Salvare i detenuti dal virus aiuta anche chi vive al di qua delle sbarre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 marzo 2020 Ridurre l’affollamento degli istituti penitenziari è l’unica soluzione per tutelare le persone detenute, gli agenti e noi tutti. Fino a quando potrà reggere il discorso dell’isolamento sanitario in carcere se il contagio dovesse ulteriormente estendersi nei penitenziari? Finora, quelli più colpiti sono gli agenti penitenziari e il personale sanitario, quindi medici e infermieri. Per quanto riguarda il numero dei detenuti contagiati, il numero esatto non è dato sapere. Secondo il guardasigilli sono 15, ma ogni giorno esce fuori la notizia di detenuti messi in isolamento perché hanno accusato sintomi che fanno pensare al contagio da Covid-19 e quindi si è in attesa del risultato dei tamponi. Se i sindacati come la Uil-Pa hanno chiesto al Dap di rendere pubblico il numero esatto degli agenti contagiati (“l’oscurantismo del Dap”, è il titolo del comunicato a firma del rappresentante sindacale Gennarino De Fazio), ci sono centinaia di familiari che chiedono di sapere cosa accade nelle carceri dove vivono i loro cari. Inevitabilmente si genera ansia e girano voci di numeri magari non veritieri di detenuti contagiati, ciò crea una vera e propria psicosi e angoscia. Forse sarebbe meglio che il Dap indicasse esattamente il numero dei contagiati di tutta la popolazione penitenziaria (operatori e detenuti) in maniera tale di dare l’esatta dimensione del problema. Ogni giorno arrivano, anche a Il Dubbio, centinaia di lettere dei familiari preoccupati, a volte indicando un numero probabilmente non veritieri di contagiati. Stessa situazione riguarda chi lavora. La tensione e l’angoscia potrebbero essere evitate con la trasparenza dei dati. Ad esempio nel carcere di Rebibbia si rincorrevano voci di detenuti contagiati. Ma il garante regionale dei detenuti Stefano Anastasìa, raggiunto da Il Dubbio, riferisce di sette detenute che sono in isolamento sanitario e in attesa di un tampone. Il motivo è che sono state in contatto con sanitari poi risultati positivi al test. Parliamo delle detenute che vivono nel carcere romano con i nove bambini, le quali sono venute in contatto con il medico (ora in rianimazione) risultato poi positivo. C’è Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia penitenziaria, Spp, che ha rivolto un appello al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ai ministri della Salute, Roberto Speranza e Giustizia Alfonso Bonafede, per far concedere i domiciliari alle 51 madri detenute in tutt’Italia con i loro 55 bambini. Nella giornata di ieri, i detenuti di due sezioni di Rebibbia hanno anche inscenato una protesta per il ritardo nelle risposte alle loro istanze per i domiciliari. Sono circa 300 le richieste, finora soltanto 12 sono state accolte. Quindi ci vorrà tempo per poterle smaltire. Potenziali bombe a orologeria - La situazione è grave anche per quanto riguarda il carcere di Voghera, dove risultano almeno sei casi di contagio tra detenuti, uno dei quali è ancora in ospedale, mentre una quarantina sono tuttora in quarantena. Qualcosa sta accadendo al carcere di Parma, una vera e propria bomba ad orologeria visto l’alto numero di detenuti anziani e con patologie gravi. Risultano cinque agenti contagiati e una sessantina di detenuti in quarantena. Non è un isolamento sanitario, ma sono tutti insieme: potenziali contagiati e non. Fino a che punto può essere utile questa gestione a causa dei numeri abbondanti di detenuti? A questo si aggiunge il problema della prevenzione. Il personale penitenziario si lamenta di non ricevere i dispostivi di sicurezza come le mascherine e la mancanza dei tamponi, quando arrivano casi di contagio. Il carcere è un servizio essenziale e le conseguenze dell’ingresso dell’infezione, anche in una singola sede, possono avere ripercussioni di estrema gravità, non solo per le persone, ma per l’intero sistema. Il presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe), Luciano Lucanìa, è netto. “Di concerto con la Sanità territoriale, dovremmo procedere con lo screening dei soggetti che quotidianamente fanno accesso alla struttura penitenziaria e hanno contatti con i detenuti, anche indirettamente”, spiega. Gennaro De Fazio, leader della Uil-Pa, sottolinea anche un altro problema. Ovvero il rischio dei contagi di ritorno. “Temiamo - argomenta il leader sindacale - che il contagio nel carcere sia arrivato in differita, abbiamo paura - e saremmo felici di essere smentiti - che i focolai si stiano sviluppando in queste ore e che il picco vi sarà a qualche settimana di distanza da quando si registrerà nel Paese. Temiamo fortemente che dalle carceri, come se si trattasse di “territorio straniero”, esterno ai confini nazionali, potrebbe svilupparsi il c. d. contagio di ritorno, che rischierebbe di far riprecipitare la situazione pure al di qua delle mura. Speriamo di sbagliarci, ma lo stiamo dicendo prima, se per una sfortunatissima ipotesi dovesse poi accadere, crediamo che non si potrebbe parlare di fatalità e di sole responsabilità morali”. La soluzione principale per attuare la possibilità di gestire l’emergenza in maniera adeguata è lo sfoltimento delle carceri. La misura attuata dal ministero della Giustizia non basta, come concordano tutti gli addetti ai lavori. Bisogna fare di più. Non bastano nemmeno il discorso della produzione dei braccialetti, accordo firmato ieri, che prevede finalmente l’emissione di 5000 braccialetti. Non tutti insieme, ma gradualmente. Un accordo che sarebbe dovuto partire, come ricordato da Il Dubbio, già 15 mesi fa. Ma è mancato il completamento delle fasi di collaudo. I braccialetti servirebbero per l’attuazione delle disposizioni del decreto “Cura Italia” che, nella parte relativa alle misure in materia di giustizia e carceri, prevede la possibilità di accesso ai domiciliari ai detenuti che devono scontare una pena fino a 18 mesi. Per ora, ne sono disponibili 920. Per il resto bisognerà attendere alcuni mesi. Ma l’emergenza è ora e bisogna far uscire dal carcere più detenuti possibili. C’è Carmelo Miceli, componente della commissione Giustizia della Camera e responsabile sicurezza del Pd, che dichiara senza minimi termini: “Per evitare il contagio di massa tra reclusi e agenti di polizia penitenziaria, il governo mostri coraggio e adotti anche una forma speciale di detenzione domiciliare temporanea che abbia la stessa durata dell’emergenza epidemiologica”. Un serio pericolo che lo stesso Andrea Orlando del Pd non ha nascosto, rispondendo con una lettera aperta ai leader di Lega e Fratelli d’Italia, Salvinie Meloni. Eppure l’ex guardasigilli è al governo, quindi teoricamente potrebbe incidere. Perché allora sono state partorite misure del tutto insufficienti come dichiarato perfino dall’Associazione nazionale dei magistrati e dal Csm? Nel frattempo si aggiunge l’appello dei Garanti territoriali, coordinati da Stefano Anastasìa, che hanno il polso della situazione e che evidenziano come i provvedimenti legislativi presi dal governo sono largamente al di sotto delle necessità. Appello condiviso anche dal Garante nazionale, Mauro Palma, nel suo bollettino quotidiano. “Facciamo appello - scrivono i garanti - al Presidente della Repubblica, quale supremo garante dei valori costituzionali in gioco, ai Sindaci e ai Presidenti delle Regioni, delle Province e delle Aree metropolitane di cui siamo espressione e ai parlamentari, affinché nell’esame del decreto- legge contenente le norme finalizzate alla riduzione della popolazione detenuta vengano adottate misure molto più incisive e di pressoché automatica applicazione, in grado di portare nel giro di pochi giorni la popolazione detenuta sotto la soglia della capienza regolamentare effettivamente disponibile”. Ai domiciliari chi deve scontare un anno, con il braccialetto solo chi ha davanti 18 mesi di Liana Milella La Repubblica, 31 marzo 2020 Briefing ieri sera della maggioranza con il Guardasigilli Bonafede, oggi la decisione. Escono da Rebibbia le prime 4 mamme in prigione con i figli, dentro ne restano altre. I Garanti chiedono a Mattarella misure effettive. A venti giorni dalle rivolte nelle carceri (13 morti e 35 milioni di euro di danni) e a tredici dal primo decreto (era il 17 marzo) per affrontare l’emergenza del Covid-19 anche nelle patrie galere, M5S e Pd ancora non hanno imboccato la stessa strada per snellire le prigioni e garantire anche lì il rispetto di quel metro che dovrebbe valere, in questo momento, per ogni essere umano. Ma se stai dentro, in una cella con altri quattro o cinque compagni, tutto diventa impossibile. Che fare dunque? Alla vigilia della discussione al Senato sul decreto Cura Italia, che ingloba anche il decreto sulle carceri, i telefoni scottano tra il Guardasigilli Alfonso Bonafede, il Pd, i renziani e Leu. Con una soluzione possibile: fuori dalla cella, e senza braccialetto, chi deve scontare ancora un anno. Invece fuori con braccialetto chi ha ancora di fronte 18 mesi. Mentre i Garanti dei detenuti di tutta Italia chiedono al presidente Mattarella di spingere per misure che facciano diminuire il numero dei ristretti. E una buona notizia sembra lanciare un segnale: da Rebibbia, come annuncia il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia, sono uscite le prime quattro mamme che erano in cella con i loro figli. Ma ce ne sono altre nove in attesa in tutto il Lazio. Aumentano i braccialetti - L’interrogativo è semplice: per scarcerare chi ha un residuo di pena basso, e solo finché durerà l’emergenza, è necessario disporre di un congruo numero di braccialetti elettronici che consentano di seguire passo passo chi esce? La risposta di Bonafede sta nella sua richiesta al commissario straordinario per il Coronavirus Domenico Arcuri di aumentare l’attuale dotazione di braccialetti. Che attualmente sarebbero circa 5mila, secondo quanto dichiarano i vertici della polizia e quelli del Dipartimento delle carceri, Gabrielli e Basentini. Un numero doppio rispetto ai 2.600 che erano stati già assicurati dal Viminale una settimana fa. Ma per Bonafede non bastano ancora. È evidente che il ministro della Giustizia punta su scarcerazioni sicure, con uno strumento come il braccialetto che dovrebbe consentire di seguire gli eventuali spostamenti del detenuto e soprattutto il suo allontanamento dal domicilio per evitare eventuali fughe che, in questo momento, peggiorerebbero la situazione. Proprio per questo Bonafede ha sollecitato il commissario Arcuri a reperire altri braccialetti. Anche se resta una difficoltà di fondo, messa in evidenza da tutti quelli che lavorano nelle carceri: innanzitutto, almeno fino a oggi, il Viminale garantiva l’attivazione e il funzionamento di circa 2-300 braccialetti alla settimana. Quindi l’obbligo del braccialetto, anziché accorciare i tempi delle scarcerazioni, proprio com’è necessario per l’emergenza Covid-19, rischia di allungarli. Gli ultimi dati sulle carceri - A ieri i detenuti erano 57.590. Secondo il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma “la capienza regolamentare è di 51.416 posti, ma quelli realmente disponibili non arrivano a 48mila, con alcune carceri particolarmente affollate, come a Taranto (+194%)e a Lecce (+182%), o a Monza (+173%), a Campobasso (+175%) e a Latina (+181%)”. Palma aggiunge che a oggi per garantire l’isolamento sanitario sono state recuperate 740 stanze di varie dimensioni, raggruppate in 169 reparti di 120 Istituti. I numeri parlano chiaro: 48mila posti effettivi, 57.590 detenuti. Ce ne sono 10mila in eccesso per garantire il rispetto degli spazi imposti dalla Cedu di Strasburgo (i famosi tre metri) in condizioni di assoluta normalità. Quindi bisogna scarcerare. Inutile pensare all’indulto e all’amnistia chiesta ancora ieri dai Radicali che richiederebbero tempi molto lunghi per l’approvazione parlamentare di certo non compatibili con il virus. Servono, per l’emergenza, misure di effettiva emergenza, come sollecita chi lavora e vive nelle carceri. L’appello dei Garanti dei detenuti - Al presidente Mattarella, ma anche ai presidenti di Camera e Senato, ai governatori e ai sindaci si appellano gli oltre 60 Garanti dei detenuti che valutano come “largamente al di sotto delle necessità” il decreto del governo del 17 marzo, “anche se raggiungesse tutti i potenziali beneficiari, seimila detenuti secondo il Ministro della Giustizia”. Secondo i Garanti, come hanno già fatto il Csm, l’Anm, l’Unione delle Camere penali e l’Associazione dei docenti di diritto penale, bisogna andare oltre con “ulteriori misure di rapida applicazione che portino la popolazione detenuta al di sotto della capienza regolamentare effettivamente disponibile”. Quindi sotto i 48mila detenuti. Torniamo, dunque, alle 10mila scarcerazioni necessarie. Gli emendamenti possibili al Senato - La discussione si apre subito, al Senato, dove gli emendamenti al decreto devono essere votati entro giovedì. Mentre il Guardasigilli Bonafede cerca i braccialetti e il vice segretario del Pd Andrea Orlando definisce “timide” le misure varate a metà marzo, che però hanno già provocato “durissime” reazioni, tant’è che lui fa appello a Salvini e Meloni perché non ne ostacolino di nuove. Un deputato del Pd come Carmelo Miceli chiede che “il Governo mostri coraggio e adotti una forma speciale di detenzione domiciliare temporanea, che abbia la stessa durata dell’emergenza epidemiologica”. Ma siamo lontani, invece, dagli emendamenti presentati dal Pd al Senato, firmati dal capogruppo in commissione Giustizia Franco Mirabelli e dai sentori Cirinnà, Valente, Rossomando. Niente braccialetto, per esempio, per chi deve scontare solo un mese di carcere. Ugualmente fino al 30 giugno restano fuori dal carcere quelli che già godono della semilibertà. Sempre alla stessa data bloccate le esecuzioni delle condanne per chi deve scontare fino a 4 anni. Ma ieri sera Bonafede ha fatto un primo giro di tavolo con la maggioranza. Oggi la mediazione prosegue. Una strada percorribile è riassumibile così: chi deve scontare ancora un anno di pena passa subito agli arresti domiciliari, ma senza il braccialetto. Chi invece deve scontare ancora 18 mesi dovrà lasciare il carcere ma con il braccialetto. Il Dap: 5.000 braccialetti in arrivo. Ma nessuno ci crede di Aldo Torchiaro Il Riformista, 31 marzo 2020 920 sarebbero già disponibili. I penalisti: “Truffa grottesca, vanifica misure”. Anastasia: “Accolte pochissime istanze per i domiciliari, a Rebibbia 12 su 300”. Tra le pieghe del Dl “Cura Italia riesce a inserirsi qualche timida misura anche per l’umanità di serie B che vive in carcere. E in un articolo viene finalmente previsto che si potranno scontare a casa, con gli arresti domiciliari, le pene detentive fino a 18 mesi “anche se costituenti parte residua di maggior pena”. La norma non riguarda coloro che scontano pene per reati gravi o che hanno partecipato alle proteste del 7 marzo. Dove possibile dovranno essere utilizzati i braccialetti elettronici. Non fossero chimere. Il braccialetto elettronico, “autentico scandalo anche dal punto di vista amministrativo: acquistati e mai collaudati”, dice Rita Bernardini. Fatto sta che ieri un provvedimento firmato dal capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, d’intesa con il capo della Polizia, individua in 5.000 braccialetti la dotazione dei dispositivi che possono essere utilizzati, tenuto conto anche delle emergenze sanitarie e in attuazione delle disposizioni del decreto “Cura Italia”. Dei 5.000 braccialetti, che consentono di monitorare in tempo reale il detenuto che li indossa a domicilio, 920 sarebbero immediatamente disponibili. Staremo a vedere. Il Garante per i diritti dei Detenuti del Lazio, coordinatore dei Garanti regionali, non ci crede. “Noi ad oggi sappiamo che le istanze accolte per i domiciliari con braccialetto sono molto poche. Da Rebibbia sono state inoltrate trecento domande, ne sono state accolte dodici. In tutta la regione ne sono state accolte 53. Per questo abbiamo scritto un appello al Parlamento e al Presidente della Repubblica, perché anche in questo campo è bene che si ascoltino le competenze”. La preghiera di Papa Francesco, che all’Angelus di domenica ha rivolto un pensiero particolare a chi affronta la prova del coronavirus in carcere, è ascoltata qua e là dalla politica. A partire dall’ex Guardasigilli, Andrea Orlando: “Aprire rapidamente una discussione sul carcere che tenga conto di questa fase e non ricalchi il copione di questi anni con la contrapposizione tra giustizialisti e garantisti, per evitare che senza specifici provvedimenti i penitenziari diventino dei “focolai” di coronavirus pericolosi per tutto il Paese e non solo per i reclusi e per chi lavora nelle carceri”. Il suo compagno di partito Carmelo Miceli, in commissione Giustizia alla Camera e responsabile sicurezza Pd va nel dettaglio: “Per evitare il contagio di massa il Governo mostri coraggio e adotti anche una forma speciale di detenzione domiciliare temporanea, che abbia la stessa durata dell’emergenza epidemiologica”. E non si fa attendere la voce dell’avvocatura. “Dopo aver ignorato gli appelli di noi penalisti italiani, della intera magistratura in tutte le sue più autorevoli articolazioni, del Consiglio Superiore della Magistratura, delle Università, degli operatori penitenziari, del volontariato, dello stesso Presidente Mattarella, questo Governo saprà ignorare anche il solenne appello del Pontefice?”