizia Penitenziaria, in collaborazione con quello sanitario coordinato dal dott. Roberto Danese. Il direttore reggente dell’istituto, Cosima Buccoliero, ed il comandante del Reparto, Samuela Cuccolo, hanno espresso tutto il loro orgoglio per l’impegno profuso dal personale di Polizia Penitenziaria della Casa di Reclusione di Milano Bollate, che, già impegnato nella gestione dei detenuti Covid positivi negli scorsi mesi, si è impegnato con professionalità ed entusiasmo nella creazione del nuovo reparto che gioverà alle esigenze di diversi Istituti lombardi, particolarmente provati da questo periodo di emergenza. Napoli. A Poggioreale 5 in una cella, uno ha tante patologie e arriva anche il Covid di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 novembre 2020 È recluso nel carcere di Poggioreale, invalido al cento per cento su una sedia a rotelle, porta perennemente con sé una sacca per le feci che non gli viene sempre cambiata, creando così diversi problemi ai suoi quattro compagni di cella. Una tensione inevitabile visto che i detenuti devono convivere con l’odore delle feci che non di rado fuoriescono dalla sacca. D’altronde Marcello Esposito, così si chiama l’uomo, classe 1977, ha tante gravissime patologie, non verrebbe curato adeguatamente e, come se non bastasse, potrebbe aver contratto il Covid 19 visto che un suo compagno di cella, sintomatico, è risultato positivo al tampone. Un dramma nel dramma. Basterebbe leggere un estratto dalla documentazione sanitaria, dalla quale si evince che è affetto da “perforazione della parete anteriore del tratto distale del sigma con secondaria raccolta asessuale coperta, sottoposto a resezione del sigma, affondamento del moncone distale e colostomia fianco sinistro. Stato settico secondario, tromboembolia polmonare, paraparesi spastica ereditaria. Deficit di AT III (una rara patologia ereditaria che generalmente viene diagnosticata quando un paziente soffre di ricorrenti trombosi venose e embolie polmonari, ndr). Piccola cisti aerea del lobo polmonare inferiore sinistro, angiomi epatici, anamnesi di tossicodipendenza”. L’avvocata difensore Carolina Schettino, il 23 ottobre scorso, ha presentato una istanza urgente alla magistratura di sorveglianza di Napoli per chiedere la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, l’articolo 47 ter, comma 1 ter dell’ordinamento penitenziario visto che ha una pena da scontare inferiore ai 4 anni. Esposito, non avendo la possibilità di essere accolto in un domicilio familiare, necessita di essere collocato in regime di detenzione domiciliare presso una struttura adeguata alla cura delle sue patologie. Struttura che l’avvocata Schettino ha trovato ed è subito pronta ad ospitarlo. Ma com’è detto, nel frattempo è arrivata anche la notizia del Covid. A risultare positivo è un suo compagno di cella. Tra l’altro parliamo di Antonio Bevilacqua. Altra storia problematica che Il Dubbio ha già raccontato: si tratta di un uomo ridotto a larva umana per vie delle sue patologie fisiche e psichiche. Ora è stato messo in isolamento sanitario, perché appunto è positivo al Covid e con sintomi. Un disastro. Poggioreale è un contenitore di tutte queste drammatiche realtà, ma sembra che il carcere non sia più l’extrema ratio, ma una discarica di tutte quelle persone che i servizi sociali e sanitari non sono stati in grado di prenderseli a carico. Ora, per quanto riguarda Esposito, tra l’altro perennemente a rischio infezione visto la mancata assistenza alla persona per il cambio delle sue sacche per colostomia, il suo legale ha avanzato una istanza integrativa visto il pericolo Covid. “L’ulteriore protrarsi del regime detentivo - si legge - potrebbe compromettere la vita dell’Esposito poiché esposto quotidianamente al rischio di poter contrarre il virus, rischio palesatosi in concreto poiché proprio un compagno di cella è risultato essere positivo sintomatico con 37.8 di temperatura”. Nel frattempo a Poggioreale, carcere sovraffollato, è scoppiato anche un focolaio, tra detenuti e agenti si è arrivati a quasi 100 casi di positività al Covid. Non a caso il garante regionale Samuele Ciambriello, assieme al collega territoriali Pietro Ioia, ha chiesto che i detenuti con patologie particolarmente gravi e con età avanzata debbano uscire subito. “Le misure alternative al carcere sono la strategia che bisognerebbe adottare senza perdere altro tempo”, chiedono con fermezza i garanti. Ma è una questione generale. I numeri dei contagi sono cresciuti vertiginosamente e i detenuti rimangono dentro. Per questo, Rita Bernardini del Partito Radicale, dalla mezzanotte di oggi, è in sciopero della fame per chiedere al Governo di ridurre la popolazione detenuta. “Si inventi quel che vuole - dichiara Bernardini - amnistia, indulto, modifiche sostanziali al decreto Ristori con l’introduzione della liberazione anticipata speciale, nostra proposta presentata dal deputato Roberto Giachetti”. Napoli. Covid, a Poggioreale test a tappeto dell’Asl di Viviana Lanza Il Riformista, 11 novembre 2020 Un detenuto del carcere di Poggioreale è ricoverato all’ospedale Cotugno, un altro di Secondigliano al Cardarelli e un altro ancora all’Ospedale del Mare. Il numero dei positivi nelle carceri di Napoli, e più in generale in Campania, aumenta e crescono le preoccupazioni e le precauzioni. Cinque agenti della polizia penitenziaria sono risultati positivi al Covid nelle strutture penitenziarie minorili di Airola (tre) e Nisida (due) e salgono ormai a oltre cento, fra detenuti e dipendenti, i positivi accertati. Una squadra dell’unità speciale Usca sta lavorando in questi giorni tra il carcere di Poggioreale e quello di Secondigliano per eseguire i tamponi all’interno dei padiglioni (ieri al padiglione Firenze di Poggioreale), mentre nel parcheggio della sede del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Napoli è stato allestito un drive-in per lo screening anti-Covid del personale della polizia penitenziaria. L’attenzione è altissima. Ma non basta. Servono spazi, quelli che all’interno delle carceri napoletane sono carenti da tempo per via del sovraffollamento e di criticità strutturali (si pensi i lavori per la ristrutturazione di alcuni padiglioni di Poggioreale che non sono ancora partiti benché finanziati da tempo). Servono interventi normativi (penalisti e garanti chiedono modifiche alle misure contenuto nel decreto Ristori affinché sia ampliata la platea dei possibili beneficiari di misure alterative). “Serve pensare ai detenuti anziani, a quelli malati. Le carceri non possono diventare tombe”, sottolinea il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello. “L’emergenza sanitaria è evidente anche all’interno delle carceri e la politica non dice nulla, nemmeno balbetta, non sembra interessarsi al problema, mentre appare pronta a commentare e a indignarsi quando un detenuto malato ottiene una misura alternativa al carcere. La certezza della pena - aggiunge il garante regionale - deve coincidere anche con la qualità della pena, non possiamo metterci la Costituzione sotto i piedi”. Ciambriello si dice preoccupato per la deriva giustizialista: “Non si può pensare di risolvere l’emergenza nelle carceri creando un isolamento nell’isolamento”, dice rispondendo a chi propone di chiudere ancora di più il mondo delle carceri per ridurre tutti i contatti con l’esterno. “Bisogna svuotare le celle. Non si può pensare di garantire il distanziamento sociale nei corridoi e tenere anche dieci o tredici persone in una cella. Così come - aggiunge provocatoriamente Ciambriello - non si può mica pensare di non dare più da mangiare ai detenuti solo perché un contagio è partito dal porta-vitto”. Ciambriello esorta quindi a non dimenticare la tutela dei diritti, quello della salute innanzitutto. E ricorda che nelle carceri campane quasi la metà dei 6.475 detenuti che compongono la popolazione penitenziaria attende ancora di essere processata, sono innocenti fino a prova contraria. Torino. Protesta davanti al carcere: “Fateci incontrare i nostri familiari detenuti” di Cristina Palazzo La Repubblica, 11 novembre 2020 Il Dpcm vieta le visite, ma i parenti non ci stanno: “Si può andare dal parrucchiere ma i nostri figli non possono vedere i loro genitori”. Protesta davanti al carcere Lorusso e Cutugno di Torino: i parenti dei detenuti da ore sono nel piazzale esterno della struttura e