La popolazione penitenziaria torna a crescere redattoresociale.it, 10 novembre 2020 Finito l’effetto emergenza Covid-19 che aveva determinato una brusca riduzione dei numeri dei detenuti. I dati del 31 ottobre 2020 parlano di 54.868 detenuti presenti nei penitenziari, contro una capienza regolamentare degli istituti di 50.553 posti. Gli stranieri sono 17.713 mila. Oltre 2,3 mila le donne detenute L’effetto emergenza da Covid-19 sul sovraffollamento penitenziario può dirsi definitivamente archiviato. Dopo il crollo della popolazione penitenziaria registrato a cavallo di febbraio e maggio 2020, il numero dei detenuti presenti negli istituti di pena italiani è tornato a crescere senza sosta. Il dato più basso registrato è quello di maggio scorso, quando alla fine del mese risultavano in carcere 53.387 persone (contro una capienza di 50.472 posti dichiarata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Un dato parecchio distante da quello registrato a fine febbraio 2020, con oltre 61 mila detenuti e una capienza massima di poco distante da quella di maggio. Da giugno 2020, tuttavia, la popolazione detenuta è tornata a crescere e lo ha fatto senza sosta fino al 31 ottobre, quando, secondo il Dap, nelle carceri italiane sono risultati presenti 54.868 detenuti. Il numero dei detenuti nelle carceri italiane è in continua crescita: al 31 dicembre 2019 nei penitenziari di tutto il paese risultano 60.769 detenuti, mentre al 31 dicembre del 2018 erano 59.655. Un dato che negli ultimi mesi del 2019 ha visto delle oscillazioni importanti, arrivando a superare anche quota 61 mila a fine novembre, ma per poter fare un confronto con gli anni precedenti, in questa scheda abbiamo scelto di prendere come riferimento unicamente la data del 31 dicembre di ciascun anno. L’ultimo dato reso noto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), inoltre, è il più alto registrato a fine anno negli ultimi sei anni. Dopo il picco degli oltre 67 mila detenuti registrato il 31 dicembre 2010, la presenza in carcere è diminuita fino a raggiungere gli oltre 53 mila nel 2014 e i poco più di 52 mila nel 2015. Dal 2016 in poi, però, il dato è tornato a crescere senza sosta fino ad oggi. Una crescita che ha riguardato anche la capienza regolamentare degli istituti dichiarata dal Dap: dai 43 mila posti del 2008 si è arrivati ai 50,6 mila posti disponibili, ovvero 10 mila in meno rispetto al numero dei detenuti presenti negli istituti di pena. In controtendenza rispetto al dato generale delle presenze in carcere è il dato che riguarda la popolazione detenuta straniera: al 31 dicembre 2019 i detenuti stranieri sono circa 19,9 mila, contro i 20,2 mila circa del 31 dicembre 2018. Un dato, quello di fine 2019, che segna un ritorno al 2017, ma risulta più alto di circa 2 mila unità rispetto agli anni 2014 e 2015. La percentuale di popolazione straniera in carcere invece passa dal 33,95 per cento di fine 2018 al 32,7 per cento di fine 2019. Rispetto al totale dei detenuti, le percentuali del 2019 confermano il trend degli ultimi 10 anni: la percentuale di stranieri in carcere rispetto al totale, infatti, è diminuita passando da oltre il 37 per cento alle percentuali odierne. In crescita la presenza di donne in carcere: al 31 dicembre 2019 sono 2.663, contro le 2.576 presenze del 31 dicembre 2018. Un dato in costante crescita dal 2015 ad oggi. Tra i reati che producono carcere, stabili ma in crescita rispetto al 2015, quelli che riguardano la violazione delle leggi sugli stupefacenti. Al 31 dicembre 2019, sono 21.213 i detenuti per aver violato la normativa sulle droghe, mentre nel 2015 erano 17.676. Andando più a fondo, però, si scopre che ad esempio nel 2017 su 19.793 detenuti per droga, sono 13,8 mila quelli ristretti a causa della violazione del solo art. 73 del Testo unico (quindi la produzione o il traffico o la detenzione di sostanze), mentre sono quasi 5 mila quelli detenuti per l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope). Solo 976, inoltre, i detenuti esclusivamente per l’art. 74. In costante crescita, infine, i detenuti per il 416 bis del codice penale, ovvero associazione di tipo mafioso: a fine 2019 infine si contano 7.481 detenuti, contro i 5.257 del 2008. Di carcere si può morire. Lo confermano i dati dei suicidi negli istituti di pena italiani. Al 31 dicembre 2019 sono 53 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere secondo il Dap. Un dato in calo rispetto a quello del 2018 che rappresentava e rappresenta ancora il dato più alto dal 2002 ad oggi, anche se non il più alto in assoluto. Nel 2001, infatti, ci sono stati ben 69 suicidi negli istituti di pena italiani e nel 1993 si registrarono ancora una volta 61 suicidi. Dopo una rapida ascesa dal 2016 al 2018, nel 2019 la tendenza ha un segno opposto. Anche i decessi per cause naturali, inoltre, seguono un andamento altalenante negli anni. Nel 2019 sono 90 i detenuti morti per cause naturali. Il dato più alto è del 2005, quando si registrarono 115 decessi. Fine pena mai. In costante crescita il numero dei detenuti condannati all’ergastolo. Se nel 2016 c’erano 1.237 detenuti all’ergastolo, nel 2019 sono 1.802. Un dato che negli ultimi 14 anni ha fatto segnare soltanto una battuta d’arresto tra gli anni 2012 e 2014, con circa 1.580 ergastolani, ma già dal 2016 il dato è tornato a salire fino a superare quota 1.800. Dal 2009 al 2017 cresce in maniera costante la presenza dei volontari in carcere. Nel 2017 sono 16,8 mila i volontari impegnati in diverse attività. Nel 2009 erano circa 8,5 mila. Nel 2018, invece, il dato è pressoché stabile rispetto all’anno precedente. Secondo i dati del Dap, quindi, ci sarebbe un volontario ogni 3,5 detenuti, ma i dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone nel corso delle visite agli istituti di pena italiani mostrano un impegno maggiore da parte del volontariato. Secondo Antigone, negli istituti visitati il rapporto detenuti/volontari è pari a 7, ovvero un volontario ogni 7 detenuti. “Confessione o morte”. La tremenda bibbia della giustizia a 5 stelle di Piero Sansonetti Il Riformista, 10 novembre 2020 L’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli si scaglia contro il collega napoletano Henry John Woodcock che aveva messo in discussione il 41bis. Rivendica il valore della punizione estrema, la diversità antropologica del mafioso, definisce le carceri Grand Hotel e chiede che l’emergenza diventi ordinaria. Gian Carlo Caselli dice di essersi stufato delle critiche dei benpensanti che contestano la legittimità e la modernità del carcere duro, cioè del 41bis. Caselli rivendica il suo diritto ad inveire contro i garantisti perché ritiene di avere conquistato questo diritto sul campo, facendosi “un mazzo tanto e maturando una esperienza concreta di contrasto alla mafia”. La sua idea è molto chiara: se vuoi parlare di mafia, o anche semplicemente di Diritto, puoi farlo solo in quantità “proporzionale” alla intensità della battaglia che hai condotto contro la mafia. È l’idea del “potere dei giusti”, la “giustocrazia”, che in fondo è la base fondamentale sulla quale, in tutti questi anni, è stata costruita la famosa “società dell’antimafia”, quella che - solo lei - può distribuire titoli, prebende, diritti, credibilità, prestigio. Chi non fa parte di questa società dei giusti deve tacere, o parlare pochissimo e sottovoce. Caselli è perfettamente interno a questa logica, però si esprime, rispetto ad altri, in forme più estremiste, oppure se vogliamo essere oggettivi - in forme più chiare, meno ipocrite. È da questa idea, estesa oltre le praterie dell’antimafia, che è nato il grillismo che oggi domina, in gran parte, il paese e la sua (scarsa) cultura politica. La polemica contro i nemici del carcere duro e i fanatici della Costituzione (e della dichiarazione dei diritti umani del 1948) stavolta il dottor Caselli la scaglia contro un suo collega. Diciamo pure un suo collega che non ha fama di liberal. Precisamente Henry John Woodcock, noto come lo sceriffo italo-inglese di Napoli. Woodcock due giorni fa ha scritto sul Fatto Quotidiano uno dei pochissimi articoli ragionevoli comparsi su quel quotidiano dal settembre 2009 (scherzo…), criticando il 41bis e la legislazione sui pentiti. Dell’articolo di Woodcock abbiamo riferito sul giornale di sabato scorso. È vero che Caselli può rivendicare il suo “essersi fatto un mazzo tanto nella lotta alla mafia”? È vero. Sicuramente è vero (anche se io ho sempre pensato che il compito della magistratura sia quello di scoprire e perseguire i reati, e non quello di lottare contro fenomeni sociali, o politici, o anche criminali). Giovanni Falcone, cercando e perseguendo i reati, diede scacco matto, o quasi, alla mafia. Quando Falcone fu ucciso dal colpo di coda di Cosa Nostra, nel 1992, altri rappresentanti dello stato si trovarono nella sua trincea, per completare la sua opera. Ad esempio i carabinieri del generale Mori, che portarono a casa il risultato migliore possibile per i loro compiti: la cattura di Totò Riina, cioè il capo di Cosa Nostra, e la decapitazione della mafia siciliana. Poi arrivò Gian Carlo Caselli - arrivò proprio il giorno della cattura di Riina - e lavorò ventre a terra per proseguire l’opera di Falcone e di Mori. Quando lui era Procuratore di Palermo la mafia subì nuovi colpo micidiali, con l’arresto di personaggi di grande calibro, come Bagarella, Brusca, Spatuzza. Dopo di lui arrivò Piero Grasso, e fu all’epoca di Grasso, nel 2006, che Renato Cortese, ufficiale di polizia (diretto da Giuseppe Pignatone) mise le manette all’ultimo grande capomafia, Bernardo Provenzano detto Binnu. Da quel giorno Cosa Nostra non è più la terribile organizzazione che aveva dominato, non solo in Sicilia, per decenni. In questo corpo a corpo tra Stato e Mafia Caselli ha avuto sicuramente un ruolo importante. Come lo hanno avuto il generale Mori e il dottor Cortese, Piero Grasso, lo stesso Pignatone e molti altri. Oltre naturalmente ai due “giganti”, e cioè Falcone e Borsellino, che lavorarono nonostante mezza magistratura e un bel pezzo di mondo politico remassero contro di loro. Purtroppo oggi alcuni di questi uomini di valore - di valore come Caselli - navigano in cattive acque. Forse travolti dall’invidia. Pensate che i due poliziotti che hanno preso Riina e Provenzano sono tutti e due sotto processo e hanno subito tutti e due, in primo grado, condanne a molti anni di prigione. Mori addirittura è stato accusato di avere trattato con la mafia. Con chi? Beh, con Riina. Ma non fu lui a catturalo? Si, però… Come si fa ad accusarlo di aver trattato con la sua “preda”? Non so, è illogico, però lo accusano, e nessuno dice loro di smetterla con questa sceneggiata… Credo che su questo Caselli sarà d’accordo con me. Se lui ha maturato dei meriti sul campo, come è vero, certo non negherà i meriti dell’allora colonnello Mori. Caselli però protesta perché dice che i benpensanti sono contro di lui perché - sempre i benpensanti - vorrebbero abolire il 41bis, cioè il carcere duro, dal momento che lo giudicano - adoperando semplici e logici ragionamenti - in aperto contrasto con la Costituzione. Cos’è il 41bis? Un regime di detenzione speciale, riservato a circa 600 persone, che vengono tenute in isolamento per decenni, senza Tv, senza giornali, senza contatti coi loro compagni di prigione, con regime alimentare duro, solo un’ora d’aria, limitazione fortissima dei colloqui coi parenti, insomma, situazione da medioevo. Fino a quando? Finché non si pentono. Si chiama carcere duro. Qualcuno - io per esempio - lo chiama tortura. È evidente che è tortura. Ora, con tutto il rispetto per la cultura e la saggezza di Caselli, mi vedo costretto a fargli notare che i benpensanti non sono quello 0,2 per cento della popolazione Italiana che contesta il 41bis, ma quel 99,8 per cento che vorrebbe renderlo ancora più duro. E infatti poi Caselli, nell’articolo di polemica con Woodcock, elenca i benpensanti: “Nessuno Tocchi Caino”, le Camere Penali e i media “schierati su questi fronti.” Che una associazione di militanti radicali, intitolata a Caino, sia contro il carcere duro, a me sembrava abbastanza prevedibile. Altrimenti avrebbero chiamato la loro associazione “Buttate la chiave”... Stesso discorso vale per le Camere Penali, che si ispirano a Beccaria, non a Salvini. Quanto ai media schierati contro il 41bis, gli unici che conosco sono questo giornale sul quale sto scrivendo e radio radicale. Detto tutto questo, e pur conoscendo molto bene la filosofia dei fautori della repressione come strumento fondamentale di governo di una società democratica, alcune delle frasi contenute nell’articolo di Caselli mi hanno colpito per la loro ferocia. Anche perché Woodcock, nel suo articolo, non aveva esposto tesi particolarmente estremiste. Si era limitato a dire che le leggi di emergenza non possono essere eterne, che il 41bis è legale se risponde a esigenze di sicurezza ed è invece illegale se diventa uno strumento di indagine, cioè un modo per produrre confessioni, e aveva chiesto che si facesse più attenzione nell’uso dei pentiti, non solo per garantire l’equità della legge, ma anche per evitare cantonate. La storia dei pentiti che imbrogliano i Pm, e provocano cantonate dei Pm, del resto, è ricca di esempi, a partire da Palermo, dove un pentito ha mandato a monte le indagini sull’uccisione di Borsellino. Quali sono gli argomenti di Caselli per contestare Woodcock? Essenzialmente tre. Il primo è che il 41bis non deve essere considerato un provvedimento di emergenza perché la mafia non è un’emergenza ma è un fenomeno ordinario. Il secondo è che senza 41bis le carceri tornano ad essere Grand Hotel (ha scritto proprio così). Il terzo è che la mafiosità è “una realtà che può cessare o con il pentimento o con la morte”. Non ho forzato questa frase. Seppure un po’ tremando, l’ho copiata esattamente nella forma nella quale l’ha scritta Caselli: “pentimento o morte”. Non ricordo di avere mai letto frasi di questo genere, così lontane da qualunque idea del diritto degli ultimi due secoli, al di fuori degli stati autoritari, pronunciate da un magistrato (nel nostro caso un ex prestigiosissimo magistrato che è stato Procuratore, è stato nel Csm, è stato giudice di Cassazione…). Mi chiedo se questa idea patibolare della giustizia, e del diritto (e dello Stato) sia solo una fuga per la tangente di Caselli. O se invece risponda, nel profondo, al modo di pensare di un pezzo, maggioritario, del paese, e della sua cultura recente, quella che ha prodotto il fenomeno dei 5 stelle, lo slittamento su posizioni reazionarie del PD, l’insalvinimento della destra. Temo che questa mia seconda ipotesi non sia infondata. E torno a tremare. P.S. 1. Quanto al Grand Hotel carcere, evito commenti. È triste leggere queste parole. E sul 41bis non emergenziale va detto solo che se è così è chiaro che nessuno al mondo può negare il suo essere totalmente anticostituzionale. P.S. 2. Gian Carlo Caselli è una persona che per svolgere il suo mestiere nel modo che riteneva giusto, ha messo decine di volte a rischio la sua vita (all’epoca di Caselli era così). Io non ho mai messo a rischio la mia. Eppure sono convinto di avere esattamente lo stesso diritto che ha lui di esprimere le mie idee. P.S. 3. Mai e poi mai, nella mia vita, avrei pensato di poter difendere Henry John Woodcock. E addirittura di apprezzare un suo articolo sul