Come hai potuto farmi questo? In realtà è questa la domanda più terribile a cui nessun colpevole ha la risposta

Intervento di Agnese Moro* alla presentazione del libro "Vendetta pubblica", di Marcello Bortolato e Edoardo Vigna, nell’ambito del progetto di confronto tra le scuole e il carcere “A scuola di libertà”

 

Grazie per questo invito che mi fa molto piacere e mi onora. Il carcere è credo uno dei temi più importanti della nostra società, tutt’altro che marginale, perché è quello che meglio dipingequello che siamo in realtà, al di là di tutte le cose belle che diciamo di noi stessi. Il libro Vendetta Pubblica è molto interessante, mi è sembrato estremamente utile perché si capisce bene un po’ questo sguardo strabico che noi abbiamo sul sistema giustizia. Da una parte, c’è l’essere fedeli alla Costituzione, la pena volta alla rieducazione del condannato, che io traduco nel fatto di dire “Noi li fermiamo perché li rivogliamotutti indietro, li rivogliamo tutti con noi, li rivogliamo tutti cittadini attivi di questa società, abbiamo bisogno di tutti, non vogliamo fare a meno di nessuno”. E l’altro sguardo è quando ci vendichiamo perché ci hanno fatto del male. Questo secondo sguardo, che vede il carcere come legittima punizione e vendetta, si nutre di stereotipi. Gli stereotipi di cui il libro parla, questi luoghi comuni, sono molto importanti, perché a furia di ripeterli sembra che siano veri, che nascondano la verità, cosa che non è assolutamente così.

Purtroppo molti di questi stereotipi e luoghi comuni si fanno forti sull’idea che noi alle vittime dobbiamo dare qualche cosa, che dobbiamo piegarci come collettività agli stessi luoghi comuni che le vittime producono o delle quali sono oggetto. A volte sono le vittime che producono dei loro stereotipi; a volte è la società che glieli appiccica addosso con le domande dei giornalisti, con tante altre parole che gli vengono attribuite, come se dovessero per forza essere le loro.

Per me gli stereotipi che sono più frequenti, e che non vorrei mai che fossero interpretati come davvero la volontà delle vittime, sono quelli per cui ci si nasconde o si legittima la crudeltà di un sistema che tiene in carcere per anni e anni, abbandonate a se stesse,migliaia di persone, facendosi forti della scusa di parlare a nome delle vittime. Io dico no, not in my name, no, io mi tiro indietro da questa cosa. È sicuro che lo stereotipo più importante che è, o che è attribuito alle vittime è: se lui soffre io avrò giustizia. Questo è totalmente falso naturalmente, perché lui può soffrire per qualsiasi cosa, ma io non avrò giustizia perché non mi tornerà mai indietro niente, nonostante la convinzione che “se mi vendico avrò giustizia”, oppure “se lui soffre di più, io soffro di meno”. Questa è una delle cose che più spesso si attribuisce alle vittime, in parte giustamente, in parte ingiustamente. Sono quelle che a molti di noi fanno dire “buttate via la chiave, non li vogliamo più”. Un secondo stereotipo è che più anni di carcere uguale più giustizia. Io tanto spesso sento le interviste di persone che hanno subito torti gravissimi. Parlano sempre del desiderio che il colpevole abbia una lunga condanna. Come a dire: se gli daranno una condanna severa, allora io avrò giustizia. Cosa che a sua volta sottintende: io starò meglio; più anni lui avrà più io potrò rintuzzare indietro il mio dolore e in qualche maniera liberarmene.

Un terzo luogo comune secondo me terribile è che più saprò la verità e meno soffrirò, più saprò la verità, più avrò avuto giustizia. Questo tema della verità è un tema molto scivoloso, perché la verità è sempre, comunque deludente, perché comunque la verità è sempre troppo piccola rispetto al torto che tu hai subito, e alle conseguenze esponenziali che quell’atto ha prodotto. C’è una sorta di bulimia della verità: allora tu mi dici quello che sai… ma no, non è solo questo, è qualcos’altro, non mi hai detto la verità, me la devi dire ancora, mi devi dire altre cose. Perché alla fine tu hai il diritto di essere considerato come un soggetto di diritti solamente se tu in cambio mi dai la verità.