. È l’interrogativo che pone l’Unione delle Camere penali. “Papa Francesco ha voluto esprimere, urbi et orbi, parole chiare sulla necessità indifferibile di interventi immediati ed efficaci sulle carceri italiane, flagellate dal più alto sovraffollamento europeo, e perciò esposte ad un rischio epidemico che solo una miopia politica irresponsabile può ostinarsi ad ignorare”. E il Governo “sa bene che le misure varate sono solo apparenti, perché vanificate da quella ormai grottesca truffa dei braccialetti elettronici che non sono e non saranno mai tempestivamente disponibili”. La tensione, negli istituti di pena, rimane alta. Nel carcere romano di Rebibbia un gruppo di detenuti, mentre andiamo in stampa, sta protestando pacificamente: usciti per l’ora d’aria, non vogliono più rientrare in cella. Le soluzioni alla Bonafede non convincono nessuno. “Carceri sovraffollate e non sicure. Serve una campagna di screening” di Tommaso Fregatti Il Secolo XIX, 31 marzo 2020 L’allarme lanciato dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria. “Oltre alle misure di pre-triage, assieme alla Sanità territoriale, dovremmo procedere con lo screening di coloro che ogni giorno accedono alla struttura penitenziaria”. Lo dice in una nota Luciano Lucania, Presidente del Simspe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria). Ad oggi nelle carceri italiane sono 15 i detenuti affetti da Covid-19, ma rimane non conosciuto il numero degli infettati tra gli operatori, fra cui poliziotti e operatori sanitari. L’emergenza coronavirus e le proteste di inizio marzo hanno portato alla luce uno dei tanti settori colpiti dalle restrizioni per prevenire i contagi. Il decreto dell’8 marzo ha previsto infatti norme apposite per gli istituti penitenziari: i casi sintomatici dei nuovi ingressi devono essere posti in condizione di isolamento dagli altri detenuti; i colloqui visivi si devono svolgere in modalità telefonica o video; diventano limitati i permessi e la libertà vigilata. Queste misure, volte a favorire un contenimento della diffusione del virus, si sono scontrate con una realtà non semplice. Gli istituti penitenziari italiani soffrono di problemi cronici che periodicamente vengono affrontati ma non del tutto risolti. Come riporta il sito del ministero della Giustizia, rispetto all’effettiva capienza delle carceri italiane (in grado di ospitare intorno ai 51mila detenuti), i reclusi effettivi sono oltre 60mila, di cui circa un terzo stranieri. “Nel sistema carcere ravviso molta buona volontà, ma assoluta mancanza di un piano organico condiviso per affrontare l’emergenza coronavirus - sottolinea il presidente della Simspe - già assolutamente gravissima nel contesto nazionale per i suoi riflessi sulla salute generale e sull’economia. Nelle carceri potrebbe provocare una tragedia se vi fosse un impatto differente e di maggiore portata”. Proprio in questi giorni l’Oms - Ufficio per l’Europa ha pubblicato una specifica linea guida: “Preparedness, prevention and control of Covid-19 in prisons and other places of detention - 15 March 2020”: tuttavia, le indicazioni non sembrano del tutto adeguate a questa fase dell’epidemia nel nostro territorio nazionale. La protezione civile ha provveduto all’installazione di tensostrutture come unità di accoglienza, che però non hanno le caratteristiche per essere utilizzate come ambulatori. Per queste ragioni, gli specialisti da anni impegnati a tutelare la salute nei penitenziari lanciano l’allarme. “Vi è una perdurante mancanza di dispositivi di protezione individuale - evidenzia il presidente Simspe - Abbiamo fatto numerose segnalazioni: siamo certi che le nostre richieste verranno accolte, ma il problema è sovranazionale. Noi operatori della salute, medici e professionisti sanitari, abbiamo il mandato, che oggi diventa una missione, di tutelare la salute e la vita all’interno del sistema carcere, essendo operatori provenienti dalla sanità pubblica, dalle aziende sanitarie del sistema sanitario nazionale. È dall’inizio di questa epidemia che per le carceri si susseguono lettere circolari dal dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed indicazioni più specificamente sanitarie provenienti dalle sanità regionali e dal ministero della Salute”. La positività non equivale a malattia, non comporta necessariamente il ricovero e solo in alcuni casi provoca peggiori esiti. Tuttavia, la positività al virus implica la certezza di essere contagiosi e la necessità di isolamento reale. Il carcere, in quanto mondo chiuso, potrebbe sembrare protetto dall’infezione, ma in realtà il virus può farvi ingresso in qualsiasi momento. “Il carcere è un servizio essenziale e le conseguenze dell’ingresso dell’infezione, anche in una singola sede, possono avere ripercussioni di estrema gravità, non solo per le persone, ma per l’intero sistema - afferma il presidente Simspe - Di concerto con la sanità territoriale, dovremmo procedere con lo screening dei soggetti che quotidianamente fanno accesso alla struttura penitenziaria e hanno contatti con i detenuti, anche indirettamente. Gli screening, nonostante la complessità ed i presumibili costi, devono realizzarsi mediante tamponi naso-faringei da ripetersi in maniera regolare, anche a cadenza settimanale, nelle aree che registrano le maggiori prevalenze di infezione. In questa fase, nell’attesa che le curve epidemiologiche evidenzino sostanziali fasi di regressione, un simile approccio è indispensabile. Inoltre, si devono sviluppare iniziative omogenee fra gli attori del sistema, il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la sanità dei territori”. Papa Francesco chiede un intervento per evitare il contagio nelle carceri di Mauro Leonardi Avvenire, 31 marzo 2020 Domenica al centro dell’Angelus di Francesco, c’era Gesù che piangeva e singhiozzava per la morte dell’amico Lazzaro. “Dio - ha rimarcato - non ci ha creati per la tomba, ci ha creati per la vita”: e la tomba di cui parlava papa Bergoglio non era metaforica ma era il realissimo Covid-19 con le sue minacce di morte. Pensando a ciò ieri il Santo Padre ha voluto ricordare i più poveri tra i poveri, ovvero i carcerati: la categoria della quale nessuno vuole parlare in questa emergenza coronavirus. Quanti sono i personaggi grandi e piccoli che hanno esborsato somme di denaro, anche grosse, per gli ospedali dei quali tutti sentiamo parlare? Somme ingenti, somme giuste, somme doverose. Ma chi dà denaro per chi si contagia in carcere? Eppure basterebbe riflettere un attimo per comprendere di quale grande necessità stiamo parlando. Cosa avviene in un istituto di pena quando arriva l’influenza? Che la prendono immediatamente tutti. Celle da sei con promiscuità assoluta, impossibilità radicale di tutte quelle misure prudenziali cui il governo obbliga, giustamente, noi cittadini liberi. E così domenica il pensiero del Papa si è soffermato di nuovo e in modo speciale su tutte le persone che patiscono la vulnerabilità dell’essere costretti a vivere in gruppo: case di riposo, caserme, ma in modo particolare le persone delle carceri. “Ho letto - ha sottolineato - un appunto ufficiale delle Commissione dei Diritti Umani che parla del problema delle carceri sovraffollate, che potrebbero diventare una tragedia. Chiedo alle autorità di essere sensibili a questo grave problema e di prendere le misure necessarie per evitare tragedie future”. Poche ore prima, forse per mera coincidenza o forse no, era divenuto pubblico un appello alla società civile levato dai detenuti di Rebibbia. In esso, constatando l’evidenza per cui non possono essere rispettati i parametri di distanziamento disposti dal governo, si chiede una modifica legislativa che obblighi il magistrato di sorveglianza a concedere misura alternative di custodia in carcere, coerenti con le attuali circostanze di pandemia. Questo documento, che arriva a noi attraverso i cappellani di Rebibbia (preti che prendono sul serio l’affermazione fatta con forza dal Papa per cui i sacerdoti e le suore fanno bene a sporcarsi le mani aiutando i poveri e i malati anche in questo periodo, Messa a Santa Marta 28 marzo 2020), non propone nessuna rivoluzione ma si sforza di proporre una soluzione saggia che ha il coraggio di voler costruire: consapevoli che pochi giorni fa, gli istituti carcerari erano assunti all’onore della cronaca per episodi di rivolta con conseguenze tragiche che, a volte, avevano purtroppo anche compromesso vite umane. La proposta di questo documento va proprio nella linea di diminuire quel sovraffollamento di cui parla il Pontefice. Non si tratta di “svuotare le carceri” come qualcuno ha riferito banalizzando: si tratta di portare a compimento un iter faticoso messo in atto da tutti gli attori della casa circondariale di Rebibbia, e con modalità analoghe in altri istituti italiani. “Si è fatto - racconta il documento - un lavoro enorme da parte della direzione del carcere e con essa dell’area educativa per istruire centinaia, se non migliaia di istanze per la richiesta di una misura alternativa come quella della detenzione domiciliare”. Ma questo lavoro viene vanificato con ovvie ricadute negative sia sul fronte dei detenuti sia sul fronte degli impiegati dell’amministrazione penitenziaria che hanno prodotto sforzi che nel corso del tempo mai erano stati profusi. “Gli sforzi - così recita il documento - vengono vanificati dall’inerzia di giudizio del magistrato di sorveglianza che incentra la sua attenzione sempre e comunque sul fatto originario che ha prodotto la condanna di espiazione”. Ecco perché, visto che siamo in pandemia, ci vorrebbe un intervento del legislatore per rendere obbligatorio ciò che il regolamento considera solo opzionale. Perché l’emergenza nella quale si trova il Paese è vera e riguarda tutti: anche i dimenticati da tutti. Anche i carcerati. Cari Salvini e Meloni, le carceri sono una bomba epidemiologica. Discutiamone di Andrea Orlando* huffingtonpost.it, 31 marzo 2020 Egregio senatore Salvini, illustre onorevole Meloni, mi rivolgo direttamente a voi anche sulla base della vostra volontà, manifestata in più occasioni, di collaborare con il governo e con la maggioranza nella gestione della drammatica crisi che stiamo vivendo. La crisi colpisce ogni ambito della nostra vita civile, sociale e istituzionale, pertanto, credo che la vostra disponibilità non possa che riguardare ogni ambito interessato da essa. Tra questi ve n’è uno particolarmente scabroso e divisivo, eppure assolutamente cruciale come il carcere. Il Papa ieri ha richiamato l’attenzione di tutti noi sull’argomento. Lo ha fatto evocando l’aspetto umanitario del problema in relazione alla condizione dei detenuti. Il problema è evidente, il virus non colpisce solo gli incensurati ed è evidente che in un circuito penitenziario nel quale dovrebbero stare circa 45.000 e nel quale, attualmente, sono recluse più di 60.000 persone, la possibilità di realizzare il distanziamento sociale è una barzelletta di pessimo gusto. Non mi sfugge, cari colleghi, che il vostro posizionamento politico di questi anni si è incentrato sul tema della certezza della pena. Si potrebbe opinare che la pena può essere certa e persino dura e sicuramente più utile alla collettività, senza necessariamente risolversi nella reclusione, ma non è il tempo di fare questa discussione. Adesso la questione si pone su un altro piano. Il mancato distanziamento sociale dietro le sbarre può fare del carcere una vera e propria bomba epidemiologica. I timidi provvedimenti assunti non sono in grado di evitare questo scenario. Occorrerebbe più coraggio. Il carcere non è un’isola. Ogni giorno dagli istituti penitenziari escono ed entrano migliaia di persone. In primo luogo le donne e gli uomini della polizia penitenziaria, e con loro, un numero significativo di medici, infermieri, educatori, tecnici e dirigenti penitenziari. Il contagio non resterebbe chiuso tra le mura. E potremmo così trovarci, superato il picco della diffusione del virus nel Paese, a fare i conti con un ritorno di fiamma provocato proprio dal carcere trasformato in un enorme focolaio. Se non sono sufficienti, dunque, i richiami al senso di umanità che pure non penso vi siano indifferenti, faccio appello al vostro indubitabile attaccamento al nostro Paese già troppo gravato da ipoteche e angosce. Peraltro il primo provvedimento deflattivo per far fronte al sovraffollamento, in condizioni assai meno drammatiche, di quelle attuali, fu varato meritoriamente da un esecutivo sostenuto dalle forze politiche che attualmente guidate. Le timide norme contenute nel decreto in conversione alle Camere credo riescano in modo soltanto parziale a ridurre i pericoli che ho paventato, eppure anche quelle, hanno già suscitato da parte vostra durissime polemiche. Sono consapevole che il tema si presta a fraintendimenti e strumentalizzazioni e a dire il vero affrontarlo in modo razionale non è mai fonte di consenso. Eppure credo che sia necessario mettere da parte su questo come su altri punti le nostre legittime aspirazioni e riconsiderare le nostre convinzioni più radicate alla luce di ciò che sta avvenendo. Questo sacrificio non è richiesto soltanto a voi. Tutte le forze politiche sono chiamate a ridiscutersi e a rivedere molte delle loro parole d’ordine. Credo che l’interesse della nostra comunità lo giustifichi ampiamente. Aprire dunque, rapidamente una discussione sul carcere che tenga conto di questa fase e non ricalchi il copione di questi anni, è assolutamente necessario, vi ringrazio se soltanto vorrete prendere seriamente in considerazione questa possibilità. *Deputato Pd Coronavirus, nelle carceri la paura degli agenti di Polizia penitenziaria di Marco Bova Il Fatto Quotidiano, 31 marzo 2020 “Ci hanno dato le mascherine di carta rifiutate dalle Regioni”. La denuncia arriva dalla Uil, sindacato degli agenti di polizia penitenziaria che in questi giorni sta raccogliendo segnalazioni dall’intera penisola. Dopo le proteste dei detenuti di alcune settimane fa le tensioni sembrano rientrate. Ma adesso gli agenti temono di trasformarsi in untori che potrebbero condurre il virus all’interno dei penitenziari. “Ci hanno spedito le mascherine di carta che avevano rifiutato le Regioni, così equipaggiati rischiamo di esporre i detenuti al contagio”. La denuncia arriva dalla Uil, sindacato degli agenti di polizia penitenziaria che in questi giorni sta raccogliendo segnalazioni dall’intera penisola. Dopo le proteste dei detenuti di alcune settimane fa le tensioni sembrano rientrate. Ma adesso gli agenti temono di trasformarsi in untori che potrebbero condurre il virus all’interno delle carceri. “Le procedure adottate dal Ministero garantiscono l’accertamento su ogni singolo detenuto, ma noi restiamo la variabile imprevista - dicono - che potrebbe dar vita a un piccolo focolaio”. E il timore rimbalza da nord a sud, anche in virtù dell’esecuzione delle scarcerazioni previste dal Cura Italia per i detenuti con pene inferiori ai diciotto mesi. “Da alcune settimane stiamo operando con soluzioni di fortuna, anche il sindacato stesso ha messo a disposizione alcune mascherine da donare a tutti i colleghi, ma ieri abbiamo ricevuto 5000 di queste mascherine che alcuni governatori hanno definito ‘quelle dei cartoni animati’“, dice Gioacchino Veneziano, segretario della Uil in Sicilia. “Ci stanno mandando in trincea senza nessuna arma - continua - è inutile che il Ministro Bonafede e il capo di dipartimento Basentini dice di tutelarci, non è così e lo smentiamo con i fatti”. Condizione analoga in Puglia, dove “sono arrivate le stesse mascherine di carta”, dice Stefano Caporizzi, responsabile regionale del sindacato. “Abbiamo preferito rivolgerci ad alcune aziende locali per averle con un piccolo contributo - dice - e poter evitare di contagiare la popolazione detenuta, che ci chiede di indossarla perché vorrebbero sentirsi più sicuri”. “Noi le mascherine di carta le abbiamo ricevute la settimana scorsa, adesso ci hanno spedito un lotto di mascherine rigide (due a testa) che dobbiamo lavare ogni sera”, racconta Domenico Maldarizzi, segretario Uil in Emilia Romagna. “Riteniamo che il numero di dispositivi sia assolutamente non idoneo - continua - basti pensare che a Bologna ci sono stati dei casi tra i sanitari e gli infermieri e l’amministrazione non ci ha mai fornito dei dati ufficiali e anche un detenuto è risultato positivo”. Il carcere del capoluogo emiliano alcune settimane fa è stato al centro di una delle proteste più pericolose. “Adesso lavoriamo tra mura nere e piene di fuliggine, all’inizio sono stati trasferiti 40 detenuti, poi nessun altro trasferimento - aggiunge - tra l’altro stiamo avendo difficoltà anche a trovare qualcuno che possa riparare i danni”. “Senza un vettore esterno - continua Caporizzi - nessun detenuto prenderà mai il coronavirus, sono soltanto i fattori esterni a poter portare il contagio all’interno e qualora dovesse avvenire almeno un contagio, si scatenerebbe un focolaio molto preoccupante”. La procedura infatti prevede che, anche chi viene arrestato in questi giorni venga sottoposto a una visita pre-triage prima di accedere in carcere. “Molti colleghi sono in quarantena senza tampone”, aggiunge. Ed è singolare il caso di Lecce, dove sei agenti sono in quarantena da dieci giorni, in attesa degli esiti del tampone, dopo essere stati a contatto con una detenuta risultata positiva. Alcuni giorni è morto un agente pugliese in servizio al carcere milanese di Opera e i sindacati sono tornati a chiedere i “tamponi per tutti i poliziotti”. “Il rischio più grosso è proprio nelle procedure che dobbiamo eseguire in occasione delle scarcerazioni previste dal Cura Italia: dobbiamo entrare in abitazioni a noi sconosciute a tutti gli effetti, rischiando anche di trovare persone che non hanno denunciato di essere in quarantena o che sono affette da coronavirus senza neppure saperlo”, dice Gioacchino Veneziano. “A Firenze alcuni colleghi hanno sollevato questa problematica - aggiunge Eleuterio Greco segretario Uil in Toscana - e in questi giorni eseguiremo almeno 60 provvedimenti”. “Ampliare le pene alternative non è un segnale di resa - conclude Caporizzi - ma in questa maniera si rischia di esporci ulteriormente. Speriamo tutti il meglio, ma se dovesse scapparci il morto, riprenderebbero