giornale di Travaglio. Spero solo che non mi capiterà, un giorno, di dover difendere Davigo. Aumento “vertiginoso” dei contagi in carcere: oltre 500 detenuti positivi in 70 strutture Il Dubbio, 10 novembre 2020 A fornire i dati allarmanti è la Uil-pa Polizia penitenziaria, mentre l’osservatorio carcere dell’Ucpi lancia un nuovo appello: “Amnistia e indulto o sarà un disastro”. Un “nuovo vertiginoso aumento” dei contagi Covid in carcere, con 537 detenuti positivi e 728 contagiati tra gli operatori. A fornire i dati è la Uil-pa Polizia penitenziaria: si tratta dei numeri censiti dall’ufficio attività ispettiva e di controllo del Dap, aggiornati alle ore 18 di domenica scorsa (erano invece rispettivamente 448 e 574 il 5 novembre). Per quanto riguarda i detenuti, riferisce il sindacato, 24 sono ricoverati in strutture sanitarie o gestiti dal servizio 118, e “sono 70 le carceri dove si sono registrati contagiati fra i detenuti, mentre molto più numerose sono le strutture in cui il contagio si è manifestato fra gli operatori”, dichiara Gennarino De Fazio, segretario della Uil-pa Penitenziari, secondo il quale “continua a essere evidente che nel carcere si fa ciò che si può, con gli strumenti, pochi e inadeguati, e le risorse umane ed economiche, sempre inadeguate carenti, di cui l’Amministrazione penitenziaria dispone. Con il virus che continua a espandersi nel Paese, è inevitabile che nelle carceri l’andamento sia tendenzialmente corrispondente. Per contenerne gli effetti, però, reputiamo che siano necessari e urgenti ulteriori provvedimenti governativi utili soprattutto a deflazionare la densità detentiva e a potenziare le dotazioni degli operatori, primi fra tutti quelli del Corpo di polizia penitenziaria”. Di fronte al rischio di trasformare il sistema penitenziario in un unico, enorme e tremendo cluster, gli avvocati dell’Unione Camere penali rivolgono un nuovo invito al Parlamento affinché ricorra all’amnistia e all’indulto. “Non si può certo prescindere dalla situazione generale nell’affrontare, con onestà intellettuale scevra da ogni pregiudizio, la gravità di quanto, in questi giorni, sta accadendo nei palazzi di giustizia e negli istituti di pena. Nei primi”, si legge in una lunga nota dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi, “i ritardi per giungere a sentenza, dovuti all’enorme carico processuale, si sono ulteriormente aggravati per l’emergenza sanitaria, che ha ridotto il personale e imposto la drastica diminuzione dei fascicoli da trattare in udienza. I tempi della giustizia saranno, pertanto, ancora più lunghi, con gravi riflessi individuali su imputati e persone offese e conseguenze negative per la credibilità del Paese e per la sua economia”. Nelle carceri, l’Osservatorio dell’Unione Camere penali, con i propri componenti, in ogni regione “sta monitorando il diffondersi del virus, e i dati sono allarmanti, con una crescita esponenziale che non può attendere oltre un’immediata soluzione”. I provvedimenti adottati sino ad ora “appaiono totalmente inadeguati ad affrontare la nuova ondata del virus, che si presenta molto più pericolosa e cruenta della prima. Non a caso il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, con una circolare, ha rinnovato l’invito - già espresso nell’aprile scorso - di ridurre la richiesta di misure cautelari in carcere e di procrastinare l’esecuzione delle misure già emesse”. Ancora una volta, dunque, l’Osservatorio carcere Ucpi rivolge al Parlamento “l’invito a emanare l’amnistia e l’indulto, parole oggi impronunziabili, ma istituti disciplinati dagli articoli 151 e 174 del codice penale e regolamentati, nella loro applicazione, dall’articolo 79 della Costituzione”. “È necessario - aggiunge l’Ucpi - innalzare la soglia di detenzione residua per la concessione del beneficio da 18 a 24 mesi, lasciando l’applicazione dei cosiddetti braccialetti elettronici alla valutazione concreta del magistrato ove davvero disponibili. Eliminare la preclusione allo scioglimento del cumulo, consentendo così l’applicazione del beneficio in questione per la parte di pena residua per reato comune. Introdurre la liberazione anticipata speciale di 75 giorni per ogni semestre di pena espiata come avvenne per dare risposte immediate al Consiglio d’Europa dopo la sentenza Torreggiani. Prevedere per il giudice, chiamato a emettere una misura in carcere, di considerare, nella valutazione delle concrete esigenze cautelari, l’attuale emergenza sanitaria per il coronavirus unitamente al persistente sovraffollamento, favorendo, piuttosto, gli arresti domiciliari. Disporre l’applicazione transitoria della disciplina in questione anche per coloro che già si trovano in custodia cautelare in carcere all’entrata in vigore della legge”. Colloqui in presenza più difficili per famiglie e detenuti al tempo del Covid di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 novembre 2020 I colloqui dei detenuti con i familiari in presenza, quale diretta conseguenza delle limitazioni degli spostamenti nelle regioni rosse per l’emergenza Covid 19, sono ovviamente di difficile attuazione. Ma rimane sempre la possibilità delle videochiamate per ovviare al problema. Nell’ultimo aggiornamento del Garante nazionale delle persone private della libertà, si fa rifermento alla suddivisione del territorio nazionale in aree che determinano differenti possibilità di spostamento al loro interno e all’esterno di ciascuna di esse si riflette in modo naturale anche sulle possibilità di accesso di parenti e persone care agli Istituti penitenziari sia per adulti che per minori. “Nessuna particolare norma di blocco dei colloqui visivi è adottata, né è questa l’intenzione delle Amministrazioni responsabili - spiega il Garante - ma evidentemente l’impossibilità di taluni spostamenti, se non per motivi eccezionali, ricade sull’effettiva fruibilità dei colloqui stessi”. Sottolinea che, naturalmente, particolare importanza assume l’effettiva possibilità di utilizzare da parte di tutti quanto offerto dall’attuale tecnologia dell’informazione e della comunicazione, replicando e ampliando il loro positivo impiego già sperimentato in occasione del precedente periodo di forte diffusione del contagio. Le linee guida, sempre per il Garante, sono chiare perché mentre per la gran parte del territorio attualmente colorata di giallo sono possibili gli spostamenti, per alcune aree di colore arancione sono possibili soltanto gli spostamenti in ambito comunale e per altre, quelle rosse, i provvedimenti, ancora più restrittivi, non consentono neppure questi. La possibilità di raggiungere gli Istituti ne è diretta conseguenza. E se “liberassimo” le carceri dal ministero della Giustizia? di Enrico Sbriglia* Il Dubbio, 10 novembre 2020 L’ho detto e lo ripeto: le carceri non devono essere più governate dal ministero della Giustizia e, in particolare, dai magistrati. Esse devono essere cosa “altra”. La loro più proficua allocazione, ben può stabilirsi in altro ministero, se non anche, in ragione della complessità della funzione carceraria, presso la stessa presidenza del Consiglio dei ministri, ma va comunque liberata da una visione e un’atmosfera che imprigiona gli istituti penitenziari quali irrimediabili estensioni della stessa magistratura che non si limita a utilizzarli ma anche li governa, con i risultati che conosciamo. Un tanto per invertire un trend negativo che, da troppi anni, è segnato da morte e da suicidi di detenuti e detenenti, da devastazioni a macchia di leopardo, da rivolte dei ristretti e proteste sui tetti, perfino del personale della polizia penitenziaria, nonché da condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’uomo. Non lo si vuole? Allora che i decisori politici abbiano il coraggio di avviare e portare avanti, nelle competenti sedi europee, ogni dovuta azione affinché si modifichi la Parte V, intitolata - Direzione e Personale - Il servizio penitenziario come servizio pubblico - punto 71, delle “Regole Penitenziarie Europee”, che recita testualmente: “Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale”. Inoltre, inseriscano in Costituzione la soggezione amministrativa delle carceri, con la relativa responsabilità, nella gestione esclusiva della magistratura. Fino al 1922 le carceri italiane erano di competenza del ministero dell’Interno e, prima, di quello della Marina militare, a dimostrazione di come non vi sia, in punto di diritto, un vincolo assoluto nella sottoposizione organizzativa del mondo penitenziario al ministero della Giustizia; differenze in tal senso sono presenti in altri ordinamenti statuali. Non è, però, forse un caso che la Costituzione non l’abbia contemplato, uno o più motivi vi saranno stati. Immaginiamoli: Partiamo dall’art. 27 comma 3° della Costituzione. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; se con la prima si abbandonava, seppure non sempre con un percorso lineare, una visione reattiva e vendicativa dello Stato, per approdare a una dimensione anche utilitaristica, cioè in vista di “un ritorno” di vantaggi per la società, per altro verso, si valorizzava la persona detenuta, a prescindere dal reato commesso, non trovandosi alcuna soddisfazione nell’umiliare e degradare la condizione del prigioniero, né utilità, ritenendosi appagata per il solo fatto di interdirne la facoltà di movimento e di poter disporre del proprio tempo-vita per la durata della condanna. Ma lo Stato repubblicano non si accontentava solo di questo, voleva e imponeva, addirittura in Costituzione, qualcosa di più, di importante e complesso insieme, la “rieducazione”. Per quest’ultima non c’è davvero ragione che ne spieghi l’intestazione amministrativa al ministero della Giustizia e alla magistratura, risultando ictu oculi, non connaturata a quel dicastero, già tenuto ad assicurare un sistema giudiziario puntuale ed efficiente, con la regolare celebrazione e conclusione dei processi, non potendo permettersi di distrarre risorse umane. Purtroppo, si insiste nel confondere abilità e competenze, perché altra cosa è un procedimento amministrativo rispetto a un’indagine penale o alla produzione di un’ordinanza o alla emanazione di un provvedimento giudiziario, anche se fosse di volontaria giurisdizione. La criticità, all’interno del mondo del lavoro penitenziario, lo si è percepito nella concreta non effettiva valorizzazione delle professionalità presenti, che non si esauriscono nella conoscenza esclusiva di materie giuridiche, ma che si incrociano con esse: sociologia, psicologia, criminologia, comunicazione, scienze sociali e pedagogia, medicina generale e specialistica, architettura e ingegneria, filosofia e arte, gestione amministrativo-contabile e sorveglianza, sicurezza dei lavoratori e diritto del lavoro, etc. Ma la scarsa propensione alla funzione amministrativa è raccontata pure dalle mai sopite contestazioni sindacali di tutti i comparti presenti, riferite soprattutto alla mancata attuazione di norme contrattuali, di accordi sindacali, di intese, di concertazioni, con le continue minacce di ricorso al giudice del lavoro da parte delle sigle e degli stessi singoli lavoratori, oltre che dalle frequenti manifestazioni di protesta tese a sensibilizzare sulle obiettive e pesanti condizioni di lavoro degli operatori penitenziari, in particolare di quelli del Corpo della Polizia Penitenziaria, con ulteriore accrescimento dei rischi e dell’insicurezza. Neanche si è stati in grado, inoltre, di tesaurizzare il rapporto con l’insieme del mondo, ricco e variegato, del volontariato, considerato spesso alla stregua di un servo sciocco e inaffidabile che, con il mondo della scuola e della formazione professionale, ben avrebbe potuto supplire l’amministrazione nell’erogazione di beni, consentendo agli operatori penitenziari di poter tirare anche fiato per recuperare forze e concentrazione, soprattutto oggi, al tempo del Covid. *Già dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria Il Covid rischia di fermare (ancora) la giustizia di Federica Olivo huffingtonpost.it, 10 novembre 2020 Anm contro il provvedimento che piace a procure e Camere Penali su indagini da remoto e dibattimento in parte in presenza. Avvocati contro l’Appello a distanza. Giudici di pace: “Da noi processo a distanza mai iniziato”. Il Covid avanza e c’è il rischio che la giustizia rallenti, fino a essere a un passo dal fermarsi. Di nuovo. E che ai numerosi rinvii già fatti nella prima fase dell’emergenza Covid, quando l’attività era ridotta all’osso, se ne aggiungano di numerosi altri. Con conseguenze di non poco conto sul funzionamento della macchina della giustizia e sui diritti di chi si trova a essere parte del processo. Imputati in primis, se guardiamo al processo penale, che è quello che rischia di risentire principalmente della situazione. Nei due decreti ristori sono state inserite delle norme che provano ad arginare il problema. A consentire che la già lenta e affaticata macchina dei tribunali vada avanti. Ma i due provvedimenti non trovano tutti d’accordo. Sullo sfondo restano, volendoci fermare al processo penale, oltre un milione e mezzo di procedimenti pendenti. 