chiedono di poter fare loro visita. Sono madri e mogli, ma anche mariti, fratelli e figli, che hanno deciso di restare finché, assicurano, “non incontreremo la direttrice perché avevamo un appuntamento per fare il colloquio e invece abbiamo trovato solo la scritta ‘chiuso’, nessuno ci ha avvertito. Siamo pronti a incatenarci”. Stando al racconto dei familiari, che si sono rivolti anche all’associazione Libertà di Parola per farsi ascoltare, questa mattina sono arrivati per i colloqui dopo aver preso appuntamento nei giorni scorsi senza che venisse comunicato loro che non si sarebbero svolti. “Io addirittura ho chiamato ieri per avere conferma e mi è stato detto: ‘Certo, domani può venirè. E invece ho preso il pullman e sono venuta qui senza motivo, nessuno mi ha risposto”, racconta una ragazza. Arrivano da Torino ma anche dalle città vicine: “Io da Chieri - spiega la moglie di un detenuto -. Ci hanno detto che è una misura per limitare gli spostamenti, ma se non ci informano lo spostamento avviene comunque”. Le visite ai detenuti comunque sono vietate dal Dpcm. Per le zone rosse, come si legge nelle Faq del governo, “gli spostamenti per fare visita alle persone detenute in carcere sono sempre vietati, non potendo ritenere che tali spostamenti siano giustificati da ragioni di necessità o da motivi di salute. In tali casi i colloqui possono perciò svolgersi esclusivamente in modalità a distanza” e quindi o con Skype o telefonicamente. Ma i parenti non sono d’accordo: “Ma se arrivo da Torino e ho l’autocertificazione, se sto bene e non ho sintomi, perché non mi fanno entrare? Eppure i legali possono. E l’assurdo è che i parrucchieri sono aperti ma noi non possiamo salutare i nostri cari. Lo vengano a dire a questi bambini che non potranno vedere il papà. E loro dentro che si sentono abbandonati”. A preoccupare, infatti, è anche la situazione interna. Già nei scorsi la situazione delle carceri è stata oggetto di diverse istanze, compresa una lettera aperta delle detenute, tra cui la giovane attivista del movimento NoTav, Dana Lauriola, indirizzata ad Amnesty International, per avere risposte dalle istituzioni sulla questione pandemia. Preoccupa anche la situazione del carcere di Ivrea, in questo caso è l’Osapp a intervenire, dando notizia del suicidio di un detenuto di nazionalità rumena che ieri sera si è impiccato nel bagno della propria cella: “L’Osapp da tempo denuncia la gravissima situazione in cui versano gli istituti penitenziari italiani - sottolinea Leo Beneduci, segretario generale dell’organizzazione sindacale. Il carcere di Ivrea è senza un Direttore titolare e senza un comandante titolare oltre ad essere in sofferenza per le gravissime carenze di organico più volte denunciato dall’Osapp. Ribadiamo ancora una volta che il carcere di Ivrea versa nel completo “sbando”: il personale di Polizia Penitenziaria di Ivrea è allo stremo ed è quanto mai urgente che sia i vertici centrali che regionali intervengano senza ulteriore ritardo,” Novara. Pentole contro le sbarre per protesta, i detenuti chiedono di vedere i loro cari di Roberto Lodigiani La Stampa, 11 novembre 2020 Visite sospese dal Dpcm, la direzione del carcere userà skype. La percussione rumorosa delle sbarre delle celle si è fatta sentire a lungo all’esterno della casa circondariale di via Sforzesca a Novara. Per cinque giorni (e per altrettante notti) a orari casuali i quasi 200 detenuti hanno protestato così per richiamare l’attenzione delle istituzioni sulle difficoltà all’interno del carcere. Una delegazione di detenuti ha scritto una lettera per divulgare una richiesta di aiuto: “La battitura delle sbarre con gavette e pentolame - si legge nella lettera firmata da un gruppo di detenuti - sarà integrata dallo sciopero dei “lavoranti” all’interno del carcere. L’entrata in vigore del nuovo Dpcm e l’inserimento del Piemonte tra le zone rosse impedisce i colloqui con i nostri familiari. Abbiamo commesso degli errori ed è giusto che le pene a cui siamo stati condannati vengano scontate ma non è comprensibile che le conseguenze le paghino i nostri cari. Ci sentiamo trattati come lo scarto e il rifiuto della società. Con il blocco non potremo ricevere le visite e ci sono alcuni carcerati che non abbracciano i parenti da otto mesi”. Per dimostrare che la direzione del carcere è sensibile alle richieste è stata avviata una mediazione: “La protesta - dice Rocco Macrì, comandante del reparto di polizia penitenziaria in servizio nella casa circondariale di via Sforzesca - è stata udita giorno e notte dai residenti della Bicocca. Per assecondare le richieste dei detenuti, la nuova direttrice Tullia Ardito, che guida anche il carcere di Biella, ha disposto le videochiamate via skype per sopperire al blocco dei colloqui. Oltre alle telefonate ordinarie sono state previste chiamate aggiuntive, concesse gratuitamente per coloro che non dovessero avere sufficienti risorse”. Sassari. Covid, in carcere positivi 12 poliziotti sardiniapost.it, 11 novembre 2020 Aumenta il numero di positivi al coronavirus fra il personale in servizio nel carcere di Bancali: gli agenti del Corpo della polizia penitenziaria il cui tampone ha dato esito positivo sono 12 (tre giorni fa erano 10). A questi si aggiungono due funzionari del comparto e un’infermiera, anche loro contagiati dal Sars Cov 2. Sulla base del tracciamento dei contatti dei contagiati, fatto dall’Ats, 36 agenti sono stati messi in quarantena precauzionale. Il focolaio nel carcere di Bancali è partito da un detenuto in stato di semilibertà che lavora nello spaccio dell’istituto penitenziario, trovato positivo al virus e isolato nella sua cella la scorsa settimana. Tutti gli ambienti del carcere sono stati sanificati due volte e ora si attendono i risultati dello screening su tutti i poliziotti, che si è concluso oggi. Fra i detenuti non risultano altri casi di positività al coronavirus. Latina. Paura per il Covid-19: protesta pacifica dei detenuti regione.lazio.it, 11 novembre 2020 Colloquio tra la direttrice del carcere e il Garante Anastasìa. “Chiedono di abbassare l’affollamento”. Martellano le sbarre con oggetti metallici. Le urla e i fischi si sentono dalla strada. Da alcuni giorni i detenuti della casa circondariale di via Aspromonte a Latina protestano pacificamente, per chiedere che sia diminuito il numero dei detenuti per ogni cella. Il tasso di affollamento è pari al 196 per cento. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dad) al 31 ottobre 2020, la capienza regolamentare è di 77 posti. I detenuti invece sono quasi il doppio, 155. Con questi numeri, il carcere di Latina è tra i più affollati in Italia. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasìa, ha avuto un colloquio telefonico con la direttrice della struttura, Nadia Fontana. “Il problema principale - ha dichiarato Anastasìa al quotidiano Latina Oggi - è legato al rischio di diffusione del Covid all’interno del carcere. Ci troviamo davanti ad una manifestazione che non ha portato a disordini, i detenuti si limitano a battere contro le sbarre per far sentire la loro voce contro il pericolo concreto di contrarre il virus. Sperano in alternative al carcere. E io con loro, anche in misura e con modalità più incisive di quelle disposte dal Governo con il decreto Ristori”. Si apprende da Latina Oggi che un detenuto e un agente sarebbero risultati positivi. Poi si sarebbero negativizzati, ma i timori dei detenuti e delle famiglie sono aumentati, al punto che molti parenti hanno chiesto ai difensori di rinnovare le istanze di scarcerazione per incompatibilità con l’attuale situazione carceraria. Nelle celle c’è un numero di detenuti che varia da due a quattro unità. Con le nuove regole dell’emergenza pandemica sono stati ridotti al minimo i contatti esterni, sia per quanto riguarda i colloqui con i familiari che con gli avvocati difensori. Resta la necessità di tenere alte tutte le precauzioni e il rispetto delle regole per il personale che è in servizio nella casa circondariale, dunque gli agenti della polizia penitenziaria e il personale sanitario inserito nell’organico. Per ridurre il numero dei detenuti sono necessari provvedimenti giudiziari sulla base delle istanze e delle condizioni specifiche oggettive di ciascuno dei presenti all’interno della struttura. Appare difficile, se non impossibile, un trasferimento ad altro carcere poiché