le rivolte, ne siamo certi”. “Signor Presidente Mattarella, facciamo uscire i bimbi dalle carceri” Il Dubbio, 31 marzo 2020 L’appello che Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia penitenziaria. “Nella sezione femminile di Rebibbia ci sono 9 bambini che vivono con le mamme detenute. Dopo il caso accertato di medico positivo al Coronavirus si facciano uscire i bambini dal carcere affidandoli a familiari o ai servizi sociali o alle stesse madri agli arresti domiciliari”. È l’appello che Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia penitenziaria, Spp, ha rivolto al residente della Repubblica Sergio Mattarella e ai ministri della Salute, Roberto Speranza e Giustizia Alfonso Bonafede. “Una situazione di grande inciviltà che si aggiunge all’autorevole e recente denuncia del presidente Mattarella sulla ‘mancanza di dignità in carcerè“, spiega Di Giacomo, ricordando i numeri: al 29 febbraio scorso erano ben 55 i bambini con meno di tre anni d’età che vivevano in carcere con le loro madri, alle quali non è stata concessa, per decisione del giudice, la possibilità di accedere alle misure alternative dedicate proprio alle detenute madri. Ad essere recluse con i propri figli sono 51 donne, 31 straniere e 20 Italiane. Per Di Giacomo “non possono essere i bambini a pagare la sempre più grave disattenzione dell’Amministrazione penitenziaria che si manifesta in relazione alla crescente diffusione del contagio Covid-19 in tutte le carceri italiane. Questi bambini devono uscire subito”. Tra le misure decise per ridurre il numero di detenuti secondo il Dl varato dal Governo la condizione dei bambini in carcere con le madri richiede priorità su tutti gli altri casi - sottolinea il sindacalista - È una situazione insostenibile che va rimossa che come Spp abbiamo denunciato in tempi normali, figuriamoci in questi tempi di emergenza sanitaria. I bambini non devono stare in carcere né tanto meno rischiare la salute”, conclude il segretario. Violenza domestica, allarme di Valente (Pd): “Giusta la stretta del Viminale” di Errico Novi Il Dubbio, 31 marzo 2020 Parla la Presidente della Commissione d’inchiesta del Senato sul femminicidio. “Dico grazie a Gabrielli che, come avevamo chiesto, ha mobilitato tutte le forze dell’ordine contro le violenze familiari: ora la convivenza forzata le aggrava. Chiediamo il sostegno di Cnf, Csm e guardasigilli”. Non è semplice comprenderlo, nel pieno della tragedia coronavirus, ma l’emergenza sanitaria ne trascina altre spesso sottovalutate. “Anche riguardo alla violenza domestica non è agevole ottenere risposte tempestive, in termini di contrasto materiale ma anche di misure legislative adeguate”, è la premessa da cui parte Valeria Valente, senatrice del Pd impegnata, come presidente della commissione d’inchiesta di Palazzo Madama, a “tenere alta la vigilanza sulle violenze familiari anche in una fase così drammatica per tutti gli ambiti della vita collettiva”. Ma un risultato notevolissimo è già arrivato venerdì scorso, per l’organismo presieduto dalla parlamentare dem: una circolare firmata dal capo della Polizia Franco Gabrielli che valorizza proprio le sollecitazioni di Valente, e gli scambi che la presidente della commissione aveva avuto, oltre che con Gabrielli, anche con la ministra dell’Interno Lamorgese e la ministra delle Pari opportunità Bonetti. Nel documento, inviato a tutte le forze dell’ordine (inclusa l’Arma dei Carabinieri che dipende dalla Difesa anziché dal Viminale), si sensibilizzano gli agenti delle “sale operative” a conservare la massima “sensibilità” nei confronti delle richieste d’aiuto rivolte da “persone che subiscono violenza domestica”. A maggior ragione in una fase in cui le “restrizioni” anti contagio hanno “determinato una convivenza forzata dei nuclei familiari”. Gabrielli invita i questori, in particolare, ad adottare “con particolare sollecitudine” gli eventuali “provvedimenti di ammonimento” nei confronti di chi mettesse a rischio “l’imprescindibile tutela delle donne vittime di violenza e di atti persecutori”. Di fronte a una simile iniziativa la senatrice Valente si dice “assolutamente soddisfatta: si tratta di un passo avanti importante, del segnale di un’attenzione autentica e della consapevolezza che un problema del genere non può essere derubricato fra i non urgenti. Non solo sono significativi i contenuti della nota di Gabrielli ma”, spiega Valente al Dubbio, “lo è il fatto stesso che una circolare del capo della Polizia venga riservata a quella particolare materia”. La commissione di Palazzo Madama non si ferma, aggiunge la sua presidente: “Nelle prossime ore inoltreremo lettere al Cnf, al Csm e allo stesso ministro della Giustizia, perché la violenza domestica è dramma da contrastare, ovviamente, anche con l’attività giurisdizionale strettamente intesa”. Non a caso proprio a chiedere di inserire, tra le attività penali urgenti, anche “le udienze per le misure cautelari di allontanamento del coniuge accusato di violenze” è rivolta una delle proposte di emendamento al Dl “Cura Italia” presentate dalla commissione d’inchiesta del Senato. Ce ne sono altre: innanzitutto, ricorda Valente, “la necessità di stanziare una somma di 4 milioni per le case rifugio che dovessero trovarsi a soccorrere in questo periodo donne costrette ad andarsene da casa: visto che il Covid impone accertamenti sanitari prima di accoglierle, andrebbero individuate strutture provvisorie, anche Bed & breakfast, in cui ospitarle”. Non si può escludere che il “Cura Italia” resti blindato: “Ma qui si tratta di modifiche concordate all’unanimità da tutte le forze politiche. E comunque, se non si facesse in tempo, confidiamo che trovino spazio nel decreto di aprile”. Le vittime di violenza non possono essere escluse dall’agenda delle priorità. Scarcerata Nicoletta Dosio, ha beneficiato delle misure contro il rischio contagi di Federica Allasia La Stampa, 31 marzo 2020 Nicoletta Dosio è stata scarcerata ieri dal carcere delle Vallette in cui era rinchiusa dallo scorso 30 dicembre. L’attivista No Tav ha potuto beneficiare delle misure messe in atto dal governo per ridurre il sovraffollamento degli istituti penitenziari e scongiurare così il rischio di contagi da coronavirus al loro interno. Sconterà il resto della pena agli arresti domiciliari, nella sua casa di Bussoleno, e le saranno applicate il massimo delle restrizioni, compreso il divieto di comunicare con l’esterno. Era stata arrestata il 30 dicembre scorso a Bussoleno, in Valle di Susa. La pasionaria No Tav era stata condannata in via definitiva a un anno di reclusione per una protesta del 2012 alla barriera di Avigliana dell’autostrada del Frejus. La 73enne, in occasione dell’arresto, non aveva chiesto misure alternative e a darne notizia, in quella circostanza, sui social erano stati i No Tav, che scrissero: “Vergogna allo Stato italiano”. Sempre in quella circostanza gli attivisti scrissero così dell’arresto della “pasionaria”: “Nicoletta Dosio è appena stata arrestata. I carabinieri sono venuti a prelevarla nella sua abitazione poco dopo le 18. Stamattina all’attivista 73enne era stata notificata la revoca delle sospensioni. In questo momento, cittadini di Bussoleno scesi in strada alla spicciolata stanno rallentando l’arresto bloccando la strada”. Ora la Dosio potrà tornare a casa e scontare lì il residuo di pena. Sospensione condizionale, l’obbligo di riparazione scatta con l’irrevocabilità della condanna di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2020 Corte di cassazione - Sentenza 30 marzo 2020 n. 10867. Nel caso in cui il giudice non abbia stabilito un termine per il pagamento della somma di denaro al cui adempimento ha subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena, esso coincide con quello dell’irrevocabilità della sentenza di condanna. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 10867 di ieri, affermando un principio di diritto ed annullando (con rinvio) il provvedimento del tribunale di Modena che aveva rigettato la richiesta di revoca della sospensione condizionale della pena richiesta dal Pm. Il diniego della revoca, nonostante la condanna per appropriazione indebita fosse divenuta ormai definitiva da diversi mesi, si fondava sul fatto che in assenza di una specifica indicazione, il termine per adempiere doveva intendersi fissato in cinque anni dal passaggio in giudicato della decisione. Un periodo dunque coincidente con quello cosiddetto di “osservazione” (articolo 163 c.p.) al termine del quale se il condannato non ha commesso reati, la non esecutività della pena diventa definitiva. Per la I Sezione penale, tuttavia, tale orientamento, presente anche nella giurisprudenza di legittimità, non tiene conto del fatto che l’articolo 165 c.p., sugli obblighi del condannato, al quarto comma, specifica che “la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata al pagamento della somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria”. Ciò, ovviamente, nell’ottica di favorire “le condotte restitutorie o risarcitorie”. Ragion per cui “la trasposizione del termine fissato dall’art. 163 c.p. nella disciplina del 165 è del tutto incongrua” rispetto alle finalità della norma. Dunque, quando l’obbligo da adempiere, indicato nella sentenza di condanna quale condizione per la concessione della sospensione condizionale, consiste nel pagare danaro alla persona offesa, “il termine non può che identificarsi con quello di adempimento delle obbligazioni pecuniarie”. In questo senso è limpido il precetto contenuto nell’articolo 1183, primo comma, cod. civ., secondo cui “se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita il creditore può esigerla immediatamente”. Tirando le somme: quando, come nel caso di specie, la sospensione condizionale della pena è subordinata al pagamento di una somma di danaro, “non si giustificherebbe una scadenza ai fini dell’adempimento posticipata rispetto al passaggio in giudicato della sentenza”. E ciò in considerazione del fatto che l’obbligo imposto giudice penale “non ha contenuto nuovo e autonomo rispetto a quello civilistico, per il quale il legislatore sancisce principio per cui il creditore può esigere immediatamente l’adempimento dell’obbligazione se non deve essere stabilito uno specifico termine”. In conclusione, “nel caso in cui la clausola apposta al beneficio previsto dall’art. 163 cod. pen. riguardi il pagamento di somma di danaro liquidata a titolo di parziale risarcimento del danno da reato subito dalla persona offesa costituitasi parte civile e la sentenza non abbia indicato alcun termine specifico per l’adempimento, la statuizione penale deve intendersi integrata, trattandosi di statuizione civile immediatamente esigibile, nel senso che il termine di adempimento coincide con la data di irrevocabilità della sentenza”. Messa alla prova, l’inabilità temporanea al lavoro non basta per il no al beneficio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2020 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 30 marzo 2020 n. 10787. Il giudice non può negare la messa alla prova solo perché l’imputato, che ha requisiti per l’ammissione, non può temporaneamente svolgere il lavoro di pubblica utilità per ragioni di salute. Verificata la possibilità di rimandare l’avvio del programma, il giudice deve intervenire per modificarlo, in modo da non pregiudicare il reinserimento sociale dell’imputato. La Corte di cassazione, con la sentenza 10787, accoglie il ricorso contro il no all’ammissione del beneficio, nell’ambito di un procedimento per guida in stato di ebrezza con l’aggravante di aver provocato un incidente. L’imputato aveva presentato domanda di ammissione alla messa alla prova all’Ufficio esecuzione penale esterna, chiedendo la stesura di un programma da presentare in dibattimento per ottenere la sospensione del procedimento a suo carico. L’Uepe lo aveva redatto, facendo però presente, che l’imputato, ricoverato in una struttura dopo una ricaduta nella dipendenza dall’alcol, chiedeva di svolgere il lavoro dopo le dimissioni dalla struttura. Il giudice aveva respinto la richiesta perché, neppure nell’udienza di decisione era stata chiarita la condizione di salute del ricorrente e se fosse in grado di eseguire il programma. La Cassazione accoglie il ricorso. I giudici ricordano che il legislatore non ha trascurato il fattore tempo, stabilendo che il procedimento può essere sospeso per due anni in vista del completamento del percorso: un termine che decorre dalla sottoscrizione del verbale di messa alla prova. Tuttavia esiste la possibilità di dilatare questi termini, per una sola volta e su richiesta dell’imputato, che dichiari di avere gravi motivi per il differimento. Tra questi ci sono certamente i problemi di salute. A fronte dunque di un giudizio prognostico positivo e dell’idoneità del programma, il giudice non può tout court negare l’accesso alla messa alla prova. Il legislatore, infatti, prevedendo, le gravi ragioni ha voluto preservare il valore rieducativo dell’istituto. Per un giusto bilanciamento tra gli interessi in gioco, il giudice avrebbe dunque dovuto valutare gli impedimenti di salute, senza respingere a priori la domanda e approfondire la situazione, anche attraverso i servizi dedicati, correggendo poi il programma per renderlo compatibile con le necessità dell’imputato. Senza pregiudicare la sua possibilità di reinserirsi nella società. Bonafede non tema di apparire umano, basta cinismo sulla pelle dei detenuti di Pia D’Anzi* giustizianews24.it, 31 marzo 2020 Lo abbiamo scritto sulle colonne di questo giornale ed in ogni sede in cui ci è stato possibile farlo: il governo ha deciso di sacrificare i detenuti. Tutti noi abbiamo accolto con sconcerto le teorie dei “nuovi Darwin” (il presidente Trump e Boris Johnson) che nella loro strategia di contrasto alla propagazione del virus, di fatto propugnavano di sacrificare ed abbandonare al loro destino le fasce più deboli della popolazione: anziani e malati. Strategia cinica e probabilmente immorale che, tuttavia, si basa quantomeno su alcune evidenze scientifiche (la cd. “immunità di gregge”). Il ministro Bonafede - e di conseguenza tutto il governo di cui egli fa parte - ha invece deciso di sacrificare una piccola parte della popolazione (detenuti e personale penitenziario) sull’altare di un’autistica propaganda politica. Bisogna guardare Bonafede mentre risponde alle domande rivoltegli dai deputati durante il question time. E poi riguardarlo ancora ed ancora. L’effetto è straniante: senza mai alzare gli occhi (salvo alcune fugaci occhiate ai banchi dell’opposizione) il ministro ha dato vita ad una recita finalizzata a “rassicurare” che non vi sarà alcuna “Amnistia mascherata” e che i detenuti liberati saranno pochissimi. Il ministro non ha capito qual era il motivo delle interrogazioni rivoltegli e, soprattutto, non ha capito la straordinarietà della situazione che impone, ed imporrà anche in futuro, l’abbandono delle propagandistiche formule che hanno caratterizzato il dibattito politico giudiziario degli ultimi anni e della logica puerile di rassicurare la collettività che i colpevoli non la faranno franca. Sì, sig. ministro, questa volta siamo d’accordo: i colpevoli non la faranno franca. Bonafede ha affermato che la situazione nelle carceri è sotto controllo e non vi è il rischio di una tragica diffusione del contagio. Con queste parole il ministro ha assunto su di sé la responsabilità morale e giuridica della salute di decine di migliaia di persone che frequentano quotidianamente le carceri. È una scommessa con un tasso di rischio altissimo. Se fossimo cinici staremmo in silenzio ad aspettare che succeda l’irreparabile e rimanderemmo ad un momento successivo le analisi dure e le conseguenti accuse senza scampo. Ma cinici non lo siamo mai stati e difronte al rischio per la salute dei detenuti riteniamo che la propaganda debba cedere il passo ad un tentativo costante di mediazione. Dobbiamo sforzarci di parlare, di insistere anche se l’interlocutore fa finta di non capire e si mostra sordo ad ogni ragionevole richiesta. Il governo non ha fino ad ora voluto, neppure in questa fase drammatica ed emergenziale, superare la propria idea violenta del diritto penale e della pena. Un unico timore lo pervade: quello di apparire più blando ed umano dinanzi ad una opinione pubblica cui è stato inoculato negli ultimi anni il virus del giustizialismo e delle teorie securitarie. Non si giustificherebbero altrimenti le dichiarazioni volte ad evidenziare come non sia ascrivibile al decreto legge appena emanato la fuoriuscita dagli istituti di pena di circa 2.000 detenuti. Soltanto 200, ha rivendicato con orgoglio il ministro (come se stessimo recitando al teatro dell’assurdo), ne hanno beneficiato. E poi via alla declamazione della lista della spesa: 200.000 mascherine! 