1.584.724 per la precisione, considerando tutti i gradi di giudizio. Il dato, diffuso sul sito del ministero della Giustizia, è aggiornato al primo trimestre 2020. A quando, cioè, la prima ondata del virus era appena iniziata. Pur non disponendo di dati più aggiornati è lecito immaginare che la situazione, nella migliore delle ipotesi, sia rimasta la stessa. Nella peggiore sia diventata più grave. In uno scenario, in cui, peraltro, nessuna modifica è stata fatta alla ‘nuova’ prescrizione voluta da Alfonso Bonafede. La norma che tanto aveva fatto discutere nei primi mesi del 2020 prevede che la prescrizione si interrompa dopo la sentenza di primo grado. Di assoluzione o di condanna che sia. Già prima dell’emergenza Covid comportava il rischio, per i reati commessi dopo il 1° gennaio di quest’anno, di una dilatazione potenzialmente infinita dei tempi del processo. Con l’impasse di quest’anno, e con la necessità di smaltire tutto l’arretrato non appena l’emergenza sarà lasciata alle spalle, le conseguenze della riforma introdotta con la Spazza-corrotti rischiano di essere ancora più evidenti, perché inevitabilmente i tempi si allungheranno. Sempre che la mano del legislatore non intervenga, come aveva iniziato a fare prima che il virus fermasse ogni cosa, per modificare ancora il funzionamento della prescrizione. Ma al di là di quello che potrà accadere in futuro, qual è oggi lo stato dell’arte? Due sono state le disposizioni recenti. Il primo decreto ristori è intervenuto sulle indagini preliminari e sul processo di primo grado. Con una normativa voluta e condivisa dalle Camere penali e dalle principali procure italiane, che hanno inviato al ministero un documento comune, ma invisa all’Anm e alla corrente dei magistrati progressisti, Area. Cosa prevede? Una forte spinta verso il lavoro da remoto per le indagini preliminari. Nel testo, infatti, si legge che in questa fase “il pubblico ministero e la polizia giudiziaria possono avvalersi di collegamenti da remoto (..) per compiere atti che richiedono la partecipazione della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa, del difensore, di consulenti, di esperti o di altre persone”. Salvo che il difensore dell’indagato si opponga. Regole diverse per le udienze. Potranno essere fatte a distanza quelle che prevedono solo la presenza del giudice dei suoi ausiliari, del pm e degli avvocati difensori. Stesso discorso per i procedimenti in cui l’imputato è detenuto. Potrà essere celebrata da remoto poi l’udienza finale del processo. Se in udienza devono intervenire altri soggetti, come un testimone o un perito, questi non potranno essere ascoltati a distanza. Neanche con il consenso delle parti. Se agli avvocati e alle procure queste norme piacciono, i giudici non sono dello stesso parere. O almeno non tutti. Sul punto è intervenuta, con disappunto, l’Anm: “Non si comprende perché neppure attività meno complesse, come la lettura d’una sentenza di patteggiamento o una discussione di non particolare complessità, se non - magari in assenza di specifiche ragioni contrarie evidenziate dai difensori - l’ascolto d’un testimone, tanto più se proveniente da fuori regione, non possano mai tenersi in collegamento da remoto”. Perplessità è stata espressa anche da Area, la corrente delle toghe progressiste: “Stigmatizziamo che si sia deciso di perseverare nella trattazione degli affari giudiziari secondo le stesse modalità della prima fase emergenziale, con il rischio, ogni giorno più concreto, di trovarsi costretti a non trattare nulla paralizzando nuovamente la giustizia penale”, si legge in una nota. Il secondo decreto, pubblicato proprio oggi, prevede invece un intervento sul processo d’appello e uno sulla sospensione del corso della prescrizione e dei termini di custodia cautelare. Norme, queste che non piacciono agli avvocati penalisti. All’articolo 23 del provvedimento bollinato oggi si prevede che nel secondo grado di giudizio “la corte di appello procede in camera di consiglio senza l’intervento del pubblico ministero e dei difensori, salvo che una delle parti private o il pubblico ministero faccia richiesta di discussione orale o che l’imputato manifesti la volontà di comparire”. Il timore delle Camere penali è che in questo modo si comprometta l’oralità del processo, ma anche la segretezza della camera di consiglio. “I previsti collegamenti da remoto si terranno su piattaforme in grado di riprendere e registrare ciò che accade; la trasformazione normativa dell’abitazione del giudice quale luogo della camera di consiglio non può certo garantire da qualsiasi possibilità di intrusione”, scrivono i penalisti in una nota. Un capitolo a parte è quello che riguarda i giudici di pace. Per loro il processo telematico non esiste. “Stiamo cercando di sollecitare il ministero affinché sia attivato - spiega ad HuffPost Cristina Piazza, segretario generale di Unagipa e giudice penale a Bologna - è stato finanziato nel 2017, i fondi ci sono”. Non avere il processo telematico significa non poter svolgere quasi nessuna attività a distanza: “I cancellieri non hanno i registri telematici, come si fa smart working in questo modo?”, continua piazza. Ognuno, quindi, si attrezza come può: “Per fortuna per sei mesi abbiamo avuto l’accesso a Microsoft teams e a un sistema di posta certificata che a chi si occupa di penale consente di fare almeno le notifiche”. Se suoi colleghi che lavorano nell’ambito del diritto civile hanno avuto ancora più problemi, le difficoltà nel penale non sono state poche: “Ora abbiamo ripreso a lavorare, anche se a ritmi più lenti, ma prima abbiamo passato un mese solo a fare rinvii. Il processo da remoto noi non l’abbiamo mai fatto”. C’è poi un’altra questione: “Se uno di noi si ammala di Covid o è costretto alla quarantena, non prende alcuna indennità. Anche in questa occasione noi giudici di pace siamo stati lasciati alla periferia del sistema”. Appello cartolare e custodia cautelare più lunga: ecco le novità di Simona Musco Il Dubbio, 10 novembre 2020 Dl Ristori Bis, tutte le misure previste per la giustizia. Il dl Ristori bis cambia il volto del processo. Con un appello senza l’intervento di pm e difensori e, ancora, la sospensione del corso della prescrizione e dei termini di custodia cautelare nei procedimenti penali nel periodo di emergenza. Il tutto con lo scopo di evitare l’estinzione del processo e gente fuori dal carcere “grazie” ai rallentamenti imposti dal Covid. Il decreto prevede, all’articolo 23, che fino alla scadenza dello stato d’emergenza, fuori dai casi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, la decisione sugli appelli avvenga in camera di consiglio senza l’intervento del pm e dei difensori, salvo che una delle parti faccia richiesta di discussione orale o che l’imputato manifesti la volontà di comparire. Almeno dieci giorni prima della camera di consiglio, il pm dovrà trasmettere alla cancelleria le proprie conclusioni, per via telematica o tramite sistemi che saranno individuati con apposito provvedimento. A quel punto la cancelleria invierà l’atto immediatamente ai difensori che, entro cinque giorni prima dell’udienza, potranno presentare le conclusioni scritte. A quel punto i giudici decideranno da remoto, depositando il provvedimento in cancelleria per l’inserimento nel fascicolo, con comunicazione alle parti. La richiesta di discussione orale dovrà essere formulata per iscritto entro 15 giorni liberi prima dell’udienza e trasmessa alla cancelleria della corte d’appello. Entro lo stesso termine l’imputato può formulare, sempre telematicamente e tramite il difensore, la richiesta di partecipare all’udienza. Tali disposizioni non si applicano ai procedimenti per i quali l’udienza è fissata entro i 15 giorni successivi all’entrata in vigore del decreto. Tali misure, stando alla relazione illustrativa, mirano a “diminuire gli accessi fisici negli uffici giudiziari e nelle relative cancellerie e di consentire lo svolgimento dell’attività giurisdizionale nel grado di appello, notoriamente il più critico per l’accumulo di arretrato”. E ciò prevedendo la “cartolarizzazione” dell’udienza, così come già sperimentato in Cassazione. All’articolo 24, invece, vengono introdotte nuove disposizioni sulla sospensione della prescrizione e dei termini di custodia cautelare nei procedimenti penali nel periodo di emergenza. Lo scopo, in questo caso, è quello “di salvaguardare l’accertamento processuale dal rischio di estinzione del reato per prescrizione ed evitare il decorso dei termini massimi di custodia cautelari degli imputati, facendo in modo che il giudizio non subisca battute d’arresto nella attività istruttoria a causa delle limitazioni agli spostamenti imposte dalla normativa dettata in questa fase emergenziale”. Fino al 31 gennaio 2021, dunque, i giudizi penali sono sospesi durante il tempo in cui l’udienza è rinviata per l’assenza del testimone, del consulente tecnico, del perito o dell’imputato in procedimento connesso i quali siano stati citati a comparire, quando l’assenza è giustificata dalle restrizioni ai movimenti imposte dall’obbligo di quarantena o dall’isolamento fiduciario. Per lo stesso periodo di tempo sono sospesi il corso della prescrizione e i termini di durata massima di custodia cautelare. L’udienza dovrà comunque essere celebrata non oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione delle restrizioni ai movimenti. “Colpo mortale al giusto processo e alle garanzie” di Simona Musco Il Dubbio, 10 novembre 2020 I penalisti: senza la fisicità della Camera di consiglio a rischio il giudice naturale precostituito. La morte del processo, la fine delle garanzie. Ancora una volta l’avvocatura italiana grida allo scandalo, di fronte all’ennesimo provvedimento reso necessario dalla pandemia per ridurre il rischio contagio nei tribunali. E dopo il lieve ottimismo suscitato dal pacchetto giustizia inserito nel primo Decreto Ristori, che di fatto ha segnato un primo passo verso il processo telematico, a riaccendere le polemiche ci ha pensato la versione “bis” del dl, che questa volta va dritto al cuore del processo d’appello, eliminando la presenza di magistrati e avvocati dall’aula. Non in maniera assoluta, perché chi vorrà discutere potrà pure farlo, rispettando un fitto calendario di scadenze e termini perentori necessari per rimanere al passo. Corretto l’errore della prima bozza, che prevedeva un termine di 25 giorni liberi prima dell’udienza per presentare richiesta di discussione orale, in conflitto con il termine di 20 giorni previsto dal codice di procedura penale per la notifica della citazione in appello, ora le parti avranno 15 giorni di tempo per decidere di essere presenti in udienza. Ma per l’Unione delle camere penali, che tanto ha combattuto contro la remotizzazione del processo nella prima fase dell’emergenza, tale provvedimento è un colpo mortale al processo d’appello. Che perde, così, la fisicità della camera di consiglio e il mantenimento del giudice naturale precostituito. Da qui la richiesta dei penalisti, capeggiati dal presidente Gian Domenico Caiazza, di modificare il decreto, che rappresenterebbe le “prove generali per riscrivere, al pari delle modalità del giudizio di Cassazione, la procedura dell’appello penale”. Una sorta esperimento per un futuro senza oralità e immediatezza, con la trasformazione del giudizio di secondo grado in un “processo scritto, accentuandosi così la sua non condivisa funzione di mero controllo della valutazione del primo giudice”, accentuando il carattere monocratico della decisione, “anche perché la camera di consiglio si terrà da remoto”. A farne le spese è il principio dell’oralità, con un rovesciamento dei termini rispetto a quanto deciso in pieno lockdown, quando la presenza era garantita e le parti avevano facoltà di decidere, al massimo, di non partecipare. Per i penalisti, “la camera di consiglio a distanza è la negazione della collegialità, anche per l’impossibilità di vederne garantita la segretezza, che è presidio della libertà del giudice”. Infatti il luogo di collegamento del giudice - che sia casa propria, l’ufficio o un qualsiasi altro posto - sarà considerato Camera di consiglio a tutti gli effetti di legge. I dubbi dell’avvocatura sono quelli già manifestati quando, per la prima volta, si è fatto largo il tanto temuto processo da remoto: piattaforme telematiche poco sicure in grado di riprendere e registrare ciò che accade e possibilità di intrusione di estranei. La richiesta è semplice: che almeno la camera di consiglio mantenga la fisicità, con la contemporanea presenza dei giudici, come “garanzia minima ed indispensabile per la tenuta del giudizio di appello e irrinunciabile precondizione per consentire alle parti la valutazione sulla necessità di partecipare o meno all’udienza”. Anche perché, così come dimostrato dai giudizi in Cassazione, la richiesta di discussione orale può determinare lo slittamento dell’udienza, “con modificazione della composizione del collegio”. Una possibilità che incide, dunque, sulla individuazione del giudice naturale”. Ma in gioco ci sono anche il diritto alla difesa e al giusto processo. Che orfano della prescrizione, vede ora erodere un ulteriore pezzetto di garanzia, con la sospensione dei termini per cause indipendenti dalla volontà o dalla condizione dell’imputato, che vedrà inoltre allungare i termini di detenzione cautelare. Da qui l’appello alla politica, affinché il dl, in sede di conversione, venga modificato. Un coro a cui si associa l’associazione italiana dei giovani avvocati, secondo cui la pandemia si trasforma in scusa utile per istituire “un “processo eterno” con una prescrizione infinita”. Norme dietro le quali si nasconde la convinzione - respinta da Aiga - che l’appello sia “un inutile orpello” e non “un giudizio previsto anzitutto a garanzia degli imputati innocenti che erroneamente siano stati riconosciuti colpevoli nel giudizio di primo grado”. Impossibile, dunque, farlo in maniera cartolare. La polemica corre anche tra gli ordini. Come a Roma, dove il Coa ha chiesto con urgenza al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e al premier Giuseppe Conte l’implementazione del fascicolo penale telematico. Solo così, secondo il presidente Antonino Galletti, la maggior parte degli accessi agli Uffici giudiziari penali potrebbe essere evitata, salvaguardando, invece, il processo. Ma per Bonafede, gli investimenti in tecnologie e personale e l’opera di ammodernamento portati avanti in questo anno hanno consentito di snellire le procedure e ridurre la durata dei processi. Parole pronunciate ieri alla conferenza dei ministri della giustizia del Consiglio d’Europa, dove il ministro ha evidenziato l’accelerazione determinata dall’emergenza Covid, durante la quale l’utilizzo delle tecnologie si è esteso all’acquisizione degli atti di indagine, alle udienze non dedicate all’assunzione della prova e alla partecipazione al processo degli imputati detenuti limitandone gli spostamenti sul territorio. “La trasmissione telematica di istanze e memorie difensive e la possibilità per i difensori di accedere da remoto agli atti dell’indagine - ha spiegato vanno configurandosi come strumenti per conciliare la continuità dell’attività giudiziaria con l’esigenza di ridurre l’afflusso degli utenti nelle cancellerie degli uffici”. E tali accorgimenti non comporterebbero, secondo il ministro, alcuna compressione “delle garanzie del giusto processo e dei valori dell’oralità e del contraddittorio” “Noi penalisti contro il Dl ristori bis” di Angela Stella Il Riformista, 10 novembre 2020 La rabbia dei penalisti contro il Dl ristori bis: “Quando tu consenti che la gran parte delle udienze vengano decise da giudici che si riuniscono solo su Zoom metti in discussione la collegialità della decisione”. La bozza del Dl ristori bis ha suscitato una forte critica da parte dell’Unione delle Camere Penali Italiane soprattutto nella parte che riguarda le Camere di Consiglio di appello da remoto. Ne parliamo direttamente con l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dei penalisti italiani che avverte: “Invitiamo alla ragionevolezza, non vorremmo essere costretti ad adottare iniziative quale quella di chiedere a tutti gli avvocati di fare richiesta di discussione orale”. Nella vostra nota scrivete di una “esperta manina tecnica in dialogo diretto con qualche forza politica della maggioranza” che è riuscita ad introdurre questa nuova norma. A me vengono in mente i Presidenti delle Corti di Appello: sbaglio? Io non sono in grado di individuare, se non intuitivamente, di chi sia quella manina. Non voglio dare indicazioni gratuite. Sicuramente, ho l’impressione che il testo ceda alla tentazione di assecondare esigenze di tutela molto settoriali, ossia dei giudici. In che senso? Si tende non tanto a favorire la riduzione delle presenze in aula degli avvocati - che è un obiettivo che noi in larga misura condividiamo in questo momento - quanto a ridurre la celebrazione della Camera di consiglio in presenza fisica. Si vuole evitare la presenza dei giudici nella sede dell’udienza: questo per noi è inammissibile. Noi siamo favorevoli, in considerazione dell’eccezionalità del periodo, a che si riduca il numero delle presenze in Corte di Appello in questo modo: evitando che compaiano gli avvocati che ritengono non indispensabile illustrare oralmente l’atto di appello che hanno già redatto. Se invece si inverte la visione e si presume che si debba celebrare l’udienza solo se tu lo chiedi significa che stai organizzando la celebrazione dei processi d’appello con la prospettiva di fare un altissimo numero di Camere di consiglio da remoto. Noi immaginiamo che