Le carceri esplodono, così è tortura di Stato: serve l’amnistia di Piero Sansonetti Il Riformista, 4 marzo 2020 Le prigioni stanno per scoppiare. Oggi i detenuti, in Italia, sono più di 61mila. Nel 2006, dopo il varo dell’indulto, erano meno di 40mila. I dati ufficiali dicono che le celle sono in grado di ospitare circa 50mila persone. Quindi potete capire quanto sia alto il grado di affollamento. Esiste, almeno sulla carta, un progetto per ridurre il sovraffollamento? No non esiste. Le previsioni, al contrario, dicono che i recenti provvedimenti presi dal governo (dallo spazza-corrotti, allo spazza-riforma carceraria, all’aumento delle pene per diversi reati, all’aumento delle possibilità di ricorrere al carcere preventivo, alla liberalizzazione delle intercettazioni e di vari nuovi tipo di spionaggio) produrranno un’impennata degli ingressi in carcere, mentre gli stessi provvedimenti - che riducono i benefici carcerari per molti reati - ridurranno le uscite. Il saldo quale sarà? Forse in un tempo piuttosto breve arriveremo a settantamila detenuti. Questo è un numero insopportabile. Recentemente la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha espresso la sua opinione - piuttosto saggia - sul carcere. Ha richiamato la Costituzione, ha ricordato che non solo legittimi i castighi inumani, ha esortato alla flessibilità e non alla certezza della pena. Ha provato a far capire a un’opinione pubblica sempre più giustizialista che la giustizia è flessibilità, la civiltà non è ferocia e rigore. Abbiamo già riferito e commentato le dichiarazioni della professoressa Cartabia spingendoci anche a ipotizzare che nel profondo del suo pensiero e del suo sentimento ci sia la convinzione (che condividiamo in pieno) che il carcere è un’istituzione inconciliabile con la modernità. Ma adesso non andiamo troppo oltre. Limitiamoci al concreto: tenere 60 o addirittura 70mila detenuti negli spazi previsti per meno di 50mila, è - in molti casi - una forma vera e propria di tortura. E in Italia, per ora, la tortura non è ammessa. Possiamo partire da qui, per ragionare? Ragioniamo nel modo più realistico possibile. Inutile strapparsi vesti e capelli perché in pochi mesi - come spiega nell’articolo sul Riformista il professor Giorgio Spangher - lo Stato di diritto, in Italia, è stato colpito al cuore. È così. Oggi lo Stato di diritto è enormemente ridimensionato rispetto a pochi anni fa. La nostra democrazia, e la giurisdizione, hanno assunto un aspetto almeno in parte autoritario. L’uso della carcerazione preventiva, il sistema di spionaggio sulla vita dei cittadini, l’equiparazione dei reati di corruzione alla mafia e alle stragi, tutto questo - in un clima di permanente emergenza - spinge il nostro Paese ai margini delle tradizioni della civiltà occidentale e della democrazia politica. È per questa ragione che per un momento sospendiamo le riflessioni e le battaglie che si svolgono sul piano del diritto, e passiamo al semplice piano umanitario. Ieri è arrivata la notizia che il regime iraniano ha deciso un provvedimento più o meno di amnistia che permette l’uscita dal carcere di oltre 50mila detenuti. Voi sapete che il regime iraniano non è esattamente un regime democratico. Però lì si concede l’amnistia. L’occasione è il coronavirus, la misura è una semplice misura umanitaria, concessa, graziosamente, dal sovrano. Ecco, a noi viene in mente di chiedere una misura simile. Non pretendiamo il ripristino di alcune garanzie essenziali del cittadino, prendiamo atto del fatto che in vaste aree della popolazione i cittadini sono diventati sudditi, e perciò, da sudditi rispettosi, rivolgiamo una sorta di supplica alle autorità, al sovrano, al premier, al potentissimo e feroce ministro della Giustizia. Lasciate per un momento da parte la vostra sete di giustizia e tornate, anche solo provvisoriamente, umani. Almeno come gli Ayatollah: un provvedimento di amnistia e di indulto è logico, necessario, urgentissimo. Emergenza per emergenza, solo l’amnistia può evitare che il nostro sistema carcerario riporti l’Italia ai secoli passati. Del resto, anche nei secoli passati, l’amnistia esisteva. La concesse per esempio Carlo Alberto di Savoia al suo popolo nel 1848, più di 170 anni fa. C’era scritto così, nell’editto. “È conceduta piena amnistia e restituzione d’ogni esercizio di diritti politici e civili a tutti i Nostri sudditi”. Nostri era scritto con la N maiuscola, sudditi con la “s” minuscola. Possiamo chiedere ai Nostri Governanti, molto umilmente, di ripetere il bel gesto del magnifico re Savoia? Possiamo sperare che anche a noi, nel 2020, sia “conceduta” l’amnistia? Cancelli chiusi, come vorrebbe una certa politica di Ornella Favero* Il Riformista, 4 marzo 2020 Alla fine di luglio del 2006 nelle carceri italiane erano rinchiusi 60.710 detenuti, a fine settembre 2006 per effetto dell’indulto i detenuti erano 38.326, il picco più basso. Oggi i detenuti sono 60.791, abbiamo già superato il livello di guardia che aveva spinto la politica a decidere un rimedio così impopolare, ma anche così importante come l’indulto. E per giunta oggi, in condizioni di pesante sovraffollamento, ci troviamo a fare le prove di quello che potrebbe diventare il carcere, se passassero certe istanze di chiusura dell’attuale regime aperto, che negli ultimi tempi sempre più spesso trovano consenso in tanta parte della politica e dell’informazione. Le “prove” sono le misure prese per contrastare il coronavirus, non vogliamo neppure dire se sono giuste o sbagliate, o semplicemente inevitabili, ci interessa sottolineare che, involontariamente, si sta facendo la fotografia di quello che diventerebbero le carceri se la società civile cessasse davvero di entrare negli istituti di pena o si vedesse ridurre al minimo la sua presenza. Anni fa il Volontariato, per contrastare l’inerzia delle Istituzioni di fronte al sovraffollamento e alle condizioni inumane e degradanti della detenzione, si domandava cosa sarebbe successo se si fosse deciso di proclamare uno sciopero delle attività gestite dai volontari e dal privato sociale: oggi ce l’abbiamo davanti, questo quadro desolante, in cui ovviamente i volontari sono diventati il soggetto più facilmente sacrificabile sull’altare della sicurezza sanitaria. Speriamo solo che la cosa duri poco, e soprattutto che serva a far capire quanto dannoso, pericoloso, insicuro è un carcere chiuso alla società civile. Così come lo raccontano oggi alcuni detenuti con le loro testimonianze. Ma queste testimonianze servono anche a capire cosa vuol dire vivere rinchiusi con l’ansia per le proprie famiglie e le possibilità così limitate che ci sono oggi per comunicare con loro: diventa allora prioritario un piano immediato di ampliamento delle telefonate e diffusione dell’uso di Skype, senza limitazioni per l’Alta Sicurezza, perché tutti hanno il diritto di essere costantemente informati sullo stato di salute dei propri cari. E senza tentazioni di sostituire i colloqui visivi con i colloqui via Skype, nessuna tecnologia vale quanto un abbraccio. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Coronavirus, più restrizioni ma senza prevenzione sanitaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 marzo 2020 L’allarme dal Garante nazionale e del portavoce della Conferenza dei territoriali. Da più parti vengono segnalate delle restrizioni ingiustificate, mentre ancora non risultano compiute misure sanitarie specifiche come la sanificazione degli ambienti e notizie di tamponi a campione. Parliamo della recente nota trasmessa dal garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma e da Stefano Anastasìa, il portavoce della conferenza dei garanti territoriali, sui provvedimenti assunti sulla prevenzione del nuovo coronavirus (Covid-19) nelle carceri per adulti e minori. Nella nota, i Garanti sottolineano che sono “preoccupanti talune decisioni che vanno oltre le indicazioni emanate centralmente e che tendono a configurare un concetto di prevenzione assoluta che, superando i criteri di adeguatezza e proporzionalità, finisce col configurare il mondo recluso come separato dal mondo esterno e portatore di un fattore intrinseco di morbilità”. Si tratta in parte delle autonome indicazioni di un Provveditorato, in parte di disposizioni di alcuni Direttori di Istituti per adulti, anche di regioni per nulla coinvolte dalle “Indicazioni” del 26 febbraio e quindi non destinatari di queste o di alcuni Direttori di Istituti di regioni coinvolte che hanno assunto direttamente tali decisioni che spettavano invece ai relativi Provveditori. Ma non solo. A queste si aggiungono alcune decisioni di Tribunali sorveglianza non assunte caso per caso ma in via generale, nonché qualche dichiarazione di consenso di taluni Garanti. Nella nota si sottolinea che la sospensione o la stretta limitazione automatica di accesso a volontari che entrano in carcere in virtù dell’articolo 17 e 78 dell’ordinamento penitenziario per progetti trattamentali possono ragionevolmente sussistere solo nei casi in cui effettivamente prevedano la presenza di pubblico con inevitabili affollamenti e non nei casi in cui l’attività coinvolga singoli o specifici limitati gruppi di lavoro. “Il risultato - denuncia il Garante Nazionale e il portavoce dei garanti territoriali - è invece che da più parti vengono segnalate restrizioni ingiustificate che incidono anche sui diritti delle persone ristrette e che sembrano essere il frutto di un irragionevole allarmismo che retroagisce determinando un allarme sempre crescente che non trova fondamento né giustificazione sul piano dell’efficacia delle misure”. Non sembrano, infatti, a essere stati assunti come primi urgenti provvedimenti proprio negli Istituti che maggiormente hanno rivolto l’attenzione alla mera chiusura agli esterni, misure relative alla sanificazione degli ambienti, alla diffusione di norme igieniche, all’autodichiarazione di non aver avuto contatti possibilmente a rischio da parte del personale che entra in Istituto, alla predisposizione di strumenti che possano rilevare la temperatura corporea di tutte le persone che, per qualsiasi ragione, entrano nell’Istituto stesso. “In assenza di tali misure - si legge sempre nella nota - la fisionomia della prevenzione potrebbe essere vista come maggiormente rivolta a evitare il rischio di futura responsabilità che non effettivamente a evitare un contagio certamente molto problematico in ambienti collettivi e chiusi”. Comunicato del Garante nazionale e del Portavoce della conferenza dei Garanti territoriali Il Garante nazionale e il Portavoce della conferenza dei Garanti territoriali intervengono sui provvedimenti assunti per la prevenzione del Covid-19 negli istituti detentivi per adulti e minori Roma, 3 marzo 2020 - In questi giorni, mentre le notizie sulla segnalazione di casi di positività al virus Covid-19 si susseguono, cresce l’attenzione verso tutti quei luoghi dove la concentrazione di persone può determinare un rischio specifico per la sua diffusione. Per questo, anche le Amministrazioni che hanno in carico persone private della libertà per motivi di giustizia hanno adottato misure volte ad arginare la possibilità di propagazione del contagio. Queste misure sono riassumibili nelle Note del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 22, 25 e 26 febbraio 2020 e in quelle del Capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del 22 e 25 febbraio. Tali Note hanno riguardato inizialmente l’accesso agli Istituti degli operatori e di terze persone residenti o comunque dimoranti nei “comuni italiani ove è stata dimostrata la trasmissione locale del virus” e la sospensione delle traduzioni dei detenuti verso e da gli Istituti penitenziari rientranti nella competenza dei Provveditorati di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze. Successivamente, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria è intervenuto con “Ulteriori indicazioni” relative: alla effettiva implementazione di quanto possa essere progressivamente stabilito dal Ministero della salute per il trattamento di casi che possano manifestarsi; alle traduzioni per motivi di giustizia. Queste non vengono totalmente escluse, come era stato invece per quelle dovute a sfollamenti, assegnazioni, trasferimenti a domanda o per motivi di sicurezza, sempre relativamente alle aree territoriali che ricadono nella competenza dei Provveditorati indicati nella precedente nota. Inoltre, tali “Ulteriori indicazioni” si riferiscono alla particolare attenzione al controllo sui detenuti “nuovi giunti”, prevedendo la possibilità di uno spazio di pre-triage predisposto a tal fine, nonché sugli accessi e sulle visite, prevedendo un’autocertificazione di chiunque acceda, con la singolare esclusione di coloro che appartengono all’Amministrazione o all’Azienda sanitaria (la singolarità è nel fatto che, per esempio, un insegnante viene così considerato in modo differente da un funzionario giuridico-pedagogico). Infine, vengono evidenziate la necessità di approvvigionamento dei necessari presidi sanitari di prevenzione e la previsione di incontri informativi da organizzare in coordinamento con le Aziende sanitarie, a beneficio del personale e della popolazione detenuta e vengono fornite alcune indicazioni per il personale, quale l’attenzione a evitare affollamenti nei locali d’ufficio e nelle caserme. Le precedenti indicazioni sono riferite all’intero territorio nazionale. Le nuove “Indicazioni” specifiche, del giorno successivo, emanate dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, si rivolgono a Provveditori, Direttori e Comandanti di alcune regioni specifiche (Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Sicilia). Riguardano la possibilità da parte dei Provveditori, con il coinvolgimento dei Direttori degli Istituti interessati, di sospendere le attività trattamentali per le quali sia prevista una presenza esterna, di contenere le attività lavorative per le quali sia prevista la presenza di persone provenienti dall’esterno, di sostituire i colloqui con familiari o terze persone con colloqui a distanza tramite video-telefonata e di incrementare il numero di telefonate. Questo provvedimento indica la necessità che gli Organi giudiziari valutino “caso per caso” la sospensione temporanea dell’efficacia dei permessi e delle semilibertà in essere. Riguardo alle visite delle Autorità previste dall’articolo 67 o.p. (inclusi i Garanti) e i colloqui con i difensori, viene data l’indicazione di indossare il dispositivo di protezione (resta sottinteso che dovrà essere fornito dall’Amministrazione e che l’accesso non potrà essere rifiutato qualora l’Istituto non ne avesse disponibilità). Il tema dei colloqui con i congiunti e le altre persone di cui al primo comma dell’articolo 18 o.p. è ripreso dal comma 14 dell’articolo 10 del Decreto-legge 2 marzo 2020 n. 9. Questa norma si applica anche agli Istituti penali per minorenni e riguarda esclusivamente gli Istituti penitenziari e quelli per minorenni nelle regioni in cui si trovano i comuni già considerati nell’allegato 1 del Decreto del 1 marzo (Lombardia e Veneto). La norma prevede che i colloqui siano svolti a distanza fino al 31 marzo prossimo, mediante possibilmente il sistema di video-conferenza o con aumento del numero di telefonate previste (si auspica che gli Istituti provvedano a fare in modo che ciò non aumenti i costi sostenuti dalle persone detenute). Il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, parallelamente, aveva previsto nelle proprie indicazioni del 25 febbraio un’articolazione che in via generale non interrompe le attività trattamentali, affidando alla valutazione delle Direzioni, in accordo con il medico e le Autorità sanitarie locali, eventuali limitazioni o sospensioni; inoltre, l’enfasi specifica era stata data all’informazione e alla