Carcere, l’angoscia dietro le sbarre è l’altro virus di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 7 marzo 2020 Strano periodo quello che stiamo vivendo. E ancora più strano, ansioso, angoscioso per coloro che si trovano in carcere o dentro hanno un parente. L’amministrazione penitenziaria ha fortemente ridotto ogni contatto con l’esterno, per cercare di impedire la diffusione del virus in un contesto chiuso, e quindi estremamente rischioso, come è un istituto penale. Le disposizioni non sempre sono applicate in modo omogeneo sul territorio nazionale: ci sono direttori più cauti che impediscono qualsiasi contatto con familiari o volontari, ma anche direttori più ragionevoli che si limitano a disporre misure di controllo all’ingresso per tutti quelli che arrivano dalla libertà (misurazione della febbre, autocertificazioni sul proprio stato di salute). Medici e infermieri sono allertati. Un detenuto che ha i sintomi del Covid-19 deve essere portato con scorta fuori. Non è semplice questo momento. In carcere la paura, la solitudine, l’angoscia crescono di ora in ora esponenzialmente. Va fatto ogni sforzo affinché il virus non oltrepassi il portone di ingresso delle prigioni. Sarebbe una tragedia infinita per detenuti (molti dei quali con patologie complesse) e lavoratori penitenziari. L’amministrazione penitenziaria ha previsto a tal fine una serie di misure. A seconda delle aree, ha azzerato o fortemente ridotto i contatti con la comunità esterna: chiuse le scuole, chiuse le attività culturali e ricreative. In non poche carceri sono negati i colloqui visivi con i parenti. Decine di migliaia di genitori, figli, fratelli, sorelle non possono vedere i loro cari in carcere. Sono impauriti, in alcuni casi disperati. Per questo vanno allargate le possibilità di contatto. In base alla legge attualmente in vigore al detenuto spettano dieci minuti di telefonate alla settimana (seppur estendibili eccezionalmente), e i collegamenti internet sono pressoché vietati. La solitudine e le tensioni in questo modo possono crescere oltre il limite della ragionevolezza. Ci sono stati i primi sentori di questa crescente tensione che mai la Polizia deve affrontare con le armi, se non quelle della dissuasione ragionevole. Sarebbe dunque un provvedimento governativo urgente e necessario quello che consenta al detenuto di telefonare ai propri famigliari per almeno venti minuti al giorno. In questo modo si andrebbero a mitigare gli effetti delle limitazioni progressive ai diritti delle persone detenute. Tra l’altro questa misura, presente in moltissimi Paesi d’Europa, ridurrebbe il traffico illecito di cellulari dentro le prigioni, rendendolo in parte inutile. Oltre alle telefonate ordinarie andrebbero consentiti i collegamenti Skype. In questo modo un figlio, un fratello, una sorella, un genitore, un partner potrebbe guardare negli occhi il proprio caro. Nei giorni scorsi l’amministrazione penitenziaria ha auspicato un maggiore uso a livello periferico di tale forma di contatto. È necessario che ciò avvenga in tempi rapidissimi sganciandolo da ogni logica premiale. Dialogare con un parente è un diritto e non un regalo concesso per buona condotta. Infine, posto che a un certo numero di detenuti sono negati permessi premio e semilibertà (misure che consistono nello stare un po’ dentro e un po’ fuori dal carcere) in quanto si teme che possano portare il virus in galera, si dovrebbe favorire la concessione di provvedimenti di detenzione domiciliare e affidamento ai servizi sociali che si svolgono del tutto fuori dal carcere, in modo da ridurre la pressione sugli operatori. Va ricordato che oggi i detenuti in Italia sono oltre 61 mila per una capienza regolamentare di 50 mila posti. Mandare in detenzione domiciliare e affidamento al servizio sociale tutti coloro che ad esempio hanno un residuo pena inferiore ai tre anni e hanno fatto un positivo percorso penitenziario, sarebbe una misura che, senza avere effetti negativi sulla sicurezza pubblica, aiuterebbe lo staff a gestire questa fase complessa. La magistratura di sorveglianza dovrebbe dare segnali urgenti di disponibilità in questa direzione. Conclusivamente, uno sguardo andrebbe rivolto ai circa 40 mila operatori penitenziari, compresi medici e infermieri delle Asl. Vanno gratificati, socialmente ed economicamente, per il lavoro che stanno svolgendo in questa fase difficile. Sono rimasti praticamente loro a evitare che la solitudine dei detenuti si trasformi in angoscia e gesti disperati. Si percepiscono nel mondo libero sentimenti di preoccupazione, paura, incertezza. Le nostre libertà sono in parte limitate. Di fatto siamo chiusi nei nostri quartieri, nei nostri posti di lavoro. E chi abita nelle zone rosse sta sperimentando condizioni di vita prossime alla galera. Da questa esperienza di ansia e restrizione su scala globale potremmo uscirne malmessi ma anche con più senso di solidarietà, fiducia e responsabilità comunitaria. Da questa condizione di semi-liberi potremmo uscirne anche con un tasso di maggiore empatia verso chi detenuto lo è davvero. Indulto contro il Coronavirus, per restare umani di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 7 marzo 2020 Pensando all’emergenza Coronavirus - a questa epidemia che può diventare un’occasione per riflettere su noi stessi e per non trattare gli altri come estranei e appestati, come dice il filosofo Galimberti - non posso non pensare alla situazione delle carceri. Un po’ perché da oltre dieci anni ho imparato a conoscere cosa è e cosa fa il carcere, e un po’ perché conosco le tante persone che vi sono rinchiuse e con le quali ho avviato e avviato progetti legati alla scrittura, all’editoria, al teatro. Conoscenza diretta dunque che mi permette di dire che di fronte a questa epidemia al momento l’Amministrazione penitenziaria e lo stesso Ministero di Giustizia stanno solo “sperando che non accada nulla” senza mettere in campo le pur minime misure per eliminare alla base qualsiasi batterio o virus o agente contaminante. Incapaci strutturalmente, costretti a fare i conti con strutture da medioevo infestate da topi, sovraffollate all’inverosimile (oltre sessantamila detenuti, 47 mila posti effettivi), l’unica cosa che Dap e Ministero hanno saputo fare ad oggi è quella di avere dato via libera a provvedimenti che tolgono diritti e penalizzano ancora di più i detenuti come ad esempio il blocco o la riduzione dei colloqui, il blocco o la riduzione delle attività trattamentali, la sospensione degli ingressi dei volontari. Come se il Covid-19 potesse essere portato all’interno solo dai parenti dei detenuti e dai volontari e non da medici, infermieri, educatori ed agenti di polizia. Certo il coraggio non è di tutti, ma un minimo di lungimiranza in chi lavora in questo settore non sarebbe male. Nelle condizioni in cui si trovano oggi le carceri italiane, come documenta ad esempio l’Osservatorio delle Camere penali (“Gravissima la situazione igienico-sanitaria, difficoltà e ritardi nella cura delle patologie, problemi nell’approvvigionamento dei farmaci, celle di pochi metri quadrati per 4, 6, 8 detenuti e chiuse in alcuni casi da 16 a 20 ore su 24, acqua calda a singhiozzo o addirittura un’eccezione…), per evitare epidemie al suo interno, e dunque il trasferimento d’urgenza in ospedale di detenuti eventualmente affetti da Coronavirus - aggravando perciò il sistema sanitario nazionale sempre più a corto di posti letto e di sale di rianimazione (dopo i tagli alla sanità di questi ultimi anni) - io ritengo che la strada da percorrere sia assolutamente (anche se non l’unica strada) la riduzione del numero dei presenti negli istituti di pena. In concreto: 1) scarcerazione e invio ai domiciliari di anziani, paralitici, malati gravi, persone in uno stato di salute incompatibile con il carcere (Aids, tumori, cardiopatie), 2) indulto per tutti i detenuti con pene inferiori ai tre anni, 3) scarcerazione di 54 mamme e dei loro 59 bambini attualmente detenuti in 9 istituti. Tre strade che nascono da queste considerazioni: 1) anziani e malati in carcere non ci dovrebbero stare visto che prima di tutto vanno tutelati il diritto alla salute, il rispetto della dignità e l’umanizzazione del trattamento, punti fermi e garantiti dalla Costituzione, dalla riforma del 1975, dalla legge Gozzini del 1986, dal nuovo regolamento penitenziario del 2000, dalle tante Raccomandazioni del Consiglio d’Europa, eccetera; 2) al 31 dicembre 2019 sono 22.999 i detenuti che sono al termine della loro pena: tra loro ad esempio persone che hanno già scontato 28 anni e ne devono scontare solo due, oppure persone che sono state recentemente incarcerate per un cumulo di pena di uno, due o tre anni e per un fatto magari accaduto dieci anni prima. Per essere precisi: 8.682 le persone che hanno da scontare in carcere ancora un periodo inferiore a un anno, 8.144 con un residuo di pena di due anni e 6.171 persone che devono restare ancora in carcere per un periodo fra i due e i tre anni. 3) “Mai più bambini in carcere” è una frase che ho sentito dire ogni anno e da almeno dieci anni sento dire da ministri, politici, governanti vari, di tutti i partiti, di tutti i colori. Nel frattempo, in carcere, quei 59 bambini la prima parola che imparano non è “mamma”, ma “ispettore apri”. Tre provvedimenti, a mio avviso, per evitare una eventuale crisi, per venire concretamente incontro (e non con divieti o palliativi) alle paure che ci sono tra i detenuti, soprattutto per cercare la buona cura per restare umani, come ci invita a fare il comico-scrittore Alessandro Bergonzoni. *Giornalista, direttore di “Voci di dentro” Amnistia e indulto servono, eccome. Parola di giudice di Mariolina Panasiti* Il Riformista, 7 marzo 2020 Ridurre il sovraffollamento carcerario, contenere l’afflusso nei palazzi di giustizia permetterebbe di contrastare il contagio. Perfino l’Iran ha deciso di scarcerare 54mila detenuti. Gentile direttore, in queste giornate cosi convulse per l’emergenza epidemica, due notizie hanno attratto la mia attenzione. La notizia che nella Repubblica Iraniana è stata disposta la scarcerazione di 54.000 detenuti, negativi al test Coronavirus e con pena residua da scontare non superiore a cinque anni, e la proposta fatta dall’on. Rita Bernardini riferita alla sollecitazione al nostro Parlamento ad emanare provvedimenti di amnistia, di indulto e di autorizzazione alle Procure della Repubblica ed alle Procure Generali di differimento nella emissione di ordini di esecuzione pena in conseguenza della definitività della condanna. Pare evidente che la eccezionalità della situazione dovrebbe consigliare immediati interventi che riguardino la esecuzione delle pene. Le proposte dell’on. Bernardini potrebbero essere ritenute coerente contributo di riflessione alla soluzione, o, comunque, al contenimento, dei problemi, data l’eccezionale emergenza che stiamo vivendo, emergenza che appare essere, fm qui, dai tempi, dalla