la situazione di sovrannumero è diffusa praticamente in tutte le carceri italiane anche se non con il tasso che si registra a Latina, che è appunto tra i più alti del Paese. “Stiamo cercando di monitorare la situazione in tutte le strutture del Lazio - dice ancora il Garante - e come già ricordato tante volte è necessario intervenire con provvedimenti deflattivi a tutela delle persone detenute”. Sui detenuti con problemi di salute incompatibili con il regime di restrizione in carcere si è già intervenuti, ma quanto accaduto in primavera con la scarcerazione di detenuti eccellenti accusati di reati gravissimi ha inciso sul via libera a misure più ampie di remissione in libertà o commutazione del carcere in arresti domiciliari, dove previsto dalla legge e dai decreti. Come si legge in una scheda realizzata dall’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale Antigone, l’edificio non versa in pessime condizioni strutturali, ma sconta tutte le problematiche relative alla sua costruzione, risalente al 1931 e al suo essere stato pensato esclusivamente come carcere giudiziario, costruito contestualmente al Tribunale. Inserito nel contesto urbano non può crescere in grandezza in quanto circondato da palazzine. Il teatro e la cappella, nel maschile, condividono lo stesso spazio, nella zona dove si trova l’infermeria. Nell’alta sicurezza femminile in un’unica stanza, senza finestre che danno sull’esterno, si svolgono lezioni scolastiche, attività formative, come la ceramica, e attività fisiche grazie a qualche attrezzo per la palestra. Anche gli spazi all’aperto per i passeggi sono piccoli, sia nella media sicurezza maschile che nell’alta sicurezza femminile. I campi sportivi condividono gli spazi con i passeggi. Non vi sono aree per la socialità in nessuna delle quattro sezioni maschili. I più sacrificati sono senza dubbio i protetti che non possono muoversi dalla propria sezione. La sezione nuovi giunti sempre nel maschile è senza dubbio quella che versa in condizioni strutturali più critiche, con presenza di umidità che risale dal terreno. ll Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà, Stefano Anastasia, ha visitato il carcere di Latina lo scorso giugno, constatando che per i colloqui con i familiari, che dal 19 maggio sono nuovamente consentiti, sono state attrezzate due sale per un totale di sei postazioni, scarsamente richieste per le limitazioni imposte alle loro modalità di svolgimento. I colloqui sostitutivi sono possibili tramite smartphone e skipe. Alba (Cn). Alessandro Prandi confermato Garante dei detenuti di Francesca Pinaffo Gazzetta di Alba, 11 novembre 2020 Dopo il primo mandato, Alessandro Prandi è stato confermato Garante comunale per le persone detenute, figura di raccordo tra il carcere Giuseppe Montalto di Alba e il territorio, garantendo i diritti delle persone che si trovano all’interno della struttura. In questi anni, Prandi è stato in prima linea per risollevare la sorte del Montalto, in attesa di importanti lavori di ristrutturazione dopo i casi di legionella, che hanno portato a una drastica riduzione della capienza della struttura, oltre a portare avanti progetti di vario tipo insieme alle associazioni attive in ambito penitenziario. La comunicazione della riconferma è arrivata poco fa, durante il consiglio comunale albese, da parte del sindaco Carlo Bo. Una struttura in attesa di lavori di ristrutturazione, quasi sempre sovraffollata, dove sono state avviate negli anni iniziative all’avanguardia, ma nel quale potrebbe essere potenziato il legame con il territorio: è il carcere Giuseppe Montalto di Alba. Da cinque anni, a accendere i riflettori sulla struttura è il garante comunale per le persone detenute Alessandro Prandi, il cui mandato scadrà a dicembre. Un ruolo del tutto volontario e non retribuito, quello del garante, creato con l’obiettivo di far valere i diritti dei detenuti, oltre a garantire un legame tra il carcere e le istituzioni territoriali. Dopo essersi candidato nuovamente al bando comunale per i prossimi cinque anni, chiuso il 20 ottobre e in attesa degli esiti, Prandi traccia un bilancio della sua esperienza e dei bisogni dell’istituto albese. Che realtà rappresenta oggi il Montalto? Dopo i contagi di legionella a inizio 2016, il carcere ha riaperto nell’estate 2017, limitatamente a una sezione da 33 posti, dove in media abbiamo sempre avuto almeno 46 detenuti, a parte i mesi del lockdown, quando le cifre sono scese, per poi risalire da giugno. In questi anni, abbiamo avuto anche più di 50 detenuti, diventando il carcere più sovraffollato d’Italia. Gli spazi sono senz’altro il problema più importante della struttura, che limitano l’organizzazione delle varie attività, soprattutto in questo momento di pandemia. Finalmente, a settembre, è stato pubblicato il bando per lo svolgimento dei lavori, da oltre 4 milioni di euro: se verranno portati a termine entro un paio di anni, la struttura potrà ritornare alla sua capienza originaria di 142 posti. Dal punto di vista umano, che cosa emerge dai suoi colloqui con i detenuti? I colloqui con i detenuti sono senz’altro la parte più importante del ruolo del garante: dalla riapertura del 2017 ad oggi, ho passato in carcere 330 ore, tra colloqui, visite e altri impegni. E posso dire che, se non si vive in prima persona la realtà carceraria, non si può comprendere a pieno. Riguardo all’aspetto umano, dai colloqui ho potuto notare come, al di là del motivo per cui una persona si trova in carcere, sono tante le fragilità, che possono derivare dal contesto da cui ciascuno proviene, dalle esperienze vissute o da altre questioni. In più casi, ho incontrati detenuti con problemi psichiatrici, che avrebbero dovuto seguire percorsi diversi da quello carcerario, ma purtroppo il sistema italiano non è in grado di garantire alternative in modo efficace. Qual è il rapporto tra il carcere e il territorio albese? Il Montalto ha grandi potenzialità, come dimostrano iniziative avviate negli anni, come il corso di operatore agricolo, con il vino Vale la pena. Importante anche il ruolo dell’associazione di volontariato Arcobaleno, che fornisce aiuti concreti ai detenuti e organizza attività nel carcere. All’interno, sono un centinaio gli agenti della Polizia penitenziaria, con due educatori. A mio avviso, però, continua a mancare una progettualità sul tema. Il passaggio fondamentale sarebbe coinvolgere pienamente il carcere nelle politiche sociali cittadine, considerandolo una realtà che fa parte del territorio e non qualcosa di esterno, da coinvolgere sporadicamente: è fondamentale comprendere che investire sul carcere, significa investire in sicurezza. Oggi, quando un detenuto esce dal Montalto, se non ha un contesto famigliare di riferimento, si ritrova da solo, con tutti i problemi connessi al reinserimento nella società: questo aumenta il rischio di recidiva. Per questo, i vari enti del territorio, dovrebbero coordinarsi su questo tema. Com’è vissuta l’emergenza sanitaria in carcere? Dopo un periodo di fermo, sono riprese le attività, a piccoli gruppi, anche se l’accesso dei volontari è ancora fortemente ridotto. Per quanto riguarda i colloqui con i famigliari, oggi sono ammessi, ma solo con un esterno per volta, mantenendo anche il sistema delle videochiamate. Rispetto ad altre realtà, per fortuna ad oggi non ci sono stati casi di Covid-19. Di certo, l’aspetto più critico è che, a differenza di altre strutture, ad Alba non è stato garantito il beneficio del lavoro esterno ai detenuti che ne hanno diritto. Il motivo è che, per gli spazi limitati, non si riesce a garantire l’isolamento del lavoratore, nel momento in cui rientra. Per esempio, parliamo di un detenuto che lavora Bra e a cui non viene più concesso di uscire da mesi. Quali iniziative concrete le piacerebbe vedere realizzate nei prossimi anni? Per esempio, un servizio di trasporto pubblico con il carcere, con una navetta di collegamento con il centro cittadino, come accade in tutti gli istituti penitenziari. In egual modo, sarebbe importante migliorare il piazzale davanti alla struttura, ora abbandonato a sé stesso, cosa che non si addice un luogo dello Stato. Dal punto di vista dei contenuti, tra i progetti in programma, una serie di collaborazioni, come quella tra il nostro piccolo museo e altri musei penitenziari piemontesi, ma anche con il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, avviando