preparazione del personale quale antidoto maggiore per la limitazione del rischio, molto più efficace di misure meramente restrittive. In questo articolato panorama, sono preoccupanti talune decisioni che vanno oltre le indicazioni emanate centralmente e che tendono a configurare un concetto di prevenzione assoluta che, superando i criteri di adeguatezza e proporzionalità, finisce col configurare il mondo recluso come separato dal mondo esterno e portatore di un fattore intrinseco di morbilità. Si tratta in parte delle autonome indicazioni di un Provveditorato, in parte di disposizioni di alcuni Direttori di Istituti per adulti, anche di regioni per nulla coinvolte dalle “Indicazioni” del 26 febbraio e quindi non destinatari di queste o di alcuni Direttori di Istituti di regioni coinvolte che hanno assunto direttamente tali decisioni che spettavano invece ai relativi Provveditori. A queste, purtroppo, si aggiungono alcune decisioni di Tribunali di sorveglianza non assunte “caso per caso” ma in via generale, nonché qualche dichiarazione di consenso di taluni Garanti. Va ricordato che la sospensione o la stretta limitazione automatica di accesso a volontari che entrano in carcere in virtù dell’articolo 17 o.p. o dell’articolo 78 o.p. per progetti trattamentali possono ragionevolmente sussistere solo nei casi in cui effettivamente prevedano la presenza di pubblico con inevitabili affollamenti e non nei casi in cui l’attività coinvolga singoli o specifici limitati gruppi di lavoro. Il risultato è invece che da più parti vengono segnalate restrizioni ingiustificate che incidono anche sui diritti delle persone ristrette e che sembrano essere il frutto di un irragionevole allarmismo che retroagisce determinando un allarme sempre crescente che non trova fondamento né giustificazione sul piano dell’efficacia delle misure. Non sembrano essere stati assunti come primi urgenti provvedimenti, proprio negli Istituti che maggiormente hanno rivolto l’attenzione alla mera chiusura agli esterni, misure relative alla sanificazione degli ambienti, alla diffusione di norme igieniche, all’autodichiarazione di non aver avuto contatti possibilmente a rischio da parte del personale che entra in Istituto, alla predisposizione di strumenti che possano rilevare la temperatura corporea di tutte le persone che, per qualsiasi ragione, entrano nell’Istituto stesso. In assenza di tali misure, la fisionomia della prevenzione potrebbe essere vista come maggiormente rivolta a evitare il rischio di futura responsabilità che non effettivamente a evitare un contagio certamente molto problematico in ambienti collettivi e chiusi. La collaborazione di tutti i Garanti con le Amministrazioni che affrontano un inedito e difficile cimento è totale così come la disponibilità ad affrontare insieme, a livello centrale e locale, ogni criticità che possa svilupparsi. La lezione iraniana: fuori 50mila detenuti per evitare l’esplosione del coronavirus Il Dubbio, 4 marzo 2020 La decisione di Teheran e l’allarme delle nostre carceri sovraffollate. L’ Iran ha rilasciato in via temporanea oltre 54mila detenuti, nello sforzo di combattere la diffusione del nuovo coronavirus nelle affollate celle del Paese. A quanto riporta la Bbc, il portavoce della magistratura, Gholamhosse in Esmaili, ha riferito alla stampa che ai detenuti è stato concesso un congedo, dopo essere risultati negativi ai test del Covid-19 e aver pagato una cauzione. I prigionieri condannati a più di cinque anni non saranno rilasciati. Tra gli scarcerati potrebbe esserci anche la anglo-britannica Nazanin Zaghari Ratcliffe, arrestata nel 2016 con accuse di spionaggio. E intanto continua l’allarme da parte dei Garanti dei detenuti delle varie regioni italiane che da giorni parlano di situazione esplosiva degli istituti di pena italiani. In una situazione di sovraffollamento e di precarietà igienica, la diffusione del virus rappresenterebbe una bomba sanitaria difficilmente contenibile anche all’esterno. La giustizia va in quarantena. Si allunga l’iter per il rilascio di licenze e permessi di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 4 marzo 2020 Il nuovo decreto sull’epidemia ferma i termini per cause, prescrizione, legge Pinto. Il Coronavirus mette la giustizia in stand-by. Rinviate le udienze e congelate le scadenze per qualsiasi atto, processuale e contrattuale, per uffici e persone dei comuni già inseriti nella zona rossa e per quelli che dovessero esserlo in futuro. È quanto prevede l’articolo 10 del dl 9/2020, in G.U. n. 53 del 2/3/2020, vigente dalla stessa data. Si ferma, dunque, il tempo per i termini delle cause civili e dei processi penali, della prescrizione, civile e penale, per il conteggio dei processi lumaca (legge Pinto). Lo stesso dl allunga il termine di conclusione di procedimento per il rilascio di licenze e controlli di pubblica sicurezza e per i provvedimenti in materia di immigrazione. Pubblica sicurezza - Per effetto dell’art. 9 del dl sono sospesi, per 30 giorni, tutti i termini per procedimenti amministrativi di pubblica sicurezza (armi, stranieri, agenzie, spettacoli ecc.). Sono compresi i termini per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno. Giustizia - Il decreto interviene disponendo, fino alla fine di marzo 2020, rinvii d’ufficio delle udienze, sospensione dei termini giudiziali e sostanziali, sterilizzazione delle decadenze, e questo con riguardo a uffici, enti o persone rispettivamente ubicate o residenti nei comuni della zona rossa lombarda (Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione D’Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini) e veneta (Vo’). Il dl prevede una clausola automatica di aggiornamento degli enti interessati, nel caso di individuazione futura con apposito Dpcm. Civile - Sono rinviate ex lege (a dopo il 31 marzo 2020) le udienze dei procedimenti civili pendenti presso gli uffici giudiziari dei circondari dei tribunali cui appartengono i comuni interessati; con l’eccezione delle cause non rinviabili (minori, tutele, cautelari, espulsioni stranieri, abusi familiari, altri dichiarati urgenti dal giudice ecc.). Sono sospesi (fi no al 31 marzo 2020) i termini di atti, comunicazioni e notificazioni da svolgere nei medesimi comuni e nelle regioni di appartenenza. Il rinvio ex lege delle udienze concerne anche i processi civili in cui parti o difensori hanno residenza o sede nei comuni della zona rossa. Sono congelati non solo i termini e le scadenze processuali (ad esempio per la presentazione di un ricorso), ma anche, dal 22 febbraio al 31 marzo 2020, quelli contrattuali (ad esempio, il termine di adempimento di una prestazione), legali in genere (notifica di verbali e pagamenti di misura ridotta delle sanzioni, ad esempio) e anche le scadenze di cambiali e titoli di credito: tutto ciò per chi, alla data del 2 marzo 2020, è residente, ha sede operativa o esercita la propria attività lavorativa, produttiva o funzione nei comuni interessati. Inoltre, per il periodo dal 22 febbraio al 2 marzo, il decreto introduce una presunzione di causa non imputabile del mancato rispetto del termine, con conseguente possibilità di rimessione. Penale - Anche nel settore penale il decreto dispone il rinvio dei processi (a dopo il 31 marzo 2020) e la sospensione (fi no a fi ne marzo 2020) di qualsiasi termine per qualsiasi atto relativamente agli uffici giudiziari dei circondari dei Tribunali della zona rossa. La sospensione dei termini opera anche per le parti e dei difensori se residenti nei comuni interessati. Lo stand by non ha effetto per le udienze di convalida dell’arresto o del fermo, nei procedimenti nei confronti di persone detenute, internate o in stato di custodia cautelare, nei procedimenti che presentano carattere di urgenza e nei processi a carico di imputati minorenni. I processi penali non rinviati si celebrano o a porte chiuse o con sistemi di videoconferenza. La prescrizione penale è sospesa per tutta la durata di rinvio dei processi. Il decreto prevede prescrizioni per i colloqui in carcere e istituti penali per minorenni, prevedendo distanze di sicurezza. In questo caso si fa riferimento a istituti delle regioni in cui si trovano i comuni della zona rossa o a persone provenienti dai comuni della zona rossa. Giudici contabili e amministrativi - Sospensioni e rinvii riguardano anche i procedimenti di competenza degli uffici della Corte conti e dei giudici amministrativi (Tar, Consiglio di stato). Legge Pinto - Il decreto prevede che, per stabilire l’eventuale eccessiva durata del processo, che dà diritto all’indennizzo previsto dalla legge Pinto (89/2001), non si terrà conto del periodo 3 marzo 31-marzo 2020. La giustizia italiana locomotiva d’Europa nell’intelligenza artificiale di Amedeo Santosuosso Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2020 Negli ultimi anni non vi è istituzione europea, in senso ampio, Unione europea, Consiglio d’Europa o Network dei Consigli superiori delle magistrature dei singoli Paesi Ue, che non abbia preso posizione circa l’uso dell’intelligenza artificiale (Ia)?nell’amministrazione della giustizia. È un segno delle preoccupazioni che sono presenti nelle nostre società e che fino a poco tempo fa impedivano persino la semplice associazione di Ia e diritto. Oggi, probabilmente, quel tabù è infranto. Ma tra infrangere un tabù e usare effettivamente l’Ia nei sistemi giudiziari vi è un gran salto. La stessa Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej, 2018) intitola, un po’ pomposamente, un suo documento come Carta etica europea sull’Ia nei sistemi giudiziari, ma poi deve riconoscere che “nel 2018, l’uso di algoritmi di intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari europei rimane principalmente un’iniziativa commerciale del settore privato rivolta a compagnie assicurative, dipartimenti legali, avvocati e singoli individui”. Per il momento i giudici negli Stati membri del Consiglio d’Europa non sembrano fare alcun uso pratico e quotidiano di software predittivi e di tecniche di machine learning. Questo è il punto di partenza realistico, che avrebbe forse consigliato un titolo un po’ meno altisonante. E l’intelligenza artificiale? Al momento si tratta spesso di discussioni ipotetiche, che non aiutano la comprensione e talora creano allarmi ingiustificati. Non vi è necessariamente Ia nei processi di digitalizzazione, se essi sono meramente intesi a trasferire su supporto digitale le tradizionali attività cartacee o le comunicazioni (giudici-avvocati-cancellerie-cittadini). È bene chiarire che si può parlare di Ia solo laddove la grande quantità di dati prodotti quotidianamente, in sistemi digitalizzati, sia organizzata in un modo che consenta operazioni di big data analytics usando tecniche di machine learning, al fine di estrarne informazioni. Ciò richiede una struttura di raccolta e organizzazione di quei dati, cioè di grandi insiemi sui quali applicare algoritmi. Il ministero della Giustizia italiano ha costituito il datawarehouse della giustizia civile per scopi statistici e di analisi organizzativa, e attualmente si propone di “basare lo sviluppo dei nuovi sistemi sulla condivisione dei dati e la circolarità delle informazioni: la valorizzazione del dato e della sua aggregazione si tradurrà nella progettazione, realizzazione ed evoluzione di datawarehouse sempre più performanti. La gestione del dato, nella prospettiva futura e più aderente alle attuali tecnologie deve infatti superare la dicotomia di sistemi registro-centrici o documento- centrici. In particolare, gli sviluppi in corso tendono […] alla costruzione di sistemi di rappresentazione cognitiva” (2018). Questo è il salto oggi possibile, sapendo che a livello internazionale l’Italia è in una posizione che potrebbe essere ottima e che sarebbe un peccato se non si passasse dalle intenzioni alla loro realizzazione valorizzando la grande quantità di dati che il processo civile telematico ogni giorno produce. A livello accademico pubblico si può citare, tra alcuni pochi altri, il progetto Laila, finanziato dal ministero dell’Università (Prin 2019), promosso dalle Università di Pavia, Torino, Napoli e Bologna (“principal investigator” Giovanni Sartor) e avente a oggetto proprio la sperimentazione di tecniche di machine learning alla casistica giudiziaria e alla legislazione italiana. Sarebbe una sinergia importante tra istituzioni pubbliche nell’interesse della giustizia. Una carta etica europea per limitare la giustizia definita dai big data di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2020 L’intelligenza artificiale e il machine learning rappresentano una sfida senza precedenti per il mondo moderno e, nel panorama giuridico, uno dei principali ambiti di diffusione di tali strumenti è costituito dal perseguimento della condotta vietata: si fa riferimento alla sempre più diffusa applicazione dell’intelligenza artificiale nell’ambito dei sistemi di giustizia predittiva. Ciò è possibile grazie ai Big Data, le ingenti quantità di dati che provengono da una serie di fonti diverse e che sono oggetto di trattamento automatizzato mediante algoritmi informatici e tecniche avanzate di trattamento dei dati, al fine di individuare correlazioni, tendenze o modelli. Il più famoso software di giustizia predittiva è Compas (acronimo di Correctional offender management profiling for alternative sanctions), sviluppato da un’azienda privata e utilizzato dai giudici di diversi Stati americani per valutare il rischio di recidiva dell’imputato attraverso l’elaborazione dei dati emersi dal fascicolo processuale e dall’esito di un test a 137 domande. Non è pubblicamente noto il meccanismo di funzionamento dell’algoritmo e tale circostanza è stata rilevata come una violazione del principio di giusto processo da Eric Loomis, il quale - dando vita al celebre Loomis case - ha impugnato la sentenza che lo ha condannato a sei anni di carcere per non essersi fermato a un controllo di polizia: nella determinazione della pena il giudice aveva tenuto conto del fatto che Compas aveva classificato Loomis come persona altamente propensa a ripetere lo stesso reato. Nel 2016, la Corte Suprema del Wisconsin ha rigettato l’appello, sostenendo che il verdetto sarebbe stato lo stesso anche senza l’uso di Compas. La sentenza di secondo grado, tuttavia, ha invitato alla cautela e a esercitare il dubbio nell’uso dell’algoritmo. Peraltro, uno studio del 2016 ha analizzato le valutazioni svolte da Compas su oltre settemila persone arrestate nella contea di Broward, in Florida: l’inchiesta sostiene che l’algoritmo abbia dei pregiudizi nei confronti degli afroamericani. In particolare, i neri avrebbero quasi il doppio delle possibilità dei bianchi di essere etichettati come “ad alto rischio” pur non incorrendo poi in recidiva; secondo il gruppo di ricerca, peraltro, Compas commetterebbe l’errore opposto tra i bianchi, i quali avrebbero più possibilità dei neri di essere etichettati “a basso rischio”, salvo poi commettere altri reati. L’utilizzo degli algoritmi in ambito processuale si estende anche all’esercizio della professione forense: in Francia è stata implementata una piattaforma che “predice” gli esiti giudiziari, anticipando il risultato potenziale della causa e agevolando così la decisione sull’opportunità o meno di promuovere un determinato giudizio. Il software Predictice, destinato agli avvocati, calcola la probabilità statistica di successo della causa, l’ammontare dei risarcimenti ottenuti in contenziosi simili e gli argomenti su cui sia conveniente insistere. L’algoritmo utilizza un database che include un milione di righe di documenti, sentenze, codici e testi giuridici: facendo leva sul linguaggio giuridico (che segue determinati standard), viene automatizzata l’indicizzazione e l’interpretazione dei dati, con l’aggiunta di metadati