consistenza e dalle complessive dimensioni ancora non conosciute. La previsione, che potrebbe conseguire a decretazione di urgenza, della sospensione della emissione di ordini di esecuzione pena, è agevolmente realizzabile in tempi strettissimi. Si tratta semplicemente di disporre con Decreto Legge che la emissione dell’ordine di esecuzione della pena venga differito, con caratteristiche di temporaneità, fino al cessare dell’emergenza, così evitando che persone che provengono dalla libertà, immessi nei circuiti carcerari, possano propagare il virus, ovvero possano contribuire alla nota condizione di sovraffollamento -faticosamente affrontata negli ultimi anni con provvedimenti di contenimento della popolazione carceraria- contribuendo a determinare la propagazione della epidemia in ambienti in cui il controllo e la prevenzione sono assai più difficili. Contribuirebbe efficacemente, quindi, ad abbassare quel livello di sovraffollamento carcerario, particolarmente dannoso nelle condizioni attuali, che anche per il passato ha determinato la attenzione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con conseguenti condanne del nostro Paese. Tra l’altro una determinazione nel senso ipotizzato non si risolverebbe nella rinunzia alla esecuzione della pena, ma soltanto in un riferimento, data la eccezionalità del momento, a periodi in cui sia possibile garantire condizioni di salute adeguate presso i penitenziari, senza sottoporre oltre che le persone detenute, anche gli addetti al sistema penitenziario a un surplus di lavoro e di attenzioni in questo momento particolare. Eventualmente potrebbero essere previste eccezioni per talune tipologie di reati che destano particolare allarme nell’opinione pubblica. Quanto ai provvedimenti di clemenza, amnistia e indulto, certo di non velocissima emanazione, potrebbero però essere utili a più risultati. Potrebbero, infatti, contribuire a determinare, nella situazione emergenziale attuale, un immediato contenimento della popolazione carceraria, soprattutto l’indulto; un più contenuto e mediato contenimento della popolazione stessa, la amnistia (sostanzialmente riguardando questa, per i suoi effetti sulla popolazione carceraria, quei condannati che, per effetto dei cumuli delle pene, ovvero per la revoca di precedenti benefici, finirebbero con l’essere destinatari di provvedimenti di esecuzione della pena). La amnistia, in particolare, però, potrebbe contribuire a contenere l’afflusso di pubblico presso i palazzi di giustizia, soprattutto presso i Tribunali nella fase dibattimentale: anche se sono pure allo studio in queste ore percorsi di sospensione limitata delle udienze per l’immediato futuro epidemico, non può pensarsi ad un generalizzato e prolungato differimento dell’attività giurisdizionale, qualora l’epidemia dovesse durare ancora parecchi mesi. Potrebbe ipotizzarsi una sorta di “accantonamento” della celebrazione di alcuni procedimenti per reati che non destino particolare allarme sociale, indicati preventivamente o dal legislatore o quanto meno dal Cani in base al già utilizzato parametro del criterio prioritario nella trattazione degli affari. Ecco, però, che la amnistia consentirebbe di non celebrare tutta una predeterminata tipologia di procedimenti, producendo l’effetto di evitare l’accesso ai palazzi di giustizia di imputati e testimoni per reati di contenuta gravità, per i quali è prevedibile la irrogazione di pene da scontare prevalentemente in esecuzione esterna. Amnistia e indulto potrebbero produrre l’effetto di decongestionare così anche gli Uffici della Esecuzione Penale Esterna (noti con l’acronimo U.E.P.E.) per la gestione di esecuzione di pene brevi in forma alternativa, esplicando una efficacia più ampia ed ulteriore rispetto all’attuale fase epidemica, contribuendo utilmente a mitigare tutte quelle ricadute sui detti Uffici prodottesi negli ultimi anni in conseguenza di tutta una serie ulteriore di competenze attribuite per effetto delle iniziative legislative (riguardanti la cognizione, ovvero la fase esecutiva) volte a pervenire ad uno sfoltimento della popolazione carceraria, implemento di competenze realizzato, prevalentemente, ad organici invariati. Non è questa certo la sede per affrontare dettagliatamente la tematica dell’amnistia, ma solo per rammentare che dalla data della emanazione dell’ultimo provvedimento di demenza (D.P.R. 12.4.1990 n. 75), alla reale funzione deflattiva dell’istituto hanno supplito altri istituti, quali la messa alla prova (il cui “carico” è finito con il gravare sull’Uepe), e la non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Oltre, eventualmente, in taluni casi, la prescrizione dei reati, per effetto del decorso del tempo, qualora siano risultati superati i tempi per la celebrazione del giudizio. *Presidente IX Sezione penale del Tribunale di Milano. Componente Cdc Anm Coronavirus. Pene alternative, amnistia e indulto: questi gli unici vaccini per i detenuti di Carmelo Musumeci agoravox.it, 7 marzo 2020 Un grazie alla giornalista Selvaggia Lucarelli per la sua iniziativa di chiedere ai parenti dei detenuti di spiegare “chi avete in carcere, in quale carcere, cosa vi spaventa, perché siete preoccupati e cosa chiedete”. Le autorità iraniane hanno stabilito il trasferimento di 54mila detenuti agli arresti domiciliari per evitare i rischi di diffusione del contagio da coronavirus nelle carceri. E l’Italia che fa, a parte blindare le carceri come delle scatole di tonno? In alcune carceri sono stati vietati o limitati i colloqui con i familiari e volontari. In altri, bloccati permessi premio e lavoro all’esterno. Non so se queste misure possano servire a qualcosa, a parte fare più male ai detenuti e alle loro famiglie che al coronavirus, perché il contagio può entrare e uscire dal carcere con le guardie e tutte le persone che entrano per lavoro. Non sarebbe più saggio, per evitare la diffusione del coronavirus nelle prigioni, fare uscire più detenuti possibili? O almeno quelli che devono scontare una pena fino a 5 anni? Sono consapevole che eventuali provvedimenti del genere farebbero perdere consensi elettorali e certi partiti con gli slogan “Fateli marcire in galera”, “Ci vorrebbe la pena di morte”, “Se la sono cercata” si leccherebbero i baffi se si avesse il coraggio di prendere decisioni forti come quelle prese dalle autorità iraniane. Poi, sinceramente, se si diffondesse il contagio in carcere e morissero qualche centinaio, o migliaio, di avanzi di galera, a chi importerebbe? Qualche politico direbbe di aver sconfitto il sovraffollamento prima ancora di sconfiggere il coronavirus. Molti carceri a causa del sovraffollamento stanno diventando dei buchi neri, i prigionieri vengono risucchiati, macinati, tritati dalla negazione dei più elementari diritti umani. E molti di loro vivono in condizioni di promiscuità e ora anche con la paura di essere contagiati dal coronavirus. Perché non pensare seriamente ad un provvedimento di amnistia e indulto prima che accada il peggio? In questi giorni sto ricevendo dai miei ex compagni delle lettere dove mi parlano del coronavirus e del sovraffollamento, vi riporto alcuni brani: “Ciao Carmelo, il carcere di Padova ha sospeso i colloqui con le nostre famiglie, possiamo solo utilizzare Skype per metterci in contatto con loro, ma ci sono solo due postazioni per 800 detenuti. Comunque, ci sono strani trasferimenti di alcuni detenuti e gira voce fra le sezioni che il virus è già scoppiato e tengono la cosa segreta per evitare rivolte.” “Caro Carmelo, come te la passi? Qui sempre peggio. Sono arrivati altri detenuti dal continente e non sanno dove metterli… Per fortuna la mia cella è così piccola che non ci sto neppure io e posso continuare a stare da solo. Nel cortile del passeggio non si parla altro che di questo coronavirus.” “Caro Amico, non accendo più neppure la televisione, non fanno altro che parlare del coronavirus. E qui hanno messo la seconda branda a quasi tutte le celle e da un paio di giorni hanno messo le brande nelle salette della socialità, per i nuovi giunti, perché nessuno li vuole in cella per paura che siano contagiati. A me personalmente non fa paura questo di virus perché prima muoio e prima esco dal carcere, ma vedrai che sfortunato come sono non lo prenderò.” “Se qui prima era un cimitero, adesso lo è ancora di più: persino i volontari, insieme al personale civile, sono spariti. Dicono che lo fanno per proteggerci. Quello stronzo dell’avvocato ha detto alla mia famiglia che non mi è venuto a trovare per paura di essere contagiato, ma a noi nessuno pensa? Sottoscrivono anche: Associazione Liberarsi Onlus Associazione Yairaha Onlus Katya Maugeri, del sicilianetwork.info I colloqui al tempo del Coronavirus: ora non ci restano che le lettere... a cura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 marzo 2020 Ci scrive la compagna di un detenuto recluso in una delle carceri lombarde. Racconta le vicissitudini dei primi colloqui, quando ancora potevano essere svolti adottando precauzioni per evitare contagi. Scene surreali, la paura di avere qualche grado di febbre in più, la solitudine, la promessa di rivedersi alla prossima visita. Poi la brusca interruzione dei colloqui. Se ne riparlerà alla fine dell’epidemia. All’inizio il colloquio ha tenuto duro. Certo, con delle limitazioni, ma, in un momento emergenziale, del tutto accettabili e giustificabili. Colloqui vietati ai bambini sotto i 12 anni, un solo familiare ammesso ogni persona detenuta, obbligo dell’utilizzo della mascherina da parte del familiare, controllo della temperatura all’ingresso. Il primo colloquio in tempo di coronavirus ha avuto una partenza a singhiozzo, prima confermato, in un secondo momento pareva dovesse essere stato annullato. Ma la speranza è sempre l’ultima a morire e così la mattina prevista mi reco lo stesso a colloquio. L’accesso agli uffici è sbarrato da un paravento e da una porta a vetro con un foro all’altezza della fronte. L’accesso si sarebbe effettuato previa compilazione di un’autodichiarazione in merito alla non residenza nella zona rossa e al controllo della temperatura. Fortunatamente il nuovo confine ha lasciato il libero accesso ai bagni (senza sapone!) e alle macchinette distributrici di viveri e bevande. La giornata è calda e soleggiata, si sta volentieri fuori, al sole. Siamo solo in 5. La mascherina è il vero lasciapassare, un uomo non ce l’ha e si dispera; arriva da lontano, è sveglio dalle 3 del mattino, non può rinunciare al colloquio per via della mascherina. Le guardie non ne hanno: “sapevate che il colloquio si poteva fare solo con mascherina”. Quel “sapevate” è tutto da capire, visto che le notizie ciascuno se le è reperite da solo sui vari social o con il passaparola. Fortunatamente una signora estrae dalla borsa le introvabili mascherine e gliene offre una. In questi casi la solidarietà è forte. Nell’attesa un po’ si legge, un po’ si fuma, un po’ si chiacchiera. Un