770.000 guanti in lattice monouso. Ecco, questo è il desolante spettacolo al quale abbiamo assistito pochi giorni fa. Non una risposta all’incalzante e pervicace accusa di aver adottato misure inidonee allo sfoltimento serio della popolazione carceraria, non una parola sulle gravi responsabilità del Dap e di chi lo dirige né sulle incredibili morti di 14 detenuti a seguito delle rivolte di qualche settimana fa (la cui analisi è stata affidata ad una relazione scritta che parrebbe depositata in parlamento). Il governo ha ignorato l’appello dei giuristi, delle associazioni, dei detenuti, di alcuni partiti (anche appartenenti alla maggioranza di governo) ed il monito del Presidente della Repubblica sulla necessità di intervenire sul sovraffollamento degli istituti di pena e sul conseguente rischio di espansione esponenziale del contagio da coronavirus. Sembrerebbe tutto perso, ma non ci si può arrendere ora. Ecco perché diciamo ancora: Cambiate idea. *Avvocato del Foro di Napoli, componente dell’associazione “Il Carcere Possibile” Campania. Fullone: “Per contrastare Covid in cella servono reparti di emergenza” di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 31 marzo 2020 “Non possiamo prevedere la portata di un’eventuale emergenza sanitaria nelle carceri campane, ma siamo pronti ad affrontarla isolando i detenuti che dovessero risultare positivi al Coronavirus negli spazi attualmente vuoti”: ad annunciarlo è Antonio Fullone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. In Campania e nel resto d’Italia si attende il picco della pandemia che ha già fatto migliaia di vittime. E, in questo contesto, gli istituti penitenziari rischiano di trasformarsi in pericolosi focolai, anche alla luce del sovraffollamento che li affligge. Qual è la situazione nelle carceri campane? “Al momento nessun detenuto ha contratto il Covid-19 né presenta i sintomi della malattia. Dal 16 al 23 marzo soltanto 39 persone sono entrate negli istituti di pena della Campania, il che ci ha consentito di implementare i controlli”. Eppure si parla di due infermieri positivi al Coronavirus nel carcere di Santa Maria Capua Vetere… “Notizia falsa. Hanno contratto il Covid-19 solo due membri del personale sanitario che, a ogni modo, svolgono compiti amministrativi e non hanno avuto contatti con i detenuti. Abbiamo provveduto a sanificare i locali, a tracciare i contatti tra i malati e le altre persone, a effettuare tamponi per verificare la presenza di altri malati. Nessun caso sintomatico è stato rilevato, la situazione è sotto controllo”. Il carcere di Poggioreale è stato dotato di termo-scanner per misurare la temperatura corporea di chi vi entra, vi lavora o vi è già ospitato. Come ci si sta muovendo per le altre strutture? “Quasi tutte le strutture sono dotate di sistemi di rilevamento della temperatura corporea e ovunque sono stati rafforzati i controlli medici su detenuti e personale. Sono state allestite tende dove si controllano le condizioni di salute di chi viene dall’esterno. E, soprattutto, stiamo predisponendo gli spazi dove isolare gli eventuali malati, coloro i quali dovessero presentare i sintomi del Coronavirus o essere entrati in contatto con soggetti positivi”. Difficile trovare questi spazi in strutture perennemente sovraffollate, non trova? “Stiamo destinando a quello scopo le sezioni di semilibertà, attualmente semivuote, e gli spazi solitamente destinati alle attività rieducative da svolgere in comune, oggi ridotte per evitare assembramenti”. Resta il problema del sovraffollamento, rispetto al quale il governo ha fatto ben poco. “Attualmente, nelle carceri campane, abbiamo 7.116 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 6.176. Fino a qualche settimana fa contavamo circa 7.500 detenuti, cifra nella quale erano compresi anche i semiliberi. I provvedimenti adottati dal governo dovrebbero consentire a 500 persone di uscire dal carcere”. Poche, non le sembra? “Questo lo dice lei. La scarcerazione di 500 persone resta un segnale positivo, anche se si considerano i requisiti previsti per beneficiarne: bisogna che resti da scontare un periodo non superiore a 18 mesi di reclusione, che il detenuto abbia un domicilio, che non abbia riportato gravi sanzioni disciplinari e che non abbia preso parte ai disordini del 7 e 8 marzo scorsi. I candidati alla scarcerazione sarebbero un migliaio, ma i requisiti restringono la platea”. La Procura di Napoli ha presentato reclamo contro la detenzione domiciliare concessa a detenuta nel carcere di Pozzuoli, madre di due figli emofiliaci e bisognosi di assistenza. Che cosa ne pensa? “Non entro nel merito di decisioni che competono alla magistratura. Riconosco, però, l’utilità della detenzione domiciliare e non posso non notare come sempre più magistrati tendano ad accordarla”. In sei istituti penitenziari campani si stanno producendo mascherine protettive: quando arriverà l’ok per la loro commercializzazione? “Abbiamo inviato la documentazione con la quale autocertifichiamo che le mascherine prodotte da circa 40 detenuti tra Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, Pozzuoli, Salerno, Benevento e Sant’Angelo dei Lombardi rispettano determinati standard. Ora attendiamo l’autorizzazione da parte dell’Istituto superiore di sanità. Prevediamo che, a regime, nelle carceri campane potranno essere prodotte 12mila mascherine chirurgiche a settimana, utili anche per il personale degli ospedali: un segnale importante”. Emilia Romagna. “Se in carcere si scatena il contagio il sovraffollamento presenterà il conto” di Massimiliano Magrini ravennawebtv.it, 31 marzo 2020 L’intervento di Paola Cigarini, presidente della Conferenza regionale Volontariato e giustizia. Sono una ventina le persone recluse ufficialmente risultate positive al Coronavirus in Italia, non tenendo quindi conto del personale sanitario, amministrativo e penitenziario. Ad oggi non risultano ancora casi acclarati di contrazione della Sars-Cov-2 nelle carceri dell’Emilia-Romagna, anche se la situazione potrebbe cambiare rapidamente e la preoccupazione per l’esplosività dell’arrivo della pandemia in situazioni ristrette è sempre elevata. Su questo tema si è espressa anche la presidente della Conferenza regionale Volontariato e giustizia Paola Cigarini, che è anche volontaria del carcere di Modena dove si è consumata la rivolta più sanguinosa di inizio marzo, con 9 morti accertati. Di seguito le sue parole. “Noi volontari siamo purtroppo esclusi dagli istituti penitenziari da un mese, quindi da prima che scoppiassero le rivolte, e questa condizione non ci permette di parlare con le persone recluse, di vedere a che punto è la situazione, sentire il loro stato d’animo. La nostra esperienza è lunga e ci fa pensare realisticamente che la situazione sia di molta paura e tensione e l’isolamento imposto per contrastare la pandemia non fa che alimentarlo. L’amministrazione penitenziaria sta cercando a modo suo di tamponare quella che è una situazione che si può facilmente immaginare. La situazione è preoccupante non solo per chi è recluso ma per chi lavora nelle carceri, piccole città dove dovrebbero essere attuate le stesse precauzioni che siamo invitati a tenere fuori, ma che dentro non si riescono a garantire. Non parliamo solo di mascherine, pulizie o distanziamento sociale, ma anche banalmente di disinfettanti, che ad esempio andavano dati un po’ prima. Per non parlare del sovraffollamento, questione a cui va chiesto di trovare una soluzione da anni. Allora oggi più che mai dobbiamo capire che se in quella comunità passa un contagio, il sovraffollamento presenterà il conto. Siamo arrivati a livelli già puniti dalla Corte Europea: allora se il diritto alla libertà viene sottratto durante l’esecuzione della pena, il diritto alla salute come agli affetti sono di tutti. Non chiediamo alla persona che arriva in ospedale se ha pagato le tasse in tutti questi anni e il detenuto peraltro le paga se dentro è messo nelle condizioni di poter lavorare. Le proteste che sono scaturite nelle carceri e nate da questa serie di concause sono state dolorose per molti aspetti, raggiungendo esiti che ci hanno fatto soffrire; vanno sicuramente condannate, anche se mi piace precisare che non sono state alimentate ma anzi combattute dai detenuti stessi, a Modena dove opero io ma anche in altri istituti. Conoscevo tutte le persone che sono morte nel mio carcere, detenuti che hanno sempre manifestato rabbia e disagio in condizioni difficili di chiusura, di temporanea rottura con la società e la famiglia. Spero soltanto che abbiano potuto trovare la libertà e la serenità che non hanno trovato altrove in quell’ultimo gesto smodato e incontrollato. Questo per dire che le rivolte andrebbero analizzate attentamente e prese con grande serietà, ma le reazioni raccolte dimostrano ancora una volta che la comunità esterna fatica a pensare al carcere senza pregiudizi o condizionamenti. Ma non dimentichiamo che dietro alle persone detenute ci sono famiglie, mogli, mamme tra le quali si moltiplicano le paure, legate non soltanto a questa emergenza sanitaria. Tra le soluzioni che sono state condivise attraverso le ultime circolari c’è l’incremento delle telefonate e dei colloqui via Skype, ma pensiamo che se qui fuori funziona in un modo, là dentro è tutto più lento e fragile, così una telefonata in Brasile cade tre volte su quattro, aumentando la tensione. Centrale è anche il tema dell’affidamento di persone con pene in scadenza, o malate, o che hanno un’età che non le dovrebbe condannare al carcere. Ma questo mondo esisteva già prima, anche se quelli che potrebbero uscire non sanno dove andare. Il terzo settore e il volontariato sono stati tirati in ballo ma la legge non prevede contributi, così l’amministrazione finisce per togliere i detenuti da un posto scaricandoli sulle spalle del mondo esterno. Noi ce ne faremmo carico volentieri, ma il territorio non è attrezzato per riceverli. Le strutture di accoglienza sul territorio sono quasi tutte piene di senza fissa dimora, malati, per l’emergenza freddo, tutte persone fragili, esposte in modo tragico alla contrazione del virus. Nessuno ha l’interesse a far esplodere l’epidemia in questi luoghi, che non si possono espandere e non possono più contare sull’ausilio dei volontari. Allora quando si fanno le circolari o si emanano delle nuove norme, bisognerebbe pensare prima anche a questi aspetti. La responsabilità del buon esito di un trattamento è delle persone recluse innanzitutto, ma anche delle istituzioni e della società esterna. In questo momento poi in cui siamo un po’ tutti agli arresti domiciliari e che stiamo già provando cosa vuol dire non potersi muovere o abbracciare i propri cari, forse capiremo quanto è importante la libertà, la vicinanza, gli affetti, la solidarietà. Siamo molto preoccupati, ma speriamo che d’ora in avanti si cominci a guardare quel mondo non soltanto attraverso la lente del giudizio, ma soprattutto sotto la luce della riflessione e dell’ascolto”. Liguria. Quarantena in cella di isolamento per i nuovi detenuti, così si argina il contagio di Tommaso Fregatti Il Secolo XIX, 31 marzo 2020 Il carcere di Marassi dall’interno di una cella. Nessun detenuto attualmente positivo, celle d’isolamento con quarantena di 15 giorni per tutti i nuovi arrestati. È in questo modo che il carcere di Marassi, insieme a tutte le altre case circondariali liguri, sta affrontando l’emergenza coronavirus e cercando di contenere i contagi. Con la consapevolezza che anche un solo detenuto positivo potrebbe portare a scenari drammatici. Soprattutto alla luce di un sovraffollamento cronico che vede nel primo carcere ligure stipati ad oggi 736 detenuti, duecento in più rispetto a quelli della capienza. E così (in attesa dell’arrivo dei braccialetti elettronici per chi ha pene lievi) per evitare che nuove persone arrestate tradotte in carcere possano aver contratto il virus e diffonderlo agli altri detenuti si è deciso di sistemare ogni nuovo recluso in celle d’isolamento per 14 giorni. Periodo in cui non avrà contatti con nessuno. E però il carcere di Marassi, così come gli altri istituti liguri, dispone di un numero limitato di queste celle d’isolamento che sono quasi esaurite. Per questo i sindacati hanno chiesto di affrontare il problema nel caso in cui un nuovo detenuto faccia ingresso in carcere e non ci siano celle a disposizione: “Si tratta di un bel problema - spiega Michele Lorenzo, segretario del Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria - che rischia di vanificare un lavoro capillare fatto fino ad ora. Per questo abbiamo chiesto all’amministrazione di organizzare la riapertura del carcere di Savona dove, a nostro avviso, dovrebbero essere allestite una ventina di celle per l’isolamento alla luce dell’esaurimento dei posti ad Imperia e la situazione analoga di Marassi. Questo per fare in modo che i nuovi arrestati abbiano un luogo dove affrontare la quarantena e sia scongiurato il rischio dei nuovi contagi”. A partire dalla scorsa settimane proteste e rivolte all’interno delle case circondariali liguri sono cessate. Ora la situazione è pressoché tranquilla anche alla luce della decisione dell’amministrazione di fornire a turno tablet e smartphone ai detenuti per fare in modo che possano fare telefonate e videochiamate alle famiglie. Questo per sopperire al blocco dei colloqui, misura necessaria per contenere il contagio. In pratica ogni detenuto fornisce un numero di telefono o indirizzo Internet dove poter chiamare. Numero che, per ragioni di sicurezza, viene vagliato dalla polizia penitenziaria. A livello nazionale sono stati messi a disposizione più di duemila tra tablet e dispositivi mobili. All’interno del corpo sono due gli agenti, invece, che hanno contratto da familiari il Covid-19 in provincia di Genova. Ma viene evidenziato come gli stessi agenti non siano in condizioni critiche e che al tempo stesso nessuno di loro lavorava all’intero di case circondariali e dunque non è stato necessario procedere con l’isolamento dei detenuti eventualmente entrati in contatto con loro. Piemonte. Coronavirus, carceri piemontesi incompatibili con la sicurezza newsbiella.it, 31 marzo 2020 Boni e Betti Balducci: “Chiediamo un Consiglio regionale straordinario sul carcere. Inammissibile sostenere che non ci sia rischio sanitario”. Gli ultimi dati messi a disposizione dall’Associazione Antigone ci dicono che 8 carceri piemontesi su 13 sono fuori legge dal punto di vista della capienza e sono, di conseguenza, vere e proprie bombe a orologeria per il contagio da Coronavirus. I dati: Torino: capienza 1061, presenti 1425 - 134,7% rapporto presenti/capienza; Biella: capienza 395, presenti 552 - 139,7% rapporto presenti/capienza; Asti: capienza 205, presenti 297 - 144,9% rapporto presenti/capienza; Ivrea: capienza 197, presenti 252 - 143,1% rapporto presenti/capienza; Verbania: capienza 53, presenti 70 - 133,1% rapporto presenti/capienza; Vercelli: capienza 231, presenti 288 - 124,7% rapporto presenti/capienza; Novara: capienza 158, presenti 182 - 115,2% rapporto presenti/capienza; Alessandria San Michele: capienza 267, presenti 394, 147,6% rapporto presenti/capienza. Dichiarazione di Igor Boni (Presidente di Radicali Italiani) e Davide Betti Balducci (Presidente Diritti e Libertà per l’Italia). “Il carcere, in Piemonte come in Italia, continua a essere una discarica umana. Oggi, con le restrizioni sul Coronavirus, ancora di più. È evidente che le norme di distanziamento sociale sono impossibili per detenuti in sovraffollamento e che il virus gira e girerà nelle strutture, a danno dei detenuti e degli agenti. Il Governo deve adoperarsi per tornare subito alla capienza regolamentare di tutte le strutture, utilizzando gli arresti domiciliari per chi è a fine pena o in attesa di giudizio. Inoltre, occorre utilizzare l’affidamento ai servizi sociali e la liberazione anticipata. Parlare oggi di pericolo di fuga è impossibile per 60 milioni di italiani, tanto meno per un detenuto. Infine, dalle informazioni che riceviamo dai famigliari di detenuti sappiamo che vengono negati gli arresti domiciliari con la motivazione che le strutture di reclusione sarebbero sicure e sanificate, in virtù delle misure precauzionali adottate contro la diffusione del coronavirus. Ciò è palesemente falso e lo denunciamo senza mezzi termini, perché in Piemonte il sovraffollamento sarà giocoforza causa di focolai di contagio che potrebbero essere resi meno virulenti dal decongestionamento delle strutture. In aggiunta a tutto questo, non solo oggi è impossibile per i detenuti vedere i propri cari ma ricevere semplicemente biancheria pulita è diventato un’impresa. I familiari non possono lasciare pacchi all’ingresso del carcere ma devono spedirli pagando con un bonifico on-line. Il risultato è che un numero ingente di detenuti non riceve più nulla dalle famiglie. Facciamo appello affinché venga convocato un Consiglio regionale straordinario sul tema carcere e la Giunta faccia pressioni sul Governo per l’approvazione di un decreto legge che consenta di riportare i numeri entro i termini di legge”. Comunicato Associazione Aglietta Toscana. Coronavirus, la Fns-Cisl chiede urgenti controlli sanitari nelle carceri gonews.it, 31 marzo 2020 Nei giorni scorsi il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria - dott. Gianfranco De Gesù - ha chiesto al Presidente della Giunta Regionale Toscana Enrico Rossi di procedere ad uno screening di massa, prioritariamente rivolto al Personale penitenziario ed ai detenuti nelle carceri toscane, soprattutto per individuare i soggetti positivi asintomatici. La situazione che potrebbe determinarsi da un espandersi della situazione epidemica all’interno dei penitenziari avrebbe effetti devastanti, data la ristrettezza degli spazi, l’impossibilità di organizzare ambienti per mettere in quarantena i contagiati. Gli effetti che questo produrrebbe dovendo trasportare detenuti negli ospedali già colmi di ammalati - e con l’ulteriore difficoltà di organizzare il piantonamento dei detenuti con poliziotti negli stessi nosocomi - determinerebbe il caos totale. A questo si aggiungano le difficoltà del Personale che oggi ha difficoltà ad avere con costante regolarità la distribuzione di mascherine, guanti ed altri presidi sanitari di protezione, situazione che è motivo dei vari casi già registrati in regione e sui quali chiediamo tutele all’Amministrazione da tempo. Vogliamo segnalare come il Personale di Polizia Penitenziaria abbia gestito in toscana, con grande professionalità pur nelle difficoltà, gli episodi di rivolte dei giorni scorsi e come tutti - davvero tutti - sono impegnati a prestare servizio con turni continui senza fruire di ferie e/o risposi settimanali, dimostrando grande senso dello Stato ed esponendosi a loro rischio e pericolo il più delle volte. Non meno importante è il disagio che, alla stregua di tanti uomini e donne che operano in