una vera collaborazione. Rovigo. Il vecchio carcere dismesso dal 2016 tornerà luogo di reclusione, sede dell’Ipm di Marco Baroncini Corriere del Veneto, 11 novembre 2020 La pietra tombale sulla possibilità di allargare il Tribunale nell’ex Casa circondariale in via Verdi. Qualsiasi sia il futuro del Tribunale, sicuramente non si amplierà sfruttando l’ex Casa circondariale di via Verdi. A mettere l’ultimo chiodo sulla bara del progetto che voleva usare la struttura penitenziaria dismessa nel 2016 per ingrandire la Cittadella della Giustizia è il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che ha pubblicato un bando di gara da 11,2 milioni di euro per ristrutturare il complesso. Lo scopo è di convertirlo in un carcere minorile, che sostituirà quello regionale ora a Treviso, ma in chiusura. La maggior parte delle spese riguarderà il restauro e la manutenzione degli edifici, che assorbirà 6,3 milioni di euro. I restanti 4,9 milioni sono invece destinati al rinnovo degli impianti tecnologici, con un milione per quelli di condizionamento e oltre tre per quelli elettrici, telefonici e televisivi. Il bando di gara, che scadrà il 18 novembre, spiega in breve le ragioni del trasferimento, sottolineando come il carcere minorile di Treviso fosse da eliminare essendo “l’unico del nostro Paese ancora inserito in una struttura penitenziaria per adulti”. A Rovigo sono previsti spazi per una decina o una dozzina di minori, mentre mancano ancora i dettagli su quella che sarà l’effettiva interna. Nessuna speranza quindi per un ripensamento sugli edifici di via Verdi che, fino ad oggi, hanno ospitato il Tribunale e l’annesso ex carcere. Costruiti tra il 1871 e il 1873, Tribunale ed ex carcere tra fine Anni Cinquanta e il 1966 vennero ristrutturati. Il pomeriggio del 3 gennaio 1982 il carcere fu assaltato da una formazione terroristica, costola di Prima Linea, per liberare le detenute politiche Susanna Ronconi, Marina Premoli, Federica Meroni e Loredana Biancamano. Il pensionato 64enne Angelo Furlan, che stava passeggiando lungo via Mazzini, fu ucciso dall’esplosione di una A112 imbottita di tritolo lasciata sotto il muro di cinta del carcere per aprirvi una breccia. I riflettori sulle mura di cinta si riaccendono quando diventa evidente la necessità di allargare l’antistante Palazzo di Giustizia per ospitare le aule e gli archivi sotto un unico tetto. Una notizia che dà il via a un puzzle di ricollocamenti dal centro storico. celle e postazioni e possibili spostamenti, senza però che un progetto definitivo prenda mai forma. Intanto è sempre rimasta sospesa l’idea di sfruttare l’ex carcere per ingrandire la sede attuale del Tribunale, ipotesi caldamente sostenuta dall’ordine degli avvocati di Rovigo e dai commercianti del centro storico, preoccupati che l’addio Palazzo di Giustizia possa danneggiare gli affari. Il bando di gara per la ristrutturazione fa definitivamente tramontare questa possibilità, riaccendendo di conseguenza il toto-spazi per stabilire dove dovrà traslocare il Tribunale. Altre le ipotesi sul tavolo, tra cui altre due emerse dall’assemblea degli avvocati del novembre 2019: uno stabile ex novo in piazzale di Vittorio con 100 parcheggi o il recupero in via Donatoni dell’ex Questura e dell’ex caserma dei vigili del fuoco con 150 parcheggi. Bocciata invece l’idea dell’ex ospedale “Maddalena” per i troppi vincoli urbanistici e per i pochi parcheggi realizzabili nell’area. La situazione lascia l’amaro in bocca al neonato “Comitato per il tribunale in centro città” il cui portavoce, l’avvocato Lorenzo Pavanello, commenta così: “La politica doveva muoversi almeno un anno fa, se non oltre. Purtroppo la partita è persa, dispiace sottolineare come le giunte Bergamin e Gaffeo abbiano di fatto soprasseduto alla questione. Il comitato comunque continua la sua battaglia per mantenere in centro storico a Rovigo il Palazzo di Giustizia”. Napoli. Il carcere femminile di Pozzuoli e le occasioni di riscatto nel tempo della pandemia di Adriana Intilla* quicampiflegrei.it, 11 novembre 2020 Covid e detenzione. Come sta vivendo il carcere di Pozzuoli la pandemia? Speranze e attività all’interno dell’istituto penitenziario. In un momento storico quale quello che stiamo tutti vivendo sull’intero pianeta a causa di una pandemia che ci ha devastati nel profondo, la vita inesorabile continua a scorrere. Ma se la frenesia quotidianamente ci pervade perché presi dai tanti impegni, all’interno di un carcere tutto si muove con più lentezza. Il tempo sembra scorrere con più calma, quella frenesia sembra essere spezzata dal suono dei cancelli che si aprono e si chiudono o dagli avvisi che ricordano il sopraggiungere di un colloquio, di una videochiamata o da un’attività che sta per cominciare. Ebbene sì, in tutta questa lentezza, anche dentro a un carcere la vita continua e non deve fermarsi. Nella Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli si sono appena conclusi due corsi e un terzo è appena cominciato, divenuti ormai il fiore all’occhiello delle attività trattamentali finanziate dal Progetto d’Istituto e che da anni coinvolgono le donne dell’istituto: pizzaiola, pasticciera e cartonnage. L’obiettivo dei corsi è lo stesso: fornire, cioè a quante vi hanno preso parte, competenze di base spendibili una volta uscite dal carcere per il loro reinserimento in società e nel lavoro, ma anche quello di far sentire a ciascuna la bellezza del creare e di far apprezzare dagli altri le proprie creazioni. Il corso di Pizzeria è stato condotto dall’Ass.ne Generazione Libera di Caserta con il maestro pizzaiolo Giuseppe Scagliarini mentre quello di pasticceria da Antonietta D’Amora di Castellammare di Stabia. Entrambi i docenti hanno cercato di trasmettere i segreti del mestiere, la tecnica, gli equilibri degli ingredienti, la manualità ma soprattutto la passione che sono alla base di questi mestieri. Entrambi i corsi hanno avuto la durata di circa 33 ore per complessive quindici donne, impegnate in attività teorico-pratiche per due volte la settimana per ciascun corso. La realizzazione di pizze tassativamente cotte nel forno a legna - ricordiamo che fu donato dalla Garante dei detenuti dott.ssa Adriana Tocco, scomparsa qualche anno fa e da Malazè, impegnato nella valorizzazione del territorio dei Campi Flegrei - e di dolci e cioccolatini venivano poi distribuiti per la degustazione alle detenute e al personale è stata particolarmente apprezzata. Il Presidente dell’Ass.ne Generazione Libera, Rosario Laudato, ha dichiarato “Abbiamo avuto modo di rilevare il buon livello di soddisfazione generale da parte delle corsiste su tutti gli aspetti dell’attività. Ci è sembrato che anche il livello di autostima sia migliorata man mano che le partecipanti riuscivano ad elaborare le pizze. È stato per noi un bel momento, abbiamo consegnato assieme alla Direttrice dott.ssa Carlotta Giaquinto attestati di partecipazione che hanno riscosso una grande commozione da parte di tutti”. Anche la pasticciera Antonietta D’Amora, che si è aggiudicata il bando anche quest’anno, ha espresso grande compiacimento per la partecipazione ed il vivo interesse delle corsiste che hanno mostrato attitudine ed interesse sia per la tecnica che per la teoria. “È stato un bel momento non solo per loro, ma anche per me. Da questa esperienza, come nella scorsa, ho tratto insegnamenti e soprattutto ho capito che nel carcere ci sono donne che hanno bisogno di riappropriarsi del loro ruolo”. A chiudere il cerchio dell’eccellenza di Pozzuoli è il laboratorio di cartonnage condotto dal maestro artigiano Flavio Aquilina la cui capacità di trasmettere la tecnica e le nozioni di questa arte sono state accolte dalle donne con entusiasmo e meraviglia per i risultati che ogni giorno riescono ad ottenere. Lo scorso anno alla Mostra Artigianato delle carceri svoltasi presso la Galleria Umberto I di Napoli, sono stati esposti tutti i lavori realizzati: matite, segnalibro, agende, cornici tutti rigorosamente realizzati tra le mura del carcere femminile, quest’anno? Chi lo sa. Le nostre sorti al momento sono legate al Covid-19. *Funzionario Giuridico-Pedagogico e Capo Area del Trattamento CCF Pozzuoli Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Il cortometraggio dei detenuti psichiatrici di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 11 novembre 2020 “Il risultato è ancor più pregevole perché si tratta di soggetti psichiatrici doppiamente stigmatizzati, sia per la loro problematica sanitaria sia perché hanno un percorso criminale alle spalle”. Con queste parole Nunziella Di Fazio, direttrice della casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto, commenta il cortometraggio “Forse perché eravamo gli ultimi” realizzato dai detenuti dell’istituto siciliano che prenderà parte al concorso “Menti in corto”, ideato dalla comunità terapeutica assistita di Calatafimi. La pellicola proposta dai detenuti-attori è a tema post-apocalittico: in un ex manicomio abbandonato, pochi uomini sono riusciti a sopravvivere alla pandemia. Da questa circostanza, nascono riflessioni sulla necessità di combattere l’alienazione e sul senso stesso dell’umanità. “Tutta la sceneggiatura e lo sviluppo del cortometraggio - aggiunge Di Falco - si è fondato su una idea dei detenuti, che hanno dimostrato grande fantasia e applicazione. Per un detenuto psichiatrico, produrre un cortometraggio, che ha una valenza comunicativa, significa aumentare l’autostima e la consapevolezza della propria autoefficacia”. “Abbiamo vissuto un anno molto particolare - prosegue la direttrice -, durante il lockdown ci siamo dati come obiettivo quello di continuare le attività riabilitative e trattamentali con il personale interno a disposizione, fra cui il progetto del cortometraggio. Abbiamo quindi proseguito nelle iniziative anche durante il periodo di chiusura, riuscendo anche in una proficua collaborazione fra l’area sanitaria e quella amministrativa. Facendo squadra si possono ottenere gradi risultati”. L’inquinamento ci fa male come il virus di Mario Tozzi La Stampa, 11 novembre 2020 Stremati da Covid-19 gli italiani hanno completamente messo in un angolo quella serie di problematiche ambientali a carattere d’urgenza che vanno dalle conseguenze del cambiamento climatico all’avvelenamento dell’aria. Si tratta di “emergenze” che sono difficili da credere, per chi è abituato a considerare l’atmosfera, cioè l’aria, come qualcosa che non si vede e che non è dunque in grado di provocare problemi di salute. Per fortuna ci pensa l’Europa a metterci sotto procedura di infrazione, in questo caso per aver “sforato” sistematicamente e continuatamente, per quasi dieci anni (fra il 2008 e il 2017), i limiti imposti al particolato atmosferico sottile, il cosiddetto PM10, anche se (solo) in alcune precise regioni del territorio nazionale. È la terza procedura d’infrazione, dopo quella sulle scorie radioattive, cui avremmo dovuto dare albergo “definitivo” già da almeno cinque anni, e quella analoga sul particolato atmosferico estremamente sottile (PM2, 5). Italia maglia nera ambientale, dunque? Che la Pianura Padana sia la regione geografica dall’atmosfera più inquinata d’Europa non è certo una novità e alcuni ricercatori stanno mettendo in relazione i picchi di rilascio del particolato atmosferico con i contagi da Sars-Cov-2. Mentre è sicuro che l’inquinamento atmosferico provoca, ogni anno in Italia, 81. 000 morti premature: circa il doppio delle vittime da Coronavius (e il 15% dei morti da Covid19 dipende proprio dall’inquinamento atmosferico). Si tratta poi di una ricorrenza, visto che nel 2012 l’Italia si era già vista comminare una sanzione proprio per aver oltrepassato i limiti del PM2, 5 fra il 2006 e il 2007. E sta per scattare un’altra procedura per lo sforamento dei limiti previsti per gli ossidi di azoto, quelli che sparirono dai nostri cieli durante il lockdown di primavera e che sono puntualmente tornati, in eccesso, non appena sono riprese le attività produttive. In particolare l’Italia presenta circa 140 morti in eccesso per inquinamento atmosferico ogni 100. 000 abitanti, non solo attraverso malattie polmonari, ma soprattutto cardiovascolari. E un’aspettativa di vita ridotta di circa due anni. Valori minori rispetto alla Francia (105) e alla Gran Bretagna (meno di 100). La vera emergenza sanitaria nel mondo del terzo millennio è l’inquinamento atmosferico, non la pandemia. E va detto che i limiti medi annui Ue per il particolato sono già superiori a quelli raccomandati dall’Oms. Nel cosiddetto bacino padano vive oltre il 40% del totale della popolazione e si produce il 50% del Pil nazionale, ma questa è una buona ragione per avvelenarsi? E le regole ambientali europee non sono forse state liberamente condivise, anche da nazioni tradizionalmente inquinanti? La decisione di ieri fa seguito a un’ulteriore lettera di costituzione in mora del 2016. Se l’Italia non si attiverà entro due mesi, la Commissione potrà deferire il caso alla Corte di Giustizia dell’Ue. La normativa Ue relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa (direttiva 2008/50/CE) stabilisce valori limite per l’esposizione, sia per la concentrazione annua (40 ?g/m3), che per quella giornaliera (50 ?g/m3), da non superare più di 35 volte per anno civile. Nella sua decisione la Corte Ue non ha dato rilevanza alla circostanza, invocata dall’Italia, che le aree oltre i limiti non fossero estese a tutto il territorio nazionale. I giudici di Lussemburgo hanno precisato che lo sforamento, anche nell’ambito di una sola zona, è sufficiente per dichiarare un inadempimento della direttiva. L’Italia era stata deferita il 16 maggio 2018. Chiudere al traffico qualche domenica non ci salverà dalla messa in mora. E tantomeno dall’avvelenamento. Non solo guerre e carestie, anche il cambiamento climatico crea le migrazioni di Matteo Grittani La Stampa, 11 novembre 2020 Degli 80 milioni di profughi del mondo, circa 25 sono migranti climatici. Aumento della temperatura, siccità e uragani sempre più frequenti colpiscono soprattutto aree geografiche quali Sud-est asiatico, Sahel sub-Sahariano, America Latina ed arcipelaghi del Pacifico. Chi ha i mezzi parte. Gli esperti: “Saranno sempre di più”. Sei nomi: Sally, Florian, Harvey, Katrina, Irma, Dorian, che senz’altro vi suoneranno familiari. Sono quelli attribuiti agli uragani che si sprigionano sul nostro pianeta. L’organizzazione Meteorologica Mondiale stila ogni anno una lista ufficiale, che ne comprende 21. È solo settembre e 20 nomi già sono stati presi. Nel corso del 2020 gli uragani hanno messo in ginocchio il Nord America, causando milioni di sfollati e miliardi di dollari di danni. Ma non ci sono solo i cicloni tropicali: siccità e incendi stanno martoriando California, Australia, Amazzonia, Asia centrale e persino la Siberia, mentre si sono registrate alluvioni nel cuore dell’Africa, in India e in Europa meridionale. I costi umani ed economici del global warming sono enormi sul breve periodo. In prospettiva invece, creano movimento, inducono gli individui ad abbandonare aree divenute ormai inabitabili per cercare vita altrove. È la cosiddetta migrazione ambientale, e secondo la Banca Mondiale interesserà circa 143 milioni di individui entro il 2050. L’identikit del migrante ambientale che sarà (e che già è), ce lo forniscono i ricercatori del Potsdam Institute for Climate Impact Research (PIK). La loro analisi da poco pubblicata su Nature Climate Change, dimostra che la migrazione climatica riguarda soprattutto paesi a medio reddito con economie agricole. “Aumento della temperatura, maggior variabilità o violenza delle precipitazioni e disastri ambientali agiscono da push factor in presenza di particolari condizioni socioeconomiche”, si legge nello studio. E poi ci sono la desertificazione, l’inquinamento dell’aria e l’innalzamento dei mari. Effetti lenti e graduali questi, che colpiranno alcune regioni geografiche più di altre. “Le aree più vulnerabili - spiega la coautrice Anna Dimitrova del Vienna Institute of Demography - si trovano in America Latina e Caraibi così come in Sud e Sud-est asiatico, ma soprattutto nella regione del Sahel e dell’Africa Sub-Sahariana”. Un fenomeno non democratico. Un dato è certo: sono poche finora le zone del pianeta da cui si fugge unicamente per il riscaldamento globale. Gli stati insulari del Pacifico ad esempio, come le isole Fiji, Mashall o l’arcipelago della Micronesia. L’oceano laggiù sale di 12 millimetri all’anno e 8 isole sono già sommerse. L’acqua salata procede inesorabile, contamina l’acqua dolce degli atolli che via via si restringono fino a diventare inabitabili. Al di fuori di queste realtà che interessano centinaia di migliaia di persone, “la