ragazzo chiede come mai non ha visto posti di blocco lungo le strade: pensava di trovarsi nella zona rossa! In questo scenario, già in parte surreale, iniziano le operazioni di controllo. Al di là del vetro ci sono un’agente donna e una persona con il camice verde che brandisce lo strumento della selezione: un termometro ad infrarossi. Il primo ad appoggiare la fronte al foro nel vetro divisorio supera la prova. Al secondo, invece, l’accesso viene negato: temperatura 37°. Anche alla seconda possibilità concessa dal potere il verdetto è negativo. L’incontro con il suo caro è rimandato. Da oggi le relazioni affettive in carcere hanno un nemico in più, la temperatura oltre i 37°. Anche per una seconda persona il termometro dice 37,4 e un altro familiare viene mandato via, la sola concessione è di far entrare il pacco. Io, al secondo diniego, mi spavento, sono rimasta un’ora al sole come una lucertola, prendo tempo e vado in bagno, polsi e fronte sotto l’acqua gelata. Obiettivo raggiunto. Entro e, per oggi, la mia relazione affettiva è blindata, da lì non si torna più indietro. Consegnati i pacchi e depositati gli effetti personali negli armadietti i controlli oggi sono quasi informali. L’agente donna ci chiama: “donnine venite qui che vi controllo”. Eccezionalmente viene concesso di portare all’interno la regina Amuchina. La distanza di sicurezza (droplet per i precisi) per noi parenti è facile da rispettare, siamo rimasti solo in tre. Fino a qui tutti indossiamo la mascherina, parenti e agenti. Nell’area colloqui, invece, le guardie non portano la mascherina. Visto che siamo in pochi ognuno è destinato ad una sala diversa, dunque, pericolo contagio per assembramento uguale a zero. Pochi attimi e arriva il mio compagno, spalle curve, volto provato, sguardo preoccupato, ed è senza mascherina. Baci e abbracci; tempo 15 secondi irrompono nella stanza due guardie minacciose: “signora, se non rimette la mascherina sospendiamo il colloquio”. Mi dicono che il pericolo “viene da fuori” (appunto, anche loro, come me, vengono da fuori, ma in questo luogo, dove sembra di starci solo per gentile concessione e non per diritto, meglio evitare polemiche). Fare il colloquio da soli nella stanza è molto bello. Non è necessario parlare a bassa voce per non aumentare il frastuono, ma anche per non far sentire agli altri i propri discorsi. La preoccupazione sono i tempi, il mio compagno, veterano del carcere, sa che ritornare alla normalità dentro richiede sempre molto più tempo, rispetto a fuori. Ci salutiamo con la promessa di rivederci la settimana prossima. La lontananza pesa molto e la voglia di rivederlo il prima possibile mi fa anticipare il secondo colloquio. Per non rischiare la bocciatura, mezz’ora prima del fatidico controllo temperatura prendo una tachipirina, male non fa. Questa volta siamo in sei, tutte donne, tutte munite di mascherina e tutte in salute. A provare la temperatura non c’è più il “camice verde”, ma solo un’agente in divisa blu. Anche questa volta la perquisizione avviene “di gruppo”, tanto siamo tutte donne. Nella sala d’attesa sono comparse due nuove disposizioni. È fatto divieto per le persone detenute portare bevande e generi alimentari nella sala colloqui. Si deve sapere che, subito dopo i saluti, la prima cosa che tutti fanno è apparecchiare il tavolo, vale a dire mettere una tovaglia e poi riempirla con bibite, patatine, merendine… da consumare insieme. Una scarna riproduzione di un ambiente familiare, ma che in qualche modo rende felici e appaga il bisogno di intimità. Da oggi la tavola imbandita è fuori legge. L’altra disposizione riguarda i colloqui non consumati; per ogni colloquio annullato è possibile sostituirlo con una telefonata da 10 minuti. La situazione appare sempre più grave e allarmante. Tuttavia, si va incontro al proprio caro con il sorriso, si cerca di pensare al futuro. Questa volta tanti abbracci ma niente baci, anche se la stanza è ancora una volta tutta per noi. Parlare con la mascherina modifica un po’ la voce e per chi non è abituato dopo un po’ diventa una tortura, eppure si fa finta di niente, l’importante è mantenere in vita la relazione, anche in regime di coronavirus. Io vorrei tornare un’altra volta a colloquio, nella stessa settimana, ma il rischio è di rimanere 15 giorni senza vedersi e dentro è tutto ancora più complicato. Le giornate trascorrono lente, senza fare niente, senza vedere nessuno, senza sapere. All’uscita dalla sala colloqui la guardia ci dice: “toglietevi pure un po’ la mascherina”. Distribuzione di umanità gratuita o tanto le mascherine non servono a nulla? Quando esci pensi al tuo compagno che ritorna nella stanza, sdraiato sulla branda ad aspettare che il tempo passi. L’unica immagine che ti consola è il pacco che a breve gli verrà consegnato con le cose cucinate, l’odore di casa riempirà la cella. Io devo decidere se anticipare il prossimo colloquio, che nel dubbio ho già prenotato, ma il decreto 2 marzo 2020 n° 9 decide per me. a decorrere dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto sino alla data del 31 marzo 2020 i colloqui sono svolti a distanza. Chiamato l’ufficio colloqui mi conferma quanto sopra, ma vista la prenotazione già effettuata posso consegnare il “pacco”. Magra consolazione, ma per non soccombere ci si appella a qualsiasi brandello di normalità. Così, come ogni settimana, ho portato il pacco in carcere, solo che questa volta il pacco arriverà prima di me, anzi io non arriverò proprio. Tutto è rinviato al 31 marzo. Nonostante le misure di precauzione adottate anche i colloqui sono stati spenti. Tra tutte le restrizioni di questi giorni questa è l’unica ad avere già una data così lontana. È già stabilito che per un mese non si faranno colloqui, comunque vadano le cose. Come a dire: “una volta deciso non ci si pensa più”. Questo decreto ha reciso l’ultimo contatto vivo con l’esterno visto che tutto il resto era già stato soppresso nei giorni scorsi. I nostri cari sono soli, isolati. Si sta infliggendo a tutti, persone detenute e loro familiari, un regime di carcere duro, senza colpe. Ora, io che non ho il numero fisso autorizzato a ricevere le chiamate, posso solo aspettare che mi venga recapitata una lettera, forse tra una o due settimane. “Adotta uno scrittore” nelle carceri: il libro come leva per il cambiamento di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 7 marzo 2020 Educare alla lettura e creare momenti di condivisione e crescita culturale attraverso il potente strumento del libro: con questa finalità “Adotta uno scrittore”, iniziativa del Salone Internazionale del Libro di Torino, anche quest’anno ha scelto di coinvolgere nei propri progetti il mondo carcerario. Gli autori, oltre che nelle scuole, entreranno così anche nelle strutture penitenziarie per educare alla bellezza, alla democrazia e alla coscienza civile attraverso la cultura e la lettura. Per la sua diciottesima edizione, l’iniziativa ha visto crescere il numero delle scuole carcerarie coinvolte: nel 2020, infatti, prendono parte al progetto le scuole carcerarie di Torino, Saluzzo, Alessandria, Asti, Verona, Paola (Cosenza), Lecce, Palermo, Sassari, Potenza e Pozzuoli (Napoli). L’iniziativa è sostenuta dall’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte in collaborazione con la Fondazione Con il Sud. In questi 17 anni “Adotta uno scrittore” ha coinvolto 11.521 studenti di 369 classi e, inoltre, 12 case di reclusione, un ospedale e un’università. Questo il programma: Bruno Gambarotta incontra i detenuti della Casa di Reclusione CPIA3 di Asti, la sua città d’origine. Lo scrittore Fabio Geda verrà adottato dalla Casa di Reclusione Rodolfo Morandi e dagli studenti dell’IIS Soleri Bertoni di Saluzzo e dell’Arimondi Eula di Savigliano. Chiara Valerio, scrittrice, saggista ed editor, è ospite della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Mauro Berruto, CT della Nazionale italiana maschile di pallavolo dal 2010 al 2015, ha scritto diversi libri ed è adottato dall’Istituto Penale Minorile Ferrante Aporti di Torino. Alla Casa Circondariale di Verona Montorio, CPIA di Verona, arriverà Fulvio Ervas. Il poeta Franco Arminio sarà alla Casa Circondariale di Paola- CPIA Cosenza sezione di Paola. Paolo Di Paolo, autore di Mandami tanta vita (Feltrinelli), finalista ‘Premio Strega’ e vincitore del ‘Premio Salerno Libro d’Europa’ e del Premio Fiesole, e del suo ultimo Lontano dagli occhi (Feltrinelli), è adottato dalla Casa circondariale Femminile di Pozzuoli, CPIA di Napoli. Lelio Bonaccorso e Marco Rizzo, ospiti del Carcere Ucciardone di Palermo (Sicilia), incontreranno i detenuti a partire da Salvezza (Feltrinelli editore), reportage a fumetti di grande impatto visivo, drammatico e coinvolgente, che racconta un’operazione di salvataggio a opera di una ONG. Lo scrittore Piergiorgio Pulixi, invece, è atteso alla Casa di Reclusione di Alghero, IPSAR di Sassari. Gianluca Caporaso, poi, sarà ospite della Casa Circondariale di Potenza - CPIA di Potenza. Alla Casa di Reclusione San Michele di Alessandria interverrà l’ex magistrato, giurista e saggista Gherardo Colombo. Infine, al CPIA presso la Casa Circondariale di Lecce N.C. sarà presente Massimiliano Virgilio l’autore occidentale più venduto in Cina, il quale ha da poco pubblicato il romanzo Le creature (Rizzoli). Giustizia, nelle zone a rischio stop ai processi fino al 31 maggio di Liana Milella La Repubblica, 7 marzo 2020 Ma si faranno quelli urgenti. I tribunali non chiudono. Decidono i capi degli uffici. Sì alle udienze per divorzi, minori, espulsioni. Stop ai permessi per i detenuti. Fino al 31 maggio scatta il massimo stato di emergenza possibile in tutti i tribunali italiani. Con il rinvio dei processi, sia civili che penali, che non hanno carattere di urgenza. Stop anche ai colloqui in carcere e ai permessi per i detenuti. Ma attenzione: la giustizia non è la scuola, quindi gli uffici giudiziari non solo non chiudono i battenti, ma non ci sarà alcun tipo di automatismo. Si valuterà, caso per caso, quale processo effettivamente debba essere rinviato a dopo il 31 maggio e quale invece debba essere necessariamente fatto. Come per tutti i casi che riguardano le famiglie (ad esempio i divorzi), ma soprattutto i minori. Il decreto legge di via Arenula - Tre articoli, e poco più di tre pagine. Chi ha potuto vedere il decreto legge del Guardasigilli Alfonso Bonafede, cui sta lavorando il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, lo descrive come un “cantiere tuttora aperto” perché fino all’ultimo momento potrebbe cambiare l’elenco delle emergenze non rinviabili. Perché, per 24 ore, proprio questo è stato l’oggetto di discussione in via Arenula: intervenire sul Coronavirus, per evitare qualsiasi tipo di possibile diffusione, ma al contempo non bloccare la macchina della giustizia italiana. Perché questo sarebbe un danno troppo grande, rispetto al quale - è il messaggio del ministero - chi opera in