Carceri e coronavirus: non toccate i diritti dei detenuti di Stefano Anastasia* Il Riformista, 3 marzo 2020 L’amministrazione penitenziaria ha diramato Linee guida, ma nessuna indicazione sulle visite dei familiari. Così che alcuni istituti hanno chiuso le porte agli esterni. In modo ingiustificato. La diffusione del coronavirus sta suscitando legittime apprensioni: tutte le cautele messe in atto dal ministero della Salute, dalla Protezione civile e dalle Regioni non sono riuscite ancora a circoscrivere la diffusione del virus e si teme che il picco dei contagi, ancora di là da venire, possa mettere in seria difficoltà il sistema sanitario nazionale alla prova della gestione contemporanea di una mole di casi - e, soprattutto, di terapie intensive - come quella che potrebbe venirne. Tra i motivi specifici di apprensione vi è anche la diffusione del virus nelle carceri e in genere nei luoghi di convivenza coattiva di persone a diverso titolo private della libertà. Sia chiaro: in carcere non si è manifestato ancora alcun caso di infezione e le persone detenute non hanno alcun motivo per essere identificate come fattori di rischio di diffusione del virus, essendo - anzi - da questo punto di vista più tutelate di altri proprio in ragione dei loro limitati contatti con l’esterno. Eppure le carceri sono comunità chiuse, ma - per fortuna - non impermeabili: quotidianamente vi entrano non solo le persone tratte in arresto e i condannati a pene detentive, ma numerosi operatori, dell’Amministrazione penitenziaria, dei servizi sanitari, delle scuole e del volontariato. Ci sono poi gli operatori giudiziari e i parenti in visita ai congiunti detenuti. Tutte attività e ingressi che non si possono interrompere in base a un generico principio di precauzione, ma che è importante che siano regolamentate secondo le necessarie misure di profilassi contro la diffusione del coronavirus che, in un ambiente chiuso, promiscuo e con limitate risorse di igiene personale per coloro che vi sono costretti, sarebbe gravissimo e difficile da gestire. Questa, in effetti, è la preoccupazione specifica per la possibile diffusione del virus in carcere: non già che vi arrivi facilmente, ma che possa essere difficile individuarlo per tempo e, soprattutto, che possano essere adottate le necessarie misure di contenimento in quell’ambiente sovraffollato e igienicamente spesso scadente. Per questa ragione, giustamente, l’Amministrazione penitenziaria e il Dipartimento della Giustizia minorile, per quanto di rispettiva competenza, hanno diramato opportune indicazioni per prevenire la diffusione del virus nelle istituzioni penali. Innanzitutto quelle di uso comune: dall’informazione rivolta al personale e ai detenuti alle norme di igiene raccomandate dal ministero della Salute. Poi anche indicazioni specifiche, articolate su livelli di rischio diversi a seconda dell’ubicazione degli istituti sul territorio nazionale. Naturalmente il personale residente nei Comuni ove è stata dimostrata la trasmissione locale del virus è stato esentato dal servizio, così come è stato escluso l’accesso agli istituti di chiunque vi abbia residenza o domicilio. Sull’intero territorio nazionale, invece, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria raccomanda che vi sia un particolare controllo sugli ingressi di nuovi detenuti (per cui potranno essere allestiti degli spazi temporanei di pre-triage) e di esterni alle amministrazioni della giustizia e della sanità, cui dovrà essere richiesta una dichiarazione di asintomaticità e di non aver soggiornato negli ultimi quattordici giorni in paesi ad alta endemia o in territori nazionali sottoposti a misure di quarantena. Nei territori dei Provveditorati del Centro-Nord (fino all’Umbria, inclusa) è stata esclusa la possibilità della traduzione dei detenuti, salvo che per motivi di giustizia, quando necessario. Infine, nelle regioni in cui sono stati riscontrati casi di positività al virus (Lombardia e Veneto, ma anche Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Marche e Sicilia, non in Umbria e in Val d’Aosta e nel resto del Centro-Sud) i Provveditori sono stati autorizzati ad adottare iniziative che limitino le occasioni di contagio negli istituti, come la sospensione di attività trattamentali per le quali sia previsto l’accesso della comunità esterna, il “contenimento” delle attività lavorative esterne o di quelle interne che prevedano l’accesso di persone provenienti dall’esterno, la possibilità di garantire un maggior numero di colloqui telefonici o via Skype con i familiari al posto di quelli in presenza. Misure ragionevoli, in qualche caso tarate su un eccesso di prudenza (come nei casi della creazione di una specie di zona arancione estesa a tutto il Centro-Nord Italia e alla Sicilia, della possibilità di sospensione di generiche attività trattamentali che prevedano l’accesso di esterni o di interruzione di attività lavorative), in qualche caso al di sotto delle necessità (la rilevazione della temperatura corporea di tutti coloro che entrano in carcere, a qualsiasi titolo e per qualunque amministrazione, per esempio, sarebbe elementare misura di cautela utile su tutto il territorio nazionale, così come un’adeguata fornitura di beni per l’igiene personale), ma comunque ragionevoli. Naturalmente potranno essere modificate, a seconda dell’evoluzione della situazione, ma si tratta di misure di prevenzione importanti. Ma in tutto ciò che abbiamo fin qui descritto, nulla c’è che riguardi la chiusura generalizzata degli istituti penitenziari ai familiari, alla comunità esterna, ai volontari e agli operatori di enti pubblici e privati che vi lavorano e contribuiscono al suo quotidiano funzionamento. Accade invece, a opera di qualche direttore o provveditore, ma è irragionevole e ingiustificato, dal punto di vista normativo e dal punto di vista precauzionale: quale maggior fattore di rischio porta in carcere un volontario, un insegnante, il titolare di una ditta o un parente, rispetto alle decine e centinaia di operatori delle amministrazioni penitenziaria e della sanità che vi entrano legittimamente ogni giorno? Così come a quale prevenzione serve la sospensione disposta da qualche Tribunale di sorveglianza della semilibertà, peraltro per persone che generalmente dormono in stabili separati dalla generalità della popolazione detenuta? Insomma, massima cautela e massima prudenza, ma senza mortificare ingiustificatamente la vita e le attività negli istituti di pena. Ogni misura di prevenzione deve essere finalizzata alla tutela della salute dei detenuti, non all’infondato etichettamento loro, dei loro parenti o dei volontari come agenti o fattori di rischio. Su questo delicato crinale si verifica la distanza tra le necessarie misure di prevenzione e ingiustificate chiusure del carcere alla comunità esterna. *Portavoce dei garanti territoriali dei detenuti Prigionieri del virus di Luigi Mastrodonato internazionale.it, 3 marzo 2020 Da 28 anni la Cooperativa sociale “Alice” offre lavoro ai detenuti delle carceri milanesi attraverso alcuni laboratori di sartoria. Oltre 400 persone sono passate dalle sue macchine da cucire, mentre nella sede esterna viene assunto anche chi ha già scontato la pena. Da qualche giorno però l’attività è in crisi per l’emergenza Covid-19. Ai detenuti sono stati sospesi i permessi esterni di lavoro. Anche all’interno di alcune carceri, i laboratori sono fermi per il divieto di assembramento e per la limitazione degli ingressi dei volontari. “Per noi è un disastro, non possiamo contare su una parte delle nostre risorse umane e ci è impedito di entrare nelle carceri a recuperare i materiali. Stiamo avendo problemi con le consegne”, racconta la presidente, Caterina Micolano. I detenuti sono assunti con regolare contratto. Una persona era in permesso esterno, in tre lavoravano nel laboratorio del carcere di Bollate, in due a San Vittore e in cinque a Monza - dove per ora l’attività prosegue. Altre cooperative stanno vivendo gli stessi disagi, che si riflettono anche sulla condizione dei detenuti. “C’è un grande senso di responsabilità tra queste persone, hanno compreso il momento. Non si tratta di una punizione legata alla loro condizione, quanto di un’anormalità che sta vivendo tutta la città di Milano”, continua Micolano. “Ma c’è anche un po’ di frustrazione. Speriamo questa situazione finisca presto”. Quando hanno cominciato a diffondersi le notizie dei primi contagi tra Lombardia e Veneto, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) si è mobilitato per evitare che il Covid-19 potesse entrare nelle carceri. Si voleva scongiurare uno scenario cinese, con oltre 500 contagiati negli istituti penitenziari. Il Dap ha sospeso i trasferimenti dei detenuti verso e dagli istituti penitenziari di competenza dei territori di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze. Ha poi vietato l’ingresso nelle strutture di operatori e familiari provenienti dalla zona rossa. Con il passare dei giorni, le maglie sono state ristrette ulteriormente. A Milano sono bloccati i permessi premio e sospesi o ridotti gli ingressi dei volontari nelle carceri. Anche i colloqui dei detenuti con i familiari subiscono limitazioni: in alcuni casi, come nel carcere di Bollate, è consentito l’ingresso di un solo parente con mascherina; in altri, come a Bologna, si è deciso per la sospensione totale. Per compensare queste misure, i provveditorati locali dell’amministrazione penitenziaria hanno invitato gli istituti a privilegiare l’utilizzo delle telefonate e dei colloqui skype. All’esterno delle strutture sono intanto stati installati presidi per verificare lo stato di salute di chi entra e chi esce. Alcune carceri hanno creato sezioni di quarantena. sindacati di polizia giudicano queste misure inadeguate. “Non va sottovalutata l’insufficiente dotazione nelle carceri lombarde, venete, piemontesi ed emiliane di personale medico e sanitario. Bloccare ogni contatto con l’esterno è una priorità da collegare a una campagna di vera prevenzione e di comunicazione”, ha denunciato Aldo Di Giacomo, segretario del Sindacato polizia penitenziaria. Un inasprimento ulteriore delle misure rischia però di accentuare la già fragile condizione dei detenuti. Carmelo Musumeci ha trascorso 26 anni della sua vita in carcere. Nel 1992 venne condannato all’ergastolo ostativo, due anni fa è stato liberato con la condizionale. In questi giorni sta circolando un suo articolo, ripreso da uno che scrisse quando si trovava in prigione, sull’importanza dei contatti familiari per un detenuto. “In carcere la libertà è data con il contagocce”, mi racconta. “Se togli il contatto con l’esterno, diventa tutto difficile. Il permesso premio, le uscite, sono momenti fondamentali nella quotidianità, si vive per quello. In molti poi non possono beneficiarne per il regime ostativo in cui si trovano, resta solo il colloquio. Le restrizioni attuali sono anche comprensibili, ma si inseriscono in un contesto di già ampie limitazioni. I detenuti rischiano di perdere il loro ossigeno”. Ai detenuti normalmente sono concesse sei visite al mese di un’ora ciascuna. Sulle circa 60mila persone che popolano le 190 carceri italiane, nel primo semestre del 2019 sono state oltre 20mila quelle che hanno beneficiato di permessi premio, per differenti motivi. Più di 17mila persone svolgono lavori durante il periodo di detenzione e, a livello nazionale, in 2.400 lo fanno per conto di ditte esterne. In Lombardia, centro del contagio, questo valore raggiunge il 27 per cento del totale dei detenuti lavoratori. Sono poi quasi 17mila i volontari che quotidianamente operano nelle carceri italiane offrendo attività come scuole, teatri, sport. È indubbio che l’emergenza Covid-19 stia influendo notevolmente sulla condizione detentiva di migliaia di persone. Una situazione che appare però inevitabile. “Finora sono state prese misure ragionevoli, dettate dalla paura che l’epidemia possa diffondersi tra i detenuti”, mi spiega Claudio Paterniti, ricercatore di Antigone. “Il carcere è storicamente un luogo in cui gli agenti patogeni si propagano facilmente, la precauzione è dunque necessaria”. In Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti pari al 1-2 per cento, nelle strutture penitenziarie il dato sale al 25-30 per cento. Differenze simili riguardano poi altre patologie come l’epatite C o l’Hiv. Il contenimento di un virus in carcere è più complesso che nel mondo esterno. Questo, nella fase attuale, rischia però di essere il pretesto per un’erosione sproporzionata dei diritti dei detenuti. Le misure restrittive stanno in effetti interessando anche aree ben al di fuori dal contagio, come alcune carceri siciliane e laziali. “Il primo sacrificato oggi è il volontariato, e questo pone dei problemi per i detenuti. Le attività a esso connesse, in molti casi sospese, offrivano una risposta a una quotidianità grigia, spesso caratterizzata da noia e frustrazione”, sottolinea Paterniti. “Le circolari che giungono agli istituti contengono indicazioni variamente interpretabili. È importante che non prevalgano interpretazioni eccessivamente restrittive, con divieti che nulla hanno a che vedere con le giuste esigenze di prevenzione o che comunque sacrificano in maniera eccessiva i diritti dei detenuti”. Nel carcere di Bologna, intanto, un sindacato di polizia penitenziaria ha chiesto di impedire ai detenuti l’accesso al campetto sportivo interno. Nel 2018, il Regno Unito ha deciso di installare un telefono all’interno delle sue celle, dando la possibilità ai detenuti di chiamare i parenti in ogni momento della giornata. La Francia ha preso lo stesso provvedimento, mentre in diversi paesi europei si tratta della normalità già da tempo. L’approccio italiano è molto diverso: i detenuti hanno a disposizione solo 10 minuti di chiamata a settimana. Come sottolinea Musumeci, in carcere una telefonata può cambiare la vita. “Un detenuto ha tanti momenti di sconforto durante la giornata, attimi difficili che possono portare a brutte conseguenze”, mi spiega. “Avere la possibilità di telefonare a un proprio familiare, sentire la voce dei figli, può aiutare molto. Sono convinto che la liberalizzazione delle telefonate nelle carceri possa contribuire a ridurre il tasso di suicidi”. Negli istituti italiani nel 2019 si sono tolte la vita 53 persone, un dato ben superiore alla media europea. Con l’emergenza Covid-19, si stanno allentando le maglie relative alle comunicazioni con l’esterno. Diverse carceri hanno consentito l’utilizzo di skype e c’è maggiore flessibilità anche sulle telefonate. “Questa occasione può aumentare la consapevolezza che un incremento dei contatti telefonici esterni per i detenuti non è un male”, spiega Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone. “Oggi viene fatto per colmare l’assenza di colloqui nelle zone a rischio, un domani potrebbe avvenire in parallelo a essi, permettendo il progresso di un sistema pachidermico”. In passato si era già provato a intervenire sul tema. Nel 2013 la Commissione per le questioni penitenziarie del ministero della giustizia aveva firmato una disposizione che prevedeva l’organizzazione di colloqui via skype nelle carceri. Non è quasi mai stata recepita. Gli Stati generali dell’esecuzione penale del 2017 avevano poi proposto un pacchetto che conteneva misure sulla tutela dell’affettività dei detenuti. Quella parte non venne inserita dal successivo governo giallo-verde nei decreti legislativi in esecuzione della legge delega. Anche se la legge lo consente, nell’81,3 per cento delle carceri non è poi possibile collegarsi a internet. Oggi, di fatto, l’emergenza Covid-19 sta obbligando la sperimentazione di alcuni di questi punti. “Le restrizioni sono accettabili quando hanno un senso, quando si è davanti a un pericolo. Ma che rischio può comportare una liberalizzazione delle comunicazioni con i propri cari?”, chiosa Musumeci. “La speranza è che dal male di questi giorni possa venire qualcosa di buono per i diritti futuri dei detenuti”. Mauro Palma: “Carceri dimenticate nell’emergenza coronavirus” di Daniele De Luca estremeconseguenze.it, 3 marzo 2020 Solo oggi il Governo prende in considerazione tra le categorie a rischio anche la popolazione carceraria, oltre a tutti coloro che in qualche modo ci lavorano (Polizia penitenziaria, personale sanitario, addetti pulizie, parenti, volontari etc..). Parliamo quindi di decine di migliaia di persone. Un “popolo” che in questi primi dieci giorni di emergenza (senza contare le incubazioni precedenti all’allarme mediatico) è stato lasciato completamente da solo. Ogni autorità locale ha agito in maniera