molti settori in questi giorni difficili, questi Colleghi e Colleghe vivono nel tornare a casa tra un turno e l’altro dovendo evitare di esporre ai loro rischi anche i propri familiari. Per questo ci uniamo alle richieste del Provveditore De Gesu e del Coordinamento dei Garanti affinché il Presidente Rossi voglia davvero disporre i necessari interventi il prima possibile in questo particolare settore della sicurezza. Udine. Un giovane muore nel carcere, è mistero sulle cause friulioggi.it, 31 marzo 2020 Il ragazzo è morto nella struttura di via Spalato a Udine. Mistero nella casa circondariale di Udine, un giovane 22enne muore e la procura cerca di chiarire le cause. Il giovane è morto il 15 marzo ma la notizia, come riporta il Messaggero Veneto è stata diffusa solo in questi giorni. Il ragazzo aveva la febbre ma, il tampone subito eseguito ha dato esito negativo, cancellando quindi l’ipotesi di contagio da coronavirus. L’ipotesi che circola è che il 22enne avesse problemi di tossicodipendenza e non abbia ricevuto le cure necessarie. La procura comunque sta indagando per fare luce sulla vicenda. Bologna. Detenuto della Dozza positivo, è stato ricoverato all’ospedale Sant’Orsola Il Resto del Carlino, 31 marzo 2020 Quello che alla Dozza si temeva, è accaduto. Anche tra i detenuti c’è un positivo al Covid. Si tratta di un uomo di 76 anni, che sta scontando una pena definitiva per reati di mafia e per questo si trovava recluso al terzo piano penale. L’uomo, quattro giorni fa, è stato trasportato d’urgenza in ambulanza al Sant’Orsola, perché presentava tutti i sintomi dell’infezione. Faceva fatica a respirare e non parlava: dopo essere stato sottoposto a tampone, è risultato positivo ed è stato ricoverato al Reparto Covid-19 del policlinico, dove si trova tuttora. Adesso, la preoccupazione è che l’uomo possa avere a sua volta infettato altri detenuti e gli agenti della penitenziaria con cui è venuto a contatto prima di essere trasportato in ospedale. La paura tra i sindacati, che da settimane chiedono tamponi a tappeto, è che la notizia possa anche portare a nuove rivolte. Milano. Carceri sovraffollate, la Caritas Ambrosiana accoglie 20 detenuti di Lorenzo Rosoli Avvenire, 31 marzo 2020 Saranno ospitati in strutture della diocesi di Milano. Si tratta di reclusi che possono scontare gli ultimi 24 mesi all’esterno ma non hanno un domicilio. Gualzetti: così accogliamo le parole del Papa. Carceri sovraffollate: un problema storico, in Italia. Che il coronavirus ha reso ancora più drammatico. Come hanno dimostrato le rivolte avvenute nelle scorse settimane in diversi istituti di pena. Un problema che rischia di “diventare una tragedia”, ha denunciato papa Francesco domenica 29 marzo all’Angelus, chiedendo alle autorità di “prendere le misure necessarie per evitare tragedie future”. In questo scenario, ecco la nuova iniziativa organizzata da Caritas Ambrosiana e diocesi di Milano per dare una risposta - certo non risolutiva, ma concreta e, nel contempo, di grande valore simbolico - al problema del sovraffollamento in questa stagione di emergenza sanitaria. Ebbene: venti persone recluse in istituti di pena presenti nel territorio ambrosiano potranno scontare il resto della detenzione in strutture della diocesi. Il progetto, promosso dalla Caritas, è rivolto a quei carcerati “che possono scontare gli ultimi 24 mesi di detenzione all’esterno del carcere, ma sono sprovvisti di un domicilio - spiega un comunicato di Caritas Ambrosiana. I beneficiari indicati dal magistrato di sorveglianza sconteranno il residuo di pena presso le strutture individuate dalla Caritas e saranno sottoposti alle misure di tutela previste dall’Uepe (l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna). Continueranno, dunque, a essere a tutti gli effetti dei detenuti, soggetti a restrizioni della loro libertà personale e ai controlli di polizia”. Venti, come detto, i posti individuati finora. Ma si lavora per farli diventare di più. I primi dieci reclusi coinvolti nel progetto, e che verranno accolti a partire dai prossimi giorni, vengono dalle case di reclusione di Opera e di Bollate e dalla casa circondariale di San Vittore. “L’emergenza coronavirus sta facendo venire al pettine tanti nodi irrisolti. Tra questi, quello del sovraffollamento del carcere che, a causa dell’epidemia in corso, potrebbe assumere caratteristiche tragiche”, insiste Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana, rilanciando le recenti parole di papa Francesco. “Con questa nostra iniziativa - della quale Caritas sostiene i costi mentre la diocesi di Milano mette a disposizione le strutture - accogliamo l’appello del Papa. Vogliamo dare il nostro contributo, rafforzando ulteriormente il nostro impegno per garantire ai detenuti la possibilità di scontare la pena al di fuori dei penitenziari. Si tratta - ricorda Gualzetti - di una misura già prevista dal nostro ordinamento: tuttavia ancora troppo poco praticata nonostante la sua efficacia sulla riduzione della recidiva, vale a dire la probabilità che il detenuto commetta nuovamente il reato”. Quale sia la situazione delle carceri al tempo dell’emergenza coronavirus, quali le sofferenze, quali le cause di preoccupazione, lo aveva spiegato lo stesso Gualzetti in un’intervista pubblicata da Avvenire la scorsa domenica 8 marzo. Parole pronunciate appena prima che scoppiassero le rivolte. “Una questione molto seria sono le carceri”, aveva detto il direttore di Caritas Ambrosiana riflettendo sulle implicazioni umane e sociali dell’epidemia. “Hanno sospeso i colloqui con i familiari, le attività e la presenza dei volontari, le misure alternative come il lavoro esterno. Questa situazione aumenta il senso di isolamento e di solitudine. È come se il carcere tornasse indietro, quando era un “corpo” del tutto separato dalla società. Il cronico sovraffollamento degli istituti, l’emergenza sanitaria e l’isolamento dall’esterno imposto per prevenire i contagi, stanno creando grandi difficoltà e sofferenze ai detenuti come agli agenti - testimoniava inoltre Gualzetti. Fra i detenuti cresce anche la preoccupazione per i familiari: da un lato, hanno difficoltà ad avere contatti con loro, dall’altro sono allarmati da quello che apprendono in tivù. Sarebbe opportuno avere provvedimenti per accelerare l’accesso alle misure alternative, anticipare le scarcerazioni quando ve ne sono le condizioni, limitare l’aumento della popolazione carceraria”, aveva auspicato infine il direttore di Caritas Ambrosiana. Perché l’auspicio non restasse sulla carta, ecco, ora, questa iniziativa che permette di accogliere venti detenuti nelle strutture della diocesi di Milano. Con la speranza di poter offrire, ad altri reclusi ancora, la stessa chance. Roma. Nuovo appello dei Garanti dei detenuti: “Ridurre il sovraffollamento” di Ylenia Sina romatoday.it, 31 marzo 2020 La Conferenza dei garanti territoriali ha lanciato un appello al presidente della Repubblica. Anastasìa: “Da Rebibbia uscite solo 12 persone”. Non sono rientrati nelle celle dopo l’ora d’aria per rivendicare misure contro il sovraffollamento delle carceri e garantire così condizioni sanitarie adeguate di fronte all’emergenza Coronavirus. Nuove proteste questa mattina nel carcere di Rebibbia. “Si è trattato di proteste pacifiche”, ha spiegato a Romatoday il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, “che hanno interessato due sezioni, il G9 e il G12”. Da un lato la paura di diffusione del contagio. “Nelle carceri del Lazio non abbiamo casi accertati di Coronavirus”, ha specificato Anastasìa che precisa: “A sei detenute è stato effettuato il tampone in quanto erano state visitate da un medico risultato positivo. Ma è una misura precauzionale: le sei donne non hanno sintomi e, in attesa dell’esito degli esami, sono già state isolate”. Dall’altra, a mantenere alta la preoccupazione all’interno di Rebibbia, la lentezza nelle procedure per l’accesso ai domiciliari per i detenuti con meno di 18 mesi di pena residua da scontare. A due settimane dall’approvazione del decreto ‘Cura Italia’, che conteneva misure per favorire i domiciliari per un certo numero di detenuti, i numeri sono bassi. “Nel carcere di Rebibbia sono usciti solo 12 detenuti”, ha spiegato ancora Anastasìa “a fronte di 420 domande presentate. Questo non significa che sono state tutte rigettate, anche se i primi dinieghi sono già arrivati, ma le procedure sono troppo lente. La preoccupazione dei detenuti deriva dalla consapevolezza che un’eventuale diffusione del virus in carceri così affollate sarebbe di difficile gestione”. Proprio oggi, a poche ore di distanza dalla preghiera pubblica di Papa Francesco, dalla Conferenza dei garanti territoriali di tutta Italia è arrivato un appello al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alle Camere, ai sindaci e ai presidenti delle regioni per chiedere “ulteriori misure di riduzione della popolazione detenuta”. Si legge nell’appello: “Come più volte raccomandato dal Garante nazionale delle persone private della libertà, e indicato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità e dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, sono necessari importanti interventi deflattivi della popolazione detenuta che consentano la domiciliazione dei condannati a fine pena e la prevenzione e l’assistenza necessaria a quanti debbano restare in carcere”. Milano. “San Vittore verso la paralisi”, l’allarme di un agente di Polizia penitenziaria di Marco Gregoretti alessandriaoggi.info, 31 marzo 2020 “Qui siamo in dieci positivi al Covid, quattro nel quinto raggio. Ma se ci facessero il tampone almeno la metà di noi risulterebbe contagiata”. È lo sfogo di un agente della Polizia penitenziaria del carcere milanese di San Vittore dove “alloggiano” 900-950 “ospiti”, operano tra i duecento e i trecento agenti al giorno, dove lavorano medici e infermieri e dove, da poco tempo, ha anche riaperto lo spaccio. “Abbiamo chiesto più volte all’Amministrazione penitenziaria di farci il tampone - dice ancora l’agente. Niente. Solo ai detenuti. Qualcuno di noi se lo è fatto privatamente e ha scoperto di avere il Coronavirus”. Eppure la situazione di allarme è più che conclamata. Gli stessi uffici del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, che dista poche centinaia di metri da San Vittore, si sarebbero posti in quarantena dopo aver scoperto al proprio interno un’altra decina di casi di positività. Sabato 28 marzo si sono celebrati, nel carcere di Opera, i funerali di Nazario Giovanditto, 48 anni, una moglie e due figli, l’agente morto a causa del Covid. Giovanditto faceva parte del “Nucleo”, quindi girava da un Istituto di pena all’altro. “L’amministrazione penitenziaria non vuole farci fare i tamponi - si sfoga ancora l’agente di San Vittore - perché più della metà di noi risulterebbe positiva e dovrebbero chiudere il carcere. Non è finita qui. Con le mascherine siamo messi ancora peggio. Ai detenuti vengono distribuite quelle non omologate e noi dobbiamo comprarci da soli quelle chirurgiche da 50 centesimi o da un euro. Insomma, lavoriamo senza sapere se siamo positivi e in condizioni di totale mancanza di sicurezza. In più se un detenuto dovesse risultare positivo rischieremmo anche la denuncia. È possibile secondo voi fare determinati interventi nelle celle, come le perquisizioni, mantenendo le distanze di un metro? E se uno di loro dà in escandescenze che cosa dobbiamo fare? Il carcere è molto più piccolo di quel che si immagina all’esterno”. E ora si registrano anche due casi da accertare tra i detenuti di San Vittore. Secondo quanto trapela avrebbero 38,5 e 38,6 di febbre. Il problema di San Vittore è molto serio e potrebbe riguardare altre Case circondariali. Ecco perché con insistenza chiedono all’Amministrazione penitenziaria che vengano fatti tamponi anche agli agenti e non soltanto ai detenuti. Napoli. Il dono del rapper Tueff a Poggioreale: mascherine per i medici e infermieri di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 31 marzo 2020 Coronavirus, donate 800 mascherine chirurgiche all’area sanitaria del carcere di Poggioreale. Con il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello c’era il responsabile sanitario delle carceri cittadine il dottore Lorenzo Acampora e Tueff, il rapper napoletano impegnato nel sociale e dalla parte degli ultimi, che si è mobilitato per la donazione. Materialmente a produrre le mascherine è stata l’azienda tessile “Corsair Srl” dei fratelli Giovanni e Rosario Coppola che - visto la drammaticità del momento - non ha fatto mancare il proprio contributo. Pochi sanno che nei penitenziari è presente l’area sanitaria, un’eccellenza con dirigenti, medici e infermieri che devono far fronte quotidianamente alle tante problematicità sanitarie e di assistenza per gli ospiti dei penitenziari. Lo sa bene Tueff, nome vero Federico Flugi che da anni presta servizio a contatto proprio con i detenuti. Lavoro impegnativo e di responsabilità che spesso è sinonimo di precarietà. Un esempio emblematico è la vicenda dei 50 tra infermieri professionisti, tecnici e operatori socio assistenziali suddivisi tra i penitenziari di Poggioreale e Secondigliano che aspettano da anni una stabilizzazione, come tra l’altro prevede la legge Madia al comma 2, e continuano ad operare con prestazioni da liberi professionisti a partita iva e senza alcuna tutela personale. La donazione delle mascherine costituisce un segnale importante in un momento di forti tensioni nel mondo carcerario e in particolare a seguito dell’epidemia da Covid-19 che ripropone con tragicità la condizione dei detenuti reclusi. per il garante Ciambriello “piccole cose dal valore non quantificabile, perché la solidarietà non è solo donare, ma lottare contro le diseguaglianze”. Bologna. “Come le persone detenute, ora tutti dobbiamo stare al chiuso” di Andrea Sangermano dire.it, 31 marzo 2020 Parla don Marcello Mattè, cappellano del carcere della Dozza di Bologna. Dall’inizio dell’emergenza coronavirus il carcere della Dozza di Bologna è diventato “una zona ancor più rossa”, perché i detenuti non possono avere alcun colloquio con l’esterno. Nemmeno con volontari o figure religiose. Una vita da reclusi in isolamento, che ora anche gli “innocenti” stanno sperimentando a casa propria. Senza poter uscire, senza poter incontrare i propri cari, senza poter stare vicino ai familiari in punto di morte. “Esperienza comune (e disumana) del condannato, ora esperienza degli innocenti”. A tracciare il parallelo è don Marcello Mattè, cappellano del carcere della Dozza di Bologna, in un intervento pubblicato sulle pagine di Bologna 7, il settimanale diocesano su Avvenire. “Da giorni sentiamo il peso di dover stare in casa - sottolinea don Mattè - i detenuti sono costretti a stare in un edificio che si chiama Casa (circondariale) ma che casa non è. Voi da innocenti, ‘loro’ a convivenza stretta col proprio rimorso (a volte però anche con la certezza della propria innocenza)”. Da giorni, continua il cappellano del carcere, proprio “come le persone detenute, dobbiamo stare al chiuso perché ciascuno può essere una minaccia all’incolumità dell’altro. Benché voi siate innocenti. Sperimentiamo quanto sia insopportabile sentirsi inclusi dentro una ‘zona rossa’ dove ciascuno è pericoloso per il semplice fatto di abitarci. E senza nemmeno conoscere la data del fine pena”. In questi giorni, sottolinea don Mattè, “come i reclusi e le recluse, troppi sperimentano la solitudine e l’isolamento. Questa pandemia separa dai propri cari proprio mentre si avrebbe più bisogno di una vicinanza affettuosa. Si è costretti a soffrire e perfino a morire senza potersi tenere per mano. Non poter essere presenti al momento della malattia, dell’agonia, dell’ultimo saluto: esperienza comune (e disumana) del condannato, ora esperienza degli innocenti”, rimarca il cappellano della Dozza. È proprio questa “impossibilità di incontrare i propri cari a colloquio”, spiega don Mattè, ad aver nei giorni scorsi “innescato una miscela di rabbie che è esplosa in una violenza senza giustificazione alcuna e, peggio, senza alcuna finalità”. E aggiunge: “Possiamo comprendere il dolore per tutti quegli innocenti che devono subire la pena indiscriminata di non poter vedere nemmeno per un’ora il marito, la moglie, i figli, il papà o la mamma che si trovano nella zona ancor più rossa del carcere”. In questi giorni, segnala infatti don Mattè, l’incontro con i carcerati “è precluso a me e a quanti, ministri, volontari, semplicemente amici, cercano ogni giorno di tessere la tela di rapporti umani”. Anche per questo, il cappellano della Dozza dice di sentirsi molto vicino ai parroci che in queste settimane “esercitano un ministero pastorale in questa Chiesa bolognese costretta agli arresti domiciliari”. Secondo don Mattè, il coronavirus sta imponendo “non soltanto il digiuno eucaristico, ma il digiuno dall’incontro. La nostra vita di fede si fa ardua senza la vita fraterna, senza l’incontro. Lo dico da cappellano del carcere, che conosce quanto sia difficile mantenere la fede senza l’esperienza ripetuta della comunione. La caratteristica ‘diabolica’ di questa pandemia è che ci isola e ci divide, che trasforma gli incontri in contagi, gli abbracci in epidemia”. E conclude: “Con fatiche moltiplicate, si stanno ricostruendo infrastrutture e muri della casa circondariale. Noi Chiesa impegniamoci a costruire, nonostante il virus diabolico che ci divide, quel tessuto di rapporti umani che superano i muri. Per riscoprirci Chiesa senza muri. E non sarà stato invano”. Roma. Due medici positivi a Rebibbia, tornano a casa quattro detenute La Repubblica, 31 marzo 2020 Battiture e paura nel carcere di Rebibbia. Nella sezione femminile due sanitari sono risultati positivi al coronavirus e, di conseguenza, sono stati fatti i tamponi a sette detenute che negli ultimi giorni erano entrate in