quando saranno fatte le richieste di discussione o di non discussione divideranno i ruoli: faranno tutte insieme le udienze che si discutono e tutto il resto da casa propria dei giudici. Allora dobbiamo dire con molta chiarezza che le esigenze di tutela della salute in Tribunale devono garantire tutta la comunità forense, riducendo il numero delle presenze ma non eliminando la presenza fisica del giudice. Ed ecco che noi scriviamo della manina: qui non c’è più una richiesta di salvaguardia della salute collettiva ma di protezione privilegiata del giudice che non si vuole muoversi da casa. Tutto ciò come impatta praticamente sulla tutela difensiva? Impatta sull’essenza del giudizio penale. Quando tu consenti che la gran parte delle udienze per molti mesi vengano decise da giudici che non si riuniscono se non su zoom metti in discussione la collegialità della decisione: il fascicolo come viene condiviso? Quando si hanno grossi faldoni come fanno ad esaminarlo tutti contemporaneamente? Vogliono farci credere che ogni giudice verrà dotato di tutta la documentazione cartacea del processo presso la sua abitazione? Quindi l’appello si ridurrebbe ad una mera funzione di controllo della valutazione del primo giudice? No, del relatore. Andremo verso una monocratizzazione del giudizio. La Camera di consiglio da remoto non consentirà ai giudici il controllo materiale degli atti. Poi un modo di procedere da remoto mette in discussione la segretezza della Camera di Consiglio: si tratta di piattaforme agevolmente hackerabili, si possono registrare le conversazioni, e chi mi garantisce che il giudice riesca a garantire in casa la segretezza della decisione? Le nuove modifiche andranno ad impattare anche sulla prescrizione che viene sospesa... Le conseguenze di quanto previsto sono inaccettabili. Faccio presente che il 18 novembre la Corte Costituzionale andrà a discutere proprio su alcuni dubbi di legittimità costituzionale sollevati sul decreto del 17 marzo 2020 che prevedeva proprio la sospensione della prescrizione. Noi come Ucpi ci siamo costituiti. Ci fa strano che si rinnovi una norma sospettata già di incostituzionalità proprio dai giudici che l’hanno rimessa alla Consulta. Ancora più grave è la sospensione della custodia cautelare: per quale motivo l’incolpevole deve vedere prolungata la sua permanenza in carcere perché c’è una pandemia? Voi come vi state muovendo? Facciamo un invito alla ragionevolezza: speriamo di non dover essere costretti ad adottare iniziative quale quella di chiedere a tutti gli avvocati di fare richiesta di discussione orale. La giudice Albano presidente Anm? No dalla “sua” corrente di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 10 novembre 2020 Stallo sulla nuova Giunta, “MI” spiega l’altolà sul Poniz bis. Il fantasma di Luca Palamara incombe sempre più minaccioso sulla formazione della nuova giunta dell’Associazione nazionale magistrati. Non sono stati sufficienti lo scorso fine settimana due giorni di acceso dibattito per trovare un punto d’incontro fra le correnti. La discussione fra i 36 neoeletti del comitato direttivo centrale è stata rinviata al prossimo 21 novembre, con conseguente ulteriore proroga - è la terza - per la giunta uscente. Area, il raggruppamento progressista delle toghe, di cui fa parte anche Magistratura democratica, ha raccolto più consensi alle elezioni del 18-20 ottobre e rivendica la presidenza dell’Anm. In particolare, ha chiesto la riconferma del numero uno uscente, il pm milanese Luca Poniz. Il nome di Poniz, però, è risultato “indigesto” alle toghe di Magistratura indipendente, il gruppo moderato arrivato secondo e con un componente eletto in meno. Il motivo è semplice: la giunta Poniz, fanno sapere dalle parti di “Mi”, ha avuto un “approccio parziale e non obiettivo, impegnandosi nell’esercizio sterile della graduazione delle colpe e trascurando di considerare, nella sua evidenza, la trasversalità delle condotte poste in essere da appartenenti a tutti i gruppi associativi, come era emerso dalle captazioni del caso Palamara”. Insomma, dalle parti di “Mi” non hanno alcuna voglia di continuare a essere etichettati come la sola corrente che “tramava” con Palamara al fine di ottenere per i propri iscritti nomine ed incarichi. Al posto di Poniz ci potrebbe allora essere Silvia Albano, giudice del Tribunale di Roma ed esponente di “Md”, che a proposito dell’affaire Palamara ha avuto un approccio diverso dal collega. Ma sul suo nome le resistenze verrebbero proprio dall’interno di Area. “Mi” ha diramato un comunicato in cui sono indicati i punti principali per la formazione di una giunta unitaria: revisione del Testo unico della dirigenza giudiziaria, quindi dei criteri per nominare i capi degli uffici, e modifica del sistema elettorale del Csm. Riforma, quest’ultima, al momento in discussione in Parlamento. Altro tema sono, poi, i “carichi esigibili” sul quale le toghe di “Mi” intendono “chiedere al Csm l’applicazione immediata, sia pure a livello sperimentale, degli esiti del gruppo di lavoro istituito dalla IV commissione consiliare, che ha completato da tempo, per il settore civile, la sua attività raggiungendo risultati di immediata fruizione per i colleghi”. I carichi esigibili, quindi il numero di fascicoli che possono essere trattati in maniera efficace da ogni singolo giudice, sono uno storico cavallo di battaglia per “Mi” ma sono visti con sfavore dalle toghe di Area. La corrente moderata invoca, dunque, “un deciso cambio di passo, con nuovi soggetti al governo dell’Anm che possano farsi interpreti credibili del cambiamento”. E la sorpresa Articolo 101, il gruppo nato proprio per contrapporsi al correntismo e che ha eletto ben 4 rappresentati al direttivo? “A parte la necessità, su cui siamo tutti concordi, di trovare una soluzione per fronteggiare l’emergenza Covid nei tribunali, garantendo il corretto svolgimento dell’attività giudiziaria - afferma Andrea Reale, gip a Ragusa e neo eletto al “parlamentino dell’Anm - non abbiamo ancora visto alcun programma serio per poter dar vita ad una giunta unitaria. Abbiamo invece notato - prosegue Reale - impostazioni molto differenti e divergenze, in particolare fra Area ed “Mi” allo stato inconciliabili. E poi - aggiunge la toga siciliana - non è possibile che il sistema della degenerazione delle correnti si sia risolto con la sola rimozione di Palamara: su questo aspetto abbiamo proposto l’istituzione di una commissione di magistrati che analizzi le sue chat”. I componenti del collegio dei probiviri, “dovranno essere al di fuori delle correnti per avere più autonomia e non subire condizionamenti”, puntualizza infine Reale. Il collega di Articolo 101 Giuliano Castiglia è anche tornato a chiedere lo “scioglimento” del Csm. A due mesi dalle dimissioni del giudice Marco Mancinetti, a causa di quanto emerso nella chat con Palamara, l’organo di autogoverno delle toghe non ha ancora deciso se il suo posto potrà essere preso da Pasquale Grasso. Quest’ultimo, che ha promosso l’accordo fra “Mi” e Movimento per la Costituzione, fra i più contrari al ritorno di Poniz al vertice dell’Anm, è il primo dei non eletti alle elezioni suppletive e non alle prime elezioni per il rinnovo del Csm. Secondo alcuni sarebbe un ostacolo, superabile sono con una nuova tornata elettorale. La terza in meno di un anno. Piemonte. Il Garante: “Il Covid corre anche in carcere, servono azioni urgenti” vercellinotizie.it, 10 novembre 2020 Il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, per avere un quadro realistico dei contagi nel mondo penitenziario, cerca di raccogliere i dati da varie fonti: una fonte - rilanciata dai social - della Uil-Pa Polizia penitenziaria riferisce che oggi i positivi sarebbero 395 detenuti e 424 lavoratori (agenti e operatori vari). I detenuti positivi sarebbero concentrati in 53 dei 189 Istituti penitenziari per adulti presenti in Italia, mentre i positivi tra gli operatori sarebbero distribuiti un po’ovunque nel Paese. I dati sono confermati dal garante nazionale che nella newsletter bisettimanale “Il punto” registra che “il numero dei positivi è più che raddoppiato” dal 28 ottobre (quando erano circa 150 detenuti e circa 200 operatori) al 3 novembre. In Piemonte (fonte Ppar) al 30 ottobre risultavano positivi 28 agenti/operatori: 9 ad Alessandria Don Soria, 1 ad Alessandria San Michele, 1 a Ivrea, 2 a Novara, 3 a Saluzzo, 10 a Torino, 1 a Vercelli e 1 ad Asti. I detenuti piemontesi positivi secondo i dati di venerdì 30 ottobre erano anch’essi 28, la stragrande maggioranza (26) ad Alessandria Don Soria e 2 a Torino. Alla Casa circondariale di Alessandria Don Soria purtroppo si è registrato un decesso, il secondo in Italia dall’inizio della seconda fase della pandemia (detenuto italiano di 71 anni con patologie pregresse morto sabato scorso presso la Clinica “Salus”, dopo una degenza in Ospedale). La situazione alessandrina è alla ribalta delle cronache nazionali ed è stata attenzionata anche dal garante nazionale che scrive, nel suo ultimo report: “Più problematiche appaiono quelle dove a partire da un singolo caso si è realizzata una rapida diffusione: è stata riportata anche dalla stampa la situazione della Casa circondariale di Alessandria, dove si è registrato il decesso di una persona e una espansione a più del 14% della complessiva popolazione detenuta (29 casi su 199 persone ristrette)”. I dati sui contagi nella Casa di reclusione di Saluzzo sono però, nel frattempo, diventati di 8 agenti contagiati, mentre per ora i detenuti sono stati risparmiati. Il garante nazionale ricorda come “in questo contesto, gli isolamenti precauzionali, doverosamente attuati per coloro che entrano in carcere, incidono numericamente in maniera consistente - oggi quelli in stanza singola sono ben quasi mille - e anch’essi vanno considerati nel valutare l’efficacia concreta che i provvedimenti adottati potranno avere […] il dato nazionale di questi giorni nel Paese indica una percentuale di 16,5 positività per ogni cento persone testate”. Nei dati aggiornati all’ultima ora però aumentano anche i casi di Torino a 4 detenuti dell’Alta sicurezza, dove continuano a essere contagiati dal virus anche 1 mamma e 2 bambini minori all’Icam (Istituto a custodia attenuata per mamme con bambini).Quest’ultimo allarmante dato e la morte del detenuto ad Alessandria riportano alla ribalta la necessità di provvedere quanto prima a rendere possibile l’esecuzione penale esterna per tutti quelli che già ne hanno diritto e per tutti coloro che rientrano nelle fasce deboli a rischio (anziani, persone con pluripatologie, diabetici, affetti da problemi polmonari o alle vie respiratorie). Infine appare urgente e improrogabile la verifica di soluzioni alternative al carcere almeno per le mamme con bambini, nell’attesa di un intervento mirato per la piena applicazione della legge 62/2011: realizzazione di una rete di Case famiglia per mamme in esecuzione penale con figli al seguito. Lombardia. 156 detenuti positivi al Covid, 5 di loro sono ricoverati in ospedale milanotoday.it, 10 novembre 2020 Lo ha detto il Provveditore lombardo del Dap, Pietro Buffa, nel corso del suo intervento durante la seduta della Commissione carceri del Comune di Milano. È un dato in aumento. Al 7 novembre i soggetti risultati positivi al Covid-19 negli istituti di pena per adulti in Lombardia erano 156: 151 dei quali ospitati nelle strutture interne e 5 ricoverati in ospedale. Tra questi ultimi, di età avanzata e con almeno in un caso patologie pregresse, ci sono anche agenti della polizia penitenziaria. A questi, se ne aggiungono altri 510 che sono stati ‘isolati’“. Lo ha detto il Provveditore lombardo del Dap, Pietro Buffa, nel corso del suo intervento durante la seduta della Commissione carceri del Comune di Milano dedicata all’emergenza Coronavirus, presieduta da Anita Pirovano. “Il 7 ottobre scorso i nuovi positivi erano 14, quindi assistiamo ad una progressione dei contagi molto veloce” ha proseguito Buffa, ricordando che “nel marzo scorso, nel giorno peggiore della prima fase dell’epidemia, avevamo avuto 41 infettati”. “Quelli attuali sono certamente numeri importanti ma mi pare che indichino una proporzione più bassa di quella registrata tra la popolazione esterna” ha proseguito il Provveditore, spiegando che dei 151 positivi al 7 novembre scorso “17 dovrebbero negativizzarsi perché sono trascorsi i 21 giorni di isolamento”. Infine, Buffa ha spiegato di aver stanziato 350mila euro per l’acquisto di tamponi rapidi per affrontare nell’immediatezza eventuali focolai che dovessero manifestarsi”. Fondi che si sommano a quelli stanziati per dotarsi di telefoni e tablet destinati ai colloqui dei detenuti”, dopo la sospensione di quelli in presenza già nella prima fase dell’emergenza Coronavirus. Prima di Buffa, il garante dei detenuti del Comune di Milano, Francesco Maisto, ha ripetuto l’allarme che aveva lanciato nei giorni scorsi in una lettera ai vertici degli uffici giudiziari. Maisto ha ribadito infatti che si è ridotto il “flusso in uscita” di reclusi dovuto alle misure alternative varate per alleggerire gli istituti per l’emergenza Covid. “Rispetto alle precedenti fasi - ha affermato - il sovraffollamento cresce a livello nazionale e a San Vittore e Bollate la situazione è grave” ha affermato, evidenziando che “è inutile illudersi: le misure previste dall’ultimo disegno di legge porteranno alla scarcerazione di poche persone, perché rispetto al passato prevede molte più restrizioni”. Lombardia. Medicina penitenziaria: quali criticità aperte? sanitainformazione.it, 10 novembre 2020 Esiti dell’incontro tra Commissione e Sindacati: dialogo e nuove proposte. “Serve la creazione della figura del medico e dello psicologo penitenziario con un contratto specifico”. “Abbiamo evidenziato delle criticità nella gestione delle carceri lombarde” spiega Danilo Mazzacane, segr. gen. Cisl medici Lombardia dopo che il 4 novembre 2020 i rappresentanti delle organizzazioni sindacali Cisl Medici, Aupi e Uil-Fpl Area medica sono state audite dalla Commissione speciale Situazione carceraria in Lombardia al fine di evidenziare le criticità della gestione e della organizzazione della medicina penitenziaria. “Sono state avanzate proposte di soluzioni - si legge in una nota del sindacato - con riferimento alla delibera regionale X/4716 del 13/1/16 che ne definisce le linee di indirizzo. Danilo Mazzacane per i medici e Maria Caruso per gli psicologi hanno premesso, durante l’incontro regionale, che il loro intervento non aveva carattere di allarmismo e hanno osservato che l’assistenza sanitaria offerta ai detenuti in Lombardia è quotidianamente assicurata mediante la buona volontà e l’impegno di tutti gli operatori sanitari e degli agenti di polizia penitenziaria”. “Sono stati però esposti i dati e il quadro della situazione esistente, evidenziando le seguenti criticità, acuite dall’emergenza Covid-19, con il desiderio di poter ben operare in serenità e sicurezza: - carenza degli organici del personale sanitario ed anche degli agenti di polizia penitenziaria con precarietà della condizione lavorativa professionale sanitaria - è stato suggerito dai rappresentanti sindacali alla Commissione regionale Carceri il ricorso ai contratti di lavoro nazionali che regolano la medicina convenzionata - modalità attualmente vigenti di arruolamento del personale sanitario inusuali e scarsamente