quel mondo, magistrati, avvocati, agenti penitenziari, ma anche parenti dei detenuti - devono fare ognuno la propria parte di responsabilità. Il rinvio a dopo il 31 maggio - Saranno i capi degli uffici giudiziari (il presidente della Corte di appello e il procuratore della Repubblica), dopo aver consultato sia i responsabili sanitari della Regione, sia il Consiglio dell’ordine degli avvocati, a decidere le misure sulla vita nei palazzi di giustizia e quindi sui processi da fare oppure da rinviare con l’obiettivo di evitare sia gli assembramenti che i contatti troppo ravvicinati tra le persone. Le regole obbligatorie - I palazzi di giustizia, quindi, non chiudono. Ma vi potrà entrare solo chi potrà dimostrare di dover compiere atti effettivamente urgenti. Quindi anche gli orari di ingresso saranno ridotti. Mentre verrà potenziato un sistema di prenotazioni per fare in modo che chi deve compiere un atto urgente possa entrare in tribunale ad un orario prestabilito. I processi civili e penali - Il decreto è molto dettagliato nel capitolo che riguarda i processi. A cominciare dal divieto della presenza del pubblico. Anche per quelli civili saranno possibili collegamenti “da remoto” che garantiscano il contraddittorio ma evitino contatti diretti tra le persone. Quanto al rinvio delle udienze dopo il 31 maggio sono previste delle deroghe. In ambito civile, per esempio, si svolgeranno comunque le udienze che riguardano i divorzi, quando vi sia da decidere il mantenimento. Si faranno i processi sugli abusi familiari, ma anche quelli sulle espulsioni, nonché tutte le udienze che riguardano i minorenni che quasi sempre hanno carattere di urgenza. Saranno comunque i giudici a decidere caso per caso. Ovviamente, tra le urgenze, ci saranno soprattutto i processi con persone detenute, anche in custodia cautelare. La prescrizione bloccata - Per tutti i processi rinviati la prescrizione resterà bloccata. Quindi non si perderà un solo giorno. Ricomincerà a decorrere quando l’emergenza sanitaria sarà terminata. Le regole per i detenuti - Videoconferenze per tutti i detenuti che devono prendere parte a un processo, ad esempio per essere interrogati. Blocco degli incontri direttivo tra detenuti e familiari, che saranno comunque garantiti ma probabilmente via telefono. Permessi premio e semilibertà bloccate ma solo dopo il via libera del Garante dei detenuti d’intesa con il magistrato di sorveglianza. “Decidano i magistrati se fermare tutto”, l’ultimo tentativo del Dl tribunali di Errico Novi Il Dubbio, 7 marzo 2020 Il testo portato da Bonafede a Palazzo Chigi attribuisce ai capi degli uffici la facoltà di inviare dopo giugno le udienze. Il no di Penalisti e Anm. Una grande responsabilità assegnata ai capi degli uffici giudiziari. Il governo, guardasigilli Bonafede in testa, prova a respingere l’assalto del coronavirus nei tribunali senza fermare di un colpo, e in tutto il Paese, la giustizia. E lo fa appunto con un decreto che attribuisce la decisione, caso per caso, a presidenti dei Tribunali e procuratori “sentiti l’Asl e il Consiglio dell’Ordine degli avvocati”. Una scelta difficile, impegnativa, discussa fino all’ultimo, ieri sera, da un Consiglio dei ministri ancora in corso al momento di mandare in stampa questa edizione del giornale. E che trova, oltretutto, il no dell’Anm: una “disciplina dell’emergenza lasciata ai capi dei singoli uffici” è “inadeguata” a prevenire la “diffusione del contagio”, avverte il “sindacato delle toghe” prima ancora che inizi a circolare una prima bozza del decreto. No ad “applicazioni differenziate”, visto che i tribunali sono “quotidianamente frequentati da una moltitudine di persone provenienti da diverse parti del territorio nazionale”. C’è insomma un no, da parte della magistratura associata, sull’idea di attribuire proprio ai giudici una responsabilità eccessiva nella prevenzione del coronavirus. E c’è forse anche il timore di un corto circuito con l’avvocatura, considerato che l’Ocf ha proclamato un’astensione, non riconosciuta dai vertici di alcune Corti d’appello ma potenzialmente insidiosa proprio per i magistrati. Perché qualora qualche giudice negasse il legittimo impedimento di un avvocato astenuto e poi magari in quell’ufficio si verificassero contagi proprio tra i difensori, è chiaro che le conseguenze per quel giudice diverrebbero pesanti. È insomma una pista che sarebbe eufemistico definire scivolosa, quella dove prova ad atterrare il “decreto Tribunali” del governo proposto da Bonafede. Eppure si tratta dello sforzo, appunto, dichiarato fin dalle premesse del testo, di “contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid- 19” ma di “garantire, per quanto possibile, continuità ed efficienza del servizio giustizia”. Perciò dovrebbero essere i capi degli uffici, secondo il guardasigilli, a ordinare la misura più estrema, ossia il rinvio di tutte le udienze non urgenti a dopo il 30 giugno (addirittura) solo quando risultino insufficienti le altre graduali restrizioni pure fissate dal provvedimento per limitare l’afflusso, e “consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie”, così come definiti dai provvedimenti degli ultimi giorni. Ecco lo sforzo: una complicatissima e dettagliata modularità delle decisioni. Una responsabilità però che non dovrebbe vedere soli i magistrati. Perché l’articolo 1 del decreto prevede che i dirigenti degli uffici decidano “sentito il Consiglio degli Ordine degli avvocati”, oltre che l’Autorità sanitaria regionale. Ovvero: deve esserci una assunzione di responsabilità almeno in parte condivisa, fra magistrati e avvocati. Ed è chiaro che se il presidente di un Coa manifestasse al presidente di un certo Tribunale o al capo di una certa Procura la sua assoluta e radicale contrarietà a proseguire le attività giurisdizionali - sempre eccezion fatta per quelle urgenti - sarebbe assai difficile, viste anche le tensioni sull’astensione e il “contagio ormai virale” evocato ieri anche dall’Anm, che quel presidente di Tribunale insista nell’andare avanti. Ma appunto, si tratta di un quadro così delicato, di un castello così precariamente in equilibrio, che fino alla tarda serata di ieri il Consiglio dei ministri ha discusso sulla possibilità di una misura più drastica: vale a dire sospendere indiscriminatamente le attività non urgenti fino a tutto il mese di marzo, per poi valutare a fine mese se passare alla linea modulare definita dal decreto. E la proposta iniziale di via Arenula ha anche l’ambizione di recepire i criteri delle linee guida approvate, esattamente una settimana prima, nel protocollo fra lo stesso ministro della Giustizia e il presidente del Cnf Andrea Mascherin. Vuol dire che, sempre per citare la prima bozza portata in Consiglio dei ministri ieri sera da Bonafede, le precauzioni devono consentire innanzitutto di evitare “assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”. È l’obiettivo indicato più volte dall’avvocatura, e che giovedì ha ispirato anche l’istituzione del tavolo tecnico avvocati- magistrati a Napoli, proprio con l’obiettivo di calibrare insieme i necessari presupposti della eventuale necessaria “rarefazione” nei palazzi di giustizia. Un grande riconoscimento dunque proprio al ruolo della professione forense. Ma anche una prova di tenuta che suscita più di una preoccupazione non solo nella citata Anm (che annulla persino la riunione del proprio direttivo fissata per oggi), ma anche in numerose rappresentanze forensi. Se infatti l’Ocf ha proclamato l’astensione iniziata ieri, e ritenuta illegittima dai capi di alcuni distretti (come riferito in altro servizio, ndr), vanno citate come minimo le perplessità avanzate ancora dall’Unione Camere penali e dagli avvocati tributaristi. Nel primo caso, la giunta presieduta da Gian Domenico Caiazza ricorre a due “alert”. Prima una lettera rivolta proprio al ministro Bonafede in cui gli viene chiesto, “se si è deciso di chiudere le scuole”, perché non si chiudano allora “salvo i processi urgenti e indifferibili” anche “i tribunali”. È ancora “meno comprensibile”, per i penalisti, “l’idea di rimettere ogni decisione ai responsabili degli uffici giudiziari, senza vincolarli a parametri univoci e categorici, regolati dagli unici criteri rilevanti, cioè quelli della scienza medica”. Certo, nella proposta di Bonafede, i capi degli uffici devono sentire, oltre ai Coa, le Asl. Però per l’Ucpi “regole di comportamento inspiegabilmente diverse adottate in relazione a situazioni equivalenti” finirebbero per creare “sconcerto, rabbia, smarrimento”. Poi, quando la prima bozza del “Dl Tribunali” inizia a circolare, l’Unione Camere penali diffonde una seconda nota, con un monito ancora più deciso: “È inconcepibile che non sia la legge a definire i criteri di urgenza per la eccezionale celebrazione dei processi, ma che essi siano delegati, senza alcuna predeterminazione normativa, alla magistratura, e addirittura a quella inquirente”, si scandisce. Delicata pure la questione posta dall’Unione nazionale degli avvocati tributaristi, secondo i quali la “giustizia tributaria” è “l’unica tra le giurisdizioni non contemplata da alcun provvedimento d’urgenza”. Secondo l’Uncat si dovrebbe, ad esempio, dare “attuazione al processo tributario a distanza”. E ancora, il presidente dell’Anf Luigi Pansini, in una dichiarazione inviata a questo giornale, ritiene necessarie “chiare, precise e omogenee linee di condotta per tutti gli uffici”. Nel dettaglio, il decreto portato a Palazzo Chigi dal guardasigilli prevede misure anche estreme, come la generalizzazione, nelle udienze con detenuti, della loro partecipazione a distanza, al di là del diverso grado di restrizione dell’attività decisa dal presidente del Tribunale. I capi, a loro volta, si consultano sempre con procuratore generale e presidente della sua Corte d’appello. E, sentiti Azienda sanitaria e Coa, “adottano” le “misure” per evitare innanzitutto gli “assembramenti”. E qui si va dalla chiusura dell’accesso al pubblico all’adozione “di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze”, quindi alla riduzione del ruolo, proprio come previsto dalle linee guida ministero- Cnf, di fatto tradotte in legge dello Stato. Si può arrivare a “udienze civili” in “collegamento da remoto con ogni mezzo di comunicazione”, dunque anche con videochiamate whatsapp. Fino alla drammatica lettera g), dell’articolo 1 secondo comma (sempre in base alla prima bozza) che prevede il rinvio di tutte le udienze a dopo il 30 giugno, con le eccezioni per le “urgenti” così come definite già nel decreto 9, quello sulla “zona rossa”. Si tratta non solo dei processi con detenuti ma anche delle cause per gli “alimenti”, dei “cautelari” relativi ai “diritti della persona”, dei procedimenti per interdizione, Tso, espulsione di migranti clandestini. Ovviamente, per tutte le cause rinviate, si sospendono anche i termini, prescrizioni comprese, sia nel civile che nel penale. Si vedrà. Certo è che mai la giustizia italiana ha tentato di restare in equilibrio su un filo così sottile. Scontro sull’astensione fra Ocf e Corti d’appello di Simona Musco Il Dubbio, 7 marzo 2020 Il presidente dell’Ocf, Giovanni Malinconico, minaccia azioni legali nei confronti delle toghe pur di “tutelare i diritti degli avvocati”. “Denunceremo i giudici che ci negano il diritto all’astensione”. Il no dei Tribunali allo sciopero indetto dall’Organismo congressuale forense apre una nuova crepa tra magistratura e avvocatura. Tanto grande da spingere il presidente dell’Ocf, Giovanni Malinconico, a passare alle maniere forti, minacciando azioni legali nei confronti delle toghe pur di “tutelare i diritti degli avvocati”. A far scoppiare la polemica è la nota inviata a magistrati togati e onorari con la quale la presidente del Tribunale di Firenze ha sminuito le ragioni dell’astensione degli avvocati, disponendo il rigetto delle richieste di adesione allo sciopero. E sulla scia di Firenze, diversi Tribunali in Italia hanno deciso di opporsi alla sospensione, disponendo la celebrazione delle udienze. “Allo stato le attività giudiziarie del distretto proseguono regolarmente”, ha sottolineato la presidente Marcella Rizzo, secondo cui “l’astensione proclamata da Ocf non appare costituire un motivo legittimante gli avvocati a disertare le udienze”, in quanto non sussisterebbero “gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori”. Da qui la protesta di Malinconico, pronto a tutelare i diritti degli avvocati sia davanti alla Commissione di Garanzia per l’esercizio del diritto di sciopero, “che nulla ha contestato al riguardo”, sia in tutte le altre sedi “in ordine a eventuali reati in violazione delle prescrizioni della Presidenza del Consiglio sui corretti comportamenti da tenere per evitare la diffusione del contagio”. L’attacco di Malinconico è durissimo: di fronte ad “eventi gravissimi e purtroppo epocali” qualcuno “si permette di sindacare la gravità della situazione, spiegando che non ci sono rischi per la sicurezza, mentre notizie di quarantene e contagi si rincorrono nei palazzi di giustizia. Per tutti questi signori giudici – ha aggiunto – l’invito è di frenare la propria l’autoreferenzialità e magari leggere un giornale o guardare un tg ed eventualmente fare un giro nelle città svuotate”. Il presidente dell’Ocf ha denunciato anche la lesione dell’autonomia dei singoli giudici, nonché un’invasione di campo rispetto alla Commissione di Garanzia, “unica autorità deputata a decidere”. L’astensione, della durata di 15 giorni, è ufficialmente iniziata ieri, preso atto che per il mondo della Giustizia le misure adottate si sono rivelate “assolutamente non adeguate a ridurre ragionevolmente il rischio di contagio in relazione alle specifiche modalità di interazione che connotano le attività giudiziarie”. Sono diversi, infatti, gli avvocati e i magistrati ormai contagiati, senza contare che lo “stato degli edifici in cui viene esercitata l’attività giudiziaria”, la cui inadeguatezza non consentirebbe “un pur minimo controllo igienico- sanitario”. E di fronte alle richieste avanzate dagli avvocati di tutto il territorio, ha aggiunto Malinconico, nulla è stato fatto. E a ciò si aggiunge anche il niet di molti giudici, decisi ad andare avanti ad oltranza. Come a Firenze, anche a Grosseto il giudice monocratico si è rifiutato di accogliere l’istanza di astensione, obbligando, dunque, a celebrare le udienze. Ciò in virtù dei pochi casi registrati in zona, motivo per cui “non si ravvisano ragioni per ritenere che vi sarà un particolare affollamento di persone, con conseguente rischio di contagio”. Diversa, invece, la scelta a Venezia, che ha lasciato la questione in mano al Comitato di Garanzia, nonché a Napoli, dove il presidente della Corte d’Assise ha disposto la sospensione del processo sulla strage dei Vastarella alla Sanità, stabilendo che “il diritto alla salute prevale anche sull’orientamento della Corte Costituzionale”, che vieta l’astensione in processi con imputati detenuti. A Bari, infine, l’astensione ha fatto saltare molte udienze al palagiustizia che si trova nella sede dell’ex Telecom, dove vista la ristrettezza degli spazi è quasi impossibile rispettare le norme minime per evitare il contagio. I ragazzi del Sud, dalle baby gang di Napoli ai profughi di Idlib di Gioacchino Criaco Il Riformista, 7 marzo 2020 Mentre il mondo dei sani e dei giusti è impegnato a lapidare il coronavirus, a Idlib il popolo dei bimbi è in marcia per sfuggire alla morte, a Napoli l’esercito dei bambini si fa la guerra. Forse tutto il popolo del Sud, di quello nostro e del Sud degli altri, ha sbagliato a partire, continua a sbagliare: generazioni per cui il mondo era a una distanza notevole, lunga quanto le molte ore necessarie per raggiungere Milano e puzzolente come l’umanità in travaglio la polvere dei freni e la nafta di un treno colmo di vita in cerca di futuro. Si partiva di sera e ci si svegliava intirizziti dal freddo d’inverno o soffocati dal caldo della bella stagione. Il mondo era distante per i ragazzi passati, spiato in qualche varietà o nelle sequenze di uno sceneggiato trasmessi da una televisione senza colori. Era un pianeta difficile da raggiungere, mitizzato dai racconti di chi c’era già stato e se ne tornava indietro su una macchina nuova. Sapeva di buono, di speranza e lo si sognava a occhi aperti. Raggiungerlo, per i più, significava agguantare una laurea o un lavoro sicuro, cose sulle quali si costruiva un progetto che prometteva di essere per sempre; per alcuni voleva dire soldi veloci, una scalata sociale a prescindere da regole morali e legali. Poi, pian piano il mondo si è mosso, a quelli che sono cresciuti dopo gli è arrivato a tiro di schioppo. Oggi il mondo i ragazzi ce l’hanno davanti agli occhi, lo vedono a colori in televisione, col mouse se lo girano in un attimo in lungo e in largo. La terra la guardano da ogni angolazione e il pianeta non gli riserva più sorprese. Ce l’hanno in casa il mondo e non lo sognano più, non corrono dietro alle sue promesse. I ragazzi del sud hanno certezze che dicono che le speranze sono finite e anche se per arrivare a Roma o oltre ci metti meno tempo, le lauree servono a poco e i posti di lavoro lasciano niente in tasca e fanno svanire il domani. Sono finiti i sogni e i progetti non si possono più fare. Precario, provvisorio è il vocabolo che si sentono dire se avanzano pretese. Anche per gli uccelli da preda il mondo è diverso, lo sanno già che pallottole e manette arriveranno in fretta a spezzare vite giovanissime, e le remore anziché crescere svaniscono nella desolazione di una botta di vita, che è meglio il fuoco di un lampo che la tenue luce di una brace. I bambini del Sud sono già morti, prima dei loro coetanei di Napoli che muoiono ora, si sono massacrati sulla strada per Milano, per un Occidente qualunque: eppure erano passati per le piazze, per i circoli anarchici, per le camere del lavoro. Avevano dentro la forza enorme della ribellione, venivano da famiglie povere in cui non c’era né pane né mafia. Perché la loro rabbia non smuovesse lo stagno di una società immobile bisognava metterli sulla strada dell’autodistruzione. Le mafie sono state l’insegnante migliore, mortale. Molti dei bambini di una Napoli passata, che mordevano la polvere delle strade di quartieri tristemente noti, erano passati dagli oratori, dai centri sociali, hanno assaggiato i rudimenti della rivoluzione, prima di mangiare pane e camorra. Adesso sono in troppi per mandarli a morire tutti quanti fuori. Una camorra stracciona gli insegna a macellarsi in casa. I resti se li prende lo Stato a tenere nutrita la schiera dei morti al 41bis. I bimbi del sud si scannano perché il popolo dei furbi gli costruisce autostrade che portano al mattatoio, e i giusti si sentano sempre più giusti. E uno Stato e dei buoni veri, sotto Roma non sono mai scesi a costruire strade diverse. Mentre i puri di condotta scagliano sassi ai mostri caduti, a Napoli dei bambini cattivi si sfregiano a vicenda con un numero esorbitante di pallottole, a dimostrazione che sono piccoli anche riguardo alla perizia balistica. Lo fanno perché l’unica certezza che hanno è quella di essersi infilati in un mondo a parte, che con quello normale si incontrerà solo per un funerale, un dibattito televisivo, una pagina di giornale o un film di genere. “Liberate quell’uomo, lo dice anche la Consulta” di Simona Musco Il Dubbio, 7 marzo 2020 I giudici di Lecce applicano ai reati d’immigrazione i principi della sentenza della Corte costituzionale sulla Spazza-corrotti. La sentenza con la quale la Consulta che ha stabilito l’irretroattività della Spazza-corrotti comincia a dare i suoi frutti. E non solo per i reati ricompresi nella norma bandiera del M5s, quella che ha, di fatto, equiparato la corruzione ai reati di mafia, ma anche in materia di immigrazione. A fare “scuola”, in questo caso, è la Corte d’Appello di Lecce, che il 4 marzo ha deciso di applicare gli stessi principi affermati dai giudici della Corte costituzionale ad un caso che con la corruzione o la criminalità organizzata non ha nulla a che fare. E così ha dichiarato temporalmente inefficace l’ordine di esecuzione nei confronti di un uomo condannato per aver favorito l’ingresso di migranti in Italia, punito sulla base del “testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” del 1998. Un reato che all’epoca della sua commissione – ma anche della sua condanna – non prevedeva il divieto di accesso alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, ma che a seguito delle modifiche legislative introdotte nel 2015 è diventato ostativo, prevedendo, dunque, il divieto di concessione dei benefici. La decisione della Consulta, lo scorso 12 febbraio, ha di fatto aperto la strada a decine di ricorsi, stabilendo che se al momento della sua commissione per un reato è prevista una pena “fuori” dal carcere non è possibile trasformarla, con una legge successiva, in una pena da scontare “dentro” il carcere. E a tale principio si sono conformati anche i giudici di Lecce, secondo cui “occorre prendere atto che si è determinata una rilevante ed imprescindibile innovazione del diritto vivente con riferimento alla tematica della disciplina dell’esecuzione della pena. Il principio secondo cui le pene detentive devono essere espiate in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione – con il corollario della immediata applicazione delle modifiche normative, anche deteriori, intervenute nel periodo successivo alla commissione del reato – resta valido in linea generale, salvo che per le modifiche normative che comportano una radicale trasformazione della pena con diretta incidenza sulla libertà personale del condannato: in queste ipotesi, in ossequio all’articolo 25 comma 2 della Costituzione, restano applicabili le norme vigenti al momento del fatto”. Il caso riguarda un uomo che sulla base di tre diverse sentenze – due della Corte d’Appello di Lecce e una del Tribunale di Brindisi, pronunciate tra il 1999 e il 2013 – si trovava in carcere, sulla base di un provvedimento di esecuzione datato giugno 2017, per espiare una pena residua di tre anni e nove mesi, potendo dunque chiedere la sospensione dell’esecuzione della pena sulla base della norma in vigore al momento della commissione dei fatti. Una possibilità esclusa, però, dalle modifiche legislative del 2015, intervenute prima dell’ordine di carcerazione. I difensori dell’uomo, a febbraio scorso, hanno però sottoposto ai giudici la pronuncia della Consulta, i cui giudici erano stati chiamati in causa già nel 2019 dal magistrato di sorveglianza di Lecce che aveva contestato l’applicabilità del divieto di concessione dei benefici per i reati relativi all’immigrazione, anche in riferimento alla applicabilità delle preclusioni anche ai reati che non hanno matrice associativa, con riferimento ai quali l’incentivo alla collaborazione si presenta “privo di ragionevolezza”.Nel caso specifico, dunque, la Corte d’Appello di Lecce ha stabilito che “in ragione dell’entità della pena oggetto del provvedimento di cumulo (anni 3, mesi 9 e giorni 18 di reclusione), inferiore al limite di 4 anni di reclusione, il richiedente ha diritto alla sospensione dell’ordine di esecuzione emesso a suo carico”, ordine di esecuzione che “non può essere revocato o annullato, ma deve essere dichiarato temporalmente inefficace per consentire al condannato di presentare, nel termine di 30 giorni, la richiesta di concessione di una misura alternativa alla detenzione”. Lombardia. Il terrore del virus in carcere e il piano di emergenza di Manuela D’Alessandro agi.it, 7 marzo 2020 Una giudice di Milano bloccata all’ingresso di San Vittore perché ha la febbre e potrebbe essere infetta. L’immagine svela l’isolamento in cui versano le carceri italiane e in particolare quelle lombarde, coi detenuti ai quali sono state tolte le possibilità di avere colloqui di persona coi familiari e di uscire, nemmeno per lavorare, se non con deroghe eccezionali. Per il momento non sono stati registrati casi di coronavirus. Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato di polizia penitenziaria, informa che “nelle carceri lombarde ci sono una ventina di persone in isolamento perché hanno la febbre, non il coronavirus, per una misura di cautela. A nessuna di loro è stato fatto il tampone, perché non ci sono i criteri che valgono per tutti. Ma quando avranno febbre alta e disturbi respiratori, non resterà che metterli in ospedale e avranno già probabilmente infettato i loro compagni”. Tra esigenze di salute pubblica e anche di sicurezza, perché non è difficile immaginare subbugli dei reclusi se qualcuno di loro dovesse ammalarsi, gli istituti penitenziari affrontano un momento molto delicato. “L’epidemia arriva in una situazione già grave - spiega Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone private della libertà di Milano - determinata da due fattori: il sovraffollamento, con ottomila detenuti a fronte di una capienza di seimila in Lombardia, e i problemi particolari in tema sanitario che ci sono da sei-sette mesi. È successo che, per inadempimento di una legge regionale che ha imposto degli accorpamenti, siamo arrivati al punto che erano scaduti i contratti dei medici e non erano state fatte delle proposte per nuovi contratti. Quindi dei medici lavoravano senza contratto e altri non hanno più lavorato”. Le regole per il coronavirus sono state dettate da un susseguirsi frenetico di decreti, raccomandazioni del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e direttive di vario genere. Il problema è stato armonizzarle e metterle in ordine di gerarchia. “Non è che ogni direttore potesse scegliersi la normativa ritenuta più giusta, questo non è giustificato neanche dall’emergenza”, osserva Maisto. Per le carceri milanesi all’inizio la scelta era stata quella di lasciare la possibilità di colloqui visivi ai detenuti, mentre altrove, per esempio in Emilia Romagna, erano stati sospesi subito. Col decreto legge del 2 marzo, il governo ha stabilito che negli istituti delle regioni che hanno comuni in ‘zona rossa’ i parenti non possono accedere alle carceri e i colloqui si fanno via telefono, via skype o con videochiamata. Un’ interpretazione della disposizione ha fatto sì che questa possibilità non venisse concessa nelle carceri di massima sicurezza, come Opera. “Sono stata stamattina a Bollate - racconta l’avvocato Valentina Alberta - il cortile era pieno di gente che telefonava. Quello che non capisco è perché solo noi avvocati dobbiamo entrare con la mascherina, mentre gli operatori no. Allora che senso ha non fare entrare i parenti?”. Nel frattempo, in Lombardia sono arrivate le tende per il triage a Opera, Bollate e San Vittore. Agli avvocati viene controllata la temperatura e sono sospesi gli ingressi dei volontari per evitare assembramenti. “Non vado in carcere da due settimane - afferma Juri Aparo, psicologo che dalla fine degli anni settanta ha seguito migliaia di carcerati col suo ‘Gruppo della Trasgressionè - come volontario non posso, come operatore a Bollate potrei, ma non ci sono andato perché le attività di gruppo sono sospese. Quelli che mi chiamano, considerandomi alla stregua di un familiare, sono dispiaciuti, ma molto equilibrati, dimostrano di avere cognizione della realtà delle cose. Non posso assicurare che tutti abbiano queste stato d’animo. D’Altra parte se in carcere ci fossero dei casi di coronavirus le cose andrebbero ancora peggio”. “I detenuti considerano corrette le prescrizioni - conferma Di Giacomo - meglio così che prendersi il virus. Certo, nel momento in cui dovesse succedere ci sono anche persone irragionevoli che potrebbero dare vita a una rivolta. A questa eventualità non si è preparati. Al prefetto di Poggioreale ho chiesto di tenere pronto l’esercito. La polizia penitenziaria, in generale, non è abbastanza”. L’avvocato Maria Brucale, attivista radicale, ha altre sensazioni: “A Opera viene concessa una telefonata in più del normale. Così si ovvia all’interruzione degli affetti? I detenuti sono isolati e spaventati, bisogna aiutarli”. Per rassicurarli, i detenuti sono accompagnati in gruppi di 150 al teatro del carcere dove un’équipe di infettivologi spiega le modalità di trasmissione del contagio e i sintomi. E se il virus dovesse davvero entrare negli istituti di pena cosa succederebbe? “Sarebbe una possibile tragedia”, dice Maisto, che però rassicura: “Un piano c’è, le zone di isolamento ci sono in tutte le carceri, anche se poi bisogna fare i conti anche con eventuali falle dall’esterno”. Milano. Due detenuti del carcere di Opera in ospedale per sospetto contagio ansa.it, 7 marzo 2020 “Ci giunge notizia che due detenuti nel carcere di Opera sono stati trasferiti in ospedale per sospetta infezione da Coronavirus”. È quanto risulterebbe a Maurizio Turco e Irene Testa, segretario e tesoriere del Partito Radicale che “in attesa che il ministro della Giustizia possa informarsi ed informare il Parlamento su quanti detenuti, agenti e personale attualmente ha contratto l’infezione” chiedono se “in tutte le celle sono state distribuite confezioni di soluzioni idroalcoliche per il lavaggio delle mani (punto a dell’allegato al decreto) e disinfettanti a base di cloro o alcol per pulire le superfici (punto l); se tutte le celle garantiscono la possibilità di una distanza interpersonale di almeno un metro (punto d), infatti il ministro non può sottovalutare, anche in termini di responsabilità personale, che le carceri italiane sono luoghi sovraffollati molto al di sopra dei termini di legge. Servono misure - concludono i due esponenti dei Radicali - che vanno in senso contrario a quelle sinora proposte dal Ministro e avvallate dalla maggioranza di governo. A cominciare dall’amnistia, provvedimento indispensabile per poter attuare una efficace riforma”. L’Aquila. Raddoppiato in dieci anni il numero di detenuti alle Costarelle laquilablog.it, 7 marzo 2020 Stando ai dati diffusi dal segretario generale territoriale Uil-Pa polizia penitenziaria, menzionati in una interrogazione al ministro della Giustizia, presentata dalla deputata del Partito democratico Stefania Pezzopane, rispetto solo a pochi anni fa, il numero dei detenuti nel carcere aquilano delle Costarelle risulta raddoppiato, con inevitabili conseguenze sul carico di lavoro e sulla sicurezza degli operatori carcerari. In luogo degli 80 detenuti del 2010 da qualche tempo a L’Aquila non si scende al di sotto dei 160. Sul delicato caso del penitenziario del capoluogo abruzzese ha acceso i riflettori Ristretti orizzonti, sito di informazione e cultura dalle carceri curato da detenuti e operatori volontari. Il carcere di massima sicurezza delle Costarelle vanta un primato ben noto agli addetti ai lavori, nel senso che conta, in assoluto, il maggior numero di detenuti sottoposti al cosiddetto 41bis, la misura di isolamento a cui sono sottoposti i detenuti di mafia. La norma, la cui portata è stata estesa dopo le Stragi di Capaci e via D’Amelio, ha ricordato Ristretti orizzonti in un articolo di Carmine Alboretti, “prevede l’isolamento, nel senso che ogni camera è singola e non si accede agli spazi comuni; l’ora d’aria limitata (solo due ore al giorno e sempre in isolamento) e la sorveglianza costante effettuata da un corpo speciale della polizia penitenziaria che non ha contatti con altre forze dell’ordine; inoltre, i colloqui con la famiglia sono estremamente ridotti e avvengono senza contatto fisico, attraverso un vetro, e con una durata ristretta”. Con il raddoppiarsi dei reclusi sono inevitabilmente aumentate una serie di attività correlate che richiedono la presenza degli operatori penitenziari e quindi la moltiplicazione del carico di lavoro. “Il tutto - si legge nel testo dell’atto di sindacato ispettivo - è aggravato dal non adeguato numero di operatori carcerari a fronte di un aumento importante della popolazione detenuta”. La Pezzopane ha chiesto al Guardasigilli di sapere “quali urgenti iniziative di competenza intenda adottare, anche mediante l’incremento del personale di polizia penitenziaria presso il carcere di massima sicurezza delle Costarelle dell’Aquila, al fine di garantire adeguati standard lavorativi e di qualità della vita agli operatori penitenziari”. L’Aquila. Ingiusta detenzione di 6 anni, Petrilli sollecita il premier Il Centro, 7 marzo 2020 Giulio Petrilli torna alla carica con il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, per la sua istanza di risarcimento per ingiusta detenzione. “Ho sollecitato una risposta alla mia istanza presentata alla presidenza del consiglio il 19 settembre 2019”, scrive Petrilli in una nota, “per il risarcimento di sei anni di ingiusta detenzione subiti con l’accusa di banda armata. La stessa istanza, il 2 ottobre scorso, è stata inviata al ministro della Giustizia per un parere. Ora tutto