con le caratteristiche delle controversie. La piattaforma consente, addirittura, di confrontare le diverse strategie processuali in modo da poter costruire, sulla base delle variabili del caso, l’argomentazione che ha più probabilità di successo. Tra i vantaggi riconducibili all’utilizzo di questo tipo di strumento possono riconoscersi la diminuzione delle vertenze pretestuose e il perseguimento di una certa qual prevedibilità delle decisioni. Il rischio, tuttavia, è l’affermarsi di una giustizia predittiva, automatizzata ma soprattutto omologata e ripetitiva. Il potenziale di operatività dell’intelligenza artificiale nell’amministrazione della giustizia è, a ben vedere, enorme. Di ciò hanno preso contezza anche le istituzioni europee: la Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej) ha, infatti, recentemente approvato la prima carta etica sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari. Tra i principi affermati spiccano il principio di non discriminazione, di qualità e di sicurezza, di trasparenza e neutralità nell’utilizzo degli strumenti tecnologici. In particolare, si afferma l’importanza di preservare il potere del giudice di controllare in qualsiasi momento le decisioni giudiziarie e i dati utilizzati, nonché di continuare ad avere la possibilità di discostarsi dalle soluzioni proposte dall’Intelligenza Artificiale, tenendo conto delle specificità del caso concreto. Tribunali e intelligenza artificiale, così l’algoritmo va a sentenza di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2020 Che cos’è la giustizia? Un servizio reso ai cittadini o piuttosto un rito chiuso, autoreferenziale e “perfetto”? È un percorso con regole chiare e certe, o sono regole inintellegibili ai più e che assorbono anche il senso percorso? Attorno a queste due domande, che possono apparire retoriche, ma non lo sono per nulla, si sta giocando - e ripensando - il futuro di tante professioni, non ultima quella dei giudici e degli avvocati. A spingere una rivoluzione silente, qui come in ogni altro ambito delle relazioni socio-economiche dell’era digitale, è la crescita esponenziale del machine learning e dell’intelligenza artificiale. “Cosa si aspetta un consumatore quando acquista un trapano? Di praticare un foro nella parete, nulla più” sostiene Richard Susskind, professore a Oxford, consulente indipendente di studi professionali internazionali e governi nazionali, vero guru dell’AI (intelligenza artificiale) applicata al mondo di toghe e parrucche, recentemente ospite di Deloitte a Milano per dialogare con il mondo forense sul suo ultimo “Online courts and the future of justice”. E cosa si aspetta un cittadino che si rivolge alla giustizia? “Di risolvere il suo problema, nulla più” ribadisce Susskind per spiegare la disruption digitale che sta travolgendo e travolgerà sempre più il mondo delle Corti. Anche perché il futuro è gia iniziato: ogni anno eBay gestisce 60 milioni di contenziosi tra utenti senza lasciare strascichi, senza ricorso a legali e senza mai varcare la soglia di un tribunale. Del resto quale tribunale?, considerato che la dematerializzazione dei contratti e la “a”-localizzazione digitale dei contraenti pone dei problemi enormi in tema di giurisdizione, prima ancora che di competenza territoriale. L’esperienza del sito di scambi peer-to-peer forse più famoso e utilizzato apre lo scenario sulle Odr - le Online dispute resolution - evoluzione digitale delle Adr (Alternative dispute resolution). Oggi negli Usa e in Uk le Odr stanno diventando la regola, e non solo per motivi di celerità. “L’ambiente della rete ha sviluppato anche su temi giuridici un linguaggio semplificato, accessibile, condiviso” argomenta il professore oxfordiano, e forse non è un male se il cittadino capisce di poter esercitare i suoi diritti in piena consapevolezza (almeno apparente) e senza dover investire tempo e denaro in quantità incerte e sempre difficilmente prevedibili. Perché tra l’altro, spiega Susskind, il 54% della popolazione mondiale (anche) per questi motivi non ha accesso al servizio giustizia (che peraltro nelle forme tradizionali ha costi non sempre e non da tutti affrontabili), mentre il restante 46% a volte ne rimane incagliato. A questo proposito, cita il professore britannico, in Brasile ci sono oggi 100 milioni di fascicoli giudiziari arretrati, in India sarebbero 30 milioni, ma anche in Italia - dato non citato da Susskind nelle sue presentazioni internazionali - secondo l’ultimo rapporto del Ministero giacciono 3,3 milioni di procedimenti civili e 2,7 penali, pur in sensibile recupero rispetto al passato. La digitalizzazione delle dispute muove quindi su tre piani, alcuni dei quali già sperimentati e da lungo tempo in Inghilterra e Galles (con il Money Claim online del 2002): dalle Odr appunto - che rappresentano la prevenzione del contenzioso giudiziario, dispute avoidance - alla dispute containement (il ricorso al giudice specializzato) fino all’estremo, affascinante ma ancora acerbo utilizzo dell’algoritmo per la definizione dei processi, futuri ma anche passati (quelli pendenti). Ma siccome lo sviluppo degli applicativi dell’AI ha una velocità ultrasonica, la questione di “arginare” la toga totalmente automatica va affrontata ora, senza dimenticare che un alleato potente alla dematerializzazione di corti e processi potrà essere (se già non lo è) la tecnologia blockchain. Contratti automatici, criptazione dei processi di formazione degli atti, totale “a”-territorialità degli accordi tra persone (o tra computer?) sembrano già spingere oggi verso una soluzione ineluttabile, dove la presenza di una giurisdizione “terza” - e cioè affidata agli Stati (che tra l’altro dal 1997 ad oggi hanno già perso tutta la partita dell’Internet 2.0, stravinta dagli oligopolisti di rete) - appare totalmente svincolata dalle stesse aspettative della generazione nativa digitale. L’ultimo baluardo dl processo novecentesco, “fisico”, rituale e professionalizzato probabilmente sarà - e neppure nella sua interezza - il processo penale, quantomeno nella forma solenne dei maestosi procedimenti per fatti di grande impatto sociale e, spesso proprio per questo, di grande rinomanza dei protagonisti. Una sorta di zona franca dove, più della performance dei dati, continuerà a prevalere l’idea di una giustizia che sappia essere equa e, entro certi limiti, anche innovativa. Ugo, ucciso a 15 anni e le vite bruciate nei vicoli di Napoli di Roberto Saviano La Repubblica, 4 marzo 2020 Un ragazzo di 15 anni finisce a terra, morto, dopo una tentata rapina con una pistola giocattolo a Santa Lucia, quartiere in agonia da decenni, da quando è finito il contrabbando di sigarette che lo aveva reso “la Fiat di Napoli”. Da un lato i palazzi della burocrazia, i condominii borghesi, dall’altro il quartiere popolare, che arranca tra affitti ai turisti e disoccupazione cronica. È l’alchimia della città che costringe a vivere vicini ricchi e poveri, magistrati e criminali, onesti lavoratori e disonesti, laureati e persone che a stento hanno un diploma di terza media. Tutti insieme a tifare Napoli negli stessi bar, a giocare a pallone nelle stesse piazze: figli della borghesia e figli della strada. Un’origine comune del proprio sentire che è svanita in quasi tutte le capitali occidentali e che invece a Napoli resiste, rendendola speciale: l’uomo si affanna a creare barriere ma poi ci pensano le strade e le piazze, l’accesso al mare e la comune minaccia del mansueto Vesuvio ad azzerare tutto, a rendere la vita fluida, vera, promiscua, comune. Un ragazzo di 15 anni finisce a terra, morto, colpito da un carabiniere fuori servizio che doveva essere la “vittima” a cui sottrarre il bottino e che invece diventa il carnefice. Ugo Russo non sapeva che il 23enne a bordo della Mercedes e con il Rolex al polso era un carabiniere: come avrebbe potuto? Era Ugo a essersi travestito da cattivo; era lui a dover fare paura, anche se con una pistola giocattolo. Non poteva immaginare che si sarebbe trovato di fronte un carabiniere che avrebbe impugnato un’arma, che avrebbe sparato e ucciso. Questa è una tragedia di cui Napoli è responsabile. Questa è una tragedia di cui siamo responsabili tutti noi che ci occupiamo e preoccupiamo di ciò che accade al Sud, di ciò che accade a Napoli. Questa è una tragedia che dimostra, senza possibilità di smentita, che abbiamo fallito ancora e che dobbiamo cambiare passo. “Noi non siamo Gomorra!” sento ripetere all’infinito. Ma Gomorra è la descrizione di un sistema economico: quando manca tutto, investimenti, opportunità, istruzione, lavoro, risorse, imprese, quando le infrastrutture lottano con la perenne mancanza di fondi, lì c’è Gomorra. Gomorra non è sinonimo di camorrista; essere Gomorra non significa impugnare armi, minacciare, spacciare, uccidere. E non essere Gomorra non significa indignarsi, incazzarsi, ma lavorare per curare, non smettere di cercare l’antidoto al veleno, creare un sentiero, non il nulla, non la devastazione, non l’incuria, non le macerie. Ugo Russo era iscritto a un istituto tecnico che non frequentava. Non si può a 15 anni, a Napoli, lasciare la scuola. Se lasci la scuola, in generale, avrai più difficoltà ad avere accesso a un lavoro dignitoso, ma se poi in un contesto economicamente depresso lasci la scuola, se a Napoli lasci la scuola, sei fottuto, perché perdi l’unica opportunità che avrai nella vita per non essere schiavo non solo delle organizzazioni criminali, ma soprattutto del lavoro nero e mal retribuito, schiavo di datori di lavoro senza scrupoli che approfittano della disperazione per pagare poco e pretendere tutto. E dove non c’è lavoro, dove non ci sono opportunità, dove c’è dispersione scolastica, dove andare a scuola e istruirsi è considerato un lusso, o una perdita di tempo, dove non ci sono risorse per riportare a scuola i minorenni che decidono di abbandonare gli studi senza altra prospettiva, senza alcuna alternativa alla strada, proprio lì c’è Gomorra. E c’è nella peggiore delle derive possibili perché nessuno aveva mai pensato che oltre Gomorra potesse esserci qualcosa di peggio. Chissà, mi sono chiesto, se di Ugo Russo si ricorderà qualche assistente sociale. Chissà se qualcuno si era premurato di capire perché Ugo avesse lasciato la scuola. E mentre scrivo so che, oltre alla famiglia, oltre agli amici, c’era chi pensava a Ugo, chi a Ugo ancora ci pensa e immagino non riesca a darsi pace per quello che è successo. L’Associazione Quartieri Spagnoli Onlus posta su Facebook una foto di Ugo impegnato, credo, in attività laboratoriali. Insieme alla foto c’è un verso straziante di Dietrich Bonhoeffer: “Oh, se sapessi dov’è la strada che torna indietro, la lunga strada per il paese dei bambini”. La foto ritrae Ugo bambino, quando tutto era ancora possibile. Prima di abbandonare la scuola, prima di crescere pensando che puoi solo ottenere strappando ad altri ciò che vuoi, perché altri strappano e strapperanno a te ciò che vogliono. E non ci accorgiamo che tutto questo è davvero troppo perché possa gravare su famiglie che non ce la fanno, su associazioni di volontari che aiutano perché sanno che manca tutto? Non ci accorgiamo che serve aiuto vero, costante, perenne? Sembra una banalità, ma dalle 8 del mattino alle 4 del pomeriggio, dai 3 almeno fino ai 14 anni bambini e ragazzi devono stare a scuola, perché solo standoci, vivendola, decideranno di non abbandonarla, di continuare quel percorso, che poi è l’unico che può generare emancipazione dai contesti più difficili. La conoscenza è un diritto che abbiamo, un diritto inalienabile e gratuito, un diritto a cui non dobbiamo rinunciare. Un diritto che dobbiamo pretendere e per cui dobbiamo lottare. La conoscenza è padre e madre di tutti i diritti. Se non c’è conoscenza non esiste consapevolezza di ciò che siamo, di ciò che potremmo essere, di ciò che vogliamo o che non vogliamo essere. Senza conoscenza non c’è passato e non c’è futuro, ma solo le necessità del momento. Senza conoscenza siamo prede anche se ci travestiamo da carnefici. Quando finalmente daremo alla scuola l’importanza vitale che merita, con soldi veri e non parole, capiremo che pronto soccorso e ambulanze sono di tutti e che non vanno devastati, che vanno anzi presidiati, protetti, soprattutto oggi che stiamo tutti insieme vivendo un momento delicato per la diffusione del coronavirus. A Napoli c’è un sentire comune che però non ci consente di comunicare davvero. C’è diffidenza da un lato, paura dall’altro; manca una lingua comune che va cercata, imparata ed esercitata sui banchi di scuola. Napoli è una città che ama guardarsi in uno specchio deformante per vedersi normale. Napoli è La cupa di Mimmo Borrelli, un capolavoro mostruoso, opera teatrale di un genio disperato. Napoli è città avvelenata, come la cava di Giosafatte ‘Nzamamorte, dove tutti sono in guerra con tutti. Napoli è Giosafatte ‘Nzamamorte e cioè un padre che non riesce a fare il padre, è città immobile anche se sembra in continuo movimento. Napoli è Maria delle Papere, ragazza ingenua, cieca, quasi ferina. Napoli è Tummasino Scippasalute, che rovina la vita degli altri solo perché è la sua vita a essere stata compromessa per prima e per sempre. “Noi non siamo Gomorra” e mentre lo diciamo, abbiamo dimenticato cos’è Gomorra e quindi abbiamo dimenticato cosa non vogliamo essere: un cancro che si nutre del sangue dei suoi ragazzi e delle sue ragazze, e degli errori che non hanno soluzione. “Ho vinto processo contro il nazista Priebke ma devo pagare le spese” di Valter Vecellio Il Riformista, 4 marzo 2020 In piena facoltà, Signor Presidente, parafrasando Boris Vian - che pure si riferiva a vicende ben più tragica e terribili - le scrivo la presente, che spero leggerà. Anch’io ho ricevuto una cartolina, che “terra terra” mi dice che non sono un cittadino di questo Stato, come per svariate decine d’anni ho creduto d’essere; sono piuttosto un suddito di un’entità che mi considera solo per i doveri, e non mi riconosce diritto. È una storia non breve, Signor Presidente. Una storia che comincia nel lontano 1996. Si tratta di spese sostenute per una vicenda cominciata nel 1996. Quel giorno Erich Priebke, uno dei responsabili dell’eccidio alle Fosse Ardeatine, viene assolto da un tribunale militare; dopo la guerra si è rifugiato in Argentina. Il Centro Wiesenthal, specializzato nella caccia ai nazisti, lo rintraccia a San Carlos de Bariloche; un giornalista dell’americana “ABC”, messo sull’avviso, lo intervista. Scoppia il caso: Priebke viene espulso, estradato in Italia. Processato per il massacro alle Ardeatine, un tribunale militare lo assolve. Mezza città di Roma si ribella. Il tribunale per tutta la notte è come cinto d’assedio, fino a quando non interviene il ministro della Giustizia di allora, Giovanni Maria Flick; trova un marchingegno giuridico che consente di riprocessare Pribke; che alla fine di un lungo iter giudiziario è riconosciuto colpevole, condannato all’ergastolo (data l’età, lo sconta ai domiciliari). Per ragioni imperscrutabili Priebke ritiene chi scrive e l’allora capo della comunità ebraica Riccardo Pacifici, responsabili di quello che definisce un sequestro di persona. Siamo assolti in primo, secondo, terzo grado. Per quello che mi riguarda, la storia finisce. Pago di tasca mia l’avvocato, non chiedo un centesimo di risarcimento: ne avrei avuto ribrezzo. Qui subentra il teatro dell’assurdo. Anni dopo i fatti si fa via l’Agenzia delle Entrate: bisogna pagare le spese processuali. Ho vinto, perché devo pagare? La risposta: “Priebke risulta nullatenente”. E allora? “Allora lo Stato non può rimetterci: paga chi vince”. Danno e beffa: “Se crede però si può rivalere nei confronti di Priebke”. Per farla breve: lo Stato non riesce a farsi pagare, si rivale sull’innocente; poi l’innocente se la veda lui con il colpevole. Ecco, Signor