appetibili, con retribuzioni inadeguate e disomogenee nell’ambito delle varie ASST lombarde; - necessità di maggiore tutela nei confronti delle rispettive figure femminili di medico e psicologo; - necessità di implementare la formazione del personale sanitario; - necessità di migliorare la comunicazione fra la direzione degli istituti penitenziari e la rispettiva direzione sanitaria, con un maggior coinvolgimento delle direzioni socio-sanitarie delle Asst; - necessità di un budget determinato e congruo per la medicina penitenziaria per ogni Asst; - urgenza di investire nell’acquisizione di strumentazione diagnostica al fine di evitare, per quanto possibile, il ricorso all’assistenza sanitaria ospedaliera con le conseguenti difficoltà operative ed incremento della spesa; - necessità di avere un rappresentante delle professioni sanitarie, con valore tecnico-professionale, in seno alla cabina di regia regionale che è di supporto all’Osservatorio Regionale sulla Sanità Penitenziaria. “Come rappresentanti sindacali abbiamo anche evidenziato come sia auspicabile l’avvio di un percorso di iniziativa lombarda che possa realizzare a livello nazionale la creazione delle figure del medico e dello psicologo penitenziario con un contratto specifico - prosegue Mazzacane - i componenti della commissione regionale hanno mostrato attenzione a quanto esposto e pertanto attendiamo fiduciosi e con spirito collaborativo, la prosecuzione del buon dialogo avviato”. “Attualmente sono positive al coronavirus 131 detenuti in Lombardia di cui 82 persone in cura presso il carcere di Milano, e a Bollate 45 detenuti. Altri quattro detenuti positivi ma asintomatici sono in isolamento nelle carceri di Pavia (2) e Voghera (2). I dati sono del Garante dei detenuti del Consiglio regionale, Carlo Lio. I sindacati citati sono disponibili a interloquire con il Garante dei detenuti del Consiglio regionale circa le istanze recentemente presentate” conclude. Verona. Suicida in carcere il leader della rivolta dei migranti, il legale accusa di Laura Tedesco Corriere di Verona, 10 novembre 2020 Il tragico gesto di un detenuto 23enne nel carcere di Montorio fa sollevare una serie di dubbi al suo legale, che chiede perché fosse stato posto in regime di isolamento: “Forse ha sbagliato qualche magistrato”? A essersi tolto la vita è stato uno dei capi della rivolta scoppiata 5 mesi fa all’ex caserma Serena di Dosson, nel Trevigiano. Chaka Ouattara, ivoriano, si trovava tuttora rinchiuso in carcere con accuse pesanti, dal sequestro al saccheggio fino alla devastazione. Era stato trasferito nel penitenziario di Verona da appena una decina di giorni dopo mesi di detenzione in quello trevigiano di Santa Bona: a Montorio era stato posto in isolamento, condizione che, da quanto ipotizza il suo legale, gli potrebbe aver provocato una sofferenza e una depressione tali da indurlo al suicidio. Pare che non riuscisse a reggere il distacco dagli altri migranti con cui era stato arrestato per la violenta rivolta avvenuta lo scorso giugno all’interno dell’ex caserma Serena, quando un gruppo di stranieri ospiti dell’hub erano finiti in cella dopo essersi ribellati e aver aggredito gli infermieri dell’Usl 2 incaricati di effettuare i tamponi dopo che nella struttura era stato individuato un focolaio Covid. Dopo gli arresti, il 23enne e i compagni di “rivolta” avevano condiviso i successivi mesi di detenzione nel carcere trevigiano di Santa Bona, finché dieci giorni fa Ouattara era stato dislocato in cella a Montorio dov’era stato posto in isolamento. Sprofondato a quanto pare nello sconforto, aveva telefonato al suo avvocato proprio il giorno prima del dramma: con lui si era confidato riguardo alla propria sofferenza dovuta al senso di distacco dagli altri “amici” e dalle preoccupazioni sul futuro, visti che nella sua situazione non era possibile chiedere per lui gli arresti domiciliari. Da questo stato d’animo sarebbe scaturito il tragico gesto riguardo cui il suo legale chiede però di fare chiarezza: perché, è il dubbio del difensore, visto che si trattava di un detenuto isolato non sono stati potenziati su di lui i controlli? E com’è stato possibile, chiede, che il 23enne abbia potuto usare i lacci della sua tuta per togliersi la vita senza che nessuno avesse pensato di toglierglieli e senza che nessuno si sia accorto di nulla? Domande a cui spetterà eventualmente agli inquirenti tentare di dare risposta: “Come mai - chiede il suo legale d’ufficio - era stato sottoposto a un regime duro come l’isolamento? Padova. Il virus in carcere, positivi 8 poliziotti. La Cgil: “test ogni 20 giorni” Il Gazzettino, 10 novembre 2020 Tamponi a tappeto a carcerati e agenti della polizia penitenziaria dopo la scoperta dei positivi all’interno della casa di reclusione di via Due Palazzi. Sono sei i detenuti che hanno contratto il virus, otto i poliziotti più anche, tra i civili, un’insegnante. E scatta così anche l’allarme dei sindacati della Penitenziaria. A parlarne è Giampiero Pegoraro, della Cgil: “Abbiamo chiesto più volte che le carceri vengano trattate come le case di riposo o gli ospedali. Sono comunità chiuse dove se scoppia un’epidemia la curva sarebbe devastante. Vogliamo che i tamponi vengano eseguiti su tutti ogni 20 giorni. Serve maggior collaborazione tra l’amministrazione e i sindacati, ma anche le cooperative. Tanto che voglio chiedere un incontro al direttore proprio per discutere di questo tema e realizzare anche un protocollo da seguire per i detenuti che lavorano fuori dal carcere”. All’interno del Due Palazzi la popolazione carceraria è composta da 600 persone, cui si aggiungono 400 agenti. Al momento, però, l’Ulss ha fatto sapere che il focolaio è sotto controllo. I detenuti infetti sono stati spostati in un’ala normalmente utilizzata come polo universitario. Due piani sono in isolamento, mentre i poliziotti positivi sono in quarantena. Nei prossimi giorni tutti saranno nuovamente testati. Padova. Carcere: salgono a 15 i positivi al Covid, attesi gli esiti di 300 test tgpadova.it, 10 novembre 2020 Aumentano i casi di positività nel focolaio scoppiato al carcere Due Palazzi. Sono attualmente 15 le persone positive tra detenuti e agenti di Polizia penitenziaria. L’istituto è in attesa di conoscere l’esito dei restanti 300 tamponi che arriverà tra oggi e domani per capire l’entità del cluster. Intanto i sindacati si sono mobilitati chiedendo un protocollo condiviso per tutti coloro che operano all’interno del carcere. Giampietro Pegoraro, della Cgil Penitenziaria, rivela: “Ho inviato una richiesta al direttore del carcere e al provveditore, dobbiamo sederci tutti intorno a un tavolo, agenti, cooperative, volontari delle attività collaterali. Dobbiamo stabilire regole condivise, tutti insieme”. Il fine è quello di evitare che possa tornare a verificarsi una situazione del genere. Intanto il direttore del Carcere, Claudio Mazzeo, spiega che sono state ridotte alcune attività come il teatro, il coro e le attività dei volontari. Continuano regolarmente la didattica e le attività lavorative. Busto Arsizio. Detenuti positivi al Covid trasferiti a San Vittore di Angela Grassi La Prealpina, 10 novembre 2020 Due casi finora. In via per Cassano colloqui ridotti e tamponi per il personale. Solo due positivi, identificati appena dopo l’arresto e il trasferimento in via Per Cassano. Da lì, immediato lo spostamento in altre sedi carcerarie deputate ad accogliere, in Lombardia, reclusi alle prese con il Covid. Alla casa circondariale bustese per il momento la situazione appare sotto controllo. “Sono arrivati due casi positivi - conferma la comandante della polizia penitenziaria Rossella Panaro - ma abbiamo attuato i protocolli di isolamento previsti. Non abbiamo finora incontrato particolari difficoltà”. Ogni settimana, Panaro incontra i detenuti insieme con il dirigente sanitario interno e con il direttore Orazio Sorrentini. “Spieghiamo a tutti le ultime novità e le misure che di conseguenza vengono prese - chiarisce quest’ultimo - La cosa più importante e delicata riguarda i colloqui: siamo in attesa di direttive dagli uffici superiori, al momento i colloqui visivi sono stati ridotti ma si fanno. Con tutte le cautele del caso, da mesi abbiamo installato dei plexiglass e sia il detenuto sia la persona ammessa a vederlo indossano mascherine. Ora è consentita una persona alla volta, non possiamo far entrare minorenni e ultra 65enni”. Il problema è chiaramente chi arriva da fuori. “I due casi positivi erano due neo arrestati, provenivano dall’esterno - dice Sorrentini - Seguendo i protocolli abbiamo stabilito cosa fare, una volta emersa la positività durante l’isolamento precauzionale assoluto, sono stati inviati nei reparti allestiti sia a San Vittore sia a Bollate. È quanto previsto dal dipartimento: ci sono reparti preposti in altre carceri lombarde”. Al momento i detenuti accolti sono 360, più o meno stabili rispetto al calo del lockdown, che aveva segnato anche una riduzione dei reati e, quindi, dei nuovi arrivi. “Sicuramente i detenuti sono calati, sono molti meno rispetto alla storica situazione di sovraffollamento ma non registriamo un ulteriore calo - spiega il direttore - Di recente il ministro della Giustizia si è espresso valutando l’idea di liberare in detenzione domiciliare dei reclusi che scontino condanne per reati minori e abbiano davanti un fine pena inferiore ai 18 mesi. Al momento la decisione spetta alla magistratura di sorveglianza, ma nessuno è stato mandato a casa. Era stato anche ventilato, sempre su decisione della magistratura di sorveglianza, che chi vive in regime di semilibertà potesse dormire a casa, ma non ci riguarda perché non abbiamo casi del genere”. Insomma, si attendono normative che ancora non sono state emanate. Nel frattempo, in via per Cassano tutto il personale e la polizia penitenziaria dovrebbe sottoporsi a tampone, grazie a quanto previsto dall’Asst Valle Olona. Napoli. Covid: “focolaio in carcere a Poggioreale, struttura da chiudere” metropolisweb.it, 10 novembre 2020 “Ho appreso da diversi media locali del focolaio scoppiato nel carcere di Poggioreale, dove sono risultati positivi 30 detenuti, due dei quali trasferiti d’urgenza in ospedale. Solo pochi giorni fa ho denunciato la mancanza di strutture adeguate per la presa in carico dei casi di contagio da Covid-19 all’interno delle carceri. In questi mesi Bonafede ha solo perso tempo e non ha fatto nulla per garantire il diritto all’assistenza sanitaria dei detenuti ed evitare che si ripetano le scene già viste in primavera: scarcerazioni indiscriminate (anche di boss della criminalità organizzata), disordini, rivolte e tentativi di evasione”. Lo sottolinea in una nota Piera Aiello, deputata del gruppo Misto. “Ho visitato Poggioreale un mese fa e ho potuto verificare personalmente le condizioni in cui versa la struttura. Quel carcere va chiuso. Non solo perché gli spazi destinati alla cura del Coronavirus appaiono del tutto inadeguati allo scopo, ma anche per lo stato di degrado generale, il sovraffollamento e tutti i rischi che ne derivano per la sicurezza del personale di Polizia penitenziaria e dei detenuti”, conclude Aiello che è anche componente della commissione Antimafia e da anni sotto scorta per le minacce ricevute dalla mafia. Modena. Il Consiglio Popolare accende i riflettori sulla vita in carcere e i morti della rivolta di Alice Benatti Gazzetta di Modena, 10 novembre 2020 “Te lo ricordi l’8 marzo…al carcere?”, si legge in un lenzuolo appeso ai piedi della Ghirlandina. Sono passate da qualche minuto le 16.00 e un uomo prende in mano il microfono. “In questo momento è essenziale parlare di carcere, siamo qui per ricordare alla città che c’è un angolino di Modena, dalle parti di Sant’Anna, dove è ancora più pericoloso e penoso vivere questa fase (…) quello che è successo l’8 marzo è stata una strage”. Comincia così l’incontro “Dietro le sbarre: testimonianze e riflessioni sul carcere” organizzato da Consiglio Popolare - Sciopero Italpizza per tenere alta l’attenzione su quella che senza remore definiscono una strage consumatasi nel carcere della nostra città ormai 8 mesi fa e riflettere sull’utilità e le contraddizioni del sistema carcerario. Ma facciamo un passo indietro, fino all’8 marzo. Il Coronavirus comincia a bussare anche alla porta del Sant’Anna dove si diffonde la voce che un detenuto è positivo e comincia a circolare la notizia che i colloqui con i famigliari sono sospesi per tentare di contenere il dilagare dell’epidemia. I detenuti insorgono, assaltano l’infermeria dove sono conservati i farmaci, distruggono il carcere e in nove perdono la vita, 5 in carcere e 4 durante il trasporto da qui ad altri istituti. Per cinque di loro l’autopsia ad agosto conferma l’overdose da metadone e psicofarmaci e non rileva lesioni da percosse, ma la Procura su quelle morti sta ancora indagando. Dalla cassa posizionata in Piazza Grande irrompe la voce della giornalista Manuela D’Alessandro, in collegamento telefonico, che riporta un’altra “verità” contenuta in due lettere (di cui Agi è il possesso) scritte da due detenuti che hanno viaggiato da Modena ad Ascoli assieme a Salvatore Piscitelli, uno dei 9 morti di Modena: “abusi” subiti durante il trasferimento ad Ascoli e nessuna visita dei medici prima di essere trasferiti altrove, nonostante stessero male e nonostante un controllo medico sia obbligatorio per ottenere il nullaosta per il trasferimento. “Io e la mia collega Lorenza Pleuteri siamo state chiamate dalla Procura di Modena e sentite come testimoni - racconta D’Alessandro - è stata aperta l’ipotesi di reato di omicidio colposo ma ad oggi l’inchiesta è ferma, anche per la questione Covid. Sarebbe importante trovare altre testimonianze al di là di quelle che possono trovare la squadra mobile e la Procura”. Dopo la giornalista viene annunciato il collegamento telefonico con un testimone oculare dei fatti dell’8 marzo, che resta anonimo. L’uomo descrive il carcere di Modena, in cui è stato detenuto, come “un concentrato di violenza da parte dello Stato sulla carne dei detenuti”. “La sanità era un punto fermo delle richieste dei detenuti, può essere che qualche detenuto abbia abusato di farmaci, non dico di no, ma è normale quando educhi le persone per anni a essere tossicodipendenti. La realtà dei fatti è che i carabinieri sono andati sul parapetto del carcere e hanno sparato, e quando non so chi di preciso della polizia penitenziaria o dei carabinieri sono entrati dentro, il primo detenuto che hanno avuto per le mani lo hanno ammazzato davanti a tutti e hanno detto “Adesso vi facciamo questo”. C’è gente a cui sono arrivati i proiettili vicino alla testa ed è solo per miracolo che non hanno preso il piombo in testa o in altre parti del corpo”. Un altro ex detenuto, William Frediani, racconta che “in carcere si vive in piena promiscuità e nell’impossibilità di avere spazi di libertà, si è presi da un senso di clausura interiore che ti distrugge e crea uno stato di dipendenza infantilizzante verso l’operatore penitenziario, la guardia, in cui bisogna chiedere il permesso per qualsiasi cosa, anche per farsi una doccia. In carcere si ottengono molto più facilmente psicofarmaci che una tachipirina”. Milano. Non lenì le sofferenze di un ergastolano malato terminale: dottoressa condannata tgcom24.mediaset.it, 10 novembre 2020 La donna, all’epoca responsabile della sezione