indipendente, ogni tribunale di sorveglianza ha seguito una sua linea. Dei detenuti interessa poco in tempi normali, figuriamoci in questi giorni. “Non c’è nessun provvedimento nazionale in atto - dice il Garante nazionale dei detenuti Mario Palma - e questo è un problema. Stiamo aspettando in queste ore, finalmente, una prima linea comune. C’è più rigore per i colloqui con i parenti, ovviamente, ma è sempre consentito consegnare dei pacchi al detenuto. Non abbiamo notizie di tamponi a campione nelle varie carceri. Non abbiamo notizia di misure sanitarie specifiche. Al momento quello che notiamo è una maggior “chiusura” di tutte le attività. Questo significa anche che i detenuti in semilibertà sono costretti a stare 24 ore al giorno in carcere, e questa in pratica è anche una violazione della Costituzione. Quindi siamo davanti a singoli provvedimenti di singoli provveditori. Il mondo esterno chiude il carcere dentro sé stesso. E questo è un approccio che non ci può trovare d’accordo. Al momento non abbiamo notizie di contagi ma nemmeno di verifiche. Insomma manca una unitarietà di provvedimenti. Tantomeno abbiamo notizia di iniziative specifiche nei Cpr, parliamo davvero degli ultimi tra gli ultimi. Qui abbiamo una popolazione nettamente inferiore, circa 560 persone, dove forse l’unico vantaggio, per loro, è il fatto che generalmente vivono in isolamento e non hanno praticamente spazi comuni, non hanno visite di parenti, non hanno mense in comune se non in qualche caso. Paradossalmente la loro condizione di detenzione, rispetto al rischio virus, li mette più al sicuro” conclude Palma. Coronavirus, nuove indicazioni del Dipartimento giustizia minorile gnewsonline.it, 3 marzo 2020 Il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità (Dgmc) ha fornito nuove indicazioni per prevenire il rischio di diffusione del contagio da Covid-19. Vengono dettati alcuni obblighi informativi ai dipendenti del Dipartimento, in particolare a coloro che hanno in programma, a qualsiasi titolo, spostamenti nelle “aree a rischio”. In un passaggio del documento è scritto che non dovranno recarsi in ufficio i dipendenti con infezione respiratoria acuta (insorgenza improvvisa di almeno uno dei seguenti sintomi: febbre, tosse, dispnea) e che nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della sintomatologia, abbiano soddisfatto almeno una delle seguenti condizioni: • storia di viaggi o residenza in Cina; • contatto stretto con un caso probabile o confermato di infezione da Covid-19; • abbia lavorato o ha frequentato una struttura sanitaria dove sono stati ricoverati pazienti con infezione da Covid-19. Il documento diramato dal Dipartimento fornisce, inoltre, alcune istruzioni sui corretti comportamenti da adottare per contenere l’emergenza epidemiologica. Amnistia non è una brutta parola. Soprattutto in tempi di coronavirus di Davide Varì Il Dubbio, 3 marzo 2020 Sovraffollamento ed emergenza sanitaria: il carcere è una bomba pronta a esplodere. Si può tornare a parlare di amnistia? Non siamo negli anni 70: il “Fattore K” che bloccava la democrazia italiana è un lontano ricordo. Insomma, il termine “emergenza” non evoca nessun golpe, nessun arretramento permanente delle libertà. Certo, diritti e garanzie vanno sempre maneggiati con cura perché si tratta di principi assai delicati. Ma la decisione del governo di limitare momentaneamente, e solo per alcune aree d’Italia, la libertà di movimento, di istruzione e di “assembramento”, è del tutto comprensibile in una situazione in cui un nuovo virus rischia di paralizzare il nostro sistema sanitario e minaccia seriamente la nostra salute. Detto questo va però segnalata un’altra emergenza che il governo dovrebbe affrontare con la stessa determinazione: è l’emergenza carceri. Quello carcerario è infatti un sistema che rischia di collassare da un momento all’altro e che, come denunciano da settimane tutti gli operatori che negli istituti penitenziari italiani lavorano e “vivono”, rappresenta una vera e propria bomba sanitaria pronta a esplodere. E allora nel dibattito pubblico italiano dovrebbe tornare ad affacciarsi una parola dimenticata, sepolta dalla narrazione manettara degli ultimi 10 anni: amnistia. Una parola che ormai è diventata un tabù ma che da sola potrebbe risolvere due emergenze: quella sanitaria, legata al nuovo Coronavirus, che in carcere rischia di moltiplicarsi velocemente; e quella che da anni pone l’Italia in uno stato di illegalità: quante volte la Corte europea dei diritti dell’uomo e l’Ue stessa hanno parlato delle carceri italiane come avamposto dell’inciviltà e dell’illegalità? Il sovraffollamento, le condizioni igienico-sanitarie, la quasi totale assenza di programmi di recupero per detenuti - così come previsti dalla nostra Costituzione - fanno delle nostre carceri dei luoghi in cui i diritti e le garanzie vengono calpestati quotidianamente. Amnistia non è una brutta parola né sinonimo di inciviltà, come pensa qualcuno. Soprattutto in tempi di Coronavirus. “Pene esemplari e galera non servono a niente: questi ragazzini hanno bisogno di accudimento” di Simona Musco Il Dubbio, 3 marzo 2020 La morte del giovanissimo Ugo Russo vista da Samuele Ciambriello, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personali. “La cosa che mi fa più tristezza sono queste tifoserie, che vogliono dividerci tra una vittima e l’altra. E nessuno vede che si tratta di adolescenti a metà, di persone con un vuoto interiore enorme, che nessuno cerca di colmare”. Soffre, Samuele Ciambriello, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Soffre per Ugo Russo, ucciso durante un tentativo di rapina, ma soffre anche per chi ha sparato, ora costretto a fare i conti con le conseguenze irreversibili delle proprie azioni. Soprattutto perché l’ennesimo caso di cronaca, anziché far interrogare sul da farsi, diventa l’ennesimo episodio da cannibalizzare a uso e consumo della politica. Che trova le proprie tifoserie, racconta al Dubbio, sempre pronte ad applaudire e mai ad interrogarsi. “Bisogna far capire che non è abbassando l’età punibile che si risolvono i problemi: serve accudimento”. Garante, quello che è accaduto a Napoli ha fornito l’ennesima occasione per reclamare leggi speciali per la Campania. La soluzione è questa? Le do un dato per farle capire la situazione: in Emilia Romagna, nel 2019, sono stati arrestati molti minorenni, giovani fino a 18 anni, per ferimenti e uccisioni, anche molto brutali. Più che a Napoli. Questo vuol dire che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, bensì cercare di capire cosa accade ai minorenni e cercare delle soluzioni. E cosa accade? Alcuni vivono una precarietà economica, altri una precarietà familiare, affettiva, culturale. Ci sono quelli che evadono l’obbligo scolastico, ma anche stavolta i numeri più alti non sono in Campania, come si potrebbe credere: l’anno scorso, su 500mila giovani che dovevano arrivare alla maturità, 80mila non ci sono arrivati e la prima regione di non diplomati è la Toscana. La Campania è seconda, seguita dalla Sicilia. Chi intercetta questi adolescenti? Il problema è proprio questo. Si riesce a farlo solo quando molti di loro passano dal disagio alla devianza e purtroppo alla microcriminalità, la terza fase. E a quel punto tocca citare Pasolini: in questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza, il più colpevole son io. Siamo noi che non abbiamo capito come intervenire e non lo abbiamo fatto. Questo ragazzo, ad esempio, era stato aiutato dai servizi sociali, non era un pregiudicato, però credo che molti di loro siano adolescenti a metà, hanno la morte nel cuore. Una volta c’era chi viveva la delinquenza per comprare un motorino, per fare l’abbonamento al Napoli o le vacanze. Ora vogliono tutto e subito. Ma questo perché accade? Hanno un vuoto esistenziale dentro. Nel loro codice non c’è una scala di valori. Sono adolescenti a metà, vivono di istinti e di istanti, rimanendo distinti e distanti dalla comunità. E quando accade in questi quartieri, in questa solitudine, in questa povertà anche educativa sono in balia dei loro istinti. E quello è l’ennesimo fallimento di una comunità. Tendiamo a dimenticarci che siamo noi singoli a formare lo Stato. E quando si parla di queste situazioni a cosa si pensa? Ad abbassare l’età punibile, anziché cercare soluzioni. Non si può pensare una cosa del genere. O, appunto, si pensa alle leggi speciali. I dati sono allarmanti e riguardano non solo la Campania, bisogna prenderne atto. Quindi la soluzione non può essere questa. Quelli che la pensano così sono convinti che il contenimento, l’esigenza di sicurezza, il carcere siano la soluzione. Però sono aumentati i detenuti nelle carceri, adulti e minorenni, mentre sono diminuiti i reati. Allora c’è qualcosa che non va, nelle leggi e nella loro applicazione, nella loro interpretazione. Accanto al contenimento, questi adolescenti a metà hanno bisogno dell’accudimento, cioè della tutela dei loro diritti. A partire dai casi di dispersione scolastica: bisognerebbe intervenire e consentire anche l’affidamento temporaneo altrove, per garantire tutta una serie di servizi. E poi sì, istituirei un’aggravante per il branco: da soli questi ragazzi non sono nulla. E come possono essere garantiti questi servizi? In Campania, ad esempio. è stato sperimentato, con Bassolino, il reddito di cittadinanza per i minori, che veniva erogato con servizi, oltre che con denaro. Ciò voleva dire che se i bambini venivano portati a scuola, magari anche di pomeriggio, allora veniva consegnato il reddito di inclusione, assieme ad una serie di servizi. E questo dobbiamo dare: inclusione. Ma anche accudimento. C’è uno Stato che deve dimostrare di rispettare la propria responsabilità educativa. Questa tragedia mi amareggia, perché vedo dei tifosi sulle gradinate, senza biglietto, che si divertono a giocare come fossero allo stadio. Io farei silenzio. Anche il giovane che ha sparato sta vivendo con un animo inquieto, non ha bisogno di tifosi, nemmeno lui. Ma sbagliano anche i genitori del ragazzo a minimizzare, come se fosse una bravata. Ci rendiamo conto che le pistole vengono regalate come un giocattolo anche a livello familiare? Però le tifoserie ci sono. Io non mi faccio dividere, mi rifiuto. Mi chiedo, piuttosto, dove ho sbagliato io stesso. Credo che occorra liberare i minori dalla povertà educativa per renderli adulti responsabili. Abbiamo bisogno di più educatori, di più maestri di strada. Abbiamo bisogno di più investimenti nelle politiche sociali, di considerare la cultura come se fosse un ottavo sacramento. Occorre fare investimenti di prevenzione, anche attraverso lo sport. E servono testimonianze. E anche quando passano dal disagio alla devianza dobbiamo mettere in campo delle risposte. Come progetti di accoglienza, sostegno, integrazione e anche, se necessario, di allontanamento temporaneo. La genitorialità incarcerata di Alessandra Mosca stateofmind.it, 3 marzo 2020 La genitorialità in carcere è spesso privata del diritto all’affettività, ma alcuni cambiamenti hanno aperto a una visione diversa e di maggior tutela. La vita prima del carcere diviene un ricordo lontano e la vita dentro la prigione diviene la nuova realtà con cui fare i conti. Questo cambiamento non è lineare, soprattutto se si è genitori. Il penitenziario deve rispettare i diritti inviolabili dell’uomo, nonostante rimanga una struttura detentiva. Il secondo articolo della nostra Costituzione, infatti, sancisce che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Tra questi diritti inviolabili dell’uomo ritroviamo sicuramente il diritto all’affettività e alla sessualità (Della Bella, n.d). Tra le varie modalità per attuare questi principi, i detenuti hanno a disposizione i colloqui e la possibilità di mantenere una corrispondenza telegrafica ed epistolare, come sancito dagli articoli, rispettivamente, 37 e 38 della legge 230/2000. Il diritto all’affettività inevitabilmente comporta anche il diritto alla genitorialità: poter mantenere legami con i propri figli rimane un diritto imprescindibile dell’essere umano. In Italia ci sono 27.355 detenuti che hanno uno o più figli e che si vedono costretti a cercare di mantenere il ruolo paterno o materno dal luogo detentivo (Associazione Antigone, 2019). Quanto detto ci permette di comprendere quanto debba essere difficile essere un genitore in carcere, vedere i propri figli poche volte a mese, in spazi angusti e freddi, che limitano l’interazione e non aiutano la vicinanza emotiva. Gli spazi del carcere risultano anaffettivi, impermeabili agli affetti e all’emotività, che sembra essere cancellata. La detenzione, però, si pone come obiettivo anche quello della ri-educazione, che non può svilupparsi senza esplorare anche queste parti del sé, legate ai sentimenti e agli affetti (Augelli, 2012). La genitorialità in carcere si vede spesso privata del diritto all’affettività, in quanto l’istituto penitenziario attua un meccanismo di spoliazione che priva i detenuti, non solo dei loro effetti personali, ma anche dei loro affetti. La distanza dal mondo esterno, la chiusura in un sub-universo carcerario con regole proprie, orari definiti, tempi vuoti, condivisione totale con gli altri internati, portano a una lenta alienazione dell’individuo che lentamente perde anche la propria identità affettiva, necessaria e fondamentale per il reinserimento nella società (Iori, 2014). Per il figlio, il genitore rappresenta una figura di riferimento e di attaccamento, una fonte di supporto non solo materiale ma anche affettiva. Risulta chiaro come sia estremamente complesso continuare a porsi come una figura di riferimento, anche a causa dello stigma che si va ad imporre sulla figura del detenuto. Il genitore imprigionato va verso una doppia perdita, una legata alla propria libertà individuale e una legata alla quotidianità del rapporto con il figlio. L’incontro tra i due avviene, come già stato detto, in luoghi lontani dalla familiarità della propria casa, in ambienti che possono spaventare e distanziare piuttosto che riavvicinare (Margara, Pistacchi e Santoni, 2005). I colloqui, unico momento di riunione familiare, diventano un momento focale per il detenuto, che può cercare di ricucire rapporti bruscamente interrotti e rompere silenzi imposti. Le stanze per i colloqui, in quest’ottica, non favoriscono la riparazione, essendo spazi chiusi, piccoli, sovraffollati, rumorosi e costantemente sorvegliati. Oltre alla componente fisica delle stanze per i colloqui, bisogna sottolineare un’ulteriore difficoltà che si pone ai genitori: la frammentarietà e discontinuità dei contatti con i propri figli e familiari. Questo porta alla costante interruzione della narrazione che si sviluppa sia tra il genitore e il figlio, sia dentro il sé del detenuto. Le complesse pratiche burocratiche necessarie alle visite e la mancanza di tempi prolungati per gli incontri, fanno sì che si creino lunghi momenti di vuoto e di silenzio. La burocrazia per la richiesta del colloquio, perfettamente inserita nella macchinosità degli istituti penitenziari, spesso rischia di snaturare l’incontro, togliendo qualsiasi forma di naturalezza e spontaneità (Augelli, 2012). La reclusione porta con sé una grande trasformazione nella percezione del sé che l’individuo ha precedentemente creato. La vita prima del carcere diviene un ricordo lontano e la vita dentro la prigione diviene la nuova realtà con cui fare i conti. Questo cambiamento non è lineare, soprattutto se si è genitore. I genitori detenuti, improvvisamente allontanati dai propri figli, si vedono appesantiti da sentimenti di impotenza, inadeguatezza e senso di colpa (Musi, 2012), derivati anche dall’etichetta sociale loro attribuita, che mina profondamente il sentimento di efficacia e di legittimazione del soggetto. L’incarcerazione altera la natura bidirezionale del rapporto, in quanto viene meno la continuità e la costante e reciproca comunicazione (Cassibba, Lunchinovich, Montatore e Godelli, 2008). Essendo la popolazione maschile detenuta estremamente superiore a quella femminile, ritroviamo molti più casi di paternità in carcere. I padri detenuti modificano il proprio ruolo, andando spesso ad assumere una tendenza al dispotismo. Questa funzione autoritaria nei confronti dei figli nasce come una strategia compensatoria rispetto ad una grande fragilità. I padri cercano di avere un maggiore controllo sulla vita dei propri figli per ottenere rispetto e considerazione, e quindi per auto-legittimarsi ad essere padri. Anche la percezione dell’affetto cambia; infatti, l’accondiscendenza e l’obbedienza dei figli diviene