Presidente: da questa risposta, “Lo Stato non può rimetterci”, ho cominciato a prendere coscienza che io - sia pure in parte infinitesima, non faccio parte dello Stato, non ne sono un piccolissimo membro. Io devo pagare, lo Stato, il “mio” Stato, non può rimetterci. Mi ribello; mi rivolgo a quelle istituzioni in cui ancora credevo; sollevo il caso mediaticamente. Qualcuno allora s’inventa un escamotage: un anonimo benefattore paga per noi. Non è vero: non c’è nessun anonimo benefattore. È una bugia, raccontata per metterci a tacere. Quest’anno arriva una nuova ingiunzione; c’è anche da pagare una mora. Il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Beppe Giulietti si schiera al mio fianco; mi rivolgo ai presidenti di Senato e Camera, al ministro della Giustizia, ai leader di partito presenti in Parlamento; chiedo: è giusto quello che accade? Devo davvero pagare? Silenzio. Indifferenza. Nel frattempo arriva la terza ingiunzione. A questo punto, mi arrendo. Vergognandomi come un ladro, pago. Sono stato accusato per qualcosa che non ho fatto; sono stato riconosciuto innocente; devo pagare al posto del colpevole: un criminale nazista condannato all’ergastolo per le Ardeatine. Mi brucia, non lo nascondo; ma più di tutto il silenzio, l’indifferenza di chi avrei voluto trovare al mio fianco e invece mi ha voltato le spalle. Ecco perché mi “dimetto” da cittadino, mi considero parte della folta legione dei sudditi di questo disgraziato Paese. Colgo l’occasione per ringraziare Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma: volevano pagare loro al mio posto. Preferisco che quella somma sia dirottata verso qualche ente che assiste i membri più bisognosi della comunità. Ringrazio i colleghi che mi sono stati vicini. Assicuro che ricordo bene quanti hanno taciuto, voltato la testa senza muovere un dito. È un ricordo che porterò sempre con me. L’ultimo gesto è rivolgermi a Lei, Signor Presidente, che finora non mi sono sognato di scomodare, sapendola impegnata in cose molto più urgenti, necessarie, importanti. La mia vuol essere solo una notifica. Da oggi nel mio studio campeggia, incorniciato, il modulo dell’”Agenzia delle entrate” che intima, pena il sequestro, di pagare 302 euro e 23 centesimi per le spese processuali sostenute. Ora non chiedo più nulla. Non mi sento più cittadino con doveri che osserva (il pagare, per esempio le tasse al centesimo; credere che votare non sia solo una facoltà, ma anche un atto di rispetto verso le istituzioni); da oggi mi considero un suddito oppresso da una entità nemica. Vinto e preda di radicale amarezza; vittima di quello che ritiene essere un sopruso consumato in nome del popolo italiano. Mi scusi per il tempo che le ho sottratto. Le auguro buon lavoro e buona giornata. La sentenza Contrada non apre alla revisione di tutte le condanne per concorso esterno alla mafia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezioni Unite penali - Sentenza 3 marzo 2020 n. 8544. Non tutti i condannati per concorso esterno in associazione di stampo mafioso possono invocare la sentenza europea “Contrada” per azionare la cosiddetta “revisione europea” della sentenza italiana o l’incidente di esecuzione della pena. Così le sezioni Unite penali della Corte di cassazione con la sentenza n. 8544/2020, depositata ieri, hanno risolto il dubbio giurisprudenziale sugli effetti dispiegati sul caso singolo dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Le decisioni “pilota” della Cedu - Le sezioni Unite penali affermano che due sono i presupposti per l’invocabilità in altre controversie di una pronuncia europea pronunciata su un caso italiano: - l’essere stata definita nell’ambito della giurisprudenza sovranazionale come sentenza “pilota” e - il riscontro di una lacuna strutturale all’interno dell’ordinamento nazionale rilevata dal giudice europeo. In assenza di tali presupposti - spiegano le sezioni Unite - la via principale resta quella del rinvio pregiudiziale alla Corte costituzionale italiana. O la proposizione direttamente alla Corte europea dei diritti dell’Uomo della specifica vicenda. Il reato in questione - Tornando alla vicenda concreta risolta con la sentenza di ieri, la Cassazione esclude l’applicazione estensiva della decisione del 2015 sulla causa Contrada contro lo Stato italiano “nei confronti di coloro, che estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata”. Non passa neanche l’argomento sulla prevedibilità della responsabilità penale di una condotta tenuta dall’agente affinché sia stata rilevata la sua antigiuridicità. Infatti, non basta invocare un’oscillazione giurisprudenziale per affermare l’incertezza di una fattispecie penale. Il reato che viene in questione con la pronuncia delle sezioni Unite è frutto dell’incrocio tra l’articolo 416 bische istituiva un reato a sé per colpire le associazioni “mafiose” in Italia (voluto dai giudici antimafia di allora) e l’articolo 110 del codice penale che prevede la punibilità per chi concorre in un reato. Non si tratta quindi - come sostenuto dal ricorso - di un’illegittima elaborazione giurisprudenziale che ha codificato una fattispecie di reato. Anche se gli orientamenti dei giudici non sono affatto privi di rilievo nell’applicazione del diritto e anzi la realizzano, anche s e non in maniera sempre univoca. E la stessa Corte europea dei diritti dell’Uomo - dando rilevanza al ruolo della giurisprudenza nella sentenza Contrada - indica il 1994 come anno spartiacque sulla ravvisabilità del reato di concorso esterno ed è l’anno della decisione sul caso Demitry risolto dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione: non alla condanna per fatti precedenti quell’anno. Sardegna. Aumentano i detenuti nelle carceri, superati i limiti regolamentari cagliaripad.it, 4 marzo 2020 I detenuti delle carceri di Oristano-Massama (287 per 265 posti), Cagliari-Uta (598 per 561) e Sassari-Bancali (469 per 454), superano il limite massimo consentito. A Badu e Carros, nel nuorese, i numeri sono in crescita e si avvicinano, con 293 presenze attuali, ai 381 posti disponibili. “I dati diffusi dalla sezione statistica del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria continuano a presentare una realtà detentiva in sofferenza, soprattutto nelle sedi più grandi. Emblematiche le situazioni nelle case circondariali di Sassari e Cagliari, dove si registra peraltro un’alta percentuale di stranieri (rispettivamente 36 e 26%). Non molto dissimile la condizione dei ristretti nelle case di reclusione di Oristano e Tempio Pausania, anche se in queste realtà il numero degli stranieri è poco significativo”, afferma Elisa Montanari, presidente di Socialismo Diritti Riforme. “Le presenze numericamente più importanti di stranieri sono come sempre nelle case di reclusione all’aperto. In particolare a Is Arenas (72 su 86), Mamone (137 su 170) e Isili (37 per 77). Registriamo il positivo arrivo a Sassari del nuovo direttore Graziano Pujia a cui facciamo gli auguri di buon lavoro, ma non possiamo dimenticare che i responsabili degli istituti in Sardegna sono solo 5. Permane quindi un forte disagio per gli operatori penitenziari, oltre che per le persone private della libertà, non potendo contare sulla presenza esclusiva e costante del responsabile della struttura. Il problema però non sembra interessare il Ministero che continua a non tenere nella giusta considerazione la realtà dell’isola”, denuncia Montanari. Liguria. Coronavirus, nelle carceri arrivano tende per il “triage sanitario” di Daniela Borghi La Stampa, 4 marzo 2020 Al via sopralluoghi della Protezione civile negli istituti penitenziari di Sanremo e Imperia, fino a La Spezia. Il sindacalista Fabio Pagani (Uilpa Pp): “Impedire contagio all’interno delle carceri”. “Ieri la Protezione civile ha iniziato il sopralluogo negli istituti penitenziari della Regione Liguria, compresi Sanremo e Imperia, per l’installazione di tende mobili per il Triage sanitario riservato prevalentemente agli arrestati”, dice Fabio Pagani, per la Uilpa, Polizia penitenziaria. Aggiunge: “In seguito ai chiarimenti e alle indicazioni del Ministero della Salute e alla Circolare del Capo Dap Ministero della Giustizia, ribadiamo di non voler creare allarmi, ma chiediamo che non ci sia alcuna sottovalutazione del fenomeno e si faccia tutto il possibile per impedire l’arrivo nelle carceri del nuovo coronavirus, che sarebbe evidentemente devastante”. Nel frattempo, l’altro pomeriggio, a Sanremo, ha fatto ingresso un detenuto arrestato a Milano e trasferito in seguito ad ordinanza del Gip di Savona: è isolato sanitario in via precauzionale al Piano Terra (Nuovi Giunti) del carcere di Valle Armea “Ci auguriamo che il triage sia stato rispettato. Noi, sia come operatori sia come sindacato - conclude Pagani - siamo disponibili a fare la nostra parte con lo spirito di servizio e l’abnegazione di sempre, ma è necessario, appunto, che vi sia una regia istituzionale e univoca che si muova su solide basi scientifiche”. Toscana. “Garante dei detenuti, prima le competenze” di Massimo Lensi* Corriere Fiorentino, 4 marzo 2020 Caro direttore, ai tempi del Coronavirus può sembrare un’emergenza secondaria, ma quella dei nostri istituti penitenziari è una condizione che va messa ai primi posti della nostra attenzione sociale. La città - la sua comunità - è composta di vari e complessi elementi di fragilità sui quali l’attenzione delle istituzioni deve mostrare una particolare sensibilità: luoghi dove i diritti sono minori, e gli obblighi gravati da finalità imposte dalle leggi. Il percorso rieducativo del detenuto è forse il principale obiettivo su cui una società che desidera uscire dalla paura dell’altro dovrebbe investire. Un percorso che va di pari passo con la tutela dei suoi diritti. Mercoledì 4 marzo la Commissione Affari Istituzionali della Regione si riunirà, ormai per la terza volta, per indicare al Consiglio uno o più nomi scelti tra le numerose autocandidature a ricoprire il ruolo di Garante regionale dei diritti dei detenuti. Una figura importante che, terminato ormai da tempo il mandato di Franco Corleone, è ancora vacante nonostante i ripetuti appelli di numerose associazioni, tra cui Progetto Firenze. La Toscana è una regione particolarmente complessa, gli istituti penitenziari sono numerosi e seri problemi non mancano. L’aspetto che più di altri richiede urgente attenzione è la sanità penitenziaria. Materia di cui è certamente competente Francesco Ceraudo, specialista e direttore per tanti anni dell’ospedale penitenziario di Pisa. Conoscendolo personalmente sono convinto che opererebbe con la sua ben nota professionalità, aggiungendovi quell’umanità saggia che è patrimonio esclusivo di coloro che hanno a cuore il percorso rieducativo dei detenuti e ben conoscono le difficoltà dell’operare negli istituti di pena. Invito, quindi, i Consiglieri a valutare con attenzione i profili dei candidati, scegliendo di procedere a questa importante nomina esclusivamente sulla base del profilo di professionalità e competenza specifica. Anche perché, come disse Honoré de Balzac, è soprattutto in prigione che si crede a ciò che si spera. *Associazione Progetto Firenze Biella. Muore in carcere avvocato in cella per stalking, si farà l’autopsia primabiella.it, 4 marzo 2020 È stato stroncato da un malore nella sua cella in carcere ed è morto, la notte scorsa, l’avvocato Alessandro Pronzello, 53 anni, del foro di Novara, figlio di Luciano, uno dei decani dell’Ordine. Era detenuto nel carcere di Biella. Gli agenti lo hanno trovato morto prima dell’alba. Il magistrato ha disposto l’autopsia per chiarire la causa del decesso. Stalking alla moglie - L’avvocato Pronzello era rimasto coinvolto in una vicenda familiare complessa, fatta di denunce e contro denunce, che, negli scorsi mesi, l’ha portato, per una storia di stalking e lesioni nei confronti della moglie, anche in carcere. Da quale era uscito, grazie alla concessione dei domiciliari. Il legale era già stato arrestato una volta per non aver rispettato l’ordine del giudice di non avvicinarsi alla moglie. E un’altra volta per essere evaso di nuovo da un’altra comunità la “Mondo X” di Cerano, nel Novarese, durante alcuni lavori all’aperto nella zona del Ticino, cui si dedicano gli ospiti della struttura. Pronzello, stanco, decise di prendersi una pausa e di andare a prendere un caffè in un bar con un altro ospite. Nel locale erano però arrivati i carabinieri che avevano fatto scattare le manette. Domiciliari anche a Bielmonte - Nell’ultima occasione l’avvocato aveva ottenuto i domiciliari dopo aver fatto lo sciopero della fame. Il giudice gli aveva trovato un posto in un maneggio a Bielmonte. Ma tra l’avvocato e il gestore del centro, i rapporti non sarebbero risultati per nulla semplici. Così, venerdì, l’uomo ha preso la decisione di farsi arrestare dal maresciallo Remy Di Ronco (comandante a Bioglio) al quale già in precedenza avrebbe confidato di non essere contento dell’ultima sistemazione al punto da preferire il ritorno in carcere. Parma. In carcere tanti anziani e malati ma nessuna misura adottata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 marzo 2020 Non si possono isolare eventuali contagiati. Mentre nelle carceri della Lombardia, in particolare quelle di Milano - grazie anche all’occhio vigile del garante locale dei dritti delle persone private della libertà Francesco Maisto - sono stati incrementati i controlli sanitari attraverso tendoni per il triage, c’è il carcere di Parma che al momento sembra non essere raggiunto da alcune misure precauzionali. Eppure, secondo i dati più recenti, sono 335 i casi positivi al Coronavirus accertati in Emilia Romagna e di questi, ben 61 provengono da Parma. Eppure il carcere di Via Burla è particolare. Non solo perché ha una sezione dedicata al 41 bis dove non mancano detenuti 80enni con numerose patologie fisiche, ma è un carcere che ha la peculiarità di ospitare un numero spropositato di detenuti malati, anche nelle sezioni ordinarie, tutti in attesa di essere assegnati all’ex centro diagnostico terapeutico, oggi denominato Sai. Persone di difficile gestione dal punto di vista sanitario che un contagio da Coronavirus può essere devastante. Il garante locale Roberto Cavalieri è andato a far visita al carcere ieri pomeriggio e ha potuto constatare che non si sta facendo nulla, nonostante le circolari e le disposizioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Hanno ripristinato i colloqui ed è un bene, ma non c’è alcun tendone per i controlli sanitari - spiega il garante a Il Dubbio -, in compenso hanno solo incontrato i detenuti, anche stranieri, per spiegare le regole di comportamento del ministero della sanità”. Al carcere di Parma poi si aggiunge un altro grande problema. Le direttive per prevenire il contagio all’interno delle carceri, hanno disposto anche che i penitenziari coinvolti nelle regioni dove c’è un numero consistente di persone positive al nuovo virus siano predisposti per isolare al livello sanitario con scopo precauzionale i cosiddetti “nuovi giunti”. Quelli, in pratica, che varcano per la prima volta la soglia del carcere. Le sezioni di isolamento del carcere di Parma sono tutte occupate dai detenuti per il sovraffollamento cronico, ma anche per il fatto che il carcere è diventato meta di diversi ergastolani giunti da altri penitenziari. Il risultato? Ha compromesso la vivibilità delle celle per i detenuti con lunghe condanne e, spesso, costretto i ristretti a vivere con un compagno malato, anch’esso bisognoso di maggior tutela. Accade quindi che i detenuti, pur di non vivere in cella con un compagno, preferiscono farsi rinchiudere nelle celle di isolamento e avviare forme di proteste. Napoli. Coronavirus, la Polizia penitenziaria: “Se arriva a Poggioreale sarà il caos” di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 