di Alta Sicurezza del carcere di Opera, era imputata per non aver diagnosticato in tempo un tumore e per non aver applicato la “terapia del dolore”. Una dottoressa è stata condannata a 6 mesi dal Tribunale di Milano per “lesioni” nei confronti di un ergastolano che morì poi all’ospedale San Paolo nel dicembre del 2014. All’epoca responsabile del reparto della sezione di alta sicurezza del carcere di Opera, la donna era imputata per non aver diagnosticato in tempo un tumore di cui era affetto il detenuto e per non aver nemmeno applicato la corretta “terapia del dolore” per lenire le sue sofferenze. Il giudice della quinta penale Alessandro Santangelo ha riqualificato l’accusa di omicidio colposo in lesioni perché, in sostanza, quella forma di carcinoma polmonare avrebbe avuto comunque esito letale. Stando alle indagini del pm di Milano, Maria Letizia Mocciaro, la dottoressa avrebbe causato “una sofferenza estrema” al detenuto perché non valutò “correttamente” i sintomi, non dispose “i corretti esami”, non diagnosticò “4-6 settimane prima il tumore”, non avviò “la corretta terapia radioterapica e/o chemioterapica con finalità palliativa”, né una “terapia del dolore che avrebbe mitigato in tal modo la sindrome dolorosa, migliorando la qualità di vita residua del paziente e allungando la vita dello stesso fino a 3-5 mesi”. A partire dall’agosto 2014, sempre secondo il pm, il medico non avrebbe prescritto “esami più approfonditi di secondo livello che, secondo l’ars medica, avrebbero potuto condurre alla corretta diagnosi, data la persistenza e l’aggravamento del quadro clinico fortemente sospetto per una patologia tumorale e l’approntamento di una terapia adeguata”. Vibo Valentia. Idee regalo di prodotti alimentari confezionate dai detenuti di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 10 novembre 2020 Anche quest’anno alcuni detenuti dell’istituto di pena di Vibo Valentia saranno impegnati nel confezionamento di 11.000 idee regalo della Callipo, coadiuvati dal personale dell’azienda specializzata in prodotti alimentari. Il progetto ha preso il via nonostante la pandemia da Covid-19: “Abbiamo seguito tutti i protocolli - afferma Angela Marcello, direttrice del penitenziario calabrese -, al fine di garantire la sicurezza sia dei reclusi che dei dipendenti dell’azienda. Si tratta di una iniziativa partita tempo fa e giunta al sesto anno”. Sono 6 i detenuti scelti per l’impacchettamento dei prodotti: “In equipe - prosegue la direttrice - abbiamo selezionato le persone più meritevoli. Coloro che vengono adibiti a questa attività si sentono sempre molto gratificati, traendone notevoli benefici. Per alcuni di essi è stato possibile anche proseguire l’attività una volta espiata la pena”. “Abbiamo allestito - prosegue Angela Marcello - all’interno dell’istituto un ampio ambiente, che permette di lavorare nelle migliori condizioni. Il confezionamento dei cestini avviene anche con l’ausilio dei dipendenti della azienda. Chiaramente, è prevista una retribuzione per coloro che sono impegnati in questa attività”. Trani (Bat): Taralli fatti dai detenuti, l’idea solidale sugli scaffali dei supermercati di Anna Puricella La Repubblica, 10 novembre 2020 Si chiama “aMano libera”: è un progetto che permette a detenuti ed ex detenuti delle carceri italiane di imparare a produrre taralli, ora in vendita nei supermercati appartenenti al gruppo Megamark (A&O, Dok, Famila e Iperfamila). In un piccolo anello di pasta si nasconde la possibilità di una nuova vita. “aMano libera” è un progetto che permette a detenuti ed ex detenuti delle carceri italiane di imparare a produrre taralli. Ora quei taralli si trovano in vendita nei supermercati appartenenti al gruppo Megamark (A&O, Dok, Famila e Iperfamila). Perché la Fondazione Megamark di Trani ha giocato un ruolo chiave nello sviluppo dell’idea: partita dal progetto “Senza sbarre” della Diocesi di Andria, è stata messa a punto dall’associazione “Amici di San Vittore Onlus” (sempre ad Andria) e ha vinto il bando “Orizzonti solidali” 2018-2019, concorso promosso proprio da Megamark con le varie insegne dei suoi supermercati. Ecco che, quindi, quei piccoli anelli di pasta arrivano adesso sugli scaffali, pronti per la vendita: sono prodotti nella masseria fortificata San Vittore (nell’omonima contrada di Andria), un casale contadino che è stato trasformato in un laboratorio tecnico a disposizione dell’associazione “Amici di San Vittore Onlus”. Ad aiutare gli apprendisti maestri dei taralli è un tutor del tarallificio “Tesori d’Apulia” di Trani, e adesso i detenuti ed ex detenuti si sono specializzati anche in diverse varietà di prodotto. Ci sono taralli tradizionali al finocchio, ma anche quelli al pomodoro secco o al vino Nero di Troia, confezionati in pacchi da 200 grammi. “Crediamo fortemente nel valore di percorsi finalizzati a dare un’opportunità e una fonte di sostegno a chi, a causa di uno sbaglio commesso, ha la vita segnata da un percorso carcerario - dice Francesco Pomarico, direttore operativo del gruppo Megamark - Questi taralli rappresentano un’opportunità per tutti: un segno di speranza per i ragazzi che li produrranno e un gesto di amore e solidarietà per i clienti che li acquisteranno”. Per i responsabili di “Senza sbarre”, don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli, l’arrivo dei taralli nei supermercati è un successo: “Magistrati, direttori di carceri, lo stesso presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti, insistono nel sottolineare l’utilità e la sostenibilità di misure alternative al carcere. “aMano libera” è il simbolo della speranza, del cambiamento, di quella seconda possibilità che questi ragazzi meritano di avere; insieme possiamo contribuire a scrivere per loro un futuro diverso, all’insegna della legalità”. Milano. Dai detenuti aiuti alle famiglie bisognose di Roberta Rampini Il Giorno, 10 novembre 2020 Al carcere di Bollate sono stati raccolti quaranta pacchi per chi si trova in difficoltà. In termini giuridici si chiama giustizia riparativa: chi sta dentro (i detenuti) fa qualcosa di buono per chi sta fuori. Un modo per riparare il danno fatto alla società da parte di chi ha commesso un reato. A noi piace definirla una storia di straordinaria solidarietà. È quella che arriva dal carcere di Bollate. Un gruppo di detenuti dell’associazione Catena in movimento, all’insegna dello slogan “Insieme abbattiamo l’indifferenza”, ha raccolto generi alimentari e preparato 40 pacchi da consegnare ad altrettante famiglie in difficoltà di Milano. L’idea è nata dietro le sbarre, da Mario, Cristian, Domenico, Antonio, Maurice, Edgar, Lister, Roberto, Prince e Paolo, che hanno voluto pensare a chi sta fuori e vive una situazione di disagio. In poche settimane si è creata una “catena di solidarietà” che ha consentito di far arrivare quei pacchi alle famiglie, Simona Gallo, funzionario area giuridico pedagogica del carcere di Bollate che ha fatto da ponte tra dentro e fuori, Luisa Specchio, consigliere comunale milanese, Giovanni Zais, presidente di Milano Positiva e don Lorenzo Negri, parroco della Chiesa di San Gabriele Arcangelo in Mater Dei. “In occasione del primo lockdown i detenuti che lavorano per l’associazione Catene in Movimento hanno confezionato oltre 10mila mascherine per la popolazione carceraria e non solo - spiega Gallo -. Per sdebitarsi con i compagni altri detenuti hanno deciso di iniziare una raccolta di generi alimentari, c’è stata una grande generosità da parte di tutti e così hanno deciso di donare. Sono state individuate 40 famiglie che vivono un disagio economico”. Anche nel primo lockdown i detenuti del carcere alle porte di Milano avevano raccolto 1.405 euro da donare alla protezione civile e 250 chili di generi alimentari per il Banco Alimentare della Lombardia. Ospedali e carceri, dove la lettura porta l’universo di Annarita Briganti La Repubblica, 10 novembre 2020 Più simbolico di così? Bookcity per il Sociale 2020, la parte di BookCity che si svolge negli ospedali, nelle carceri, nelle associazioni di volontariato e nelle biblioteche di condominio quest’anno prevede anche un incontro organizzato dagli Amici del Trivulzio, la onlus del Pio Albergo Trivulzio dove c’è stata una strage di anziani, per il Covid, con tanto d’inchiesta in corso. Il 14 novembre alle 15,30 si terrà un talk con la vicesindaco di Milano Anna Scavuzzo, il fotografo e giornalista Andrea Cherchi, l’attore, drammaturgo e regista teatrale Massimiliano Finazzer Flory, il professore Giovanni C.F. Villa e Attilio Busolin, Giovanni Colombo e Marco Zanobio, autori di un libro sul tema. Importante anche il reading che i volontari del progetto “Tessitori di voce” terranno il 13 novembre alle 17 per i pazienti e per il personale sanitario di Humanitas, mentre gli ospedali sono sotto attacco. Il pubblico si potrà collegare su Zoom, prenotando tramite Bookcity o attraverso la Fondazione Insieme con Humanitas, che organizza l’iniziativa, che sarà registrata e poi trasmessa sul canale YouTube della Fondazione. Il 13 novembre è pure la giornata clou degli eventi per i detenuti. Tra le altre iniziative di questa sezione del cartellone, alle 11 è previsto il reading teatrale dell’Associazione culturale Cetec per San Vittore, con Elena Pilan, Donatella Massimilla, Gilberta Crispino e Gianpietro Marazza alla fisarmonica. Alle 17 al carcere di Opera ci sarà uno spettacolo con dieci detenuti ed ex detenuti, ideato dall’artista Giovarmi Anceschi. Alle 18 letture e dibattiti al carcere minorile Beccarla. Tra le sedici biblioteche di condominio che aderiscono a questa edizione di Bookcity per il Sociale segnaliamo l’ultima arrivata, la Biblioteca di condominio Aler “Falcone e Borsellino”, dedicata ai due giudici, nelle case popolari di via Giulio Belinzaghi 11. Libri da consultare sul posto o da prendere in prestito perché, dicono i cittadini che l’hanno creata e che animano un gruppo pubblico su Facebook, “solo attraverso la cultura si possono cambiare davvero le cose”. Al festival milanese questa istituzione culturale propone la conversazione, dal titolo perfetto per il momento che stiamo vivendo, “A che pagina è la nostra fortuna?”, 13 novembre ore 18,30 con gli autori attori Gianluigi Gherzi e Cristiano Sormani Valli. Milano, come sempre, superata l’emergenza sanitaria, ripartirà anche grazie alle iniziative dei singoli, al volontariato, al volontariato culturale. Il lettore, un soggetto pericoloso di Roberto Saviano La Stampa, 10 novembre 2020 Abbatte i muri, apre le sbarre delle carceri. Dà fastidio ai potenti più di chi scrive. E così ti sei fatto l’idea che gli scrittori siano persone innocue. Che le loro armi siano spuntate. Sei convinto che le parole non possano né abbattere muri né forzare sbarre. “Sono solo parole!”. Non si dice così? Ci hai mai pensato? Per leggere ci si deve appartare, si deve intrattenere con il libro un rapporto intimo. E questo rapporto con il libro è da sempre percepito come pericoloso. Quello che fai in piazza lo vedo, lo controllo, lo attacco, lo monitoro, posso esporlo al ludibrio pubblico, ma quello che fai e pensi in privato mi è insopportabile perché non lo posso controllare e non riesco a prevederne i risvolti. Nell’intimità di tende tirate, il libro sottrae il lettore alla diligente opera di seduzione del demagogo. La parola autentica fa questo: interrompe l’ipnosi, blocca il transfert, vanifica la trance che il demagogo-seduttore tenta con ogni mezzo d’instaurare con la folla. La parola vuole fare da forza d’interposizione, creare disturbo, come lo zoccolo di legno dell’operaio, piantato a bloccare gli ingranaggi della catena di montaggio. Sai come si chiama in francese lo zoccolo? Sabot. Da cui il nostro sabotaggio. Di questo viene accusata la parola. E lo so che di per sé il tentativo d’interrompere un transfert non è un reato, ma nei fatti è punito quasi in ogni parte del mondo. Prova ne è il numero di giornalisti, scrittori, filosofi, artisti e intellettuali che il potere si premura - direttamente o indirettamente - d’infangare, deridere, umiliare, multare, punire ogni giorno. Ti rendi conto che quel numero è largamente superiore a quello dei criminali e degli assassini con cui il potere entra in scontro aperto? Un assassino uccide, lo processi e lo condanni, un ladro compie una rapina, lo processi e lo condanni. Fermi il suo crimine, blocchi la sua refurtiva, metti al sicuro le banche, gli impedisci di uccidere ancora. Ma la parola come la imprigioni? Come la strappi? Poi però capisci che il potere ha fastidio di chi scrive perché, in realtà, ha fastidio di chi legge. Chi scrive di per sé non è pericoloso, perché se nessuno lo legge ha solo perso il suo tempo. Il problema sono i lettori. Chi legge difficilmente si fa bastare lo slogan, la frase fatta, l’icona, il simbolo. Il lettore è un cercatore solitario, ma chi cerca scava e a forza di scavare prima o poi trova. Non è il libro che manipola il lettore, è il lettore che manipola il libro. Il libro è uno strumento che il lettore usa per esprimere sé stesso, per tirarsi fuori, per pensare, per esistere. Queste pagine certo che le ho scritte io, ma hanno fibra solo se vanno a prendere tutto quello che era nel fondo, quello che tieni dentro, e che ora stiamo, insieme, portando fuori. Sono io che, in un certo senso, sto scrivendo le tue parole. Questo non vale per tutti i lettori e ovviamente non vale per tutti gli scrittori. Certo, c’è la scrittura d’intrattenimento, quella che ti porta a una festa. È meno importante? Assolutamente no. Ma quella rischia assai meno. Quella è accettata a qualsiasi latitudine e in ogni epoca. Diverti! Canta poesie innocue! Vedi, io frequento intrattenitori, ma sento la differenza che c’è tra loro e quelli che con la parola hanno provato a combattere. Quelli che per la propria parola sono stati perseguitati peggio di pericolosissimi criminali. E tu, che lettore vuoi essere? Un lettore innocuo? Eh, ma allora devi accontentarti di scrittori innocui. Non leggere la Commedia, ad esempio, perché quel libro è nato dal sangue dell’esilio di Dante! E non dirmi che hai letto L’insostenibile leggerezza dell’essere. Neppure le parole di Kundera sono leggere. Tutt’altro. Talmente pesanti che, dopo essere stato espulso per due volte dal partito comunista cecoslovacco, fu accusato di esser stato un delatore, proprio in favore di quello stesso partito! Di Kundera hanno fatto un delatore e di Dante un nemico della sua città. E l’autore del Dottor Živago? Anche tu hai amato quel romanzo? Ma allora lo vedi, neppure tu ti accontenti degli scrittori innocui! Pasternak per quel libro è stato accusato di essere “ozioso”, “degenerato”. “Scrittura intimista”, così si bollava la letteratura che non tesseva le lodi di Stalin. Šalamov, del resto, I racconti della Kolyma li scrive dopo aver trascorso anni nei Gulag. E gli scritti di Liu Xiaobo sono proibiti in Cina. Potrei continuare a lungo… È il lettore che fa tremare la dittatura sovietica, leggendo i racconti di Šalamov. È il lettore che apre le sbarre di ferro che tengono prigioniero Liu Xiaobo nel carcere cinese! Questo è il tuo potere, lettore: il potere più forte che ti sia mai stato concesso! Quello di leggere ed entrare in queste pagine e in queste vite. Quello di difendere queste vite. Quello di far parte di una comunità che lotta, che grida, che non si lascia zittire. Questo è quello che con