Sessantamila detenuti esposti al coronavirus. Si può tornare a parlare di amnistia? di Davide Varì Il Dubbio, 6 marzo 2020 Sovraffollamento ed emergenza sanitaria: il carcere è una bomba pronta a esplodere. Dopo anni di narrazione manettara si può tornare a parlare di amnistia? Chiudono le scuole, limitano i movimenti dei cittadini e, ogni tanto, li “confinano” - ci confinano - nelle cosiddette zone rosse. Va bene, ci stiamo, c’è un’emergenza sanitaria serissima. C’è un virus sconosciuto e ancora imprevedibile che minaccia la nostra salute, il nostro sistema sanitario e la nostra tenuta sociale ed economica. E poi non siamo negli anni 70: il “Fattore K” che bloccava la democrazia italiana è un lontano ricordo. Insomma, il termine “emergenza” non evoca nessun golpe, nessun arretramento permanente delle libertà. Detto questo va però segnalata un’altra emergenza che il governo dovrebbe affrontare con la stessa determinazione: è l’emergenza carceri. Quello carcerario è infatti un sistema che rischia di collassare da un momento all’altro e che, come denunciano da settimane tutti gli operatori che negli istituti penitenziari italiani lavorano e “vivono”, rappresenta una vera e propria bomba pronta a esplodere. Ci sono 61mila persone esposte più delle altre e ospiti in strutte del tutto prive di un’assistenza sanitaria adeguata ad affrontare un’emergenza esplosiva come quella rappresentata dal Coronavirus. Mancano strutture di isolamento e le uniche misure di sicurezza messe in campo sono quelle che limitano ancora di più la libertà dei detenuti: meno incontri con i familiari, meno socialità, meno umanità. E allora nel dibattito pubblico italiano dovrebbe tornare ad affacciarsi una parola dimenticata, sepolta dalla narrazione manettara degli ultimi 10 anni: amnistia. Lo ha fatto addirittura l’Iran che solo qualche giorno fa ha deciso di mettere in libertà 54mila persone. Perché allora non proporre un’amnistia anche qui da noi? L’amnistia potrebbe risolvere almeno due emergenze: quella sanitaria, legata al nuovo Coronavirus, che in carcere rischia di dilagare; e quella che da anni pone l’Italia in uno stato di illegalità: quante volte la Corte europea dei diritti dell’uomo e l’Ue stessa hanno parlato delle carceri italiane come avamposto dell’inciviltà e dell’illegalità? Il sovraffollamento, le condizioni igienico-sanitarie, la quasi totale assenza di programmi di recupero per detenuti - così come previsti dalla nostra Costituzione - fanno delle nostre carceri dei luoghi in cui i diritti e le garanzie vengono calpestati quotidianamente. Amnistia non è una brutta parola né sinonimo di inciviltà, come pensa qualcuno. Soprattutto in tempi di Coronavirus. Amnistia, perché no? Parla il direttore del carcere di Opera di Tiziana Maiolo Il Riformista, 6 marzo 2020 Intervista al direttore del carcere di Opera, Silvio Di Gregorio: per evitare il contagio, grande responsabilità dei detenuti e dei loro familiari. Se c’è un luogo dove dovrebbe suonare per primo l’allarme, dove a causa degli spazi ristretti e dell’inesistenza di vie di fuga parrebbe impossibile applicare qualunque forma di prevenzione dal contagio, questo è il carcere. L’istituzione totale per antonomasia, quella da cui non si può scappare per principio, quella nella quale è pressoché impossibile calcolare i metri di distanza tra le persone, sembrerebbe il luogo “ideale” per la promiscuità, quindi per il contagio. A quanto pare, invece, non solo ha funzionato, fin dai primi allarmi sull’esistenza del coronavirus, una sorta di cordone sanitario che ha protetto le carceri dal contagio, ma ogni provvedimento di prevenzione è stato accettato di buon grado sia dai detenuti che dalle loro famiglie. Un esempio virtuoso è l’Istituto di Opera, alle soglie di Milano, 4.400 carcerati con condanne definitive e una sezione speciale di alta sicurezza. Il direttore Silvio Di Gregorio mostra la tranquillità di chi è consapevole di aver fatto il proprio dovere (e anche qualcosa di più) e di tenere la situazione sotto controllo. Consapevole del fatto che un conto è dire, a chi è libero, di stare in casa e di evitare i luoghi troppo affollati, un altro è misurare la distanza fisica, in celle per le quali l’Italia è stata già condannata anche dalla Cedu, tra detenuto e detenuto. Basta un niente, all’esterno, uno starnuto o un colpo di tosse, per creare il vuoto intorno al sospetto “untore”, immaginiamo le reazioni in luoghi chiusi di cui non si possiede la chiave. E poi c’è un altro problema. Come applicare le nuove regole di vita in un carcere, senza privare i detenuti dei propri diritti di affettività, di avviamento al lavoro e di preparazione a un futuro diverso in un domani di libertà? Ricostruiamo insieme al direttore Di Gregorio le nuove (provvisorie) regole di vita dei camerati. Il decreto del governo del 3 marzo ha sospeso i colloqui con i parenti. Inoltre il tribunale di sorveglianza da cui dipendono le tre carceri milanesi di San Vittore, Bollate e Opera ha sospeso i permessi di uscita dal carcere, il preziosissimo articolo 21 del regolamento che consente il lavoro esterno e la semilibertà. È un po’ come se improvvisamente un portone ti si chiudesse alle spalle. Saranno disperati, chiedo al direttore. “Abbiamo constatato un grande senso di responsabilità, sia da parte dei detenuti che dei loro familiari. Pensi che nessuno ha colto l’occasione per rivendicare diritti o protestare”. Ma come è possibile, visto che è stata interrotta ogni comunicazione con l’esterno? “Non è così Tenga presente che ogni detenuto ha diritto da quattro a sei telefonate al mese con la fa - miglia, cui vanno aggiunte altre due straordinarie. In questa occasione ne abbiamo aggiunte altre otto al mese per ciascuno. Il che significa un bel traffico telefonico. Ma per noi è molto importante che la rieducazione come è prevista dalla Costituzione comporti anche il mantenimento delle relazioni affettive. Stiamo anche incentivando l’uso di Skype, l’abbiamo raddoppiato e speriamo che il Ministero ci aiuti ad averne di più”. La vita all’interno delle camere è quindi, nei limiti delle possibilità, quasi normale? “Direi di sì. Le famiglie possono continuare a versare denaro e portare i pacchi, ci occupiamo noi di ritirare la biancheria pulita e di consegnare quella usata. Inoltre, per coloro che sono abituati a uscire, sia perché semiliberi che con il permesso di lavoro esterno e che hanno il cellulare, consentiamo loro di usarlo per telefonare una volta al giorno”. A proposito di lavoro, è possibile attuare in carcere una sorta di smart warking? “Sì, c’è già un’azienda di informatica, la Unout, che si è organizzata in questo modo”. Tutto normale, ma come la mettiamo con il coronavirus, è sicuro che non ci sia nessun malato o positivo qui a Opera? Giura di sì. Il carcere è stato ben sigillato dal primo momento, il che significa che certi provvedimenti, come quello della chiusura delle scuole, come forma di prevenzione, possono funzionare. Il rapporto con l’esterno è garantito dalle telefonate, da qualche conversazione via Skype conquistato anche se centellinato e dalla continuità di ingresso dei volontari (articolo 17 del regolamento) su cui il direttore Di Gregorio è favorevole. Certo, a Opera non c’è il viavai di ingressi e uscite delle carceri di Bollate e San Vittore, ma governare un istituto di 1.400 persone tra cui i detenuti di una sezione di alta sicurezza non può che essere più complicato, nei giorni del virus che aleggia nei pensieri di tutti e nella realtà di un numero sempre maggiore di persone. Ci vorrebbe, per prevenire il contagio con nuovi ingressi, quel che hanno proposto i dirigenti di “Nessuno tocchi Caino” Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti, cioè una moratoria dell’esecuzione penale, soprattutto per le pene brevi o per i residui pena C’è poi la parola magica, o maledetta amnistia. Che cosa ne pensa il direttore di un carcere così importante e popoloso? “Penso che periodicamente possa procedersi a una azione misericordiosa”. Carceri, nessun contagio ma resta l’allarme ansa.it, 6 marzo 2020 Per ora nelle carceri non vengono segnalati casi di contagio da Coronavirus, ma l’allarme resta alto. “La salute è un diritto che deve essere garantito a tutti e quindi in questo momento di emergenza, è necessario attenzionare tutti, compreso il mondo delle carceri: detenuti, polizia penitenziaria, operatori sociali, personale sanitario e amministrativo che opera all’interno delle strutture” dice il vice ministro Pierpaolo Sileri, che avverte “in un momento delicato non va trascurata la salute di nessun cittadino”. Il decreto varato mercoledì dal governo prevede che le articolazioni territoriali del Servizio sanitario nazionale, cioè le Asl, diano supporto al ministero della Giustizia anche “mediante adeguati presidi idonei a garantire i nuovi ingressi negli istituti penitenziari e negli istituti penali per i minorenni”. Un tema che era già stato affrontato dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, che sull’emergenza è intervenuto con più note. La prima ha riguardato l’accesso agli istituti degli operatori e di terze persone residenti nei Comuni italiani delle zone rosse e la sospensione delle traduzioni dei detenuti da e verso gli istituti penitenziari rientranti nella competenza dei provveditorati di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze. Gli interventi successivi contengono misure che incidono maggiormente sulla vita nelle carceri anche perché sono state estese a tutte le regioni in cui si sono verificati casi di contagi. Nuovi ingressi di detenuti nelle carceri - Agli istituti viene chiesto di creare uno spazio pre-triage da destinare al controllo prima dell’accesso al penitenziario. Si parte dalla misurazione della febbre e nei casi dubbi si fa anche il tampone. Il Dap ha invitato gli istituti a rivolgersi alla Protezione civile per avere tensostrutture da destinare a questo scopo, così come mascherine e guanti. L’installazione è già cominciata in Lombardia, dove in tutto sono state assegnate 20 tensostrutture, anche altre regioni (come l’Emilia Romagna) si sono attivate per averne a disposizione. Accessi di operatori e volontari - Viene richiesta l’autocertificazione di non provenire dalla zona rossa o di non aver avuto contatti con persone che hanno contratto il Coronavirus. Ma alcuni istituti sono andati oltre l’indicazione: a Roma in due delle cinque carceri per adulti i volontari non entrano più. Sospensione delle attività trattamentali e lavorative - Scatta per tutte quelle che richiedono la presenza di persone esterne al carcere. E vale nei penitenziari di Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Marche, Toscana e Sicilia. Colloqui solo via Skype - Una misura raccomandata dal Dap, che ha anche chiesto però di aumentare il numero delle telefonate consentite (attualmente pari a quattro a settimana, più due premiali). Il problema è che non tutte le carceri hanno Skype e che la durata di queste conversazioni non può mai essere di un’ora come avviene per i colloqui diretti. Sospensione dei permessi premio e della semilibertà - Il Dap ha chiesto ai tribunali di sorveglianza di valutare caso per caso se sia necessaria questa misura. Ma ci sono uffici giudiziari che hanno scelto una linea draconiana, come Milano, che ha sospeso tutte le semilibertà. Coronavirus, in caso di contagio non c’è spazio per l’isolamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 marzo 2020 Secondo gli ultimi dati ci sono 61.230 reclusi su un totale di 47.231 posti effettivi. Forse avremo fortuna e il virus non entrerà nelle carceri, ma se ciò dovesse accadere, le misure di gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid19 presso gli Istituti penitenziari sono impraticabili per via del grave sovraffollamento. Mentre perfino in Iran sono state emanate misure alternative, da noi le direttive parlano di mettere - in caso di contagio - i detenuti in celle singole per l’isolamento sanitario. Ma le celle già sono tutte occupate. Secondo gli ultimi dati abbiamo 61. 230 detenuti su un totale (sottraendo le celle inagibili) di 47.231 posti effettivi. Se da una parte il governo ha emesso un decreto affinché le persone evitano assembramenti, il carcere non viene minimamente toccato da alcuna misura deflattiva straordinaria. Il Dubbio ha visionato le indicazioni del servizio di assistenza territoriale dell’Emilia Romagna emanate mercoledì in tutti gli istituti penitenziari della regione. Si legge che “in caso di positività al tampone, si dovrà prevedere un isolamento sanitario all’interno dell’istituto in locale adeguato, provvisto di servizio igienico ad uso esclusivo, salvo necessità di ricovero ospedaliero del soggetto”. Per quanto riguarda i cosiddetti “nuovi giunti”, si legge che “saranno effettuate nell’immediatezza dell’ingresso, e comunque prima possibile, ad opera del personale medico operante nella struttura che provvederà ad effettuare una visita medica con accurata intervista epidemiologica, finalizzata all’individuazione delle aree ove ha soggiornato il soggetto negli ultimi 14 giorni, tenendo conto della definizione di caso di cui alla circolare del ministero della Salute precitata e successivi aggiornamenti”. E se nel caso emergessero elementi clinici ed epidemiologici riconducibili a caso sospetto di Covid19? Secondo l’indicazione “sarà disposto l’isolamento sanitario della persona detenuta all’interno del carcere, concordandolo con la direzione dell’Istituto penitenziario, come già peraltro avviene per altre malattie infettive, salvo necessità di ricovero ospedaliero”. Tuttavia, si precisa che in caso di nuovi giunti provenienti da aree a rischio di cui al Dpcm del 1 marzo 2020 “Ulteriori disposizioni attuative del Decreto Legge 23/ 2/ 2020 n. 6 recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid19” ed eventuali successivi aggiornamenti, detti detenuti saranno da subito allocati in quarantena, ovvero in “isolamento in camera di detenzione singola, con servizi igienici ad uso esclusivo, garantendo tutte le precauzioni dell’isolamento sanitario”. In tali casi i compiti previsti per l’operatore di sanità pubblica, saranno svolti dal personale sanitario che opera già all’interno dell’Istituto penitenziario, informando il Dipartimento di sanità pubblica dell’Ausl in caso di insorgenza di sintomatologia compatibile con la definizione di caso sospetto di Covid19. Ma è fattibile? C’è il caso, come già riportato da Il Dubbio, del carcere di Parma dove non c’è alcun spazio per effettuare un isolamento sanitario. Ma il problema è da estendere anche in altri penitenziari dove ci sono sovraffollamenti che raggiungono vette allarmanti. Non a caso per i dirigenti dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” Sergio d’Elia, Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti, di fronte all’emergenza legata al coronavirus in carcere e alle misure restrittive con cui la si sta affrontando, chiede che il principio di prevenzione della “rarefazione sociale”, come affermato dal viceministro alla salute Pierpaolo Sileri, volto a evitare ogni forma di aggregazione, trovi applicazione anche in carcere. Così come c’è l’associazione Antigone che ha scritto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per chiedere che ogni detenuto possa telefonare per 20 minuti ai propri familiari, a fronte dei 10 minuti a settimana previsti dalle norme dell’ordinamento penitenziario. Ma ha anche chiesto che la magistratura di sorveglianza si adoperi per favorire la concessione di provvedimenti di detenzione domiciliare e affidamento, che riducano la pressione sulle carceri e sugli operatori, per tutti coloro che sono a fine pena e hanno fatto un positivo percorso penitenziario. Coronavirus, in carcere triage sui nuovi detenuti e blocco dei trasferimenti di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2020 Il Ministero intervenga per evitare contagi tutelando i diritti. Nell’emergenza che stiamo vivendo ogni giorno che passa segna un peggioramento della vita in carcere, dettato dalla progressiva crescente segregazione dal mondo esterno e dall’angoscia nella quale le persone che vivono il contesto detentivo vengono lasciate. Vanno prese misure urgenti, come quelle richieste dall’associazione Antigone al primo ministro Giuseppe Conte e al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in una lettera loro inviata mercoledì pomeriggio. Ma facciamo prima il punto della situazione. Il decreto governativo di ieri pomeriggio, che ha disposto tra le altre cose la chiusura delle scuole e delle università su tutto il territorio nazionale, tocca il carcere in un unico passaggio, prevedendo che “le articolazioni territoriali del Servizio sanitario nazionale assicurano al Ministero della giustizia idoneo supporto per il contenimento della diffusione del contagio del Covid19”. Naturalmente ciò accadeva già nei giorni scorsi, ad esempio nelle tende montate davanti a vari istituti penitenziari delle zone più esposte nelle quali vengono controllati quei detenuti cosiddetti nuovi giunti che devono fare ingresso in carcere. Al di là delle disposizioni generali del governo, il Ministero della Giustizia si è attrezzato con una serie di misure specifiche contenute in note che si sono susseguite a partire dallo scorso 22 febbraio e che hanno riguardato tanto il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, responsabile della gestione delle oltre 190 carceri per adulti in Italia, quanto quello per la Giustizia Minorile e di Comunità, che gestisce i 17 Istituti Penali per Minorenni italiani. Un universo di circa 61.500 detenuti, cui si sommano le decine di migliaia di lavoratori che operano in carcere nei diversi ruoli - poliziotti penitenziari, educatori, medici, insegnanti e via dicendo - nonché i parenti in visita e i molti volontari senza i quali tante attività culturali, sportive, ricreative non potrebbero essere organizzate. Oltre alle tende per i controlli, è stato disposto il blocco dei trasferimenti che interessano istituti penitenziari in zone a rischio, se non in casi eccezionali per motivi di giustizia, e il divieto di accesso di operatori o altre persone provenienti da alcuni comuni. Si lascia inoltre alla decisione dei singoli provveditorati, di concerto con le direzioni delle carceri, la possibile riduzione o sospensione delle attività che comportano contatti con persone esterne, comprese le attività lavorative dei detenuti, e la sostituzione dei colloqui con i famigliari con telefonate ordinarie o via skype. Sta invece al magistrato di sorveglianza valutare caso per caso se vadano sospesi i permessi premio o i provvedimenti di semilibertà (cioè le uscite diurne dal carcere). Provvedimenti ragionevoli, che gli stessi detenuti - naturalmente impauriti dalla costrizione nell’ambiente carcerario e dalla scarsità di notizie su quanto sta accadendo fuori dal punto di vista sanitario - sembrano comprendere e non ostacolare. Provvedimenti però che vanno applicati con la massima attenzione alla specificità delle singole situazioni, così da non rischiare di andare oltre lo stretto necessario nella compressione di una libertà e di contatti con l’esterno già molto ristretti. Sentirsi abbandonati in carcere può essere drammatico. Eppure da alcuni istituti la nostra associazione ha avuto segnalazioni di chiusure ingiustificate rispetto all’obiettivo unico di limitare la diffusione del virus. Chiusure che, come segnalano pure il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e la Conferenza dei Garanti territoriali nel loro comunicato congiunto, “incidono anche sui diritti delle persone ristrette e che sembrano essere il frutto di un irragionevole allarmismo che retroagisce determinando un allarme sempre crescente che non trova fondamento né giustificazione sul piano dell’efficacia delle misure”. Come si legge ancora nel comunicato, “non sembrano essere stati assunti come primi urgenti provvedimenti, proprio negli Istituti che maggiormente hanno rivolto l’attenzione alla mera chiusura agli esterni, misure relative alla sanificazione degli ambienti, alla diffusione di norme igieniche, all’autodichiarazione di non aver avuto contatti possibilmente a rischio da parte del personale che entra in Istituto, alla predisposizione di strumenti che possano rilevare la temperatura corporea di tutte le persone che, per qualsiasi ragione, entrano nell’Istituto stesso”. Tre sono allora le linee di indirizzo lungo le quali bisognerebbe muoversi adesso: innanzitutto, come si è detto, la supervisione centrale da parte del Ministero della Giustizia sulla gestione della crisi messa in atto dai singoli istituti di pena, affinché si blocchi immediatamente ogni eccesso restrittivo. In secondo luogo, l’apertura di tutti quei canali di contatto con l’esterno che non sono a rischio rispetto al contagio: le videochiamate, le telefonate ordinarie. Antigone ha scritto a Conte e Bonafede chiedendo loro di adottare immediatamente una misura urgente: quella di garantire a ogni detenuto il diritto di telefonare per almeno venti minuti al giorno, di contro ai dieci settimanali previsti dalla legge. È una misura dalla facile organizzazione, dai costi contenuti e dalla totale assenza di rischio. L’isolamento dagli affetti in un momento come questo può essere tragico. Ci auguriamo che le autorità ci diano ascolto al più presto. Infine, bisogna agire sul numero di persone presenti dentro le mura del carcere. Le carceri per adulti ospitano oggi circa 10.300 persone in più rispetto ai posti letto ufficiali (che sono più di quelli realmente disponibili). È necessario mettersi al lavoro per trovare strategie di restringimento del flusso in entrata e di allargamento di quello in uscita. Gli ordini di esecuzione di sentenze che raggiungono persone in libertà, per le quali dunque non è stata ritenuta necessaria la custodia cautelare, possono aspettare ulteriormente. Le misure di semilibertà, che comportano un passaggio quotidiano rischioso dal dentro al fuori e viceversa, potrebbero in molti casi venire trasformate in affidamenti in prova al servizio sociale, una misura che si svolge interamente nella comunità esterna. Va varato un piano straordinario per mandare in detenzione domiciliare quei tantissimi detenuti che hanno un ridotto residuo di pena ancora da scontare. Ieri pomeriggio, con l’emanazione del decreto governativo, Antigone ha chiuso il proprio ufficio e ha avviato il telelavoro. È senso civico cooperare tutti nella stessa direzione. Da oggi in molti possiamo forse comprendere un minimo di più sulla nostra pelle cosa significa sentirsi costretti in un luogo chiuso. *Coordinatrice associazione Antigone Coronavirus e diritti dei detenuti. I rischi nei nuovi provvedimenti di Luigi Romano napolimonitor.it, 6 marzo 2020 Il virus si diffonde in queste ore con maggiore velocità nel paese, e anche a Napoli attraversa città e provincia, anche se per ora la metropoli sembra resistere - non si sa per quanto ancora - più che al contagio, alla paura. Le mascherine si contano sulle dita di una mano, così come gli assalti ai supermercati, e non c’è ancora nessun lockdown dei quartieri, a parte l’autoisolamento della comunità cinese. Le contraddittorietà emerse negli ultimi giorni dalle decine di provvedimenti dei vari organi istituzionali, prima del decreto ministeriale di ieri, lasciano intravedere tutti i timori dei vertici delle catene di comando, in particolare riguardo l’assorbimento da parte del sistema sanitario nazionale degli infetti più gravi, colpiti da complicazioni respiratorie. Un’angoscia che si manifesta anche in Campania - nonostante il “miracolo” annunciato a dicembre 2019 dal governatore De Luca con l’uscita dal commissariamento - che soffre la mancanza di quindicimila unità di personale medico, specializzato e non, e la carenza di presidi sanitari pubblici. Eppure, sebbene il servizio sanitario nazionale sia in serio pericolo di collasso, il governo ha emanato un decreto legge il 2 marzo al cui capo 2, Misure in materia di lavoro privato e pubblico, si predispone un finanziamento urgente di euro 4.111.000 solo per la copertura degli straordinari delle forze di polizia e delle forze armate causati dall’epidemia. Nessun finanziamento straordinario per aumentare il personale medico e infermieristico, in prima linea negli ultimi giorni, nessuna fonte straordinaria in bilancio per incrementare le postazioni rianimatorie. La contenzione e il mantenimento dell’ordine rimangono le uniche linee di investimento. L’emergenza presenta il conto anche all’universo penitenziario. I focolai settentrionali hanno da subito stressato il sistema di esecuzione penale. I sindacati autonomi di polizia allertavano in maniera compulsiva, con diverse note, il ministero e i provveditorati per difendere la categoria da eventuali contagi, dimenticando che in un sistema chiuso ma allo stesso tempo estremamente permeabile loro stessi rappresentano un primo possibile fattore di diffusione. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Basentini si sta esprimendo da giorni con numerose circolari, che contengono altrettante “linee guida”, quelle che spesso si annunciano quando le istituzioni faticano a gestire avvenimenti che si susseguono più velocemente rispetto alle capacità di risposta. Le direttive del Dap risultano piuttosto pilatesche e cambiano a seconda del contesto: “Può risultare funzionale e idoneo assumere provvedimenti che tendano a sospendere le attività trattamentali per le quali sia previsto o necessario l’accesso della comunità esterna; contenere le attività lavorative esterne e quelle interne per le quali sia prevista la presenza di persone provenienti dall’esterno; sostituire i colloqui con familiari o terze persone, diverse dai difensori, con i colloqui a distanza mediante le apparecchiature in dotazione agli istituti penitenziari (Skype) e con la corrispondenza telefonica, che potrà essere autorizzata oltre i limiti”, disponeva una circolare il 26 febbraio 2020. Con la stessa nota si invitava a rivalutare la semilibertà dei detenuti e venivano sospese “le traduzioni dei detenuti verso e da gli istituti penitenziari rientranti nella competenza dei provveditorati di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze”. A Milano, in particolare, la situazione è gestita in modo drastico: sospensione dei permessi premio, dei lavori all’esterno e della semi-libertà fino al 9 marzo; sospensione dell’ingresso dei volontari; sospensione dei colloqui familiari (non con gli avvocati); estensione dei colloqui telefonici e via Skype; udienze in sorveglianza con videoconferenza senza traduzione dei detenuti. Al Mammagialla di Viterbo i divieti più evidenti riguardano l’ingresso dei volontari: uno per ogni associazione. Demandare ai singoli istituti comporta la realizzazione di soluzioni diverse, spesso influenzate dalla sensibilità momentanea e dai timori collettivi. Nel carcere di Augusta (Siracusa), per esempio, hanno sospeso seguendo le direttive del ministero dell’istruzione le attività scolastiche in carcere, provvedimento che non è scattato automaticamente in altri istituti. L’epidemia mostra senza alcun filtro tutti i cortocircuiti del potere, con organi istituzionali che invadono competenze di altri, come nel caso del conflitto sull’apertura delle sedi universitarie tra il governatore De Luca e il ministro Manfredi, o di tutti gli altri organi assembleari che in queste settimane hanno preso decisioni in tema di salute senza attendere il parere del ministero. È il tempo delle istituzioni totali perforate. La nota del provveditore campano, dal canto suo, non produce limitazioni importanti, ritenendo “fondamentale la conservazione di un approccio razionale e scientifico al fenomeno, evitando interpretazioni individuali”. L’invito ai direttori è quello di non dotare il personale di mascherine, utili soltanto per i soggetti considerati a rischio “e non certo al personale genericamente individuato”. Viene costituita un’unità di crisi che monitora l’andamento del contagio ed è stata inoltrata richiesta alla Protezione civile per dieci tende da campo, una delle quali è già stata predisposta all’interno del carcere di Poggioreale. Limitazioni ai colloqui non ce ne sono, né all’ingresso di volontari (a cui viene somministrato un semplice questionario, “Scheda per l’accesso”, in cui si autocertifica di non presentare sintomi influenzali; di non provenire o di aver soggiornato negli ultimi quattordici giorni in paesi ad alta endemia o in territori nazionali sottoposti a misure di quarantena; di non essere comunque a conoscenza di aver avuto contatti con persone affette da Covid 19). Il monitoraggio più invasivo viene fatto dall’area medica degli istituti sui cosiddetti “nuovi giunti”, i soggetti al primo ingresso in carcere. Tuttavia, al di là dei meccanismi di prevedibilità del fenomeno e del tentativo di non applicare misure draconiane non necessarie, risulta difficile immaginare in un carcere sovraffollato e in perenne emergenza come Poggioreale, per esempio, una eventuale sostituzione dei colloqui con quelli via Skype. Quante postazioni dovrebbero essere predisposte? Tutte le famiglie hanno la possibilità (economica) di avere un punto telematico certificabile? Quali potrebbero essere le conseguenze di una interruzione improvvisa dei contatti con i familiari? Gli istituti, che nel tempo hanno generato territori immuno-depressi, luoghi poco salubri con celle con decine di detenuti, coperti con un sistema sanitario precario e lentissimo, come potrebbero assorbire la diffusione? Il carcere è da sempre un organismo vivo, connesso con l’esterno, in cui, accanto alle misure ufficiali, i detenuti si regolano con pratiche di autotutela, come testimonia la diminuzione delle domandine per partecipare ai percorsi trattamentali. In sostanza, se c’è un soggetto che potrebbe soffrire fortemente le falle del sistema è il corpo detenuto, che se colpito dal virus si troverebbe chiuso tra quattro mura. Il carcere mostra la paura del collasso di un ordinamento incapace di reagire elasticamente alle sollecitazioni. È necessario vigilare, quindi, perché ogni scelta autoritaria presa in questi contesti rimane in circolo a lungo nel sistema, così come è necessario denunciare provvedimenti che in modo automatico e insensato limitano diritti già di per sé compressi. In questi momenti di scelte rapide, dove tutti sembrano rincorrere qualcosa o qualcuno, bisogna pretendere che le energie e le strategie non vengano impiegate soltanto per realizzare un contenimento “più sicuro” ma per concretizzare i diritti dei soggetti reclusi. La paura del Covid19 amplifica lo stridio di una macchina putrescente, tutti lo stanno ascoltando ma il rischio è che gli interventi vengano presi nella direzione sbagliata. Una pena in più da scontare per chi è recluso in carcere di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 6 marzo 2020 Che poi, in questi momenti di limitazioni e divieti, di consigli su cosa non fare e distanze da prendere, bisognerebbe quanto meno rivolgere un pensiero a quelli che di limitazioni ne avevano parecchie e distanze da prendere pochissime. I detenuti, intendo. Il coronavirus ha aggiunto complicazioni alla vita di chi sta in carcere, ha aggravato condizioni quotidiane già difficili, ha messo un carico in più di isolamento e di dolore. Le disposizioni ministeriali hanno ora sospeso del tutto i colloqui dei reclusi coni familiari. Chi conosce il carcere sa bene quanto indispensabili siano i contatti con mogli, figli, genitori per resistere alla detenzione, per tenere stretto un filo con le vite di fuori. L’amministrazione ha cercato di ovviare a questa limitazione pesante aumentando il numero delle telefonate concesse ai detenuti, ma si parla sempre di numeri limitati: una telefonata in più alla settimana, dieci minuti. Si fa, dove è possibile, qualche tentativo di chiamata via Skype. C’è un disegno di legge - frutto del recente incontro fra quattro parlamentari e un gruppo di detenuti - per allargare le maglie di questi contatti telefonici. Un altro problema è il divieto di ingresso ai volontari: molte attività di istruzione e di socialità dipendono da loro. Anche certi consigli alla popolazione - per esempio quello di evitare luoghi affollati e tenere un metro di distanza dal vicino - in carcere suonano paradossali. Il sovraffollamento è la condizione abituale, e come si fa a tenere le distanze quando si vive in troppi in una cella angusta. Per non dire dell’assistenza medica, che avrebbe bisogno di investimenti e personale. Detto questo, nelle carceri tutti fanno quel che possono con buona volontà e impegno: direttori, polizia penitenziaria, personale amministrativo, e anche i detenuti. Prima o poi la pena del virus finirà, si spera. Antigone: “Consentire 20 minuti di telefonate ogni giorno ai detenuti” La Repubblica, 6 marzo 2020 Una lettera dell’Associazione Antigone al Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte e al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. L’Associazione Antigone ha scritto al Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte e al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, per chiedere che ogni detenuto possa telefonare per 20 minuti ai propri famigliari, a fronte dei 10 minuti a settimana previsti dalle norme dell’ordinamento penitenziario. “La richiesta - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - si giustifica con l’emergenza coronavirus che sta portando importanti limitazioni anche in ambito penitenziario. I detenuti hanno paura e vivono con angoscia la solitudine. In molte carceri non sono consentiti colloqui visivi e sono impediti gli accessi ai volontari. Si comprimono i diritti dei detenuti. Le indicazioni emanate dall’Amministrazione Penitenziaria servono a prevenire il diffondersi dell’epidemia anche in questi luoghi. Non sono omogenee sul territorio nazionale. “Stiamo comunque assistendo - specifica ancora Gonnella - a una compressione dei diritti delle persone detenute. In alcuni casi inevitabile. Proprio per questo - ha aggiunto il presidente di Antigone - invitiamo il governo a concedere 20 minuti di telefonate al giorno (che tra l’altro inciderebbe positivamente sull’uso illecito di cellulari), ad attivare dappertutto Skype per i colloqui a distanza. Il dialogo la famiglia previene gesti tragici. Quello di aumentare la possibilità di telefonate e di Skype è un provvedimento che con poco dispendio organizzativo sarebbe capace di tutelare quel contatto con gli affetti esterni che è fondamentale per le persone recluse e che tante volte si è dimostrato essenziale anche nella prevenzione di gesti tragici. Allo stesso modo - conclude Patrizio Gonnella - pensiamo sia utile favorire la concessione di provvedimenti di detenzione domiciliare e affidamento, che riducano la pressione sulle carceri e sugli operatori, per tutti coloro che sono a fine pena e hanno fatto un positivo percorso penitenziario. Chiediamo in tal senso alla magistratura di sorveglianza grande apertura. Infine si valutino anche misure di incentivo per lo staff carcerario impegnato in un momento così duro e si preveda la distribuzione di linee guida di prevenzione a tutti i detenuti”. Virus, Bonafede ferma i processi meno urgenti e le visite in carcere di Liana Milella La Repubblica, 6 marzo 2020 Le scelte del ministro dopo le richieste partite dal Csm. E il voto per la nuova Anm slitta a fine maggio. Stop ai processi in tutte le zone in cui potrebbe diffondersi il Coronavirus e via libera solo per quelli urgentissimi per la presenza di detenuti. È questa la prossima mossa del Guardasigilli Alfonso Bonafede. Proprio la stessa richiesta fatta dal Csm e dall’Anm, ma anche dagli avvocati che già sono in sciopero. Igienizzazione a tappeto di tutti i tribunali. Stop - peraltro già in atto - agli spostamenti dei detenuti, ma solo videoconferenze. Blocco anche dei colloqui con i familiari. Da via Arenula ecco le prime indiscrezioni sulle misure anti Coronavirus che Bonafede è in procinto di assumere con un provvedimento ad hoc. Mentre l’Anm decide di rinviare da fine marzo a fine maggio il voto per rinnovare il parlamentino dei giudici. Non bastano, dunque, le misure stringenti assunte finora per la zona rossa, adesso anche il mondo della giustizia - processi civili e penali, carceri, stato degli uffici a partire da quelli ministeriali - deve fare i conti con il virus. Soprattutto dopo i casi di Milano (3 toghe coinvolte, due in tribunale e una della procura generale) e di Napoli (un giudice della corte di appello), dove anche un avvocato è malato e aveva lavorato a Milano, e dove la tensione è sempre più alta perché a palazzo di giustizia manca pure il sapone nei bagni. Dopo un primo incontro martedì in via Arenula con Csm e Anm, è partita la protesta di tutte le correnti della magistratura che chiedono la sospensione dei processi non urgenti, come durante le ferie estive e la bonifica di tutti gli uffici. In allarme lo stesso ministero per voci insistenti di un possibile caso però smentito. La sesta e la settimana commissione del Csm (ordinamento e organizzazione degli uffici), con i presidenti Giuseppe Marra e Alessandra Dal Moro, recepiscono le linee guida per i colleghi ma invitano Bonafede ad adottare una rapida e incisiva strategia. Il decreto sospenderà i processi non urgenti e bloccherà la prescrizione. Si tratterà di “misure restrittive per tutte le strutture giudiziarie per garantire la tutela degli operatori e l’adozione di ogni misura per contenere il contagio”. La giustizia dunque si ferma in Italia? Dal Csm risponde così Alessandra Dal Moro: “Abbiamo ribadito che nessuna misura adottata contempla l’interruzione generalizzata dell’attività degli uffici giudiziari, nemmeno nelle zone rosse”. “Sì alla sospensione delle udienze nelle zone in emergenza” di Giulia Merlo Il Dubbio, 6 marzo 2020 Bonafede pronto al provvedimento. Pronto un decreto legge che autorizza i capi degli uffici giudiziari a sospendere le udienze non urgenti, ove ricorrano cause di necessità dovute al coronavirus. Dovrebbe essere questa la decisione del Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ieri ha incontrato anche il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Andrea Mascherin, per confrontarsi sulle nuove misure da prendere. Il Guardasigilli, infatti, è stato sollecitato da più parti e la richiesta è arrivata quasi unanime: sospendere tutte le udienze fino a data da destinarsi. E dovrebbe essere proprio questa la direzione in cui sta lavorando Via Arenula: prescrizioni restrittive in tutte le strutture giudiziarie per la tutela degli operatori e sospensione delle udienze non urgenti in tutte le zone del Paese in cui si manifestano esigenze sanitarie. Al termine dell’incontro, il presidente Mascherin ha commentato: “Devo riconoscere grande senso di responsabilità nell’Ordine degli avvocati e nei capi degli uffici giudiziari di Napoli, dai quali è stato adottato il modello delle linee guida, che prevede forme di tutela all’interno e al di fuori delle aule. E auspico che tale modello possa ispirare anche i prossimi interventi normativi in materia di giustizia, che siamo certi l’esecutivo non mancherà di adottare con tempestività”. La sollecitazione era arrivata da più parti. Il Csm ieri aveva invitato Bonafede a “valutare un intervento per estendere le misure restrittive previste nei comuni delle aree più colpite dal contagio da coronavirus a tutti gli uffici giudiziari se si dovessero creare situazioni di innalzamento del rischio sanitario”. La delibera, approvata all’unanimità, contiene anche la richiesta “di valutare l’opportunità di istituire tempestivamente un tavolo tecnico congiunto Ministero-Consiglio Superiore, diretto al monitoraggio dell’evoluzione delle condizioni di emergenza sanitaria negli Uffici giudiziari”, per proporre al ministro “l’adozione degli interventi normativi di urgenza, anche di legislazione primaria, che dovessero rivelarsi opportuni o indispensabili, secondo le circostanze” e “di valutare un eventuale intervento normativo per estendere, agli uffici giudiziari per i quali emerga un innalzamento del rischio sanitario, la disciplina ad oggi disposta solo per alcuni territori oppure la normativa prevista per il periodo feriale, in modo da limitare l’attività giudiziaria e ridurre così il rischio di contagio per tutti gli operatori della giustizia ed i cittadini chiamati a partecipare alle udienze”. Il pressing sul ministro della Giustizia si era fatto più forte anche sul fronte dell’avvocatura. L’Organismo congressuale forense, infatti, aveva annunciato l’astensione dalle udienze e da tutte le attività giudiziarie, in ogni settore della giurisdizione, per 15 giorni, a partire dal, 6 marzo, fino al 20 marzo a causa dell’emergenza coronavirus, fatta esclusione per le udienze e le attività indispensabili. Il rischio di contagio, si legge nel documento, “si sta palesando in modo crescente su tutto il territorio nazionale e già numerosi avvocati e magistrati hanno contratto il contagio” e la gestione dell’emergenza sanitaria “continua in gran parte ad essere demandata a scelte discrezionali dei capi degli uffici giudiziari che, nella maggior parte dei casi, hanno assunto provvedimenti volti a limitare le possibilità di contagio nelle sole aule di udienza e all’interno delle cancellerie, ma non hanno alcuna incidenza sulle condizioni in cui gli avvocati, le parti, i testimoni e gli ausiliari debbano attendere lo svolgimento delle attività di rispettiva competenza”. In un comunicato inviato a Il Dubbio, anche il segretario di Anf, Luigi Pansini, aveva auspicato che “i capi degli uffici giudiziari e il Ministero della Giustizia, di concerto e sentite le autorità sanitarie competenti, assumano decisioni omogenee per tutto il territorio nazionale, evitando interpretazioni e soluzioni discrezionali” per contenere la diffusione del virus Covid19. Organizzare il lavoro in massima sicurezza è possibile, doveroso e prioritario rispetto ad un’astensione che in questo momento non fa bene al Paese e agli avvocati”. Nell’ambito delle misure di prevenzione, ieri il Consiglio Nazionale Forense ha emanato un provvedimento anche in materia formativa, disponendo la “sospensione dell’obbligo di acquisizione dei crediti relativi alla formazione continua fino al 5 aprile 2020”. Prevenzione fai-da-te: ogni tribunale si autogestisce In attesa di possibili misure che rendano omogenea la gestione dell’emergenza in tutti i tribunali italiani, ogni foro ha adottato iniziative autonome per ridurre il rischio contagio. Ovviamente, ogni distretto ha adottato le circolari ministeriali che indicano come legittimo impedimento alla partecipazione alle udienze di soggetti provenienti dalle zone rosse focolaio del contagio e hanno divulgato le circolari ministeriali con le indicazioni igienico-sanitarie da rispettare. Al Nord, tuttavia, i tribunali hanno scelto una linea di maggior prudenza. In particolare il tribunale di Milano, dove sono tre i casi di positività già accertati tra chi lavora nell’edificio, ha scelto di sospendere i processi civili ordinari fino al 31 marzo e di chiudere le cancellerie fino a nuova disposizione. Il tribunale di Bologna ha sospeso tutte le udienze civili fino al 31 marzo e disposto il rinvio d’ufficio anche di tutte le udienze penali. Sulla stessa linea di Bologna, anche il tribunale di Rovigo (nel cui circondario si trova uno dei focolai della zona rossa). Al tribunale di Treviso, invece, è stato chiuso fino al 9 marzo l’ufficio del giudice di pace, in seguito a un soggetto trovato positivo al virus. Il tribunale di Padova ha scelto di autorizzare, a discrezione del giudice, il rinvio dei procedimenti civili e penali fissati fino al 31 marzo, indicando però immediatamente la data del rinvio. Il tribunale di Genova ha scelto di lasciare al giudice la discrezionalità di prevedere che l’udienza si svolga a porte chiuse oppure di limitare l’accesso all’aula. Lo stesso è stato disposto anche a Torino, nel Lazio e in Puglia. Al Tribunale di Isernia, invece, è stato predisposto un punto di misurazione obbligatoria della temperatura corporea per tutte le persone che entrano nella struttura. In alcune cancellerie, oltre a un orario ridotto, è stato previsto anche di aprire un solo sportello, purché predisposto di vetro che separi l’utenza dal personale. Spesso, tuttavia, risulta complicato rispettare le misure e in molti tribunali (Milano, Torino, Roma in testa) sono stati segnalati assembramenti fuori dalle aule. Ovunque è stato disposto che nelle cancellerie e nelle aule si entri uno per volta e in alcuni tribunali i giudici sono stati invitati a predisporre il ruolo con scaglioni temporali precisi. In quasi tutti i tribunali della penisola è stato chiesto l’intervento di sanificazione della struttura e alcuni presidenti di tribunale hanno chiesto che vengano predisposti dei dispenser di sapone per le mani. I tribunali chiusi per virus vanno in tilt, giustizia congelata di Iuri Maria Prado Il Riformista, 6 marzo 2020 Ieri mattina il Palazzo di giustizia di Milano era deserto come nemmeno in agosto. Un paio di magistrati sono risultati infetti, e il presidente del Tribunale ha disposto che i giudici del settore civile provvedano a rinviare “a data congrua” le cause chiamate sino al 9 marzo (è fatta eccezione per alcune categorie di procedimenti, come quelli d’urgenza o relativi al trattamento di posizioni personali molto delicate). Poi si vedrà. Intanto però è un macello. Già solo organizzare i rinvii delle udienze è difficile, perché non si fa con un fischio ma serve un provvedimento, che deve essere acquisito dalle cancellerie e comunicato. Sembra nulla ma è complicato, se moltiplichi la cosa per gli innumeri fascicoli che aggravano i ruoli. E poi i termini processuali sono stabiliti dalla legge, non puoi rifare un’agenda dei processi che li trascura. Per non parlare di quel che significa un simile blocco per le persone e le imprese inevitabilmente implicate in una situazione di giustizia congelata. Un guaio, insomma. Si tratta senz’altro di misure necessarie nella gestione di un’incertezza effettiva circa i pericoli di contagio e in vista di quelli, gravissimi, cui potrebbe essere esposta la stessa tenuta dell’efficienza amministrativa. Ma questo piccolo caso riguardante la giustizia milanese (piccolo per modo di dire visto che si tratta di un centro di interessi importantissimo) induce a riflettere molto seriamente sulle ragioni di uno stato di agitazione ben più vasto e che, identicamente, coinvolge pressoché ogni settore della vita sociale. E la riflessione, magari banale ma dovuta, è questa: siamo sicuri che questi provvedimenti di apparentemente necessario contenimento non siano l’effetto di comunicazioni inadeguate da parte dell’autorità pubblica, e di una concezione ormai completamente stravolta della convivenza civile? Ieri ero appunto in tribunale, dove ho constatato quella desolazione agostana. E La giudice con cui parlavo, come diciamo noi, “a margine” dell’udienza, la quale aveva pur doverosamente disposto le sedie l’una distante dall’altra, così che noi avvocati non si rischiasse contaminazione e di contaminare, mi confidava: decenni e decenni di pace e benessere ci hanno fatto credere di aver diritto di non soffrire, di non ammalarci, ma non è un diritto e se pure lo fosse avremmo comunque il dovere di accettarne la provvisorietà, la precarietà nel caso di vicende di questa portata. Parole ragionevolissime. E non perché uno dovrebbe allargare le braccia e non far nulla davanti alla possibilità di ammalarsi, ma perché l’alternativa al pericolo non è l’assenza del pericolo, che non si può ottenere, ma la gestione ragionevole della situazione rischiosa. E a me pare che la sostanziale chiusura di un ufficio pubblico, mentre è disposta - come nel caso del tribunale milanese - per indiscutibili esigenze cautelari, trovi causa in realtà in motivi più profondi, motivi che di ragionevole non hanno proprio nulla e sono invece il segno di una contaminazione già avvenuta e più grave: l’idea, appunto, che occorra garantire un diritto che concretamente non si può garantire, il diritto di tutti a non ammalarsi al costo di arrestare la vita di un Paese intero. Un Paese di vivi, ammalato di sicurezza. Per parte mia, eviterò di dare dettagli sull’impiegato che mi ha salutato con uno starnuto, all’uscita del tribunale. Sequestro, inammissibile il riesame se i beni sono individuati dalla Pg e non c’è convalida di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 5 marzo 2020 n. 8867. È inammissibile il ricorso contro un sequestro - non convalidato dall’autorità giudiziaria - che riguardi categorie di beni indicate genericamente dal Pm la cui “selezione” è lasciata alla scelta della polizia giudiziaria. A rendere il ricorso inammissibile è dunque il carattere non giurisdizionale del provvedimento. Partendo da questo principio la Corte di cassazione, con la sentenza 8867, ha respinto il ricorso proposto dalla difesa di Antonio Brencich, contro la decisione del Tribunale del riesame che bollava come inammissibile il gravame con il quale era contestato il decreto di perquisizione e sequestro avvenuto nell’ambito del procedimento sul crollo del viadotto Polcevera. La Suprema corte avalla la scelta del riesame, sottolineando che l’azione del ricorrente riguardava la fase esecutiva del decreto emesso dal Pm e non il decreto. Circostanza che escludeva l’impugnazione, non prevista quando il Pm rimette alla discrezionalità degli organi di polizia il compito di individuare le cose da sequestrare. Solo l’eventuale decreto di convalida del sequestro apre, infatti, la strada al riesame. Nel caso esaminato il decreto era stato emesso dalla Procura della Repubblica di Genova ed eseguito presso gli uffici del professionista. Dopo la perquisizione la polizia giudiziaria aveva sequestrato la documentazione su carta e i supporti informatici, considerati pertinenti alle indagini: il tutto messo nero su bianco in un verbale. La pubblica accusa non aveva quindi individuato gli oggetti da sequestrare, ma si era limitato a dare delle indicazioni generiche e “categoriali”, lasciando margine alla polizia giudiziaria nella scelta dei documenti e dei files da sequestrare. E correttamente Tribunale ha considerato la richiesta di riesame inammissibile, perché relativa ad un sequestro non giurisdizionale, generico nel contenuto e non convalidato dall’autorità giudiziaria. Il reato tributario ammette il sequestro della prima casa di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 5 marzo 2020 n. 8995. In presenza di reati tributari può essere sequestrata a fini della successiva confisca la prima casa dell’imprenditore. La previsione contenuta nella normativa sulla riscossione infatti non si applica ai provvedimenti di tipo penale. A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di Cassazione, sezione III penale con la sentenza 8995 depositata ieriche si pone in contrasto con precedenti pronunce della medesima sezione. Al legale rappresentante di una società indagato per dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture veniva sequestrato ai fini della futura confisca un immobile adibito a “prima casa” La misura cautelare era confermata dal Tribunale del riesame la cui decisione era impugnata per cassazione. Nel ricorso l’imprenditore rilevava, tra l’altro, che l’abitazione in questione non poteva essere sottoposta a futura confisca in base alle previsioni dell’articolo 52 del Dl 69/2013. Tale norma infatti - modificando la lettera a) dell’articolo 76 del Dpr 602/73, in tema di espropriazione immobiliare ha previsto che l’agente della riscossione non possa procedere all’espropriazione dell’unico immobile di proprietà del debitore con esclusione delle abitazioni di lusso, se esso è adibito a uso abitativo e l’interessato vi risiede anagraficamente Veniva poi evidenziato che una precedente sentenza della Corte di Cassazione (22581/2019) riteneva che tale disposizione impedisse la confisca e quindi il prodromico sequestro della prima casa in relazione a reati fiscali. I giudici di legittimità hanno respinto il ricorso. Innanzitutto viene osservato che la disposizione tributaria richiamata ha introdotto un limite all’espropriazione immobiliare che, a ben vedere, non riguarda la “prima casa”, bensì “l’unico immobile del debitore”. Si tratta di un concetto differente in quanto attiene alla consistenza quantitativa del patrimonio del debitore e non semplicemente la qualificazione del singolo immobile oggetto di pignoramento. Ne consegue, secondo la sentenza, che per invocare l’applicazione della disposizione in tema di espropriazione immobiliare, il debitore non può limitarsi a prospettare che l’immobile pignorato sia la sua prima casa perché questa prospettazione non esclude, di per sé, che il medesimo debitore possegga altri immobili. Inoltre la disposizione non fissa un principio generale di impignorabilità perché si riferisce soltanto alle espropriazioni da parte del fisco per debiti tributari e non anche a quelle promosse da altre categorie di creditori per debiti di altro tipo. Non è neanche ipotizzabile che la disposizione possa trovare applicazione in relazione alla confisca penale in quanto, in questo caso, l’oggetto è il profitto del reato e non il debito fiscale. Nei reati dichiarativi infatti il profitto deve essere individuato nel risparmio economico derivante dagli importi evasi rispetto alla loro destinazione fiscale e non comprende né le sanzioni né gli interessi. Il debito verso il fisco, invece, è sempre comprensivo delle imposte e anche delle sanzioni ed interessi La sentenza evidenzia che questo orientamento si pone in contrasto con quanto già affermato dalla medesima sezione III in precedenti pronunce (2258172019 e 3011/2017) le quali sono giunte a conclusioni opposte ovviamente non condivise. Esse infatti non avrebbero considerato che la normativa richiamata non fa riferimento alla “prima casa” del debitore tributario ma all’unico immobile di proprietà. In ogni caso, non può trovare applicazione nella confisca penale e al prodromico sequestro preventivo. Toscana. Giuseppe Fanfani nuovo garante dei diritti dei detenuti voceapuana.com, 6 marzo 2020 Con 6 voti favorevoli Giuseppe Fanfani è stato indicato dalla commissione Affari istituzionali, presieduta da Giacomo Bugliani (Pd), come il nuovo Garante regionale dei diritti dei detenuti. La proposta di delibera, votata a scrutinio segreto con 6 sì, due schede bianche e un voto a Francesco Ceraudo, passa all’ordine del giorno della prossima seduta del Consiglio regionale. “Avevamo già ampiamente analizzato in commissione le otto autocandidature pervenute- ha detto Bugliani, ricordandone i nomi: Roberto Bocchieri, Francesco Ceraudo, Sofia Ciuffoletti, Giuseppe Fanfani, Paola Foti, Bianca Maria Giocoli, Saverio Migliori, Emilio Santoro”. “Quella fatta è una votazione importante - prosegue il presidente - che va ad individuare una delle principali figure di garanzia del nostro ordinamento regionale”. Bugliani ha ricordato che il dibattito si era già aperto “a fine gennaio, quando è venuto meno il mandato di Franco Corleone, dopo un mese circa di ‘vacatio’ del ruolo si è deciso di arrivare alla designazione” e che il mese trascorso “è servito per valutare l’opportunità di una convergenza quanto più larga possibile da parte delle forze politiche: questo tentativo di unanimità non è andato a buon fine e quindi si è optato per una scelta a larga maggioranza”. Bugliani ha ribadito che “per la figura di garante dei detenuti è richiesta una competenza consolidata in ambito giuridico e, da questo punto di vista, la figura di Giuseppe Fanfani è di assoluto rilievo, anche perché ha ricoperto il ruolo chiave di vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura”. “I curricula pervenuti sono notevoli e solidi e rispecchiano figure professionali di spessore - ha detto il capogruppo Pd Leonardo Marras - abbiamo ragionato su cosa serva prima di tutto alla Toscana. Siamo in una fase avanzata e i temi sui quali dobbiamo spingere adesso sono prevalentemente sociali e di integrazione del fine pena, non si tratta più di esigenze di primaria importanza o di emergenza come qualche anno fa”. Marras ha ribadito che “il Garante deve assumere un ruolo di collegamento autorevole tra le istituzioni locali, regionali, nazionali e l’amministrazione penitenziaria mostrando capacità, prestigio e iniziativa. Non é un operatore di campo ma una figura istituzionale che osserva, agisce, interviene, facilita, coordina, prova a risolvere e, quando non può, ha lo strumento della denuncia”. “Per questo proponiamo Giuseppe Fanfani come garante dei diritti dei detenuti, non solo per le sue conoscenze del diritto e dell’ordinamento, ma anche per le sue esperienze istituzionali e politiche e i compiti svolti dal punto di vista della garanzia e dei diritti dei detenuti”. “Siamo perplessi e contrari a questa nomina - ha detto il capogruppo della Lega Marco Casucci - la nostra posizione è nota, siamo per una figura unitaria di garanzia. Più che alle figure occorrerebbe pensare a rafforzare i servizi, si poteva proporre un organo collegiale”. Un invito al confronto e a un’ampia condivisione sulle candidature è arrivato dal capogruppo di Forza Italia Maurizio Marchetti, con l’obiettivo di “trovare un nominativo che allarghi il campo dalle indicazioni della maggioranza, perché la nomina esca dallo schema politico perché di curricula interessanti ce ne sono più di uno”. “La situazione delle carceri è al limite, in overbooking - ha detto Gabriele Bianchi (gruppo Misto) - c’è l’urgenza di avere un garante, occorre una nomina veloce”. “Voterò con convinzione Fanfani”. “La vacatio non può ulteriormente essere prolungata, vacatio del garante significa potenziale vacatio della garanzia - ha detto Massimo Baldi (IV) - Riguardo alle candidature, è una scelta difficile, è evidente che siamo di fronte a figure di altissimo profilo, qualcuno per vocazione e carriera giuridica, qualcuno per carriera e vocazione psicologistico-pedagogica o medico-sanitaria”. “Come gruppo di Italia Viva ci sembra che la figura di Fanfani sia quella migliore per una serie di ragioni, innanzitutto perché ha un profilo alto e giuridico”, poi ha mostrato “capacità sia in ruoli scientifici che professionali che amministrativi”, “ha dimostrato di saper esercitare le sue capacità apicali con sensibilità sia nei confronti della partecipazione che dell’aspetto decisionale”. L’Aquila. 41bis, il caso del carcere delle Costarelle di Carmine Alboretti ladiscussione.com, 6 marzo 2020 La vita in carcere è già di per sé difficile per detenuti e lavoratori che vi prestano servizio quotidianamente. Ma i disagi crescono a dismisura nel caso delle strutture che accolgono stabilmente soggetti criminali socialmente molto pericolosi. Il carcere di massima sicurezza delle Costarelle de L’Aquila vanta un primato ben noto agli addetti ai lavori, nel senso che conta, in assoluto, il maggior numero di detenuti sottoposti al cosiddetto 41bis. La norma - la cui portata è stata estesa dopo le Stragi di Capaci e via D’Amelio - prevede l’isolamento, nel senso che ogni camera è singola e non si accede agli spazi comuni; l’ora d’aria limitata (solo due ore al giorno e sempre in isolamento) e la sorveglianza costante effettuata da un corpo speciale della polizia penitenziaria che non ha contatti con altre forze dell’ordine; inoltre, i colloqui con la famiglia sono estremamente ridotti e avvengono senza contatto fisico, attraverso un vetro, e con una durata ristretta. È evidente che si tratta di disposizioni particolarmente afflittive che, non a caso, si applicano nei confronti di coloro che sono chiamati a rispondere di fatti molto gravi di mafia, terrorismo e eversione, riduzione in schiavitù e tratta di persone, prostituzione minorile, pedo-pornografia, violenza sessuale di gruppo, sequestro di persona per rapina o estorsione, e al traffico di sostanze stupefacenti. Non appare difficile comprendere quanto all’interno del penitenziario abruzzese si respiri un’atmosfera pesante. Stando ai dati diffusi dal segretario generale territoriale Uil-Pa polizia penitenziaria, menzionati in una interrogazione al ministro della Giustizia, presentata da Stefania Pezzopane, rispetto solo a pochi anni fa, il numero dei detenuti nel carcere del capoluogo regionale risulta raddoppiato, con inevitabili conseguenze sul carico di lavoro e sulla sicurezza degli operatori carcerari. In luogo degli 80 detenuti del 2010 da qualche tempo a L’Aquila non si scende al di sotto dei 160. Con il raddoppiarsi dei reclusi sono inevitabilmente aumentate una serie di attività correlate che richiedono la presenza degli operatori penitenziari e quindi la moltiplicazione del carico di lavoro. “Il tutto - si legge nel testo dell’atto di sindacato ispettivo - è aggravato dal non adeguato numero di operatori carcerari a fronte di un aumento importante della popolazione detenuta. Di qui la richiesta di un aumento adeguato del personale di polizia penitenziaria o comunque, di riportare il numero di sottoposti al regime speciale ai valori antecedenti il 2010, anche per ragioni di sicurezza. Sulla scorta di questi rilievi la deputata del Pd ha chiesto di sapere dal Guardasigilli “quali urgenti iniziative di competenza intenda adottare, anche mediante l’incremento del personale di polizia penitenziaria presso il carcere di massima sicurezza delle Costarelle de L’Aquila, al fine di garantire adeguati standard lavorativi e di qualità della vita agli operatori penitenziari”. Non ci resta che attendere la risposta in Commissione Giustizia dell’esponente del Governo Conte II o di un sottosegretario da lui delegato alla risposta… L’Aquila. La Rems di Barete, dalla eccellenza alla precarietà di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 marzo 2020 Interrogazione di Stefania Pezzopane, del Pd, sulla struttura. Fino a qualche tempo fa era stata ritenuta un fiore all’occhiello, ma con il passar del tempo sono aumentate i problemi che hanno provocato una interrogazione parlamentare urgente a firma della deputata del Partito Democratico Stefania Pezzopane. Parliamo della residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Barete, in Abruzzo. Secondo la deputata, la Rems avrebbe assunto ormai un aspetto sempre più detentivo e sempre meno una definizione sanitaria riabilitativa. Sono numerose le problematiche emerse: dalla precarietà del personale, alla mancanza di progetti terapeutici e riabilitativi da parte dei Centri per la Salute mentale e, più in generale, è presente negli operatori un profondo malessere che si associa a una gestione che andrebbe rivista, per lo più improntata all’intervento in emergenza. Si fa riferimento al report di Stop Opg, l’osservatorio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e sulle Rems che ha visitato recentemente la struttura. La rappresentanza dell’equipe presente all’incontro ha espresso alla delegazione di Stop Opg una grande sofferenza e difficoltà operative nella gestione della struttura. I problemi manifestati riguarderebbero la precarietà del personale che è rappresentata da un turnover molto frequente che determina una certa fragilità dell’equipe e nella condivisione delle prassi lavorative. È stata segnalata anche la scarsa collaborazione di alcuni Centri di Salute Mentale relativamente alla presa in carico e alla stesura dei progetti terapeutici individuali: ciò ricade sulla qualità di vita del paziente all’interno della Rems con conseguente rischio di non riabilitarsi e quindi, come conseguenza, determinare permanenze prolungate. L’aumento di misure provvisorie, inoltre, si è spesso rivelata conseguenza di invii impropri che hanno sensibilmente influenzato l’operatività quotidiana della struttura sanitaria. C’è il caso di un internato, con atteggiamenti aggressivi, al quale è stata prorogata diverse volte la misura di sicurezza che ha condizionato marcatamente l’andamento della Rems abruzzese determinando su di sé la totale attenzione dell’equipe curante. In effetti anche la visita dell’osservatorio Stop Opg è stata focalizzata sulle difficoltà espresse dagli operatori nella gestione operativa e nei vissuti altamente frustranti ingenerati dal paziente. “Agli atteggiamenti aggressivi - si legge nel report di Stop Opg - è stata data nel tempo una risposta sempre più repressiva (intervento delle forze dell’ordine, Tso, rimozione degli arredi), subordinando la possibilità di un contenimento relazionale. In generale si può affermare che è presente negli operatori un profondo malessere che si associa ad una gestione quotidiana che andrebbe rivista nella sua organizzazione operativa che è per lo più attualmente improntata all’intervento in emergenza”. Le problematiche enunciate dagli operatori rappresentano, quindi, un quadro dell’equipe caratterizzato da una profonda instabilità e solitudine che mal si concilia con il delicato intervento che si richiede all’interno di una Rems. “Nel confronto con le due precedenti visite - scrive l’Osservatorio nel report - è evidente come la Rems assuma aspetto detentivo e sempre meno una definizione sanitaria riabilitativa sia nel contesto abitativo che operativo, evidenziando un peggioramento sia strutturale che operativo”. La stessa equipe curante inoltre ha evidenziato il bisogno di un costante lavoro di formazione con una adeguata supervisione. Il clima che si è instaurato di paura diffuso sta sempre più determinando chiusure e preoccupanti separazioni fra curanti e curandi. “Appare - ha sottolineato Stop Opg - necessario coinvolgere le Associazioni nei progetti personalizzati per una maggiore valorizzazione della già presente collaborazione con la Rems, mancando ora la partecipazione degli operatori alle attività associative sia intra che extra moenia. L’Osservatorio esprime massima disponibilità alla collaborazione sia alla Direzione Aziendale e Dipartimentale che al competente Assessorato Regionale”. Agrigento. Carcere Petrusa, si riduce allarme tubercolosi di Irene Milisenda Quotidiano di Sicilia, 6 marzo 2020 Nessuna infezione in corso all’interno del carcere e zero pericoli per la comunità agrigentina. Messe in atto anche le misure per il contenimento del Coronavirus imposte dal Governo. All’interno della casa circondariale Pasquale Di Lorenzo, dopo il caso del detenuto affetto di tubercolosi trasferito al Pagliarelli di Palermo (per il quale non sarebbero state adottate misure adeguate), sono scattati i controlli per accertare eventuali infezioni tubercolari. Una serie di verifiche che ha dato esito negativo. “All’interno del carcere di Agrigento non c’è nessun caso di infezione tubercolare”, ha chiarito il direttore della casa circondariale Valerio Pappalardo. È stata fatta chiarezza sui test di Mantoux effettuati sia dal personale della Polizia penitenziaria che dai detenuti. Più di 150 le persone sottoposti ai test, di cui venti positive, anche se ciò non significa che queste persone siano malate. “Nessun allarmismo - ha spiegato - Pappalardo - perché il personale, compreso io stesso, ha effettuato i controlli e la positività non si traduce in malattia. Posso affermarlo poiché da ulteriori accertamenti e analisi non è risultata nessuna infezione in corso. Vorrei tranquillizzare la comunità agrigentina che non sussiste nessun allarme”. Insieme al direttore Pappalardo hanno preso parte alla conferenza il capo della Polizia penitenziaria Giuseppe Lo Faro e la responsabile del Servizio giuridico-pedagogico, Maria Faro. Come riferito dall’Asp, la scorsa settimana il medico referente dell’Asp di Agrigento e i tecnici radiologi, grazie a una strumentazione portatile, hanno eseguito le lastre al torace dei detenuti risultati positivi ai test, ma fortunatamente non è emersa la malattia infettiva. Nel frattempo, per prevenire il contagio dal Coronavirus, anche all’interno della struttura carceraria si stanno adottando le direttive dettate dal Governo nazionale. Il personale è munito di mascherine, sono state sospese le attività didattiche e sono state limitate le visite e i colloqui con i detenuti. Lodi. Il Centro raccolta solidale non ha più cibo per i poveri Vita, 6 marzo 2020 Arriva dal capoluogo lodigiano un appello che invita alla solidarietà. Con il blocco delle zone rosse e l’assalto ai supermercati degli scorsi giorni i volontari non sono riusciti a raggiungere tutte le famiglie. E le nuove disposizioni hanno anche bloccato la raccolta prevista per questo sabato. Il Centro rimane aperto nel prossimo weekend per chi volesse donare prodotti per i pacchi alimentari destinati ai nuclei fragili. Il Centro di Raccolta Solidale per il Diritto al Cibo con Caritas Lodigiana, Associazione Progetto Insieme, Cooperativa Famiglia Nuova, Movimento per la Lotta Contro la Fame nel Mondo e Fondazione Banca Popolare di Lodi firmano insieme un appello per poter continuare a sostenere le famiglie fragili del territorio che vivono come maggior difficoltà questo periodo. Si legge infatti: “In questi giorni il propagarsi del Covid19 e le strategie messe in campo per arginare il contagio, stanno causando gravi difficoltà nei nostri territori. Per tutti noi è diventato più difficile spostarsi, fare la spesa, recarsi al lavoro, e vivere la vita quotidiana con la libertà di autodeterminazione che di solito ci è concessa. Tutto questo si sta riflettendo in tutti gli aspetti delle nostre vite, e ancora di più sta condizionando la nostra possibilità di sostenere i bisogni di famiglie che, essendo già fragili, si trovano oggi sempre più in difficoltà”. Inoltre, “Con il blocco delle zone rosse e i supermercati presi d’assalto è diventato molto difficile per il Centro di Raccolta Solidale erogare il servizio di distribuzione settimanale del pacco, perché non avendo più fornitori, non abbiamo più prodotti” è l’amara constatazione. I responsabili del centro raccolta solidale nel corso di questa settimana sono riusciti ad effettuare una distribuzione straordinaria acquistando direttamente nuove merci, ma - sottolineano - “pur mettendoci tutta la nostra forza, economica e di risorse umane, non siamo riusciti a raggiungere tutte le famiglie che di solito si rivolgono ai nostri Servizi. Siamo estremamente consapevoli che tutto questo abbia avuto un grave impatto anche sulle vostre vite, ma ci troviamo comunque nella necessità di fare appello alla vostra sensibilità, per ottenere un sostegno in questo difficile momento”. “Chiunque fosse disponibile a donarci dei prodotti (purché non a breve scadenza) potrà recarsi al Centro di Raccolta Solidale di Lodi, in via Pace di Lodi, 9 venerdì 6 marzo dalle ore 8 alle 16.30 oppure il sabato dalle 8.30 alle 12.30. Straordinariamente, per questa settimana, saremo aperti anche sabato pomeriggio dalle 14.30 alle 18.30 e domenica 8 marzo alla mattina dalle ore 9 alle 13”, questo l’accorato appello “Qualunque contributo per noi sarà prezioso: questa situazione ci ha costretti a sospendere anche la raccolta alimentare che avevamo in programma per questo sabato, uno degli strumenti essenziali che realizziamo per sostenerci, per cui abbiamo davvero bisogno del vostro aiuto”. Castrovillari (Cs). “Rispetta la Legge, ne vale la Pena”, studenti e docenti visitano le carceri calabriadirettanews.com, 6 marzo 2020 Con la visita degli studenti degli istituti d’istruzione superiore di Trebisacce alla Casa Circondariale “R. Sisca” di Castrovillari, si è compiuta, giorno 19 febbraio, la seconda e conclusiva parte del progetto “Rispetta la Legge, ne vale la Pena”, promosso dall’Amministrazione comunale di Trebisacce ed ideato dall’Assessore all’Istruzione Roberta Romanelli. Dopo l’incontro tenutosi a Trebisacce, durante il quale gli studenti dell’Iti Ipsia Aletti, dell’ITC G. Filangieri, e del Liceo G. Galilei, hanno incontrato alcuni detenuti della Casa Circondariale “R. Sisca”, confrontandosi con loro sulle dinamiche che li hanno condotti a scontare la propria pena nella realtà detentiva di Castrovillari, nella seconda parte del progetto i ruoli si sono invertiti. Sono stati infatti gli studenti, accompagnati dai docenti e dall’Ass. Romanelli a visitare la Casa Circondariale “R. Sisca”, per capire la vita all’interno del carcere. Un’esperienza formativa intensa, che ha suscito nei giovani studenti forti emozioni e una presa di coscienza sulle conseguenze del proprio agire. L’idea progettuale, che è dunque risultata vincente, attraverso un’azione che mira a rafforzare il concetto di rispetto della legalità si è posta quale obiettivo principale quello di promuovere tra gli adolescenti la cultura della legalità, del rispetto delle regole e del senso di responsabilità verso sé stessi e verso i cittadini. “É stata davvero un’esperienza intensa dalla quale è nata un costruttivo confronto - ha dichiarato l’Assessore Romanelli - L’obiettivo era quello di far toccare con mano ai ragazzi le reali conseguenze degli errori, in cui tutti possiamo incorrere. Ho visto gli alunni insegnare ai detenuti e i detenuti insegnare agli alunni. Uno scambio di esperienze che ha lasciato l’entusiasmo negli occhi di tutti. Nessuno era lì per giudicare: c’era solo voglia di imparare. Il carcere è un luogo triste, ma leggere negli occhi di quei ragazzi la voglia di cambiare e la consapevolezza di aver sbagliato e di dover rimediare ha lasciato in tutti un gusto meno amaro. Un sentito ringraziamento voglio rivolgerlo Al Dott. Giuseppe Carrà, Direttore Penitenziario Casa Circondariale R. Sisca, al Dott. Carmine Di Giacomo, Comandante di Reparto Polizia Penitenziaria Casa Circondariale, alla Dott.ssa Maria Pia Barbaro, Responsabile Area Trattamentale Casa Circondariale che hanno permesso, con professionalità, la realizzazione dell’iniziativa. Allo stesso tempo non posso che ringraziare chi sempre coglie le sollecitazioni che indirizziamo loro, cioè le scuole di Trebisacce, con i loro dirigenti, gli insegnanti e gli alunni tutti”. Terni. Detenuti al lavoro per il decoro dello stadio “Liberati” umbriaon.it, 6 marzo 2020 Firmata la convezione fra Ternana Calcio, polizia di Stato e altri soggetti per opere di riqualificazione esterna dello stadio. È stata firmata giovedì mattina, presso la casa circondariale di Terni, la convenzione per la realizzazione di un progetto sperimentale che vede l’impiego di detenuti in lavori di pubblica utilità. L’iniziativa, concordata con il prefetto di Terni, Emilio Dario Sensi, e con il sindaco Leonardo Latini, è finalizzata alla riqualificazione di aree esterne dello stadio “Libero Liberati” che necessitano di manutenzione, attraverso l’impiego di due detenuti per un periodo di tre mesi, suscettibile di proroga. Il progetto rientra negli interventi di inclusione sociale, previsti dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, a favore delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, finalizzati al reinserimento sociale e all’acquisizione di competenze e conoscenze professionali utilmente spendibili nella fase post-detentiva. Il significato - I due detenuti, la cui sorveglianza durante le ore di lavoro sarà a cura della polizia penitenziaria, sono stati selezionati in base alla rispondenza a dei requisiti specifici con l’approvazione del magistrato di sorveglianza di Spoleto. La scelta dello stadio Liberati non è stata causale e la sua riqualificazione, come sottolineato dal questore di Terni Roberto Massucci, è particolarmente significativa nell’orientare i comportamenti delle persone in senso positivo: “Un’operazione di correzione strutturale, finalizzata al miglioramento della percezione della sicurezza. Un percorso di legalità, collegato al rispetto dei luoghi che hanno, come nel caso dello stadio, un alto valore simbolico”. L’iniziativa ha visto il consenso immediato di tutte le parti che giovedì mattina si sono incontrate per siglare l’avvio del progetto: per la Ternana Calcio era presente il vice presidente Paolo Tagliavento, per l’ufficio esecuzione penale esterna, il direttore Silvia Marchetti e per la casa circondariale di Terni, il direttore Luca Sardella. “Orgoglioso di questa iniziativa, unica nel suo genere - le parole di Tagliavento - e che ha avuto, da subito, il consenso entusiasta del presidente Stefano Bandecchi. Come società siamo felici di poter contribuire alla crescita sociale del nostro territorio anche attraverso operazioni come questa. Il Liberati sarà più bello anche grazie al lavoro di queste persone che magari trarranno giovamento da questa esperienza; con la speranza che possa anche servire loro per il reinserimento sociale una volta scontata la pena residua”. A Terni per l’occasione anche il presidente della Lega di C, Francesco Ghirelli: “Devo ringraziare la Ternana che ancora una volta si muove su un terreno innovativo, che combacia esattamente con la mission della Lega che mi onoro di presiedere: territorio, socialità, legalità. Collegare il recupero dei detenuti attraverso dei lavori da svolgere allo stadio, che è un luogo di gioia, non fa altro che aumentare in me la convinzione di dover ascoltare con attenzione, imparare e trasferire questa esperienza in altre realtà del nostro Paese per determinare una crescita della nostra Lega e del calcio in generale che ha bisogno sempre maggiore di valori positivi”. Milano. Carcere di Bollate, quando la bicicletta aiuta i detenuti malpensa24.it, 6 marzo 2020 La bicicletta ha tanti pregi ma di essere strumento di redenzione forse le mancava. E a colmare questa lacuna ci stanno pensando quelli del carcere di Bollate, alle porte di Milano. “Il progetto si chiama A.c.t.s. A Chance Through Sport - spiega il professore Andrea Di Franco del Politecnico di Milano a La Gazzetta dello Sport. Da diversi anni come Politecnico abbiamo avviato una serie di studi all’interno del carcere, legati agli spazi, ma anche alla qualità della vita dei detenuti e della polizia penitenziaria che condivide i medesimi luoghi. Questo è il primo studio che riguarda lo sport fatto dal Politecnico e abbiamo ottenuto questo riconoscimento. Ora lo vogliamo tradurre in qualcosa di concreto e reale”. E ancora: “Per la popolazione carceraria la cura del fisico è l’ultima barriera, l’ultima difesa. E quella del ciclismo può essere una pratica molto interessante da sviluppare all’interno di un carcere come Bollate che ha spazi adatti su cui lavorare. In questo nostro progetto abbiamo trovato già alcuni compagni di viaggio, ma altri ne vogliamo aggregare. Lo studio di avvocati Bonelli Erede di Milano ci è stato subito vicino: questo studio ha al suo interno un gruppo di fan delle due ruote che ha costituito un gruppo sportivo che si chiama Amici di Davide Cassani. Così il c.t. è diventato nostro testimonial e ha dato la sua disponibilità ad accompagnarci in una pedalata da Milano a Parma, con detenuti e guardie (all’interno di Bollate è stata costituita una Asd da parte dell’ispettore Vincenzo Ormella, ndr). Abbiamo già ottenuto il supporto del Comune di Milano e anche l’appoggio dell’olimpionico Antonio Rossi. Ma vogliamo andare oltre: perché il senso è lasciare qualcosa che possa essere più duraturo, come una “pista”, non un vero e proprio velodromo, ma qualcosa che possa assomigliarci. Ma già prima a Bollate vorremmo recuperare anche uno spazio per gli allenamenti da “fermi” con cyclette o i rulli proprio perché si possano organizzare nei prossimi mesi allenamenti continuativi. Mapei e la casa di produzioni Dude sono già adesso al nostro fianco. Ma stiamo cercando anche altri partner perché questo sogno diventi realtà e si possa ingrandire ancora di più”. Roma. La laurea dietro le sbarre, sognando un futuro e il riscatto di Grazia Longo La Stampa, 6 marzo 2020 Reclusi in carcere come “in un collegio svizzero, dove studiare fino a conseguire la laurea”. È la linea dettata da un avvocato a tre suoi famosi detenuti, tutti condannati in via definitiva per omicidio. Due di loro si stanno preparando alla laurea in legge. Qualcuno potrà pensare a un contrappasso, qualcun altro a un paradosso, ma Valter Biscotti, il loro difensore, preferisce parlare di “un gesto di riscatto”. Uno dei due studenti modello è Salvatore Parolisi, l’ex caporalmaggiore che deve scontare 20 anni nella prigione di Pavia per aver ucciso, il 18 aprile 2011 nel bosco di Ripe di Civitella, in provincia di Teramo, la moglie Melania Rea. L’altro è Winston Manuel Reyes, il cameriere filippino reo confesso (nel marzo 2011) del delitto, all’Olgiata a Roma il 10 luglio 1991, della contessa Alberica Filo della Torre. A Winston, detenuto a Rebibbia, è stata inflitta una pena di 16 anni. E c’è poi un terzo assistito dell’avvocato Biscotti che di laurea ne ha già presa una e sta per conseguirne una seconda. Si tratta di Rudy Guede, l’ivoriano condannato in concorso con ignoti (Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti in Cassazione) per l’assassinio della studentessa Meredith Kercher il 1 novembre 2007 a Perugia. Nel carcere di Viterbo, Guede si è già laureato con 110 e lode in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e a breve diventerà di nuovo dottore in Storia e società all’università di Roma Tre con una tesi in narrazione cinematografica. “Quando Rudy fu condannato - ricorda l’avvocato Biscotti - gli consigliai di diplomarsi e laurearsi in prigione. “Fai finta di essere chiuso in un collegio svizzero e prendi la laurea” gli dissi e lui mi ha dato ampiamente ascolto”. Il desiderio di affrancarsi studiando in prigione, del resto, è una tendenza che riguarda anche altri casi. Su poco più di 60 mila detenuti che si registrano nel nostro Paese, nel 2018 si sono laureati in 28, tutti uomini. Mentre gli iscritti all’università, nell’anno accademico 2018/2019, sono stati 796, distribuiti in 70 istituti di pena e iscritti a 30 atenei. I dati, elaborati dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), sono inseriti nel XV rapporto dell’associazione Antigone, associazione che si occupa di detenzione e giustizia penale, pubblicato a maggio 2019. La percentuale degli iscritti sul totale della popolazione carceraria è la seguente: circa l’1% del totale (60.476 gli uomini reclusi al 31 maggio, 2.648 le donne). E infatti le studentesse in carcere sono 26, gli studenti detenuti 743. Ma cosa studiano gli studenti carcerati? Un quarto degli iscritti (il 25,6%) studia discipline politico-sociologiche. Al secondo posto, con il 18,6%, si piazzano le materie umanistiche (da Lettere a lingue fino al Dams). Seguono Giurisprudenza (15,8% degli iscritti), Scienze naturali, Agraria, Storia (9,2%), Psicologia ed Economia (attorno al 6%) e infine Ingegneria e Matematica. A due lauree punta Rudy Guede, che oggi ha 34 anni, e ha già scontato 12 dei 16 anni di reclusione che gli sono stati inflitti con il rito abbreviato. Non ha mai negato di essere presente in casa al momento dell’omicidio ma si è sempre professato innocente. “Chi lo incontra oggi - sottolinea l’avvocato - racconta di un Rudy serio ed impegnato. Credo che anche gli studi in carcere abbiano contribuito molto alla sua riabilitazione”. Oltre a Guede, anche Parolisi, a differenza di Winston, si è sempre proclamato innocente ma la Cassazione ha stabilito il contrario. “Ribadisco l’importanza della pena certa - osserva il legale - ma un condannato ha diritto di riscattarsi, studiando, come una persona costituzionalmente rinata”. Ma perché proprio il corso di Giurisprudenza? “Chi, come Salvatore, si sente innocente forse ha voluto trovare una chiave per capire quello che gli è successo. Salvatore è stato vittima di un processo mediatico pazzesco. Per chi, invece, come Winston ha confessato l’omicidio, anche se con 20 anni di ritardo, studiare legge è una sorta di catarsi”. E se Rudy Guede durante il giorno usufruisce dei permessi per lavorare in una biblioteca del centro per gli studi criminologici di Viterbo (la sera rientra in carcere), Salvatore Parolisi potrebbe ottenere a breve il permesso di uscire dalla prigione. In carcere da 8 anni e mezzo, l’ex militare, ha sempre rifiutato l’accusa di assassino - la moglie Melania fu uccisa a 28 anni con 45 coltellate, mentre la figlia di soli 18 mesi dormiva nell’auto parcheggiata poco distante - ma ha ammesso di aver tradito la moglie con la soldatessa Ludovica. “Sono un traditore, non un assassino”, ha ripetuto all’infinito. Ma la legge non gli ha creduto e gli ha anche vietato di incontrare la figlia che oggi ha quasi 11 anni. Winston Manuel Reyes, invece, pur avendo già da tempo la facoltà di usufruire dei permessi premio, preferisce scontare tutta la pena dietro le sbarre. Alba (Cn). Annullata la mostra “Nel mezzo del cammin di nostra vita…” Ristretti Orizzonti, 6 marzo 2020 A causa dell’emergenza coronavirus, seguendo le disposizioni del decreto firmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri il 4 marzo 2020, è annullata la mostra “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”, ultimo appuntamento della rassegna “TuttiDiritti - Carcere, Legalità, Persone” previsto dal 14 al 29 marzo nel Palazzo Banca d’Alba ad Alba. “Esecuzione penale esterna e rientro in formazione degli adulti”, di Silvestro Tucciarone tgpadova.it, 6 marzo 2020 “Avvicinare al tema quanti non sanno della presenza, nel territorio, del centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia) e dell’esecuzione penale esterna”, ma anche e soprattutto dei risultati sul piano del reinserimento attraverso la scolarizzazione derivanti dalle iniziative messe in campo dalle due realtà. Silvestro Tucciarone, pedagogista ed insegnante di italiano negli istituti di prevenzione e pena di Padova, sintetizza così lo scopo del libro “Esecuzione penale esterna e rientro in formazione degli adulti” (Edizioni Progetto). Il volume, curato da Tucciarone con i contributi di Susanna Cristofanello e Francesco Lazzarini, analizza la complessa realtà, alla luce di protocolli e intese tra realtà diverse, che permette alle persone soggette a misure alternative al carcere di accedere a corsi scolastici per adulti. Questo, nel padovano, è stato possibile grazie a un accordo di collaborazione tra il Cpia di Padova e l’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna (Uepe) di Padova e Rovigo e a distanza di un anno dall’inserimento si è concluso con successo il percorso scolastico, presso il Cpia di Padova, del primo utente Uepe. Un corsista in affidamento in prova ha conseguito il diploma di licenza media nella sessione di febbraio. “Si trattava - spiega Tucciarone - di rendere operative le indicazioni contenute in precedenti protocolli del ministero della Giustizia e del ministero dell’Istruzione che prevedevano eguali opportunità di accesso agli studi, in qualsiasi periodo dell’anno, sia ai detenuti in carcere che a detenuti domiciliari e a persone nelle misure alternative”. Il Cpia di Padova si è impegnato nel rendere concreti e operativi questi accordi partire da febbraio 2019. Persone segnalate dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna si trovano inseriti in corsi serali e corsi per adulti di tutta la provincia. A questo risultato, unico in Regione e probabilmente in tutto il Paese, si è giunti attraverso la stretta collaborazione delle due istituzioni. Ex detenuti o persone con misure diverse dalla detenzione - sottolinea - hanno ora la possibilità “di iniziare, riprendere e completare gli studi, di migliorare o imparare la lingua italiana e così facendo spendere in modo proficuo e risocializzante il loro tempo che, se vuoto, renderebbe nulli i vantaggi della non carcerazione”. “L’inserimento di questi utenti - conclude Tucciarone - inizialmente sembrava porre serie questioni di sicurezza come di privacy ma, dopo le prime legittime perplessità degli insegnanti, i risultati raccontano di persone eccezionali che sanno riprendersi, sperare e lottare per una vita migliore a partire dalla consapevolezza dei reati commessi”. Rapporto Onu: il 90% del mondo ha pregiudizi sulle donne di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 6 marzo 2020 Quanto è spesso il soffitto di cristallo? Un rapporto Onu presentato in queste ore dal Development Programme (Undp) ci dice che quasi il 90% degli esseri umani del pianeta nutre un pregiudizio nei confronti delle donne. Il Gender Social Norms Index, pubblicato oggi, contiene dati da 75 Paesi e copre l’80% della popolazione. Nonostante i progressi compiuti per ridurre il gap fra uomini e donne il 91% degli uomini e l’86% delle stesse donne coltiva tuttora almeno un elemento di “pregiudizio” verso l’universo femminile in relazione alla politica, all’economia, all’educazione, alla violenza sessuale. In totale risulta che un 80% del campione è convinto che gli uomini siano leader politici migliori delle donne, un 40% che siano meglio al vertice del business e un 28% addirittura che sia accettabile per i mariti picchiare le mogli. “Sono numeri che io considero scioccanti - ha commentato Pedro Conceicao, funzionario Onu e responsabile del rapporto - Vi sono progressi in molte realtà di base nella partecipazione e dell’empowerment delle donne, ma in altre continuiamo a sbattere contro un muro”. La politica - Gli uomini e le donne si recano alle urne nelle stesse percentuali ma poi gli eletti sono in maggioranza maschi. Solo il 24% dei parlamentari nel mondo è di sesso femminile, su 193 capi di governo le donne sono dieci. Le donne sono pagate meno nel mondo del lavoro. “Il più grande furto della storia” come lo ha definito Anuradha Seth, consigliera per il programma di sviluppo delle Nazioni Unite. Nelle 500 compagnia di S&P solo il 6% dei Ceo sono donne. Il 2020 segna il 25simo anniversario della Piattaforma di azione approvata a Pechino, l’agenda più visionaria sull’empowerment delle donne che si ricordi. L’Undp si appella ai governi e alle istituzioni perché varino delle politiche per cambiare questi pregiudizi discriminatori e accrescere la consapevolezza delle persone. Com’è perdente la difesa dei confini che oblia il costituzionale diritto d’asilo di Antonella Rampino Il Dubbio, 6 marzo 2020 I Decreti Salvini, eliminando l’accoglienza e opponendosi all’integrazione, hanno ampliato la zona d’ombra nella quale vivono 600mila migranti. Viviamo in tempi in cui è la neopresidente della Commissione europea a correre sul luogo in cui l’Europa di Ventotene muore, come ha sintetizzato efficacemente in un titolo Il Dubbio commentando lo scempio che contro i migranti inermi avviene da parte del governo ultraconservatore greco con un “ringraziamo il governo di Atene che fa da scudo ai confini europei”. Scudo, ha detto proprio così. Tutti sperano che le parole di Ursula Von der Leyen siano - oltre che la manifestazione di una leadership incongrua - solo sfuggite in una situazione di emergenza. Ma purtroppo è probabile che non sia così. Il grave è che la delfina di Angela Merkel dà voce a un malinteso diffuso, e nel suo caso a quanto pare addirittura da chi, come presidente di Commissione Ue, proprio non può consentirsi di ignorare i diritti dell’uomo, ivi compreso il diritto di asilo, che sono scritti e ribaditi in tutti i Trattati: come principi inderogabili in quelli istitutivi dell’Unione, e anche operativamente nel Trattato che regola il funzionamento del l’Unione, il Tfue che affida la difesa dei confini extra- Schenghen a precisi organismi comunitari e non agli eventuali sceriffi dei singoli Stati. Semmai, dalla presidente Von der Leyen ci si aspetterebbe che promuovesse una riflessione sull’applicazione dell’articolo 6 del Trattato di Nizza: quello che mette in mora qualunque Stato violi i principi fondanti dell’Unione (e che è stato recentemente fatto valere contro l’Ungheria di Viktor Orban per violazioni della rule of law). Ma appunto, il tema della “difesa dei confini” viene brandito qua e là, e anche da personalità da cui, per ruolo, livello sociale e cultura, proprio non ce lo si aspetta, o è per funzione dovuto proprio l’esatto contrario. A inizio settimana sul Dubbio, Ginevra Cerrina Feroni ha lamentato che “lo Stato italiano” nel dopo- Salvini sia tornato a salvare i migranti in mare, e debba “ancora farsi carico del mantenimento, della salute, dell’identificazione e collocazione logistica”. E per giunta, aggiunge, si annuncia pure una retromarcia sui “decreti sicurezza” di chi si è tanto adoperato “per difendere i confini italiani”. Non vorremmo essere noi a ricordare che il decreto legislativo 300/ 99 che assegna i compiti ai ministri non prevede la difesa dei confini per quello dell’Interno (e nemmeno per altri, in verità), e tantomeno l’inequivoco articolo 10 della Costituzione italiana in materia di diritto d’asilo, oltre a numerose leggi e trattati internazionali che l’Italia ha sottoscritto, e che sono essi stessi leggi dello Stato. Non vorremmo essere noi a ricordare che si tratta di semplici norme di civiltà, operative durante tutta la storia repubblicana, dalle quali solo l’apparizione del sovranismo e del populismo sulla scena politica italiana ha cercato di deviare, nella presa di distanza professata in ogni dove e con ogni mezzo, missive comprese, dal Capo dello Stato. Peraltro, il primo dei ricorsi per incostituzionalità dei “decreti sicurezza” è all’esame della Consulta giusto in questi giorni. Ci limitiamo soltanto a farci venire un dubbio. Se è umano - troppo umano - l’istinto a chiudere porte e alzare muri (“Cancellare Schengen!” era stata l’immediata richiesta di Salvini, alle prime notizie del diffondersi Covid- 19), basta il semplice esercizio della razionalità per comprendere che è solo aprendo le porte della collaborazione tra le Nazioni e le comunità scientifiche, lasciando altresì libera la circolazione delle merci e delle persone non ammalate, che si può evitare il diffondersi di isterie e psicosi, continuando intanto a frenare l’espandersi dell’epidemia di un nuovo virus. Ma con un dubbio, appunto: i decreti Salvini, eliminando le strutture d’accoglienza, opponendosi per legge all’integrazione, hanno ampliato la zona d’ombra nella quale in Italia si calcola vivano circa 600mila migranti. Siamo sicuri che la loro condizione di emarginati e di clandestini, ai sensi della Bossi- Fini che proprio per questo andrebbe abolita, sia nell’interesse nazionale, nell’interesse degli italiani e non semplicemente di chi lucra posizioni di potere sulla paura? Chiudere il mondo a chiave, buttare a mare i migranti o sparar loro addosso non si può. In situazioni complesse, non si può essere emotivi né dar sfogo alla meschinità: si può solo essere razionali. Non solo l’Italia ma l’Europa tutta dovrebbe mettersi al lavoro per un serio piano di immigrazione, a flussi controllati. Non è compassione, è interesse degli europei. Lo dicono i dati demografici, di forza lavoro, e pure di bilancio. Quanta integrazione si sarebbe potuta fare, aiutando la convivenza civile, con quei miliardi dati ad Erdogan perché tenesse in Turchia i 3 milioni e mezzo di rifugiati che oggi usa come arma di ricatto? Profughi trattati come merce di scambio, a Lesbo muore l’umanità dell’Ue di Mons. Vincenzo Paglia Il Riformista, 6 marzo 2020 A Lesbo finisce l’Europa, alle frontiere del Mediterraneo si arresta l’umanità. Migliaia e migliaia di profughi diventano merce di scambio nell’indifferenza generale e nella strumentalizzazione per fini geopolitici. Forse possiamo dire che il “Coronavirus” è stato capace di indebolire ancora di più le “difese immunitarie” della solidarietà, della giustizia, della libertà, della fraternità, dell’uguaglianza. L’Europa della modernità, l’Europa dei diritti dove è andata a finire? E stentiamo a riconoscere l’Europa della civiltà latina e cristiana, di fronte alle terribili immagini di un bambino (l’ennesimo!) morto in spiaggia o nella disumana situazione dei campi profughi. Come al solito i profughi vengono trattati quale merce di scambio: i bombardamenti costringono a fuggire dalla propria terra, chi apre le frontiere li tratta - insisto - proprio come merce di scambio e la Grecia diventa una porta per un’Europa arroccata. Certo, per i regimi è facile operare: non hanno Parlamenti cui rispondere. Per le democrazie è difficile agire, messe sottosopra dalla crisi economica, dalle opinioni pubbliche interne sollecitate da nazionalismi e rigurgiti xenofobi, dalla paura del Coronavirus che è la marcia in più a spingere per minacciare la chiusura delle frontiere. Eppure si potrebbe utilizzare uno spunto che è ci è stato offerto tre giorni fa da un’articolata analisi sul New York Times (International Edition) a proposito del Coronavirus. Ci sono due modalità per rispondere ad una “epidemia”, notava l’articolo. La prima modalità è quella dettata dal seguire la scienza medica di oggi, utilizzando le risorse sanitarie al meglio e le medicine nella maniera migliore e più efficace, mettendo in campo tutto quello che sappiamo in tema di igiene e prevenzione. E soprattutto senza panico e senza allarmismi. La seconda maniera è di tipo medievale: chiudiamo le frontiere esterne, isoliamo le aree interne di ogni singolo paese, fermiamo i commerci e gli scambi culturali, sociali, e di ogni tipo. D’istinto, molti la riterrebbero ancora una strada praticabile. E l’analogia vale nel caso della nuova crisi migratoria cui stiamo assistendo, nella risposta comunque tardiva dell’Europa. Chiudiamo le frontiere, respingiamo i profughi o - peggio - disinteressiamoci di loro, preoccupati come siamo della nostra salute, dei lazzaretti interni che abbiamo costruito per mettere un argine alle paure che spuntano dietro l’angolo delle case, dietro l’altro che avanza per strada e desidera soltanto stringerci la mano. Per evitare il contagio evitiamo il più possibile il contatto fisico, ci dicono i medici citando i protocolli sanitari. Limitiamo i contatti, limitiamo il saluto. Non guardiamoci più negli occhi. Il virus si vincerebbe con l’isolamento. Dalla prassi sanitaria alla vita sociale il passaggio è breve: che ne va della nostra umanità? Gesù non avrebbe mai toccato un lebbroso? Il Buon Samaritano del racconto evangelico sarebbe passato oltre anche lui? La donna “impura” non avrebbe mai potuto toccare Gesù? Sarebbe stata fermata da zelanti discepoli sotto forma di efficaci guardie del corpo? Eppure nei tempi difficili e oscuri l’umanità sa far emergere i talenti migliori e mostra tutte le sue capacità “umane”, appunto. I pionieri della medicina scoprono la penicillina e l’esistenza dei batteri; infermieri, volontari e un popolo di santi e di samaritani rimane vicina ad un’umanità sofferente e crea la cultura della gratuità. Senza di loro il nostro mondo sarebbe stato diverso, chiuso, disumano. Non credo proprio che il dovere, sacrosanto, di curare gli italiani ammalati di Coronavirus sia incompatibile con uno sguardo attento e pieno di compassione per chi, invece, muore lontano dai nostri occhi. Che futuro avranno quei bambini e quelle bambine, quei giovani che un giorno usciranno dai campi profughi? Quale insegnamento avranno tratto? Cosa insegneranno a loro volta ai figli che avranno? E i politici: sanno ancora, o potranno imparare che governare non significa sfruttare le paure? Come sarà - dopo - il bilancio umano e sociale dei paesi in cui non si è tesa la mano agli altri? In qualche modo nelle vicende di questi giorni, in Europa abbiamo la dimostrazione che il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza” non può funzionare, se non al prezzo di togliere un bene prezioso: la libertà. La libertà di scegliere di tendere la mano. La libertà di scegliere di fare del bene. La libertà di chiedere conto quali valori abbia chi è al governo ed assiste senza guardare o voltandosi dall’altra parte. Certo - si risponde - parlare è facile. Ma è ancora possibile sdegnarsi? Non si può tacere! Stiamo toccando con mano realtà drammatiche: persone che fuggono da guerre volute altrove per finalità di potere e di dominio, guidate da potenti interessi economici e finanziari. E i politici dovrebbero fermare l’esodo delle persone. Le realtà sovranazionali come l’Europa hanno il compito preciso di lavorare insieme - i diversi Stati - per trovare soluzioni durature. Senza dimenticare che è la Storia scritta dagli europei negli ultimi duecento anni ad avere innescato la polveriera che sta saltando. È una guerra mondiale “a pezzi”, come ripete Papa Francesco. E noi stiamo facendo il mondo “a pezzi”! Chi avrà la possibilità di rimettere insieme un “nuovo” ordine mondiale? Egitto. Patrick Zaki trasferito nel carcere dove sono detenuti gli attivisti politici di Laura Cappon Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2020 Lo studente egiziano dell’università di Bologna è stato portato nel penitenziario di Tora, dove è passato il foto giornalista Shawkan e dove è morto l’ex leader dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi. Tra due giorni il tribunale deciderà se allungare di altri 15 giorni la detenzione per Zaki, come già avvenuto una prima volta il 22 febbraio. Marize è una ragazza minuta dai capelli corvini. È seduta in un caffè alla moda di New Cairo, quartiere trendy della capitale egiziana. Il suo sguardo parla da solo: dallo scorso 7 febbraio, quando suo fratello Patrick Zaki è stato arrestato all’aeroporto cairota, le sue giornate sono diventate un incubo. “Quel giorno lo stavamo aspettando agli arrivi, ci ha telefonato mentre era ancora sull’aereo dopo essere atterrato. Poi ha richiamato e ci ha detto che qualcosa non andava” racconta. “Dalle 4 del mattino all’una di notte del giorno dopo abbiamo aspettato all’aeroporto, cercando di capire. Alla fine abbiamo scoperto che era stato preso in custodia dalla sicurezza nazionale e che non si trovava più là ma a Mansoura”. In quelle 21 ore, mentre scompariva dai radar senza poter contattare nessuno, Patrick è stato torturato dagli uomini dell’intelligence del Ministero dell’Interno. Dopo aver cambiato due stazioni di polizia, quella di Mansoura e quella di Talkha, e essere passato dal carcere di Mansoura Patrick ora si trova nel penitenziario di Tora, sempre al Cairo, il più duro in Egitto, dove sono stati reclusi l’ex leader dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi, il foto giornalista Shawkan e dove stanno scontando la pena tantissimi attivisti politici. Un passaggio che fa diventare in maniera conclamata il suo caso politico. Il 7 marzo il tribunale deciderà se prolungare per il giovane studente egiziano la custodia cautelare di altri 15 giorni, come già avvenuto una prima volta il 22 febbraio. “Le accuse per noi sono spaventose, come è possibile, fino a ora non riusciamo a capire perché è successo questo, e perché proprio a lui” insiste la sorella. Il caso di Zaki, che dallo scorso settembre studiava all’Università di Bologna, ha mobilitato l’opinione pubblica europea che ha collegato immediatamente la vicenda al caso di Giulio Regeni, lo studente di Fiumicello trovato morto il 3 febbraio del 2016 nella periferia del Cairo dopo essere scomparso nel nulla per 9 giorni. Le vicende sono diverse ma la cornice in cui si sono svolte è sempre la stessa: ossia la draconiana repressione del presidente egiziano Adel Fattah el-Sisi. Al Cairo, a poche centinaia di metri dalla storica piazza Tahrir, c’è la sede dell’EIPR, (Egyptian Initiative for Personal Rights), l’organizzazione dove Patrick lavorava. All’interno degli uffici ospitati in un grande appartamento stile liberty, gli attivisti studiano la strategia per liberarlo ma sono consci che non sarà facile. Il team legale ha sporto querela per le torture subite da Zaki e soprattutto sta cercando di fare chiarezza sui verbali di arresto, secondo i quali il giovane sarebbe stato arrestato a Mansoura l’8 febbraio e non all’aeroporto del Cairo il giorno precedente. “Abbiamo chiesto alle autorità dell’aeroporto di fornirci filmati delle telecamere del 7 febbraio, e non quelle relative all’8 come viene riportato dai verbali della polizia”, spiega Hoda Nasrallah, l’avvocato a capo del team legale dell’EIPR. “Siamo andati a recuperare il fascicolo relativo al caso dai servizi di sicurezza nazionale, ma siamo riusciti ad avere solo il numero del caso, e non i contenuti dell’ordinanza. Speriamo di ottenerli non appena inizierà il processo davanti al tribunale”. Senza i documenti del caso è impossibile anche capire quali siano i post di Facebook sui quali si basano le accuse. Non è chiaro ancora se siano stati presi davvero dal profilo di Patrick o da un profilo fasullo. “In un paese che rispetta i diritti umani non importerebbe che cosa ha scritto sul suo profilo” spiega Gasser Abdel-Razek, presidente dell’EIPR. Ma in questo momento in Egitto basta la condivisione di un qualsiasi video di attualità per finire nel mirino e gli avvocati lo sanno. “Chiaramente Patrick è vittima dell’ennesimo giro di vite che è seguito alle proteste antigovernative di settembre” afferma un suo collega. “L’opinione pubblica europea ha reagito subito perché si sente colpevole di quello che è successo a Giulio Regeni e perché nessuno è mai stato punito”. Disporre delle carte con cui la magistratura egiziana ha costruito le accuse è l’unico modo per poterle decostruire. Le autorità egiziane lo sanno e per questo tardano nella consegna dei faldoni. A Mansoura, cittadina a 150 chilometri dal Cairo i genitori del giovane studente si erano trasferiti in pianta stabile nella casa di famiglia per poter visitare loro figlio ma ora torneranno nella capitale. Per ora hanno deciso di non rilasciare più dichiarazioni sino alla prossima udienza fissata per il 7 marzo. Wael Ghally ha lavorato al caso nelle prime settimane prima di passare il testimone a un suo collega che collabora con gli altri 3 avvocati dell’EIPR. Dal suo ufficio al pianterreno di una strada soffocata da palazzi abusivi sostiene la campagna internazionale sperando che aiuti a fare pressioni sulla presidenza egiziana. Anche se tra alcuni attivisti si teme che il clamore suscitato dal caso possa invece portare il governo egiziano a essere ancora più duro. “Se si continua a tenere alta la pressione si potrebbe mirare alla grazia presidenziale” aggiunge. Il braccio di ferro tra gli avvocati e la magistratura egiziana continua, ma come spiega Hoda Nasrallah “a livello legale non ci sono motivi per cui Zaki debba essere tenuto in custodia cautelare. Purtroppo il suo rilascio non è ancora avvenuto”. Egitto. Giuliano Pisapia: “L’Europa sacrifica Zaky per non disturbare al Sisi” di Massimiliano Nespola Il Dubbio, 6 marzo 2020 Il caso Zaki desta notevole preoccupazione nell’opinione pubblica: l’Egitto, non da oggi, attua una feroce repressione dell’opposizione con ogni mezzo e il caso Regeni, ancora irrisolto, lo testimonia in pieno. In quale direzione può orientarsi l’impegno dell’Italia e dell’Europa, che ripudiano la guerra, che condannano la pena di morte, i trattamenti disumani e degradanti, che si pongono a difesa dello Stato di diritto? Ne parliamo con l’on. Giuliano Pisapia, europarlamentare membro della Commissione esteri e della sottocommissione per i diritti umani a Strasburgo. On. Pisapia, qual è l’approccio - e, verrebbe da chiedersi, lo stato d’animo - della sottocommissione per i diritti umani del Parlamento europeo al caso Zaky? In un mondo in cui le violazioni dei diritti umani sono purtroppo in continuo aumento, il ruolo della commissione esteri e della sottocommissione per i diritti umani del Parlamento Europeo è sensibilizzare l’opinione pubblica e la comunità internazionale anche su gravi casi specifici. È importante monitorare la politica estera europea affinché siano rispettati i principi e i valori dei Trattati fondativi. Per chi crede nella democrazia e nello stato di diritto è fondamentale impegnarsi senza tregua per il rispetto dei diritti umani, ovunque. In questi primi mesi di impegno a Bruxelles, ho preso atto del fatto che le risoluzioni e le condanne del Parlamento Europeo contro soprusi dei diritti umani sortiscono qualche effetto solo se accompagnate da azioni concrete sul piano commerciale e da minacce di riduzione degli aiuti economici. Certo, non sempre si raggiungono gli obiettivi auspicati ma non dobbiamo mai scoraggiarci. Alle sconfitte seguono spesso vittorie del diritto e dei diritti sulla violenza e sull’autoritarismo. Condizionando l’apertura del mercato comune europeo al rispetto dei diritti umani, l’UE riesce a proiettare a livello globale i valori su cui si fonda. Per esempio? L’Uzbekistan è un paese poco conosciuto e affetto dalla piaga del lavoro minorile forzato. Fra i primi produttori di cotone al mondo, l’Uzbekistan nel 2011 ha firmato un’intesa commerciale con l’UE, mercato fondamentale per le sue esportazioni. Il Parlamento Europeo si è rifiutato di ratificare l’accordo in attesa che il governo uzbeko collaborasse con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro e approvasse leggi contro il lavoro forzato e il lavoro minorile nelle piantagioni di cotone. Cinque anni dopo, l’agenzia ONU per il lavoro ha certificato la completa abolizione del lavoro minorile e un netto calo del lavoro forzato. In pochi mesi, è seguita la tanto agognata ratifica da parte del Parlamento Europeo che ha riconosciuto lo sforzo ratificando un accordo fondamentale per l’economia uzbeca. Quali ritiene che possano essere gli effetti della vicenda di Zaki sulle relazioni tra Europa ed Egitto? Purtroppo, temo che la vicenda non sortirà grandi effetti. La forza dell’Unione Europea è condizionata dalla sua unità e quando si tratta di paesi cruciali come l’Egitto, gli Stati membri commettono l’errore fatale di agire in solitaria. Tendiamo a dimenticare che la nostra rilevanza internazionale è molto limitata se raffrontata a quella dell’Ue che parla a nome delle 27 nazioni che la compongono. Tanto più che la politica commerciale, strumento sentito anche dai regimi più sordi, è materia di competenza esclusiva europea. I governi nazionali - si pensi alla grandeur francese- spesso credono che i singoli interessi strategici differiscano da quelli europei. Ma muovendoci in ordine sparso, siamo poco efficaci e screditiamo l’azione europea. L’UE è dotata di un’ottima rete diplomatica e della forza negoziale che discende dalla ricchezza del mercato unico. Sarebbe ora di metterle a frutto, abbandonando gli egoismi nazionalisti e cercando mediazioni alte con i nostri partner europei. Questa vicenda contribuisce a tener alta l’attenzione sulla storia di Giulio Regeni. Il nostro Paese ha avuto pazienza, ma il caso non è stato risolto. Quali passi potrebbero contribuire a fare giustizia? Serve un deciso cambio di rotta non solo diplomatico ma anche economico. I pozzi egiziani di gas naturale hanno importanza strategica? Sicuramente sì e sono oltre 130 le aziende italiane che hanno interessi in Egitto che si traducono in lavoro e fatturato in Italia. Ma i commerci e l’economia non possono prescindere dal rispetto dei diritti umani, dai valori della nostra Costituzione e dagli obiettivi di politica estera. Un peggioramento delle relazioni economiche con l’Egitto ha sicuramente un costo ma credo che sia arrivata l’ora di assumerselo. Nello scorso esercizio di bilancio, l’UE ha sostenuto lo sviluppo in Egitto con fondi per un totale di 1,3 miliardi di euro. Dovremmo rivedere queste cifre e lavorare di concerto con l’UE e i suoi Stati membri anche per fermare la vendita di armamenti. Ritiene che la repressione attuata dall’Egitto rappresenti il sintomo di una regressione delle libertà democratiche al suo interno? Oppure che sia causata dall’estremo tentativo di un sistema politico di reggersi, a fronte di una accresciuta consapevolezza delle libertà democratiche da parte del popolo? Sono convinto che l’attuale repressione in Egitto non abbia nulla a che fare con una regressione culturale interna. Non dimentichiamo che la cittadinanza egiziana si è resa protagonista di un grande sforzo democratico, animata dal desiderio di libertà durante la Primavera Araba. Credo invece che la causa della repressione sia imputabile all’ossessione di uomini violenti che esercitano il potere con la violenza e il disprezzo per lo stato di diritto. Il caso Zaki è solo quello più conosciuto; in Egitto - e non solo - la repressione del dissenso avviene con il carcere e con mezzi anche crudeli. Preoccupa che anche gli avvocati e i magistrati siano a rischio, in contesti simili. In qualità di giurista, lei come commenterebbe questa situazione? L’arresto di avvocati e magistrati è di estrema gravità e purtroppo comune a tanti paesi. Si pensi alla Turchia, all’Iran, alla Russia e alla Cina. Ma non è un problema che ci vede solo spettatori. Assistiamo all’estensione di questo fenomeno anche in Ungheria e Polonia, parte integrante dell’UE, ove è stata abolita l’indipendenza della magistratura, uno dei tre pilastri dei sistemi liberal democratici. Imbavagliare gli avvocati e asservire i magistrati cancella le basi della democrazia e apre le porte alle barbarie. Afghanistan. Crimini di guerra, “sì all’inchiesta”. Stati Uniti infuriati di Giuliano Battiston Il Manifesto, 6 marzo 2020 L’Aia, una data storica. Secondo il Tribunale di appello della Corte penale internazionale le vittime - afghane e non solo - potranno forse trovare giustizia. “La procuratrice è autorizzata a iniziare un’inchiesta sui presunti crimini compiuti sul territorio afghano a partire dall’1 maggio 2003, così come su altri presunti crimini legati al conflitto armato in Afghanistan”. Le parole pronunciate ieri all’Aja dal giudice Piotr Hofmanski, presidente del Tribunale di appello della Corte penale internazionale, segnano una data storica: le vittime - afghane e non solo - di crimini di guerra e contro l’umanità potranno forse trovare giustizia. Per il Dipartimento di stato Usa, però, si tratta di “un’azione scioccante presa da un’istituzione politica mascherata da organismo giuridico”. Un attacco durissimo, quello del segretario di Stato americano, Mike Pompeo, che l’anno scorso già aveva deciso di negare il visto degli Stati uniti alla procuratrice capo della Corte, Fetou Bensouda. La decisione della camera di Appello della Corte ribalta il giudizio della camera di pre-dibattimento, che lo scorso aprile aveva respinto la richiesta, avanzata dalla procuratrice Bensouda nel novembre 2017, di aprire un’inchiesta sui crimini commessi in Afghanistan. Secondo le indagini preliminari condotte per quasi dieci anni, c’erano prove sufficienti per credere che tutti gli attori del conflitto - forze afghane, americane, anti-governative - avessero compiuto crimini di guerra o contro l’umanità, dalle torture agli abusi sessuali, dalle uccisioni indiscriminate di civili agli omicidi extra-giudiziari. Ma i giudici della camera di pre-dibattimento dell’Aja hanno sostenuto che aprire un’inchiesta non sarebbe stato “nell’interesse della giustizia”: l’inchiesta avrebbe potuto naufragare, a causa della riluttanza a cooperare del governo afghano e dell’aperta ostilità del governo degli Stati uniti. La procuratrice Bensouda ha così fatto appello e, dopo le testimonianze dei primi di dicembre, incluse quelle dei rappresentanti delle vittime, ieri è arrivata la decisione: la giustizia vada avanti. Contano le prove accumulate, non i presunti esiti dell’inchiesta. La sentenza è stata accolta con entusiasmo dagli attivisti e attiviste della società civile, in particolare da quelli che fanno parte del Transitional Justice Coordination Group, un movimento che raccoglie una ventina di associazioni locali che si battono per la giustizia in Afghanistan. Preoccupa invece il governo di Kabul, che ha sottoscritto lo statuto di Roma nel febbraio 2003, aderisce dunque alla Corte penale, pur avendo adottato nel 2008 una legge di amnistia e avendo scelto l’impunità come politica istituzionale. Fa letteralmente infuriare, infine, il governo degli Stati uniti, che non aderisce alla Corte, e che anzi considera le sue attività una minaccia alla propria sovranità e sicurezza nazionale. Da qui, la reazione del segretario di Stato Pompeo, che ieri ha dettato un comunicato ufficiale: l’inchiesta va contro gli sforzi di pace e “gli Stati Uniti faranno di tutto per proteggere i propri cittadini da questa cosiddetta corte, fuorilegge”. Afghanistan. Sotto processo i militari Usa? Sarà una guerra di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 6 marzo 2020 La procuratrice capo della Corte Penale Internazionale dell’Aia ha avuto l’autorizzazione che chiedeva da tre anni per indagare su casi sospetti di omicidi di massa, stupri e torture. Ma non sarà facile. Si può indagare sui militari americani? E sulla Cia? Accusare Washington di crimini di guerra? Di violazione dei diritti umani? Si può questionare il comportamento del “gendarme del mondo”? La Corte Penale Internazionale dell’Aia, ieri, ha deciso di provarci. La Procuratrice capo Fatou Bensouda ha avuto l’autorizzazione che chiedeva da tre anni. Rovesciando l’orientamento precedente della stessa Corte, ora potrà indagare su casi sospetti di omicidi di massa, stupri e torture che inducono a puntare il dito contro le forze talebane (e, fin qui, nessuno aveva fatto obiezione), contro il legittimo governo afghano (che è tra i firmatari della Convenzione che ha istituito la Corte nel 1998) e anche contro (ecco la novità) le forze armate degli Stati Uniti d’America. Se la ghanese Bensouda riuscisse a portare alla sbarra qualche accusato a stelle e strisce, sarebbe una prima volta assoluta. Nel caso del caccia americano che tranciò i cavi della funivia del Cermis uccidendone i passeggeri, nei casi di violenza sessuale sull’isola giapponese di Okinawa, nelle guerre, nelle rivoluzioni, nei colpi di Stato che hanno visto gli Usa protagonisti, mai nessun americano è stato giudicato da tribunali stranieri. Washington ha sempre invocato la giurisdizione esclusiva sui propri cittadini. E lo farà di sicuro anche in questo caso, opponendosi in ogni modo alle indagini. La reazione a caldo del segretario di Stato Mike Pompeo è stata esplicita: “Si tratta di un’azione sconsiderata da parte di un’istituzione politica mascherata da organo giudiziario”. Il sogno di un mondo in pace regolato da un governo mondiale sembra scomparso, gli Stati più forti non si curano più dell’Onu e non riconoscono l’autorità della Corte. Il processo potrebbe trasformarsi in uno spettacolo di antiamericanismo o magari in uno show di giustizia internazionale che manca da troppi anni. Un nuovo inizio. O l’inizio della fine. Nigeria. “Guerra quotidiana” nelle regioni più povere di Stefano Mauro Il Manifesto, 6 marzo 2020 Jihad in Africa. Sequenza dei attacchi firmati Boko Haram con decine di morti. Il senatore e attivista Shehu Sani denuncia “il silenzio e l’inerzia delle autorità”. Non accenna ad esaurirsi la spirale di violenze sta colpendo gli stati settentrionali della Nigeria. È di 14 morti (8 poliziotti e 6 militari) e circa 50 feriti il bilancio di un attacco avvenuto questo mercoledì nel nord-est della Nigeria, a Damboa, vicino al confine con la foresta di Sambisa, rifugio del gruppo jihadista Boko Haram. Secondo quanto riporta la stampa locale “l’esercito ha respinto l’attacco dopo due ore di combattimento durante le quali i miliziani hanno utilizzato armi pesanti e missili”. Morti che si aggiungono alle oltre 55 vittime di altri due attacchi, avvenuti tra domenica e martedì, in una serie di attentati simultanei contro i villaggi dello stato settentrionale di Kaduna. “Un gruppo di cento uomini armati, sospettati di appartenere a formazioni jihadiste e a bande specializzate nel furto di bestiame e nei rapimenti, ha attaccato i villaggi di Kerawa, Zareyawa e Marina nel distretto di Igabi, sparando sui residenti, saccheggiando e bruciando case” ha dichiarato il portavoce della polizia di stato Mohammed Jalige all’Afp. “Finora sono stati trovati 50 corpi, ma la cifra non è definitiva e probabilmente aumenterà poiché le operazioni di recupero sono ancora in corso” ha affermato il governatore regionale, Nasiru El-rufai, durante una visita sui luoghi presi d’assalto. “I banditi hanno attaccato i villaggi mentre i fedeli lasciavano le moschee dopo la preghiera, sparando e colpendo a caso” ha aggiunto. Violenze e attacchi che, secondo il quotidiano The Punch, sono una risposta alle operazioni militari in corso contro i nascondigli di banditi e gruppi jihadisti nella vicina foresta, una ritorsione contro gli abitanti dei villaggi colpiti “perché colpevoli di aver fornito informazioni sui loro nascondigli ai soldati”. Già lo scorso febbraio 21 persone, tra cui 16 membri della stessa famiglia, erano state uccise in un attacco simile contro il villaggio di Bakali nel vicino distretto di Giwa, dopo che le autorità nigeriane avevano affermato di aver ucciso “250 persone tra banditi e miliziani jihadisti del gruppo terroristico di Ansaru, affiliato a Boko Haram” in un’operazione di polizia nelle foreste dello stato di Kaduna. Non sono mancate le polemiche delle opposizioni nei confronti del presidente Muhammadu Buhari che ha rilasciato una dichiarazione sugli attacchi, esprimendo dolore per le uccisioni e preoccupazione sullo stato della sicurezza nel Paese. Il senatore dello stato di Kaduna, Shehu Sani (attivista per i diritti umani e presidente del Congresso dei diritti civili della Nigeria) ha denunciato “il silenzio e l’inerzia delle autorità di fronte all’insicurezza che sta devastando il nord, la parte più povera del Paese”, sottolineando il sentimento di abbandono delle popolazioni. “Omicidi e rapimenti sono diventati comuni negli stati di Kaduna, Katsina, Zamfara, e Borno - ha aggiunto Sani - i governatori del Nord continuano a nascondere la testa nella sabbia, temendo di opporsi al governo federale e di adottare misure indipendenti per proteggere il loro popolo”. “Il paese deve trovare al più presto una soluzione riguardo al problema della sicurezza - ha dichiarato Atiku Abubakar, principale oppositore e leader del Partito democratico del popolo (Pdp) -, è assolutamente necessario lottare per contenere le insurrezioni islamiste nel nord-est, i conflitti etnici tra pastori nomadi fulani (musulmani) e contadini (cristiani) e i gruppi militanti nel delta del Niger a sud-est”. Una guerra “quotidiana” che, secondo un recente report di International Crisis Group, ha causato oltre 35mila vittime in dieci anni, spinto più di 2 milioni e mezzo di profughi ad abbandonare le proprie case con oltre 700 attacchi contro civili nel solo 2019. Suzy, trans in un carcere maschile. Otto anni senza visite: commuove il Brasile di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 6 marzo 2020 Intervistata dal medico tv in prima serata, la transessuale Suzy de Olivera è stata sommersa poi di lettere e richieste di visite da tutto il Paese. Una trans reclusa in un carcere maschile, in Brasile, il peggior posto al mondo dove finire in galera e soffrire umiliazioni e violenze legate alla propria diversità. Senza ricevere una sola visita di un amico, o un parente, da otto lunghi anni. Quando il medico tv Drauzio Varella, che è andato a trovare Susy per un reportage tv, l’ha infine abbracciata dopo una intervista emozionante, l’effetto è stato immediato. Un tam tam sui social e la transessuale simbolo della solitudine è stata sommersa dal calore dei brasiliani: decine di richieste al carcere di San Paolo per andarla a trovare, e centinaia per inviarle un messaggio, o una lettera. Il dottor Drauzio Varella - che pure qui era già assai famoso come divulgatore scientifico al pari di un Piero Angela - anch’egli coperto di messaggi e complimenti per il gesto. Una società insomma, quella brasiliana, che sta passando per un momento difficile sul piano dei diritti civili a causa delle politiche reazionarie del governo di Jair Bolsonaro; ma che in questa vicenda sembra riallinearsi su un aspetto importante della sua anima nazionale, quello della tolleranza generosa. Il servizio, mandato in onda in uno dei programmi più visti della tv Globo, alla domenica sera, raccontava con gli occhi del dottor Varella, una vita da volontario nelle prigioni, come vivono i 700 detenuti transessuali nelle carceri maschili dello stato di San Paolo. Violenza, abbandono e umiliazioni sono il destino riservato in carcere a queste donne intrappolate in corpi maschili, soprattutto all’inizio della detenzione, o quando non è possibile riservare loro delle sezioni separate. Susy de Oliveira Santos, 30 anni, racconta che solo dopo quattro anni di reclusione, quando ha finalmente ottenuto un lavoro, è riuscita ad evitare di doversi prostituire per qualunque cosa, da un tubetto di dentifricio a qualcosa di decente da mangiare. Ma i lunghi anni di isolamento dalla società avevano reso Susy un fantasma, là fuori non c’era più nessuno che si ricordasse di lei. “Quando mi ha detto che da sette o otto anni non riceveva una visita ho visto una tristezza nel suo sguardo tale che è stato impossibile non emozionarmi”, racconta Varella. “È stato spontaneo alzarmi e abbracciarla. Solo dopo che il servizio è andato in onda mi sono reso conto di quello che avevo fatto, e mi ha stupito tanta ripercussione, come se fosse assurdo abbracciare un altro essere umano”. A quel punto la direzione dei penitenziari di San Paolo è intervenuta su Twitter, indicando l’indirizzo per mandare lettere a Susy. Varella ha ammesso che è stata accesa la discussione sull’opportunità o meno di mandare in onda in un programma per famiglie in prime time un tema così scottante. “Poteva scatenare una ondata di indignazione, perché in Brasile su questi temi esistono forti pregiudizi. Invece l’effetto è stato totalmente l’opposto”. Sempre lo stesso reportage ha fatto scattare una colletta nazionale per aiutare finanziariamente un’altra detenuta, Lolla Ferreira Lima, che ha appena ottenuto la libertà condizionata e ha ricominciato una vita vendendo bottigliette d’acqua negli incroci di San Paolo vestita da pagliaccio.