4 marzo 2020 La Polizia penitenziaria: “È allarme, colloqui tramite Skype”. Stop ai colloqui con i familiari, tamponi, assicurarsi che gli agenti non abbiano contratto il virus. Sono le misure che richiede il segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, per affrontare il coronavirus nelle carceri. Ieri il segretario si è recato all’esterno della casa circondariale di Poggioreale. “Ho assistito all’ingresso dei parenti - ha spiegato - tutti ammassati all’esterno, prima di entrare a nessuno è stata misurata la temperatura. Eppure in carcere il virus circolerebbe senza problemi”. Un micro-mondo dove, se il virus infettasse anche un solo detenuto, riuscirebbe in poco tempo a scatenare un’epidemia non solo tra i carcerati, ma anche tra le guardie penitenziarie. Un pericolo soprattutto per le carceri molto affollate - proprio come Poggioreale - dove singole celle sono divise da diverse persone. “Parliamo di norme di buon senso - ha rilevato il segretario del Spp - bisognerebbe ridurre al minimo i colloqui esterni, anzi bloccarli e consentire ai detenuti incontri via Skype con i familiari”. Il sindacato chiede che per i prossimi giorni la direzione di Poggioreale preveda uno stop ai colloqui per poterli garantire attraverso videochiamate via web fino a quando l’emergenza non sarà arginata. “Cosa succede - si è chiesto Di Giacomo - se un solo detenuto risulta positivo? Si evacua il carcere? No, non è possibile. Ci sono detenuti che hanno chiesto ai loro familiari di non andarli a trovare in questo momento. Hanno mostrato di avere buon senso”. Lo scenario ipotizzato, non così lontano dal potersi verificare, è di un familiare affetto dal coronavirus che si reca a colloquio con il proprio parente. Se alcuni incontri sono consentiti solo se separati da un vetro, la maggior parte delle visite in carcere prevede il contatto diretto tra il detenuto e i propri cari. Ad esempio ci sono aree dedicate ai bambini che fanno visita al papà e possono giocare con lui. Quel detenuto - qualora venisse contagiato - entrerebbe facilmente a contatto con gli altri, sia nella propria celle che durante le attività comuni. L’altro modo per far arrivare il virus nelle case circondariali riguarda gli agenti della Polizia penitenziaria che, vivendo all’esterno della struttura, potrebbero contrarre il virus e portarlo in carcere. “È urgente prevedere - spiega il sindacato - la misurazione della febbre anche per gli agenti di polizia penitenziaria”. In altre case circondariali questo genere di interventi è stato già previsto. “La direzione di San Vittore ha già chiuso l’istituto penitenziario alle visite esterne - ha spiegato Di Giacomo - ma sarebbe opportuno farlo dappertutto”. La richiesta è stata presentata al Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. “Non abbiamo avuto risposte - ha concluso il segretario del sindacato - eppure, come è accaduto per le Regioni con il decreto del governo, sarebbe stato meglio avere una linea unica per tutti”. Si attende ora una direttiva da parte del Dap e del Ministero della Salute. Bologna. Ipotesi triage fuori da carceri e avvocati contro autocertificazione anti-sintomi dire.it, 4 marzo 2020 “Questo modulo ci lascia perplessi, e affronteremo il tema nel Consiglio dell’Ordine”. Così l’avvocato Ercole Cavarretta, componente del Consiglio dell’Ordine bolognese, commenta la decisione di far sottoscrivere ai legali e al pubblico, per entrare nell’aula bunker del carcere della Dozza in cui si svolge l’appello del processo Aemilia, un’autocertificazione in cui si dichiara di non presentare i sintomi del contagio da coronavirus, di non “provenire o di non aver soggiornato, negli ultimi 14 giorni, in Paesi ad alta endemia o territori nazionali sottoposti a misure di quarantena” e di “non essere a conoscenza di aver avuto contatti” con persone contagiate. Il documento, che come precisa la Corte costituisce “un provvedimento preso dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”, è stato contestato in aula da diversi legali, che lo hanno bollato come assurdo, evidenziando anche che “non garantisce che tra le persone che lo sottoscrivono non ci sia qualcuno contagiato”. Dunque, pur “apprezzando la decisione della Corte di rinviare l’udienza odierna al 18 marzo”, che si pone anche in controtendenza “rispetto ad altre situazioni che viviamo a Bologna, evidenziate dall’Ordine degli avvocati (il riferimento è al fatto che in alcune aule del Tribunale si stanno tenendo le udienze nonostante, per i legali, non sia garantito il rispetto della distanza di sicurezza, ndr)”, Cavarretta ribadisce che intende portare in Consiglio dell’Ordine la questione dell’autocertificazione. Anche perché, conclude, “mi sembra assurdo che solo avvocati e pubblico debbano sottoscriverla, mentre altri possono accedere liberamente”. Non solo aule di tribunale. il problema sulle misure contro il coronavirus si affaccia anche in carcere. A breve in Emilia-Romagna potrebbero arrivare strutture per controllare gli arrivi al di fuori dei penitenziari. “Siamo in contatto col ministero della Giustizia per valutare l’opportunità e la necessità di strutture di triage fuori degli istituti penitenziari”, ha spiegato l’assessore regionale alla Protezione civile Irene Priolo. La Regione aggiorna anche il conteggio dei moduli al di fuori degli ospedali: sono 14 quelli installati finora. Milano. Contagiati anche due magistrati, boom di udienze sospese in tribunale di Giuseppe Scarpa Il Messaggero, 4 marzo 2020 Udienze ridotte all’osso nel Tribunale penale e in quello civile di Milano per contrastare la diffusione del coronavirus. Mentre Roma ha scelto una strada differente, dispenser di Amuchina attaccati con lo scotch al muro nei punti strategici della cittadella giudiziaria di piazzale Clodio. Al Csm, invece, per i giornalisti che affollano palazzo dei Marescialli, in vista dell’elezione del nuovo procuratore capo di Roma, è stato stabilito un ingresso limitato. Un numero pianificato di cronisti alla sala del Plenum, per consentirne la collocazione in posti a sedere distanziati. Per tutti gli altri sarà allestita (con le stesse modalità) la sala stampa dove potranno assistere alla seduta grazie alla diretta streaming. Ma è a Milano che si sono prese le misure più drastiche. Soprattutto in virtù del contagio che ha riguardato due magistrati. Lunedì sera sono risultati positivi e sono stati ricoverati all’ospedale Sacco. Per gli uffici, le aule e le cancellerie delle due sezioni coinvolte sono scattate le procedure di sanificazione. Dopo una riunione fiume si è deciso di continuare a garantire le attività “essenziali”, ma sono state sospese le udienze civili e penali non urgenti. Non è finita qui perché - come si legge nel provvedimento firmato da tutti i vertici, tra cui il procuratore Greco, il presidente vicario della Corte D’Appello Giuseppe Ondei e l’Avvocato generale Nunzia Gatto - “sono in corso operazioni di monitoraggio per censire la presenza di ulteriori ipotesi di necessario isolamento” per “soggetti che, pur non lavorando presso le sezioni interessate, possano avere avuto contatti stretti con i due contagiati”. Il presidente del Tribunale Roberto Bichi spera che il contagio “rimanga isolato”. E proprio perché le risorse di giudici e personale si stanno riducendo, e probabilmente si ridurranno ancora, i capi degli uffici hanno deciso, ognuno a seconda delle proprie peculiari attività, di garantire “la continuità delle essenziali attività giurisdizionali”, ma con “limitazioni dei servizi”. Da qui, ad esempio, la decisione di Bichi di sospendere le udienze civili non urgenti e di disporre che i giudici “del settore penale procedano al rinvio” dei processi “a data congrua, comunque successiva al 31 marzo”, escluse le convalide di arresti o fermi, i procedimenti a carico di detenuti, le udienze del Riesame e quelle che saranno ritenute “di urgenza”. Un modo questo per limitare il fiume di persone che affollano il Palazzo di Giustizia di Milano, frequentato ogni giorno da oltre 5mila persone. Nel Tribunale di Roma si è, invece, scelta una linea soft. Il numero dei contagiati in Lombardia è infinitamente più alta rispetto a quelli del Lazio. Per questo le udienze vengono regolarmente celebrate. Tuttavia è necessario prendere una serie di precauzioni. Indicazioni che sono rappresentate da numerose locandine affisse all’ingresso delle aule del Tribunale penale che ricordano quali sono i comportamenti da seguire. L’unico Tribunale, nella Capitale, che limita l’accesso è quello di Sorveglianza. Ai detenuti che vogliono partecipare all’udienza vengono date due opzioni: con un collegamento audiovisivo, se invece si vuole presenziare l’udienza verrà rinviata. A Napoli è in atto un braccio di ferro tra ordine degli avvocati e vertici del Tribunale. Con i legali che hanno stabilito l’astensione dopo che un loro collega, rientrato da Milano, è risultato positivo al Covid-19. Lo sciopero riguarderà le udienze civili e penali della Corte di Appello di Napoli e della Circoscrizione del tribunale di Napoli, nonché amministrative davanti al Tar Campania (sezione Napoli) fino all’undici marzo. Trani (Bat). Garante dei diritti dei detenuti, domani scade l’avviso pubblico radiobombo.com, 4 marzo 2020 C’è tempo fino a giovedì 5 marzo per manifestare la disponibilità a ricoprire l’incarico di garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Si ricorda che per ricoprire tale funzione è necessario essere in possesso questo ruolo di competenze ed esperienze nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, dell’amministrazione penitenziaria ed avere una conoscenza, documentata, della realtà carceraria. La scadenza dei termini per le candidature è fissata al 5 marzo. Al garante dei diritti dei detenuti sono attribuite funzioni di: osservazione e vigilanza diretta; di promozione di opportunità di partecipazione alla vita civile ed alla fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale (con particolare riferimento ai diritti fondamentali, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport); di promozione di iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani dei detenuti e sul tema dell’umanizzazione della pena detentiva; di promozione di iniziative congiunte con altri soggetti pubblici e con l’associazionismo locale. La presentazione dell’avviso era avvenuta il 20 febbraio all’interno della casa circondariale femminile. Bologna. Meditare la Via Crucis da reclusi e così uscire fuori dal carcere di Guido Mocellin Avvenire, 4 marzo 2020 Come è noto, ai detenuti non è concesso navigare su internet. Se interagiscono con la Rete lo fanno in forma indiretta, attraverso i volontari. Si deve dunque certamente a qualcuno dei volontari il fatto che una “Via Crucis composta dalle persone detenute, uomini e donne”, nella Casa circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna, già conosciuta come “carcere della Dozza”, sia oggi disponibile online, sul sito “Settimananews”. La breve introduzione ci annuncia che vi troveremo “riferimenti diretti alla condizione di reclusi”, giacché “sarebbe stato insipido proporre riflessioni sconnesse dalla propria condizione di vita”. Mentre Gesù è condannato, gli autori testimoniano il sentimento di solitudine provato al momento della propria condanna, pur ricevuta “giustamente”, e la vicinanza di Gesù nell’espiazione. Le tre cadute di Gesù risuonano violentemente nello spirito dei detenuti: “Ci siamo creduti più forti, più astuti, più coraggiosi. E poi il tonfo che ti accascia”; “La seconda caduta fa più male della prima. Il carcere si fa più chiuso la seconda volta”; “Quando perdiamo la voglia di rialzarci per il timore di cadere nuovamente” Gesù accetta di cadere “dal suo cielo”. Poiché hanno “lasciato figli lontani dal padre e dalla madre”, i reclusi si riconoscono nel dolore di Maria “che si vede strappare il figlio”; quando Gesù è spogliato, ricordano “la prepotenza che strappa di dosso le vesti” e il “controllo che denuda e perquisisce”. Davanti alla crocifissione le persone detenute si identificano con il ladrone e la sua domanda di perdono; al momento della deposizione dalla croce, rivivono la disperazione di “non credere più in niente, non avere più nulla per cui lottare, per cui vivere, non stimarsi nemmeno più come persona”. Se la Via Crucis si definisce un “esercizio di pietà”, gioverà molto a noi, che ci presumiamo “liberi”, provare pietà per la passione e morte di Gesù riconoscendo il suo volto in quello degli uomini e donne che hanno scritto questa Via Crucis. Firenze. Armando Punzo, un’autobiografia in forma di romanzo di Antonella Barone gnewsonline.it, 4 marzo 2020 Era il 1988 quando Armando Punzo entrò per la prima volta nella stanza del carcere di Volterra assegnatagli dalla direzione per poter iniziare a fare teatro con i detenuti. Da allora e per oltre trent’anni, quasi ogni giorno, è entrato in quella ex cella di tre metri per nove dove è nata la Compagnia della Fortezza e dove sono nati spettacoli che hanno fatto la storia del Teatro-carcere, raggiungendo una dimensione che è andata ben oltre lo spazio originario. Trentasette opere rappresentate nei più prestigiosi teatri italiani ed europei, premi, riconoscimenti e, soprattutto, migliaia di spettatori. “Un’idea più grande di me” autobiografia umana e artistica di Armando Punzo, nata proprio dal bisogno di indagare il perché di una scelta che lo ha portato a vivere tanto tempo “oltre il limite” e dall’esigenza di approfondire le sue implicazioni personali e politiche. Un’autobiografia insolita, composta da conversazioni serrate, durate otto anni, con Rossella Menna, scrittrice e studiosa di teatro, che alla fine assume il carattere di un romanzo di formazione sui generis, con due protagonisti che interpretano visioni della vita diverse e complementari. Dopo una prima serie di incontri tenutisi nel 2019, gli autori hanno in programma un nuovo ciclo di venti presentazioni itineranti: prima tappa il 6 marzo a Firenze (ore 18:45), nella sala-cinema “La Compagnia” (via Cavour, 50). “Un’idea più grande di me” sarà presentato con performance di Armando Punzo e Rossella Menna e un dialogo aperto con il pubblico. A seguire, la proiezione del corto “Liberi di creare- 30 anni di teatro della Compagnia della Fortezza” di Lavinia Baroni e Nico Rossi. Alla presentazione, promossa da Stefania Ippoliti, responsabile area cinema di Fondazione Sistema Toscana, parteciperanno, oltre agli autori, il Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, l’ex Garante dei diritti dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, e la docente di Storia del teatro e dello spettacolo, delegata del Rettore dell’Università di Firenze, Teresa Megale. Covid-19. Viviamo in una storia surreale che sembra scritta dai fratelli Marx di Massimiliano Panarari La Stampa, 4 marzo 2020 Le misure draconiane del Comitato tecnico scientifico stravolgono le nostre vite trasformandole nella trama di un film. Tra le vittime del virus ci sono sicurezza collettiva e libertà dei singoli. Armiamoci di resistenza e resilienza. Allo sguardo di un osservatore esterno potrebbe persino sembrare un film. E, invece, è la realtà. La dura e complicata realtà, specialmente per noi che ci ritroviamo sul suolo della Penisola, improvvisamente trasformatasi, a causa del Covid-19, da Belpaese in Paese malato. E, quindi, messo in quarantena. Da una serie di misure draconiane (e l’aggettivo mai è stato usato in maniera tanto appropriata dopo il suo impiego originario) che possono essere raccontate con l’andamento di un film dei fratelli Marx, in un mix di leggerezza e surrealtà. Ma che sono terribilmente serie - come, al fondo, lo erano parecchie delle loro pellicole. E che, in verità, assomigliano molto di più alla trama di una distopia, con la quale dovremo