migrazione climatica ha sempre altre concause socio-economiche”, sostiene l’analisi del Potsdam. Ciò significa che chi è esposto agli impatti del cambiamento climatico, non sempre migra. La tendenza registrata dagli studiosi è che il fattore ambiente influisce meno su Paesi ad alto e bassissimo reddito. Per quale ragione? “Da una parte - nota Roman Hoffmann, lead-author dello studio - nei Paesi più poveri non si dispone delle risorse per partire, tanto che migliaia di persone rimangono intrappolate e continuano a subire il climate change”. “Dall’altra quelli più ricchi hanno mezzi economici tali da assorbirne le conseguenze”. Protagonisti del fenomeno sono invece i Paesi a medio reddito. “Piccoli proprietari terrieri e contadini la cui attività dipende dalla stabilità del clima, sono i più colpiti”, spiega Raya Muttarak del Wittgenstein Center for Demography, tra gli autori. La migrazione interna. Sulla terra ci sono 80 milioni di sfollati in questo istante: l’1% della popolazione globale. La maggior parte di loro ha dovuto abbandonare il luogo di nascita a causa di guerre, conflitti e carestie, mentre circa un terzo l’ha fatto per ragioni in vario modo legate a cataclismi climatici. E se nel mondo più caldo che verrà queste migrazioni non potranno che aumentare, la narrativa - abusata da alcune culture politiche - dei rifugiati climatici ammassati lungo i confini di Europa e Stati Uniti è semplicistica e in ultima analisi sbagliata. Lo studio del PIK dimostra infatti come le migrazioni indotte dal clima siano preminentemente interne. I migranti in gran parte si spostano entro la loro regione verso aree meno colpite e molto spesso fanno ritorno nel luogo di provenienza per breve tempo. Che fare quindi? “L’unica soluzione davvero efficace - chiosa Jesus Crespo Cuaresma, economista ambientale dell’Università di Vienna - sarà stabilizzare il clima globale riducendo già da ora le emissioni di gas serra sprigionate dai combustibili fossili”. I viaggi dei nuovi profughi dalla Siria all’area del Sahel di Giordano Stabile La Stampa, 11 novembre 2020 Uragani, livello dei mari che sale, inondazioni e siccità anomale. Con i conflitti etnici e religiosi che si sommano alla guerra per l’acqua e la terra coltivabile. Storie di popoli disperatamente in viaggio verso terre fertili e temperate. I siriani la chiamano badiya, la zona semidesertica che si estende a Est di Damasco e Aleppo. È “l’altra Siria”, beduina, nomade, dai costumi conservatori, uomini con il turbante a scacchi bianchi e rossi, donne dai caftani colorati. La distesa gialla inverdisce solo fra febbraio e maggio, le greggi si spostano dai villaggi verso le distese aperte, nascono gli agnelli, e la terra dà frutti per sostenere le famiglie per tutto l’anno. Era così da immemorabili generazioni ma nel primo decennio di questo secolo le primavere sono diventate di colpo sempre più asciutte. Interi clan sunniti si sono spostati verso Ovest, nelle periferie delle metropoli della “Siria utile”, la più fertile. Un flusso enorme di persone senza lavoro, ammassata in palazzoni grigi e a stretto contatto con le popolazioni urbane occidentalizzate, con forti minoranze cristiane e sciite, le favorite dal regime di Bashar al-Assad. Una bomba che è esplosa nella primavera araba del 2011 e che poi si è riversata sull’Europa. Le cause politiche, con una dittatura filo-iraniana invisa alla maggioranza, tenuta in piedi con l’appoggio di Teheran e Mosca, restano intatte. Ma anche quelle climatiche. L’autunno in corso è uno dei più caldi mai registrati, al Polo Nord come nel Mediterraneo orientale. A metà settembre una tempesta di sabbia è salita dai deserti mesopotamici e ha investito la capitale turca Ankara, cosa che non succedeva da decenni. Il clima diventa sempre più ostile, in particolare in tutto l’arco che va dalla Penisola arabica alla Mauritania. I “profughi climatici” sono destinati a diventare la nuova emergenza, e a ben guardare lo sono già. Il Sahel è l’altro fronte incandescente, dove conflitti etnici e religiosi si sommano alla guerra per l’acqua e la terra coltivabile. Secondo l’ultimo studio del norvegese Internal Displacement Monitoring Center, gli sfollati all’interno degli Stati sono saliti nel 2019 a 50,7 milioni, mentre il totale, che comprende anche quelli fuggiti all’estero, è di 79,5 milioni. Secondo il centro distinguere fra “sfollati climatici”, circa la metà di quelli interni, e popolazioni in fuga da conflitti è sempre più difficile. “Per esempio - spiega il rapporto - l’emergere del gruppo terrorista Boko Haram nella regione del Lago Ciad, e in particolare nel Nord della Nigeria, è legato alla scarsità di risorse naturali esacerbata dalla siccità e dalla desertificazione nell’area”. “Nel mondo c’è uno sfollato ogni due secondi a causa della crisi climatica” Un fenomeno che si è allargato a tutta l’area del Sahel e ha investito Mali e Burkina Faso. L’acqua del fiume Niger, che attraversa con la sua ansa piegata verso Nord la regione semidesertica alle porte del Sahara, è contesa fra tribù contadine africane e i pastori Tuareg, come racconta lo splendido film “Timbuktu” del regista mauritano Abderrahmane Sissako. La destabilizzazione jihadista si inserisce in questo contesto come benzina in un incendio. Le migrazioni ambientali, secondo la Banca mondiale, coinvolgeranno 143 milioni di individui entro il 2050, contro i 25 milioni di oggi. Le prime nazioni a essere svuotate dai cambiamenti climatici saranno le isole nel Pacifico, dove il livello dell’oceano sale di 12 millimetri all’anno e ha già costretto all’esilio decine di migliaia di persone. Ma l’impatto su Africa e Medio Oriente è destinato a coinvolgere centinaia di milioni di abitanti e “il Sahel e l’Africa subsahariana sono le aree più vulnerabili”, conferma il Postdam Institute for Climate Impact Research. Il che pone, oltre a problemi logistici ed economici, anche un dilemma di tipo etico e politico. La Carta dell’Onu non contempla i rifugiati climatici fra quelli che hanno diritto all’asilo. L’accoglienza dei rifugiati in fuga dalle guerre è già difficile, il riscaldamento climatico rischia di mandare in tilt governi in conflitto con le proprie opinioni pubbliche. La desertificazione, la salinizzazione dei terreni, farà salire la quota della terra inadatta a ospitare la vita umana dall’1 al 19 per cento entro il 2070. È uno tsunami che si sta per abbattere sui Paesi nella fascia di clima temperata. È solo questione di tempo, rifugiati climatici diventeranno il fenomeno numero uno nelle migrazioni. Ridurre la questione a un problema di “terminologia” è “assurdo”, conferma Andrew Harper, dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: “Non c’è tempo da perdere, dobbiamo capire come proteggere queste persone, in modo che non siano costrette a fuggire”. Uragani, livello dei mari che sale, inondazioni e siccità anomale. L’umanità si trova “in guerra contro la natura: noi l’abbiamo scatenata e adesso ne paghiamo le conseguenze”. Ma reagire non sarà semplice perché “a meno che non vedano una minaccia imminente, le persone tendono a lasciare le cose come stanno”. Eppure alcuni cambiamenti sono alla portata di mano e lo si è visto durante l’epidemia Covid-19. Moltissime riunioni sono state sostituite con chiamate su Teams o altre applicazioni per le teleconferenze. Milioni spostamenti con aerei, con conseguenti emissioni di CO2, sono stati evitati, a costo zero. La Relazione al Parlamento sulle droghe così è inutile di Marco Perduca* huffingtonpost.it, 11 novembre 2020 Con oltre 130 giorni di ritardo rispetto agli obblighi di legge, il Dipartimento per le Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio ha pubblicato la sua Relazione al Parlamento sulle droghe. Secondo il documento che contiene dati dell’anno scorso, anche se in alcuni casi fa ricorso a cifre del 2018, dei quasi 16 miliardi di euro spesi per l’acquisto di sostanze stupefacenti circa un terzo riguarda la cocaina. L’eroina è in costante calo mentre tiene il boom del consumo di cannabis, specie tra minorenni. Sono circa 38.500 i segnalati ai prefetti, l’età media è di circa 24 anni, l’11% è minorenne e il 79% delle segnalazioni riguarda i cannabinoidi, il 16% cocaina/crack e quasi il 5% gli oppiacei. Le persone denunciate per reati droga-correlati (Artt. 73 e 74 DPR n. 309/1990) sono state circa 35.000, i procedimenti