Ma questa verità non è la verità di ciò che è accaduto, ci si aspetta sempre una super verità, e io voglio che tu me la dica, perché se io sapessi questa super verità io sarei consolato. In realtà la domanda più terribile che nessuno fa a nessuna persona, e a cui nessuno ha la risposta, nessun colpevole ha la risposta, è:  come hai potuto farmi questo, come hai potuto fare queste cose? Però si afferma questa idea terribile: che la verità sia una moneta di scambio per cui io ti riconosco se tu mi dici. Ma alla fine non mi dici mai quello che io voglio sapere, perché non me lo puoi dire, perché quello che io voglio sapere è oltre quello che tu mi puoi dire. Queste semplici, apparentemente semplici, cose “giustificano” o vengono portate a giustificazione di tutto il permanere degli stereotipi; permanere nel senso di permettere che sia accettabile che le persone vivano in carcere in quella maniera perché comunque le vittime stanno soffrendo.

Ma in realtà gli anni di carcere, il fatto che il carcere sia duro, non sono un risarcimento nei confronti del dolore delle vittime. Anzi io credo che il carcere sia il più grande ostacolo a una qualsiasi risoluzione o cura del dolore delle vittime, perché il carcere per antonomasia è l’emblema della lontananza: io ti isolo, ti allontano da me, e purtroppo invece più tu stai lontano dalle persone che ti hanno fatto del male, meno tu puoi guarire. Le ferite vengono prodotte da un gesto di violenza irreparabile come è l’omicidio, ma anche da tanti altri tipi di violenza apparentemente più piccoli, anche molto più piccoli, perché tu non sai mai che cosa vai a toccare in quella persona. Mi ricordo un esempio di cui parlava sempre padre Guido Bertagna di due scippatori napoletani minorenni che scippanouna signora, e alla fine si rendono conto che quello che loro le hanno tolto non sono solo quei quattro soldi che aveva nella borsa, ma l’unica fotografia che aveva di suo marito: tu privi le persone sempre di qualcosa di più di quello che pensi di avergli tolto.

Le ferite che si ricevono da questi atti di violenza sono ferite che se non le curi nel tempo si cristallizzano, e si imputridiscono, peggiorano. Il tempo non è galantuomo e non cura assolutamente niente, anzi, quei sentimenti feroci che tu provi nei confronti di chi ti ha fatto del male, rabbia, odio, disprezzo, come potete immaginare, solitudine, dolore creano in realtà una sorta di isolamento interiore perché tu pensi che nessuno possa capire il dolore che tu stai vivendo. Questi sentimenti si autoalimentano, diventano sempre più forti, tu diventi sempre più isolato, e sempre più incapace di esprimere in parole quello che senti, quello che ti è capitato, anche perché spesso l’orrore di quello che ti è capitato non è soltanto nel grande atto, ma in tanti piccoli atti che lo rendono orribile ancora di più … perché tu non riesci a giustificarli, non riesci a trovargli una spiegazione. Questa perdita di parole, questi sentimenti che ti dominano alla fine costruiscono come una specie di bozzolo dentro cui stai. Io lo descrivo con l’immagine dell’insetto chiuso dentro la goccia d’ambra che rende proprio bene l’idea. La goccia d’ambra è anche bella però starci dentro non è simpatico, e tu ti rendi conto che vivi nel passato.

Tutto questo fa sì che il passato tu non potrai mai mettertelo dietro le spalle, perché tutto quello che ti è capitato è come se risuccedesse ogni giorno. Tu non è che te le ricordi le cose che sono successe, le rivivi continuamente. E ti possiedono. E’ quella che io chiamo la dittatura del passato. Qui non è la lontananza che ti può aiutare, paradossalmente l’unica cosa che ti può aiutare è la vicinanza con “l’altro”, con chi ti ha fatto del male. È quella vicinanza che fa tornare i mostri che hai nella testa delle persone reali. È la vicinanza, la possibilità di vedersi, di parlarsi che può aprire un varco in quella goccia d’ambra. Ed è una cosa veramente difficile, perché ci vuole un grandissimo investimento perché questo diventi possibile, perché tu non hai la possibilità di farlo da sola, la forza di farlo da sola. Alla fine secondo me la Giustizia Riparativa nella sua essenza più importante, è proprio questo rendere possibile una vicinanza lì dove c’è una distanza incolmabile, creando le condizioni per un dialogo di per sé così difficile.