malauguratamente andare a convivere nelle prossime settimane. La storia è questa: ieri sera il Comitato tecnico scientifico insediato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha inviato al ministero della Salute una lista delle raccomandazioni, che verrà diramata ufficialmente, con validità per l’intera nazione. Misure che modificano il nostro stile di vita e i comportamenti collettivi, e che incideranno massicciamente sul futuro delle relazioni umane e sociali se non si inverte la tendenza all’espansionismo di questo maledettissimo virus. In questo caso siamo assai distanti dal decalogo - colmo anche di azioni di assoluto buon senso - che abbiamo visto affisso nelle farmacie e nelle toilette dei treni, e che ha circolato largamente nei giorni scorsi. Gli scienziati voluti da Conte “raccomandano” ai cittadini italiani di mantenere (specie negli ambienti chiusi) una distanza reciproca di un paio di metri per evitare la diffusione delle goccioline con cui si propaga il Covid-19. Di abrogare strette di mano (già archiviate nelle funzioni religiose), baci e abbracci: quel repertorio di saluti affettuosi che ci contraddistingue (ed è un marchio di fabbrica dell’italianità). Di restare dentro casa se si è persone anziane, e si ha qualche linea di febbre per quanto provocata da una “normale” influenza. E, ancora, di starnutire e tossire coprendosi con un fazzoletto di carta, da gettare immediatamente (e questa, a dire il vero, dovrebbe essere un’abitudine di uso comune, ma come sappiamo così non è stato). E, per finire, il comitato di esperti chiede al governo di sospendere ogni manifestazione pubblica nella quale non si diano le condizioni di distanza ritenute necessarie per evitare il contagio, e sconsiglia di evitare i luoghi di ricreazione affollati. Per tanti (anzi, tantissimi) versi, la messa in isolamento della popolazione. La quarantena. Rispetto alla quale la mente di ciascuno corre a immaginare quali “margini di trattativa” esistano per non abbandonare completamente la propria normalità (e la socialità). Un segno inequivocabile del fatto che, giustappunto, ambedue si ritrovano gravemente sotto scacco, e archiviate. Gli scienziati presentano le loro indicazioni sotto forma di raccomandazioni e “buone pratiche”, secondo le regole (e il galateo) di una democrazia liberalrappresentativa, in cui la tecnica fornisce pareri e suggerimenti alla politica. Perché questa - vivaddio - è la nostra formula di convivenza civile e il nostro regime di governo. Eppure se, anziché a Roma, a Milano o a Torino, ci trovassimo a Pechino o Shangai (o a Wuhan), quelle indicazioni assumerebbero la forma di imposizioni e proibizioni istantanee. È la fondamentale differenza tra una democrazia (dove il consenso e i diritti individuali devono essere presi necessariamente in considerazione) e un’autocrazia (dove non solo non costituiscono una precondizione, ma neppure un tema dell’agenda di chi prende le decisioni). Tuttavia, in un caso come nell’altro, questa epidemia dell’età globale sta sfidando come mai avvenuto in precedenza gli stili di vita e la serenità delle popolazioni. Ed è diventato un tema di biopolitica che, per noi cittadini-elettori e consumatori di una nazione democratica, produce con una intensità mai registrata in passato una restrizione delle prerogative individuali. Il coronavirus sta così continuando a mietere vittime: innanzitutto persone, purtroppo, ma anche l’equilibrio (sempre assai delicato) tra la sicurezza collettiva e le libertà dei singoli. In queste giornate angosciose e problematiche, l’opinione pubblica italiana sta imparando ad apprezzare sempre di più i membri della comunità scientifica, alcuni dei quali compaiono con frequenza nei talk e in tv, e si sottopongono allo sforzo di adottare la logica mediale e comunicativa per mandare messaggi al pubblico preoccupato. Nello scenario distopico che si sta concretizzando - e che speriamo derivi da un forte principio di precauzione e da un’opzione molto cautelativa - noi cittadini siamo chiamati a mostrare un grande senso di responsabilità. E un’abbondantissima dose di resistenza e resilienza. Senza parlare di quello che purtroppo avverrà al nostro sistema economico, con tutte le limitazioni previste. Alla classe dirigente politica spetta, come sempre - e come malauguratamente, in questo nostro Paese, in tanti casi non è avvenuto nel modo dovuto - di prendersi fino in fondo la responsabilità di una serie di decisioni che ricadono su tutti restringendo l’orizzonte della libertà di movimento e di circolazione e arrestando significativamente la vita sociale e culturale. Con queste raccomandazioni anche gli scienziati si assumono, però, una enorme responsabilità: quella di disegnare una strategia di salute pubblica che è, ipso facto, il contesto (bio)politico in cui ci ritroviamo a vivere da domani. All’insegna della proclamazione di uno stato d’emergenza di fatto. Speriamo che passi la nottata, dunque, in tempi non troppo lunghi. Ma tutti coloro che si trovano a prendere decisioni molto difficili in queste ore devono tenere bene a mente che, non appena possibile, dovremo tornare a essere, ancora di più, una società aperta. E se tutto andrà nel migliore dei modi, questa crisi sanitaria avrà almeno spazzato via un bel po’ di irrazionalismo antiscientifico e no vax. Covid-19. Pubblicare volti e nomi dei malati viola la privacy e la dignità della persona di Tommaso Frosini Il Dubbio, 4 marzo 2020 È con le situazioni di emergenza che si misura la forza di uno Stato di diritto. Anzi, direi di più: lo Stato di diritto è tale proprio perché riesce a gestire l’emergenza senza dovere piegare la sua natura garantista. Le vicende, lontane e recenti, del terrorismo hanno messo a dura prova la stabilità di Paesi, in Europa e in America, che si fondano sul e che praticano il costituzionalismo, quale tecnica di libertà degli individui. Certo, sono stati emanati provvedimenti legislativi rigorosi e restrittivi, al fine di combattere una guerra che era stata mossa contro la democrazia liberale. Il cui nemico un tempo era interno al territorio e quindi individuabile, poi è diventato esterno e sparpagliato in giro per il mondo, animato da una furia anti- occidentale e da una esaltazione religiosa. Nei giorni del coronavirus la situazione è diversa. È un’emergenza sanitaria da non sottovalutare e da reprimere ma non mette certo a repentaglio le fondamenta della democrazia liberale. Piuttosto esige un rafforzamento delle strutture statali, una maggiore efficienza amministrativa nel settore della sanità pubblica e una solidarietà tra cittadini, nella consapevolezza che chiunque potrebbe rimanere contagiato. Quindi, in una emergenza come quella che stiamo vivendo non occorrono leggi e atti ammnistrativi rigorosi e restrittivi ma soltanto, e non è poco, un buon governo della cosa pubblica, da gestire con competenza e senza procurare allarmismi. E invece, purtroppo, anche in questa vicenda epidemica lo Stato di diritto sta conoscendo forme di attenuazione se non di lesione dello stesso. Mi riferisco all’annoso problema della privacy, che nel nostro Paese non ha mai veramente attecchito come cultura giuridica e nonostante l’impegno che a suo tempo dedicò Stefano Rodotà. Dovrebbe essere noto che ci sono dei dati “sensibilissimi” che non devono assolutamente essere divulgati a terzi, fra questi quelli concernenti lo stato di salute delle persone (come anche le scelte sessuali, politiche, religiose). Lo afferma la legge e lo conferma il recente regolamento europeo. Il divieto di diffusione di questi dati è dato dalla salvaguardia della dignità della persona, architrave dello Stato di diritto, che potrebbe essere menomata. Anche attraverso forme di discriminazione sociale, che potrebbero essere compiute a danno di coloro di cui si conoscono scelte intimistiche oppure situazioni di sofferenza sanitaria. E invece, purtroppo, leggiamo tutti i giorni nomi, abitudini, comportamenti di persone affette dal Coronavirus, addirittura vediamo i loro volti nelle fotografie, che circolano sui giornali e sul web. Senza che nessuno abbia detto nulla, ovvero si sia preoccupato di tutelare la privacy di questi cittadini incidentalmente colpiti da una epidemia contagiosa. Senza che il Garante della privacy sia intervenuto se non altro per ricordare e affermare il precetto normativo, nazionale ed europeo, a tutela dei cittadini e dei loro dati sensibili. Sebbene, l’ufficio del garante sia da un anno scaduto e quindi ancora in proroga, e senza che il Parlamento abbia provveduto alla sua sostituzione, nell’attesa di individuare il candidato più anziano di età per farlo diventare presidente. Meglio no comment. Il Coronavirus ha poi messo a dura prova anche la tenuta del sistema regionale, che si è dimostrato quantomeno schizofrenico. Ma questo, per ora, è un altro discorso. Prima pensiamo ai diritti degli individui e allo Stato di diritto. Covid-19. I danni all’ambiente che fanno esplodere i virus di Mario Tozzi La Stampa, 4 marzo 2020 Per prenderci cura della nostra salute dobbiamo iniziare a difendere il pianeta. Se c’è una cosa che oggi non vogliamo proprio sentirci dire è che anche questa epidemia da Covid-19 dipenda dalle azioni scriteriate dei sapiens ai danni dell’ambiente. Ma, forse, dobbiamo iniziare a ricrederci, e riconsiderare anche altri casi recenti, come Ebola, Sars e Zika, ma pure H1N1 e Mers. I ricercatori partono da una semplice considerazione, che il minimo comune denominatore di tutte queste patologie è indubbiamente la trasmissione animale. Il 70% delle Eid (Emerging Infectious Diseases, malattie infettive emergenti) deriva da un’interazione più o meno diretta fra animali selvatici, addomesticati e sapiens. In questo senso vanno tenuti in conto diversi fattori scatenanti e/o aggravanti. Per primo le alte densità di popolazione delle aree urbane: più sapiens in aree ristrette vuol dire più rischio di contagi. I nomadi cacciatori-raccoglitori, ovviamente, si ammalavano molto meno dei cittadini agricoltori e non sviluppavano certo epidemie. Ed è, peraltro sotto gli occhi di tutti, sebbene non inquadrabile scientificamente, che sia la provincia di Hubei, sia, vorrei dire soprattutto, la Pianura Padana sono regioni estremamente degradate dal punto di vista della qualità ambientale in generale e dell’aria in particolare. In Europa non c’è un’altra area così inquinata come la nostra. Una questione che va presa con le molle, ma che non andrebbe trascurata. In secondo luogo, i cambiamenti di uso del suolo e l’intensificazione degli allevamenti intensivi, specialmente in regioni cruciali per la biodiversità, sono fattori che intensificano i rapporti sapiens-fauna domestica-fauna selvatica. Di particolare gravità è la deforestazione, necessario preludio a queste attività, come dimostra il caso del virus Nipah, comparso in Malesia nel 1998, e probabilmente legato all’intensificarsi degli allevamenti intensivi di maiali al limite della foresta, dove cioè si disboscava per ottenere terreni a spese dei territori di pertinenza dei pipistrelli della frutta, portatori del virus. E sia Sars che Ebola sono da ricondursi a pipistrelli, sia cacciati che comunque conviventi con i sapiens nelle aree metropolitane, oltre che a scimmie, preda di bracconaggio e vendita illegale. Lo spillover (il salto di specie) è sempre possibile, ma viene favorito dove ci sono attività umane che impongono grandi modifiche ambientali, per esempio impiantare allevamenti intensivi e monoculture, come le palme da olio, a spese della foresta tropicale, cioè proprio dove la fauna selvatica è più importante per numero di specie e di individui e dove, di conseguenza, i patogeni sono più presenti e importanti. Quando vediamo arrivare storni e gabbiani nelle nostre città, non ci sorprendiamo forse poi più di tanto, ma bisogna considerare che questi animali portano con loro un corredo di microrganismi che andrebbe conosciuto. E la loro migrazione è dovuta esattamente alle stesse cause: crescita delle aree metropolitane, disboscamenti selvaggi, deserti agricoli, caccia. Il commercio illegale della fauna selvatica è un terzo motivo di preoccupazione, e non deve essere sottovalutato. Nel caso di Covid-19 è il caso del pangolino cinese, le scaglie della cui “corazza” lo rendono ambito dai bracconieri. Fatte di cheratina, come le nostre unghie, secondo diverse superstizioni sarebbero una panacea per molti mali e vengono utilizzate, come le ossa di tigre e il corno di rinoceronte, dalla medicina orientale. Inoltre la carne di pangolino viene considerata da alcune comunità locali una vera e propria prelibatezza: ecco perché oggi questo mammifero, mite e innocuo, è divenuto l’animale più contrabbandato al mondo. In Cina la sottospecie è declinata del 90% dagli anni Sessanta, proprio a causa del commercio illegale. Il genoma del virus rinvenuto nei pangolini (che si suppone essersi sviluppato originariamente nei pipistrelli) è quasi identico al Coronavirus 2019-nCoV rinvenuto nelle persone infette. Sembra quindi che il commercio illegale di animali selvatici vivi e di loro parti del corpo sia veicolo per vecchie e nuove zoonosi, aumentando il rischio di pandemie i cui contraccolpi sono sotto gli occhi di tutti. In particolare, non è la prima volta che si sospetta che l’ospite intermedio di una malattia infettiva sia un animale vivo venduto in un mercato cinese: circa 17 anni fa, la sindrome respiratoria acuta grave (Sars), è comparsa in un mercato cinese che vendeva civette delle palme. A questo dobbiamo aggiungere la caccia, spinta a livelli insostenibili, e tutta una serie di pratiche tese alla massima resa dei terreni agricoli che impoveriscono la ricchezza della vita e abbattono le difese naturali degli ecosistemi. Varrà anche la pena di ricordare che il cambiamento climatico è un incubatore perfetto per le uova delle zanzare anofeli, che si riproducono oggi a ritmi impressionanti, colonizzando regioni che mai avevano conosciuto prima i deliri della malaria. Lo stesso accade con l’Aedes aegypti, la zanzara che trasmette dengue e febbre gialla, che, già da qualche anno, si spinge fino a oltre i 1300 metri in Costa Rica e, addirittura ai duemila in Colombia, Uganda, Kenya, Etiopia e Ruanda. Tutto questo sotto la nostra responsabilità. Però, qui c’è anche parte della soluzione del problema: basterebbe infatti ridurre l’intensità e il livello di quelle attività distruttive per gli ecosistemi per ridurre, di conseguenza, i rischi di pandemie e, anzi, irrobustire le nostre difese. Purtroppo, però, nonostante esistano modelli di previsione dell’insorgenza di epidemie abbastanza precisi, a questi studi non vengono dedicate risorse in tempo di pace, salvo poi rimpiangerlo quando le malattie scoppiano. Fermare la distruzione degli habitat naturali comporta una revisione del nostro modello di sviluppo, solo che stavolta a indicarla non sono i soliti ambientalisti, ma i medici. Migranti. I giudici scagionano Salvini: “Le Ong sbarchino nel loro Paese” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 4 marzo 2020 Il Tribunale dei ministri sul caso della Alan Kurdi: lo Stato di primo contatto è quello della nave. La responsabilità di assegnare un “porto sicuro” alle navi con i profughi soccorsi in mare spetta allo “Stato di primo contatto”, che però non è sempre facile individuare. Tuttavia, volendo seguire “alla lettera” le indicazioni che si possono ricavare da Convenzioni e accordi, “lo Stato di primo contatto non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio”; dunque se un’imbarcazione che ha raccolto i naufraghi batte bandiera tedesca, è alla Germania che deve rivolgersi per ottenere l’approdo. Così ritiene il tribunale dei ministri di Roma, che anche per questo motivo, il 21 novembre, ha archiviato le accuse di omissione di atti d’ufficio e abuso