contatto con i contagiati. Ma la paura che, dato il sovraffollamento, la situazione possa peggiorare è tanta. Sia la femminile, dove 4 mamme con altrettanti bambini sono uscite ma ne rimangono ancora nove coi loro piccoli; sia al maschile, anche perché le richieste di misure alternative inoltrate sono state 600 ma di queste finora solo 53 sono state accettate. Per questo, l’attenzione è massima e i parenti dei detenuti hanno scritto una lettera. A loro si rivolge il garante del Lazio, Stefano Anastasia che assicura che “non ci sono detenuti contagiati nel Lazio”, ma che, contestualmente, ha rinnovato l’appello “al parlamento e al governo perché adottino misure realmente incisive che possano essere applicate subito a gran parte dei detenuti che scontano pene brevi o sono alla fine della loro pena”. Padova. Due Palazzi, i carcerati faranno mascherine di Andrea Pistore Corriere del Veneto, 31 marzo 2020 Anche al carcere Due Palazzi i detenuti impegnati nelle attività di lavoro cominceranno a produrre mascherine per proteggersi dall’emergenza Covid-19. A coordinare l’iniziativa è Legacoop veneto, alla quale aderisce anche la cooperativa Giotto che da sempre svolge attività di recupero di detenuti all’interno del carcere. “Si tratta - spiega Adriano Rizzi, presidente di Legacoop veneto - di una vera e propria operazione di conversione della produzione nata in risposta all’appello unitario delle cooperative per quella che è diventata un’emergenza nell’emergenza nonché un fattore di criticità nel contrasto al propagarsi dell’epidemia”. La mascherina prodotta dalla rete coop è in tessuto di cotone sottoposta a trattamenti anti-goccia e antimicrobici riutilizzabile fino a 100 volte dopo lavaggio e disinfezione. Situazione di standby per le nuove Unità speciali di continuità assistenziale dell’Usl 6, che nei giorni scorsi ha arruolato 38 medici (tra cui l’ex ministro Cècile Kyenge) per controllare i pazienti positivi a domicilio: i camici bianchi hanno chiesto maggiori garanzie e un protocollo uniforme per le quattro sedi di Padova, Montegrotto, Este e Camposampiero, facendo slittare la firma del contratto. Ieri, infine, uno studio del Bo e del Vimm ha chiarito che il diabete non aumenta il rischio di contrarre il coronavirus, ma che l’infezione aumenta il rischio di complicanze: per i medici quindi le persone con diabete “devono essere prudenti come e più del resto della popolazione”. Roma. Progetto “A piede libero”, torna l’artigianato con i detenuti di Stefano Liburdi Il Tempo, 31 marzo 2020 Nascerà a San Lorenzo un centro di produzione di sandali creati da persone in esecuzione penale. Un passo verso la libertà con magari un paio di sandali ai piedi. Nasce così, durante la pandemia causata dal coronavirus, il progetto “A piede libero”. Nonostante le evidenti difficoltà del momento, tra pericoli, polemiche e rivolte nelle carceri “abbiamo deciso di renderlo comunque operativo, perché pensiamo ci sia bisogno di un “contro-contagio” di buone idee e soprattutto azioni. Proprio ora che tutti ne stiamo sperimentando la privazione, la libertà è un sogno da inseguire insieme”. L’idea nasce dall’associazione Semi di Libertà Onlus che da anni si occupa del reinserimento nella società di persone in esecuzione penale. A presentarla è il presidente dell’associazione Paolo Strano: “Stiamo allestendo a San Lorenzo un laboratorio per la produzione di sandali artigianali, fatti a mano con materie prime italiane di ottima qualità. Ogni pezzo prodotto sarà unico”. Il fine di questo lavoro è quello di fornire ai detenuti impiegati, una nuova visione della vita che li porti ad abbandonare definitivamente quella cultura criminale con la quale erano entrati in carcere. Per fare questo è necessario fornire loro un’alternativa alla recidiva, ossia quell’attitudine a commettere nuovi reati una volta riacquistata la libertà. Ecco necessaria dunque una formazione professionale capace di insegnare un lavoro spendibile anche nel futuro. L’attività scelta si va ad inserire in un settore di nicchia come quello dell’artigianato che, dopo una crisi all’apparenza irreversibile, sembra aver trovato un proprio collocamento ed ora è pronto per un rilancio grazie alla richiesta sempre più elevata di prodotti di qualità e non uniformi, come invece lo sono i beni industriali. I clienti potranno creare, insieme ai consigli e al lavoro degli artigiani, il sandalo che più corrisponde ai propri gusti. La misura sarà modellata sul piede del compratore che potrà scegliere il colore e l’altezza del tacco. “I Sandali Capresi sono conosciuti in tutto il mondo per via della loro bellezza e semplicità, sono realizzati artigianalmente, con cuoio toscano certificato e sono personalizzabili”. Descrive così i prodotti Paolo Strano che aggiunge: “Saranno realizzati in molte varianti riconducibili a due tipologie principali, classico (T-Kelly, Schiava Romana, Delizioso, Mezzoragno, etc.) e gioiello (fascia anello, cavigliera, “prezioso”, con decorazioni di bigiotteria, pietre o Swarovski). Ogni sandalo sarà accompagnato da un certificato con numerazione progressiva ad attestarne la provenienza delle materie prime”. Ci sarà una linea di prodotti “pronti”, solo da scegliere, ed una di sandali su misura, con misurazioni realizzabili presso i punti fisici di rivendita ma anche online, con la predisposizione di un PDF scaricabile di misurazione per le personalizzazioni. La prima fase del progetto, della durata di due mesi, prevede la formazione di due detenuti scelti attraverso una selezione fatta durante incontri preliminari, volti a individuare gli utenti con maggiori motivazioni e attitudini. Ad insegnare il mestiere sarà Giammarco Marzi, artigiano con oltre trent’anni di attività nel settore, particolarmente sensibile al tema dell’inclusione di persone socialmente svantaggiate. Il corso si terrà dal lunedì al giovedì, dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18, su due postazioni di lavoro seguite dallo stesso Marzi. Durante questa fase formativa verranno prodotti sei sandali al giorno, tre per detenuto, e saranno approfondite le varie tecniche produttive e le diverse tipologie di sandalo. Parallelo alla formazione professionale, ci sarà un percorso di riflessione personale atto ad acquisire il proprio progetto di sviluppo sia in ambito lavorativo che in quello di vita. Gli incontri individuali saranno tenuti dalla psicologa di “Semi di Liberta”, dott.ssa Di Girolamo. Ai detenuti in formazione verrà aperta una posizione assicurativa Inail e riconosciuto un sussidio economico di formazione di 250 euro al mese. Al termine del percorso formativo sarà sostenuta la nascita di una cooperativa di gestione dell’attività produttiva che coopti i lavoratori coinvolti, che altrimenti saranno assunti da Economia Carceraria S.r.l. per avviare la fase produttiva vera e propria. Il progetto ha già avuto un inizio in rete il 15 marzo con campagna di crowdfunding che si prefigge di raccogliere 11.000 euro in due mesi, ovvero le risorse necessarie ad avviare l’iniziativa e renderla una produzione stabile che generi valore e posti di lavoro. Le risorse finanziarie necessarie all’avviamento dell’iniziativa (forniture, packaging, formatore, sussidi, comunicazione ed oneri) saranno reperite attraverso l’operazione di raccolta fondi dal basso, con una prevendita dei sandali su una piattaforma on line (produzionidalbasso.com/project/sandali-artigianali-a-piede-libero/). Sono previsti diversi step di ricompensa, dal grembiule da lavoro o da cucina nero, con il logo “A Piede Libero”, realizzato dalla serigrafia del Carcere di Torino “Extraliberi”, passando per i vari modelli di sandali, fino ad una Work Experience: una giornata di lavoro nel laboratorio produttivo, per apprendere i segreti della lavorazione artigianale dei Sandali Capresi, conoscere le persone coinvolte nel progetto, e produrvi un paio di sandali a scelta tra quelli in catalogo. La giornata include una degustazione di prodotti enogastronomici dell’Economia Carceraria. “La produzione dei sandali partirà il 4 aprile 2020, anche in caso di prolungamento dell’ordinanza, - precisa Strano - saranno realizzati in funzione dell’ordine cronologico d’acquisto e saranno consegnati in massimo due settimane dall’ordine”. La sede scelta, in via dei Marsi, nella volontà dei promotori diventerà un Hub di progettualità sociale e di incubazione di progetti da sviluppare nel circuito dell’economia carceraria, nella speranza che i semi gettati, diventino un giorno germogli di libertà. L’Italia nella pandemia e le virtù di un Paese di fronte al dolore di Dacia Maraini Corriere della Sera, 31 marzo 2020 La scrittrice: “Nei momenti di pericolo, dicono, il nostro Paese dà il meglio di sé. Un amico mi scrive dal Messico: per la prima volta mi sento orgoglioso di essere italiano”. La pandemia è entrata nelle nostre giornate come un sasso che ti prende alla schiena e ti stordisce. Non sai chi l’ha tirato, non sai da dove viene ma pure ti prende in pieno e qualcuno, colpito alla nuca, ne muore. Le immagini scorrono crudeli sullo schermo: persone soprattutto anziane che ansimano, che tremano, che chiedono aria. È crudele la sorte di chi muore solo, senza la consolazione di un volto familiare vicino. Uno strazio che comunica un grande dolore. La notizia inaspettata è il crescente numero di medici che vengono contagiati e muoiono. Ma come, non erano protetti, chiusi nelle loro tute antivirus, nei loro scafandri? Evidentemente no. Molti danno la colpa alla mancanza di previdenza e quindi alla impreparazione delle difese, appunto maschere efficaci, tute a prova di virus, occhiali protettivi ecc. Come è possibile che chi sta a contatto coi malati non sia fornito di tutto ciò che è necessario alla sua incolumità? Hanno sbagliato coloro che non ci hanno pensato prima? Ma prima quando? Chi poteva immaginare che la sassaiola colpisse il nostro Paese con tanta violenza? C’è chi invece fa risalire la responsabilità a quei governi che incoscientemente hanno tagliato sulla salute pubblica: chiusi gli ospedali minori, scoraggiato l’ingresso dei nuovi medici, tagliati i fondi per la ricerca. A me sembra che questa sia la giusta spiegazione di tante carenze di oggi di fronte alla catastrofe (qui lo speciale sul coronavirus). Un’altra domanda che ci si fa è: perché il virus colpisce più gli uomini che le donne? Nessuno sa spiegarlo. Una questione di ormoni? una difesa legata alle abitudini quotidiane? lo stress? il fumo? ci sono molte cose che non si capiscono di questo misterioso e sornione microorganismo che è entrato in punta di piedi, comparendo come una cosa da nulla e ora spadroneggia prepotente in tutto il mondo. Non si può negare che sia dotato di una sua bellezza: una piccola sfera delicata, vibrante, che pulsa allargando e stringendo i suoi fiori carnosi, di un rosso pompeiano. La sua bellezza, assomiglia molto a quella del fungo letale Amanita Verna, bello anche quello, tutto rosso, tempestato da una corona di pistilli bianchi. Se ne mangi anche un pezzetto vai all’altro mondo. A volte la bellezza si lega al proibito e suscita paure profonde. Ma la paura ha bisogno per alleggerirsi di un capro espiatorio. E spesso il capro espiatorio viene trovato in una colpa collettiva, come succede nella Bibbia in cui un Dio irato per la empietà umana manda il diluvio universale. Riprendo in mano il libro di Susan Sontag, “Malattia come metafora”. “Non c’ è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significato personale, poiché tale significato è inevitabilmente moralistico”, scrive Susan. Nel suo libro ironizza ma anche condanna con molta fermezza l’uso che perfino la psicanalisi, con Freud in testa, fa della malattia in senso simbolico e narrativo, cadendo in una forma di terrorismo psicologico. Se la prende con la psicosomatica, in cui si afferma che le sofferenze dell’anima si trasformano in malattie punitive o autopunitive. Si tratta, per lei, di manipolazioni dell’immaginario a scopi repressivi. Certamente nessuno più pensa che un Dio punitivo mandi i castighi sulla terra, ma qualcosa del principio di causa ed effetto rimane. Abbiamo bruciato le foreste, sparso di cemento ogni angolo della terra, abbiamo avvelenato gli ambienti con l’uso spropositato di pesticidi, abbiamo riempito il mare di plastica, abbiamo fatto estinguere tanti meravigliosi animali, abbiamo messo in pericolo l’equilibrio dell’ecosistema. La Natura, che non è divina, ma ha tutta la potenza di una divinità cosmica, reagisce con irruenza ai maltrattamenti, anche se non si tratta di una volontà moralistica ma di un processo di autodifesa. Intanto la segregazione, a cui mi attengo per rispetto verso chi soffre e chi rischia la vita, mi costringe a una solitudine pensosa. Le giornate fatte di gesti ripetuti, scandite da passi uguali, diventano sempre più corte. Ormai la mia vita si svolge fra cucina e studio, studio e camera da letto, cucina e terrazzino, cucina e studio. Finché scrivo va tutto bene, ma quando smetto e devo cucinare per me stessa, mi viene la malinconia. E non potendo uscire per prendere un caffè al bar, tiro fuori la vecchia macchinetta arrugginita e la riempio di una polvere di caffè che sta nel frigorifero da mesi e ha perso tutto il suo sapore. Comincia a serpeggiare l’idea che l’epidemia non finirà così presto come si immaginava, poiché il numero degli ospedalizzati, degli intubati e dei morti continua a moltiplicarsi. E che ne sarà del nostro futuro? Qualcuno ritiene che questo grande male migliorerà gli italiani viziati da tanti anni di pace, di benessere e di noia. Nei momenti di pericolo, dicono, il nostro Paese dà il meglio di sé. Un amico mi scrive dal Messico: per la prima volta mi sento orgoglioso di essere italiano, dice. Molti giornali latino-americani hanno parole di simpatia e di ammirazione per il nostro Paese che si sta comportando con coraggio e lealtà. Possibile che siamo sempre noi ad auto-fustigarci, a criticarci, a inveire contro noi stessi? Le bandiere ai balconi mostrano questo orgoglio nazionale che timidamente si fa luce e per una volta non solo legato al mondo del calcio o delle destre estreme. Incendi e rivolte: migranti in lotta per le condizioni di vita del Cpr di Lorenzo Padovan La Stampa, 31 marzo 2020 Per i detenuti nei Centri di permanenza per il rimpatrio non c’è la possibilità di ottenere il braccialetto elettronico. Il destino dei 380 ospiti delle varie strutture di questo tipo, disseminate sul territorio nazionale, è quasi sempre l’espulsione. Soltanto che in questo frangente nessuno Stato accetterebbe mai il rientro di un connazionale proveniente dall’Italia. E comunque la pandemia ha bloccato, anche a livello amministrativo, l’esecuzione di tutti i provvedimenti, comprese le espulsioni e i rimpatri. Per questo dai Cpr arrivano, da giorni, notizie di inquietudini e proteste. Nella notte tra domenica e ieri la cinquantina di ospiti di quello di Gradisca d’Isonzo (in provincia di Gorizia), dove un paio di mesi fa, morì un cittadino georgiano, hanno appiccato 4 distinti incendi a materassi e suppellettili, per protestare contro le condizioni di detenzione in relazione al Coronavirus. “Sono stati momenti delicati - ammette il prefetto di Gorizia, Massimo Marchesiello. I roghi dolosi sono stati spenti grazie al tempestivo intervento dei vigili del fuoco. È stato necessario mobilitare anche le forze dell’ordine, che hanno riportato la calma, senza che ci fossero persone ferite gravemente nel corso dei tafferugli o intossicate dal fumo”. Le proteste erano iniziate la settimana scorsa, dopo il primo contagiato tra i detenuti: “Il soggetto in questione, che era giunto dalla Lombardia, non era mai entrato in contatto con gli altri ospiti - precisa Marchesiello. Resta ancora in isolamento, pur senza sintomi. Stessa procedura è stata adottata per il personale e per i poliziotti che lo avevano incontrato e scortato durante il trasferimento: saranno monitorati fino a giovedì, quando terminerà il periodo di osservazione e potranno tornare in servizio”. Per gli ospiti dei Cpr italiani una speranza viene da una recente sentenza favorevole del Tribunale di Roma, che non ha considerato legittimo il trattenimento di uno straniero che aveva richiesto protezione internazionale. Per i giudici, “la privazione della libertà personale, in spazi ristretti, renderebbe difficoltoso garantire le misure previste a garanzia della salute dei singoli”. È proprio “l’emergenza sanitaria in atto” - come sottolinea la pronuncia - che “impone di interpretare in termini restrittivi” le norme contro l’immigrazione clandestina e limitative della libertà personale, rendendo necessario “operare un bilanciamento tra tali norme e il diritto alla salute costituzionalmente garantito a ogni persona”. Gli Usa cercano di salvare i detenuti dal virus, creata a tempo record area di quarantena Il Riformista, 31 marzo 2020 In questo clima di emergenza dettato dall’epidemia del coronavirus uno dei temi più delicati resta quello delle carceri. Molti si oppongono al sovraffollamento e rivendicano la dignità dei detenuti soprattutto per evitare che un contagio non sfiori in una vera e propria tragedia, a partire dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e da Papa Francesco. In Italia ci sono state rivolte da varie carceri del Paese e i detenuti che hanno contratto il covid-19 sono arrivati a quota 15, sebbene nel carcere di Parma un’intera area è stata messa in quarantena. Questo tipo di problema sembra riguardare non soltanto la nostra penisola ma anche altre nazioni come ad esempio gli Stati Uniti. Come ha dichiarato Tom Dart, sceriffo della contea di Cook a Chicago, i casi positivi al coronavirus nella prigione della contea di Cook sono saliti vertiginosamente nel giro di pochi giorni salendo ad 89 con ancora molti da testare con il tampone. In una situazione come quella carceraria è molto difficile riuscire a mantenere la distanza non soltanto tra i detenuti, ma anche tra i carcerati e il personale penitenziario. Per questo la contea di Cook ha pensato bene di ridurre al minimo il numero di detenuti che sono a rischio controllando e rilasciando imputati accusati di crimini non violenti, le persone anziane e quelle più fragili. Il campo di quarantena costruito ad hoc per ovviare all’emergenza coronavirus è il primo caso di soluzione temporanea in tutti gli Stati Uniti. Una vecchia struttura di igiene mentale è stata riconvertita in un campo da quarantena in soli tre giorni per mantenere i detenuti infetti da Covid-19 e quelli sospettati di essere positivi in modo che siano separati dal resto della popolazione carceraria. Una troupe di medici professionisti si occupa di loro visitandoli prima di assegnarli a un edificio specifico. Questa decisione è stata presa come conseguenza dei numerosi casi che stanno aumentando giorno dopo giorno non soltanto a New York ma nell’intera area degli Stati Uniti. La contea di Cook è stata definita come una delle aree più a rischio sotto questo punto di vista, per questo anche il carcere è stato attrezzato in modo da ridurre al minimo la strage da coronavirus. In una sola settimana, lo stato dell’Illinois è passato da centinaia di casi confermati a oltre 3.000, inclusi oltre 34 decessi. “Nessuno vuole morire in prigione”. I prigionieri di diverse carceri negli Usa scioperano di Gaia Sartori Pallotta* contropiano.org, 31 marzo 2020 I lavoratori immigrati senza documenti detenuti presso il penitenziario della contea di Essex a Newark (New Jersey) sono in sciopero della fame da martedì 17 marzo. Protestano contro le pessime condizioni in cui vivono all’interno del carcere che non fanno altro che aumentare notevolmente la possibilità di contrarre il Coronavirus. Pertanto chiedono all’Immigration and Customs Enforcement (Ice) statunitense l’immediato rilascio in libertà. Il penitenziario di Essex può ospitare fino a 928 detenuti maschi e dal 2010 ha un accordo di servizio con l’ICE per detenere coloro che vengono dai Cie. E proprio da questi ultimi è partito lo sciopero martedì scorso coinvolgendo un’intera unità del carcere che vi ha partecipato subito nell’arco di 24 ore. “Chiediamo ai nostri fratelli in carcere di unirsi a noi” hanno detto i detenuti immigrati “Chiediamo anche ai detenuti addetti alla cucina che lavorano qui dentro di non andare al lavoro. Lo scopo di tutto questo è chiedere il rilascio dei detenuti in particolar modo di coloro che sono ingiustamente trattenuti qui, senza aver compiuto alcun reato ma si ritrovano qui a causa della detenzione amministrativa! Che sia un rilascio vero e proprio, tramite cauzione o braccialetto e coloro che hanno l’ordine di espulsione finale che vengano fatti salire sull’aereo il prima possibile in modo da ricongiungersi alle proprie famiglie”. “Non dovremmo rimanere rinchiusi durante una pandemia mortale come questa. Speriamo che vi unirete a noi perché siamo tanti e questa è una lotta non solo per la nostra libertà, ma anche per la salute e la sicurezza di tutti”. Le linee guida dell’ICE indicano che “i detenuti che rifiutano il cibo per un lungo periodo devono essere trattenuti e alimentati con la forza attraverso i tubi nasali” ma questo non ha intimorito chi ha proclamato lo sciopero non lasciandosi condizionare dall’ennesima tortura dell’alimentazione forzata, spesso usata per destabilizzare momenti di ribellione in carcere e sottomettere psicologicamente i detenuti (tecnica usata a Guantanamo nel 2013). A sciopero iniziato, grazie a famigliari e solidali che hanno fatto eco al di fuori delle mura carcerarie di quello che stava succedendo all’interno, i media hanno riportato la notizia e il giorno dopo l’inizio dello sciopero, mercoledì 18 marzo, è stato annunciato dall’ICE che avrebbe limitato gli arresti in giro per gli Stati Uniti ma non li avrebbe terminati. Venerdì 20 marzo sette detenuti immigrati irregolari nelle carceri della contea di Bergen, Hudson e dell’Essex (NJ) hanno intentato una causa - attraverso i legali solidali - nel distretto meridionale di New York contro alcuni importanti funzionari federali, tra cui Thomas Decker, direttore dell’ufficio sul campo dell’ICE di New York, e Chad Wolf, segretario ad interim del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale (DHS) in quanto essendo persone che soffrono di una serie di disturbi, tra cui patologie renali, polmonari ed epatiche e diabete sono fortemente a rischio per l’infezione da Covid-19 e chiedono quindi di essere rilasciati immediatamente. Un avvocato del team legale Bronx Defenders (organizzazione in sostegno agli immigrati a basso reddito che devono affrontare cause, processi, etc) ha dichiarato: “Il modo più semplice e umano in cui l’ICE può aiutare a prevenire l’imminente contagio disastroso del coronavirus tra i detenuti è quello di rilasciare tutti coloro che si trovano in carcere e farli stare vicini alle loro famiglie mentre aspettano le udienze di convalida o meno dell’espulsione dagli Usa. Quello che chiediamo è che i tribunali agiscano subito per costringere l’ICE a cominciare dal minimo indispensabile, ovvero mettere le persone più vulnerabili fuori pericolo prima che sia troppo tardi”. Le condizioni del penitenziario di Essex sono state atroci per anni come ad esempio: cibo scaduto, pane inutilizzato conservato in sacchi della spazzatura in modo da poter essere trasformato in budino di pane; celle con perdite di acqua e muffa estesa dalle docce ai corridoi. Non c’è alcuna opportunità di svago all’aperto e nemmeno un cuscino sul quale dormire. Uno dei molti detenuti è stato mandato in carcere per il possesso di un’arma e per resistenza: “Molti ragazzi hanno finito di pagare qualunque fosse il loro debito verso la società e noi siamo qui trattenuti contro la nostra volontà dal governo e dall’ICE... è una follia! Potrebbero lasciarci tornare a casa su cauzione e potremmo stare a fianco dei nostri famigliari in un periodo di pandemia come questo… Nessuno vuole morire in prigione”. Il carcere di Essex non è l’unico in cui i lavoratori immigrati sono detenuti nel New Jersey e a New York in condizioni pessime. I detenuti del penitenziario della contea di Hudson a Kearny (NJ) hanno riferito di essersi visti negare il sapone e il disinfettante per le mani. Un detenuto è stato trasferito bruscamente in una cella totalmente sporca e gli è stato ordinato di limitare il numero di volte in cui tira lo sciacquone. Un altro detenuto ha detto alla moglie che il personale non gli avrebbe permesso di farsi la doccia regolarmente. Inoltre, il carcere non offre ai detenuti la possibilità di richiedere assistenza medica. Il personale chiede ai detenuti se hanno lamentele, annota le loro risposte e poi le mette da parte senza seguire la vicenda. Un detenuto della prigione della contea di Bergen, a Hackensack (NJ), ha dichiarato che, sebbene il personale del carcere abbia accesso al lisol e alla candeggina, ai detenuti vengono negati mentre viene addirittura centellinata la sola acqua per pulirsi le celle. Le condizioni sono simili nella Orange County Jail a Goshen (NY), dove vi sono solo gli immigrati senza documenti. I funzionari del carcere considerano l’igienizzante per le mani come un articolo da contrabbando perché contiene alcol e vietano ai detenuti di averlo. Un detenuto e sua moglie hanno riferito che i nuovi detenuti vengono portati in cella e viene negato loro di lavarsi per una settimana. Queste condizioni mostrano un modello di negligenza e di abuso che è durato per anni. Le carceri stanno esponendo i detenuti immigrati, il personale e la comunità in generale al rischio di infezione e di morte durante la peggiore crisi di malattie infettive dai tempi della pandemia di AIDS iniziata negli anni 80. Si tratta delle stesse politiche inflitte agli immigrati e ai richiedenti asilo che sono stati trattenuti in campi di concentramento sovraffollati e sporchi al confine tra Stati Uniti e Messico. Lo Stato capitalista non è disposto a spendere gli sforzi più elementari per proteggere la salute dei suoi prigionieri. Nel contesto della pandemia di coronavirus, questa riluttanza rischia di trasformare un’emergenza sanitaria pubblica in una catastrofe. La notizia dello sciopero ha coinvolto anche i detenuti di Rikers Island (NY) che dal 22 marzo sono in sciopero. Nella loro dichiarazione si legge: “In due dormitori del carcere, più di 45 detenuti si rifiutano di lasciare i dormitori per lavoro o per i pasti. Scioperiamo contro la mancanza di dispositivi di protezione individuale (DPI) e di prodotti per la pulizia che non ci vengono forniti; contro le condizioni di vita affollate che ci sono state imposte prima della pandemia e che sono state aggravate dall’aggiunta quotidiana di nuovi detenuti provenienti da altre strutture, alcuni dei quali sono stati molto probabilmente esposti al COVID-19. Dalla mattina dell’inizio dello sciopero, inoltre, hanno tolto la connessione ai nostri telefoni togliendoci la possibilità di comunicare con l’esterno. Vogliamo quindi la riconnessione, subito! E vogliamo che tutti i detenuti, soprattutto quelli ad alto rischio per le condizioni di salute e per coloro che hanno meno di un anno di condanna, siano immediatamente rilasciati”. “Scioperiamo in solidarietà con i prigionieri in sciopero della contea di Hudson” - Il primo caso confermato di Covid-19 per un detenuto di Rikers Island è stato annunciato il 18 marzo, poche ore dopo la conferma che una guardia di un posto di controllo di sicurezza era risultata positiva. Da allora, il numero di persone detenute a Rikers risultate positive al virus sono state almeno 38. Date le condizioni insalubri, il sovraffollamento e la mancanza di accesso alle cure mediche a Rikers (le infermerie non hanno ventilatori polmonari), è necessario e doveroso dare priorità alla scarcerazione prima che questa popolazione vulnerabile e prigioniera venga decimata. Un giornalista di “The Intercept” denuncia: “Sono rinchiusi in luride celle con decine di altre persone per giorni interi, confinati in dormitori con decine di altre persone, dipendenti dal personale per l’uso del sapone e dipendenti dai secondini per il permesso di andare in una clinica medica. I circa 5.400 uomini e donne detenuti nelle carceri cittadine di Rikers Island non hanno nulla per proteggersi dal virus, anche se sono costantemente esposti ai contagi del mondo esterno attraverso il continuo alternarsi di tre turni giornalieri di agenti penitenziari e personale amministrativo”. Il carcere di Rikers Island, uno dei più famosi e peggiori di New York City ha una lunga storia di iper-sfruttamento del lavoro dei detenuti che rientrano appieno nel sistema produttivo dell’intera città e lo sciopero contribuirà sicuramente a frenare l’ingranaggio capitalista. Le risposte a questa pandemia globale mostrano che il momento attuale non è avulso da secoli di storia violenta all’interno e all’esterno delle mura del carcere. Ma il governatore Andrew Cuomo ha annunciato che lo Stato di New York intende utilizzare il lavoro dei detenuti per produrre 100.000 galloni di disinfettante per le mani alla settimana (circa 378.000 litri). I detenuti riceveranno 1,15$ all’ora o meno per il loro lavoro e nessun disinfettante per le mani in quanto considerato di contrabbando in prigione! Inoltre New York City ha un piano di emergenza per la gestione delle morti dentro e fuori dagli ospedali che descrive minuziosamente l’uso del lavoro dei detenuti di Rikers per seppellire i corpi nelle fosse comuni di Hart Island se i depositi di cadaveri e le strutture di cremazione della città sono sovraccarichi. Basti ricordare che negli anni 80 e 90 i detenuti scavavano fosse ad Hart Island, dove venivano seppelliti i corpi inviati da varie parti del Paese di coloro che morivano di Aids. Nel carcere di Rikers le condizioni stanno rapidamente peggiorando e sia il sindaco De Blasio che il governatore Cuomo non hanno nessuna intenzione di intervenire. Il fatto che non stiano dando priorità al rilascio delle persone dalla detenzione sta preparando il terreno per un genocidio. Inoltre in questi giorni è nata anche una campagna che chiede la chiusura di Rikers Island e la liberazione immediata di tutti i prigionieri. Che si tratti di milioni di persone criminalizzate e incarcerate negli Stati Uniti o delle centinaia di migliaia di migranti detenuti all’interno dei violenti confini degli Usa, dobbiamo liberare tutti. Questo momento, e ogni momento, ci dice di usare le nostre risorse per dare risposte concrete, non gabbie. *Attivista e sociologa Il coronavirus attacca 47 Paesi africani: scoppiano rivolte nelle carceri di Cornelia Toelgyes africa-express.info, 31 marzo 2020 La pandemia coronavirus ha raggiunto 47 Paesi africani. Lo ha twittato sabato il capo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus. E domenica mattina il Centro per la Prevenzione e il Controllo dell’Unione Africana ha reso noto che i contagiati in Africa sono saliti a 4.282, mentre i morti a 49. Quasi tutti i Paesi del continente hanno preso misure importanti, talvolta draconiane, per contrastare l’espandersi della pandemia. Malgrado le severe restrizioni messe in campo anche in Sudan, ieri si sono verificati gravi incidenti nel carcere di al-Houda, Khartum. I prigionieri hanno manifestato per la grave mancanza di servizi essenziali: poco cibo, spesso manca la corrente elettrica, ma hanno lamentato soprattutto le torture alle quali sono soggetti. Botte sono all’ordine del giorno. A taluni sono state rotte persino le costole, mentre altri hanno gravi ferite alla testa. La polizia carceraria ha immediatamente tentato di sedare la rivolta con colpi di arma da fuoco. Molti detenuti che si erano ammutinati nei cortili sono stati riportati all’interno, subendo nuove vessazioni. La scorsa settimana il governo di Khartoum ha rilasciato 4.217 prigionieri e, secondo quanto riportato dalle autorità, prima di essere liberati sarebbero stati sottoposti al test del coronavirus. Il sistema sanitario nel Paese è fragile, negli ultimi anni, sotto la dittatura dell’ex presidente Omar al-Bashir, poco o niente è stato investito in tale campo. In tutto il Paese i prezzi sono saliti alle stelle dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza, proclamato dal governo all’indomani del primo caso di Coronavirus e la popolazione è in grave difficoltà. A tutt’oggi i contagiati sono “solamente” sei, tra cui due morti, ma la tensione nel Paese è alle stelle, specialmente dopo il fallito attentato del 9 marzo contro il primo ministro Abdalla Hamdok mentre si recava nel suo ufficio a Khartoum e la morte per infarto, il 25 marzo a Juba, la capitale del Sud Sudan, dove sono in atto i colloqui di pace, del ministro della Difesa. Gwi-Yeop Son, coordinatore per l’ONU in Sudan ha richiamato tutte le parti alla calma e ha chiesto un cessate il fuoco, sottolineando la vulnerabilità del sistema sanitario, specie nelle zone di conflitto, come Jebel Marra in Darfur. In Mali la popolazione è stata chiamata alle urne domenica per eleggere il nuovo Parlamento - il secondo turno è previsto per il 19 aprile - e questo in un contesto tutt’altro che facile. Mercoledì scorso la temibile patologia è arrivata anche nella ex colonia francese, dove finora sono stati registrati 18 casi e una vittima. A Bamako sono stati distribuiti sapone, disinfettante e maschere. Soumaïla Cissé, capo dell’opposizione maliana, rapito vicino a Tumbuktu Nel Paese vige tutt’ora un clima di grave insicurezza. Il 26 marzo è stato sequestrato Soumaïla Cissé, il maggiore esponente dell’opposizione, insieme a 6 membri della sua squadra durante la campagna elettorale a Niafounké, la sua roccaforte, nell’area di Timbuktu, nel nord del Paese. Secondo un politico del luogo, i rapitori molto probabilmente appartengono alla formazione terrorista Front de libération du Macina (Flm), fondato nel 2015 da Amadou Koufa (nome di battaglia Amadou Diallo), un predicatore estremista fulani. Nel 2017 l’FLM, insieme a altri quattro formazioni terroriste, ha fondato il “Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani”, guidato da Iyad Ag-Ghali, vecchia figura indipendentista tuareg, diventato capo jihadista e fondatore di Ansar Dine - in italiano: ausiliari della religione (islamica) - operativo per lo più nel nord del Mali. Anche la Nigeria il presidente Muhammadu Buhari ha ordinato la chiusura totale della capitale federale Abuja e di Lagos, metropoli e capitale commerciale che conta oltre 20 milioni di abitanti. Secondo quanto riportato da Nigeria Centre for Disease Control, nella ex colonia britannica sono stati confermati 111 casi di contagio e una persona deceduta. I malati si trovano per lo più a Lagos e Abuja. Buhari ha inoltre promesso di stanziare 26 milioni di dollari destinati a arginare l’espandersi di Covid-19. Il presidente ha inoltre specificato che le imbarcazioni in navigazione da oltre 14 giorni potranno attraccare nei porti nigeriani. Le navi di petrolio e gas sono tuttavia esenti da tali misure. I due aeroporti internazionali sono già chiusi da una settimana. Il Paese con il maggior numero di pazienti affetti da coronavirus è il Sudafrica: 1280 sono risultati positivi al test e due persone sono morte. Il presidente ha decretato l’isolamento venerdì a livello nazionale per 3 settimane e così 57 milioni di sudafricani dovranno restare confinati nelle loro abitazioni. I militari controllano le strade per far rispettare le severe norme. È vietata la vendita di alcolici, non sono permessi passeggiate con i cani e jogging. Il giorno prima che entrasse in vigore l’isolamento, si sono formate lunghe code alle stazioni dei bus perché molti sudafricani hanno cercato di raggiungere i villaggi di origine, non curanti del fatto che potrebbero trasmettere l’infezione virale agli anziani