sinonimo di affetto e vicinanza, come spiega Bouregba (citato in Cassibba et al, 2008). I padri inoltre tendono ad una forte idealizzazione del rapporto con i propri figli, che viene visto come estremamente positivo, quasi ad annullare il riconoscimento di una dimensione conflittuale e di difficoltà. La forte idealizzazione porta anche a una distorsione dell’immagine del figlio, che non si sente riconosciuto dal proprio padre. Alla luce di quanto detto si nota come questi rapporti, che dovrebbero essere forti e stabili, siano in realtà fragili e deboli. Non sono soltanto i genitori a doversi confrontare con nuovi sentimenti ma anche i figli vengono appesantiti da sentimenti quali la rabbia, la delusione e la nostalgia (Musi, 2012). L’incarcerazione relega fisicamente l’individuo e lo sottopone ad un distacco emotivo forzato, a pesanti silenzi e a forti nostalgie. Il carcere, però, non è più un luogo di mero contenimento ma è diventato uno spazio di ri-educazione del reo. In quest’ottica non si può prescindere dall’educazione all’affettività che permette di andare incontro ad un processo di umanizzazione, portando l’individuo a riappropriarsi della propria identità e della propria umanità. L’educazione all’emotività si inserisce nel più ampio progetto del carcere alla ri-educazione (Augelli, 2012). Questa nuova visione della genitorialità in carcere e della finalità degli stessi istituti penitenziari, ha portato il 21 marzo 2014, alla stesura della Carta dei figli dei genitori detenuti, protocollo d’intesa siglato tra il Ministero della Giustizia, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e la Onlus Bambinisenzasbarre (Tomaselli, 2014). Questo documento ha ufficializzato i diritti dei figli dei detenuti, che fino a quel momento non erano tutelati formalmente. Questo Protocollo rappresenta un importante cambiamento della percezione del rapporto con i figli; si inizia a dare sempre più importanza al diritto che hanno i figli nella relazione. Inizia ad esserci un tentativo sempre maggiore di umanizzazione delle carceri; infatti, nonostante il Protocollo sia in difesa dei diritti dei bambini, cercando di tutelare i loro diritti, si va anche a rispettare il diritto alla genitorialità in carcere e il diritto agli affetti e all’emotività dei detenuti. Appello per Cecchi Gori (e per tutti i vecchi in cella) di Tiziana Maiolo Il Riformista, 3 marzo 2020 Che senso ha chiedere che una persona vecchia e malata vada per 8 anni in carcere? Accade spesso. Oggi ne parliamo perché il produttore è famoso, ma queste persone non devono stare in galera. Vittorio Cecchi Gori: che cosa è se non pena di morte, sbattere in galera una persona di 78 anni, già in pessime condizioni di salute? Il produttore cinematografico era ricoverato per controlli al Policlinico di Roma, quando, giovedì scorso la Cassazione ha emesso nei suoi confronti la conferma di condanna per bancarotta fraudolenta, anche se i fatti risalgono a 19 anni fa. La procura generale ha immediatamente applicato il cumulo con una precedente condanna e il conto è presto fatto: 8 anni, 5 mesi e 26 giorni. Cecchi Gori potrà uscire dal carcere quando avrà 86 anni. Lui è famoso e ne parliamo. Ma ogni carcerazione di una persona vecchia e malata è una pena di morte. Non basta il coronavirus, ci si mette anche la magistratura, a cercare di sterminare gli anziani. Prendiamo il caso di Vittorio Cecchi Gori: che cosa è se non pena di morte, sbattere (pardon, “tradurre”, è più fine) in galera (pardon, istituto di pena) una persona di 78 anni già in pessime condizioni di salute? Il famoso produttore cinematografico ha avuto la “fortuna” di essere ricoverato per controlli in seguito a un malore al Policlinico di Roma, quando, alle 19,57 di giovedì scorso la corte di cassazione emetteva nei suoi confronti la conferma di condanna per bancarotta fraudolenta. La procura generale aveva immediatamente applicato il cumulo con una precedente condanna e il conto era presto fatto: 8 anni, 5 mesi e 26 giorni. Cecchi Gori potrà uscire dal carcere quando avrà 86 anni abbondanti. È stato condannato per fatti di diciannove anni fa, ma di che stupirsi? Si sa che la giustizia è lenta, giusto? Invece no. Infatti, subito dopo la sentenza, con precisione svizzera, nella stessa serata, viene emesso nei suoi confronti l’ordine di carcerazione. Le manette erano pronte, senza neanche dare il tempo al suo avvocato, vista l’età e viste le condizioni di salute del condannato, di avanzare richiesta di detenzione domiciliare. Ma lui ha la “fortuna” di essere in ospedale perché sta male, ha avuto un’ischemia e poi un attacco di peritonite, inoltre è cardiopatico e non cammina se non si appoggia ad altri e procede lentamente, proprio come un “vecchietto”. Quindi per ora non è in prigione, ma intanto è piantonato, perché potrebbe pur sempre darsi alla fuga, ovviamente. I giudici gli stanno con gli occhi addosso e, se appena appena lui ce la farà, anche in barella dovrà andare a Rebibbia. A farsi rieducare, come dice la Costituzione. Così poi, quando tornerà a casa e sarà quasi un novantenne, avrà imparato a comportarsi meglio. Viene alla memoria quanto accaduto non più tardi di due anni fa, nell’autunno del 2018, allo psicanalista Armando Verdiglione, che allora aveva 74 anni, condannato per una controversa evasione fiscale, cui non fu consentito di presentare richiesta di arresti domiciliaci perché, gli fu detto, “prima” doveva andare in galera, e “poi” presentare la domandina. Che comunque gli fu poi respinta, insieme al trasferimento dal carcere di Bollate (regime di bassa sorveglianza) a quello di Opera, in genere riservato ai condannati per i reati più gravi e per detenuti in regime di 41 bis. In poche settimane Verdiglione perse 24 chili di peso, il suo corpo arrivò quasi al limite oltre al quale gli organi vitali cominciano a non funzionare più, ed era una larva umana quando finalmente tornò a casa, dove continua a essere in regime di detenzione domiciliare. Non è chiaro, anche a voler entrare nella testa del più severo e rigoroso giustiziere, che cosa ci si aspetti possa fare di buono una prigione per una persona che è giunta agli ultimi anni della propria vita, come Vittorio Cecchi Gori. Si dice spesso che persino in certe case di riposo la persona molto anziana e malata, dopo esser stata lì parcheggiata, non può far altro che lasciarsi rapidamente morire. Di abbandono e di solitudine. Il carcere è qualcosa di più, è trauma e violenza, come traumatica e violenta può essere solo la privazione della libertà. Ogni carcerazione di una persona vecchia e malata è una pena di morte, che non riguarda solo Cecchi Gori o Verdiglione. Di loro si ha notizia soprattutto perché sono famosi. Per il produttore si è mossa una piccola porzione del mondo del cinema, dal regista Marco Risi a Christian De Sica fino a Lino Banfi. Proprio a quest’ultimo vogliamo rivolgerci, perché ci ha appassionato, nel corso di tanti anni, la saggezza di Nonno Libero, il generoso ferroviere comunista che conosceva la vita e si prodigava per gli altri. Ci piace pensare che lui sia così anche lontano dai teleschermi. Facciamo qualcosa insieme perché Cecchi Gori possa scontare la sua pena in un carcere casalingo (perché è sempre privazione della libertà, ricordiamolo), per ora. Ma dopo, non dimentichiamo che, da San Vittore a Rebibbia e in tutte le carceri italiani, ci sono decine, forse centinaia di persone molto anziane e molto malate private della libertà, che non possono far altro che morire. Se siamo, come siamo, contro la pena di morte, facciamo sì che possano tornare a casa, tutti. Troppo allarme sul Covid19, troppo poco sul Trojan di Barbara Alessandrini L’Opinione, 3 marzo 2020 Discussioni e confronti ospitati dai media si piegano alla dittatura della cronaca e all’attualità delle notizie. Non ci si può far molto. Ne è prova il fatto che mentre a tener banco sui quotidiani e nei talk show continuano ad essere la paura, l’allarme e le misure per contenere la nuova emergenza sanitaria da Covid19, è già velocemente andato in archivio il confronto pubblico su un altrettanto, se non più insidioso e liberticida virus, il Trojan di Stato, protagonista di uno dei baratti più indecenti con cui si è conclusa la scorsa settimana politica. Se, per dirla con Burke, “Ogni forma di governo di fonda sul compromesso e sullo scambio” ve ne sono alcuni come questo ingiustificabili, anche dall’emergenza sanitaria da Crorona virus che sta impegnando il governo a riacciuffare una gestione iniziale quanto mai cialtrona e segnata dall’incompetenza. Questa settimana, dunque, apre un periodo in cui al timore di difenderci dal Covid19 dovremo aggiungere anche la preoccupazione di guardarci in qualsiasi conviviale riunione anche casalinga dall’altrettanto, se non più insidioso e liberticida, virus informatico. Del malware l’Opinione (insieme a pochissime altre testate) si fregia di essersi occupata, intravedendone il potenziale liberticida, quando ancora la nascitura misura, di cui di lì a breve, nel 2017, l’ex guardasigilli Andrea Orlando avrebbe consentito l’utilizzo nelle inchieste per i reati gravi per captare comunicazioni tra presenti, non richiamava l’attenzione e l’allarme che ora, sebbene per poco, giustamente e finalmente ha meritato e ricevuto dai media in occasione della recente fiducia votata al dl intercettazioni che ne prevede l’uso ed amplia il ventaglio delle ipotesi delittuose per cui i Pm potranno richiederne l’utilizzazione. A rischio di incorrere in tardiva pedanteria è bene ripetere che con l’uso del Trojan nei cellulari e nei computer di casa, verranno registrate qualsiasi conversazione o scambio anche in video, aprendo la strada alle cosiddette intercettazioni a strascico. Quelle che serviranno, con aberrante effetto domino, a cercare altri reati, diversi da quelli per cui verranno autorizzate. Per la gioia delle società private che gestiranno le intercettazioni e quindi controlleranno le nostre vite, avendo tutto l’interesse ad alimentare un lucroso Grande fratello che evoca la invasiva capacità di controllo dei ragnetti metallici di Minority Report. E dei Pubblici ministeri a cui la nuova legge conferisce in esclusiva, togliendolo alla polizia giudiziaria, la gestione e la disponibilità delle intercettazioni effettuate con il Trojan. La tempistica della genesi di una misura tanto lesiva dei capisaldi costituzionali posti a presidio delle libertà e della tutela della riservatezza delle conversazioni di ogni individuo è già di per sé indice del grado di pressione che la magistratura ha instancabilmente operato sulla politica per arrivare a questo meccanismo di controllo di massa che infligge una ulteriore torsione antidemocratica di cui il nostro paese davvero non sentiva la mancanza e con cui ogni cittadino cederà quote fondamentali di garanzie e di libertà individuali alla pretesa inquisitoria selettiva, agli arbitri delle procure ed agli inevitabili cortocircuiti a cui l’interpretazione normativa ma anche l’impreparazione dei già intasati uffici giudiziari a sistemare la ciclopica mole di captazioni, lasceranno ampio spazio. Già, perché da questa settimana (in realtà dal prossimo maggio) il nome di chiunque di noi finisca come argomento di conversazione pronunciata e captata tra le quattro mura di un domicilio privato nell’ambito di una qualsiasi indagine, potrà ritrovarsi a sua volta indagato e poi imputato secondo l’uzzolo del pm che deciderà se rappresentiamo o meno un caso “interessante”, politicamente e mediaticamente vantaggioso. Effetto appunto, delle intercettazioni a strascico. Mentre nel 2017 già la legge firmata dall’ex ministro Orlando, piegatosi alle richieste delle spinte più punitive della magistratura aveva previsto l’utilizzo del Trojan nelle inchieste per i reati gravi solo per captare comunicazioni tra presenti, con la successiva e recente legge Spazza corrotti del 2019, esso viene esteso ai reati contro la PA commessi da pubblici ufficiali e funzionari della Pa per reati per cui la pena massima non sia inferiore a cinque anni, a cui la legge appena liquidata in parlamento aggiunge le indagini su incaricati di pubblico servizio. A gennaio, una sentenza delle Sezioni Unite si esprime in modo inequivocabile contro le intercettazioni a strascico ma un emendamento chirurgico dell’ex procuratore nazionale antimafia Aldo Grasso blocca gli effetti della sentenza. Stabilendo poi che ciò che non sarà direttamente utilizzabile per il reato per cui sono state autorizzate le captazioni, potrà costituire ‘notitia criminis’, per avviare altre intercettazioni. Una messa a sistema dell’ossessiva impostazione inquisitoria che cerca altri crimini partendo da un’indagine, secondo l’onnipresente principio davighiano “sono tutti colpevoli non ancora scoperti”. E arriviamo al compromesso, spinto da Roberto Fico, sulla tempistica del baratto parlamentare: il via libera senza inciampi alle misure per il corona virus in cambio della fiducia al dl Intercettazioni che modifica la riforma Orlando. Attività da mercanti in fiera, dunque, che ha dissolto anche ogni ombra di proudness per le garanzie dei renziani, tartufescamente allineati al Pd, a Grasso e ai 5Stelle, e paghi dell’incasso di un semplice aggettivo, quel ‘rilevanti’ riferito alle captazioni con Trojan ritenute autorizzabili. Epiteto tanto vago quanto ininfluente per la salvaguardia di garanzie e diritti di chi di quelle captazioni sarà bersaglio. I tatticismi di una classe politica che, sotto i diktat dei settori più retrivi della magistratura, nemmeno per un istante è stata colta da esitazione nell’amputare fondanti principi costituzionali e dei cui madornali errori il tempo a restituire le prove, sono riusciti a calpestare un’altra fetta di principi cardine della democrazia e dello stato di diritto su cui si è edificata la nostra democrazia. Ma davvero la cecità della nostra politica è tale da non comprendere che la forza distruttrice di norme che infliggono un radicale vulnus alle tutele individuali come i diritti alla privacy (le captazioni sono consentite nelle case private) e consentono che l’autorità dello stato aggredisca e si impossessi dell’esistenza di tutti, non risparmierà chi le ha imposte al paese? Intercettazioni. Pignatone: “Aumenta il diritto di difesa ma attenzione alle fughe mediatiche” Il Dubbio, 3 marzo 2020 L’ex procuratore di Roma analizza la nuova legge. E sulla divulgazione sui giornali delle inchieste dice: chiedete agli avvocati. “Nei giorni scorsi il Parlamento ha approvato con decorrenza dal 1 maggio, la nuova disciplina delle intercettazioni apportando molte modifiche alle norme introdotte nella precedente legislatura, ma mai entrate in vigore. Vi sono state e vi sono infuocate polemiche, dato che in questa materia entrano in gioco la tutela della riservatezza, il diritto dello Stato di sanzionare gli autori del reato (e quindi le esigenze delle indagini), il diritto di difesa, anche delle vittime e, infine, la libertà di espressione del pensiero e di informazione. Si tratta di beni di fondamentale importanza, tutti costituzionalmente tutelati, ma in qualche modo in conflitto tra loro e spetta al legislatore trovare un punto di equilibrio tra essi”. Inizia così il un lungo intervento su “La Stampa” di Giuseppe Pignatone, già capo della Procura della capitale, voluto dal Papa come presidente del suo Tribunale, esaminando alcuni aspetti “di una disciplina estremamente complessa”. Sul diritto di difesa - sottolinea Pignatone - la nuova legge fa registrare un miglioramento significativo. Sono state infatti modificate le norme che, come a suo tempo concordemente evidenziato da magistratura e avvocatura, limitavano o rendevano estremamente difficoltosa la conoscenza degli atti da parte del difensore”. “La moderna tecnologia - evidenzia - consente di registrare, con appositi software, non solo le conversazioni telefoniche, la posta elettronica e altre forme di comunicazione, ma anche tutto ciò che viene detto nel luogo in cui il cellulare o altro device informatico intercettato si trova. Si tratta dunque di uno strumento di eccezionale invasività che rischia di azzerare la privacy dei soggetti coinvolti ma che, proprio per questo, può essere estremamente utile alle indagini. Spetta al legislatore fissare il punto di equilibrio fra le due esigenze.” “La legge appena approvata ha fatto una scelta netta, confermando e ampliando la possibilità di utilizzare il trojan per una vasta gamma di reati, compresi quelli contro la pubblica amministrazione. Una scelta contestata da una parte delle forze parlamentari e dalle Camere Penali, che ritengono eccessivo e