d’ufficio nei confronti dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini e del capo di Gabinetto Matteo Piantedosi, per aver negato lo sbarco ai 65 migranti che si trovavano a bordo della nave tedesca Alan Kurdi, della Ong Sea Eye, nell’aprile scorso. “L’assenza di norme di portata precettiva chiara applicabili alla vicenda - hanno scritto i giudici Maurizio Silvestri, Marcella Trovato e Chiara Gallo - non consente di individuare, con riferimento all’ipotizzato, indebito rifiuto di indicazione del Pos (Place of safety), precisi obblighi di legge violati dagli indagati, e di conseguenza di ricondurre i loro comportamenti a fattispecie di rilevanza penale”. Niente reati quindi, e niente processo. Qualche giorno fa Salvini aveva esultato alla notizia dell’archiviazione: “Finalmente un tribunale riconosce che bloccare gli sbarchi non autorizzati non è reato”; ora le motivazioni del provvedimento potrebbero accrescere la sua soddisfazione. Oltre a stabilire la responsabilità dello Stato di appartenenza della nave che ha soccorso i profughi, infatti, il tribunale romano aggiunge che quando - come nel caso della Alan Kurdi, e come spesso accade - le coste di quel Paese sono troppo lontane, “la normativa non offre soluzioni precettive idonee ai fini di un intervento efficace volto alla tutela della sicurezza dei migranti in percolo”. Le leggi sono inadeguate, e tutto è rimesso a “una concreta e fattiva cooperazione tra gli Stati interessati che, fino a oggi, è di fatto scritta solo sulla carta”. L’interpretazione di norme e regolamenti, però, sembra tutt’altro che scontata. E difficilmente il provvedimento del tribunale porrà fine a denunce e inchieste. Come dimostra la richiesta della Procura di Roma, che aveva sollecitato i giudici ad archiviare il fascicolo con motivazioni ben diverse. Secondo le conclusioni del pm Sergio Colaiocco (avallate dai procuratori aggiunti Michele Prestipino, Paolo Ielo e Francesco Caporale), una volta interpellata l’Italia aveva l’obbligo di concedere il Pos, in forza della Convenzione di Amburgo. Ma non il ministero dell’Interno (e dunque Salvini), bensì la Guardia costiera, che fa capo al ministero delle Infrastrutture. Il quale con un atto del 2015 ha delegato la pratica al Viminale per accelerare le procedure: ma ciò non fa venire meno la propria responsabilità, e le eventuali omissioni. Nel caso della Alan Kurdi, Salvini fece scrivere a Piantedosi una direttiva di divieto d’ingresso e transito nelle acque italiane che per i pm “appare in contrasto con più di una disposizione di legge”. Tuttavia per contestare l’abuso d’ufficio serve un “dolo intenzionale” mirato a provocare danni a terzi, mentre l’ex ministro e il suo capo di Gabinetto avevano altri intenti. Di qui la richiesta di archiviazione per ragioni del tutto differenti da quelle del tribunale: l’illecito di Salvini ci fu, senza però rientrare nei reati di omissione o abuso d’ufficio. Droghe. Piccolo spaccio, grandi pene. La ricetta Lamorgese di Riccardo De Vito Il Manifesto, 4 marzo 2020 L’annuncio della ministra dell’Interno ancora una volta imbocca la scorciatoia repressiva del carcere, che non risolverà il problema. I governi italiani di qualsiasi colore hanno smesso di occuparsi di politiche sulle droghe. Non può essere letta altrimenti la mancata convocazione della Conferenza Nazionale sulle Droghe da oltre dieci anni. Il dibattito sul bilancio delle scelte repressive prosegue nel mondo dell’associazionismo, ma le istituzioni non danno impulso all’acquisizione dei molti saperi necessari per confrontarsi con un universo, quello delle droghe e dei consumi, sempre più differenziato. In questo vuoto c’è spazio per l’improvvisazione, che ancora una volta imbocca la scorciatoia repressiva del carcere. Muove in questa direzione l’annuncio della ministra dell’Interno Lamorgese (19 febbraio 2020), dal quale apprendiamo che è allo studio una norma che consenta l’arresto “immediato” e la custodia cautelare in carcere per i piccoli spacciatori ovvero, tradotto in termini tecnici, per i responsabili dei fatti di lieve entità (art. 73, comma V, Dpr 309/90). A mettere in fila le dichiarazioni della ministra riportate dalla stampa (sulle quali poi è calato, per fortuna, il silenzio), capiamo che la proposta scaturirebbe da un tavolo di lavoro con il ministero della giustizia, che avrebbe come destinatari gli spacciatori “al secondo fermo”, e che sarebbe volta a contrastare la demotivazione delle forze dell’ordine che, in assenza di custodia in carcere, tornerebbero a rivedere il pusher nello stesso angolo di strada. Alcune considerazioni si rendono obbligatorie. Una viene prima delle altre. Lo scoraggiamento delle forze dell’ordine è un sentimento che va compreso e approfondito per decifrarne le cause e approntare i rimedi; non può essere addotto, viceversa, a giustificazione di un intervento legislativo in materia di droghe, il quale dovrebbe tenere conto di una pluralità di fattori e della multidimensionalità del fenomeno. E dovrebbe, anche, partire da elementi di realtà. Il primo dato di esperienza è che i piccoli spacciatori, in carcere, ci finiscono eccome. Nonostante la fattispecie dell’art. 73, comma V, Dpr 309/90 non consenta l’arresto obbligatorio in flagranza e la misura della custodia cautelare, le prigioni italiane traboccano di piccoli spacciatori (spesso consumatori coatti allo spaccio dalla necessità di approvvigionamento della sostanza). Sono diversi i meccanismi che lo consentono, alcuni dei quali ben analizzati nell’indagine commissionata dal Garante regionale dei diritti dei detenuti della Toscana e condotta dalla Fondazioni Michelucci. Si va dall’espansione dell’arresto facoltativo al cumulo di più condanne “piccole”, dalla contestazione della fattispecie grave (poi derubricata nella lieve in sede di sentenza) alla contestazione di altri reati che consentono l’arresto in flagranza (tra tutti, la resistenza a pubblico ufficiale). E così ci ritroviamo con un carcere che trabocca di tossicodipendenti (un quarto della popolazione detenuta) e di condannati per violazioni della legge sulle droghe (poco meno di un terzo). Tutto questo è servito per contrastare il fenomeno dello spaccio da strada? No. Si tratta di un mercato più florido che mai, gestito in larga parte dalla criminalità organizzata. Basterebbe questo per constatare il fallimento delle politiche di repressione penale, se non si vogliono scomodare i documenti internazionali (Ungass 2016) o le dichiarazioni del Procuratore Nazionale Antimafia Roberti in tema di depenalizzazione dell’uso della cannabis. Occorre un cambio di passo: governo sociale del fenomeno droghe, strategie diversificate in relazioni alle diverse sostanze e ai diversi consumi, fine della politica dei tagli lineari che hanno demolito i servizi, garanzia per tutti della prospettiva della riduzione del danno, politiche preventive. Con l’improvvisazione non si va lontano. Se ne sono accorti nelle Americhe, speriamo che il vento cambi anche da noi. “Punire la compassione”: solidarietà criminalizzata in Europa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 marzo 2020 Negli ultimi anni in molti paesi europei - come denuncia un rapporto presentato ieri alla stampa da Amnesty International - singole persone e organizzazioni della società civile che hanno aiutato rifugiati e migranti sono stati sottoposti a procedimenti penali infondati, limitazioni indebite alle loro attività, intimidazioni, vessazioni e campagne denigratorie. Le loro azioni di assistenza e solidarietà li hanno messi in rotta di collisione con le politiche europee sulla migrazione, che hanno l’obiettivo di impedire a rifugiati e migranti di raggiungere l’Unione europea (Ue), di trattenere quelli che riescono a entrare in Europa nel paese di primo arrivo e di espellerne quanti più possibile verso i loro paesi d’origine. Coloro che soccorrono rifugiati e migranti in pericolo in mare o sulle montagne, offrono riparo e cibo, documentano le violenze della polizia e delle guardie di frontiera e si oppongono alle espulsioni illegali sono diventati essi stessi bersagli delle autorità, che trattano atti di umanità alla stregua di minacce alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico. Nel suo rapporto, Amnesty International ha documentato casi di restrizioni e criminalizzazione dell’assistenza e solidarietà in otto paesi: Croazia, Francia, Grecia, Italia, Malta, Spagna, Svizzera e Regno Unito. Per quanto riguarda il nostro paese, la persistente campagna denigratoria alimentata dagli ultimi governi contro le Ong che conducono operazioni di soccorso in mare è stata accompagnata dall’imposizione di un codice di condotta e dall’approvazione di leggi che hanno lo scopo di limitare e ostacolare le loro attività di salvataggio nel Mediterraneo centrale. Gli equipaggi della maggior parte delle Ong sono stati colpiti da indagini penali per favoreggiamento dell’ingresso irregolare e altri reati; e in molti casi le imbarcazioni di soccorso delle Ong sono state sequestrate. Tra il 2015 e il 2018 158 persone sono state indagate o perseguite per favoreggiamento dell’ingresso o del soggiorno irregolari di cittadini stranieri in uno stato dell’Ue e 16 Ong sono state colpite da procedimenti penali. Nella maggior parte dei casi descritti dal rapporto di Amnesty International, le indagini e procedimenti penali si basano sul reato di favoreggiamento di ingresso, transito e soggiorno irregolari nel territorio di uno stato membro dell’Ue. Sin dal 2002 l’Ue ha tentato di armonizzare le legislazioni degli stati membri per combattere il traffico di esseri umani in Europa con una direttiva e una decisione quadro, conosciuta come “Pacchetto favoreggiatori”. Ma la vaghezza delle sue disposizioni e l’ampia discrezione lasciata agli stati membri nella loro applicazione hanno portato all’avvio di procedimenti penali contro coloro che non avevano fatto altro che mostrare solidarietà verso migranti e rifugiati. Uno degli obiettivi di Amnesty International è l’urgente revisione del “Pacchetto favoreggiatori”. In particolare, dovrebbe essere introdotto il requisito di un vantaggio finanziario o materiale per poter criminalizzare la facilitazione dell’ingresso, transito e soggiorno irregolari di un cittadino straniero in stato di irregolarità. Inoltre, dovrebbero essere fatte le modifiche necessarie per evitare la criminalizzazione dei migranti vittime del traffico di esseri umani e dovrebbe essere prevista una clausola di esenzione umanitaria obbligatoria, per impedire i procedimenti contro persone che offrono assistenza a rifugiati e migranti. All’Italia, Amnesty International chiede l’abrogazione del decreto sicurezza bis, il ritiro del “codice di condotta Minniti”, sopravvissuto a due successivi governi, e una modifica della legislazione affinché l’ingresso irregolare sul territorio italiano - che, come altrove, può essere l’unica opzione per molte persone in cerca di protezione - non sia considerato reato. L’azzardo di Erdogan, i grandi d’Europa, l’esasperazione di Adriano Sofri Il Foglio, 4 marzo 2020 È il caso più fortuito e minuscolo, alla fine, che separa Lesbo da Lodi. Guardiamolo negli occhi, il nostro mondo. Si stipula una pace in Afghanistan, affare elettorale di Trump, di cui vedremo gli svolgimenti. Intanto si può fondatamente prevedere che il ritorno dei talebani moltiplicherà il numero di afghani in fuga dal paese, che già oggi sono una quota ingente della pressione alle frontiere europee, specialmente sud-orientali. C’è la moltitudine di famiglie soprattutto siriane spinta di colpo nella fossa comune d’acqua e di scogli fra terraferma turca e terraferma greca, senza poter andare né avanti né indietro: in trappola. E in trappola con lei, benché confortevole ancora e anzi lussuosa, è l’intera classe dirigente dei paesi d’Europa, che sa di dover pagare un prezzo carissimo al ripudio di quelle migliaia e decine e centinaia di migliaia di sventurati intrappolati e pieni di bambini, e sente di doverne pagare uno per lei ancora più alto cedendo al soccorso e consegnandosi alla rabbia popolare e al cinismo delle opposizioni razziste. Mors tua vita mea: è inevitabile opinare che la classe dirigente europea scelga così coi migranti nella rete balcanica, facendo della minaccia che si è tenacemente procurata, l’avvento dell’estrema destra, un alibi a una propria disumanità: senza che questo ne assicuri la salvezza. Tutti vedono che la signora Angela Merkel, pur alla vigilia del commiato personale, non ripeterebbe mai il gesto audace di cinque anni fa. E d’altra parte l’azzardo di Erdogan si è fatto col tempo tanto più esoso quanto più esasperato. Guardano a questo scenario, i nostri spettatori, come se il destino baro stesse accumulando più disastri in una volta, l’uno separato dall’altro, il lusso del coronavirus per l’Europa e l’acqua alla gola e il gelo e il tifo e fame e sete ai dannati delle belle isole greche. (Il tifo, infatti, che vi è endemico, come l’ebola in Africa, come il dengue in America latina, morbi micidiali ma altrui, in questa parte di mondo che battibecca sulle vaccinazioni). Ma Lesbo e Lodi non sono separate se non dal caso più fortuito e minuscolo: fate che un contagio del coronavirus raggiunga quella moltitudine di fuggiaschi e immaginate come infurierebbe e infierirebbe. Mosche nel bicchiere, i grandi d’Europa sbattono di qua e di là e cominciano a spararle grosse e del resto antiche: trovare un posto, un ghetto, un recinto, in cui avviare e confinare la moltitudine che preme nuda contro i fili spinati. Fra poco, vedrete, qualcuno si ricorderà del Madagascar, o dell’Uganda. Naturalmente un posto c’è per le decine di migliaia di profughi siriani naufragati fra due confini, e per gli altri milioni sprofondati nelle cantine della Turchia e del Libano e del Kurdistan: quel posto si chiama Siria. Era 1 che dovevano tornare, era là che i miliardi dei paesi ricchi dovevano andare a incoraggiare e finanziare quel ritorno e la ricostruzione di case e anime. Non è senno di poi: qualcuno lo ha avvertito da principio, e ha avvertito delle condizioni necessarie per renderlo possibile. Soffrire e reagire al mattatoio che tocca i nove anni e supera il mezzo milione di ammazzati e i milioni di sfollati ed esuli. Credere in una forza internazionale e dispiegarla. Rispettare almeno le proprie linee rosse. Non essere, oltre che così disumani, così ciechi da guardare alle bande di ogni risma, dalle masnade islamiste alle potenze regionali, l’Iran e la Turchia, il Libano degli sciiti e Israele, e mondiali, la Russia svelta di mano e gli Stati Uniti svelti di piede, come a un parapiglia estraneo e caratteristico, il solito Medio oriente, che si massacrino fra loro. È tardi, naturalmente. Ora forse dopo aver tirato sui miliardi si otterrà dal sultano qualche rinnovo contrattuale, qualche dilazione. Nel frattempo, qualcuno dovrà fare il lavoro sporco, lo sta già facendo. Qualcun altro soccorrerà, noti ignorando le conseguenze più distanti ma sapendo che quando il proprio prossimo annega in mare o stramazza su una strada di ladroni bisogna solo soccorrerlo, avvenga quello che vuole. Gli uni e gli altri, quelli che sparano ai gommoni e alla ressa sui fili spinati e quelli che riscaldano e nutrono col poco che hanno, lo fanno anche per noi, tutti coinvolti. Ciascuno scelga i suoi. Grecia. La frontiera anti-rifugiati tirata su dalle ronde fasciste e dal fuoco del governo di Valerio Nicolosi Il Manifesto, 4 marzo 2020 Attivisti aggrediti a Lesbo, in mare la guardia costiera spara. I profughi in cammino lungo il fiume Evros sognando l’Europa. Sul confine gruppi di residenti imbracciano i fucili, polizia ed esercito ellenici restano a guardare La Grecia ora pensa di usare una nave come centro temporaneo per i migranti. La tensione continua a salire nelle isole