penali pendenti per reati di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti (Art. 73 DPR n. 309/1990) sono stati più di 86.000. I detenuti per reati di droga-correlati costituiscono più di un terzo della popolazione carceraria. Oltre un quarto dei detenuti sono qualificati tossicodipendenti. A parte le conferme di quanto prodotto negli ultimi anni, questa relazione resta fuorviante fin dal titolo: si insiste col ritenere quello delle “droghe” un fenomeno che sempre, solo ed esclusivamente porta a dipendenza! Non sono bastati tre decenni di studi che hanno dimostrato come chi sviluppi un rapporto problematico col consumo di sostanze proibite (e non) sia una ristretta minoranza mentre il resto della popolazione non “dipende” né “abusa”. Possibile ricominciare da capo tutte le volte? Eppure i dati, anche se raccolti non sempre in modo omogeneo temporalmente o disaggregati per micro-tema, ci parlano di una utenza in trattamento di 136.000 persone (con un aumento di un 14% rispetto alla relazione dell’anno scorso e per il 60% in trattamento per eroina) che a fronte degli oltre otto milioni di consumatori abituali di sostanze proibite segnala quanto l’uso rientri in comportamenti sotto (auto) controllo - stiamo infatti parlando dell’1,7%. Difficile da valutare anche l’aumento dei quasi 7500 ricoveri visto che per una buona metà non viene specificato quale sia la causa principale per il ricorso alle strutture sanitarie, né risulta facile venire a capo dell’aumento delle overdosi (373, in crescita dell’11%) visto che per un terzo non si specifica i motivi del decesso. Insomma, pure se migliorata negli anni, questa Relazione al Parlamento resta un documento che poco analizza le cause del fenomeno che studia e che, in nessuna sua parte, contiene raccomandazioni al Parlamento che la riceve o al governo che la produce. La compilazione di questi numeri dovrebbe servire a convocare la Conferenza Nazionale sulle Droghe, un appuntamento istituzionale che manca dal 2009 e che, a norma di legge, dovrebbe fornire l’opportunità di valutare quanto fatto negli anni col fine ultimo di rendere la legge e le politiche che ne derivano più adatte a governare un fenomeno fuori dal controllo dei governi in tutto il mondo. A chi volete che possa interessare quante siano state le operazioni anti-droga se da 60 anni questa si trova nei giardini delle scuole medie o nei corridoi delle carceri? *Coordinatore www.ScienceForDemocracy.org Etiopia sull’orlo della guerra civile: il Nobel per la pace ordina i raid aerei di Michele Farina Corriere della Sera, 11 novembre 2020 Il premier Abiy e l’offensiva militare per piegare i leader del Tigray. L’analisi dello storico Uoldelul Chelati Dirar: “Rischi d’implosione per lo Stato etiopico e per l’intera regione”. Mentre il mondo guarda da un’altra parte, l’Etiopia è con un piede dentro la guerra civile. Abbiamo chiesto allo storico Uoldelul Chelati Dirar, esperto di Corno d’Africa e docente di Storia e Istituzioni dell’Africa all’università di Macerata, di inquadrare la crisi che sta vivendo un Paese di oltre 100 milioni di abitanti guidato da un premier, Abiy Ahmed, che nel 2019 è stato insignito del premio Nobel per la Pace. Un giovane politico che nel 2018 si presentò al mondo con queste parole: “La pace è la casa comune, e la porta d’entrata è una sola”. Lo direbbe anche oggi, mentre si combatte nella regione settentrionale del Tigray? Le vittime si contano a decine. Abiy ha rimosso il ministro degli Esteri, il capo delle Forze Armate e quello dell’intelligence dandone annuncio via Twitter, senza fornire spiegazioni. L’allarme dell’Onu: 9 milioni di persone rischiano di restare intrappolate nei combattimenti o di essere costrette a lasciare le proprie case. Che cosa sta succedendo in Etiopia? Venti di guerra civile sembrano incombere minacciosi gettando il Paese in una situazione di pericolosa tensione con rischi gravissimi per l’intera regione. La situazione già tesa per via del mancato svolgimento delle elezioni generali previste per lo scorso agosto e La decisione dello Stato federale del Tigray di procedere unilateralmente con proprie elezioni, è rapidamente deteriorata negli ultimi giorni”. Che cosa ha fatto precipitare la crisi? La decisione del Parlamento federale di interrompere tutti i ponti con l’amministrazione dello Stato federale del Tigray e la reazione del governo del Tigray di rifiutare la presenza del comandante militare del Comando Nord inviato dal Governo centrale e di chiudere il proprio spazio aereo a qualsiasi velivolo. Infine, fonti governative parlano di un attacco da parte di forze tigrine a basi militari dell’esercito federale, ma mancano al momento riscontri ufficiali. Che notizie arrivano dal Tigray? “Dallo scorso martedì sera l’intera regione del Tigray è isolata e non raggiungibile telefonicamente, i servizi di accesso a internet bloccati e l’erogazione di corrente elettrica sospesa. Il governo federale ha inoltre dichiarato sei mesi di stato di emergenza in tutta la regione e il Primo ministro Abiy Ahmed ha annunciato l’avvio di operazioni militari per domare la ribellione del Tigray. Sono in corso combattimenti e sembrerebbe che l’aviazione etiopica abbia bombardato alcune postazione militari in Tigray”. Chi sono i contendenti di questo conflitto? In questa crescente tensione i contendenti sono da un lato il Primo Ministro Abiy Ahmed, capo del Governo Federale etiopico e leader del nuovo Partito della Prosperità, e dall’altro l’amministrazione dello Stato federale del Tigray guidata dal Tigray People Liberation Front (TPLF), l’organizzazione che è stata l’artefice principale della caduta, nel 1991, della dittatura militare guidata dal Colonnello Menghistu Haile Mariam e che, fino al 2018, ha controllato continuativamente il governo federale”. I motivi di questa divisione? “Dopo la nomina a primo ministro di Abyi Ahmed si è assistito a un continuo crescendo di tensioni tra lui e il TPLF. Alla base c’è l’inconciliabile differenza su quale debba essere il progetto per il futuro dell’Etiopia. Da un lato vi è la prospettiva di federalismo etno-linguistico fortemente voluta dal TPLF e ratificata dalla Costituzione del 1994; dall’altro lato la prospettiva del cosiddetto medemer (sinergia in lingua amarica) teorizzata da Abiy Ahmed che, di fatto, propone un superamento del modello federale e prospetta il ritorno a modelli costituzionali più centralizzati. La strategia del medemer si è tradotta in un turbinio di cambiamenti nella vita sociale e politica del Paes”. Cambiamenti in positivo? “Alcuni di questi cambiamenti hanno generato una grande speranza tra la popolazione etiopica e gli osservatori internazionali. Basti ricordare la liberazione di migliaia di prigionieri politici, l’autorizzazione al rientro in patria di oppositori rifugiatisi all’estero, la denuncia dell’uso della tortura da parte dei servizi di sicurezza e l’enfasi sulla necessità di dare visibilità politica ed economica alle donne”. E poi c’è stata la distensione con il grande nemico della porta accanto, l’Eritrea… “L’evento più significativo è stato indubbiamente l’annuncio a sorpresa — nel 2018 — dell’avvio di un processo di normalizzazione dei rapporti tra Etiopia e Eritrea, che erano di fatto sospesi da venti anni. Paradossalmente è stato proprio l’avvio del processo di pace con l’Eritrea ad innescare un rapido deterioramento dei rapporti tra il Primo Ministro Abiy Ahmed e il TPLF”. Perché? “Da un lato l’avvio del processo di pace, per quanto approvato, è stato percepito da parte della leadership del TPLF come un colpo di mano in quanto non aveva visto un coinvolgimento attivo del Tigray, di fatto lo Stato federale con la maggior parte di confine condiviso con l’Eritrea e il più direttamente coinvolto nella tragica guerra del 1998-2000. A peggiorare la situazione si è aggiunto il rapido avvio di strette relazioni tra il primo Ministro Abiy Ahmed e il presidente eritreo Issayas Afewerki, con numerosi scambi di visite tra i due capi di Stato”. Come hanno reagito i dirigenti del Tigray? “Il consolidarsi dei rapporti tra i due capi di Stato è stato visto dalla leadership del TPLF come il segnale di una strategia mirata a marginalizzarli politicamente dopo che per più di un ventennio il TPLF è stato il principale attore politico sullo scenario etiopico e l’artefice della grande trasformazione economica e