ingiustificato il sacrificio della riservatezza del singolo cittadino, che può anche essere estraneo alle indagini. Secondo Francesca Businarolo, presidente della Commissione Giustizia della Camera, invece, i dubbi sull’uso del trojan “sarebbero fondati in una società diversa dalla nostra, diciamo in una Italia ideale dove la corruzione fosse un accidente. Ma non è così: il nostro Paese è da troppi anni nella morsa della illegalità”. Come si vede, una contrapposizione frontale”. “Un progresso - secondo Pignatone - è anche l’attribuzione al pubblico ministero del compito di vigilare perché non vengano trascritte” espressioni lesive della reputazione delle persone o che riguardano dati personali definiti sensibili, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini”. Una previsione coerente con il sistema processuale - secondo cui spetta al p.m., con le sue prerogative di indipendenza, la conduzione delle indagini - cui corrisponde anche una chiara attribuzione di responsabilità. Direi, anzi, che questo è uno dei punti chiave della nuova normativa, che contiene un messaggio forte alle Procure (e, prima ancora, alla polizia giudiziaria) perché procedano con il massimo scrupolo e la maggiore attenzione possibile alla selezione delle conversazioni da trascrivere”. “Peraltro - evidenzia - questa necessità era stata già avvertita da alcune importanti Procure, che già nel 2015 avevano adottato misure a tutela della riservatezza, specialmente quella dei terzi coinvolti occasionalmente nelle indagini, con l’emanazione di specifiche circolari, poi recepite in una direttiva del Csm ed espressamente richiamate nei lavori preparatori della legge del 2017. L’auspicio da tutti condiviso è che non si ritrovino più negli atti depositati le notizie “non rilevanti”, il mero gossip (o peggio), perché non sarà stato trascritto o perché resterà nell’archivio riservato. Questo, io credo, è un risultato concretamente raggiungibile”. Per quanto riguarda la rilevanza Pignatone ritiene “necessaria una precisazione. Il concetto di rilevanza varia da caso a caso (una relazione sentimentale può essere la causale di un omicidio) e soprattutto matura nel tempo. L’esperienza insegna che all’inizio di un’indagine, specie se complessa, la polizia giudiziaria e il p.m. hanno un’idea non precisa di ciò che è rilevante e di ciò che non lo è. Tale idea si definirà nel tempo, ma intanto molte notizie - che a posteriori potrebbero risultare o apparire irrilevanti - dovranno essere inserite negli atti e diventeranno note al momento del deposito”. “Va inoltre tenuto presente che il concetto processuale di “rilevanza” non sempre coincide con la comune accezione di questo termine: può presentare un perimetro ridotto, perché ciò che conta ai fini di un giudizio politico o morale può non rilevare per le indagini; oppure assumere un significato più ampio, perché nelle indagini di mafia, di terrorismo, di grande corruzione o di gravi reati economici, sono importanti - anzi importantissimi - i rapporti, le relazioni, e persino i semplici contatti intrecciati dal soggetto sotto controllo. Proprio per questo potrà accadere anche dopo il 1° maggio di leggere - perché ritenute utili al processo - almeno il 90% delle intercettazioni più famose degli anni passati, anche se nel fuoco delle polemiche di questi mesi, alcuni giornali hanno titolato “Quello che non leggerete più”. “Non ci sono, invece, mutamenti significativi sulla divulgazione mediatica dei risultati delle indagini e delle intercettazioni in particolare - sottolinea il presidente del Tribunale del Vaticano - È esperienza consolidata che il momento di maggiore diffusione informativa è quello che segue l’esecuzione delle misure cautelari, quando copia degli atti inviati dalla Procura al gip per ottenerne il provvedimento deve essere messa immediatamente a disposizione dei difensori. A evitare equivoci, non intendo sostenere che la fonte dei media siano i legali degli imputati, ma solo rilevare due dati di fatto: nello stesso momento in cui gli atti vengono consegnati ai difensori, cade il segreto ex art. 329 c.p.; inoltre si moltiplicano le persone a conoscenza delle informazioni, il che rende di fatto impossibile identificare da chi “attingano” i giornalisti”. “Su questo punto, la nuova legge non prevede modifiche della disciplina attuale e, anzi, autorizza la pubblicazione dell’ordinanza cautelare del Gip. Certo, l’art. 114 c.p.p. rinnovato vieta, come già in precedenza, la pubblicazione degli atti, e quindi delle intercettazioni in essi contenute: ma si tratta di una norma che tradisce la cattiva coscienza (se non l’impotenza) del legislatore che - forse anche per timore di violare il principio costituzionale della libertà di stampa - non ha ritenuto di prevedere sanzioni efficaci, anche di carattere economico, per giornalisti, direttori, editori. L’unica sanzione è rimasta quella prevista dall’art. 684 c.p., che consente l’estinzione del reato con il pagamento di poche decine di euro. È quindi ragionevole prevedere che continueremo a leggere atti di cui l’art. 114 vieta la pubblicazione”. “Dal quadro così sommariamente delineato - conclude Pignatone - emerge che ai fini del rafforzamento della tutela della privacy è decisiva la necessità di un’accurata selezione del materiale da trascrivere e la corretta comprensione del concetto di rilevanza. È una sfida che richiede nuove risorse, di personale e tecnologia, e che investe in primo luogo le Procure, gli Uffici g.i.p. e la polizia giudiziaria, chiamati a farvi fronte compiendo uno sforzo ulteriore per non sacrificare le esigenze, quantitative e qualitative, delle indagini. Un sacrificio che il legislatore non vuole e che i cittadini, io credo, non accetterebbero”. “Il rischio dei neonazi e la tenuta democratica minacciata dalla propaganda istigatoria” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 3 marzo 2020 L’allarme dei Servizi segreti. Nella sua relazione al Parlamento, il capo del Dis Gennaro Vecchione mette in guardia “dall’arma cibernetica”. “La tenuta dei sistemi democratici occidentali è a rischio, si sono moltiplicati i fronti di minacce, e ampliate le sfide”. Non è più solo il terrorismo di matrice islamica a preoccupare i nostri servizi segreti, ma anche “ una minaccia composita riferibile a processi di radicalizzazione individuali, la presenza di soggetti attestati su posizioni estremiste e una pervasiva propaganda istigatoria”. Gli episodi di violenza della destra radicale destano allarme nell’intelligence internazionale. Nella sua relazione al Parlamento “ sulla politica dell’informazione per la sicurezza”, il capo del Dis Gennaro Vecchione accende i riflettori sui rischi che arrivano dal web. “L’arma cibernetica in tutte le sue declinazioni, strumento privilegiato per manovre ostili, viene utilizzata per indebolire la tenuta dei sistemi democratici occidentali: si tratta di sistemi che possono mettere a rischio le stesse esistenze dei Paesi”, scrive. Rigurgiti neonazisti tra i giovani - “Sono emersi insidiosi rigurgiti neonazisti, favoriti da una strisciante, ma pervasiva propaganda virtuale attraverso dedicate piattaforme online. I profili più esposti, come emerge dalla casistica delle azioni, sono quelli dei più giovani. C’è il rischio che anche ristretti circuiti militanti o singoli simpatizzanti italiani possano subire la fascinazione dell’opzione violenta. Il monitoraggio informativo ha posto in luce come - prosegue la relazione degli 007 - accanto a formazioni strutturate e ben radicate sul territorio, si sia mossa una nebulosa di realtà skinhead ed aggregazioni minori, alcune delle quali attive soltanto sul web. Una galassia militante frammentata, che si è caratterizzata per una comunanza di visione su alcuni temi, quali la rivendicazione identitaria e l’avversione all’immigrazione, al multiculturalismo e alle Istituzioni europee, oltre che per momenti di corale, quanto estemporanea, convergenza in occasione di appuntamenti politico-culturali e commemorativi sul “fascismo delle origini”. Moltiplicate le sfide - “Oggigiorno si sono moltiplicati i fronti in grado di esprimere minacce dirette anche al nostro territorio e ai nostri assetti; la dimensione economico-finanziaria si è confermata rilevante nel confronto e nella competizione tra Stati; la sovranità tecnologica e digitale e la resilienza nel “quinto dominio” sono divenute centrali; Paesi da tempo impegnati in significative proiezioni di potenza su scala globale si sono dimostrati assertivi, mentre i sistemi di alleanza hanno talvolta incontrato difficoltà nel trovare voce e posizione univoca. Tutto questo ha ampliato a dismisura le sfide strutturali con le quali l’Intelligence è chiamata a misurarsi”., Minaccia Daesh resta elevata - “Le evidenze informative - si legge nella relazione - ci indicano che Daesh è particolarmente vitale nei territori di origine e contestualmente ha rafforzato la propria presenza in quadranti africani ed asiatici, con una marcata, preoccupante concentrazione nel Sahel”. “Peraltro, le azioni di stampo jihadista realizzate in Europa lo scorso anno confermano l’insidiosità di una minaccia che resta prevalentemente endogena e che ha visto, in linea di continuità con gli ultimi anni, l’attivazione di lupi solitari, il ricorso a mezzi facilmente reperibili e pianificazioni poco sofisticate”. I terroristi non arrivano sui barconi - “Non ci sono al momento segnali che i combattenti jihadisti abbiano o stiano utilizzando i canali migratori per raggiungere l’Europa. Lo scrivono gli 007 nella relazione al Parlamento confermando invece, per quanto riguarda la rotta tunisina, l’esistenza di “reti criminali italo-tunisine” coinvolte oltre che nel traffico di migranti anche nel contrabbando di tabacchi e nel traffico di droga”. Gli 007 segnalano inoltre due fenomeni connessi alla tratta: il ricorso alle ‘navi madrè e un aumento degli sbarchi fantasma. La jihad digitale - “Centrale ha continuato ad essere il ruolo del jihad digitale. Nel territorio nazionale, abbiamo dovuto prevenire e contrastare una minaccia composita, riferibile a processi di radicalizzazione individuali e dall’accelerazione imprevedibile, alla presenza di soggetti attestati su posizioni estremiste, ai propositi ritorsivi di Daesh, ad una pervasiva propaganda istigatoria”. “Con riguardo al fenomeno della radicalizzazione, il dispositivo messo in campo si è tradotto in mirate ed innovative modalità d’intervento, intese non solo ad individuare i soggetti che abbiano aderito alla visione jihadista, a valutarne la pericolosità e, ove possibile, a favorirne il disingaggio, ma anche a cogliere i segnali prodromici di percorsi di radicalizzazione suscettibili di sfociare nell’azione violenta”, ha spiegato Vecchione. La radicalizzazione in carcere - “Come per il resto d’Europa, l’ambiente carcerario continua a rappresentare, anche in Italia, una realtà sensibile sotto il profilo della radicalizzazione islamista, che agisce, a sua volta, da moltiplicatore di tensioni e pulsioni violente, nei confronti tanto dei detenuti di fede non islamica o non aderenti alla causa jihadista, quanto degli agenti penitenziari e del sistema carcerario”. “Aggressioni, disordini e manifestazioni di giubilo in occasione di attentati compiuti in Europa - sottolineano gli analisti del Dis - hanno fatto emergere la pericolosità di alcuni stranieri, detenuti per reati comuni e radicalizzatisi dietro le sbarre, per i quali è stato conseguentemente adottato provvedimento di espulsione”. Lesioni stradali perseguibili a querela di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2020 La procedibilità a querela delle lesioni stradali gravi e gravissime, nell’ipotesi “base” prevista dall’articolo 590 bis, comma 1, del Codice penale, è sempre più vicina: è infatti una delle misure che il Consiglio dei ministri, lo scorso 13 febbraio, ha approvato per rendere più rapidi i processi penali. Si tratta di una novità importante, che raccoglie consensi bipartisan tra le forze politiche, magistratura e avvocatura: tuttavia è passata sottotraccia, agli occhi dell’opinione pubblica, perché approvata dal Governo nel pieno delle polemiche legate all’entrata in vigore dello stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado. I tempi possono rivelarsi lunghi, perché il veicolo legislativo scelto è quello della legge delega, che dovrà prima essere approvata dal Parlamento e poi attuata dal Governo nel termine di un anno; ma l’entrata in vigore della procedibilità a querela può essere accelerata dalla Corte costituzionale, che deve ancora pronunciarsi sulla questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Milano (si veda “Il Sole 24 Ore” del 30 maggio 2019). La storia della procedibilità d’ufficio delle lesioni stradali gravi e gravissime ha inizio con la legge 41/2016. Il legislatore, plasmando il nuovo reato, lo ha articolato in diverse ipotesi, prevedendo per tutte la procedibilità di ufficio: la fattispecie “base” - che può essere commessa da “chiunque” violi una generica regola stradale (dunque anche un pedone o un ciclista che abbiano causato una lesione guarita in 41 giorni) e ricalca le pene precedentemente previste per gli stessi fatti - e le ipotesi aggravate (con significativi aumenti di pena), riferite solo ai conducenti di veicoli a motore che commettano violazioni particolarmente pericolose del Codice della Strada; abuso di alcol o droghe, eccessi straordinari di velocità, circolazione contromano e sorpassi azzardati. La scelta di mettere sullo stesso piano, ai fini della procedibilità del reato, condotte molto diverse - per disvalore della condotta dell’autore del reato, e conseguenze dannose per la vittima - ha destato da subito perplessità: tanto è che la legge 103/2017, delegando al Governo l’ampliamento dei reati contro la persona e il patrimonio perseguibili a querela, sembrava ricomprendere anche la fattispecie “base” dell’articolo 590 bis. Ciò non è poi avvenuto, nonostante il Parlamento, nel parere preliminare al Dlgs 38/2018 - che ha dato attuazione alla delega contenuta nella legge 103 - avesse esortato espressamente il Governo al cambio della procedibilità. Alla fine del 2018, il Tribunale di La Spezia ha perciò sollevato una questione di legittimità costituzionale del decreto 38, lamentando il mancato rispetto della delega legislativa: la Consulta, con la sentenza 223/2019, l’ha respinta sottolineando che la previsione della procedibilità a querela “si sarebbe posta in aperta contraddizione” con la scelta della procedibilità di ufficio, “compiuta appena due anni prima dal Parlamento”. Qualcosa è cambiato: nei mesi scorsi sono state presentate delle proposte di legge, alla Camera e al Senato, per introdurre la procedibilità a querela per il reato di cui all’articolo 590 bis, comma 1, e ora la misura viene fatta propria anche dal Governo. Con questi nuovi elementi dovrà misurarsi la Consulta, giudicando la questione sollevata dal Tribunale di Milano; sempre che non venga prima risolta dal legislatore, approvando subito una delle proposte di legge già presentate in Parlamento. Vista la raggiunta convergenza tra Governo e Parlamento sul punto, non sembra necessario dover attendere oltre un anno per consentire l’entrata in vigore di una modifica che, tra le altre cose, avrà il merito di snellire i ruoli giudiziari e incentivare il tempestivo risarcimento dei danneggiati da parte degli imputati e delle loro assicurazioni. Guida in stato di ebbrezza, la possibile interferenza di altri alcol non esclude validità del test di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 2 marzo 2020 n. 8165. Lo stato di ebbrezza alcolica dell’automobilista può essere rilevato anche per mezzo soltanto del test del sangue e nonostante la conoscenza scientifica del fatto che da tale test potrebbero emergere quantitativi di alcol diversi da quello etilico, contenuto nelle bevande alcoliche, assunti per altre vie, come alcuni farmaci. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n.8165depositata ieri, ha dato atto al ricorrente, condannato per un livello alcolico di 1,7 aver della possibile ambiguità delle risultanze dell’esame del sangue a confronto di quello effettuato sulle emissioni del respiro col alcoltest spirometrico. Si parla - in un precedente di Cassazione, citato dal ricorrente in proprio favore - di una sovrastima del 20% del tasso alcolemico rilevato solo con tale tecnologia. Ma nel caso concreto il tasso rilevato oltre la soglia massima indicata dal Codice della strada e la dinamica dell’incidente, tipico di chi si pone alterato al volante, secondo la Cassazione avrebbero tolto qualsiasi rilevanza all’abbattimento invocato dal ricorrente. Conclude la Cassazione affermando che gli operatori di pubblica sicurezza come i medici sono liberi di scegliere il test con cui fare il rilievo i cui risultati vanno corroborati da altri indizi, quali il comportamento mostrato in prossimità dell’incidente. La guida in stato di ebbrezza alcolica può quindi essere acclarata con una delle diverse metodologie a disposizione senza che la possibile interferenza di altri alcol presenti nel sangue mettano del tutto fuori gioco la validità dell’esame del sangue. Però lo stato di ebbrezza rilevato col solo esame ematico, consente alla persona sottoposta alla verifica, conclusasi con esito positivo, di fornire la prova che l’alcol rilevato nel proprio sangue non deriva del tutto o per niente dall’aver alzato il gomito. Truffa senza corruzione per il commercialista che non corrompe il Fisco di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 2 marzo 2020 n. 8481. Truffa per il commercialista che si fa consegnare dalla società una somma consistente di denaro per far ottenere la rateizzazione del debito tributario con il Fisco, anche se lo stesso poi non corrompe il personale di Equitalia. La decisione - In un passaggio della sentenza della Cassazione n. 8481/20 si legge testualmente che il difensore del professionista avesse adombrato la possibilità che il suo assistito si fosse accordato con altri due soggetti per corrompere funzionari di Equitalia Serit di Campobasso e indurli a concedere una rateizzazione senza la necessaria fideiussione, ma tale circostanza non è venuta alla luce a dimostrazione dell’illecito tributario commesso. L’alterazione delle quietanze di pagamento emesse dalla società incaricata della riscossione dimostrano anzi che la corruzione non è mai avvenuta. L’imputato, peraltro, avvalendosi della facoltà di non rispondere, oltre a non fornire giustificazione alcuna sulla sorte delle somme che gli erano state personalmente consegnate neppure ha affermato che sussisteva un simile accordo. Non risulta però possibile la contestazione da parte dell’indagato della non punibilità ex articolo 115 del codice penale non rientrando il caso illecito nella fattispecie di quasi reato ai sensi della citata disposizione normativa. Infatti la sentenza chiarisce che da un punto di vista strettamente giuridico le truffe vengono realizzate anche solo inducendo in errore la persona offesa prospettando falsamente la possibilità di ottenere un ingiusto vantaggio attraverso la corresponsione di una somma di denaro. E l’imputato si è mosso all’interno di questa cornice: colpevole di truffa pur non avendo corrotto nessuno. Lombardia. Controlli esterni per i nuovi detenuti prima di entrare in carcere osservatoremeneghino.info, 3 marzo 2020 “Protezione civile ha iniziato ad installare delle tende pneumatiche all’interno del perimetro dei 18 istituti penitenziari lombardi. L’obiettivo è quello di poter effettuare il triage sanitario dei nuovi detenuti prima del loro ingresso in carcere”. Lo ha fatto sapere l’assessore regionale alla Protezione civile, Pietro Foroni, che sta coordinando i lavori. “A seguito degli accordi intercorsi tra il nostro Dipartimento e quello nazionale - ha spiegato -, questa mattina (ieri ndr) abbiamo cominciato i lavori per giungere ad eseguire il triage sanitario ai detenuti a Opera, Bollate, Pavia, Vigevano e Voghera. Domani si proseguirà a Lodi, al carcere minorile Beccaria di Milano e a Monza. A partire dal 3 marzo e fino alla fine della settimana continueremo a Cremona, Bergamo, Brescia (Verziano e Canton Mombello), Busto Arsizio, Como e Varese”. Le tende per il triage sanitario dei detenuti vengono fornite dal Dipartimento di Protezione civile: 11 sono già state consegnate alla Regione, altre 7 arriveranno nei prossimi giorni. “L’attività - ha concluso Foroni - è stata affidata a una squadra logistica della Colonna mobile regionale, composta da 10 volontari e 3 mezzi dell’Associazione nazionale Alpini. Ancora una volta voglio ringraziare i nostri uomini per il lavoro preziosissimo che svolgono quotidianamente e in modo particolare nei momenti di particolare emergenza”. Milano. Prevenzione della diffusione del Covid-19 all’interno degli istituti penitenziari di Francesco Maisto* Ristretti Orizzonti, 3 marzo 2020 Rendo noto che, in conformità alle Raccomandazioni del ministero della Giustizia e del ministero della Salute - armonizzate con le Indicazioni del Presidente del Tribunale di Sorveglianza, del Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e dei Direttori degli Istituti di pena ho provveduto a diramare nei giorni scorsi informative di coordinamento, note divulgative e suggerimenti per la prevenzione del contagio del virus Covid -19, cosiddetto “Coronavirus”. Al fine di prevenire eventuali casi di contagio nell’ambito territoriale di competenza, nello specifico le quattro carceri di competenza (C.C. Francesco di Cataldo - San Vittore, C.R di Milano Bollate, C.R di Milano-Opera, Istituto Penale Minorile Cesare Beccaria), è stata inoltrata apposita comunicazione alle direzioni degli Istituti penitenziari di preservare con particolare riguardo i diritti delle singole persone ristrette contemperati con l’interesse delle comunità, in conformità all’art. 32 della Costituzione italiana. Ho predisposto, inoltre, attraverso l’Ufficio, uno spazio di raccolta di segna lazioni da parte degli operatori e dei volontari. *Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano Napoli. Coronavirus, gli avvocati dicono stop alle udienze di Errico Novi Il Dubbio, 3 marzo 2020 Il Consiglio dell’Ordine delibera l’astensione fino a mercoledì 11 marzo. Allarme dopo il caso dei 7 contagiati in uno stesso studio legale, ma sono stati decisivi i ritardi nelle misure sanitarie e nelle direttive “anti-calca” in tribunale. Pressione altissima. Ovunque. In tutta Italia. E con gli uffici giudiziari sottoposti a sollecitazioni enormi. Ma a Napoli, nelle ultime ore, si è raggiunto un picco forse ravvisato a Milano solo nei giorni più difficili. Anche perché in uno stesso studio legale ben sette persone, dopo una trasferta nel capoluogo lombardo, sono risultate positive al coronavirus, e la circostanza ha scatenato l’allarme fra avvocati, magistrati e non solo. E visti i “ritardi nella predisposizione delle misure preventive, abbiamo scelto, come Consiglio dell’Ordine, di proclamare otto giorni di astensione dalle udienze”, spiega il presidente degli avvocati napoletani Antonio Tafuri. Il vertice di oggi pomeriggio alla Regione Campania - La decisione, difficile e clamorosa, arriva in capo a un fine settimana di serrati e affilatissimi scambi fra i capi degli uffici giudiziari e il Coa partenopeo. Un vertice tenuto oggi pomeriggio in Regione Campania, a cui ha preso parte, oltre al governatore Enzo De Luca, anche il prefetto Marco Valentini, non ha risolto le divergenze fra avvocati e magistrati. I primi hanno sollecitato misure immediate e, in vista della loro adozione, la sospensione temporanea delle udienze. Il presidente della Corte d’appello Giuseppe de Carolis e il pg Luigi Riello hanno ritenuto, visti i provvedimenti fin qui adottati a livello nazionale, di non essere nella facoltà di bloccare l’attività del distretto. Astensione senza preavviso: lo consente la legge - Ma ad essere decisiva è stata, per gli avvocati, la tempistica poco rassicurante degli interventi sanitari: dispenser coi gel igienizzanti disponibili solo nelle prossime ore (e in virtù di un accordo straordinario fra Regione e Asl), in un Tribunale in cui manca in quasi tutti i bagni persino il sapone, sanificazione degli uffici programmata solo per il prossimo fine settimana. A quel punto l’Ordine forense ha deliberato lo stop da domani, 3 marzo, fino all’11 marzo compreso, in base alla norma che lo autorizza senza preavviso laddove esista un pregiudizio per l’incolumità delle persone. Una situazione arroventata proprio in coincidenza con la tragedia di Ugo Russo, il 15enne ucciso con due colpi di pistola dal carabiniere che, secondo le ricostruzioni accreditate finora, avrebbe subito dal ragazzo un tentativo di rapina. Non è tragica come la morte del povero Ugo, eppure è comunque tesissima la situazione nei palazzi di giustizia napoletani, dove l’incubo del contagio è il carburante principale, ma a far divampare tutto è stata forse una scintilla. Un riferimento, contenuto in una nota dei vertici giudiziari, all’articolo 650 del codice penale (che sanziona l’inosservanza dei provvedimenti assunti dalle autorità) e alla sua possibile contestazione a quei professionisti che, consapevoli di aver contratto il virus, non si fossero messi in autoquarantena. La replica di Tafuri, presidente del Coa, ai capi degli uffici - Anche da lì è partita la risposta, durissima, del presidente dell’Ordine di Napoli, Tafuri che, in una pec inviata sabato scorso a presidente della Corte d’appello e procuratore generale, ha ribaltato la contestazione, e osservato come avvocati e dipendenti dello studio colpito si fossero “regolarmente autoposti in quarantena in osservanza delle direttive ministeriali”. Secondo il vertice degli avvocati napoletani, dunque, non era “ravvisabile alcun comportamento riconducibile all’articolo 650”. Sempre in relazione al richiamo a quella fattispecie penale “per gli avvocati che frequentino i Palazzi di giustizia nonostante il sospetto di infezione da coronavirus”, Tafuri aveva anche avvertito che, qualora “le Autorità Giudiziarie” non avessero dato disposizione di “rinviare i giudizi ai quali non partecipino tutti i difensori costituiti”, il Coa di Napoli sarebbe stato “costretto a proclamare l’astensione”. L’allarme è stato creato anche dalla suggestiva quanto incredibile circostanza secondo cui, sempre per citare la lettera Tafuri “i casi accertati di coronavirus a Napoli riguardano solo avvocati”: così è stato, almeno, fino a due giorni fa. Dopo l’invio di quella missiva il quadro è cambiato: ora in Campania i contagiati procedono purtroppo verso quota trenta, certo non solo avvocati. Ma il caso dello studio legale partenopeo resta all’origine dell’allarme. Il primo legale contagiato parla a “Anteprima24” - Il primo professionista ad aver contratto il virus ha spiegato ieri al giornale online Anteprima24, in un’intervista a Marina Cappitti in cui ovviamente non viene mai citato col suo nome, di non aver dato pubblicità alla sua trasferta lombarda per evitare di diffondere un allarme incontrollabile, e di non sentirsi perciò un “irresponsabile”, come lo aveva invece definito il governatore De Luca. L’Ocf: sospendere udienze o misure straordinarie - A schierarsi sul particolarissimo caso partenopeo è anche l’Organismo congressuale forense: “La situazione coronavirus nel distretto di Napoli sta sfuggendo di mano nella totale assenza di provvedimenti da parte delle autorità”, dice il coordinatore dell’Ocf Giovanni Malinconico, che chiede “l’immediata sospensione delle udienze per due settimane” o in subordine “il rinvio dell’escussione dei testi, l’autorizzazione al deposito di verbali telematici e l’igienizzazione di tutti i locali”. Parte delle tensioni potrebbe essere attenuata se i capi degli uffici traducessero le linee guida diffuse venerdì scorso da ministero della Giustizia e Cnf in una circolare capace di vincolare formalmente i giudici. In particolare per impedire assembramenti di avvocati e parti processuali non solo nelle aule di udienza. Finora si è provveduto sì a decongestionare le aule, ma le pericolosissime calche hanno continuato a formarsi appena fuori le porte. Parma. Morto in carcere Ercole Salvan, il rapinatore luogotenente di Maniero di Marco Aldighieri Il Gazzettino, 3 marzo 2020 È morto, tra domenica e lunedì notte, Ercole Salvan uno dei luogotenenti di Felice Maniero. Nato 57 anni fa a Sant’Urbano in provincia di Padova, veneziano di adozione risiedeva tra Santa Maria di Sala e Chirignago, è deceduto nel carcere di Parma. Era malato da tempo, ma il magistrato di sorveglianza gli aveva negato gli arresti domiciliari perché considerato persona socialmente pericolosa. Lui però aveva rifiutato di sottoporsi a interventi chirurgici, nonostante la sua vita fosse in pericolo. Ercole Salvan avrebbe compiuto 58 anni il prossimo 30 di aprile. Tra i luogotenenti di Maniero, il boss della Mala del Brenta, il 15 luglio del 2005 era stato condannato a vent’anni di reclusione per l’assalto a un portavalori blindato avvenuto a Villanova Marchesana, in provincia di Rovigo. Specializzato proprio nell’assalto ai blindati, per anni si era portato a spasso conficcato in un gluteo l’ogiva di un proiettile. E secondo gli inquirenti, quella ferita, era la prova schiacciante che Salvan, il 21 ottobre del 1987, aveva partecipato all’assalto di un furgone blindato sull’autostrada A13 all’altezza di Boara Pisani. E nel conflitto a fuoco con la polizia stradale era rimasto ucciso un giovane camionista di Udine, Gianni Nardini, e ferito gravemente un agente. Ma i giudici della Corte d’Appello, per quel tragico assalto al blindato, hanno assolto Salvan. L’ex della Mala fu sottoposto a una Tac, e l’esame dimostrò che il proiettile non era calibro 9 come quelli in dotazione alla Polizia. Giusto un anno fa è stato condannato in via definitiva dai giudici della Corte di Cassazione per la tentata rapina effettuata a Villatora di Saonara contro la filiale del Credito Cooperativo di Sant’Elena. Quel 5 ottobre di 5 anni fa sulle tracce banda c’era la Squadra mobile di Pordenone, che da tempo stava seguendo Salvan e i suoi due complici. Alle otto del mattino un bandito ha posteggiato la propria auto in piazza Tricolore ed è stato raggiunto da una motocicletta Honda Hornet bianca con a bordo Salvan e un complice. Uno dei due ex della mala del Brenta è salito in macchina ed è stato in questo momento che i poliziotti sono entrati in azione. Salvan è caduto dalla moto e si è graffiato al naso e alla guancia. Dal borsone blu che portava in spalla è spuntata la targa che sarebbe servita dopo il colpo per coprire quella della moto. É spuntata fuori anche una pistola semiautomatica. Svuotate tasche e lo zainetto nero del complice, sull’asfalto sono rimasti ammucchiati passamontagna, guanti, un coltello e un’altra pistola. Arrestato era finito ai domiciliari a Sant’Angelo di Piove di Sacco, da dove nel dicembre del 2015 è evaso. Nel marzo del 2016 è stato poi catturato a Chirignago ed è stato trasferito nel carcere di Parma. Bari. “Emergenza sanità” in carcere, la denuncia dell’Associazione Marco Pannella noinotizie.it, 3 marzo 2020 È stata annullata la riunione per la firma di un protocollo tra le parti (Asl bari, Policlinico e Casa circondariale di Bari) che era stata convocata per il 26 febbraio scorso e che da un anno non si riesce a tenere. La sua convocazione era necessaria e indispensabile per il promesso trasferimento del cosiddetto “Gabbione”, il padiglione per il ricovero dei pazienti detenuti, dal Policlinico ad altra struttura in seno alla Asl. L’associazione Marco Pannella ne aveva rendicontato in seguito alla visita effettuata presso il carcere di Bari con il Consigliere regionale Francesca Franzoso il 15 febbraio, promettendo di seguire la vicenda. E puntualmente la riunione è saltata. Come segnalato anche in precedenti visite, che l’Associazione regolarmente effettua presso gli istituti penitenziari, su Bari, nonostante l’eccellenza del Direttore, vi è un forte problema di incomunicabilità tra il carcere, la cui direzione costantemente segnala richieste e necessità, e la Asl e il Policlinico. Questi due essendo due enti differenti tra loro, si rimpallano la responsabilità sui detenuti che necessitano di cure sostanzialmente rimpallandosele. Al momento il cosiddetto Gabbione, un reparto per detenuti ricoverati, è ubicato presso il Policlinico, che però dice non essere di sua competenza. Parliamo di dieci posti letto, su un fabbisogno notevolmente più ingente, con responsabile solo un infermiere e nessun medico, e la totale incapacità di gestire i detenuti ricoverati. La sua esiguità poi fa sì che gli altri malati siano in corsia insieme degenti comuni. Ma piantonati, quindi con altri agenti tolti dall’organico del penitenziario. La situazione è stata denunciata anche dai sindacati di polizia penitenziaria, anche a seguito di tentativi di fuga dal gabbione con conseguenti danni fisici causati dai detenuti. Da mesi dopo la richiesta dell’amministrazione penitenziaria, la Asl aveva promesso di prendersi in carico il servizio trasferendo il cosiddetto gabbione presso il San Paolo, scelta ufficializzata anche con una delibera di già dello scorso luglio. Ma difronte alle continue richieste da parte dell’amministrazione penitenziaria, visto lo stato di emergenza, di conoscere il cronoprogramma dello spostamento, la Asl ha prima provato a ritrattare, salvo poi, solo in seguito all’attenzione del Procuratore Generale, promettere, ancora una volta, che la presa in carico avverrà entro 14 mesi. A tale riguardo il 26 febbraio doveva essere firmato un protocollo tra le parti, ma la riunione è stata nuovamente rinviata. Eppure l’emergenza non è più rinviabile. Inoltre da anni il carcere ha fatto richiesta di un nuovo macchinario di radiologia a distanza che dimezzerebbe le uscite dei detenuti, e quindi le spese e il personale fuori sede, ma non riesce ad averlo. Chissà se ce la faremo prima delle elezioni di maggio. Come non è ancora arrivata nessuna delle strumentazioni coperte dai 300 mila euro ad hoc che il consigliere Franzoso aveva fatto mettere a bilancio 2019. Emendamento ricordiamo appunto di 300 mila euro per dotazione sanitaria nelle carceri di Bari e Taranto che nacque proprio da una richiesta che ci venne espressamente rivolta durante una precedente visita. A questo infatti servono le visite, costanti e frequenti, che l’Associazione Pannella fa in carcere, non passerelle. Per questo ci spiace che ad esempio per la visita presso il carcere di Taranto ancora una volta ci sia stato negato il permesso, questa volta con la motivazione del coronavirus. A tale riguardo chiediamo alle Asl competenti di relazionare in merito alla situazione nelle carceri, diversamente non si capirebbe il diniego alla richiesta. Mentre sempre proficuo e fruttuoso è stato il rapporto instaurato negli anni con la direzione del carcere di Bari e in particolare con la dottoressa Pirè e il dottor Bonvino. Tra l’altro le nostre visite si rendono ancora più necessarie dal momento che invece il Garante in carica da 7 anni nominato dalla Regione Puglia, presidente di Confcooperative, oltre a convegni, contratti e protocolli, è totalmente carente proprio nel ruolo che gli spetta, ovvero garantire i diritti dei detenuti che nelle carceri pugliesi non sono garantiti affatto. Del resto pure la relazione annuale che dovrebbe consegnare è ferma al 2017. Per tale ragione a seguire pubblichiamo gli ultimi dati aggiornati a gennaio 2020 delle presenze negli istituti penitenziari pugliesi. Numeri che chi come l’Associazione Pannella visita regolarmente gli istituti sa bene, sono solo il più sterile del grande dramma umano che la comunità penitenziaria vive nella totale indifferenza, se non quando peggio propaganda, della comunità circostante”. Agrigento. Il concorso di poesia “Il Parnaso” supera anche le barriere del carcere siciliafan.it, 3 marzo 2020 Grande emozione e felicità per Ruggero Battaglia, attualmente recluso nella Casa circondariale di Agrigento, vincitore della V edizione del Concorso Internazionale. A fine marzo una grande manifestazione di tre giorni organizzata dall’Ass. cult. Athena assieme all’organizzazione del Concorso. Il Concorso di poesia “Il Parnaso - Premio Angelo La Vecchia” si avvia alla conclusione della V edizione. “Una edizione particolare e carica di emozione” dice subito il direttore artistico Gero La Vecchia, “quest’anno ricade il centenario dalla nascita di mio padre e abbiamo voluto realizzare una edizione con diverse novità”. In effetti questa edizione si presenta “arricchita” da altre sezioni di grande interesse: la prima è la sezione dedicata alla “Poesia sperimentale e destrutturalista”, una sezione curata dalla blogger Mary Blindflowers che vive in Inghilterra; altra sezione di grande importanza è quella dedicata alle scuole del primo ciclo “La Poesia è la mia lingua” che ha visto la partecipazione di oltre 50 ragazzi da tutto il mondo. Anche quest’anno il Concorso ha il Patrocinio del Ministero della Cultura Italiano e del Ministero della Cultura del Daghestan oltre che il patrocinio “naturale” del Comune di Canicattì. Intanto sono già usciti fuori i risultati dei premiati a questa quinta edizione. A vincere il primo premio della sezione principale, che consiste nella edizione di un libro con le poesie dell’autore primo in classifica, è Ruggero Battaglia. “Siamo rimasti contenti ed emozionati per questo risultato che, sinceramente non ci aspettavamo” dice Gero La Vecchia “la poesia, in lingua siciliana, si intitola “Li vriogna di via Maqueda” ed ha la capacità di “dipingere” senza sbavature un fatto storico con una capacità espressiva non banale. Il fatto che sia stata apprezzata dai vari giurati fa piacere e dimostra ancora una volta che la poesia non conosce barriere!”. Più volte il Concorso e i suoi organizzatori si sono espressi esaltando il potere trasversale della cultura e della poesia che non conoscono barriere e confini ma le “barriere” cui si riferisce il prof. La Vecchia sono anche quelle “materiali” della reclusione nella quale si trova il vincitore. “Coltivare la bellezza della poesia può cambiare il mondo, ci crediamo e crediamo profondamente che la cultura e la poesia possono contribuire al riscatto umano e sociale di chi, come il sig. Ruggero, si trova in una condizione contingente di restrizione della propria libertà.”. Continua ancora Gero La Vecchia: “Grazie all’amica prof. Wilma Greco che da volontaria si occupa da tempo del recupero culturale all’interno delle carceri, ho potuto conoscere una realtà che, nella negatività di una condizione chiusa e ristretta da tutti i punti di vista, può trovare un motivo, una speranza proprio nella cultura in genere e nella poesia in particolare”. Menzione d’Oro del Premio “Angelo La Vecchia”, per “La ragazza curda” di Tania Anastasi, “Disperso in un tilt” di Sergio D’Angelo e “Posparu addrumatu” di Girolamo La Marca. Tutti gli altri vincitori sono pubblicati sulla pagina Facebook del Concorso “Il Parnaso - Premio Angelo La Vecchia”. Nella sezione dedicata alle scuole, “La Poesia è la mia lingua” il primo premio andrà ad uno studente dell’Istituto Manzoni di Ravanusa, Fausto Contrino; premiati anche altre ragazzi dal Brasile, Daghestan, Bielorussia, Caserta, Cerda, Trapani, Aragona, ecc. Come ogni anno ci sono delle sezioni del Concorso gestite con paesi stranieri: sez. spec. “Rasul Gamzatov” con il patrocinio del Min. della Cult. del Daghestan, “Ante Popovski” con la Macedonia e “Amdi Giraybay” con la Crimea. Intanto si sta preparando l’evento che conterrà la manifestazione finale del Concorso. L’Associazione Culturale Athena assieme al Concorso e al Comune di Canicattì stanno organizzando tre giorni di manifestazioni che si terranno al Centro Culturale San Domenico mentre la manifestazione finale si svolgerà al Teatro Sociale di Canicattì il 29 marzo. Sono previste presenze dalla Macedonia, Bielorussia, Daghestan e Azerbaijan ma c’è il problema contingente del virus che potrebbe modificare gli ambiziosi piani. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Terza edizione del progetto “Educazione alla legalità” di Giuseppe Simeone osservatoreromano.va, 3 marzo 2020 Seminiamo bellezza e non inquinamento. Con le parole di una preghiera proposta da Papa Francesco alla fine dell’Enciclica “Laudato sii” inizia il nuovo cammino di tanti studenti e docenti della città di Santa Maria Capua Vetere. Questa la tematica principale che verrà affrontata nel corso del nuovo anno scolastico con gli alunni degli otto istituti scolastici aderenti al Protocollo d’intesa “Educazione alla Legalità”. Il 18 ottobre il primo incontro con gli insegnanti e successivamente il tour nelle scuole. Programmata anche la pubblicazione di un libro per fine anno scolastico. Arrivato alla terza annualità, il progetto ha come fulcro centrale non solo il valore educativo e culturale ma anche la scuola come esperienza di vita. Una scuola da amare per ricordare le parole di papa Francesco. Migliaia gli studenti incontrati nel corso di questi anni per confrontarsi e sensibilizzarli su tante tematiche. Dipendenze da gioco d’azzardo, alcol e droghe, la violenza di genere, cyberbullismo, il processo di beatificazione di Aldo Moro, il sinodo dei giovani, lo spettacolo teatrale Epoché, con magistrati e detenuti sul palco del Teatro Garibaldi, il pellegrinaggio degli studenti in aula Paolo vi per l’udienza con il Santo Padre e il suo saluto a tutti coloro che hanno aderito al progetto di formazione alla legalità dell’Arcidiocesi di Capua. Sacerdoti, magistrati, rappresentanti delle Istituzioni e di ordini professionali, forze dell’ordine, dirigenti scolastici, insegnanti e docenti universitari hanno incontrato migliaia di giovani a cui l’arcivescovo di Capua, monsignor Salvatore Visco, ha parlato anche al Duomo in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Le attività rientrano nel protocollo stipulato il 3 luglio 2017 presso la Presidenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere e che vede uniti 20 partner sul tema dell’educazione degli studenti. I sottoscrittori sono il Comune di Santa Maria Capua Vetere, l’Arcidiocesi di Capua, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, la Procura della Repubblica, la Questura di Caserta con il locale commissariato di Polizia di Stato, l’Università degli Studi della Campania Dipartimento di Giurisprudenza, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, l’Associazione nazionale magistrati sezione di Santa Maria Capua Vetere, le dirigenze scolastiche degli istituti di Santa Maria Capua Vetere, l’Ufficio di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, il Centro per la Giustizia minorile della Campania, l’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Caserta e l’Asl di Caserta. Torino. Scuole e carceri adottano uno scrittore di Paolo Foschini Corriere della Sera, 3 marzo 2020 Torna “Adotta uno scrittore” in venti tra scuole e università più dodici carceri italiane. L’iniziativa del Salone di Torino compie 18 anni e ha superato gli 11mila studenti coinvolti. La parola adottare viene da “optare”, scegliere. Preceduta da A “ad”, la particella della vicinanza. Scegliere per sé. È una parola che accostiamo per abitudine all’idea di famiglia, genitori e figli, affetti. Ma il concetto che ci sta dietro è sempre quello di preferenza, elezione di “uno tra gli altri”, con tutta la concretezza di impegno che ne segue: come quando per tradurre in pratica un proposito scelto fra tanti si dice che si “adotta un provvedimento”. Così è sempre più significativo, perché si tratta ogni volta di una riaffermazione di volontà, il ritorno di “Adotta uno scrittore” giunto quest’anno alla diciottesima edizione. Proposta dal Salone internazionale del libro, in calendario a Torino dal 14 al 18 maggio 2020, l’iniziativa è di fatto già entrata nel vivo con i consueti tre mesi di anticipo, rivolta come sempre a scuole e detenuti ma non solo: nei suoi primi diciassette anni di vita ha coinvolto fra tutto 11.521 studenti di 369 classi, 12 case di reclusione, un ospedale, una università, oltre a 365 autori. Quest’anno saranno 35, da Gherardo Colombo a Marco Malvaldi, da Paolo Nori a Mauro Covacich, da Luca Doninelli a Zita Dazzi, da Paola Caddi a Elisa Mazzoli... Sempre con lo stesso meccanismo: ogni classe sceglie uno scrittore o una scrittrice, li incontra più volte, ne legge libri, li commenta, in un percorso che conduce a un arricchimento per tutti, lettori ma anche autrici e autori. 11 tutto con il sostegno della Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte in collaborazione con la Fondazione Con il Sud. A ulteriore supporto del libro e della lettura, negli anni Acri Piemonte ha permesso l’ingresso gratuito al Salone a oltre 11mila studenti e studentesse piemontesi. Quest’anno le scuole coinvolte sono dieci superiori, quattro medie, quattro elementari, due università, di nuovo dodici scuole carcerarie: il numero più alto per una singola edizione. E il progetto oltre al Piemonte si è esteso a Veneto, Campania, Sicilia, Basilicata, Puglia, Calabria e Sardegna, con istituti anche molto lontani come il “Rita Levi Montalcini” di Salerno e il “Galileo Galilei” di Acireale, mentre le scuole carcerarie interessate sono quelle di Torino, Saluzzo, Alessandria, Asti, Verona, Paola (Cosenza), Lecce, Palermo, Sassari, Potenza e Pozzuoli (Napoli). Sono situazioni queste ultime in cui proprio gli scrittori e la lettura riescono a creare momenti di condivisione costruttiva tra mondi - quelli di studenti e carcerati - che difficilmente si incontrerebbero con una mediazione altrettanto alta: eppure capace di abbattere, dal basso, steccati non semplici da superare per altre vie. “Non esistono bellezza, democrazia, coscienza civile e sociale senza cultura. Per questo è importante e necessario - afferma il presidente di Acri Piemonte, Giovanni Quaglia - disseminare e sostenere sul territorio, in particolare nelle periferie più esposte alle fragilità, tutte quelle iniziative che portano conoscenza e dialogo, veri collanti delle comunità. Il progetto “Adotta uno scrittore”, divenuto ormai maggiorenne grazie all’impegno e alla sinergia delle Fondazioni di origine bancaria, offre un prezioso contributo in questa direzione”. “Adotta uno Scrittore è uno dei progetti culturali di cui il Salone Internazionale del Libro di Torino - aggiunge il direttore Nicola Lagioia - va più orgoglioso: scuola e istruzione sono, o dovrebbero essere, prioritari per qualunque Paese che voglia darsi un futuro. Qui abbiamo scrittori e studenti impegnati in un percorso a più tappe, in diverse regioni d’Italia: un progetto di respiro nazionale che anno dopo anno cresce e si rafforza”. Quanto alla relazione fra i concetti di adozione e di famiglia, del resto, l’obiettivo dell’iniziativa è proprio quello di “rendere la lettura un gesto familiare e quotidiano, chiamando in causa chi ha fatto della scrittura il proprio mestiere”. Incontrarne uno per leggerne cento, è la filosofia: il progetto “mette nelle mani di ciascun ragazzo il libro dell’autore, da cui si parte per parlare di altri libri: quelli amati dai ragazzi e quelli amati dagli scrittori adottati”. Ma se il denominatore comune è l’attività di leggere lo strumento per arrivarci è quello dell’incontro. E quindi, in ultima analisi, del conoscersi e affidarsi gli uni agli altri: gli autori non vengono adottati da una scuola ma da una classe, attraverso tre appuntamenti distanziati di poche settimane e con una possibilità di dialogo che ha le dimensioni di un’aula e non di un auditorium. E agli scrittori viene lasciata completa libertà d’azione e di decisione su come sfruttare il tempo a loro disposizione: ecco perché ogni adozione è diversa dall’altra. Anche l’esperienza di quest’anno confluirà in un video-racconto finale. Per conoscere tutte le adozioni bookblog.salonelibro.it. Benevento. “Cortincarcere”, il progetto che porta il cinema in carcere ottopagine.it, 3 marzo 2020 Promosso da Camera penale e Associazione Libero Teatro. Era in programma domani ma, causa il protrarsi dell’epidemia da Coronavirus, è saltata la presentazione, presso la casa circondariale di Benevento, del progetto “Cortincarcere”, un’iniziativa che porta il cinema in carcere, come percorso di formazione e di riabilitazione. Tale percorso, al via nei prossimi giorni, attraverso il linguaggio cinematografico - si legge in una nota-, inteso quale strumento di reinserimento sociale di persone sottoposte a limitazione della libertà personale, insieme ai film, porta oltre le sbarre anche autori, attori e studiosi del settore. È un progetto ambizioso, che sarebbe stato impossibile immaginare e realizzare senza l’apporto e la collaborazione di tutto il personale della Casa Circondariale. A promuoverlo la Camera Penale di Benevento insieme all’Associazione Libero Teatro di Benevento, con il supporto tecnico-logistico della Direzione del carcere. La Direzione artistica di “Cortincarcere” è affidata all’Associazione Libero Teatro, organizzatrice del Social Film Festival ArTelesia, concorso internazionale del cinema sociale, giunto alla XII edizione. Il corso - che si svilupperà nell’arco di tre mesi e riguarderà il reparto comuni, alta sicurezza e sex offender - è strutturato in due parti: una destinata a fornire le conoscenze di base dell’analisi del film, privilegiando un punto di vista tecnico, l’altra finalizzata al dibattito sulle tematiche sociali soggetto dei corti proiettati. Fino al 19 maggio, nelle sale predisposte dalla Casa Circondariale, i migliori cortometraggi in concorso saranno proiettati e valutati da una Giuria formata da detenuti e presieduta da un professionista. Si tratta, dunque, di un momento di grande apertura del carcere sul mondo del cinema, in un progetto comune di elevata qualità artistica che avrà ricadute positive anche sul territorio. Firenze. Teatro dietro le sbarre, il “romanzo” di Armando Punzo askanews.it, 3 marzo 2020 Dialoghi serrati sulla vita, sull’arte, sul teatro e sul suo approdo in carcere. Sono gli spunti che condiscono “Un’idea più grande di me” (Luca Sossella edizioni), l’autobiografia artistica di Armando Punzo, drammaturgo e regista teatrale, fondatore nel 1988 nel carcere di Volterra della Compagnia della fortezza, scritta con Rosella Menna, studiosa di teatro e critico tra gli altri di Doppiozero. Più di venti incontri in giro per l’Italia con prima tappa il 6 marzo alle 18.45 al cinema “La Compagnia” di Firenze (via Cavour 50/r) per raccontare un’opera che può definirsi una sorta di romanzo di formazione sui generis, incentrato sull’esperienza della Compagnia della fortezza del carcere di Volterra, la prima e più longeva esperienza di lavoro teatrale, spaziando da Shakespeare alla prosa contemporanea, in un istituto penitenziario. Una forma di conversazione, scandita dagli interventi di Menna che immortalano una collaborazione pluriennale iniziata nel 2012. Alla presentazione, promossa da Stefania Ippoliti, responsabile area cinema di Fondazione Sistema Toscana, parteciperanno, oltre agli autori, il presidente della regione Toscana Enrico Rossi; Franco Corleone, ex parlamentare; Teresa Megale, delegata del rettore dell’Università di Firenze per le attività artistiche e spettacolari di ateneo. Ma da dove viene il diritto di odiare? di Dacia Maraini Corriere della Sera, 3 marzo 2020 C’è da domandarsi: chi ha messo nella testa di questi ragazzi che l’odio è un diritto? Non sarebbe male chiederselo con una certa preoccupazione. Uno studente di liceo si alza compunto e con aria molto seria ribatte alla mia dichiarazione di rifiuto dell’odio con una precisa rivendicazione: “Io voglio avere il diritto di odiare”. Cerco di ragionare: “I diritti non possono essere assoluti, non ti pare? altrimenti uno potrebbe alzarsi e dichiarare, con la stessa tua determinazione: io voglio avere il diritto di uccidere!”. “Ma io non voglio uccidere, voglio solo odiare, se qualcuno mi fa un torto io voglio poterlo detestare”. “Ma tu credi che l’odio rimedi al male fatto?”. “Per me l’odio è un diritto primario”, ribatte lui. E io cerco ancora di ragionare: “Guarda che l’odio avvelena chi lo prova e spesso porta ad azioni irrazionali e pericolose, per esempio alla vendetta, ti pare giusto vendicarsi?”. “Beh, se posso farlo, mi vendico”. “Ecco, vedi che l’odio non sta fermo ma tende all’aggressione verso l’odiato, che a sua volta vorrà vendicarsi e la catena non si fermerà più”. “Perché non va bene la vendetta?” chiede con voce innocente e sicura. “Perché ti comporteresti come un animale, secondo istinto e non come dovrebbe comportarsi una persona che ragiona, che riflette e che vive in un sistema di istituzioni che agiscono secondo leggi precise e non secondo istinti primordiali. La più grande conquista, pensaci, del mondo moderno è stato proprio questo passaggio dalla vendetta privata alla giustizia, delegata a un sistema indipendente e sopra le parti che si chiama magistratura. Ricorda poi che la vendetta è proprio la pratica di tutte le mafie che rifiutano ogni legge civile e democratica che non sia la propria legge del potere”. Il ragazzo non mi sembra convinto, ma mi dice che ci penserà. Intanto si alza una ragazza che incalza il suo compagno: “Metta che uno mi violenti, non ho il diritto di odiarlo?”. Cerco rifugio in un bellissimo esempio di non odio che ci ha dato in questi giorni la senatrice Liliana Segre, che continua a ripetere che lei non odia i suoi aguzzini, li giudica e li condanna, ma non vuole essere deturpata da un sentimento che avvilisce la persona che lo prova. A questo punto c’è da domandarsi: chi ha messo nella testa di questi ragazzi che l’odio è un diritto? Non sarebbe male chiederselo con una certa preoccupazione. Dall’innovazione per decreto all’innovazione per emergenza di Gianni Dominici* Il Manifesto, 3 marzo 2020 Pubblica amministrazione. In pochi mesi siamo passati dal dibattito sui tornelli e le impronte digitali per controllare meglio la presenza fisica negli uffici pubblici allo smart working libero causa coronavirus. Dall’informatizzazione per legge a quella di emergenza. E così il nostro paese ha finalmente scoperto la modernità insieme alle fantastiche proprietà taumaturgiche della tecnologia. Serviva un’emergenza (in questo caso sanitaria) perché questo avvenisse? Siamo ultimi in tutte le classifiche internazionali sulla diffusione della tecnologia e condannati a recitare i numeri del DESI (Digital Economy and Society Index, che misura il grado di digitalizzazione dei paesi) come in uno stanco e poco convinto eterno mea culpa. Releghiamo alla precarietà i nostri migliori ricercatori, quelli che nel frattempo non sono scappati all’estero. Abbiamo la più bassa percentuale europea di cittadini che utilizzano i servizi on line. Abbiamo la popolazione di dipendenti pubblici più anziana d’Europa a cui, oltretutto, e di fatto, non diamo alcuna possibilità di formazione e di aggiornamento. Un paese dove ci si divide sulla nutella, dove si aprono e si chiudono i porti neanche fossero le porte di un ascensore. Un paese che però, quasi mai, parla di giovani e di futuro. Un paese dove per decenni si è pensato che l’innovazione potesse essere promossa dagli amministrativisti concentrati a rinovellare norme e codici. Un paese convinto, e che ha tentato di convincere, che si potesse innovare per decreto, per legge, per riforma, trasformando e banalizzando i processi più importanti di cambiamento in mero, ulteriore adempimento. In scadenze sistematicamente prorogate. In questo contesto, ad inizio anno abbiamo individuato (e descritto presentando il nostro rapporto annuale) tre importanti segnali che potrebbero finalmente dare il via ad un percorso di normalizzazione: Il primo è di natura politica. Per la prima volta la nostra politica ha condiviso scenari di sviluppo: il tema dello sviluppo sostenibile, il tema della quarta rivoluzione industriale sintetizzato dal presidente del consiglio con lo slogan “Smart Nation”, il piano “2025 - strategie per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione del paese”, presentato a fine 2019 dalla ministra Pisano. Il secondo segnale è che finalmente in Italia c’è una chiara governance dell’innovazione con una Ministra dedicata e un dipartimento, a cui risponde l’Agenzia per l’Italia Digitale. Infine, il terzo segnale riguarda la diffusa consapevolezza, ai diversi livelli, della centralità delle persone, dell’importanza del fattore umano nel portare avanti processi di cambiamento che si sostanzia, ad esempio, nello sblocco del turnover, nell’attenzione per le competenze digitali, nel diffondersi della cultura dello Smart Working, nelle iniziative di facilitazione, formazione e mentoring per accompagnare i nuovi assunti nella PA. Nel corso di quello che sembrava un processo di lenta normalizzazione è accaduto però l’imprevisto, la sociologica variabile interveniente, quella che sicuramente è una discontinuità nell’agenda del paese. E così in una nazione in cui una manciata di mesi fa si discuteva ancora di tornelli e di impronte digitali per meglio controllare la presenza fisica nei posti di lavoro ora, si inneggia improvvisamente alla flessibilità, alla formazione a distanza, allo smart working. Ci mancherebbe altro, per fortuna, era ora, dovremmo dire. Se penso che esattamente 20 anni fa diventai amministratore delegato di Atenea, una società di formazione a distanza creata dalla Fondazione Censis e da Agorà telematica con “l’obiettivo di affiancare la pubblica amministrazione nel processo di modernizzazione e digitalizzazione in atto, per trasformare contenuti e conoscenze attraverso la rete internet “. Ne è passato di tempo e i temi in primo piano non sono poi così cambiati, nonostante le tecnologie abbiano fatto un salto epocale. Come ForumPA siamo sempre stati convinti della necessità di affiancare soluzioni virtuali ad eventi in presenza, “click and brick” si diceva una volta. Nell’ultimo triennio abbiamo organizzato 64 webinar con 20.700 partecipanti totali; realizzato 560 tra interviste e reportage pubblicati sui nostri canali Youtube e Vimeo; registrato 362 podcast, pari a 51 ore di audio sul nostro canale Spreaker; prodotto 238 tra videolezioni, videopillole formative e video academy; trasmesso 115 ore di diretta streaming. A questo si aggiunge il patrimonio prodotto quotidianamente dal Gruppo Digital 360. Siamo quindi convinti che sia davvero importante cogliere questa occasione e siamo pronti a dare il nostro contributo. Ma c’è un però. C’è il rischio che, dopo che per decenni ci si è illusi che si potesse informatizzare il paese per legge, ora ci si illuda, spinti dalla psicosi collettiva, che lo si possa fare per decreto d’emergenza. La Direttiva Dadone, che incoraggia le pubbliche amministrazioni a potenziare il ricorso al lavoro agile, è un provvedimento positivo non soltanto per arginare l’emergenza “coronavirus”, ma anche perché potrebbe accelerare la diffusione dello smart working e dello smart learning nel settore pubblico. Per essere davvero una svolta, però, non deve restare una misura di emergenza, ma diventare un modello da sperimentare e applicare anche in tempi ordinari e inserirsi in un progetto più ampio di rinnovamento della PA, in cui l’utilizzo delle tecnologie smart è solo un elemento. L’innovazione del paese, e della PA in particolare, può e deve essere prioritariamente un’innovazione istituzionale, culturale e organizzativa. Per potersi diffondere, lo smart working è necessario in primo luogo ripartire dalle persone, passare dalla cultura dell’adempimento alla collaborazione, puntare allo scambio di soluzioni e di esperienze all’interno degli enti e tra enti. Nel nostro lavoro di facilitatori e di accompagnatori della PA nei processi di innovazione, abbiamo notato che cresce il bisogno di “imparare come si pratica il cambiamento”. Le persone chiedono strumenti, modelli operativi, cassette degli attrezzi. È importante per questo puntare su due grandi leve: l’empowerment, l’accrescimento delle competenze e la condivisione di strumenti utili per governare la trasformazione digitale dentro la PA. Le risorse per la formazione e l’aggiornamento sono state di fatto anullate, è difficile usare gli strumenti di lavoro a distanza se non si hanno le competenze adatte di base per cui è necessario al più presto favorire la formazione diffusa dei dipendenti pubblici sulle competenze digitali di base; lo sblocco del turn over. Nell’arco dei prossimi 3-4 anni 500mila dipendenti pubblici avranno maturato i requisiti per ritirarsi dal lavoro e saranno sostituiti da nuovo personale grazie allo sblocco del turn over di compensazione al 100%. Non basta sostituire le persone che andranno in pensione, è necessario capire di quali competenze ha bisogno la nostra PA e formarle. Da non sottovalutare, infine, il ripensamento dell’organizzazione, la creazione di un clima di fiducia, l’attenzione e il focus su obiettivi di sviluppo e non su adempimenti. È questo il contesto indispensabile da creare e da alimentare per far sì che le soluzioni tecnologiche diventino strumenti abilitanti di una pubblica amministrazione in grado non solo di reagire alle crisi del momento ma di essere protagonista nel costruire il futuro del paese. *Sociologo, è direttore generale del Forum Pa, il più grande evento nazionale sulla modernizzazione della pubblica amministrazione Migranti. Il Cpr di Macomer invivibile dopo un mese dall’apertura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 marzo 2020 La Campagna LasciateCIEntrare e l’associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) hanno espresso forte preoccupazione per le condizioni di vivibilità all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Macomer (Nuoro). Già a poche settimane dall’apertura del Centro (un’ex carcere di massima sicurezza), avvenuta lo scorso 20 gennaio, le associazioni riportano come la situazione sia apparsa da subito grave e preoccupante, viste le segnalazioni ricevute e come testimoniano anche le importanti criticità evidenziate dall’avvocata e Presidente della Camera Penale di Oristano Rosaria Manconi: “La struttura, in sé, non garantisce il rispetto dei diritti dei “trattenuti”. L’assenza di aree di socialità, il divieto di comunicazione con l’esterno attuato mediante il sequestro dei telefoni personali e la mancanza di strutture destinate alla, seppure momentanea, integrazione (biblioteche e luoghi di lettura, impegno lavorativo, pratica di attività fisiche, per esemplificare) fanno ragionevolmente ritenere che l’ozio, la convivenza forzata e la promiscuità, la condizione di ghettizzazione unita alla mancanza di speranza ed alla prospettiva di una permanenza sine die, possano dare vita a situazioni di tensione difficilmente controllabili”. Eppure, secondo le associazioni, si tratta di criticità che accomunano le condizioni di tutti i Cpr, ripetutamente segnalate dallo stesso Garante nazionale dei diritti delle persone private delle libertà nel corso delle attività di monitoraggio svolte e già oggetto di raccomandazioni al Ministero dell’Interno, ma fino ad ora sarebbero rimaste inascoltate. “Ci troviamo - denunciano LasciateCIEntrare ed Asgi - di fronte a prassi registrate e denunciate da circa un ventennio, da quando tali centri sono stati istituiti e la cui stessa esistenza rappresenta una vergogna, poiché luoghi di detenzione su base etnica, dove l’abuso è ordinario, così come la privazione dei diritti sanciti dalla stessa Costituzione che si reitera nel tempo nel silenzio delle istituzioni” I Cpr sono strutture in cui le persone straniere senza un permesso di soggiorno sono private della libertà personale pur non avendo commesso alcun reato. “Rappresentano - denunciano le associazioni - una zona grigia del diritto e risulta sempre più difficile monitorare quanto accade al loro interno. Per questo devono essere chiusi”. Le associazioni chiedono perciò un accertamento delle condizioni in cui vengono trattenuti i migranti nel Cpr di Macomer in seguito alle criticità raccolte e trasmesse anche al Garante Nazionale dei diritti delle persone private delle libertà, in quanto figura indipendente di garanzia dei diritti delle persone ristrette. Criticità segnalate anche dal coordinamento dei Garanti dell’isola che, anche per la mancanza di un Garante regionale, ha già espresso l’urgenza di accedere al Cpr per evitare che il persistere di situazioni di violazioni di diritti o di abuso possano cristallizzarsi e degenerare. “Al di là delle azioni da attuare nell’immediato per la salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone trattenute - proseguono le associazioni nella denuncia - deve essere ribadita con forza l’inopportunità di mantenere attivi i Centri per il rimpatrio, simbolo di una politica migratoria repressiva e lesiva dei diritti delle persone”. Nel frattempo ancora una volta l’agenzia dell’unione europea per i diritti umani bacchetta l’Italia per quanto riguarda i centri di accoglienza per i migranti. In particolare, l’agenzia sottolinea - citando il progetto Melting pot Europa - la grave situazione nell’hotspot di Lampedusa, dove i minori non accompagnati condividono gli spazi con gli adulti. La mancanza di protezione per i minori - scrive l’Agenzia - fa aumentare il rischio di esclusione sociale, di sfruttamento lavorativo e sessuale. Parliamo del rapporto quadrimestrale pubblicato il 18 febbraio 2020 dall’Agenzia europea, che copre il periodo dal 1° ottobre al 31 dicembre 2019 e mostra una situazione indegna per l’Europa, con hotspot del tutto pieni e condizioni di vita atroci. Ma non solo. L’agenzia europea è preoccupata visto che il nostro belpaese ha individuato 13 Paesi, rendendo così più difficile l’accoglimento delle istanze di protezione internazionale. Proprio l’Italia è al centro delle preoccupazioni dell’Agenzia europea per il rinnovo del Memorandum of Understanding con la Libia. Aumentano poi i casi di “hate speech” (incitamento all’odio) in particolare in Germania, Grecia, Malta, Spagna e, ancora una volta, l’Italia. Migranti. Ormai ai confini greci è emergenza. A Lesbo guerriglia contro i rifugiati di Valentina Errante Il Messaggero, 3 marzo 2020 La prima vittima del nuovo esodo è ancora un bambino. Annegato nelle acque gelide dell’Egeo durante un disperato tentativo di sbarco a Lesbo. Gli altri 46 profughi, a bordo di un barcone che si è ribaltato quando si è avvicinata la guardia costiera, ce l’hanno fatta. Ma questa è la versione ufficiale. Perché le immagini mostrano proprio la guardia costiera greca che tenta di fare ribaltare i gommoni carichi di disperati e, dalle motovedette, bastona i profughi. Alcuni migranti, che si avvicinavano alle isole remando con le mani, hanno riferito che il motore era stato sabotato da alcuni uomini con le maschere. Mentre altri video raccontano l’effetto sui bambini dei lacrimogeni lanciati nella zona di Evron, uno dei punti lungo il muro al confine con la Turchia. È uno dei punti di attraversamento dove circa 13mila tentano l’ingresso in Europa dopo la decisione di Ankara di interrompere i controlli. La tensione, anche tra i residenti, è altissima. E le accuse più pesanti alla Grecia, che sta affrontando da sola l’emergenza, arrivano proprio da Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco che tra giorni fa aveva annunciato l’apertura delle frontiere. “Quelli che oggi usano gas lacrimogeni, granate stordenti, cannoni ad acqua e proiettili di gomma contro i migranti per respingerli - ha detto - un giorno dovranno pagare il prezzo davanti alla comunità internazionale”. Intanto Atene ha sospeso per un mese le nuove richieste di asilo. A Lesbo la tensione cresce anche tra la popolazione locale. Alcuni gruppi di estremisti, residenti nell’isola, si sono organizzati in squadre anti-migranti. Insulti e aggressioni sarebbero stati registrati anche contro giornalisti e fotoreporter, urla contro personale dell’Unhcr e sassi contro un pullman della polizia. Un agente è stato ferito. Ma l’obiettivo principale è quello di fermare gli sbarchi di gommoni con diversi bambini a bordo. Sono milleduecento le persone arrivate in Grecia fra il 1 e la mattina del 2 marzo, sulle isole Egee orientali di Lesbo, Chio e Samo. L’Unchr, a fronte del nuovo esodo, ha rifornito le scorte di alimenti secchi e coperte per garantire sostegno ai nuovi arrivati e ha confermato come anche gli altri attori presenti sul campo abbiano beni supplementari stoccati a disposizione. Save the children riferisce di 40 mila persone, di cui quasi 4 su 10 sono bambini, bloccate nei campi sulle isole dell’Egeo, esposte a condizioni disumane e “all’aggravarsi della loro salute sia fisica che mentale”. Altre migliaia di richiedenti asilo sono bloccati “in un limbo sulla rotta tra la Turchia e la Grecia”. Dormono all’aperto, a temperature gelide, “senza possibilità di ripararsi e di ricevere adeguata protezione”. Dalla sera dello scorso sabato, almeno 13 mila persone, in gruppi che variano da molte decine sino a più di 3 mila, hanno raggiunto i punti di accesso formali del confine ad Pazarkule e Ipsala, così come i numerosi passaggi di accesso di fortuna. “Sono aumentati anche gli arrivi via mare - riferisce Save the children - mettendo così ancora più pressione sui campi già sovraffollati”. L’ultima emergenza è legata alla decisione di Ankara di aprire le frontiere, ma la situazione, nelle isole greche, era già drammatica. Il picco si era registrato nel 2016 Tra agosto e settembre scorsi erano più di 18 mila le persone arrivate. Il doppio dell’anno precedente. Già alla fine della scorsa estate in campi come quelli di Moria a Lesbo, nei tremila posti disponibili erano costretti a sopravvivere in condizioni disumane oltre 13mila. Il 42 per cento minori tra i 7 e 12 anni, quasi mille bambini e ragazzi arrivati da soli. L’inferno dei bambini, intanto, si consuma anche in Siria. A denunciarlo è ancora Save the children che, in una nota riferisce che almeno in sette bambini, tra cui uno di soli sette mesi, sono morti a causa delle temperature gelide e delle terribili condizioni di vita nei campi profughi a Idlib. “Due sorelle di 3 e 4 anni hanno perso la vita dopo che la tenda nella quale vivevano ha preso fuoco perché la stufa non era sicura e la loro mamma incinta ha riportato ustioni sul corpo. Mentre un ragazzo di 14 anni, che viveva con la sua famiglia di sette persone in un’altra tenda, non ha retto alle temperature gelide”. Droghe. Cannabis, la confusione regna sovrana a Vienna di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 3 marzo 2020 Rinviato il voto sulla riclassificazione del Thc nelle tabelle internazionali. Niente da fare, la riclassificazione della cannabis nelle tabelle internazionali subirà un ulteriore rinvio. Doveva essere la 63esima Commission on Narcotic Drugs a deliberare la rimozione della cannabis dalla tabella IV, quella delle sostanze più pericolose con nessuno o scarso valore terapeutico. Questa era la più importante fra le numerose raccomandazioni inviate dall’OMS alla CND nel gennaio 2019. Ma non è ancora il momento, almeno in questa sessione di marzo. Infatti, la scorsa settimana si è giunti ad una mediazione fra le diverse posizioni presenti fra i paesi membri dell’organo deputato a gestire le convenzioni internazionali. Da una parte Russia, Cina, Giappone e molti stati africani, contrari alla declassificazione, dall’altra Canada, USA, Uruguay e l’Unione Europea che chiedevano almeno di procedere con il riconoscimento del valore terapeutico, rimuovendola dalla tabella IV. La decisione, che mentre scriviamo non è stata ancora resa pubblica, è quella di non votare in questa sessione la raccomandazione, ma al tempo stesso di fissare modalità di approfondimento e tempi certi affinché questa venga discussa e votata durante la riconvocazione di dicembre o al massimo alla prossima sessione di marzo 2021. La Russia, che non si è spostata di un millimetro, ha sfruttato il metodo del “consensus” di Vienna per ingessare il processo decisionale. Lo ha fatto con motivazioni puramente ideologiche, ritenendo una eventuale decisione di accoglimento della raccomandazione dell’OMS come un “via libera” alle esperienze di regolazione legale dell’uso ricreativo che fermamente osteggia. Non si tratta certo della migliore raccomandazione possibile, in particolare resta un mistero su quali basi scientifiche la cannabis venga mantenuta, a seguito della review dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nella tabella I delle sostanze più pericolose. La stessa motivazione dell’OMS, ovvero il fatto che la cannabis è la sostanza più usata nel mondo fra quelle tabellate, sembra avere più a che fare con valutazioni politiche che con le evidenze scientifiche sulla pericolosità della sostanza in quanto tale e quindi sulla sua collocazione nelle tabelle. In queste settimane il nuovo presidente dell’INCB, l’Agenzia ONU incaricata dell’applicazione delle convenzioni, Cornelis de Joncheere ha aperto alla revisione delle tabelle delle convenzioni dell’ONU “sulla base delle evidenze scientifiche proposte dall’OMS”. “Una situazione confusa” ha commentato Steve Rolles di Transform. In effetti molto confusa lo è davvero, se pensate che il predecessore di de Joncheere è stato il thailandese Viroj Sumyai, fermo oppositore delle politiche di riforma sulla cannabis. Nel rapporto del 2018 dell’INCB aveva dedicato un intero capitolo alla cannabis per concludere che ci sono “prove scientifiche scarse o assenti per supportare l’efficacia di molti presunti usi medici. Sumyai è oggi Presidente della Thai Cannabis Corp., azienda che si propone di guidare il mercato locale e asiatico “con formulazioni sicure, efficaci e convenienti di questa antica medicina tailandese”. *Direttore di Fuoriluogo Afghanistan. Gli Usa se ne vanno, le tensioni restano di Ugo Intini Il Dubbio, 3 marzo 2020 Ora sarà pace con i talebani ma vince il fondamentalismo. L’accordo di pace tra Stati Uniti e talebani (se reggerà) è certo una buona notizia. Meglio tardi che mai. Nel dicembre scorso, il Washington Post rivelò documenti riservati dai quali risultava che nessuno, né nelle forze armate, né del governo, capiva perché e con quali obiettivi gli americani continuassero a stare in Afghanistan. Seguirono smentite furiose. Ma alla fine si sono tratte le conseguenze: gli americani se ne vanno consentendo tra l’altro a Trump di presentare il ritiro come un suo successo in campagna elettorale. Molti adesso paragonano l’Afghanistan al Vietnam. Ma regge meglio il parallelismo con l’Iraq. Dopo l’11 settembre, sulla spinta dell’emozione, gli americani occuparono facilmente e trionfalmente Baghdad e Kabul. Se ne sono andati dall’Iraq lasciandolo a nemici diversi e forse per loro peggiori di Saddam, ovvero ai filo iraniani. Se ne vanno dall’Afghanistan lasciandolo esattamente agli stessi nemici di vent’anni fa: ai talebani. Dopo aver sacrificato la vita di oltre 2.400 soldati e aver speso mille miliardi di dollari. Gli insegnamenti sono tanti. Il primo è che bisogna sempre ricordare la storia. Nell’Ottocento, il frenetico movimento degli eserciti coloniali in Afghanistan veniva chiamato la “danza degli spettri”. Perché gli attori si agitavano senza futuro (anzi, essendo- senza saperlo già morti). Un insegnamento strategico è che per vincere una guerra non basta neppure mettere i “boots on the ground” (gli stivali dei soldati sul terreno). Bisogna tenerceli a lungo e soprattutto avere il coraggio di muoverli nelle aree più pericolose. Se lo si evita per non rischiare la vita e si ricorre ai soli bombardamenti (o ai droni) si uccidono anche i civili, provocando l’odio della popolazione e la premessa per la sconfitta definitiva. Un pessimo insegnamento (verso l’intero mondo islamico) è che non conviene fidarsi degli occidentali. I ceti urbani dell’Afghanistan, le donne desiderose di emancipazione, i giovani istruiti e aperti al mondo speravano che gli americani portassero un futuro di democrazia e modernità. Non vorremmo essere nei loro panni dopo il ritorno dell’emirato (così si chiamerà) talebano. A Teheran, da un lato ci si deve preoccupare. La minoranza scita dell’Afghanistan potrebbe nuovamente riversare un’ondata di profughi al di là del confine. Se i talebani riprenderanno a finanziarsi con la droga (come hanno sempre fatto) i carichi passeranno dalle montagne iraniane e una parte penetrerà, avvelenandolo, nel Paese. Dall’altro lato però a Teheran si sorride. Come diceva infatti Mao ai tempi del Vietnam, gli iraniani trovano conferma che l’America è una “tigre di carta”. Anche a Mosca ci si deve preoccupare. L’Armata Rossa era intervenuta in Afghanistan (tra l’altro) perché temeva che i talebani diffondessero la peste del fanatismo islamico nelle Repubbliche prevalentemente musulmane dell’Unione Sovietica. La minaccia oggi si ripresenta e Putin prende nota che l’America non è un alleato affidabile nella lotta al fondamentalismo. Questo tema - il fondamentalismo - è in effetti il più allarmante. Quale messaggio arriva sul piano propagandistico e psicologico? Protagonista dell’accordo è stato il Qatar. Che ha ottenuto un sensazionale successo e moltiplicarlo suo prestigio. Ma il Qatar (ed è riuscito nella mediazione proprio per questo) ha relazioni con il fondamentalismo islamico. È accusato (a torto o a ragione) di appoggiare milizie vicine a Al Qaida e all’ISIS in Siria, Libia, Iraq, Yemen. Soprattutto di finanziare i “Fratelli Musulmani” in Egitto e Hamas in Palestina. Per questo, il fronte degli alleati di Washington (innanzitutto Arabia Saudita, Egitto, Emirati) hanno da tempo persino rotto i rapporti diplomatici con Doha. I governi di questi Paesi non possono che essere furiosi. Al contrario, non possono che essere sollevati i fondamentalisti di tutto il mondo (dall’Indonesia alla Tunisia). I padri fondatori stessi del fondamentalismo infatti, ovvero i talebani, non sono più automaticamente indicati come terroristi, sono legittimati dai sorrisi e dalle strette di mano del segretario di Stato americano in persona. Legittimati e vincenti. Un insegnamento, infine, riguarda la Nato, che Macron non per caso ha definito agonizzante. Creata per combattere l’Unione Sovietica che non esiste più, è stata impegnata per quasi vent’anni in Afghanistan. Gli italiani hanno fatto la loro parte e perso 54 soldati. Adesso gli americani hanno deciso che la Nato se ne va e dubito che ci abbiano anche solo informati. Meglio tardi che mai, si osservava all’inizio. Ma non si immagina quanto tardi viene fatto un accordo con i talebani. Probabilmente lo si poteva fare non dopo, ma prima dell’11 settembre (forse persino evitandolo). Il protagonista di oggi, quello che ha negoziato l’accordo, è stato Zalmay Khalilzad, il politologo e diplomatico nato e cresciuto in Afghanistan, ex ambasciatore a Kabul, a Baghdad ed ex rappresentante degli Stati Uniti all’ONU. Vent’anni fa, servivo al ministero degli Esteri quando lui era un professore (e anche un rappresentante dell’intelligence americana). Come ho già accennato su queste colonne il 22 gennaio, gli riferivo sui nostri tentativi di aprire la strada a un accordo con i talebani, che ponesse fine alla guerra civile tra loro e l’Alleanza del Nord guidata dal generale Massud. Come italiani, avevamo due assist: il vecchio re Zahir Shah in esilio, che abitava all’Olgiata e aveva ancora grande autorità a Kabul; due ospedali della nostra Emergency International (uno a Kabul e uno nell’area controllata da Massud). Incontravo Khalizdad, così come il ministro degli Esteri talebano Mutawakkil e Massud. Gli riferivo (come un alleato deve fare agli americani). Lui ascoltava e taceva. Ma probabilmente avrebbe dovuto fare vent’anni fa quello che ha fatto adesso. Afghanistan. Non c’è pace senza giustizia per le donne di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 3 marzo 2020 L’accordo Usa-Taleban. La situazione delle afghane, che hanno sostituito il burqa con l’hijab, non fa più notizia e non rientra nell’agenda dei negoziati. L’Onu e diversi studi a livello internazionale sostengono che la presenza delle donne nei negoziati di pace per risolvere i conflitti fa la differenza, non solo per la riuscita e la qualità dell’accordo ma anche per la formazione dell’agenda delle trattative. Purtroppo il contrario di quel che accade in Afghanistan. Le donne sono scarsamente rappresentate nei negoziati dove a prevalere è la forza dei signori della guerra. E non ci si poteva certo aspettare che alle trattative tra Usa e Taleban, in Qatar, partecipassero delle donne! Le posizioni dei Taleban sono note, purtroppo: ma gli Usa non erano andati in Afghanistan per liberarle dal burqa? Era il 2001 e le immagini delle afghane nascoste sotto il burqa, che permetteva loro di vedere il mondo solo a quadretti, facevano il giro del mondo. Ora, dopo quasi diciotto anni di guerra, si ricomincia da capo. Gli Usa non hanno una soluzione per uscire “vittoriosi” dall’Afghanistan e puntano sull’accordo di “pace” come scappatoia per liberarsi di un fardello diventato costoso finanziariamente e politicamente. I Taleban ufficialmente legittimati possono tornare al potere, del resto controllano già circa il 40 per cento del paese. Certo, il ritorno dei Taleban dovrà essere digerito dallo sgangherato governo finora ignorato nelle trattative, ma il potere contrattuale non è a favore di Kabul. Resta da vedere se i Taleban - come stabilito nell’accordo di Doha - saranno in grado di impedire azioni jihadiste sul territorio viste le loro divisioni interne e il supporto di una parte allo Stato islamico. Parlare di pace quando i firmatari sono autori di crimini contro la popolazione civile e soprattutto contro le donne è arduo. Certo, la tregua si fa trattando con i nemici ma non la pace. Non c’è pace senza giustizia. Gli Usa nel 2001 hanno biecamente strumentalizzato i diritti delle donne per intervenire militarmente. Da allora la lotta e gli sforzi per la loro emancipazione hanno incontrato molti ostacoli e ancora oggi circa due terzi delle bambine non vanno a scuola, il 70/80 per cento delle ragazze viene data in matrimonio spesso prima dei 16 anni, per non parlare delle violenze subite quotidianamente, senza la possibilità di rivolgersi alla giustizia. Anche gli aiuti internazionali sono stati spesso vanificati a causa di un sistema corrotto. Ma ci sono anche ong afghane che hanno fatto miracoli per educare gli orfani della guerra e salvare donne dalla violenza. Ma il governo le ostacola perché l’insegnamento è laico e le donne sono ospitate in luoghi segreti per sottrarle alle minacce dei mariti. Questo non basta, ancora oggi l’Afghanistan viene considerato il peggior posto per nascere donna. Ormai la situazione delle afghane, che hanno sostituito il burqa con l’hijab, non fa più notizia e non rientra nell’agenda dei negoziati. Non interessa agli Stati uniti governati dal presidente sessista Trump e tanto meno ai Taleban che risolveranno il problema con l’imposizione delle leggi islamiche - comprese nell’accordo - e purtroppo sappiamo di che si tratta.