La vicinanza è moltoimportante, perché la vicinanza è fatta almeno di due elementisignificativi: i volti e le parole. I volti sono una cosa molto importante perché tu in quei volti, il volto dell’altro, il volto dell’altro che ti ha fatto del male, il volto dell’altro difficile, tu vedi passare una storia, tu vedi in quel viso una vita che è passata e come quella vita ha segnato una persona e immediatamente quel passatoche sta li tutti i giorni ritorna indietro, perché comunque guardando quei visi ti rendi conto che sono passati tantissimi anni e quindi non può essere oggi, dev’essere per forza ieri, un ieri anche molto lontano. Poi lì ci sono storie di dolore, di sofferenza, e quel volto ti porta alla realtà. Perché la cosa più importante quando uno è stato ferito in quel modo è tornare alla realtà, andare via da quel mondo di mostri che tuhai nella testa e tornare, tornare, tornare. Insieme con gli altri tu ti rendi conto che il tempo è passato e che ieri non è oggi, che c’è un ieri e c’è un oggi, che sono molto lontani. L’altra cosa molto importante per avvicinarsi è la possibilità della parola. Una cosa che non esiste nella giustizia penale è la parola per le vittime. E la parola che hai bisogno di dire non è una parola che vuole parlare solo delle cose grandi: lo sai che mi hai tolto? Lo sai che cosa mi hai tolto? Lo sai chi era mio padre per me, lo sai che cosa rappresentava nella mia vita, che cosa mi hai levato per sempre? Ma anche la possibilità di rimproverare per cose apparentemente piccole, che però sono ugualmente terribili. Io ho avuto il privilegio, in questo dialogo durato tanti anni, e che ancora dura, con queste persone - tra le quali anche alcune di quelle che hanno partecipato in qualche modo al sequestro e all'uccisione di mio padre -, ho avuto la possibilità di rimproverarli. E non ti voglio rimproverare “solamente” perché in qualche modo hai partecipato all’uccisione di mio padre, degli uomini della sua scorta, l'hai tenuto prigioniero; ti voglio rimproverare anche perché nel momento in cui lui stava per morire ha scritto delle lettere per ognuno dei suoi figli, per sua moglie, e tu queste lettere non ce le hai mai date. Non hai ritenuto che fossero importanti per noi quelle parole così serene, così carine che lui ha con fatica scritto per noi. Parole che ho potuto leggere, quasi per caso, solo 12 anni dopo la sua morte. E ci sono tante cose che non entrano negli interessi della giustizia penale, ma che sono quelle che devono essere dette. Io ti chiedo conto di come hai potuto mettere la sveglia la mattina e dire "mi sveglio alle otto perché alle nove devo andare a uccidere tizio", come hai potuto? E questo rimprovero in realtà non è una rottura di rapporti, anzi, io ti rimprovero perché so che sei una persona come me. E so che sei una persona come me perché ti ho ascoltato e ho ascoltato anche il tuo dolore, perché un altro degli stereotipi è che il dolore è solo delle vittime, no, il dolore è anche di chi l'ha fatta grossa, non la può rimediare in nessuna maniera e magari pensava di salvare il mondo, di fare una cosa strafiga, facendo quella roba lì, e alla fine scopre che ha solo ucciso delle brave persone. Lì c'è un dolore che è terribile e che è comunque un terreno comune e il rimprovero non acuisce quel dolore, il rimprovero è un ponte, perché io ti riconosco l'umanità, per cui tu puoi capire quello che ti sto dicendo e devi capire che ho fiducia in te mentre te lo dico. L'ascolto è importantissimo e la vicinanza ti fa scoprire l'umanità delle persone, l'umanità non si perde perché tu puoi averla fatta grossa, grossissima, ma non è detto che per quello che hai fatto hai perso la tua umanità. Nelle storie che loro poi ti raccontano, del loro ritorno indietro, delle riflessioni faticosissime che hanno fatto, tu capisci che quella umanità si è mantenuta. Quindi non esiste una rottura, perché comunque siamo tutti uomini su questo pianeta. Certo ci vuole la fortuna di avere delle persone che investono tanto su di te. Noi abbiamo avuto questa fortuna di avere persone che ci hanno aiutato tanto, investendo tanto tempo, tanta intelligenza, tante risorse; coinvolgendo tantissime persone. Ovviamente questo non toglie, non cancella, non migliora quello che è stato. Quello che è stato rimane orrendo... e però alla fine, nella goccia di ambra non ci sei più, il passato non è più il padrone della tua vita. Se il passato è quello che domina la tua vita, rende più importanti i morti dei vivi, e toglie tanto anche alle persone vive che ti sono care.

 

* Agnese Moro, sociopsicologa, ricercatrice del Laboratorio di scienze della cittadinanza, è figlia dello statista sequestrato e ucciso dalle Brigate rosse nel 1978. Ha partecipato per anni ai lavori del “Gruppo dell’incontro”, che fa riferimento proprio all’incontro fra vittime, responsabili della lotta armata degli anni Settanta e loro famigliari. L’esperienza è raccontata nel “Libro dell’incontro”, curato da Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato.