Carcere, subito una moratoria dell’esecuzione penale di Rita Bernardini, Sergio d’Elia, Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 5 marzo 2020 Di fronte all’emergenza legata al Coronavirus in carcere e alle misure restrittive con cui la si sta affrontando, come associazione “Nessuno tocchi Caino” chiediamo che il principio di prevenzione della “rarefazione sociale”, come affermato dal vice ministro alla Salute, Pierpaolo Sileri, volto a evitare ogni forma di aggregazione, trovi applicazione anche in carcere. Attualmente la situazione delle carceri è in uno stato di gravissimo sovraffollamento con 61.230 detenuti per 47.231 posti effettivi disponibili. Questi dati lo connotano come un luogo di concentramento e segregazione sociale, di per sé fuori legge, dove ogni rischio, anche quello sanitario, è amplificato. Se si chiudono scuole o stadi per evitare che troppe persone stiano insieme, allora la principale misura da adottare anche in carcere deve essere quella di una moratoria immediata dell’esecuzione penale volta a ridurre drasticamente i numeri della popolazione carceraria con provvedimenti che potrebbero riguardare, ad esempio, i casi di detenzione per brevi pene o residui di pena da espiare. In questo momento, in Italia ci sono 8.682 detenuti che hanno un residuo pena da scontare inferiore ai 12 mesi e altri 8.146 che devono scontare pene tra 1 e due anni. Non è infatti chiudendo ai colloqui, alle attività esterne o alle misure alternative che si può fronteggiare il rischio di epidemia in carcere. Anzi, la sospensione di norme fondamentali dell’ordinamento penitenziario aggrava ulteriormente la situazione strutturale di illegalità nell’esecuzione della pena nel nostro Paese. Moratoria dell’esecuzione penale e provvedimenti come amnistia e indulto si confermano quindi essere le uniche misure idonee a riportare le carceri e la giustizia nell’alveo dello Stato di diritto, l’unica alternativa a tutte le emergenze. La crisi legata al Coronavirus conferma quanto la soluzione della costruzione di nuove carceri - anziché il sistematico ricorso alle misure alternative - sia assolutamente inadeguata ad affrontare i problemi legati alla recidiva. Coronavirus: nelle carceri restrizioni ingiustificate, “isolata” anche Favignana di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 marzo 2020 “Si comunica che come da disposizioni ricevute in data odierna, sono sospesi da oggi tutti i colloqui per tutto il mese di marzo per motivi sanitari del coronavirus. Non recatevi ai colloqui in quanto sono vietati gli ingessi”. È la comunicazione che è arrivata a tutti i familiari dei ristretti nei penitenziari nelle regioni Veneto e Lombardia. Questo è l’effetto del decreto legge 9 del 2020 che, però, nello stesso tempo consiglia di disporre l’aumento delle telefonate e l’utilizzo dei colloqui via Skype. L’articolo 10, comma 14, stabilisce infatti che “sino alla data del 31 marzo 2020 i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati sono svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica”. Il Garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto è rimasto deluso di tale scelta, perché, finora, nelle carceri milanesi di Opera, Bollate, San Vittore e il minorile Beccaria, i colloqui si erano svolti adottando precauzioni per evitare contagi. Per i detenuti quindi era possibile ricevere la visita di una sola persona per volta. Per compensare tale chiusura, Maisto si auspica che siano ampliate le telefonate e rendere operativi i colloqui via Skype. Ma basteranno i servizi informatici messi a disposizione? Teoricamente, secondo la circolare scorsa, il Dap invierà 400 PC portatili ai Provveditorati Regionali che - a loro volta - ne cureranno la distribuzione presso gli Istituti penitenziari dell’ambito territoriale di competenza, nel numero di due pc a istituto. Resta il fatto che per ora i detenuti si trovano in difficoltà, soprattutto per la preoccupazione che hanno nei confronti dei loro familiari. Ma solo le carceri delle due regioni del nord hanno scelto questa chiusura? A quanto pare no. La moglie di un recluso al carcere di Favignana, una piccola isola della regione Sicilia, riferisce a Il Dubbio che dal 26 febbraio scorso la direzione ha vietato i colloqui con i familiari per via dell’emergenza coronavirus. In compenso hanno concesso le telefonate straordinarie e le videochiamate. Un fatto singolare visto che il decreto governativo, tra l’altro emesso pochi giorni fa, ha dato indicazioni specifiche per quanto riguarda le regioni dove si sono sviluppati i focolai. Il decreto è chiaro: il tema dei colloqui con i congiunti e le altre persone si applica esclusivamente in Lombardia e Veneto. Una misura emergenziale, ma limitata appunto solo alle regioni del Nord. Il caso si fa ancora più particolare quando, sempre secondo la testimonianza della familiare, al carcere siciliano di Favignana è stato vietato l’accesso anche al suo avvocato. Ma non solo. Il recluso, un giovane di 26 anni, è anche affetto da una particolare patologia alle mandibole e finora, sempre a causa dell’emergenza coronavirus, è stato vietato al medico odontoiatra di poter entrare in carcere per visitarlo. Nel penitenziario, d’altronde, non c’è presidio medico, l’assistenza sanitaria proviene esclusivamente dall’esterno. Come se non bastasse, sempre quanto riferito dalla moglie, durante una perquisizione ordinaria hanno sottratto al detenuto una medaglietta di Lourdes che gli era stata consegnata dai familiari nel mese di dicembre. Il motivo? Per le autorità del carcere di Favignana si tratta di un materiale che proviene dall’esterno e, quindi, potenzialmente potrebbe essere un veicolo del virus Covid- 19. Non è un caso che qualche giorno fa il Garante Nazionale delle persone private della libertà ha lanciato l’allarme sulle decisioni prese da alcuni istituti penitenziari di regioni non coinvolte e che finiscono “col configurare il mondo recluso come separato dal mondo esterno e portatore di un fattore intrinseco di morbilità”. Il carcere non è la soluzione alle disuguaglianze sociali di Iuri Maria Prado Il Riformista, 5 marzo 2020 Non denunciare l’ingiustizia se a esserne colpito è un personaggio noto: perché il legalismo dei piombi uguali per tutti dirà che tu scendi in campo solo per difendere il privilegio di quello lì, mentre dei poveracci ti disinteressi. L’argomento era di moda anche al tempo di Tortora, e giustamente Leonardo Sciascia lo rivoltava spiegando che la fama del personaggio aveva almeno permesso a tutti di vedere come in questo Paese “i giudici potevano fare quel che volevano, distruggere una persona innocente nella reputazione e negli averi e, principalmente, privarla della libertà”. Ma c’è altro da opporre a questo modo di ragionare (se di ragionamento si può parlare). Ed è questo: va bene, diciamo pure che noi ci mobilitiamo solo quando c’è di mezzo uno che conta mentre dei poveracci non ci interessa nulla. Ma voi? Per i poveracci voi che cosa fate? L’ingiustizia che colpisce i potenti non vi smuove (se non per far festa), mentre di quella che si incattivisce sui disgraziati vi occupate soltanto per denunciare che noi non ce ne occupiamo (cosa peraltro falsa). E allora il ragionamento non fila più e spiega semmai una verità diversa, cioè che non vi importa né dei potenti né di quelli senza nessun potere, e piuttosto vi basta che in galera ci vadano tutti quanti. Questo basta alla vostra idea di giustizia. Va avanti da decenni, questa solfa. Denunci un caso di ingiustizia e ti dicono che lo denunci solo perché si tratta di un privilegiato, e ti rinfacciano la condizione “di tutti gli altri”. Ma loro per tutti questi altri che cosa fanno? Che cosa fanno per i malati e i morti di carcere? Che cosa fanno per le madri che crescono i bambini in prigione? Che cosa fanno per i tossicodipendenti, per i disturbati di mente, per i miserabili e diseredati, insomma per l’umanità derelitta che affolla le galere? Per tutti questi non fanno assolutamente nulla. Questi promotori della cattiveria giudiziaria equamente distribuita non si accorgono di quanto sia immondo lo scenario sociale che si realizzerebbe nel trionfo della loro idea. L’idea (e oscuramente il desiderio) che le ingiustizie sociali, che pure esistono, le divaricazioni di rango, le disuguaglianze di censo, finalmente trovino composizione nella pena e nelle restrizioni del carcere. L’ingiustizia della galera come soluzione delle ingiustizie nella società libera. Il paradiso sociale garantito dall’inferno della prigione. Col piccolo particolare che non ne viene più giustizia ma una ingiustizia moltiplicata, coi privilegiati a condividere con i poveracci il privilegio del disinteresse comune. Così Bonafede ha ucciso il diritto, prima si approva poi si discute di Giorgio Spangher Il Riformista, 5 marzo 2020 C’è un dato difficilmente confutabile: il ministro della Giustizia ha conseguito a pieno i suoi obiettivi: prescrizione (il lodo Conte è ibernato), intercettazioni (la disciplina è stata addirittura aggravata nel passaggio parlamentare), legge delega di riforma del processo penale sono stati approvati. I velleitarismi sono stati respinti con perdite. La tecnica ministeriale: niente tavoli preventivi, prima si approva, poi si discute, è risultata vincente. Il dato consente una valutazione dei tre passaggi [ai quali può aggiungersi in senso più ampio la legge numero 3 del 2019 (anticorruzione)] attraverso i quali si è articolata - nel senso della involuzione e delle controriforme - l’azione di politica criminale. Il primo punto è il rafforzamento dei mezzi di indagine a disposizione dell’accusa: trojan, azioni sotto copertura, whistleblowing. Il secondo punto è l’inasprimento sanzionatorio, sia penale, sia esecutivo-penitenziario, con le conseguenti ricadute processuali (sulle indagini preliminari e sulle misure cautelari). Il terzo punto è teso a convogliare ulteriormente le opzioni processuali della difesa verso i riti a contenuto premiale (patteggiamenti extralarge; decreti penali di condanna con ulteriori sconti di pena; estinzione del reato a seguito di adempimenti di prescrizioni, di indennizzi, di lavori socialmente utili; di collaborazioni e restituzioni), peraltro con esclusione per i reati più gravi (abbreviati punti con l’ergastolo e patteggiamenti dove si incrementano le preclusioni). Il quarto punto evidenzia un aggravamento degli adempimenti della difesa sia in relazione alle notificazioni (elezione di domicilio), sia con riferimento ai giudizi di impugnazione (nuovo mandato), sia per quanto attiene al dovere di farsi carico delle sollecitazioni agli adempimenti cui gli altri soggetti vi sarebbero tenuti (richiesta di definizione del procedimento e del processo; verifica della regolarità della tardività delle iscrizioni). Il quinto punto è costituito da un malinteso senso efficientista che compromette precise garanzie fondamentali: la collegialità esclusa nel giudizio d’appello del rito monocratico; l’immediatezza nel caso della diversa composizione del collegio; la professionalità con il ricorso a giudici onorari per delicate funzioni decisorie. Il sesto punto evidenzia un irrealistico affermato contingentamento dei tempi processuali evidenziato dall’allungamento di quelli del procedimento per decreto, dall’inserimento di una inedita udienza in limine al rito monocratico, dal permanere di tempi morti nella fase delle decisioni delle indagini preliminari. Non mancano, tuttavia, alcune previsioni che possono essere condivise e altre sulle quali sarà necessario verificare la pratica attuazione. Tra queste ultime si segnalano: la relazione illustrativa delle parti sulla richiesta di prove, se l’accusa eviterà, come in passato di anticipare i contenuti degli atti processuali di cui al fascicolo; la rinuncia alla propria prova ammessa senza consenso delle altre parti. Tra gli aspetti favorevoli vanno segnalati, oltre all’informatizzazione di alcune attività processuali, fra gli altri, il deposito di consulenze tecniche e perizie in tempi congrui rispetto all’udienza fissata per l’esame; la celebrazione a richiesta della difesa dell’appello nella forma del rito camerale non partecipato; l’inappellabilità della sentenza di proscioglimento a pena pecuniaria; la predisposizione del calendario delle udienze destinate all’assunzione delle prove. Un discorso a parte va sviluppato con riferimento alle nuove regole di giudizio introdotte dalla riforma. Se possono essere condivise quelle poste a fondamento dell’archiviazione e della sentenza di non luogo, ispirate da una logica diagnostica e non più meramente prognostica, ancorché indirettamente tese a suggerire l’accesso ai riti premiali, perplessità solleva il mantenuto criterio di economia processuale che affianca quello della necessità delle prove per ammissione al rito abbreviato condizionato. In termini generali, non può non segnalarsi l’accentuarsi della cosiddetta amministrativizzazione del processo penale, tra direttive, intese, protocolli, progetti organizzativi, criteri di priorità, con interferenze anche di organi estranei alla giurisdizione e comunque con possibili significative differenziazioni territoriali, oggettive e soggettive. La scommessa della ipotizzata riforma è riposta, tuttavia, nel rispetto delle scansioni temporali da parte dei pubblici ministeri nella fase delle indagini e dei giudici nella fase processuale, che a differenza dall’essere sanzionata con sanzioni disciplinari, richiederebbe incisive sanzioni processuali. Tensioni nei tribunali e appelli a Bonafede, la giustizia verso “misure eccezionali” di Errico Novi Il Dubbio, 5 marzo 2020 Giustizia a macchia di leopardo? Forse è un brutta espressione. Certo la tutela dei diritti non può mai fermarsi del tutto. Lo dimostra il decreto legge di tre giorni fa, che ha previsto eccezioni alla sospensione dei termini e al rinvio delle udienze persino per i due Tribunali della “zona rossa”, quelli di Lodi e di Rovigo: nello stesso originario epicentro dell’emergenza coronavirus si prevede comunque di celebrare, per esempio, i processi penali con detenuti e le udienze civili relative a minorenni. La giustizia non è destinata al blocco totale scattato per l’istruzione. Ma nelle ultime ore si moltiplicano gli appelli al ministro della Giustizia Alfondo Bonafede affinché le misure introdotte nell’area più a rischio siano estese a tutti gli uffici dello Stivale. A chiederlo sono innanzitutto l’Organismo congressuale forense e l’Unione nazionale Camere civili, che sollecitano il guardasigilli, nel primo caso, a disporre “la sospensione dei termini e il differimento delle udienze su tutto il territorio nazionale, per la durata di due settimane” e, nel caso dei civilisti, a “una sospensione immediata di tutte le udienze” sempre in tutto il Paese con “proroga di tutti i termini che non possono essere rispettati per via telematica”. Richieste a cui si aggiungono vari casi di tensione in diversi uffici giudiziari. A Milano il ricovero scattato martedì per due magistrati, marito e moglie, risultati positivi al coronavirus ha prodotto il rinvio di tutte le udienze “non urgenti”, che ieri si è esteso alla Corte d’appello, dove il presidente vicario Giuseppe Ondei ha prescritto di differire i giudizi “a data successiva al 31 marzo”. Restano in una situazione paradossale molti avvocati, costretti comunque a entrare fisicamente a Palazzo di giustizia per verificare l’effettivo rinvio e la data indicata dal giudice. A Vibo Valentia è bastato scoprire, durante un udienza penale, che uno dei testi proveniva da Lodi perché non solo la giudice Rosa Maria Luppino ordinasse il tampone ma soprattutto per assistere a un frenetico fuggi fuggi in tutti i piani del Tribunale. Un magistrato di Firenze si è messo in “autoisolamento” (e la sua stanza è stata fatta bonificare dalla presidente del Tribunale Marilena Rizzo) dopo che ha appreso del ricovero dei colleghi milanesi, con uno dei quali aveva seguito un convegno. Insomma, una situazione difficile, magmatica, in cui il presidente del Cnf Andrea Mascherin ha rinnovato anche ieri l’aggiornamento sull’emergenza coronavirus per i presidenti di Coa e Unioni forensi, in particolare con il richiamo dei chiarimenti diffusi martedì dal ministero della Giustizia. Da via Arenula infatti sono arrivate non solo precisazioni sull’applicabilità delle misure previste per i Tribunali della “zona rossa”, ma anche la conferma della richiesta del guardasigilli di valutare “provvedimenti ulteriori e eccezionali”, per i singoli uffici giudiziari, inoltrata al ministro della Salute Roberto Speranza. “Su una eventuale chiusura di tribunali interessati da episodi di contagio, le autorità competenti sono”, ricorda appunto Bonafede, “il ministero della Salute o, su delega di quest’ultimo, il presidente della Regione interessata”. Ma certo la scelta di estendere la sospensione dei termini (processuali e sostanziali) e il rinvio delle udienze all’intero Paese, come richiesto da Ocf e Camere civili, spetta al Coniglio dei ministri. “La situazione sta progressivamente degenerando ben oltre le aree già classificate come zone rosse”, ricorda d’altra parte il coordinatore dell’Organismo congressuale forense Giovanni Malinconico nella sua lettera al ministro della Giustizia. È “molto arduo, se non impossibile”, aggiunge, “effettuare i dovuti controlli circa gli ambiti di rispettiva provenienza”. Anche considerato che le attività giudiziarie “contemplano un afflusso di persone non limitato alle sole parti e ai loro difensori (testimoni, consulenti, verificatori, coadiutori, etc.)”. Le misure sinora adottate in numerosi uffici, scrive il coordinatore di Ocf, “sono idonee a limitare le possibilità di contagio nelle sole aule di udienza e all’interno delle cancellerie (peraltro con esiti evidentemente insufficienti, visto il caso di Milano)”. Perciò Malinconico reitera la richiesta di “intervenire con un provvedimento di immediata urgenza che fronteggi l’emergenza in modo omogeneo e con il quale si disponga la sospensione dei termini sostanziali e processuali e il differimento delle udienze e delle altre attività giudiziarie su tutto il territorio nazionale, per la durata di due settimane”. Qualora la situazione “restasse immutata”, conclude Malinconico, l’OCf “dovrà comunque assumere iniziative atte a garantire in modo più adeguato la salute degli avvocati italiani e le esigenze di tutela dei diritti dei cittadini”. Sull’ipotesi di una sospensione di due settimane Malinconico trova il sostegno, tra l’altro, di Fratelli d’Italia, che con la capogruppo in commissione Giustizia alla Camera Carolina Varchi “recepisce l’appello” venuto dall’Organismo forense. A sua volta il presidente dell’Unione nazionale Camere civili Antonio de Notaristefani chiede “la sospensione immediata su tutto il territorio nazionale”. È meglio “lavorare per prevenire il propagarsi dell’infezione”, secondo il presidente dei civilisti, “piuttosto che tentare di tamponarne le conseguenze, spesso senza neppure riuscirvi”. E ancora: “Invece che sospendere le udienze solo nei Tribunali dove già si sono verificati casi di contagio da coronavirus, occorre farlo in via preventiva a livello nazionale per evitare che questi si verifichino. Al contrario, le misure disposte quando il contagio si è ormai verificato risultano tardive e inefficaci”, spiega de Notaristefani, “e hanno l’unico effetto di diffondere ulteriormente il panico, perché certificano l’inefficacia delle misure fino a quel momento adottate”. È una linea mediana quella scelta dall’Anm, che in un momento reso tesissimo dal caso milanese si limita a chiedere la “sospensione delle attività processuali”, sul modello del periodo “feriale”, per quei distretti con casi di contagio e “potenziale rischio di esposizione”. E il sistema è troppo stressato per non lasciar presumere che davvero a breve possano intervenire altre misure straordinarie. Chiesto il rinvio dei processi su tutto il territorio nazionale di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2020 I rinvii dei termini processuali previsti dall’ultimo decreto legge sull’emergenza coronavirus non bastano: il Dl 9/2009 ne prevede solo per la zona rossa, ma avvocati e commercialisti chiedono una sospensione per tutto il territorio nazionale. Sia nei procedimenti ordinari sia in quelli tributari. La richiesta è stata avanzata ieri da Consiglio nazionale dei commercialisti (Cndcec), Organismo congressuale forense (Ocf) e Unione nazionale camere civili (Uncc), dopo che i casi di contagio che hanno riguardato due magistrati di Milano hanno fatto saltare il tappo delle tensioni covate nelle aule e nei corridoi negli ultimi dieci giorni. Il Palazzo di giustizia di Milano è stato chiuso alle attività ordinarie non urgenti, ma poi vari presidenti di sezione hanno emanato provvedimenti con regole particolari. In almeno un caso, relativo a una sezione penale, agli avvocati è stato chiesto di essere comunque presenti di persona, per prendere nota delle date di rinvio delle udienze. Gli organismi dell’avvocatura di varie parti d’Italia hanno chiesto l’intervento del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, cui i problemi della categoria erano stati già illustrati già il 24 febbraio dal presidente del Consiglio nazionale forense (Cnf), Andrea Mascherin. Il ministro non si è ancora espresso su un rinvio generalizzato. Di qui le richieste di ieri. Richieste basate non solo sul proliferare di prassi locali che non di rado incidono su diritti garantiti dalla Costituzione, ma anche sul fatto che molti professionisti svolgono la loro attività in sedi giudiziarie sparse per tutta Italia, rischiando di prendere il virus e diffonderlo in altri uffici lontani. A questi problemi hanno fatto riferiment0 i presidenti dell’Ocf, Giovanni Malinconico, e dell’Uncc, Antonio de Notaristefani. In sostanza, si chiedono per tutta Italia il rinvio di ufficio delle udienze già fissate, moratoria sulla fissazione di nuove udienze e la sospensione di tutti i termini processuali. Nel caso del processo tributario c’è un ulteriore problema, rilevato da Massimo Miani, presidente del Cndcec: “Quello tributario è l’unico processo non contemplato nel Dl 9/2020 che ha previsto il rinvio delle udienze e dei termini processuali per tutte le altre giurisdizioni. Analogo provvedimento è necessario per il termine di 90 giorni entro cui svolgere i contraddittori presso gli uffici territoriali dell’agenzia delle Entrate nell’ambito dei procedimenti di accertamento con adesione. Tali termini andrebbero anch’essi sospesi e con essi quelli per proporre l’eventuale. L’emergenza coronavirus, con le conseguenti difficoltà lavorative degli avvocati, è anche alla base della richiesta del Cnf, Ocf e Cassa forense al Governo per “estendere, fino al 30 giugno, la finestra temporale per la compensazione dei debiti fiscali con i crediti per spese, diritti e onorari spettanti agli avvocati ammessi al patrocinio a spese dello Stato, portandola in deroga per l’anno 2020 dal 1° marzo al 30 giugno o altra diversa scadenza”. La legge sulle intercettazioni non migliora il diritto di difesa di Pieremilio Sammarco* Il Tempo, 5 marzo 2020 È eccessiva la discrezionalità del magistrato di decidere cosa è rilevante o meno. La nuova legge sulle intercettazioni che entrerà in vigore il 1° maggio sta suscitando numerosi commenti da più parti. E balzato agli occhi un recente contributo dell’ex Procuratore Capo di Roma apparso su La Stampa del 3 marzo. In particolare, egli sostiene che la nuova legge “fa registrare un miglioramento significativo” sul diritto di difesa, dato che consentirebbe ai difensori di conoscere gli atti dell’autorità inquirente durante la fase delle indagini. In più, oltre a ritenere l’allargamento dell’uso del trojan estremamente utile alle indagini, egli si sofferma sul delicato compito del pubblico ministero di vigilare affinché non vengano trascritte espressioni lesive della reputazione o della riservatezza altrui, salvo che non risultino rilevanti per le indagini e ritiene che in futuro la scomparsa dai giornali delle notizie di gossip frutto delle intercettazioni sia un risultato concretamente raggiungibile. Inoltre, secondo il dott. Pignatone, la cattiva prassi di pubblicare gli atti di indagine riservati si deve al fatto che nel momento in cui gli atti vengono consegnati al difensore, vi sarebbe una moltiplicazione delle persone a conoscenza delle informazioni, “il che rende di fatto impossibile identificare da chi attingano i giornalisti”. Si tratta di considerazioni che possono essere confutate ed è utile, ai fini del dibattito in corso, replicare da una diversa prospettiva. Quanto al (presunto) significativo miglioramento del diritto di difesa, vi sono delle riserve: la norma prevede che la decisione sulla rilevanza degli atti oggetto di intercettazione competa in via esclusiva al p.m. titolare delle indagini; ciò che viene da quest’ultimo ritenuto non rilevante si inserisce in un archivio segreto su cui la difesa ha un faticoso accesso nel mare magnum dei dati. Ora, è noto che la nozione ed il concetto di rilevanza sono soggettivi e dunque discrezionali e perciò potrebbe ben configurarsi il caso in cui una intercettazione valutata non rilevante dall’autorità inquirente possa invece poi risultare determinante per sostenere una determinata tesi difensiva. Quanto all’allargamento dell’uso dei trojan, l’autore non dice che tali software spia verranno estesi anche alla figura dell’incaricato di pubblico servizio per i reati contro la pubblica amministrazione. Così verranno intercettate vaste ed eterogenee categorie professionali i cui appartenenti sono considerati incaricati di pubblico servizio: guardie giurate, custodi dei cimiteri, bidelli, autisti dei mezzi pubblici, portieri di beni immobili statali, medici di famiglia, dipendenti delle ASL, infermieri degli ospedali, postini e impiegati degli uffici postali, farmacisti, conduttori dei programmi tv, preti, gestori degli stabilimenti balneari, impiegati delle delegazioni Aci, ausiliari del traffico, dipendenti dei consorzi agrari, guidatori di carri attrezzi, dipendenti di Trenitalia, tecnici delle compagnie telefoniche, operatori degli obitori, dipendenti delle ricevitorie del lotto e molti altri ancora. Da ultimo, quanto alla (costante) pubblicazione sui media di atti e notizie riservati, Pignatone sostiene che nel momento in cui gli atti di indagine sono comunicati ai difensori cade il segreto istruttorio; in realtà, la prassi ha dimostrato che la pubblicazione avviene sin dalle prime fasi delle indagini e non è vero che tali atti siano a disposizione di un numero rilevante di soggetti, giacché essi sono circoscritti al solo pubblico ministero titolare delle indagini e agli ufficiali della polizia giudiziaria che hanno redatto l’informativa. E non è logico ritenere che la diffusione degli atti possa provenire dalla difesa che certo non ha interesse alla loro divulgazione. Né si parla dello stretto e malsano collegamento tra giornalisti ed inquirenti in virtù del quale sono sempre le stesse testate a pubblicare le notizie riservate e dei simulati accertamenti sulle fughe di notizie svolti dalla medesima Procura della Repubblica presso cui si è verificata la fuoriuscita; così si assiste al paradosso in cui il p.m. indaga su se stesso o sugli ufficiali della polizia giudiziaria con i quali collabora quotidianamente e l’esito dell’indagine è ovviamente scontato. *Professore di Diritto Comparato Università di Bergamo Anche il decreto Sicurezza bis finisce alla Consulta di Marco Palombi Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2020 Un giudice di Torino solleva questione di costituzionalità su uno dei due punti criticati pubblicamente da Mattarella ad agosto. Nella maggioranza com’è noto, non c’è accordo su come modificare i due decreti Sicurezza di Matteo Salvini e allora sarà la Consulta a decidere su alcuni pezzi dell’eredità giuridica del leghista: se il Tribunale di Milano ha già rinviato alla Corte il divieto per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe previsto dal testo del 2018, è notizia di ieri che il Tribunale di Torino abbia sollevato una questione di costituzionalità su un pezzo del decreto bis, quello approvato ad agosto 2019. Nel sonnecchiare del Parlamento, infatti, il giudice Andrea Natale chiede ora alla Consulta di decidere su uno dei due punti critici indicati da Sergio Mattarella promulgando il decreto: il primo riguardava la (non) proporzionalità della sanzione pecuniaria per violazione del divieto di ingresso in acque italiane (in linguaggio giornalistico, “le multe alle Ong”); la seconda, che è quella di cui ci occupiamo, il divieto di applicare la non punibilità per “particolare tenuità del fatto” ai tre reati di resistenza, oltraggio e violenza e minaccia a un pubblico ufficiale “nell’esercizio delle proprie funzioni”. Questa norma non era presente nel decreto originale, ma è frutto di un emendamento del deputato leghista Gianni Tonelli, già segretario del Sap, sindacato di polizia distintosi in dichiarazioni incresciose su casi come la morte di Stefano Cucchi. Il treno in arrivo alla Consulta è partito il 7 gennaio alla periferia nord di Torino: due carabinieri trovano un cittadino cinese, regolarmente residente in Italia, sdraiato a terra sul marciapiede ubriaco fradicio. L.J. aveva appena saputo che suo padre era in fin di vita, ricoverato nella regione di Fujian. Sconvolto, aveva fatto due cose: prima s’era comprato un biglietto per la Cina, poi sbronzato fino a svenire. Durante le procedure di arresto fu quasi sempre tranquillo, tranne in un paio di momenti in cui colpì o tentò di colpire gli agenti. Il giudice ritiene che si tratti di “resistenza a pubblico ufficiale”, ma vorrebbe non punire L.J. per la “particolare tenuità del fatto”: è incensurato, non risulta un habitué dell’alcol, nessuno s’è fatto male. Si ricade, scrive il giudice, nei criteri espressi dalla Cassazione per la “tenuità”: “Lo scopo è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neanche la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo”. Problema: col “sicurezza bis” non si può fare. Il Tribunale di Torino ritiene però che questa eccezione per i reati ai danni dei pubblici ufficiali - che, ad esempio, non vale per il reato di oltraggio a magistrato in udienza - sia irragionevole e sproporzionata e, soprattutto, violi gli articoli 3 e 27 della Costituzione quanto a uguaglianza di trattamento e funzione rieducativa della pena. I criteri per applicare la “tenuità del fatto” erano infatti già stati stabiliti dal legislatore: reati con pena massima fino a 5 anni, condotta non crudele o non motivata da futili motivi, conseguenze non gravi. “È ragionevole - si chiede il giudice - ricavare per alcune tipologie di reato delle sotto-soglie o delle sotto-categorie di reato che sono, di per sé, esclusi dall’applicazione?”. Non bastasse la logica, c’è vasta giurisprudenza: citeremo, tra le altre, solo la sentenza che nel1994 dichiarò illegittima la pena minima di sei mesi proprio per oltraggio a pubblico ufficiale censurando una “concezione sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini” sottesa alla norma. Difficile, e specie dopo l’uscita pubblica di Mattarella, che la Corte voglia autosmentirsi. “Ricorsi alla Cedu per i “fratelli minori” di Bruno Contrada” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 marzo 2020 “I principi affermati dalla sentenza della Cedu del 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una “sentenza pilota” e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata”. Così le sezioni unite della Cassazione, con la sentenza depositata martedì scorso, rigetta il ricorso proposto dal marsalese Stefano Genco e difeso dagli avvocati Stefano Giordano e Michele Capano. Il ricorrente, ricordiamo, era stato condannato alla pena di quattro anni di reclusione in quanto ritenuto responsabile di concorso esterno in associazione mafiosa. Il fatto che lui avrebbe commesso questo reato in periodi antecedenti al 1994, rappresenta uno dei cosiddetti “fratelli minori” di Bruno Contrada. Il caso è stato sollevato dall’avvocato Stefano Giordano del foro di Palermo che ha presentato un ricorso contro una sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta, accolto dalla Sesta Sezione penale della Cassazione. Il ricorso dell’avvocato Giordano avverso una sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta (che aveva ritenuto non estensibili a terzi gli effetti della sentenza emessa nell’aprile 2015 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a favore di Bruno Contrada per la condanna inflitta per concorso esterno in associazione mafiosa), è stato quindi accolta dalla Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione e, con ordinanza emessa il 22 marzo dell’anno scorso, ha rimesso alle Sezioni Unite la decisione circa la questione dell’estensibilità o meno degli effetti della sentenza Contrada a favore dei cosiddetti “fratelli minori”. La Corte Europea, il 14 Aprile del 2015, aveva stabilito che la sentenza è legittima solo per fatti commessi dopo il 1994. Lo ha stabilito per Contrada, ma ha identificato un deficit sistemico nell’ordinamento: fino a quel momento il reato non era infatti, per la Corte, configurato in modo sufficientemente chiaro. Da ricordare che Contrada era stato condannato per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa che avrebbe commesso tra il 1979 ed il 1988. Per la Corte Europea, in questo arco temporale in giurisprudenza non era stato ancora univocamente risolto il quesito circa la configurabilità della fattispecie ravvisata e, di conseguenza, non era possibile prevedere il carattere illecito della condotta e la connessa sanzione. Un principio che riguarda proprio quella “certezza della pena” che oggi però viene citata confondendolo con altro. La pena è certa quando il cittadino che tiene una certa condotta sa se essa costituisce reato oppure no, e in caso positivo quali sono le sanzioni previste. Si è cercato di annullare le conseguenze che la pronuncia Contrada avrebbe avuto nel sistema, perché si sarebbero dovute revocare tutte le sentenze di quelli che, pur non avendo fatto ricorso a Strasburgo, erano comunque nelle stesse condizioni di Contrada. “Tanti sono i giuristi - sottolinea a Il Dubbio l’avvocato Giordano - che si sono schierati a favore di questa pronuncia, da Francesco Viganò a Giovanni Fiandaca, osservando che, per garantire l’uniformità di trattamento, gli effetti della pronuncia Contrada si dovevano riconoscere anche agli altri casi, essendo una sentenza che riguarda aspetti generali”. Ma, di fatto, si è cercato di evitare che ciò accadesse. La sentenza della Cassazione ha messo il sigillo decidendo che il principio della sentenza Contrada non si estende a tutti gli altri “fratelli minori”. L’avvocato Stefano Giordano annuncia Il Dubbio che farà ricorso alla Corte Europea. “Rispettiamo la sentenza delle sezioni unite - spiega - ma la motivazione è piena di contraddizioni e finisce col reiterare, aggravandole, le numerose violazioni convenzionali denunciate col ricorso. Stiamo già preparando i ricorsi per tutti gli altri “fratelli minori” di Bruno Contrada. Che - conclude l’avvocato - a questo punto sono più che fratelli, figli di un dio minore”. Giornata per le vittime di errori giudiziari: una legge nel nome di Tortora di Valentina Stella Il Dubbio, 5 marzo 2020 La Commissione Giustizia del Senato ha dato il via libera alla calendarizzazione di una giornata per la memoria. “L’ufficio di presidenza della Commissione Giustizia del Senato ha dato il via libera, con votazione unanime, alla calendarizzazione del ddl n. 1686, per Istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari. Contiamo di portare subito il testo in Commissione per l’avvio dell’iter di discussione e la successiva approvazione. La data indicata per le celebrazioni è il 17 giugno, nella ricorrenza dell’arresto di Enzo Tortora”: è quanto annunciato ieri dal senatore della Lega Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama. “Se le Camere dimostreranno la necessaria sensibilità, non dovremo aspettare il 2021 per indire la prima giornata. Ogni anno - ha aggiunto Ostellari - ci sono 1000 italiani che finiscono in carcere ingiustamente, quasi tre al giorno. Approvare questo ddl è importante per ricordare, anche a chi non vuole ammetterlo, che nel nostro Paese ci sono innocenti che vanno in carcere. E per le istituzioni, in modo che si adoperino per ridurre e infine cancellare queste insopportabili ingiustizie”. Per quanto concerne l’iter, “la sede deliberante più veloce sarebbe quella in Commissione”, ha spiegato Ostellari ai microfoni di Radio Radicale, “però così si eviterebbe il dibattito in Aula”, udibile anche per i cittadini. Forse, ha aggiunto il senatore, “la si potrebbe lasciare in sede ordinaria, prevedendo quindi prima il dibattito in aula Senato e poi in aula Camera”. Non dovrebbe esserci la necessità di fare audizioni. L’iniziativa era nata da una proposta del Partito Radicale che l’aveva ufficialmente presentata lo scorso 29 gennaio alla presenza di diverse esponenti della Lega, di Forza Italia e Italia Viva. Proprio Maurizio Turco ed Irene Testa, rispettivamente Segretario e Tesoriere del Partito Radicale, esprimono soddisfazione per “l’impegno e la celerità del Presidente della commissione giustizia del Senato, Andrea Ostellari, per aver sottoposto al voto della commissione giustizia, la calendarizzazione del disegno di legge promosso dal Partito”. Essendo stata la votazione in Commissione unanime, ciò - concludono - “ci lascia ben sperare che la proposta possa diventare presto legge dello Stato già dal prossimo 17 giugno”. La negoziazione della pena in appello non vincola il giudice di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 3 marzo 2020 n. 8601. Il meccanismo di rinnovata negoziazione della pena per l’applicazione in sede esecutiva della continuazione o del concorso formale, non può essere un modello processuale generale di riferimento per rideterminare il trattamento punitivo. Una rimodulazione utile ad adeguarlo alla sopravvenuta illegalità della pena, per effetto della pronuncia di illegalità della pena in seguito alla pronuncia di incostituzionalità. Ad impedire che diventi un modello generale è la constatazione che è stato individuato dalla giurisprudenza delle Sezioni unite con esclusivo riferimento al caso in cui il titolo di condanna sia rappresentato dal patteggiamento. Partendo da questo principio la Corte di cassazione, con la sentenza 8601, respinge il ricorso contro la decisione della Corte d’Appello di determinare la pena per spaccio di stupefacenti aggravata dall’ingente quantitativo in modo difforme rispetto a quanto concordato tra le parti. Secondo la difesa la Corte territoriale non aveva accolto il nuovo negoziato sulla pena raggiunto dalle parti ma esercitato autonomamente i propri poteri per rideterminare la pena, malgrado mancasse il presupposto dell’accordo. Ad avviso del ricorrente erano stati così violati gli articoli 599-bis del Codice penale e l’articolo 188 delle disposizioni attuative del Codice di rito penale. La Cassazione precisa però che l’accordo raggiunto tra le parti, in base all’articolo 599-bis del Codice di procedura penale, inserito dalla legge 103/2017, che ha reintrodotto nell’ordinamento la possibilità di negoziare la pena in appello previa rinuncia agli altri motivi, “non dà luogo ad un rito alternativo a quello ordinario dibattimentale e non è assimilabile al patteggiamento”. Marche. Il Garante richiama alla calma: “Scelte necessarie a tutela della salute dei cittadini” anconatoday.it, 5 marzo 2020 Un invito a riporre fiducia nel sistema sanitario e nelle istituzioni. Previsto un incontro anche con il direttore dell’Ufficio scolastico regionale e pronta una lettera ai direttori delle carceri. A parlare è il Garante dei diritti, Andrea Nobili, che invita a riporre “fiducia nei confronti del sistema sanitario, nel personale medico e paramedico che, con incommensurabile impegno e dedizione, lavora quotidianamente per il bene dell’intera comunità. Non può mancare un nostro ringraziamento incondizionato”. Secondo il Garante stessa fiducia va rivolta alle istituzioni che, pur tra mille difficoltà, “stanno affrontando un’emergenza straordinaria. In questa direzione è da apprezzare la scelta della Regione Marche di emanare una nuova ordinanza, che dispone la sospensione delle attività didattiche e delle manifestazioni pubbliche su tutto il territorio regionale”. Tra gli interventi predisposti dal Garante un incontro con il direttore dell’Ufficio scolastico regionale per “monitorare il quadro complessivo anche sul versante del calendario delle lezioni. L’auspicio è che il Ministero e chi di competenza apporti a quest’ultimo tutte le modifiche del caso, affinché gli studenti non abbiano a registrare conseguenze sul loro percorso scolastico”. Lettera anche ai direttori degli istituti penitenziari marchigiani con l’invito a “rispettare scrupolosamente le raccomandazioni contenute nei provvedimenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in materia di prevenzione, contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid - 19” ed a porre in essere “tutte le misure e le indicazioni relative alla sanificazione degli ambienti e alla diffusione di norme igieniche”. Nell’ambito della prevenzione si invita a “richiedere al personale che entra in Istituto autodichiarazioni di non aver avuto contatti a rischio ed a predisporre strumenti che possano rilevare la temperatura corporea di chi entra nella struttura penitenziaria”. Il Garante fa presente che “le segnalazioni di diffusione del virus nel territorio nazionale e regionale inducono ad elevare il livello di allerta ed a rafforzare, in collaborazione con il personale dell’area sanitaria intra-penitenziaria, le misure di protezione negli istituti”. Toscana. Fanfani verso la carica di Garante dei detenuti redattoresociale.it, 5 marzo 2020 La Toscana a un passo dalla nomina del nuovo garante regionale dei detenuti. Il nome uscito dalla Commissione affari istituzionali del Consiglio è quello di Giuseppe Fanfani, ex sindaco di Arezzo e nipote del celebre Amintore Fanfani. Il futuro garante ha 72 anni e milita nel Partito Democratico. È stato deputato in Parlamento, oltre che sindaco di Arezzo per due mandati consecutivi (dal 2006 al 2014). Dal 2014 al 2018 è stato componente del Consiglio superiore della magistratura. Prenderà il posto, se il Consiglio darà il via libera come previsto, a Franco Corleone, che ha ricoperto la carica di garante regionale dei detenuti dal 2013. La nomina è arrivata con sei voti favorevoli, due schede bianche e un voto a Francesco Ceraudo, un altro degli otto candidati insieme a Roberto Bocchieri, Francesco Ceraudo, Sofia Ciuffoletti, Paola Foti, Bianca Maria Giocoli, Saverio Migliori ed Emilio Santoro. Adesso, la nomina di Fanfani dovrà essere approvata in aula dall’assemblea regionale toscana, nella seduta in programma il prossimo 10 marzo. “Avevamo già ampiamente analizzato in commissione le otto autocandidature pervenute - ha detto il presidente della Commissione Giacomo Bugliani (Pd) - Quella fatta è una votazione importante che va ad individuare una delle principali figure di garanzia del nostro ordinamento regionale”. Parma. Nessun controllo sanitario: la vita dei detenuti non vale niente? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 marzo 2020 In città il Coronavirus avanza ma nessuno si occupa di chi sta dentro. E Giachetti “scrive” a Bonafede. Mentre nelle carceri della Lombardia, in particolare quelle di Milano - grazie anche all’occhio vigile del garante locale dei dritti delle persone private della libertà Francesco Maisto - sono stati incrementati i controlli sanitari attraverso tendoni per il triage, c’è il carcere di Parma che al momento sembra non essere raggiunto da alcune misure precauzionali. Fatto singolare visto che, secondo i dati più recenti, sono 335 i casi positivi al Coronavirus accertati in Emilia Romagna e di questi, ben 61 provengono da Parma. Eppure il carcere di Via Burla è particolare. Non solo perché ha una sezione dedicata al 41 bis dove non mancano detenuti 80enni con numerose patologie fisiche, ma è un carcere che ha la peculiarità di ospitare un numero spropositato di detenuti malati, anche nelle sezioni ordinarie, tutti in attesa di essere assegnati all’ex centro diagnostico terapeutico, oggi denominato Sai. Persone di difficile gestione dal punto di vista sanitario che un contagio da Coronavirus può essere devastante. Il garante locale Roberto Cavalieri è andato a far visita al carcere ieri pomeriggio e ha potuto constatare che non si sta facendo nulla, nonostante le circolari e le disposizioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Hanno ripristinato i colloqui ed è un bene, ma non c’è alcun tendone per i controlli sanitari - spiega il garante a Il Dubbio - in compenso hanno solo incontrato i detenuti, anche stranieri, per spiegare le regole di comportamento del ministero della sanità”. Al carcere di Parma poi si aggiunge un altro grande problema. Le direttive per prevenire il contagio all’interno delle carceri, hanno disposto anche che i penitenziari coinvolti nelle regioni dove c’è un numero consistente di persone positive al nuovo virus siano predisposti per isolare al livello sanitario con scopo precauzionale i cosiddetti “nuovi giunti”. Quelli, in pratica, che varcano per la prima volta la soglia del carcere. Però le sezioni di isolamento del carcere di Parma sono tutte occupate da diversi ergastolani giunti da altri penitenziari. Come mai? Sono in isolamento da settembre dell’anno scorso per essersi rifiutati di condividere le celle con altri detenuti. Il caso è giunto oggi in parlamento tramite l’interrogazione parlamentare a firma del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti. Chiede al ministro della giustizia Alfonso Bonafede se ritiene di dover adottare le iniziative di competenza per assicurare ai condannati alla pena dell’ergastolo detenuti nel carcere di Parma la possibilità di usufruire di una cella individuale. Nell’interrogazione si fa riferimento all’articolo de Il Dubbio del 29 ottobre 2019 in cui si è data notizia della protesta degli ergastolani trasferiti da Voghera a Parma, puniti con l’isolamento in “cella liscia” per essersi rifiutati di condividere la cella con un altro detenuto. Il deputato di Italia Viva, nell’interrogazione, fa presente che ci sono diversi articoli come quelli del regolamento penitenziario e, non da ultimo, l’articolo 6 dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975), comma 5, il quale stabilisce che “fatta salva contraria prescrizione sanitaria e salvo che particolari situazioni dell’istituto non lo consentano, è preferibilmente consentito al condannato alla pena dell’ergastolo il pernottamento in camere a un posto, ove non richieda di essere assegnato a camere a più posti”. Milano. Positivo un altro magistrato a Palazzo di Giustizia: chiusa l’intera Procura Generale di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 marzo 2020 Un sostituto procuratore è risultato positivo al test del coronavirus nella notte. Il terzo piano bloccato a qualsiasi ingresso. Scattate le operazioni di sanificazione degli uffici. Terzo magistrato contagiato a Milano dal coronavirus: l’intera Procura Generale, al terzo piano del Palazzo di Giustizia, è in questo momento bloccata a qualunque ingresso dopo che nella notte un sostituto procuratore generale è risultato positivo al test ed ha dovuto essere soccorso per una crisi respiratoria: ora si troverebbe ricoverato in isolamento al Policlinico. I tecnici della Ats hanno subito iniziato le operazioni di sanificazione in tutta l’area interessata, mentre altri esperti stanno verificando con i dirigenti dell’ufficio, l’elenco delle persone che hanno avuto contatti con il magistrato. Il tipo di lavoro che fa questo sostituto procuratore è tale però da avergli fatto avere moltissimi contati sia con colleghi sia con avvocati. Anche per questo, ad esempio, al primo piano un’aula di Corte Appello è stata appena chiusa perché lì si era tenuta un’udienza nella quale molte persone si erano trovate a contatto con il magistrato. Nelle prossime ore i vertici di Palazzo di Giustizia decideranno quali provvedimenti adottare per gli ingressi o meno nell’intero complesso di Porta Vittoria. Intanto sono in fase di miglioramento le condizioni di salute degli altri due magistrati risultati positivi lunedì sera al virus: entrambi si trovano ricoverati all’ospedale Sacco. A mercoledì sera erano già più di 40 le persone che si sono messe o sono state messe in “quarantena” a casa per prudenza. Ora, dopo il nuovo contagio, il numero è destinato a aumentare. Il livello di allerta è stato ribadito dall’assessore al Welfare delle Regione Lombardia, Giulio Gallera: “La situazione del contagio da coronavirus in Lombardia è in costante crescita” ha detto, sottolineando “il grande sforzo per evitare la diffusione del contagio. E dunque, a parte il procedimento è importante che rispettino uno stile di vita prudente (con poche uscite, distanza di sicurezza) non solo “per gli over 65 ma per un periodo per tutti”. E ha poi ricordato gli ultimi dati del contagio: “Basti pensare che il 28 di febbraio avevamo 52 persone in terapia intensiva”, mentre mercoledì “ne avevamo 209 e sono passati 6-7 giorni. Questo per dire la velocità della diffusione del virus. Non abbiamo indicatori che dicano da qui ai prossimi 2-3 giorni ci sarà un rallentamento - ha ribadito Gallera - Dobbiamo modificare i nostri stili di vita, si possono fare provvedimenti come la chiusura delle scuole, dei teatri e dei cinema ma questo serve per dare la dimensione che dobbiamo rallentare la nostra vita sociale. Dirlo da milanese è particolarmente duro e difficile, ma è così. O noi per le prossime due-tre settimane riusciremo a rendere rarefatte le nostre uscite e la nostra vita sociale oppure noi non ridurremo il contagio e prima o poi qualunque sistema sanitario regionale anche uno dei più strutturati come quello in Lombardia e Veneto non sarà in grado di reggere”. Milano. Il “Palazzaccio” svuotato e la fobia della distanza di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 marzo 2020 L’avvocato al giudice: “Devo lanciarle le carte?”. I due magistrati risultati positivi lunedì sera al virus sono in buone condizioni all’ospedale Sacco. Più di 40 le persone già in quarantena per prudenza. Deserto ma non troppo. Normale ma non del tutto. Davvero chiuso no, il Palazzo di Giustizia milanese, ma nemmeno davvero aperto; limitazioni alle udienze sì, ma entro certi limiti; e modifiche agli assetti lavorativi del personale in qualche ufficio sì e in qualche altro invece no. Il problema è che una macchina come il Palazzo di Giustizia (5 mila ingressi in media al giorno, 2 mila persone che vi lavorano a vario titolo) è un po’ come una centrale nucleare: anche a volerla spegnere (e qui peraltro non la si vuole intenzionalmente “spegnere” perché si ritiene non ve ne sia sensato motivo pur dopo i due episodici contagi di magistrati), non si può fare di colpo. E persino per fare alzare il piede dall’acceleratore e far girare il motore “al minimo”, ci vuole tempo. Così ieri mattina la scena cambia a seconda del punto da dove la si guardi. I corridoi del Tribunale sono in effetti abbastanza vuoti perché, come da circolare del presidente martedì, vengono rinviate di alcuni mesi le udienze ordinarie già calendarizzate sino al 31 marzo quelle penali e sino al 9 marzo quelle civili (ma nel pomeriggio questo termine è portato al 16 marzo). Nei corridoi e nelle stanze dei giudici invece della Corte d’Appello, specie della sezione Lavoro e del civile, molte udienze in mattinata si tengono lo stesso - con grande disapprovazione degli avvocati - perché un analogo provvedimento di tendenziale rinvio delle udienze ordinarie non urgenti viene emesso nel pomeriggio, e peraltro per quelle calendarizzate solo fino al 15 marzo (da oggi nel civile, da domani nel penale). Già qui si coglie una differenza di postura organizzativa tra uffici giudiziari, dovuta al fatto che, di fronte ad autorità sanitarie che non ravvisano alcuna emergenza nell’universo del “Palazzaccio”, c’è chi avverte di più la pressione degli avvocati (che caldeggiano una soluzione più generalizzata) e del personale amministrativo (che manifesta timori per la salute), e chi invece ritiene ci siano tutti gli estremi - pur una volta ridotti alcuni servizi e apprestati gli accorgimenti anti assembramento - per continuare a lavorare in maniera relativamente normale. Così se il procuratore Francesco Greco e il dirigente Roberto Candido scrivono al personale amministrativo del loro ufficio che “sarà riconosciuta la presenza in servizio a tutti i lavoratori genitori di figli minori a casa per le scuole chiuse”, in Corte d’Appello il personale che chiede altrettanto margine non trova invece sponda, anche perché l’input del Ministero della Funzione Pubblica è che chi è retribuito per assicurare un servizio sul posto di lavoro lo assicuri nelle aree che (come allo stato Milano) non sono interessate da una specifica emergenza sanitaria da “zona rossa”. Qualche ulteriore disomogeneità si crea così lo stesso, perché i rinvii di udienze ordinarie non sono “coperti” dal decreto legge che ha congelato i termini solo dei processi che in qualunque parte d’Italia abbiano un magistrato, un avvocato, un testimone, un imputato o una qualunque parte provenienti da una delle “zone rosse”: e quindi, mentre ad esempio in questi ultimi casi la prescrizione si blocca, nei casi invece di prudenziale rinvio organizzativo “alla milanese” i termini di prescrizione (così come tutte le altre scadenze) continuano a scorrere e a consumarsi. Ragione per cui tra i processi che si continuano a celebrare ci sono non soltanto le “direttissime” (con gli arrestati della notte prima) e quelli con detenuti, ma anche quelli di cui sia appunto prossima la prescrizione. I due magistrati risultati positivi lunedì sera al virus sono intanto in buone condizioni all’ospedale Sacco, ma sono diventate già più di 40 le persone che si sono messe o sono state messe in “quarantena” a casa per prudenza. E non soltanto a Milano, visto che da ieri anche un giudice di Firenze è a casa: “Ieri mi ha contattato e mi ha detto di aver partecipato il 22 febbraio a un convegno insieme a uno dei giudici di Milano risultato positivo al coronavirus - spiega la presidente del Tribunale fiorentino, Marilena Rizzo -, così gli ho detto di stare a casa fino al termine del periodo di incubazione di 14 giorni”. Napoli. “Preoccupati per il carcere di Poggioreale”, Arcigay e Radicali chiedono prevenzione internapoli.it, 5 marzo 2020 Nell’ambito della gestione dell’emergenza coronavirus, tra le misure di contenimento dell’infezione da Covid-19, non ci risultano particolari interventi in atto nelle strutture detentive del nostro Paese, siamo preoccupatissimi che, ancora una volta, carceri e case circondariali possano diventare la periferia dimenticata dei diritti umani e civili, mettendo di fatto a serio rischio la salute di migliaia di persone, dei loro familiari e di riflesso della cittadinanza tutta, con il rischio reale di trasformare le strutture detentive in veri e propri lazzeretti. Ci preoccupa in modo particolare la conformazione di grandi strutture, come Poggioreale, la più grande struttura detentiva dell’Europa occidentale, che dal punto di vista sociale e sanitario, proprio per il sovraffollamento, sono già in condizioni critiche, anche senza particolari emergenze e che potrebbero collassare se si dovesse diffondere l’infezione di Covid-19. Chiediamo che il Governo, le Regioni e le direzioni carcerarie intervengano con celerità per monitorare cosa sta succedendo su tutto il territorio nazionale e per prendere provvedimenti straordinari, cercando comunque di preservare i diritti dei detenuti, volti ad evitare una rapida e pericolosissima diffusione del virus nelle strutture detentive. Nota dei Radicali Napoli Ernesto Rossi e Antinoo Arcigay Napoli Palermo. Rischio coronavirus in carcere: “più misure alternative per i detenuti” di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 5 marzo 2020 L’avvocato Mario Bellavista scrive al capo dello Stato in polemica con l’Ordine di Palermo. È in aperta polemica con il direttivo dell’Ordine degli avvocati che l’avvocato Mario Bellavista ha deciso di scrivere direttamente al ministro della Giustizia, al premier Conte e al capo dello Stato Mattarella per chiedere “l’estensione delle misure alternative alla detenzione per prevenire e affrontare l’emergenza corona virus nelle carceri italiane”. “Avevo chiesto al mio ordine di condividere questa iniziativa, ma non ho avuto inspiegabilmente l’appoggio sperato - spiega il penalista e consigliere -. Forse il fatto di essere un consigliere di minoranza ha spinto i miei colleghi a rispondere più al logiche politiche che all’interesse di cittadini. Sì perché i detenuti sono cittadini che, in questo momento particolare, si trovano in una situazione ad alto rischio. E allora, senza strumentalizzare richieste provocatorie di amnistia, si chiede che si decreti con urgenza l’estensione delle misure alternative alla detenzione in carcere quando le pene da scontare siano brevi e che vengano sospese le esecuzioni delle pene fino a cinque anni finché non verrà superata la emergenza corona virus. La estensione di misure alternative alla detenzione in carcere non vuol dire mettere in libertà dei condannati. Vuol dire garantire la loro salute ed eseguire la pena in luoghi e in modi diversi dalla detenzione in carcere”. Savona. Nuovo carcere, la proposta di Ciangherotti (Fi) “apriamolo ad Albenga” ivg.it, 5 marzo 2020 “A quattro anni dalla chiusura del carcere Sant’Agostino di Savona, la nostra provincia ha bisogno di un nuovo penitenziario in tempi rapidi e penso che Albenga possa essere la soluzione ideale per tutti”. Questa la proposta di Eraldo Ciangherotti, consigliere provinciale di Savona e capogruppo di Forza Italia in Comune ad Albenga. A seguito della chiusura del carcere savonese, avvenuta nel 2016, sono state ipotizzate diverse soluzioni, ma nessun progetto è mai stato seguito fino in fondo. “In questi quattro anni di immobilismo si sono creati disagi sempre maggiori per il Tribunale di Savona, che continua ad essere la sede dei procedimenti giudiziari, per la Polizia penitenziaria e per i familiari dei detenuti - ha spiegato Ciangherotti. A questi disagi e ai maggiori costi che vengono quotidianamente sostenuti per trasportate i detenuti e le forze dell’ordine tra i carceri di Genova, Imperia e Sanremo, recentemente si sono aggiunti anche i noti problemi sulla viabilità, che hanno reso sempre più insostenibile la situazione”. “Già due anni fa, insieme a Ginetta Perrone, in Consiglio comunale avanzai la proposta di costruire un nuovo carcere della provincia, moderno e funzionale, ad Albenga - ha ricordato Ciangherotti -. Abbiamo gli spazi adeguati per realizzare questo presidio indispensabile alla sicurezza dei cittadini, evitando le situazioni fatiscenti e degradate dei centri storici, che non sono più idonee”. Sulle possibili proteste che una tale proposta potrebbe far scatenare tra i cittadini albenganesi, Ciangherotti ha le idee chiare su quali argomenti usare. “In primis, sarà banale, ma penso che sia sempre meglio avere i delinquenti dietro le sbarre che in giro a piede libero - ha sottolineato il capogruppo ingauno di Forza Italia -. In secondo luogo avere un carcere nel nostro comune determinerebbe l’assegnazione delle forze di Polizia necessarie a garantire quella sicurezza della struttura e quindi anche del territorio, che ormai manca ad Albenga”. La decisione sul nuovo carcere spetterà al Ministero della Giustizia, ma per Ciangherotti sarà fondamentale arrivare ad una proposta che prima sia condivisa dalle istituzioni locali. “Su una decisione del genere serve una compattezza istituzionale, al di là dei colori politici, tra Comune, Provincia e Regione - ha concluso Ciangherotti. Su una vicenda così importante auspico poi che intervenga anche l’onorevole Franco Vazio, che dovrebbe rappresentare il nostro territorio, e che ricopre il ruolo di vicepresidente della Commissione Giustizia a Roma”. Napoli. “Parole luminose dietro le sbarre”: il progetto che regala un libro ai detenuti di Stefano Colasurdo vesuviolive.it, 5 marzo 2020 L’associazione “Gli ultimi saranno” ha indetto una lodevole iniziativa che lega tutti noi ai detenuti. Il progetto che sta portando avanti si chiama “Parole luminose dietro le sbarre”, con la quale chiunque aderisca, può inviare un libro ad un carcerato. La vita nelle carceri è davvero molto dura, d’altronde sono lì per scontare una pena. Questa punizione però non deve essere fine a se stessa, ma deve essere un modo per poi reinserirsi nella società. Ecco allora che iniziano tante attività all’interno delle carceri: musica, teatro, scrittura creativa e tanto altro. Si cerca di far avvicinare il detenuto ad lavoro, ad una passione che possa coltivare una volta che ha scontato la sua pena. “Gli ultimi saranno” allora ha deciso di proporre questa iniziativa che possa donare non solo un libro al detenuto, ma soprattutto regalare un messaggio di speranza, una luce nuova per i detenuti. Per questo il titolo del progetto porta con sé la parola luminosa, perché tra le righe c’è un forte messaggio. Un progetto che assume tutto il sapore della solidarietà verso delle persone che non conosciamo e che può essere tramandato da detenuto a detenuto. Allora ecco che chiunque volesse può donare il libro comprandolo in una delle librerie che hanno aderito al progetto, o recandosi personalmente in carcere. “Altro che sicurezza, con i decreti gli immigrati finiscono in strada” di Sergio Valzania Il Dubbio, 5 marzo 2020 Parla Loretta Malan, direttrice dei servizi di inclusione della Diaconia Valdese. Incontro Loretta Malan, direttrice dei Servizi di inclusione della Diaconia Valdese, alla stazione di Roma Termini, mentre si prepara a tornare in Piemonte dopo una serie di incontri nella capitale. “La Diaconia corrisponde in qualche modo alla Caritas della Chiesa Cattolica, è il braccio esecutivo della Tavola, l’organo di rappresentanza delle chiese metodiste e valdesi. I Servizi di inclusione si occupano di tre attività: accoglienza degli immigrati attraverso progetti istituzionali o finanziati da privati, contributo alla soluzione dei problemi di disagio abitativo e gestione di otto sportelli, distribuiti sul territorio nazionale, che offrono servizi di orientamento e di supporto per attività di aggregazione. Dove siete attivi? Soprattutto in Piemonte. Gestiamo centri di accoglienza a Torino, Pinerolo e Torre Pellice, che è una sorta di capitale delle valli valdesi. Ma siamo presenti anche a Milano e Roma, abbiamo una collaborazione con il comune di Trezzano sul Naviglio. In Sicilia gestiamo un centro di accoglienza a Vittoria, nel ragusano, e a Firenze un altro per minori. Come valuta le trasformazioni in corso nel settore dell’accoglienza dei migranti? Il passaggio dagli Sprar ai Siproimi ha causato parecchi problemi. Dopo l’approvazione dei decreti Salvini, nel novembre del 2018, le persone accolte non possono più avere i permessi di soggiorno umanitari, che sono stati aboliti. Ci sarebbero i nuovi permessi denominati speciali, ma durano poco, un anno soltanto, e sono così speciali che non vengono rilasciati quasi mai. Le persone alle quali non sono stati rinnovati i permessi umanitari sono finite per strada, sono divenuti irregolari, senza nessuna forma di supporto sociale. Molto vulnerabili, preda di organizzazioni malavitose. I rimpatri sono impossibili, sia per motivi economici che per la mancanza di accordi bilaterali. Quindi cosa succede? A fronte di un decreto chiamato sicurezza abbiamo ottenuto l’effetto opposto. Inoltre abbiamo interrotto per molte persone un percorso di integrazione, in alcuni casi anche molto avanzato. Che cosa è importante in questo percorso? Soprattutto l’apprendimento della lingua. Le prefetture promuovono dei progetti in tal senso e i comuni li gestiscono. A volte con solo 6/8 ore settimanali di lezione, che sono troppo poche. Noi affianchiamo queste attività con nostri insegnanti, per arrivare almeno a 12/ 15 ore settimanali, con le quali in sei mesi di frequenza un immigrato arriva a esprimersi nelle frasi basilari. In un anno comincia a padroneggiare la lingua ed è in grado di iniziare a lavorare o a seguire corsi di formazione. Tutti gli immigrati hanno il permesso di lavorare il Italia? Due mesi dopo aver avanzato la richiesta i richiedenti asilo possono lavorare. Trascorre un anno dalla richiesta alla prima convocazione da parte della commissione e in caso di esito negativo è possibile fare ricorso. Può darsi che dopo tre anni trascorsi come richiedente l’asilo non venga concesso e una persona già integrata, con casa e lavoro fisso perda tutto. Si ritrovi per strada in stato di illegalità. Quante sono queste persone? Come vivono? Fare delle stime è difficile. Si calcola che in Italia ci siano mezzo milione di persone senza un titolo legale di residenza. Vivono di espedienti, finiscono in una condizione di semi schiavitù, dall’accattonaggio al caporalato. Allo spaccio. Non esistono strumenti legali per sostenerli. Cosa sarebbe necessario fare? Sicuramente una sanatoria a favore di chi è integrato e lo può dimostrare. Vanno poi modificate le politiche di ingresso nel nostro Paese. Non ci sono più visti per lavoro, o almeno ne sono esclusi tutti i paesi interessati dal fenomeno migratorio. Persone che hanno la possibilità di pagarsi il viaggio e avrebbero un lavoro assicurato finiscono in mano a trafficanti e scafisti. Noi valdesi accogliamo alcune centinaia di persone che sono arrivate in Italia attraverso i corridoi umanitari organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio, lo facciamo attingendo ai fondi che ci arrivano dall’ 8 per mille. In due anni gli immigrati sono tutti perfettamente integrati. Qual è il problema più grave da affrontare, in tema di immigrazione? Penso il peggioramento della situazione culturale. Molti si sentono autorizzati a esprimere sentimenti xenofobi e razzisti che prima coltivavano di nascosto. Si sta facendo una guerra tra poveri, la paura dello straniero cattivo non esiste: una volta che le persone si conoscono, quando si trovano a vivere insieme, tutte le problematiche si sciolgono. C’è una narrazione sbagliata che suscita il timore di vedere consumato il poco welfare che c’è. Che rischi comporta questo? Lo smantellamento di un sistema di accoglienza che cominciava a funzionare, con la perdita di 35.000 posti di lavoro e la scomparsa di una ricchezza della quale abbiamo bisogno. I flussi umani continueranno e vanno gestiti, per questo occorrono gli strumenti adatti, smettendo di operare in un contesto emergenziale e costruendo invece un sistema strutturato per persone che si spostano, come la modernità consente di fare. E tutto questo va concordato e reso efficiente a livello europeo. Tra i migranti-detenuti in Grecia: “Catturati nei campi dopo il confine turco” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 5 marzo 2020 A Filakio, tra filo spinato e barriere dove la polizia greca è inflessibile e non fa passare nessuno. La risposta più comune è “non so”. Ovvero: non so quanto tempo resterò qui, non so dove andrò, non so a chi chiedere, da chi farmi difendere. Parlare con i migranti-detenuti attraverso le reti metalliche e i fili spinati che circondano la prigione posta alla periferia del villaggio di Filakio significa scoprire un universo sospeso, dominato dall’incertezza, dove centinaia di persone, compresi tanti bambini, appaiono totalmente ignari del loro futuro, alla mercé delle autorità che li hanno rinchiusi. “Stiamo arrivando numerosi negli ultimi giorni. La polizia greca ci cattura nei campi, appena superiamo il confine dalla Turchia. Gli agenti non sono violenti. Devo dire che ci trattano abbastanza con rispetto. Ma poi ci chiudono dietro le reti e noi non sappiamo più nulla. Io sono qui già da cinque giorni. Mi danno da mangiare e un letto. Meglio che sotto le bombe in Siria”, dice rassegnato Diler Othman, un curdo 29enne originario della città siriana di Afrin. Arrivare a Filakio non è semplice. Situato a 16 chilometri dal punto di passaggio con la Turchia a Kastanies, il campo, circondato da robusti e alti filari di reti metalliche, costituisce la rappresentazione perfetta del nuovo pugno di ferro greco, sostenuto dai partner europei in nome della comune opposizione alla politica del presidente turco Erdogan. Per visitarlo occorre una lunga trafila burocratica. I giornalisti sono malvisti. Lo hanno notato i reporter che cercano di raccontare in diretta l’operato di esercito e polizia per bloccare al confine i migranti. Tanti tra noi sono stati fermati e rimandati indietro dalle pattuglie con l’accusa di aver superato una non meglio definita “zona militare chiusa”. Anche parlare a distanza con i migranti rinchiusi può creare seri problemi. E ciò nonostante la stessa responsabile civile del campo, Irina Logotethi, spieghi paziente che in realtà questa “non è una prigione, bensì un Ric, ovvero un Centro di Ricevimento e Identificazione, dove i migranti non sono veri prigionieri, ma stranieri momentaneamente trattenuti”. Comunque, è ovvio che vi sono assiepati vecchi e nuovi arrivi. Che non possono uscire. “Sono qui da oltre cinque mesi assieme a mia moglie. Non abbiamo figli. Ci hanno detto che nei prossimi giorni saremo trasferiti d’ufficio nella prigione, che è proprio di fronte a noi”, spiega il 25enne Murtaza Hashemi, catturato assieme alla 21enne Unulbanim. Sono entrambi afghani della regione di Wardak. “Non torneremo mai indietro. L’Afghanistan ci fa paura. I talebani stanno vincendo e noi siamo stanchi della loro violenza fanatica e religiosa”, spiegano. A loro dire i migranti sono rinchiusi in quattro blocchi di edifici prefabbricati dove vivono assiepate oltre 600 persone. In maggioranza afghani, ma anche iraniani, marocchini, iracheni, siriani. Il cortile di cemento è costellato di fili per far asciugare il bucato. I bambini giocano a palla dribblando tra la gente. E, anzi, visto che noi siamo fuori dal recinto, chiedono di recuperare un paio di palloni finiti oltre le barriere. Reza Huhabbi, 36enne di Teheran, è stato catturato quattro giorni fa assieme alla moglie e la figlia Mariam di tre anni. “I soldati turchi ci hanno riuniti a Edirne, quindi hanno indicato la strada per la Grecia. Io spero di diventare falegname ad Atene”, dice. Ma poco lascia credere che il suo sogno possa avverarsi. La questione migranti dalla Turchia alla Grecia è ormai componente centrale di una partita politica e geo-strategica ampia e complessa, che comprende il degenerare della guerra in Siria, il difficile rapporto Putin-Erdogan e le gravi frizioni tra Ue e governo di Ankara. Atene blinda sempre più i suoi confini, mentre accusa Ankara di diffondere fake news sulle violenze della polizia greca, accusata di aver sparato sui migranti causando almeno un morto e cinque feriti. Ieri mattina abbiamo assistito a numerosi scontri tra migranti e agenti a suon di lacrimogeni e tiri di pietre. “Il confine è chiuso. Non si passa”, ripetevano gli altoparlanti montati sui blindati. Il premier “falco” dell’Ungheria, Viktor Orbán, annunciava che “130 mila migranti” sarebbero già entrati in Grecia da venerdì. Ma il numero non combacia affatto con le poche migliaia segnalate dai portavoce ad Atene. Migranti. Il ricatto di Erdogan per trattare con il Cremlino di Francesca Paci La Stampa, 5 marzo 2020 “Erdogan apre il rubinetto dei migranti per guadagnarci il massimo”. E più d’un impressione quella della proprietaria della taverna Koytoyki, un paio d’isolati a piedi dal varco di Kastanies, dove da venerdì Ankara e Atene si sfidano sul corpo di sopravvissuti a diversi inferni. Il governo di Mitsotakis e i greci tutti sono convinti che quest’ultima crisi sia la posta alzata da Erdogan per sedersi oggi con Putin e rivendicare, oltre a un ruolo decisivo nella partita siriana, la capacità d’intimidire seriamente l’Europa, l’avversario politico condiviso con una Russia da cui invece lo separano, armi in pugno, la Siria e la Libia. “Contiamo di raggiungere un accordo su Idlib” annuncia il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov poche ore dopo l’alba di un mercoledì di fuoco, con i militari schierati lungo il confine sul fiume Evros come contro un’invasione di ottomana memoria. Sono ore tesissime: gli altoparlanti che, intervallati dai colpi di lacrimogeni e cannoni ad acqua, promettono l’arresto per attraversamento irregolare della frontiera e, dall’altra parte, centinaia di migranti che gridano “Giornalisti!” sperando nei media per aprire gli occhi a un’Europa le cui porte, contrariamente alle aspettative alimentate da Ankara, hanno trovate chiuse. La guerra di posizione è anche guerra comunicativa. “Ci sono un morto e cinque feriti, tutti caduti per mano greca” annunciano dal fronte turco, allegando foto da verificare e l’accusa d’ipocrisia a un’Europa terrorizzata da “povera gente” (la Turchia ospita oltre 3,5 milioni di profughi e brandisce la minaccia del milione in attesa di scappare da Idlib). “I turchi spingono i migranti al confine con le pistole” rilanciano da Atene, dopo aver smentito “categoricamente” di aver ucciso qualcuno. Secondo i primi oltre 130 mila persone bussano in queste ore alla fortezza Europa, per gli altri si tratta di un numero cinque volte minore. Di sicuro c’è che il flusso, respinto con violenza, martella sulle isole ma qui si va spostando a Sud, dato che anche il passaggio bulgaro è bloccato, con Sofia a mediare tra Ankara e Bruxelles ipotizzando una zona cuscinetto di 30 km lungo tutta la frontiera. Tra i rovi e il filo spinato, gimkana estrema di chi buca la barriera, l’eco delle promesse recapitate martedì ad Atene dai presidenti Ue si perdono come i poveri averi di