è nelle mani del premier”. Pistoia. Al via il crowdfunding per realizzare cortometraggi nel carcere Santa Caterina Il Tirreno, 7 marzo 2020 Il progetto dell’Electra Teatro di Pistoia con la regia di Giuseppe Tesi coinvolgerà, oltre ai detenuti, anche l’attrice ronconiana Melania Giglio ed il performer Giuseppe Sartori. Nel carcere Santa Caterina di Pistoia uno “Stabat potente” con l’Electra Teatro e con interpreti i detenuti e con il coinvolgimento dell’attrice ronconiana Melania Giglio ed il performer Giuseppe Sartori, il tutto sotto la regia Giuseppe Tesi. L’idea guida del progetto è quella di coinvolgere ciascun detenuto nell’ attuazione di un corto cinematografico in cui sono presenti i due attori professionisti, Melania Giglio e Giuseppe Sartori. Il progetto è nato dalla convinzione che fosse necessario utilizzare e mettere a disposizione il linguaggio registico di cui l’associazione si fa espressione e interprete. In particolare l’ultima opera prodotta dall’associazione, Jimmy creatura di sogno, ha dimostrato il livello di complessità di tematiche e di messa in scena conquistate dalla stessa. Quest’ultima opera, tra l’altro, ha innescato una serie di riconoscimenti da parte di autorevoli addetti ai lavori e testate nell’ambito dello spettacolo. Si tratta di apprezzamenti che hanno fatto sì che Electra si guadagnasse quella autorevolezza e quella reputazione legate a un lavoro serio, appassionato e segnato dalla ricerca e dalla sperimentazione. L’obiettivo cardine è unire la valorizzazione della persona allo sviluppo della sua autonomia, coerentemente con la vocazione dell’art. 27 della Costituzione, andando nella direzione di un re-inserimento sociale che superi una logica strettamente assistenziale. Il testo musicale e paratattico di Grazia Frisina ben si presta a compiere un articolato percorso altamente formativo, sotto il profilo culturale, artistico, pedagogico e disciplinare: una crescita linguistica anche utile ai detenuti di lingua straniera, essenziale per la loro integrazione sociale. Partendo dal presupposto che, per garantire maggiore sicurezza e prevenire la recidività a delinquere, sono necessari percorsi formativi ed educativi atti a promuovere l’autostima, il linguaggio cinematografico, ancora una volta, ha lo slancio affettivo e professionale atto a svolgere un efficace percorso di “educazione alla legalità”. Il progetto si prefigge di poter sviluppare le personali potenzialità creative e culturali, ristrutturando l’identità sociale e rispondendo al necessario reinserimento della persona nella cittadinanza attiva. “Stabat Mater”, testo di grande impatto spirituale ed emotivo, consente uno sviluppo e una trasposizione in chiave contemporanea. Il pianto della Madre di Cristo è il pianto di tutte le madri di fronte al sacrificio e all’abbandono, ai troppi e recenti fatti di cronaca cui, ancora oggi, purtroppo assistiamo. Nell’ambito dello sviluppo drammaturgico e analitico dello scritto, ognuno ha l’opportunità di manifestare il proprio grido, il proprio disagio, la propria essenza, realizzando la concreta opportunità di ascolto e di rinascita. Un progetto dell’associazione pistoiese Electra che vedrà alla regia Giuseppe Tesi e che per concretizzarsi cerca il sostegno della città. È attivo da qualche giorno un conto corrente verso il quale effettuare una donazione e sostenere questo lavoro. (Iban: IT34T0760113800000009533944, Info: ufficiostampa.electra@gmail.com). I primi sostenitori di questa iniziativa sono la Fondazione Caript, Giorgio Tesi Group, la Fondazione un Raggio di Luce, la Misericordia di Pistoia e l’Ordine degli Avvocati. A caccia di migranti, la doppia vita dei riservisti greci di Valerio Nicolosi Il Manifesto, 7 marzo 2020 Chi non è stato richiamato gira di notte con il fucile in mano al confine con la Turchia per catturare rifugiati e consegnarli. Ieri nuovi scontri: i turchi hanno coperto i rifugiati con fumo e droni, la polizia greca li ha respinti. Le accuse e le provocazioni tra Turchia e Grecia non si fermano e ogni giorno il fuoco incrociato è quello dei lacrimogeni ma soprattutto quello della propaganda, che tenta di colpire l’altra sponda. Ieri mattina la Turchia sembra abbia incentivato i profughi siriani a rompere la rete di confine. Le forza speciali di Ankara hanno usato una coltre di fumo per proteggere l’azione e dei droni per coordinarla. Le forze greche sono riuscite a bloccare il tentativo ma ci sono stati momenti forti di tensione. Dopo un’ora i siriani sono stati spostati dalle forze turche circa 200 metri più indietro, in una tendopoli improvvisata. Dalla parte greca le urla dei profughi arrivano molto nitidamente, qualche migliaio di persone è radunato senza potersi muovere in entrambe le direzioni: la Grecia non ha intenzione di aprire la frontiera e i turchi non accetteranno il loro respingimento. Uno stallo di cui i profughi pagano lo scotto. “È incredibile come la Grecia sia impazzita all’improvviso, queste terre sono sempre state accoglienti”, ci racconta Valantis Pantsidis, avvocato penalista che difende i migranti una volta passato il confine. “È sempre stata una zona di passaggio e non ci sono mai stati problemi con la popolazione. Dall’altra parte, oltre il confine, noi andiamo spesso anche solo per prendere un caffè”. Dopo il colpo di stato fallito in Turchia e la conseguente rappresaglia contro i gulenisti, Valantis ci racconta che tantissimi turchi hanno attraversato illegalmente il confine per chiedere asilo: “Insegnanti, giudici, dipendenti pubblici e tante altre persone sono state costrette a scappare e sono venute qui, passando come fanno da anni siriani, afghani e iracheni”, aggiunge il penalista greco. Ora però il clima sembra essere cambiato, nella popolazione si è risvegliato un sentimento nazionalista che a quanto pare è rimasto dormiente per anni: “In Grecia il servizio militare è obbligatorio - ci racconta - e quando si finisce si ha la possibilità di restare tra i volontari della Guardia nazionale e continuare il proprio addestramento di tanto in tanto, in base alle proprie disponibilità. Si ha anche un’arma in dotazione ma ovviamente non la si può usare senza autorizzazione”. Un gruppo di riservisti che nonostante non sia stato richiamato in servizio è possibile vedere in giro nei paesi e nei bar. “Entrare in un bar e vedere i fucili poggiati al muro vicino ai tavolini dove le persone chiacchierano è una grande sconfitta dello stato di diritto ma in questo il governo ha una grande responsabilità: quella di utilizzare una propaganda nazionalista, come se ci fosse un’invasione in corso”, chiosa il penalista. Uno di loro, dei riservisti non richiamati dalla Guardia nazionale, fa il tassista di giorno e il cacciatore di migranti la notte. Georgos (nome di fantasia) ha capelli corti e barba fatta da poco: “Stanotte niente migranti, la caccia è andata male”, e lo dice con un sorriso amaro, dispiaciuto. Nella sua doppia vita fa diverse cose, la sua famiglia ha delle attività commerciali nel paese, lui è una sorta di insospettabile. Quando lavora è gentile e affabile, tratta i clienti in modo cortese. Un Dottor Jekyll che al tramonto si prepara per diventare il malvagio Mister Hyde, a caccia di migranti. “Andiamo in tre, ci disponiamo in un punto della riva del fiume dove spesso passano i migranti. Da li controlliamo la situazione e se vediamo che è tutto tranquillo ci spostiamo”. Quel punto del fiume ha molto verde attorno e le sterpaglie sono un riparo naturale sia per i “cacciatori” che per i “cacciati”. L’unica differenza tra loro è la condizione di necessità: chi scappa da guerra e fame e chi gioca a fare il cowboy di frontiera, calpestando sterpaglie e diritti umani. “I nostri visori a infrarossi ci permettono di vederli anche al buio, così li circondiamo senza che nemmeno se ne accorgano. All’improvviso scatta l’azione, li blocchiamo, li mettiamo pancia a terra e con le mani legate in modo che non possano liberarsi. Gli togliamo i telefoni e li bruciamo dopo averli lasciati a terra per un po’”. Il sorriso di Georgos non è più amaro e ci mostra i video di quello che ha appena descritto. I lineamenti dei profughi sono tipici dell’etnia hazara, quindi afghani. Sono impauriti al punto di non parlare mentre un compagno di Georgos si avvicina con il telefonino e la luce per riprenderli in faccia. Gli occhi mostrano il terrore, la paura di essere rimandati indietro o messi in qualche centro di detenzione in Grecia. “Poi chiamiamo la polizia e se la vedono loro”, chiosa in modo sbrigativo Georgos, come se passata l’eccitazione dall’azione non ci fosse più niente d’interessante da raccontare. Tra quelle sterpaglie, cercando bene, si trova anche la tomba dell’Europa, morta sotto gli anfibi di Georgos e dei suoi compagni, che hanno mano libera d’agire contro ogni diritto internazionale e umanitario. L’Ue “solidale con Atene”, ma prenderà solo i minori rifugiati di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 7 marzo 2020 Le nuove misure presentate ieri dalla Commissione. Bruxelles dice di respingere le pressioni turche ma poi cede ad Ankara e accetta di portare all’Onu la richiesta di no-fly zone in Siria Lacrimogeni della polizia greca sui rifugiati al confine tra Grecia e Turchia. L’Unione europea, paralizzata di fronte alla nuova crisi dei rifugiati al confine tra Turchia e Grecia e nelle isole dell’Egeo, non riesce ad andare oltre il minimo comune denominatore tra Stati. Ieri, mentre l’europarlamentare della Gue Stelios Kouloglu ha confermato la denuncia dell’esponente di Die Linke, Katharina König-Preuss, sulla presenza di elementi dell’estrema destra neo-nazista tedesca ai confini tra Grecia e Turchia e sulle isole di Chio e Lesbo (foto rivelano che ci sono anche estremisti austriaci), con lo scopo di aggredire i rifugiati, la Commissione ha annunciato la preparazione di misure di sostegno alla Grecia, per la “protezione” e per “trovare un luogo sicuro in Europa” a favore dei minori non accompagnati presenti alla frontiera e nelle isole. È la promessa che ha fatto al primo ministro di Atene Kyriakos Mitsotakis la presidente Ursula von der Leyen, che martedì si era recata in Grecia con i presidenti del Consiglio (Charles Michel) e dell’Europarlamento (David Sassoli). La prossima settimana andrà in Grecia, per definire i dettagli di questa protezione, la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson. Il governo greco continua a sostenere che “solo il 4% di coloro che hanno illegalmente oltrepassato la frontiera vengono dalla Siria, la grande maggioranza viene da Pakistan, Afghanistan, da sud del Sahara”, ha detto il ministro degli Esteri, Giorgos Gerapetritis, accusando la Turchia di “industrializzazione” della pressione dei migranti “per obiettivi geopolitici e diplomatici”. Ieri a Zagabria, sotto presidenza croata, si sono riuniti i ministri degli Esteri della Ue. I 27 hanno espresso “solidarietà” a Grecia, Bulgaria e Cipro e “respinto