sociale. Le dichiarazioni del presidente eritreo Isaias Afewerki non hanno certo contribuito a dissipare queste preoccupazioni. Nel discorso con cui dichiarava di accettare la proposta di pace del governo etiopico, Isaias aveva parlato di un “game over” per la leadership tigrina, mentre in un’intervista dichiarava esplicitamente di non poter rimanere spettatore passivo dinnanzi all’evolversi della situazione politica etiopica. Sembrerebbe quindi che lo Stato dell’Eritrea si configuri sempre più come un ingombrante convitato di pietra all’interno del pericoloso evolversi della crisi etiopica”. Quali sono i rischi per l’Etiopia? “Indubbiamente la crisi è innanzitutto una questione etiopica, legata alla messa in discussione degli assetti federali ed alla ridefinizione degli equilibri di potere tra le varie forze politiche. Se non viene fermata in tempo, l’attuale crisi potrebbe innescare un’ulteriore frammentazione politica lungo linee etniche dalle conseguenze imprevedibili ma sicuramente inquietanti, come dimostrato anche dal recente episodio che ha visto l’uccisione nello stato federale dell’Oromia di decine di civili di origine Amhara”. E i pericoli per la regione? “Si tratta di una crisi complessa, che si dipana su più livelli e che, se non fermata, potrebbe destabilizzare l’intera regione del Corno d’Africa, azzerando i faticosi processi di crescita economica e di trasformazione sociale avviati negli ultimi trent’anni. L’Etiopia sta da tempo perseguendo una strategia di leadership regionale che l’ha portata a svolgere un ruolo centrale in numerosi scenari di crisi dalla Somalia al Sudan. Inoltre la nuova inedita alleanza tra il primo Ministro Abiy Ahmed e il presidente Isayas Afewerki sta portando a tensioni e irrigidimenti da parte di vari esponenti politici della regione che denunciano quello che per loro è un progetto egemonico destinato a comprimere e irrigidire gli spazi politici nazionali”. Poi c’è la crisi della diga sul Nilo… “Ecco un’altra questione particolarmente spinosa che agita gli equilibri regionali: il progetto ormai in fase di conclusione della cosiddetta Grand Ethiopia Renaissance Dam (GERD). Avviato dal ex primo ministro Meles Zenawi, il progetto di questa grande diga sul Nilo è destinato a risolvere il problema del crescente fabbisogno energetico etiopico ma è fortemente osteggiata dall’Egitto ed è vista con preoccupazione dal Sudan”. Trump ha detto di recente che l’Egitto potrebbe bombardare la diga… “L’Egitto ha ripetutamente espresso la sua ostilità al progetto che considera una minaccia alla propria sopravvivenza e alla sua produzione agricola, ed ha esplicitamente minacciato la possibilità di ricorrere all’uso della forza per arrestarlo. In questo l’Egitto sembrerebbe godere dell’appoggio dell’amministrazione americana uscente, il che complica ulteriormente uno scenario già particolarmente intricato”. Che cosa è necessario fare per fermare la crisi nel Tigray? “È urgente l’intervento della comunità internazionale per cercare di incoraggiare una soluzione negoziale che allontani lo spettro di un devastante ritorno della guerra in una regione che è stata già a lungo martoriata. Le voci della ragione devono trionfare sull’irragionevole ricorso alle armi”. Il mondo è distratto dalla pandemia e dall’esito delle elezioni negli Stati Uniti. Quali sono le sue previsioni? “Il primo ministro Abiy è stato insignito del Nobel per la Pace ma ora sta utilizzando con un una certa spregiudicatezza la forza delle armi invece di cercare una mediazione, magari ricorrendo a organismi regionali. L’impressione è che il suo progetto fosse di realizzare un blitz chirurgico per rimuovere l’attuale leadership del TPLF e sostituirla con amministratori in sintonia con la sua linea politica. Fallito il blitz la prospettiva è di un braccio di ferro militare inteso a rafforzare le reciproche posizioni. Per entrambi i contendenti è in gioco la sopravvivenza politica. Tuttavia, è evidente che nessuno potrà uscire vincente da un protrarsi dei combattimenti. La soluzione non potrà che passare attraverso un tavolo di negoziati. In caso contrario, il rischio più immediato è l’implosione dello Stato etiopico, già destabilizzato da drammatiche lacerazioni interne, con un catastrofico effetto a cascata sull’intera regione”. Lo stop di Putin agli azeri nella marcia sul Nagorno di Giordano Stabile La Stampa, 11 novembre 2020 L’Armenia evita la capitolazione ma si ritirerà dall’enclave contesa. Arrivano duemila soldati russi. L’Armenia ha forse evitato la “capitolazione”, come l’ha definita il presidente azero Ilham Aliyev. Ma esce con le ossa rotta dalla guerra nel Nagorno Karabakh. Quasi metà dell’enclave secessionista, conquistata nel 1994, è andata perduta. E se non fosse stato per la mediazione della Russia le forze azere si sarebbero prese tutto. Adesso gli armeni dovranno ritirarsi anche da sette distretti azeri che circondano la regione e conserveranno soltanto un corridoio lungo l’autostrada da Erevan al capoluogo Stepanakerk. Il premier Nikol Pashinyan ha parlato di “intesa dolorosa”, inevitabile, vista la situazione al fronte. Non per gli armeni, convinti che era possibile resistere ancora. Gli abitanti della capitale sono scesi nelle strade e hanno assediato il palazzo del governo e il Parlamento. Ma la rabbia popolare non sostituisce carri armati e cannoni. E neppure i micidiali droni turchi Bayraktar che hanno deciso le sorti della guerra a favore dell’Azerbaigian. Il dramma dell’epilogo, a Stepanakert, lo si è respirato sin dalle prime ore del conflitto. Questa volta i bombardamenti hanno raggiunto il capoluogo. Nessuno se lo aspettava. Stepanakert in pochi giorni si è svuotata fino a diventare l’ombra di se stessa, della città vitale che era stata fino alla vigilia del 27 settembre, quando si è scatenata l’offensiva azera. Chiusi i negozi, alberghi e scuole trasformati in gironi danteschi per gli sfollati. E migliaia di persone intrappolate negli scantinati, inchiodate ai bollettini che raccontavano successi militari, avanzate respinte, avversari in fuga. Dispacci che hanno nutrito le speranze fino a due giorni fa. Tutto falso, la guerra era persa. Quando le forze speciali azere, lunedì mattina, hanno diffuso immagini dalla città storica di Shushi, una fortezza naturale situata lungo l’autostrada che porta a Stepanakerk, si è capito che era finita. Nella tarda serata di lunedì Vladimir Putin ha convinto Pashinyan con una proposta che non poteva rifiutare. Salvare Stepanakerk e metà del Nagorno Karabakh. Il premier armeno ha firmato. Poco dopo ha fatto altrettanto Aliyev. Ieri mattina il ministro della Difesa russo Sergei Soigu ha precisato che 1960 soldati russi sorveglieranno il rispetto della tregua e resteranno “per cinque anni”. Nel pomeriggio i primi sono partiti dalla base aerea di Ulyanovsk. In cambio l’Azerbaigian otterrà a sua volta un corridoio attraverso il territorio armeno che lo collegherà all’enclave del Nakhchivan e alla Turchia. “È una capitolazione”, ha commentato Aliyev, che ha alluso anche al dispiegamento di soldati turchi, un ritorno nel Caucaso dopo un secolo che soddisfa oltremodo la Turchia. Il compromesso ha evitato l’assalto a Stepanakerk. Ma non è quello che gli armeni si aspettavano da Putin. Un patto di mutua difesa lega l’Armenia e la Russia. Ierevan ha sperato fino all’ultimo che Mosca bloccasse l’assalto azero. Baku e Ankara hanno soffiato anche sull’orgoglio islamico contro la piccola nazione cristiana, tre milioni di abitanti contro i dieci dell’Azerbaigian, e schierato duemila mercenari siriani. Ma Putin non si è mosso. Per sei settimane Stepanakert, Shushi, Martuni, Hadrut e decine di altri villaggi sono stati bombardati notte e giorno, soprattutto dai droni forniti da Turchia e Israele. Ma anche dai razzi Smerch di produzione russa, che hanno colpito case, scuole, chiese, e persino l’ospedale: nei suoi sotterranei decine di medici e infermieri dormivano per terra tra un turno e l’altro. Gli azeri hanno usato anche bombe a grappolo e al fosforo, lanciate sulle alture di Shushi per stanare le difese armene. A nulla sono serviti gli oscuramenti che ogni notte sprofondavano la città nel buio rischiarato appena dalle scie dei razzi Grad. Stepanakert è morta così, nascosta nelle cantine, sprofondata nelle fosse scavate ogni giorno per accogliere nuovi caduti, oltre 1.200 in tutto.