chi scappa. “I migranti non devono essere usati come strumenti politici” denuncia la Croce Rossa, ma da Bruxelles la commissaria Ue agli aiuti umanitari Ylva Johannsons insiste: “I nostri confini non sono aperti”. Basta venire a Kastanies. L’Iran in quarantena rilascia 54mila detenuti di Greta Marchesi Il Dubbio, 5 marzo 2020 È stato liberato solo chi è risultato negativo al virus e la misura riguarda unicamente le condanne più lievi, sotto i 5 anni di carcere. Il coronavirus si è diffuso praticamente “in tutte le province dell’Iran”, ha confermato il presidente Hassan Rohani. Il capo della Repubblica Islamica, però, ha attaccato i. media stranieri, sostenendo che vogliono seminare il panico nel Paese con “fake news” sulla diffusione del coronavirus. “La Repubblica Islamica”, ha detto Rohani in dichiarazioni riportate da Pres s Tv, ha chiesto al ministero della Sanità “piena trasparenza” e ha sollecitato la diffusione di informazioni alla popolazione. La misura è stata annunciata dal portavoce della magistratura, Gholamhossein Esmaili, il quale ha precisato che ai detenuti è stato concesso di uscire dal carcere dopo che erano risultati negativi al coronavirus. La misura riguarda solamente le condanne più lievi, infatti Esmaili ha sottolineato che i prigionieri condannati a più di cinque anni di carcere non saranno rilasciati. Inoltre, per il secondo venerdì consecutivo le tradizionali preghiere del venerdì salteranno a Teheran e in molte città dell’Iran. “Per questa settimana sono annullate le preghiere del venerdì nei capoluoghi di tutte le province”, ha detto Mohammad Javad Haj Ali Akbari, responsabile dell’ufficio che gestisce le preghiere del venerdì. Infine, dopo vari rinvii, il governo iraniano ha dichiarato che le persone con sintomi evidenti che cercheranno di lasciare la città di Qom, principale focolaio dell’epidemia, saranno messe in quarantena. La decisione segna un deciso cambio di passo delle misure adottate dal governo iraniano che in un primo aveva minimizzato gli effetti dei primi contagi per poi mutare radicalmente la propria posizione dopo che 23 esponenti del parlamento iraniano sono risultati positivi al virus e a seguito del decesso di uno dei consiglieri della guida suprema iraniana, Ali Khamenei. In Afghanistan la pace archivia la giustizia di Giuliano Battiston Il Manifesto, 5 marzo 2020 Un anno fa la Corte penale internazionale bocciava l’inchiesta sui crimini commessi nel paese asiatico. Oggi decide sul ricorso delle vittime della guerra, escluse dall’accordo tra Stati uniti e Talebani. “Chiunque abbia preso parte alle ostilità contro l’Emirato islamico è perdonato per le sue azioni passate”. Così Haibatullah Akhundzada, leader supremo dei Talebani, nel comunicato con cui celebra “la vittoria dell’intera nazione di musulmani e mujahedin”. Ottenuta sabato scorso a Doha, la firma dell’accordo tra Stati uniti e Talebani legittima politicamente gli eredi di mullah Omar. E lascia ai negoziati intra-afghani, il cui inizio è previsto il 10 marzo, tante questioni cruciali, dall’architettura politico-istituzionale del paese alla spartizione del potere. Omettendo la questione che, più di tutte le altre, alimenta l’instabilità: la giustizia. Per Hadi Marifat, direttore dell’Afghanistan Human Rights and Democracy Organization (Ahrdo), l’organizzazione non governativa a cui si deve l’apertura nel febbraio 2019 del primo museo dedicato alle vittime di quattro decenni di guerra, le parole di mullah Akhundzada sono “un insulto”. “Invece di supplicare il perdono delle sue vittime”, ha scritto su Twitter Marifat, il capo della guerriglia in turbante pretende di perdonare gli altri. E di insulto hanno parlato molti afghani pochi giorni fa, quando il New York Times ha ospitato un editoriale di Sarajuddin Haqqani, numero due degli studenti coranici e leader della rete Haqqani, l’ala più oltranzista e stragista del movimento. Un articolo ecumenico in cui l’autore, nella lista dei terroristi internazionali, invoca pace, dialogo, coesione. Senza accennare alle vittime del conflitto. Ancor meno alle proprie responsabilità nello spargimento di sangue. L’accordo tra Stati uniti e Talebani rischia di sotterrare una volta per tutte le rivendicazioni di giustizia degli afghani. “L’ultima speranza è la decisione della Corte penale internazionale”, ci ha detto Ehsan Qaane, ricercatore dell’Afghanistan Analysts Network, l’ultima volta che lo abbiamo incontrato a Kabul. Si riferisce a una storia lunga che oggi, 5 marzo 2020, potrebbe cambiare verso. Il 12 aprile 2019 la Camera di pre-dibattimento della Corte penale internazionale ha respinto la richiesta, avanzata a fine novembre 2018 dall’ufficio della procuratrice capo Fatou Bensouda, di aprire un’inchiesta ufficiale su presunti crimini di guerra e contro l’umanità in Afghanistan. Durate molti anni, le indagini preliminari avevano stabilito che ci fossero “prove significative di crimini contro l’umanità e di guerra” condotti dai Talebani e dal network Haqqani, così come di crimini di guerra da parte delle forze di sicurezza afghane e dei servizi segreti locali, oltre che dei soldati Usa in Afghanistan e della Cia. Per i giudici della Corte non è stato sufficiente. Richiesta respinta. A causa della volatilità politica e della mancanza di risorse, l’apertura dell’indagine non servirebbe “gli interessi della giustizia”. “Uno schiaffo in faccia per milioni di vittime di guerra afghane, in particolare per quei 699 individui e applicanti collettivi che, spesso rischiando la vita, hanno fornito le prove per un giudizio sensato e legittimo” della Corte, ha efficacemente sintetizzato sul sito Security Praxis la ricercatrice Huma Saeed. Quando lo abbiamo incontrato al Museo delle vittime di Kabul, Hadi Marifat, direttore di Ahrdo, ci ha parlato di “un pericoloso precedente, perché si tratta di una decisione politica, senza base giuridica”. L’impressione è che la Corte penale internazionale abbia sofferto le pressioni dell’amministrazione Trump, che considera il lavoro della Corte “un attacco allo stato di diritto americano”, come dichiarato il 15 marzo 2019 dal segretario di Stato Usa, Mike Pompeo. Per il ricercatore Eshan Qaane, conta senz’altro la posizione del governo statunitense, ma anche una convinzione più ampia e radicata: “L’idea che, per dirla con le parole di Lakhdar Brahimi”, rappresentante speciale delle Nazioni unite in Afghanistan dal 2001 al 2004, “in Afghanistan si possa ottenere o la pace o la giustizia, non entrambe le cose”. Una tesi consolidata. “Di giustizia non c’è traccia in nessuno degli accordi politici degli ultimi 40 anni. Non negli accordi di Ginevra del 1988”, tra il governo del presidente Najibullah e il Pakistan sostenitore dei gruppi mujahedin, “non nell’accordo di Bonn” successivo al rovesciamento dell’Emirato islamico nel 2001, “non in quello che ha garantito impunità al leader di Hezb-e-Islami”, Gulbuddin Hekmatyar, rientrato nell’agone istituzionale letteralmente su un tappeto rosso, spiega Qaane. L’accordo tra Usa e Talebani segue la stessa logica. Per questo, molti lo considerano monco. “L’ho anche detto a Brahimi quando ci siamo incontrati: la pace senza giustizia non ha valore”, ci ha raccontato Aziz Rafiee, volto noto della società civile e direttore dell’Afghan Civil Society Forum Organization. Per il quale “in un paese c’è pace quando c’è fiducia nel sistema e la fiducia non può che venire dalla giustizia”. Oggi i giudici della camera di Appello della Corte penale internazionale dovranno decidere se accogliere o meno il ricorso di Bensouda contro la decisione dell’aprile scorso con cui era stata respinta la sua richiesta di aprire un’inchiesta sui crimini in Afghanistan. “È davvero l’ultima speranza per ottenere qualche forma di giustizia. Ma gli attivisti della società civile sono ottimisti. Potrebbe essere la volta buona”, sostiene Eshan Qaane. Afghanistan. Pace già finita, Raid degli Usa contro i taleban: “Basta attacchi” di Giordano Stabile La Stampa, 5 marzo 2020 La pace in Afghanistan è finita ancora prima di cominciare. Ieri l’aviazione americana ha condotto il primo raid contro militanti talebani, quattro giorni dopo la firma a Doha dell’accordo per il ritiro del truppe statunitensi e la fine della “guerra più lunga”, quasi 19 anni. Gli studenti barbuti, ha spiegato il Pentagono, hanno assaltato un check-point dell’esercito governativo afghano e i cacciabombardieri sono intervenuti “per fermare l’attacco”. Il portavoce della forze Usa nel Paese, colonnello Sonny Leggett, ha precisato che gli Stati Uniti “mantengono l’impegno per arrivare alla pace ma difenderanno le forze afghane se necessario: i taleban hanno promesso che avrebbero ridotto la violenza, non aumentato gli attacchi. Chiediamo loro di sospendere queste azioni inutili e mantenere gli impegni”. Il raid è stato il primo in 11 giorni, da quando, prima dell’intesa in Qatar, Washington e i Taleban avevano concordato una settimana di “riduzione della violenza” per spianare la strada al ritiro americano. Ma già da domenica scorsa sono cominciati i problemi. L’accordo di Doha, oltre al ritiro di tutte le forze della Nato entro 14 mesi, prevedeva anche il rilascio di cinquemila prigionieri talebani da parte del governo di Kabul. Il presidente Ashraf Ghani si è però rifiutato di farlo, perché i guerriglieri islamisti non hanno preso impegni sul rispetto della tregua nei confronti delle truppe governative. Lunedì gli studenti barbuti hanno allora annunciato che le “operazioni” riprendevano come sempre. Martedì hanno ucciso cinque poliziotti a un check-point vicino a una miniera di rame. Ieri ci sono stati scontri “in nove province”, compresa quella dell’Helmand, dove gli americani hanno condotto il raid di risposta, con un totale di venti morti, compresi 4 civili. Un bollettino di guerra che non promette nulla di buono. In realtà Ghani non è per niente convinto dell’accordo fra Usa e taleban. Il loro mediatore capo, Abdul Ghani Baradar, ex braccio destro del Mulah Omar, si è impegnato con Donald Trump a rispettare i patti, a rompere i legami con Al-Qaeda, e a combattere le cellule dell’Isis nel Paese. Ma la dirigenza non ha mai rinunciato all’instaurazione di un emirato islamico, come quello fondato nel 1996 e distrutto dall’intervento americano nel 2001. Ghani è convinto che appena le forze della Nato se ne saranno andate comincerà l’assalto a Kabul. Lo stesso scenario che era seguito al ritiro delle truppe sovietiche nel 1989, con il Mullah Omar che alla fine aveva conquistato la capitale, nel 1996, e fatto impiccare l’ex presidente Mohammad Najibullah.