greche, il flusso di rifugiati siriani non si arresta e la gestione in terra dell’ordine pubblico continua a essere un problema. Nella notte tra il 2 e il 3 marzo, una nave dell’ong Mare Liberum che effettua il pattugliamento e il soccorso dei migranti a largo dell’isola di Lesbo, è stata avvicinata da un gommone con a bordo persone incappucciate, che prima hanno minacciato di sparare contro l’equipaggio volontario e successivamente gettato benzina sul ponte della barca minacciando di darle fuoco. Altri attivisti hanno denunciato atti di vandalismo nei confronti dei loro mezzi e alcuni continuano a non poter entrare a casa per paura delle ronde dell’estrema destra. “Stanotte ho dormito in una tenda del Campo di Moria - ci dice Nawal, attivista italo-marocchina da tempo attiva a Lesbo - Il posto più sicuro è paradossalmente proprio il campo, almeno le ronde non riescono a entrare dentro. Sotto casa mia è stata completamente devastata una macchina di un volontario e le altre hanno le ruote forate e i vetri rotti”. Alle 18 di ieri è stata convocata una manifestazione a Mitilini in solidarietà con i migranti, ma invertire la tendenza sembra oggi difficile: la polizia continua a non voler intervenire e lasciare campo libero ai gruppi d’estrema destra organizzati. Nel tardo pomeriggio di ieri è arrivata un’altra notizia di spari contro i gommoni dei migranti: a darla è stata la piattaforma Alarm Phone, che ha riportato tramite Twitter la vicenda di due imbarcazioni che provavano a attraversare il confine di Kastellorizo, quando la Guardia Costiera ellenica ha sparato contro entrambe. Una delle due è riuscita a tornare indietro e dare l’allarme, mentre sull’altra sembra ci siano feriti. Per alleggerire la pressione sull’isola di Lesbo, le autorità greche vogliono utilizzare una nave come centro temporaneo per i migranti, visto che il campo di Moria è pieno ormai da settimane e il governo presieduto da Mitsotakis non ha intenzione di spostare i migranti sulla terra ferma. La situazione è completamente differente lungo il fiume Evros, dove la polizia e l’esercito ellenici pattugliano quasi ogni angolo degli oltre cento chilometri di confine con la Turchia. Dall’altro lato da giorni sono ammassate migliaia di persone che dopo mesi hanno potuto lasciare i centri di detenzione turchi. La strada che costeggia il confine con la Turchia corre in mezzo a campagne sterminate, tra un paese e l’altro ci sono almeno 15 minuti di macchina. Per i migranti questa parte di terra non è facile da attraversare senza essere visti: i paesi sono piccoli e tutti si conoscono, le pianure di campi arati non offrono ripari durante il giorno e l’esercito a ogni incrocio controlla tutto quello che avviene, anche grazie alla collaborazione dei cittadini. “Di qua i migranti non passano, perché sanno che è molto pericoloso, quei pochi che l’hanno fatto sono stati presi a bastonate dai nostri concittadini”, ci racconta Afroditi, donna quarantenne di Dikaia, piccola cittadina al confine tra Grecia, Turchia e Bulgaria. Afroditi gestisce il supermarket del paese ma in passata è stata lei stessa migrante: “Ho studiato in Germania ma poi sono tornata per stare vicino alla mia famiglia”. Ci racconta di aver chiamato la polizia quando ha visto qualche siriano aspettare il treno nella stazione che si trova proprio davanti al suo negozio. “Vogliono andare ad Alexandropolis e da lì proseguire verso la Macedonia ma io non capisco perché non vanno in altri paesi islamici, in Europa siamo cristiani. Inoltre qua paghiamo ancora la crisi economica, dobbiamo pensare a noi”, chiosa mentre nel super market entra l’unico cliente degli ultimi 20 minuti. Poco importa ai residenti se i rifugiati siriani qui siano solo di passaggio e che la loro volontà sia proseguire il viaggio il prima possibile. La gran parte di loro ha come meta la Germania, alcuni la Svezia ma quasi tutti quelli che riescono a passare queste zone saranno bloccati di nuovo in Serbia o in Bosnia, respinti dalla polizia di frontiera croata che nell’ultimo anno si è resa colpevole di diversi atti di violenza. “Per me qua non devono passare, noi siamo una zona forte, siamo rispettati da sempre e non possiamo permettere di essere invasi”, ci dice Andreas, proprietario di una pompa di benzina e un piccolo hotel a Tichero, paese di poche anime a meno di 5 chilometri dal fiume Evros e quindi dal confine. “Io tutte le sere prendo il fucile e vado lungo il fiume, controllo che nessuno passi. Prima che arrivasse l’esercito pensavamo noi a difenderci”, aggiunge il benzinaio di Tichero, mentre sulla cartina mostra il punto dove la sera si immedesima in una guardia di frontiera. Mentre sul lato turco i rifugiati continuano a essere ammassati e a vivere accampati lungo il confine, da questa parte le uniche rassicurazioni che hanno avuto gli abitanti dall’Europa sono quelle dell’invio di altri militari di Frontex, come se i migranti e i rifugiati fossero un esercito da combattere. Gran Bretagna. Assange condannato due volte di Vincenzo Vita Il Manifesto, 4 marzo 2020 Nel disinteresse più o meno generale dei grandi mezzi di comunicazione, si sta celebrando il processo a Londra contro il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange. L’estetica del tribunale è il messaggio. Provo a spiegarmi. Nel disinteresse più o meno generale dei grandi mezzi di comunicazione, si sta celebrando il processo a Londra contro il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange. Il tribunale è il messaggio, si potrebbe dire. Come testimoniano le cronache di Craig Murray (sul blog “L’antidiplomatico”) e di Stefania Maurizi (su “il Fatto Quotidiano”) il luogo e il clima del dibattimento sono indice di scelte aprioristiche molto nette: ad essere messo in stato di accusa è il giornalismo libero e lo status di colpevole per l’imputato è già scritto. Alla faccia della britannica (presunta) “terzietà” della Corte. Infatti, il “Woolwich Crown Court”, che ospita il “Belmarsh Magistrates Court”, è parte integrante dell’edificio al cui interno sta la prigione di massima sicurezza in cui vive il detenuto. E dire che le udienze di estradizione, quale quella in corso, generalmente si svolgono presso il tribunale dei magistrati di Westminster, centrale e vicino ai luoghi istituzionali. Ma il Regno Unito, buon alleato degli Stati Uniti, sembra avere già condannato l’uomo al quale non aveva rilasciato il permesso per uscire dall’ambasciata dell’Ecuador di Londra, dopo avere di fatto sconsigliato alla giustizia svedese di concludere favorevolmente la vicenda sulla vita privata di Assange. Eppure, le stesse Nazioni Unite avevano preso una posizione netta - nel 2015 - contro la detenzione. La pubblica accusa, sostenuta in nome e per conto degli Stati uniti dall’avvocato James Lewis, ha centrato la sua argomentazione sulla specificità delle colpe del coraggioso australiano, da non confondere - ha sottolineato - con il comportamento degli stessi giornali (New York Times, Guardian, Spiegel, ad esempio) che hanno pubblicato l’immane lavoro di WikiLeaks. Parliamo delle migliaia di file segreti sulla guerra in Afghanistan, dei cablogrammi della diplomazia d’oltre oceano, delle centinaia di schede dei detenuti di Guantanamo. E così via. Il principale accusatore, dunque, ha tenuto l’arringa non per la giudice Vanessa Baraitser, bensì per i media che vanno per la maggiore: considerati innocenti, pur avendo pubblicato le notizie procurate da Assange. Il consenso val bene una menzogna, vale a dire l’incriminazione in base all’Espionage Act, malgrado sia stato dichiarato dal Pentagono che non vi è stata nessuna conseguenza per le notizie diffuse. Quindi, è chiaro il disegno: Julian Assange non è un giornalista, bensì una volgare spia. E come tale viene trattato in un luogo che assomiglia ad uno dei tristi e famigerati tribunali speciali dei regimi autoritari, con tanto di gabbiotto isolato per l’imputato e pubblico ridotto all’osso (sedici posti in aula). Altro che giustizia indipendente e aperta al controllo popolare. In verità, il caso di Assange sembra davvero così una prova generale di processo post-democratico. La condanna è scritta prima e il resto è solo una cerimonia mediatica. Chi osa mettere il naso nelle attività criminose dei potenti della terra rischia anche 175 anni di carcere. In Italia, malgrado le prese di posizione della Federazione della stampa e qualche (pur poco affollata) significativa mobilitazione di piazza, l’informazione dominante tace. Non ci si rende conto, forse, che l’eventuale estradizione di una persona peraltro fisicamente provatissima è l’inizio di una vendetta contro la libertà di espressione. In una deriva culturalmente sempre più conservatrice e reazionaria, il diritto dei diritti è un lusso che non ci si può permettere. Il silenzio non è d’oro. È solo il suicidio della democrazia, in uno dei suoi assi portanti. Egitto. “Le nostre prigioni sono aperte, visitatele” di Rodolfo Calò ansa.it, 4 marzo 2020 In un esercizio di trasparenza, l’Egitto è tornato ad aprire le porte di una sua prigione a media stranieri e Ong egiziane sostenendo di rispettare i diritti umani e di non aver “nulla da nascondere” dietro le sbarre. “Le prigioni sono aperte: chiedete il permesso e visitatele”, ha detto questa settimana il generale Hisham El Baradei, assistente del ministro dell’Interno egiziano per il settore penitenziario, incontrando rappresentanti di media, tra cui l’Ansa, invitati a ispezionare parte del carcere femminile di Al Qanater, una trentina di chilometri a nord-ovest del centro del Cairo. “Che ci guadagneremmo a picchiarli?”, ha chiesto retoricamente l’alto funzionario alla richiesta di un commento sulle accuse di abusi sui detenuti delle carceri egiziane mosse da diverse ong soprattutto internazionali. “Non abbiamo nulla da nascondere”, le carceri “sono aperte a chiunque le voglia vedere”, ha sostenuto dal canto suo Maya Morsy, Presidente del Consiglio nazionale egiziano per le donne, anch’ella in sopralluogo al “Centro correzionale e di riabilitazione” (questa la dicitura ufficiale) da circa mille posti presentata come “il più grande” carcere femminile in Egitto. La visita non è stata ispirata dal caso di Patrick George Zaky, lo studente dell’università di Bologna arrestato in Egitto per propaganda sovversiva. A novembre vi sono state visite in altre due carceri, con altrettanti sopralluoghi ciascuno, al Cairo (Tora) e Borg El Arab (nei pressi di Alessandria), ha ricordato Morsi sottolineando che questi sopralluoghi sono relativamente frequenti. Ai giornalisti di quattro-cinque media e ad un analogo numero di rappresentanti di organizzazioni non-governative sono stati mostrati diversi spazi del carcere di Al Qanater (La Chiusa). Innanzitutto asilo, parlatorio, poliambulatorio-farmacia fra l’altro con studio dentistico e oculistico. E un’attività di fisioterapia che una ex-detenuta ha ottenuto di poter continuare a fare anche dopo la scarcerazione non potendosela permettere fuori, ha raccontato Morsi. Ma anche un’aula scolastica da 22 posti con massicci banchi di legno che ricordano quelli italiani degli anni Sessanta per l’alfabetizzazione delle detenute; e un laboratorio di cucito che punta alla riqualificazione professionale delle incarcerate perseguito pure con lavori di ricamo e piccolo artigianato che viene rivenduto all’esterno attraverso vari canali. Alla “Chiusa” sul Nilo c’è poi anche un campetto di pallavolo usato dalle più giovani e una sala adibita a chiesa cristiana dove si tiene messa ortodossa ogni lunedì: “una struttura presente in ogni carcere egiziano”, ha sottolineato una fonte sul posto dopo che era stato intonato un inno che diceva “Dio è qui, sempre in mezzo a noi”. Non mostrate invece sono state le celle da 2-4 posti o le camerate che arrivano fino a 20 e presso le quali “le toilette vengono pulite giornalmente”, ha dichiarato il generale El Baradei. All’asilo le madri (che Morsi considera così ben trattate da poterle definire “residenti” e non “detenute”) ogni settimana ricevono la visita dei loro piccoli sopra i due anni (prima stanno sempre con loro nella struttura). Nel parlatorio, dove le detenute si distinguono perché vestite di bianco, le visite avvengono ogni 15 giorni per le condannate e ogni settimana per le “indagate”, riconoscibili per una scritta blu sul vestito: l’altro giorno, tra bustoni con coca-cola, arance e assorbenti, si sono viste lacrime di una anziana abbracciata da un giovane ma anche qualche sorriso. Libia. Le dimissioni dell’inviato Onu sono un atto d’accusa di Pierre Haski* internazionale.it, 4 marzo 2020 Il 2 marzo Ghassan Salamé ha gettato la spugna con un semplice tweet scritto in arabo. Con poche parole, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia ha spiegato che la sua salute non gli permette di “affrontare lo stress” a cui lo sottopone il ruolo particolare che ricopre da oltre due anni. Ma la verità è che le dimissioni del sesto rappresentante dell’Onu in Libia in meno di dieci anni hanno il sapore di un fallimento. Prima di tutto per la comunità internazionale, che in Libia non riesce a far rispettare le proprie decisioni. Un rappresentante dell’Onu ha il potere che gli viene conferito dagli stati appartenenti all’organizzazione, e quando questi stati non rispettano gli impegni presi, un uomo, da solo, non può nulla. In secondo luogo siamo davanti al fallimento dei tentativi di trovare una soluzione diplomatica al conflitto libico, cosa che ancora sembrava possibile un anno fa, prima dello scoppio di una terza guerra civile alimentata dalle ambizioni delle potenze esterne. Il colpo di grazia - Due avvenimenti hanno contribuito alle dimissioni di Salamé: innanzitutto la conferenza organizzata il 19 gennaio a Berlino con la presenza di Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdo?an, Emmanuel Macron e Mike Pompeo. In quell’occasione i partecipanti si erano impegnati a rispettare l’embargo sulla consegna di armi ai belligeranti, ma appena l’inchiostro si è seccato l’appoggio militare è ripreso come se niente fosse. Il colpo di grazia è arrivato la settimana scorsa a Ginevra, con il fallimento di una riunione per il “dialogo politico” organizzata da Salamé. I delegati dei due fronti che si combattono in Libia non si sono nemmeno presentati nella città svizzera, mortificando e sfiduciando l’emissario dell’Onu. Qualche giorno fa Salamé ha rilasciato dichiarazioni amare (che con le sue dimissioni acquistano maggiore significato) attaccando i partecipanti della conferenza di Berlino. “Ho ricevuto il sostegno necessario dopo Berlino? La mia risposta è “no”. Ho bisogno di un supporto di gran lunga maggiore”. A chi si rivolgeva Salamé? A tutti gli attori coinvolti. Oggi i due schieramenti del conflitto libico hanno ciascuno i suoi protettori. Il governo di Tripoli, guidato dal primo ministro Fayez al Sarraj, è sostenuto principalmente dalla Turchia e dal Qatar, che riversano armi e combattenti nella capitale libica. Il generale Khalifa Haftar, che controlla la zona orientale del paese, può invece contare sull’appoggio della Russia (che ha inviato i suoi mercenari), dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti (che partecipano ai combattimenti con droni e aerei). Fatto per nulla indifferente, dalla parte di Haftar è schierata anche la Francia, nonostante le smentite. Il ruolo occulto di Parigi non ha certo facilitato il lavoro di Salamé. Il gesto del rappresentante dell’Onu non porterà grandi cambiamenti in questo ennesimo conflitto alle porte dell’Europa, ma getta luce su un mondo in cui le Nazioni Unite hanno sostanzialmente perso il loro ruolo. Di sicuro il successore del diplomatico libanese non potrà molto davanti agli egoismi nazionali che in Libia ripropongono il gioco infinito dei rapporti di forza tra potenze. *Traduzione di Andrea Sparacino