disprezzo viene chiamato “gregge”, ma che dobbiamo invece chiamare comunità. Dobbiamo imparare a sentirci comunità, perché solo la comunità può tenere botta, solo la comunità può sperare di far avanzare le cose. E allora dobbiamo contarci, dobbiamo contare quanti appartengono al nostro gregge. C’è stato un tempo in cui anche io usavo questa parola senza capirne il significato. Usavo la parola “gregge” pensando a quanti avevano spento il cervello per farsi bastare la propaganda, chiamavo “gregge” i tedeschi che acclamavano i discorsi eversivi e sconclusionati di Hitler: non pensavo che c’era anche l’altro gregge, quello che sosteneva Martin Luther King o Nelson Mandela. Un gregge senza il quale questi uomini non ce l’avrebbero fatta. Nessuno di loro ce l’avrebbe fatta, se quando ricevevano uno sputo non ci fossero stati intorno altri a prendere con loro quegli sputi, se ogni volta in cui ricevevano uno spintone altri non si fossero stretti attorno a loro a prendere quegli spintoni, quei calci, quei pugni, quelle offese, rimanendo vicini, scambiandosi uno sguardo per sostenersi nella paura, passandosi la lanterna per rischiarare un poco la via, per scaldare il cammino, per stemperare l’incertezza, per sollevare a turno chi cade anche quando non c’è davanti alcun orizzonte di gloria e marciare insieme significa solo ricevere colpi, insulti e privazioni. Gregge sono gli apostoli che si fanno testimoni della crocefissione di Gesù, consapevoli che i loro nomi verranno schedati dall’autorità romana che non tarderà a ripagarli con la stessa sorte. Gregge sono tutti quelli che gridano ogni volta in cui si fa di tutto per presentare gli uomini di buona volontà - quelli che ogni mattina si alzano col solo scopo di provare a riparare il mondo - come impostori, profittatori, degenerati, nemici della patria, sovversivi, violenti, egocentrici, paranoici, squilibrati, manipolatori, bugiardi, mentecatti, inetti, calcolatori e avidi. Salute, scuola, lavoro: incertezze di troppo di Francesco Giavazzi Corriere della Sera, 10 novembre 2020 Secondo un’indagine della Banca d’Italia, rispetto a un anno fa il risparmio è più che raddoppiato e questo è un indice di preoccupazione. Da dieci mesi siamo dominati da un’incertezza che invade tutti gli aspetti fondamentali della nostra vita - la salute, la scuola, il lavoro - ed è la maggiore fonte di preoccupazione delle famiglie. Chi ha il difficile compito di guidare un Paese dovrebbe evitare ogni scelta, ogni parola di troppo, che accresce anziché diminuire l’incertezza. Esemplare resta la spiegazione dell’indice di contagio del Covid-19 da parte di Angela Merkel: le furono sufficienti pochi esempi concreti, poche parole chiare, per far capire come la diffusione della pandemia e la possibilità di essere contagiati fossero misurabili (il famoso indice Rt) e quale fosse, di conseguenza, la condotta da seguire. Le difficoltà in cui si trovano le famiglie italiane emergono dall’indagine dell’Istat sulla fiducia dei consumatori, misurata dalle loro percezioni sulla situazione economica generale, su quella della loro famiglia e sulle prospettive per i prossimi mesi. Tutti e tre gli indicatori, dopo il crollo di marzo-aprile, durante l’estate erano migliorati e in settembre il giudizio sulla percezione del “clima economico personale”, era tornato a valori non lontani da quelli dei mesi precedenti l’inizio della pandemia. In ottobre invece tutti e tre gli indici sono di nuovo peggiorati, soprattutto quelli orientati al futuro. L’indagine della Banca d’Italia sui risparmi delle famiglie lo conferma. Rispetto a un anno fa, il risparmio è più che raddoppiato: dall’8 al 19 per cento del reddito dopo le tasse. Una famiglia su due risparmia più che in passato e tiene i propri risparmi sul conto corrente, chiaro indice di incertezza su quanto potrà accadere. Non sappiamo se e quando ci potremo proteggere dal Covid con un vaccino; in Lombardia non sappiamo neppure quando potremo vaccinarci contro l’influenza. Non sappiamo se potremmo infettare la nostra famiglia, tanto elevato è il numero di asintomatici con cui potremmo essere entrati in contatto e tanto difficile continua ad essere fare un test in assenza di sintomi. La confusione non riguarda solo lo Stato: le continue dispute fra Stato e Regioni sulle rispettive competenza la accresce. L’incertezza riguarda anche l’economia, ma non solo per gli effetti diretti del Covid. Il governo continua a promettere che alla fine del mese riceveremo comunque lo stipendio, anche se la nostra azienda si è fermata, o un sussidio se la nostra attività è stata chiusa dal lockdown. Alcuni già dubitano di questi aiuti, pur rarefatti. A parte il fatto che molti ai sussidi non hanno accesso e molti, pur avendone diritto, non li ricevono (i lavoratori in cassa integrazione in attesa del primo bonifico erano a fine settembre almeno 100.000, e il totale di mensilità che l’Inps doveva ancora pagare quasi 300 mila). Davvero, improvvisamente, lo Stato si può indebitare senza limiti e senza conseguenze? Perché il debito non è più un problema? Neppure prima che arrivino i fondi europei, che pure sono anch’essi debito? Né tranquillizza ascoltare il presidente del Consiglio affermare (2 novembre in Parlamento) che “è necessaria una nuova strategia di organizzazione della presenza pubblica nell’economia, che non ostacoli il mercato ma sappia intervenire e indirizzarlo”. Davvero dovremmo fidarci ad occhi chiusi degli indirizzi della politica alle aziende private? La storia delle imprese pubbliche in questo Paese, almeno quelle su cui il mercato non vigila, ne lascia quanto meno dubitare. Ma che cos’è con precisione l’incertezza, e che effetti ha sul comportamento delle persone? Come avevo già scritto quattro anni fa su queste pagine, esporsi a situazioni che comportano dei rischi fa parte della nostra vita quotidiana, ma l’incertezza è diversa dal rischio. Affrontare un rischio significa esporsi a un evento aleatorio essendo in grado di stimare la probabilità che esso si verifichi: gioco alla roulette e so che (se non è truccata) la probabilità che esca il rosso è esattamente 50 per cento. Al contrario, in situazioni di incertezza non si conosce con precisione la probabilità che un evento si verifichi, o non la si conosce affatto. In altre parole l’incertezza non può essere descritta nei termini probabilistici applicabili a un gioco d’azzardo: non solo non sappiamo che cosa accadrà, spesso non conosciamo neppure che cosa potrebbe accadere. Mervyn King, l’ex-governatore della Bank of England, in Radical Uncertainty, un bel libro recentemente scritto con John Kay, usa, per la differenza fra rischio e incertezza, l’esempio della decisione di Barack Obama di dare il via libera ai Navy Seals per la cattura di Osama bin Laden nel campo di Abbottabad in Pakistan. Obama non conosceva la probabilità che bin Laden si trovasse in quel campo: “John”, l’agente della Cia a capo dei Seals, diceva che la probabilità era il 95%, altri gli dicevano che le chances fossero 50-50. Un esempio di decisione in condizioni di incertezza. I miei colleghi Pierpaolo Battigalli, Simone Cerreia, Fabio Maccheroni e Massimo Marinacci, grandi esperti di incertezza, spiegano che le persone preferiscono dover far scelte che comportino rischi conosciuti, cioè preferiscono esporsi al rischio che all’incertezza. Per esempio, scelgono di investire in una tecnologia già adottata anziché in una nuova, apparentemente migliore, ma non ancora sperimentata. Preferiscono la vecchia anche se sanno che è efficace solo nel 50 per cento dei casi, ma almeno questo lo sanno. Questo atteggiamento è conosciuto come “avversione all’ambiguità”. L’avversione all’ambiguità ha due conseguenze. Innanzitutto, più le persone sono avverse all’ambiguità, più insistono nelle loro scelte, e diventa difficile indurle a cambiare i loro comportamenti. Un altro modo in cui le persone reagiscono all’ambiguità è rifugiandosi in “porti sicuri”, risparmiando di più appunto. In Germania, nei mesi precedenti le elezioni del settembre del 1998, vi fu un boom nei risparmi delle famiglie. Durante la campagna elettorale Gerhard Schröder si era impegnato, qualora avesse vinto, a cancellare la riforma pensionistica appena varata dal suo avversario, il cancelliere Helmut Kohl. Ma non diceva quali provvedimenti alternativi avrebbe adottato. Tutti sapevano che il sistema pensionistico tedesco non era sostenibile e che le regole sarebbero dovute cambiare. Di fronte all’incertezza i cittadini tedeschi scelsero di proteggersi risparmiando di più. Il risultato fu un forte rallentamento dell’economia, almeno fino a quando Schröder dopo qualche anno risolse l’incertezza varando una sua riforma pensionistica. La conclusione, sempre vera nei momenti difficili che la storia presenta e ripresenta, è l’importanza per un Paese di avere un governo che regoli ma non interferisca e sappia tenere la rotta, adottare rapidamente misure efficaci e spiegare i provvedimenti presi in modo semplice. Adottare provvedimenti efficaci e spiegarli in modo semplice, aiutare i cittadini a diradare le nubi dell’incertezza, è il compito primo di un governo a livello nazionale e locale. In una situazione di emergenza come quella che attraversiamo, lo sforzo deve coinvolgere la politica tutta, maggioranza e opposizione. Ma al governo spetta la prima mossa. Favorire i giovani, ma a quale prezzo? di Dacia Maraini Corriere della Sera, 10 novembre 2020 Mi viene in mente la leggenda giapponese di Narayama: in un piccolo paese incastrato in mezzo alle montagne, c’è un villaggio povero, ma talmente povero che solo chi lavora nei campi può sopravvivere. Per questa ragione, con molto garbo, gli anziani vengono presi sulle spalle dai figli o dai nipoti e portati nel mezzo dei boschi più alti e più fitti dove circolano solo le belve feroci e lasciati lì a morire. Nella furia divisiva che stiamo vivendo, c’è chi prova a dividere, non solo i realisti dai negazionisti, i pensionati dai non pensionati, chi ha un posto fisso da chi non ce l’ha, ma anche i giovani dai vecchi. Una furia davvero inquietante. Ma c’è un equivoco che divide chi interpreta questa differenza come una necessità a cui gli anziani dovrebbero inchinarsi generosamente: il sacrificio di cui parla Chiara Saraceno, e chi invece la ritiene una necessità dovuta al fatto che gli anziani sono fuori dal processo produttivo e quindi inutili allo sviluppo della società. Se non produci sei morto. Visione a dir poco miope perché la produzione non è solo economica, ma di cultura, di sapienza, di cura, di amore, di memoria. È quello che non capisce chi è preso da una interpretazione feticistica del Pil. Mi viene in mente la leggenda giapponese di Narayama: in un piccolo paese incastrato in mezzo alle montagne, c’è un villaggio povero, ma talmente povero che solo chi lavora nei campi può sopravvivere. Per questa ragione, con molto garbo, gli anziani vengono presi sulle spalle dai figli o dai nipoti e portati nel mezzo dei boschi più alti e più fitti dove circolano solo le belve feroci e lasciati lì a morire. Una donna, che ha superato i settanta e non produce ricchezza, perché il suo lavoro in casa non è considerato produttivo, sebbene sgobbi tutto il giorno con braccia ancora robuste accendendo il fuoco, prendendo l’acqua alla fonte, cucinando e pulendo la casa, si vede guardata male dalla comunità del villaggio. E il figlio viene ostracizzato per l’ostinazione nel tenere in casa una madre che per età avrebbe dovuto essere trasferita nei boschi. Il figlio non sa che fare perché ama sua madre e sa quanto sia ancora capace di faticare. La madre amorosa, vedendo la sofferenza del figlio, decide di invecchiarsi e prende a non mangiare, poi si spezza i denti con una pietra, si fa i capelli bianchi con la cenere. Insomma si riduce in uno stato tale che il figlio sarà costretto ad accompagnarla nei boschi. Ecco un esempio di sacrificio famigliare per il bene della comunità. Ma la leggenda non condanna la madre o il figlio, solo mette in evidenza la crudeltà di un popolo che per fare vivere i più giovani è costretto a fare fuori i più anziani. Da quel momento però la ferocia sarà la cifra della coabitazione e tutti si troveranno contro tutti. Il male è compiuto. Turchia, l’appello delle Ong: “Liberate Ahmet Altan” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 10 novembre 2020 Un appello per la liberazione di Ahmet Altan, 70 anni, scrittore turco di fama mondiale in carcere, oggi, da 1500 giorni, è stato promosso da Articolo 21, European federation journalists e altre organizzazioni internazionali. “Gli ultimi quattro anni, a parte una parentesi-beffa di 8 giorni di libertà vigilata nel novembre del 2019, quando la Corte Costituzionale ne aveva disposto la scarcerazione, li ha trascorsi in cella” si legge nel testo dell’appello rilanciato sul sito di Articolo 21 con un editoriale di Antonella Napoli, giornalista e coordinatrice per l’Italia del Turkey Advocacy Group che per Articolo 21 è stata osservatrice nei processi ai giornalisti turchi accusati di terrorismo. Oggi sono 1500 giorni che lo scrittore è dietro le sbarre senza aver commesso alcun reato e mentre si susseguono segnalazioni di aumento del rischio Covid-19 nella struttura carceraria in cui è detenuto. Altan sta scontando in via definitiva una condanna a 10 anni e sei mesi di carcere per aver “aiutato un’organizzazione terroristica senza esserne membro”. Lo scrittore era stato arrestato per la prima volta il 12 settembre 2016 per “invio di messaggi subliminali evocativi di colpo di Stato” e condannato all’ergastolo insieme con il fratello Mehmet Altan il 16 febbraio 2018 in quello che l’opposizione ha definito un processo-farsa. “A parte qualche mio articolo e un’unica apparizione in tv, l’imputazione di golpismo nei nostri riguardi si basa sulla seguente asserzione: si ritiene che noi conoscessimo gli uomini accusati di conoscere gli uomini accusati di essere a capo del colpo di Stato” ha scritto Altan nel suo libro “Ritratto dell’atto d’accusa come pornografia giudiziaria” (edizioni E/O), in cui si rivolgeva, in un dialogo immaginario, al giudice che poi avrebbe emesso il verdetto di condanna. Dopo che la Cassazione, il 4 novembre 2019, si era pronunciata contro la condanna e aveva ordinato la scarcerazione immediata in attesa dell’esito dell’appello, Ahmet è stato nuovamente arrestato il 12 novembre perché il pubblico ministero si era opposto al suo rilascio. La 26esima Alta Corte penale di Istanbul, conformandosi alla decisione della Corte Suprema, ha avviato un nuovo processo, che ha portato alla condanna con l’accusa minore di aver “aiutato un’organizzazione terroristica senza esserne membro” e a una pena eccezionalmente severa per l’imputazione formulata dal procuratore. Il caso di Altan è pendente da un anno davanti alla Corte di Cassazione per il riesame dell’ultima condanna. Il suo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, presentato quasi quattro anni fa, deve ancora essere esaminato. “Ribadiamo la nostra ferma richiesta a rilasciarlo immediatamente e incondizionatamente, poiché è un prigioniero di coscienza imprigionato unicamente per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione, richiesta che si estende agli altri 73 giornalisti ancóra ingiustamente detenuti” concludono i firmatari dell’appello Articolo 21, European Federation Journalists, European