genitori. Nosiviwe Mapisa-Nqakula, ministro della Difesa è stato molto chiaro: chi sarà trovato in strada senza giusta causa, sarà punito con una pena amministrativa o 6 mesi di carcere. Ma nessuno ha pensato ai senzatetto, violentemente picchiati dai militari fin dal primo giorno del blocco. Anche il Kenya ha messo in campo misure draconiane pur di evitare l’espandersi del coronavirus. Tutti voli internazionali sono stati sospesi e da venerdì è stato proclamato anche il coprifuoco dalle 19.00 alle 05.00 e come nella maggior parte dei Paesi africani, sono vietati assembramenti, cerimonie religiose e quant’altro. Come spesso succede in momenti di tensione, scontri con le forze dell’ordine non sono rari e così la polizia ha usato gas lacrimogeno per disperdere un gran numero di pendolari in attesa dei mezzi di trasporto pubblici; altrove gli agenti hanno picchiato giovani con bastoni. Emmerson Mnangagwa, presidente dello Zimbabwe, già fortemente provato da una grave crisi economica, ha imposto il blocco totale del Paese per 3 settimane a partire da oggi per arginare la diffusione del virus. Esenti dalle restrizioni gli impiegati statali e operatori sanitari. Mentre funerali con meno di 50 persone sono autorizzate. Secondo quanto precisato dal governatore della Banca centrale, John Mangudya, è stato reintrodotto l’utilizzo di valuta estera per le transazioni interne, vietata dallo scorso giugno. Molti abitanti sono disperati, non hanno soldi per procurarsi il cibo, come il mais, alimento principale nella dieta degli zimbabwiani. Il tasso di disoccupazione nel Paese ha raggiunto livelli altissimi, altrettanto l’inflazione che a febbraio ha toccato il 500 per cento. Tra i 33 contagiati riscontrati in Uganda, c’è anche un bambino di solo 8 mesi. Il governo ha sospeso tutti voli internazionali già dal 23 marzo, ad eccezione dei cargo. Nessun straniero o ugandese potrà varcare le frontiere marittime e terrestri, salvo camion per il trasporto di merci. Robert Kyagulanyi Ssentamu, in arte Bobi Wine, parlamentare dell’opposizione in Uganda e pop star, ha inciso una nuova canzone per la lotta contro il Covid-19. Nel testo Bobi Wine ha focalizzato anche l’importanza dell’igiene personale per combattere la pandemia. La Libia segue l’Iran e apre le prigioni: liberi 500 detenuti di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 31 marzo 2020 La decisione per evitare la diffusione del virus. L’epidemia di coronavirus è arrivata in Libia, il paese nordafricano aveva già registrato il primo caso martedì scorso, si trattava di un uomo di 73 anni tornato da un soggiorno in Arabia Saudita. Dopo nemmeno una settimana i casi sono diventati 8 (di cui 5 a Misurata) e i numeri sembrano destinati a crescere. Inizia dunque un’altra guerra dentro il conflitto che dallo scorso anno infuria con forza nel paese, da quando le forze di Khalifa Haftar hanno lanciato una violenta offensiva su larga scala per conquistare Tripoli provocando la morte di centinaia di persone e almeno 150mila sfollati. La Croce Rossa Internazionale ha avvertito che le violenze in atto rischiano di vanificare gli sforzi per combattere l’infezione in aree con infrastrutture già deboli o in rovina. Sia il governo di Accordo nazionale, riconosciuto dalle Nazioni Unite (Gna), sia l’entità rivale con base a est sotto il controllo di Haftar, hanno adottato misure preventive contro la diffusione del virus: la chiusura di scuole, alcune aziende, mercati e persino cliniche private. Tra queste spicca la decisione, da parte delle autorità Tripoline, di liberare quasi 500 persone prigioniere dalle carceri della capitale. L’annuncio è stato dato dal Ministero della Giustizia ieri, sono stati gli stessi funzionari a rendere noto che saranno rilasciati “466 detenuti dalle strutture di correzione”. Si tratta per la maggior parte di uomini che stanno scontando reati minori, anziani malati o in detenzione preventiva. Tra loro potrebbero esservi stranieri ma è escluso che il provvedimento possa riguardare prigionieri politici. La Libia dunque segue un’analoga decisione presa in Iran dove i numeri degli scarcerati sono decisamente superiori, il timore è che il coronavirus possa diffondersi nelle strutture carcerarie facendo esplodere il contagio e soprattutto rivolte come successo in altri paesi del mondo. Il Ministero della Giustizia del governo di al Serraji ha aggiunto che seguiranno misure “volte a ridurre la sovrappopolazione delle carceri” come l’amnistiaper coloro che hanno scontato più della metà della pena. L’organizzazione umanitaria Human Rights Watch ha elogiato la decisione giudicandola “un primo passo positivo” anche se “le autorità dovrebbero fare di più per mitigare i rischi di un grave focolaio di Covid-19”. Un’opera difficile da mettere in campo visto lo stato di caos che attraversa la Libia, non a caso le Nazioni Unite hanno sollecitato per un cessate il fuoco per alleggerire il sistema sanitario già sovraccarico dove i medici, a causa della guerra, non percepiscono lo stipendio da mesi. Venerdì scorso le forze di Haftar hanno lanciato un’ennesima serie di attacchi verso Misurata controllata dalle milizie dello Gna. In particolare i combattimenti si sono svolti a Abugrein sancendo l’estensione della guerra a tutta la Libia. Siria. Miliziani dell’Isis evadono dalla prigione curda di Farid Adly e Marta Serafini Corriere della Sera, 31 marzo 2020 Una rivolta e un’evasione di prigionieri dell’Isis. È accaduto ieri nel Nord Est siriano, ad Hasakah, nel carcere di Ghwairan controllata dalle Forze democratiche siriane (Fds), in cui sono detenuti dai 3 mila ai 5 mila prigionieri, di varie nazionalità, molti dei quali militanti dello Stato Islamico. A darne notizia sono le stesse Fds che affermano anche di aver ripreso oggi il controllo della prigione e di aver arrestato quattro dei detenuti fuggiti. Alle operazioni per il recupero dei prigionieri - come confermato dal portavoce militare della coalizione anti Isis, il colonnello Myles Caggins - hanno partecipato anche le forze statunitensi. “I terroristi dell’Isis detenuti” hanno abbattuto con successo le porte delle loro celle e “preso il controllo del piano terra della prigione”, si legge nella nota. L’intervento delle forze antiterrorismo delle Fds, prosegue il comunicato, “ha posto fine all’ammutinamento mettendo in sicurezza il centro di detenzione”. Nessun detenuto risulta evaso, hanno precisato le Fds. L’Osservatorio siriano per i diritti umani ha confermato il ritorno alla calma nella prigione aggiungendo che i quattro detenuti fuggiti domenica sera sono stati ripresi. La tv siriana parla però di 12 evasi, non è chiaro dunque se qualcuno sia rimasto in libertà o meno. Intanto le immagini delle televisioni locali mostrano una breccia nel muro della prigione e gruppi di detenuti con striscioni e in piedi nelle loro celle. Ivan Hassib, un giornalista locale, ha pubblicato un video dall’esterno del carcere che mostra dozzine di soldati delle Sdf di stanza fuori dal perimetro e sul tetto della grande struttura. “Ci sono oltre 4.000 membri combattenti di Daesh (Isis, ndr) in questo carcere a sud di Hasakah,, dove si svolge una rivolta da ieri. Secondo quanto ci ha riferito il responsabile della sicurezza del carcere, la rivolta è ancora in corso e le forze di sicurezza si stanno preparando un’incursione all’interno del carcere per riprenderne il controllo. I detenuti dell’Isis sono riusciti a prendere possesso di alcune parti del carcere e hanno divelto porte che separavano le stanze dormitori dove sono ammassati i combattenti. Alcuni dei detenuti sono riusciti a fuggire,ma non si sa quanto siano”, ha spiegato il reporter. “La situazione è ancora tesa all’interno della prigione”, ha scritto su Twitter il portavoce della Sdf Mustafa Bali, aggiungendo che gli aerei della coalizione guidata dagli Stati Uniti contro Isis hanno assistito nelle ricerche durante la notte e fino a lunedì mattina. Una tv curda ha riferito come “Sono entrate forze speciali per riportare ordine nel carcere e subito dopo sono state sentite raffiche di mitra e sparatorie singole dei cecchini; sono state fatte affluire ambulanze per evacuare i feriti. Non si sa se ci sono anche morti tra i detenuti”. L’Isis ha perso il controllo di tutti i suoi territori in Siria un anno fa, dopo una campagna terrestre e aerea durata cinque anni condotta dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti. Da allora le Sdf hanno in custodia 12 mila miliziani detenuti in prigioni sovraffollate nel nord-est della Siria, di questi 4.000 sono stranieri. Sempre i curdi hanno in custodia anche 100 mila donne e bambini, parenti dei miliziani, detenuti campi di detenzione. Dopo che lo scorso ottobre la Turchia ha attaccato la regione del nord est siriano, 249 donne e 700 bambini con legami con Isis sono scappati dal campo di Ain Issa dopo un raid turco. Le autorità curde hanno ripetutamente invitato la comunità internazionale a rimpatriare i loro cittadini affiliati al gruppo terroristico, avvertendo di non avere le risorse per ospitare i sospetti dell’Isis a tempo indeterminato. Anni di silenzio da parte dei governi occidentali, tuttavia, hanno portato i curdi a suggerire che cittadini stranieri possano essere processati nei tribunali dell’amministrazione curda. Human Rights Watch e altri gruppi affermano che molti detenuti nelle carceri maschili sono minori o sono stati arrestati con accuse deboli o giustiziati dopo processi sommari. Portogallo. Per l’emergenza regolarizzati gli immigrati: ora possono usufruire del welfare di Goffredo Adinolfi Il Manifesto, 31 marzo 2020 “Togliere la protezione sociale ad alcuni ha effetti nefasti per l’intera collettività”. Che i virus non conoscano confini oramai lo si era capito. Tantomeno sono in grado di distinguere tra cittadini e non cittadini. Così, in un momento di crescente diffusione in Portogallo del Covid-19 si è posto il problema di quegli immigrati che, pur avendo fatto richiesta di regolarizzazione al Serviço de Estrangeiros e Fronteiras (Sef), ancora non avevano ottenuto risposta. Prima di andare avanti un piccolo passo indietro. Per fare fronte alla pandemia l’Assembleia da República approva il 18 marzo scorso lo stato d’emergenza. Un tempo limitato di 15 giorni e ampissimi poteri per il governo guidato dal socialista António Costa. Seguendo il modello adottato in altri paesi anche il Portogallo decide di chiudere tutto il chiudibile e promuovere, dove possibile, il telelavoro. Il grande tema non è del tutto dissimile da quello italiano: cosa fare di fronte a uno scenario apocalittico? Servono soldi se non si vuole lasciare indietro nessuno. Ad ora gli internati negli ospedali sono 500, 120 i morti e circa 6 mila i contagiati confermati (+14% in un solo giorno). Le notizie dal mondo del lavoro sono drammatiche: solo l’aeroporto di Lisbona ha deciso di licenziare 500 lavoratori. Il clima è teso come non mai. Dopo la riunione dell’Eurogruppo della scorsa settimana Costa perde la pazienza e attacca il ministro delle finanze olandese Wopke Hoekstra. Definisce ripugnante e contraria allo spirito europeo l’idea di voler aprire un’indagine contro Spagna e Italia per cercare di capire davvero quali siano gli effetti sui bilanci della pandemia. Parole forti ma non scelte a caso e che vengono confermate in un’intervista il giorno seguente. Tra le fasce più deboli ci sono senza dubbio coloro che non hanno la cittadinanza europea che sono senza visto o il cui visto è in scadenza. Come fare? Il 20 marzo, un paio di giorni dopo l’approvazione dello stato di emergenza, varie associazioni di immigrati sollevano il problema. In una lettera indirizzata alla segretaria di Stato per l’immigrazione Cláudia Pereira Olho Vivo, Casa do Brasil e altre organizzazioni manifestano preoccupazione per le condizioni di coloro che, pur lavorando in Portogallo, non hanno diritto alla protezione sociale perché ancora non hanno ancora ottenuto un permesso ufficiale. Un problema, quello della regolarizzazione, certamente non nuovo. Il Sef, vista la crescita dell’immigrazione e i tagli al personale negli ultimi anni, è perennemente ingolfato. Si aspetta fino a un anno solo per avere un appuntamento. Ora, con gli sportelli semi-chiusi a causa delle misure adottate per limitare la diffusione del contagio, la questione minaccia di diventare ancora più drammatica. Così l’esecutivo decide di procedere per decreto e azzerare tutto: regolarizzazione temporanea almeno fino a fine giugno per tutti quelli che possono dimostrare di avere già fatto richiesta al Sef. Questo permetterà agli immigrati di potere usufruire dello stato sociale allo stesso modo dei cittadini portoghesi. Il ministro degli Interni Eduardo Cabrita spiega in questo modo la natura del decreto: “in uno stato di emergenza la priorità è la difesa della salute e la sicurezza collettiva. È in questi momenti che diventa più importante garantire i diritti dei più fragili come è il caso degli immigrati”. Chega - il partito di estrema destra di André Ventura che aveva ottenuto l’1% alle scorse elezioni legislative, un deputato al parlamento e che ora veleggia nei sondaggi all’8% - prova a buttare benzina sul fuoco. In un post sulla sua pagina Facebook si legge: “mentre si lasciano morire gli anziani la preoccupazione dei governanti è quella di approvare una legge per integrare gli immigrati”. Inaspettatamente molti dei follower - autodefinitisi simpatizzanti e classificati da Fb come i “fan più attivi” - discordano con la linea Ventura. Alcuni per ragioni di solidarietà, altri per il semplice fatto che gli immigrati in fondo in fondo pagano le tasse come tutti gli altri e quindi perché privarli dei loro diritti?, altri semplicemente per ragioni di umanità. Non tutti certo, ma molti. Sullo sfondo un tema che non è secondario: il virus colpisce tutti indistintamente e quindi diventa un problema di tutti. Come ha sottolineato anche il ministro Cabrita: togliere la protezione sociale ad alcuni ha effetti nefasti per l’intera collettività. Ungheria. Con la scusa del virus Orbán si prende i pieni poteri di Carlo Lania Il Manifesto, 31 marzo 2020 Il premier ungherese potrà chiudere il parlamento, cambiare le leggi e sospendere le elezioni. “Orbán ha gettato la maschera e oggi comincia la sua dittatura” lancia l’allarme Bertalan Toth, il leader dei socialisti ungheresi. E perfino uno come Peter Jakab, alla guida del partito di estrema destra Jobbik, non si perde in inutili giri di parole e definisce quanto accaduto ieri nel parlamento di Budapest “un colpo di stato”. Più che una crisi sanitaria, come nel resto d’Europa, quella in corso da giorni in Ungheria è una crisi di democrazia che ieri è arrivata al culmine. Approfittando dell’emergenza dettata dalla pandemia di coronavirus Viktor Orbán ha fatto approvare dal parlamento (153 voti a favore su 190, solo 53 quelli contrari) una legge speciale che gli consegna pieni poteri per un periodo di tempo illimitato. Con la scusa di contenere il dilagare del virus da oggi il premier magiaro può quindi governare il Paese a colpi di decreti, decidere un’eventuale chiusura dello stesso parlamento, sospendere o cancellare le elezioni, cambiare o abrogare leggi già esistenti. Le nuove norme permettono inoltre di punire con pene che possono arrivare fino a otto anni di carcere chi - risultato positivo al virus - non rispetta la quarantena, mentre anche la poca stampa rimasta ancora libera rischia pene severe - da uno a cinque anni di reclusione - se verrà ritenuta responsabile di aver diffuso “false notizie”. utto il Paese in mano a un uomo solo e al suo partito Fidesz, che grazie ai numeri con cui controlla il parlamento, e ad alcuni voti dell’estrema destra, ieri ha votato il nuovo pacchetto di misure che cesseranno di essere in vigore solo se e quando verrà deciso dallo stesso Orbán. Inutile ogni tentativo delle opposizioni di porre un limite di 90 giorni al potere assoluto del premier. “L’opposizione sta dalla parte del virus”, ha sentenziato con la solita retorica sovranista il premier. Da quando l’emergenza coronavirus si è diffusa in Europa in Ungheria sono stati registrati 447 casi di contagio con 15 vittime, ma i dati reali potrebbero essere molti più alti. Inoltre i test effettuati, 13.300 secondo la cifra fornita dallo stesso governo, sarebbero insufficienti e negli ospedali mancherebbero tute, guanti e mascherine mentre i respiratori sarebbero in tutto 2.560. I primi casi di positività al virus risalgono al 4 marzo scorso e hanno riguardato due studenti iraniani, saliti a otto pochi giorni dopo. Studenti, non migranti, ma questo non ha impedito al premier magiaro di tornare ad attaccare quanti cercano disperatamente di raggiungere il nord Europa. L’11 marzo è stato dichiarato lo stato di emergenza con il successivo lockdown che dovrebbe concludersi l’11 aprile. Le misure restrittive decise da Budapest sono però più leggere rispetto a quelle adottate da altri governi europei. Gli ungheresi possono uscire di casa per andare al lavoro, dal medico e per svolgere commissioni importanti, ma secondo i media locali sarebbe anche permesso loro di partecipare a matrimoni e funerali, svolgere attività sportive e accompagnare i bambini all’asilo. Sono state previste anche delle fasce di età per recarsi in determinati negozi: alimentari e farmacie sono aperti dalle 9 a mezzogiorno solo per gli ultra sessantacinquenni, riservando il resto della giornata alle persone più giovani. Nei giorni scorsi, una volta che le intenzioni di Orbán sono state chiare per tutti, le istituzioni europee non hanno nascosto la preoccupazione per le ulteriori restrizioni allo stato di diritto verso le quali stava andando l’Ungheria. “Ho risposto ai frignoni europei di non avere il tempo di discutere questioni giuridiche senz’altro appassionanti ma teoriche” quando ci sono “vite da salvare”, ha risposto ieri a tutti Orbán.