con forza l’uso delle pressioni attraverso i migranti fatto dalla Turchia con scopi politici”. Per Mr. Pesc, Josep Borrell, “la Turchia ha un grosso fardello e noi dobbiamo capirlo” (più di tre milioni di rifugiati), “ma al tempo stesso non possiamo accettare che i migranti vengano usati come strumenti di pressione”. Per la Ue, la Turchia deve rispettare l’accordo sui migranti del 2016 e il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, ha precisato che Bruxelles “non darà direttamente soldi alla Turchia”, ma come sempre “a gruppi di aiuto sul terreno” (invece Erdogan vorrebbe riceverli direttamente), “non dobbiamo reagire alle pressioni che la Turchia sta esercitando su di noi dando più soldi” dei sei miliardi promessi nel 2016 (e non ancora tutti versati). Borrell si è felicitato per il cessate il fuoco a Idlib raggiunto da Erdogan e Putin: “È una buona notizia, almeno è un auspicio, vediamo come funziona”. La Ue ha stanziato 60 milioni di euro per far fronte all’emergenza (sanitaria, alimentare, alloggio) nel nord-ovest della Siria e per giugno ha annunciato una Conferenza dei donatori a Bruxelles. “I paesi della Ue vogliono fornire un aiuto umanitario a Idlib - ha affermato il ministro olandese, Stef Blok - La sfida è farlo arrivare nell’area e per questo il cessate il fuoco aiuta. Una no-fly zone aiuterebbe ancora di più”. La Ue porterà questa richiesta all’Onu. Stati Uniti. Giustiziato per omicidio in Alabama, ma era innocente di Paolo Mastrolilli La Stampa, 7 marzo 2020 L’Alabama ha giustiziato un uomo per omicidio, anche se non era stato lui a premere il grilletto. Così ha riacceso la polemica sulla pena di morte negli Stati Uniti, dove le esecuzioni e gli Stati che le prevedono sono in calo ormai da diversi anni. Nathaniel Woods aveva 43 anni, ed era un afroamericano tossicodipendente che spacciava droga a Birmingham. Il 17 giugno 2004 era insieme al suo complice Kerry Spencer, e aveva avuto una lite con i poliziotti Carlos Owen e Michael Collins. Più tardi Owen, Collins, e i loro colleghi Harley Chisholm e Charles Bennett erano tornati a casa di Woods per arrestarlo. Era scoppiata una sparatoria in cui Owen, Chisholm e Bennett erano stati uccisi. Spencer aveva confessato di aver premuto il grilletto, negando però di aver ordito un piano con Woods per attirare gli agenti in trappola. Secondo l’omicida la sparatoria era scaturita da una lite, quando aveva capito che i poliziotti volevano arrestarlo. Al processo i procuratori avevano sostenuto che Woods era comunque responsabile e avevano chiesto di condannarlo a morte, sulla base della legge dell’Alabama che prevede questa punizione per chi aiuta un omicidio, anche se non lo commette materialmente. Dieci giurati aveva votato in favore dell’esecuzione e due contro, ma nonostante non ci fosse un verdetto unanime, nel dicembre del 2005 il giudice aveva comminato la pena capitale per entrambi gli imputati. Il mese scorso c’è stato l’appello, in cui Spencer ha confermato di essere l’omicida e ha negato l’esistenza di un piano premeditato con Woods per uccidere i poliziotti, ma non è stato ascoltato. Allora sono cominciate le petizioni al governatore dell’Alabama Ivey, affinché concedesse un rinvio dell’esecuzione per appurare in maniera definitiva i fatti. Tra gli altri, gli hanno scritto il figlio di Martin Luther King, il senatore democratico Doug Jones, il campione di football Bart Starr e Kim Kardashian. Ivey però è rimasto fermo, ribadendo che Woods era complice degli omicidi, e quindi secondo la legge dell’Alabama poteva essere condannato a morte. L’iniezione letale così è cominciata alle 8,39 di giovedì sera, nella Holman Correctional Facility di Atmore, e alle 9,01 è avvenuto il decesso, senza una dichiarazione finale. Negli Usa al momento 21 stati hanno abolito la pena di morte e 29 la conservano, ma in 4 è in vigore una moratoria decretata dai governatori. Nel 2019 ci sono state 22 esecuzioni, e nell’ultimo decennio sono diminuite del 45%. Una storia di libertà di Paolo Affatato L’Osservatore Romano, 7 marzo 2020 Da Parigi Asia Bibi racconta la sua dolorosa esperienza. È apparsa in pubblico con un volto disteso e perfino sorridente. Ha pronunciato parole che mostrano serenità e fede, dopo la travagliata esperienza vissuta in nove anni di carcere e l’incubo di una condanna morte. Asia Bibi, la donna pakistana cristiana condannata a morte per blasfemia in Pakistan, e poi assolta dalla Corte suprema nel 2018 e, infine, fuggita in Canada, ha scelto la Francia per la sua prima uscita pubblica, per mostrarsi al mondo, per parlare. A Parigi, ospite del sindaco Ana María Hidalgo e poi ricevuta dal presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, Asia nei giorni scorsi è stata accolta dalle autorità civili e religiose presenti, giunte per assistere alla consegna ufficiale della cittadinanza onoraria della capitale francese. “Sono onorato di aver potuto dare ad Asia Bibi l’assicurazione della preghiera dei cattolici di Francia. Lei chiede l’aiuto di tutti per coloro che sono attualmente in prigione per motivi calunniosi o per presunta blasfemia”, ha detto l’arcivescovo di Reims. Éric de Moulins-Beaufort, presidente della Conferenza episcopale francese. Asia ha chiesto asilo politico in Francia, ricevendo piena disponibilità dal governo d’oltralpe, anche se un suo trasferimento definitivo in Europa non appare imminente, dato che la donna vorrà prima consultarsi con la sua famiglia. Accanto a lei la giornalista televisiva francese Anne-Isabelle Tollet che, negli anni scorsi, aveva dato vita a un Comitato internazionale per la liberazione della donna, e che ha raccontato la sua tormentata esperienza nel volume Enfin Libre! (“Finalmente libera”), uscito in Francia e presto tradotto in altri Paesi europei. Il testo è simbolicamente dedicato “a tutti coloro che sono accusati di blasfemia e ancora imprigionati”. Perché Asia Bibi oggi, benché abbia trascorso tutti quegli anni in carcere e possa oggi ricordare la sua sofferenza, ma anche gioire per la sua salvezza, non pensa a sé stessa, ma a tutte le persone che in Pakistan sono ancora vittime della legge di blasfemia. La controversa normativa, composta da alcuni articoli del codice penale, punisce con l’ergastolo o la pena di morte il vilipendio al profeta Maometto, al Corano e all’islam. Queste vittime in Pakistan sono ancora tante: donne e uomini che, come lei, sperimentano la punizione di un carcere da innocenti. Grazie a complotti o a vendette private, sono colpite ricorrendo al facile mezzo di una falsa accusa di blasfemia, comodo escamotage perché l’attuale procedura, relativa all’applicazione della legge, permette di convalidare l’arresto grazie a due testimoni, anche senza prove evidenti. Il punto è che, come è accaduto ad Asia Bibi, queste persone in Pakistan vengono irrimediabilmente condannate dall’opinione pubblica, prima del processo, etichettate come blasfeme e relegate a marcire in prigione. Così Asia ricorda la sua dolorosa esperienza: “Ci sono giorni che non si dimenticano. Come il 14 giugno 2010. Prima del tramonto, sono arrivata per la prima volta al centro di detenzione di Sheikhupura, dove ho passato tre anni prima di cambiare prigione Non ero stata ancora giudicata, ma secondo tutti ero già colpevole. Mi ricordo di questa giornata come se fosse ieri e quando chiudo gli occhi, rivivo ogni istante”. Nel primo capitolo del nuovo libro, la donna racconta le condizioni disumane della detenzione: “I miei polsi bruciano, non riesco quasi a respirare. Il mio collo è compresso in un collare di ferro che la guardia può stringere a piacimento con un enorme dado. Una lunga catena si trascina sul terreno sporco, collega la mia gola alla mano ammanettata della guardia che mi tira come un cane al guinzaglio. Nel profondo di me, una sorda paura mi attira nelle profondità dell’oscurità. Una paura assillante che non mi lascerà mai. In questo preciso momento, avrei voluto sfuggire alla durezza di questo mondo”. A quella sofferenza fisica si aggiungevano le vessazioni verbali e il disprezzo di altri detenuti e dei secondini: “Sei peggio di un maiale. Dovrò sporcarmi al tuo contatto, sorbirmi il tuo marciume, ma non durerà a lungo”. Nel corso di una trasmissione radiofonica, cui Asia ha preso parte, la giornalista Tollet ha spiegato: “Asia Bibi è triste per aver lasciato il Pakistan, ma vuole continuare a essere portavoce per tutte le persone ingiustamente accusate di blasfemia, soprattutto i cristiani”. Per questo la sua vita futura potrebbe essere in Europa, dove potrà svolgere il ruolo di “ambasciatrice” per sensibilizzare sulle storture e sulle immani sofferenze generate ancora oggi dalla controversa normativa. “Liberata Asia, bisogna ricordare tutti coloro che sono ancora in carcere, come i coniugi cristiani Shagufta Kausar e suo marito Shafqat Emmanuel, vittime innocenti di false accuse per blasfemia, e oggi nel braccio della morte. È urgente che lo stato prenda adeguati provvedimenti per fermare l’abuso della legge”, spiega a “L’Osservatore Romano” il domenicano padre James Channan, direttore del Peace Center a Lahore, impegnato per il dialogo islamo-cristiano in Pakistan. Padre Channan illustra il caso raccontando che Shafqat Emmanuel e Shagufta Kausar, due coniugi con quattro figli, hanno ricevuto una condanna a morte nel 2014, per l’invio di messaggi di testo telefonici ritenuti blasfemi, dopo un processo iniziato nel 2013. I messaggi sms sono stati scritti in inglese, ma entrambi gli imputati sono poveri e analfabeti, non sanno scrivere in urdu, tantomeno in inglese. Il giudice in primo grado, come accaduto anche nel caso di Asi Bibi, “ha ceduto alle pressioni islamiste e ha emesso la sentenza di morte”, hanno detto gli avvocati. L’intero processo si è svolto all’interno della prigione a causa di timori per la sicurezza della coppia. Il ricorso presentato alla Corte di appello di Lahore, dopo una lunga attesa, è nella fase decisiva, con l’udienza fissata per l’8 aprile prossimo: “Non ci sono prove sostanziali a carico degli imputati e dunque il giudice dovrebbe dare l’assoluzione”, rileva Khalil Tahir Sandhu, avvocato cattolico che, nella sua carriera ha difeso e fatto assolvere oltre quaranta casi di cristiani ingiustamente accusati di blasfemia. Attualmente, sono oltre venticinque i cristiani condannati e detenuti per false accuse: tutte vittime che, rileva l’avvocato, “sono più sicure all’interno di un carcere piuttosto che al di fuori, dove sarebbero esposte alle vendette dei radicali islamici, che vorrebbero giustiziare quanti sono bollati come blasfemi, prima che se ne accertino le responsabilità”, spiega il legale. Shagufta conosceva Asia perché, nell’ultima fase della detenzione di quest’ultima, le due erano vicine di cella. Hanno condiviso attese, parole, speranze, lacrime. Ora Asia potrà cercare di aiutare la sua compagna di sventura. Con la speranza che possa ottenere la meritata liberazione.