and International Faculty Committee of the Political Science Department Roma 3, Media Research Association Medar, P24, PEN Danimarca, PEN Finlandia, PEN Paesi Bassi, PEN Svezia, Rsf Austria. Brasile. Coronavirus, dopo otto mesi detenuti riceveranno di nuovo le visite dei parenti agenzianova.com, 10 novembre 2020 Il Dipartimento penitenziario nazionale del Brasile (Depen) ha autorizzato a partire da oggi la graduale ripresa delle visite personali ai detenuti da parte dei parenti. L’ordinanza arriva a otto mesi dalla sospensione di tutte le visite in presenza decisa a causa della pandemia di coronavirus. La ripresa avverrà gradualmente e potrà essere riesaminata in qualsiasi momento. In questa prima fase ciascun detenuto avrà diritto a una sola visita al mese della durata massima di 1 ora. Sarà ammesso al massimo un adulto che potrà essere accompagnato da un bambino o da un adolescente. Le visite restano sospese per i detenuti ritenuti vulnerabili o inseriti nel gruppo di rischio come anziani ultrasessantenni, donne incinte, madri in allattamento, persone con malattie croniche, malattie respiratorie o che mostrano segni e sintomi di sindromi simil-influenzali. Le visite continuano virtuali per i detenuti in custodia presso i penitenziari federali, dove restano sospese le attività di istruzione, lavoro e assistenza religiosa. Complessivamente sono almeno 162.397 i morti per patologie riconducibili al contagio da nuovo coronavirus in Brasile, 128 in più rispetto al numero di decessi registrati nelle precedenti 24 ore. Lo rivela il ministero della Salute, rendendo noto che il numero complessivo di contagi, sommando i dati forniti dai dipartimenti della Salute dei 27 stati è salito ad almeno 5.664.115 casi, 10.554 in più rispetto a quelli registrati nelle 24 ore precedenti. In base a questi numeri la media quotidiana dei decessi negli ultimi sette giorni è stata di 324, indicando una tendenza al ribasso dei morti del -30 per cento in meno rispetto alla media quotidiana dei decessi calcolata nelle ultime due settimane. Tuttavia, per stessa ammissione del ministero dell’economia i dati del fine settimana sono parziali a causa delle difficoltà da parte di molti stati di tenere aggiornate le statistiche. Scontri in Etiopia, l’amara parabola del Nobel Abiy di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 10 novembre 2020 Le cronache delle ultime ore segnalano centinaia di morti tra i soldati federali mandati da Adis Abeba e nei ranghi nemici del Fronte Popolare per la Liberazione del Tigrai. La lezione che giunge in questi giorni dall’Etiopia è che i successi possono rivelarsi molto brevi, la pace un’effimera chimera e la crescita economica non sempre aiuta a calmare gli antichi odi tribali. Soltanto un anno fa il premier eletto nel 2018, Abiy Ahmed, aveva ricevuto il premio Nobel per la pace e prometteva un futuro di cooperazione per il Corno d’Africa. Ma le cronache delle ultime ore segnalano centinaia di morti tra i soldati federali mandati da Adis Abeba e nei ranghi nemici del Fronte Popolare per la Liberazione del Tigrai (Tplf). Dal fine settimana questi ultimi potrebbero avere perso 500 combattenti nella zona di Kirakir. E un numero imprecisato di governativi sarebbero caduti nella regione del Dansha. Intanto i jet di Adis Abeba bombardano il capoluogo del Tigrai, Makalle. Il rischio è adesso che il secondo Paese africano per numero di abitanti (110 milioni) precipiti nel caos della “balcanizzazione incipiente”, come paventano i maggiori commentatori internazionali, con pericoli di destabilizzazione a raggiera in Sudan, Eritrea e Somalia. Non doveva per forza andare così. “La guerra è un inferno. Dobbiamo evitarla in ogni modo”, dichiarava Abiy due anni fa, negoziando gli accordi destinati a porre fine al conflitto ventennale con l’Eritrea. Lui stesso era stato soldato nella guerra col Paese confinante. A 44 anni, il più giovane leader del continente africano, riceveva il plauso internazionale. L’Etiopia apriva al mondo, garantiva la libertà di stampa, godeva di un boom economico senza precedenti. Ma le tensioni interne non sono mai cessate. Ben presto la maggioranza degli etiopi appartenenti all’etnia Oromo (la stessa di Abiy) ha preteso più poteri per il governo centrale. A loro si oppongono i Tigrai, che, pur costituendo il 5-6% della popolazione, esigono maggiori autonomie regionali e dispongono del Tplf, la milizia locale meglio armata e organizzata. Il rinvio delle elezioni nazionali causa Covid ha acuito le frizioni. Oggi l’Onu chiede ad Abiy di tornare al dialogo. Etiopia. Tigray, il conflitto fa strage in nome dello “stato di diritto” di Marco Boccitto Il Manifesto, 10 novembre 2020 Il premier Ahmed non ferma l’offensiva militare, centinaia di morti da entrambe le parti. A vuoto anche l’appello del papa. Timori per i raid sui civili e i campi profughi eritrei. Neanche l’appello del papa sembra aver scalfito le maniere forti con cui il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha deciso di regolare la questione del Tigray. Ieri sesto giorno di guerra nella regione settentrionale del Paese, secessionista di fatto dopo che la sua élite ha dominato per decenni la scena politica nazionale. Le forze speciali del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), denunciano il coinvolgimento, al fianco dei reparti dell’esercito federale, delle forze altrettanto speciali dell’Amhara. E accusa il governo di aver condotto almeno 10 bombardamenti aerei in aree densamente abitate della capitale regionale Macallè. Debretsion Gebremichael, ormai ex governatore, si appella all’Unione africana per un intervento immediato. Il conflitto resta avvolto in un vuoto informativo dovuto alla mancanza di riscontri indipendenti sul campo. La chiusura delle reti telefoniche e di internet impedisce la ricerca di riscontri oggettivi ai comunicati delle parti in conflitto. Ahmed ha promesso che fornirà i dettagli a tempo debito, una volta tacitate le armi. Un ufficiale delle truppe federali ha dichiarato alla Reuters che negli scontri a Kirakir sarebbero stati uccisi quasi 500 miliziani tigrini. Ma vi sarebbero anche centinaia di morti tra le truppe federali dopo la battaglia per la conquista di Dansha. L’offensiva di Ahmed prosegue anche sul piano istituzionale, con il parlamento che ieri ha votato la dissoluzione del governo regionale del Tigray e il commissariamento ad interim. È il “ripristino dello stato di diritto” che ieri il premier è tornato ad evocare. Manu militari. Ieri Ahmed ha licenziato il capo di stato maggiore dell’esercito Adem Mohammed, ha nominato un nuovo capo della polizia federale e ha sostituito il ministro degli Esteri. Ed è tornato ad accusare il Tplf di aver “sponsorizzato, addestrato ed equipaggiato qualsiasi forza che fosse disposta a impegnarsi in atti violenti e illegali per far deragliare la transizione democratica”. Con riferimento ai sanguinosi incidenti seguiti all’omicidio della popstar oromo Hachaalu Hundessa e allo strappo più recente, il voto locale che nel Tigray si è svolto malgrado il lockdown nazionale imposto da Addis Abeba, Preludio al casus belli indicato da Ahmed, l’attacco delle forze speciali tigrine a una base federale. Secondo Will Davison, analista senior dell’International Crisis Group, “il percorso per far arrendere la leadership del Tigray è arduo” e il Tplf potrebbe essere capace di una forte controffensiva. Il Tigray confina con l’Eritrea con cui l’Etiopia è stata in guerra per oltre vent’anni ed è ancora pieno di basi e armi pesanti che il Tplf sostiene di aver sottratto alle forze federali. Nel mezzo restano gli oltre 96.000 rifugiati eritrei ospitati nei campi profughi del Tigray. Oltre alla sicurezza preoccupano i rifornimenti dato che le comunicazioni e le strade sono interrotte, i voli vietati. Chiuso anche il confine con il Sudan. Se i combattimenti dovessero estendersi le persone dovrebbero scegliere tra tornare in Eritrea rischiando la pena di morte o restare e rischiare di morire in Etiopia. Crescono al contempo i timori di un’ondata di profughi interni collegata al conflitto. E nel peggiore degli scenari possibili si rincorrono le voci circa l’eventuale coinvolgimento della stessa Eritrea. Fuori dalla base militare di Dansha i pickup militari sono contrassegnati da un’insegna di metallo nero con su scritto: “Costruiamo insieme un paese democratico”. Il voto in Birmania un piccolo passo avanti. Non per i Rohingya di Emanuele Giordana Il Manifesto, 10 novembre 2020 Prime elezioni con un governo civile. Si profila una vittoria della Lega, che migliora il risultato del 2015. La guida del partito, la Nobel Aung San Suu Kyi, rieletta alla Camera bassa. Anche se i risultati definitivi devono confermarlo, il portavoce della Lega nazionale per la democrazia ne era già sicuro sin da ieri: “Abbiamo avuto un risultato migliore rispetto al 2015”, ha detto alla stampa locale U Myo Nyunt mentre arrivavano i conteggi dalle circoscrizioni nella prima elezione gestita da un governo birmano di civili: nel Kayn la Lnd avrebbe vinto tutti i seggi in palio tranne due; molto bene anche nel Kachin e nella capitale Naypyidaw dove li avrebbe addirittura vinti tutti tranne uno. A Yangon ci si aspetta il pieno e già si sa che la guida del partito, la Nobel Aung San Suu Kyi, è già stata rieletta alla Camera bassa nella township di Kawhmu a Yangon, l’ex capitale dove sono andate a votare milioni di persone e dove già ci sono state le prime manifestazioni pubbliche di giubilo nonostante la Lega calmi gli animi causa Covid e ricordi la necessità della distanza fisica. Nello Stato Mon è andata meno bene e la Lega ha perso terreno a favore dei partiti locali ma ha guadagnato comunque 34 seggi dei 45 attribuiti all’area. E cosi nello Stato nordoccidentale del Rakhine, dove il pieno lo ha fatto l’Arakan National Party forse anche perché la Commissione elettorale aveva deciso di chiudere 9 delle 17 circoscrizioni elettorali per motivi di sicurezza in un territorio dove da due anni si affrontano stabilmente l’esercito birmano (Tatmadaw) e il gruppo armato autonomista Arakan Army. Una decisione che ha privato oltre un milione di persone del diritto di voto e dunque di rappresentanza. Iniziata domenica mattina alle 6 e conclusasi alle 4 del pomeriggio, la tornata elettorale si è svolta in un clima pacifico con pochi incidenti minori, dovuti alle restrizioni del Covid o a situazioni in cui la gente non è riuscita a votare. Non hanno ovviamente potuto votare nemmeno i Rohingya birmani, espulsi nel pogrom del 2017 e che ora ingrossano le fila di quasi 900mila rifugiati in attesa di un incerto futuro nei campi profughi che li ospitano in Bangladesh. Non di meno, la Lega ha presentato questa volta due candidati musulmani (nel 2015 nessuno), entrambi eletti. Ovviamente non sono rohingya, minoranza esclusa già in passata dal diritto di voto. È, seppur minuscolo, un passo avanti ma che difficilmente potrà aiutare chi è scappato all’estero o quei 130mila rohingya che vivono blindati nei campi profughi-prigione (cosi li definisce Human Rights Watch) del Rakhine. La vittoria ormai certa consegna alla Lega la possibilità di tornare al governo e rafforza un processo democratico lento e difficile, sempre minacciato dalla spessa ombra degli uomini in divisa, protetti da una Costituzione fatta su misura nel 2008 che consegna loro de jure sia i tre ministeri chiave di Interno, Difesa e Frontiere, sia un quarto dei seggi parlamentari. Dei 440 attributi alla Pyithu Hluttaw - la Camera bassa - 110 verranno infatti scelti o riconfermati dal Comandante in Capo dei Servizi di Difesa. Stessa sorte per la Amyotha Hluttaw (Camera delle nazionalità o Camera Alta) che avrà, su 224 seggi, 56 scranni di nomina militare. Sfollati messi alla porta: l’Iraq chiude i campi, si rischiano 100mila senzatetto di Chiara Cruciati Il Manifesto, 10 novembre 2020 Da inizio 2018, dopo l’annunciata vittoria sull’Isis, 4,6 milioni di persone sono tornate a casa. Ma 1,3 milioni vivono ancora nelle tende. Tra mancata ricostruzione e pandemia, lo Stato islamico ricorda a tutti di esserci ancora: 11 morti domenica in un attacco islamista a sud di Baghdad. Centomila sfollati iracheni rischiano di ritrovarsi fuori dai campi senza alternative. In un paese ancora non ricostruito dopo gli anni di occupazione di intere regioni da parte dello Stato islamico, l’allarme lanciato dal Norwegian Refugee Council arriva il giorno dopo la morte di undici persone, poco fuori Baghdad, per mano dell’Isis: domenica un gruppo di miliziani ha assaltato un checkpoint controllato dalle Unità di mobilitazione popolare (le milizie sciite filo-iraniane) ad al-Radwaniyah, a sud della capitale. Granate e armi da fuoco, a ribadire una presenza mai eclissatasi dopo la lenta e graduale ripresa del territorio da parte del governo iracheno, che annunciava la vittoria definitiva alla fine del 2017. Come nella vicina Siria, però, cellule affatto dormienti del “califfato” continuano a colpire. È in questo clima che, da agosto 2019, il governo sta procedendo alla chiusura dei campi sfollati, pieni ancora di decine di migliaia di famiglie scappate dopo il 2014 dalle regioni occidentali a maggioranza sunnita. Dall’inizio del 2018 circa 4,6 milioni di sfollati hanno avuto modo di tornare nelle proprie comunità, seppur metà di loro in condizioni pessime, tra mancati servizi, disoccupazione e infrastrutture carenti. Non tutti: restano ancora 1,3 milioni di sfollati. E ora, in piena emergenza Covid-19 e con un paese affatto ricostruito, le chiusure procedono, insensibili agli appelli delle organizzazioni internazionali. Ieri è stato il Norwegian Refugee Council a rilanciare l’allarme dopo l’avviata chiusura del campo Hammam Al Alil, tra i più grandi del paese, da svuotare entro la prossima settimana: gli sfollati dei campi di Baghdad, Karbala, Divala, Suleimaniya, Anbar, Kirkuk e Nineweh vengono messi alla porta di quella che per anni hanno considerato casa loro. Gli si chiede di tornare nelle comunità di origine, ma in pochissimi possono farlo: con abitazioni mai ricostruite, checkpoint disseminati ovunque e controllati dalle milizie (non direttamente dal governo) e il rischio di attacchi terroristici, l’unica conseguenza è la creazione di un enorme numero di nuovi senzatetto. “Chiudere i campi prima che i residenti siano in grado di tornare a casa non risolve la crisi degli sfollati - spiega il segretario generale del Nrc Jan Egeland - Al contrario, mantiene tantissimi iracheni nel circolo vizioso dello sfollamento, più vulnerabili che mai, soprattutto in piena pandemia”. Lo dimostrano gli sfollati buttati fuori dai campi chiusi nelle scorse settimane a Baghdad e Karbala: secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni, la metà di loro si è ritrovata a vivere in edifici abbandonati, per strada. Chi è riuscito a tornare, in alcuni casi, ha trovato la propria casa occupata da un’altra famiglia, all’interno di un processo di modifiche demografiche del territorio su scala etnica e confessionale. Ma sono comunque pochi: secondo l’Oim il 76% dei quasi 17mila sfollati cacciati dai campi nell’ultimo anno ha subito un secondo sfollamento nelle città ospitanti. Fuori dai campi ufficiali, ma in ghetti nati spontaneamente dove era possibile, ai margini delle comunità, primo passo verso ulteriori tensioni sociali in un paese in piena crisi economica e politica.